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CAPITOLO I – INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL DIRITTO


PROCESSUALE PENALE

Il processo penale si basa su un insieme di norme con cui lo Stato definisce il proprio potere di imperio
dettandosi delle proprie regole che poi sarà tenuto a rispettare al momento di perseguire i cittadini
sospettati di aver commesso uno o più reati. Tali norme sono prescrizioni tecniche di condotte, ovvero
imposizioni di canoni di comportamento che sono da porre in essere in un certo modo, entro un termine
stabilito e nel rispetto della sfera di azione degli altri soggetti. Inoltre, le norme di procedura sono
accorgimenti tecnici utili a predeterminare non solo il comportamento dei soggetti privati portatori di
interessi in conflitto, ma anche il comportamento di tutti i soggetti pubblici operanti nel processo penale
(come i giudici).
Per questo motivo le norme del codice di procedura penale vengono spetto definitive norme di
organizzazione e funzionamento.
Fondamentale è il nucleo della disciplina introdotta con la legge Costituzionale n. 2 del 1999 che è il giusto
processo. In questo modo, il processo penale viene visto come una serie di attività compiute dall’autorità
giudiziaria attraverso una sentenza fondata su un giudizio il quale, a sua volta, è costruito su una indagine
empirica quanto ai fatti previsti come reato sulla base degli elementi di prova acquisiti e dalla valutazione
che il giudice competente (che deve essere precostituito, naturale, terzo ed imparziale) ne compie a
riguardo dei criteri stabiliti dalla legge, facendo sì che il principio di legalità penale si saldi con il moderno
principio di legalità del giusto processo (che succintamente può essere così ripreso: giurisdizione,
presunzione di non colpevolezza, formale ritualità degli atti, effettività del contraddittorio e tutela
sostanziale del diritti di difesa).
Prendendo in considerazione il quadro codicistico disciplinato dal codice Vassalli e il quadro
costituzionale, la successiva domanda che ci si pone deve essere: quali sono i profili costituzionali che
operano nel processo penale?
Premessa va fatta con un occhio di riguardo all’art 2 della legge delega 81/1987, che è alla base dell’attuale
codice di procedura penale, la quale dispone: «Il codice di procedura penale deve attuare i principi della
Costituzione e adeguarsi alle norme delle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della
persona e al processo penale».
In sintesi qui di seguito sono enunciati i principi fondamentali che influiscono sul funzionamento del
codice di procedura penale.
- L’art. 2 della Costituzione: in tema di diritti inviolabili dell’uomo, il quale trova una diretta ricaduta
processuale nel garantire all’imputato metodi o tecniche idonee a influire sulla libertà di
autodeterminazione o nel non alterare la capacità di ricordare o valutare i fatti; ovvero nel potere-
dovere del presidente del collegio dibattimentale di curare che l’esame del dichiarante sia condotto
senza ledere il rispetto della persona.
- L’art. 3 della Costituzione: proclama l’uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini dinanzi alla
legge. Si pone come perno del sistema: infatti costituisce un formante delle scelte legislative e il primo
canone interpretativo nelle mani dell’interprete (rilevando la ragionevolezza del principio di
uguaglianza). L’esempio che può essere fatto è quello che nelle nostre aule di giustizia deve essere
utilizzata la lingua italiana e dunque per non discriminare parti private di differente idioma, è
permessa l’assistenza di un interprete (in questo modo è garantito sostanzialmente). Il discorso in
merito al principio di uguaglianza sarà ripreso successivamente con un rimando al giusto processo e
l’incidenza che esso ha sul processo penale.

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- L’art. 13 della Costituzione: garantisce la libertà personale. Al comma 1, la libertà personale è inviolabile.
Esprime così una previsione di carattere assoluta che viene a bilanciarsi nei commi successivi,
stabilendo due riserve (di legge e di giurisdizione) che permettono l’adozione di misure che ledono
tale diritto solo se adeguatamente motivato per atto dall’autorità giudiziaria e nei casi previsti dalla legge.
Inoltre è prevista una deroga anche in casi di urgenza e di necessità: possono essere infatti adottati
provvedimenti provvisori che devono poi essere convalidati entro le 48 ore successive dall’autorità
giudiziaria. In ogni modo è vietata la violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizione di
libertà. Inoltre essa esclude, in ambito penale, la tortura e ogni altra forma di pressione utilizzata con
lo scopo di ottenere una confessione.
- L’art 14 della Costituzione: proclama l’inviolabilità del domicilio. Esso tutela i cittadini dinanzi ad atti
invasivi dell’autorità giudiziaria o della pubblica sicurezza (ad es. ispezioni, perquisizioni ecc.).
L’articolo in questione risulta fondamentale nella trattazione dei mezzi di ricerca della prova.
- L’art 15 della Costituzione: garantisce la libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di
comunicazione (uno dei temi più dibattuti negli ultimi anni è quello relativo alle intercettazioni, spesso
usate o meglio abusate al di fuori dei limiti previsti dalla legge. Esse possono essere adoperate qualora
vi siano gravi indizi di reto e l’intercettazione è consentita solo ai fini delle prosecuzione delle
indagini). È naturale che questo principio riguardi la disciplina di tutte le intercettazioni, sia
telefoniche, sia telematiche, che ambientali (mezzi di spionaggio dettati dall’uso di tecniche come i
microfoni nascosti o microspie).
- L’art 24 della Costituzione: garantisce il diritto alla difesa costituisce una possibilità di agire in giudizio
per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, mediante l’inviolabilità della difesa in ogni stato e
grado del procedimento. Tale principio trova fondamento anche nell’art. 111, comma 3 Cost., che
elenca alcuni tra i più importanti diritti difensivi spettanti all’accusato. Uno dei suoi corollari è quello
di garantire un’assistenza gratuita ai non abbienti.
- L’art 25, comma 1 della Costituzione: il quale dispone che la causa deve svolgersi dinanzi al giudice
naturale e precostituito per legge, che peraltro ora deve essere letto unitamente alla previsione delle
terzietà e imparzialità giudiziale sancite dall’art. 111, comma 2 Cost. Tale funzione giudicante può
dirsi presidiata da efficaci garanzie che per divenire realmente efficaci abbisognano di un approccio
interpretativo alle norme codicistiche di competenza ed incompatibilità che sono posti non solo a
tutela del singolo protagonista della contesa processuale, ma anche per la trasparenza del processo e
per la salvaguardia delle aspettative della collettività.
- L’art 27, comma 2 della Costituzione: proclama la presunzione di non colpevolezza, per cui l’imputato
può considerarsi colpevole solo dopo che sia stata adottata una sentenza definitiva. Questo principio
è stato ribadito dalla legge 46/2006 (la c.d. legge Pecorella) la quale ha stabilito che «il giudice pronuncia
sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio».
Essa si presenta in una duplice veste, come «regola di trattamento» e come «regola di giudizio». Secondo
la prima, l’imputato – appunto – non può essere trattato come se fosse colpevole; quanto la seconda,
si distingue ulteriormente in regola probatoria, per cui l’onere della prova incombe sulla pubblica
accusa, e in regola decisoria sul fatto incerto, per cui, ove l’accusa non ne abbia provato la colpevolezza
al di là di ogni ragionevole dubbio, l’imputato deve essere prosciolto dall’addebito formulato a suo
carico.
- L’art 68 della Costituzione: prevede la necessità di un’autorizzazione a procedere da parte della
Camera affinché possano essere compiuti atti particolarmente invasivi quali ispezioni, perquisizioni
personali e domiciliari, restrizioni della libertà personale ecc. Questa norma è stata introdotta per
evitare prevaricazioni del potere giudiziario sul potere legislativo.

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- L’art 79 della Costituzione: prevede la possibilità di adottare atti di clemenza come l’amnistia e
l’indulto.
- L’art 101 della Costituzione: garantisce che i magistrati sono soggetti solamente alla legge. Un principio
necessario per garantire l’autonomia e indipendenza del potere giudiziario, permettendogli di
realizzare le finalità a cui è preposta.
- L’art. 109 della Costituzione: fissa il principio della dipendenza funzionale della polizia giudiziaria
dall’autorità giudiziaria.
- L’art 111 della Costituzione: contenente il principio del giusto processo, che assolve il compito di dare
piena attuazione del processo accusatorio. Esso è da intendere come un concetto ideale di giustizia che
preesiste rispetto alla legge e che è direttamente collegato a quei diritti inviolabili di tutte le persone
coinvolte nel processo che lo Stato, in base all’art. 2 Cost., si impegna a riconoscere.
In generale, i primi due commi si riferiscono a tutti i processi (civili, amministrativi), gli altri
specificatamente per il processo penale e sono dedicati alle garanzie per il soggetto accusato (comma
3), al contraddittorio nella formazione della prova (comma 4) e alle sue eccezioni (comma 5).
Tale principio è di attuazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle
disposizioni contenute sui diritti civili e politici.
In particolare, al comma 1 viene sancito il principio di legalità processuale – strumento di garanzia per
l’accusato – tramite il quale la giurisdizione (che consiste nello stabilire il modo vincolante quale sia la
legge da applicare al caso concreto sottoposto a giudizio) si attua mediante il giusto processo regolato
dalla legge.
Il comma successivo (comma 2) si riferisce al contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità,
davanti a giudice terzo e imparziale. Il contraddittorio è visto in una duplice accezione: soggettivo e
oggettivo. Il primo consente a ciascuna parte di esporre le proprie ragioni (comma 3); il secondo regola
l’ambito della formazione della prova (comma 4), nel senso che, al momento dell’acquisizione della
prova davanti al giudice, vi è la simultanea e contrapposta compartecipazione delle parti che sono
chiamate a sostenere le proprie ragioni (per il principio audiatur et alter pars, propriamente sia ascoltata
anche l’altra parte); con la conseguenza che non sarà possibile riconoscere valore di prova a quei
contributi che non scaturiscano da tale metodica, salvo la sussistenza delle eccezioni prevista dal
comma 5, art. 111 Cost. Queste eccezioni sono 3 e solo in questi casi è possibile assumere una prova
non formata in contraddittorio: in primo luogo, ove vi sia il consenso dell’imputato (ciò avviene nel
rito abbreviato, nel patteggiamento, il quale rinuncia alla fase del dibattimento) che deve attestare la
superfluità della formazione dialettica della prova; in secondo luogo, per accertata impossibilità di
natura oggettiva; infine, per provata condotta illecita, che dimostri un atteggiamento destinato a
deformare la prova. Un altro profilo connesso al contraddittorio è quello dell’oralità e immediatezza:
infatti il processo probatorio si deve svolgere dinanzi un giudice, terzo ed imparziale, cui spetta
controllare il rispetto delle regole processuali, assicurare la parità delle parti e verificare l’ammissibilità
dei mezzi di prova richiesti dalle parti (un istituto utile a garantire questo sistema è quello dell’esame
incrociato che consente ad entrambe le parti un esame diretto della fonte di prova).
È richiamato anche il principio di ragionevole durata dei processi (comma 2), che esprime che la
decisione del giudice sia emanata in tempi ragionevoli, poiché il processo costituisce un peso, sia
economico che psicologico, per il cittadino chiamato a sostenerlo.
Ancora nel comma 2 e poi successivamente nel 3 confluiscono parte dei contenuti paralleli e omogenei
della convenzione Edu (art. 6), come il tema della precostituzione e indipendenza del giudice, della
presunzione di non colpevolezza e del diritto all’assistenza difensiva.

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Quando si parla di processo non si può fare a meno di ricordare la normativa del «giusto processo» introdotta dalla
legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999, che andava a modificare così l’art. 111 della Costituzione, al quale, al
comma 1, sono premesse nuove disposizioni, ossia che:
«La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale.
La legge ne assicura la ragionevole durata.
Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata
riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni
necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone
che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle
stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete
se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.
Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza
dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre
volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore.
La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o
per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita».
La domanda che ci si pone ora sembra quasi scontata: il giusto processo è davvero rispettato per tutto il suo dettato e
qual è il rapporto con gli altri principi?
Il primo punto da prendere in considerazione è il rapporto con il principio di uguaglianza.
Per attuare tali principi affermati con la disciplina del giusto processo è necessario tenere a mente alcune – per dire –
precondizioni, ravvisate nel rispetto del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), sostanziale e formale, e la tutela della
libertà personale (art. 13) in un processo che per definizione potrebbe comportare una restrizione della stessa.
Quanto riguarda il primo punto, ossia l’uguaglianza, la tematica deve essere esaminata sotto due punti di vista.
Innanzitutto, cosa s’intende per uguaglianza?
L’art. 3 della costituzione prevede che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge,
senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinione politiche, di condizioni sociali (comma 1)»; inoltre, al
comma 2, soggiunge che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavorati all’organizzazione politica e sociale del Paese».
Entrambe le affermazioni devono dunque trovare applicazione nell’esercizio dell’attività giudiziaria, che tradotto, da
un lato, consiste in una negazione di situazioni di privilegio, dall’altro, lo Stato deve assicurare a tutti i cittadini uguali
opportunità nel processo. In particolare, riguardo al secondo punto, il principio di eguaglianza sostanziale pare essere
rispettato dal momento che la stessa costituzione prevede per i soggetti non abbienti la possibilità di usufruire appositi
istituti per difendersi e agire davanti ad ogni giurisdizione assolvendo pienamente all’innegabile diritto di difesa, ma
anche a riguardo dell’art. 98 c.p.p. («L’imputato, la persona offesa dal reato, il danneggiato che intende costituirsi
parte civile e il responsabile civile possono chiedere di essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato, secondo le
norme della legge sul patrocinio dei non abbienti»); al contrario, riguardo al primo punto, ossia il rispetto
dell’eguaglianza formale, si può obiettare il fatto che ci sia un’uguaglianza a livello processuale tra tutti i cittadini per
quanto riguarda, a livello politico, l’opinato ruolo dell’art. 68 Cost. dell’immunità parlamentare; ma non solo, perché
analoga protezione è data dall’art. 122, comma 2 Cost. ai consiglieri regionali e dall’art. 32-bis della legge costituzionale
n. 195 del 1958 ai componenti del CSM.
Argomento piuttosto delicato quello dell’immunità che, dopo aver perso la caratteristica centrale di difesa
dell’indipendenza del Parlamento dalle prevaricazioni dell’esecutivo, assolve una vera e propria funzione di
salvaguardia del mandato nel caso del compimento di un reato da parte dell’interferenze della magistratura.
Fortunatamente l’art. 68 Cost. ha subito un iter normativo spuntandolo di alcune peculiarità appartenenti alla
precedente disposizione, come l’eliminazione dell’autorizzazione della camera a procedere in alcuni casi disciplinati
dallo stesso art. 68. La soluzione corretta potrebbe essere bandire questo tipo di “privilegio”?
Se si dovesse scegliere questa strada non si potrebbe fare a meno però di trovare un punto di equilibrio, altrimenti la
funzione pubblica sarebbe attaccata da ingerenze esterne tali da poter comprometterne l’organico svolgimento.

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Insomma, il cambio di prospettiva con la modifica dell’art. 68 ha dato a luce a un nuovo concetto di privilegio, non
più inteso come l’impossibilità di essere automaticamente sottratto all’azione penale, ma come reale possibilità di
essere sottoposti a processo per eventuali reati commessi, estendendo anche ai titolari di funzioni pubbliche
l’eguaglianza davanti alla legge in ambito processuale.
Questo per quanto riguarda il giusto processo e il rispetto e mancato rispetto del principio di eguaglianza in ambito
processuale. E per il secondo punto, ossia in materia di libertà personale?
La sanzione carceraria deve essere applicata solo in extrema ratio (gravità del reato, pericolosità del delinquente).
Invece, negli altri casi, sarebbe più opportuna applicare pene pecuniarie, sanzioni di tipo interdittivo, e così via.
Tale argomento apre un ventaglio di osservazioni: affinché il processo sia giusto devono essere osservati tre principi
innegabili, cioè che nessuno può essere punito se non in forza di una legge (art. 25, comma 2 Cost.), che nessuno può
essere colpevole fino alla condanna definitiva (art. 27, comma 2 Cost.) e che nessuno può essere condannato se non
esistono prove certe al di là di ogni ragionevole dubbio della sua colpevolezza (art. 533, comma 1 c.p.p.).

- L’art 112 della Costituzione: che statuisce il principio di obbligatorietà dell’azione penale. La Corte
costituzionale ha precisato che tale principio non comporta l’obbligo del pubblico ministero di
esercitare l’azione penale ogni qual volta venga avvisato del compimento di un reato. Egli, infatti, deve
contemperare l’obbligo di esercitare l’azione penale con la necessità di evitare l’instaurazione di un
processo superfluo. Di conseguenza, avrà l’obbligo di esercitare l’azione penale quando all’esito delle
indagini emergano elementi antitetici a quelli previsti per la richiesta di archiviazione e cioè quando
abbia raccolto elementi di prova tali da sostenere l’accusa in giudizio.
- L’art. 117 della Costituzione: stabilisce che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel
rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali. Questa disposizione non solo vincola il Legislatore, ma che i giudici che, quando rilevino
un contrasto tra legislazione interna e la normativa europea, sono tenuti ad interpretare la prima
adeguandola ai parametri della seconda alla stregua di quanto deciso nelle sentenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo e a sollevare questioni di legittimità costituzionale.

Dopo l’introduzione della disciplina del giusto processo, vi è stato un naturale adeguamento delle
tecniche interpretative.
La svolta definitiva nella risistemazione del diritto procedurale penale si è avuta con la legge costituzionale
n. 2 del 1999, che ha inserito nell’art 111 della Costituzione il principio del giusto processo, modificando il
quadro di riferimento ella giustizia italiana. Il comma 1 dell’art 111, infatti, dispone: «La giurisdizione si
attua mediante il giusto processo regolato dalla legge».
Questa riforma ha fatto ascendere il principio del giusto processo al rango di norma costituzionale,
ponendola in una posizione sovraordinata rispetto agli altri principi previsti da legge ordinaria.
Passando ad analizzare nel dettaglio l’articolo 111 della Costituzione (per riprendere, completare e
concludere quanto detto precedentemente), esso garantisce il principio del giusto processo attraverso una
serie di principi che impone un generale ripensamento delle norme e degli istituti processuali.
Il principio della terzietà e imparzialità del giudice che è indicato con chiarezza dal comma 2 dell’art 111
Cost. Queste caratteristiche sono state utilizzate dalla dottrina per definire il concetto di neutralità di cui
parla l’art. 25 della Costituzione.
La Consulta ritiene che i concetti di precostituzione e naturalità, di terzietà e imparzialità vadano tenuti
distinti.
Inoltre, c’è il principio del contraddittorio che viene garantito nel momento in cui alle parti contrapposte
vengono assicurate pari opportunità. L’art 111 della Costituzione prevede il principio della parità delle
armi, inteso come possibilità delle parti di fronteggiarsi su posizioni omogenee e attraverso l’esercizio di

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poteri simmetrici, dove l’accusa avrà il compito di dimostrare e su cui la difesa ha l’onere di contraddire;
dunque i poteri delle parti devono essere simmetricamente commisurati, in forma di reciprocità, ovvero
di idoneità a controbilanciare gli altri, in funzione delle opposte prospettive.
Il piano su cui verrà misurata maggiormente l’uguaglianza delle parti è quello probatorio, utilizzato in
modo determinante per la decisione delle controversie. Dove la prova – appunto – costituisce il tema
centrale del contraddittorio processuale, allora di conseguenza si parlerà di giusto processo quando le
modalità del diritto alla prova sono assicurate, cioè l’imputato ha la facoltà di concorrere alla formazione
della decisione innanzi al giudice che adotterà la decisione (nel caso in cui la personalità del giudice
mutasse, l’organo giudicante designato dovrà procedere rinnovando l’attività istruttoria già effettuata).
I principi della giurisdizione e del giusto processo impongono il rispetto della garanzia del contraddittorio
e della parità delle armi tra accusa e difesa, del diritto alla prova ed alla prova contraria e del diritto di
sottoporre ad un giudice superiore imparziale ogni decisione di merito.
La celebrazione di ogni tipologia procedimentale deve avvenire in pubblica udienza, ovvero almeno a
richiederne la trasformazione ogni qualcosa la forma tipica standardizzata sia costituita da un rito
camerale a porte chiuse.
In ultimo, il principio ne bis in idem che tutela l’individua non solo contro la possibilità di essere
sanzionato due volte per lo stesso reato, ma anche dalla possibilità di essere sottoposto una seconda volta
a processo.

La successione delle norme procedurali nel tempo: tempus regit actum


Il tema della successione delle norme nel tempo, è stato affrontato a più riprese dalla giurisprudenza, la
quale ha fornito interpretazioni diverse a seconda delle norme di volta in volta considerate. Di norma il
problema della successione temporale delle norme, viene risolto applicando il principio latino del tempus
regit actum (tradotto letteralmente «il tempo regge l’atto»): esso sta a indicare che deve essere applicata la
normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento.
A questo punto è possibile esaminare i diversi interventi della giurisprudenza:
1) In materia di prove la Corte di Cassazione, con una sentenza pronunciata a sezioni unite nel 1997, ha
precisato che: «il principio del tempus regit actum deve essere riferito al momento della decisione e non a quello
dell’acquisizione della prova». Con questa formula la Cassazione ha voluto precisare che il regime normativo
da prendere in considerazione non è quello vigente nel momento in cui la prova viene acquisita, bensì
quello esistente nel momento in cui interviene la decisione.
Se ne deduce che la regola generale per norme di procedura penale è la loro applicazione retroattiva fin
quando non interviene una decisione.
2) Una disciplina diversa è prevista per norme in materia di libertà personale: in questo caso si segue un
approccio più garantista, stabilendo la non retroattività delle norme sulla libertà personale. Tale
conclusione è in contrasto con il principio per cui l’irretroattività dovrebbe riguardare solamente le norme
penali c.d. primarie (o sostanziali) e non le norme processuali. La Corte Costituzionale, tuttavia, ha
preferito considerare le norme in materia di libertà personale come delle norme aventi natura sostanziale,
dal momento che il loro utilizzo incide fortemente sui soggetti che ne vengono colpiti.
3) Infine per quanto concerne le norme sulla competenza del giudice: da lungo tempo la Corte
Costituzionale ha legittimato l’applicazione retroattiva di tutte le norme che statuivano in detta materia
«in via generale».

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CAPITOLO II – L’ADATTAMENTO DEL DIRITTO INTERNO ALLE


FONTI EUROPEE

Una regola che vige ormai da tempo nel nostro ordinamento, così come negli ordinamenti delle altre
nazioni europee, è la prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno. A ciò si aggiunge l’obbligo
del giudice nazionale di interpretate le norme nazioni alla luce delle norme comunitarie. Questa regola
vale non soltanto in presenza di una direttiva, ma anche quando viene adottata una Decisioni Quadro
(strumento sempre più utilizzato dal legislatore comunitario per indirizzare l’azione dei legislatori
nazionali i quali, per mezzo di questo strumento normativo, vengono vincolati sul risultato da raggiungere
ma non in merito ai mezzi e alla forma da utilizzare).
Sia per le Direttive che per le Decisioni Quadro esiste un limite fondamentale: non possono essere violati
i principi generali del diritto che regolano la vita dell’ordinamento come, per esempio, in materia di
procedura penale, il principio della certezza del diritto, quello della non retroattività della legge penale
più sfavorevole; il principio per cui il giudice non può utilizzare le norme comunitarie per dare un
interpretazione contra legem ecc.).
Nell’interpretazione delle norme, il giudice nazionale è tenuto ad atteggiarsi per quanto possibile alla luce
della lettera e dello scopo della Decisione Quadro o delle Direttive, evitando approdi esegetici destinati a
raggiungere un risultato contrario a quello perseguito dal legislatore comunitario.
Il panorama delle fonti internazionali che incidono sulle norme di diritto processuale italiano è quanto mai
vario. Per questo appare utile identificare il minimo comune denominatore del diritto penale processuale europeo.
Verso un minimo comune denominatore, a livello processuale, era andato incontro il Trattato di Lisbona
grazie al quale si è superata la struttura per pilastri dell’Unione Europea, consegnando il primato al diritto
comunitario: facilitare la cooperazione tra Stati basata sul principio del mutuo riconoscimento, possibilità
di adottare strumenti procedurali comuni ce possono disciplinare il mutuo riconoscimento
nell’ammissibilità delle prove tra gli Stati membri, l’espletarsi dei diritti e delle garanzie individuali nel
procedimento penale, i diritti delle vittime del reato.
A livello di fonti scritte rilevano: la Carta di Nizza (oggi recepita all’interno del Tratto di Lisbona); la
Convenzione europea per la salvaguardia del diritti dell’uomo, la Convenzione europea di estradizione;
la Convenzione europea per l’assistenza giudiziaria in materia penale; mentre fra le fonti non scritte:
enorme rilevanza hanno le varie sentenze adottate dalle Corti europee.
Fra le varie fonti sopra indicate, particolarmente problematica è stata l’identificazione dell’importanza
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Una svolta si è avuta con il Trattato di Lisbona che
all’articolo 6 dispone: «L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carte dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea. Essa aderisce, inoltre, alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali».
Con questa disposizione il Trattato di Lisbona ha qualificato le norme della Convenzione europea come
fonti diritto dell’Unione, contenenti principi generali che devono essere riconosciuti dagli Stati (la loro
violazione comporta, per ciò, la possibilità di avviare la procedura di inadempimento dinanzi alla Corte
di Giustizia).
Per quanto riguarda l’Italia: prima dell’adozione del Trattato di Lisbona la Corte Costituzionale aveva
precisato che in caso di contrasto fra una norma interna e la Convenzione dei diritti dell’uomo, i giudici
nazionali avrebbero dovuto rimettere la questione dinanzi alla Corte europea, senza tuttavia poter
disapplicare automaticamente la norma interna (come avviene in caso di contrasto fra norma interna e
norma comunitaria). Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la Corte Costituzionale si è mostrata

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recalcitrante a modificare il suo orientamento, nonostante la qualificazione della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo quale fonte del diritto comunitario.

CAPITOLO III – I PROTAGONISTI DEL PROCESSO

Il processo penale viene tradizionalmente definito come «una concatenazione di atti, compiuti da determinati
soggetti, che tendenzialmente conducono all’atto finale rappresentato dalla sentenza». Questa «catena» di atti,
normalmente, inizia con la notizia di reato (notitia criminis) e si conclude con il passaggio in giudicato della
sentenza e con la successiva esecuzione.
Molto spesso parlando del processo penale si usa confondere la nozione di processo con quella di
procedimento (questo proprio perché il processo viene qualificato come una concatenazione di atti):
1) Il procedimento (in senso stretto): dal punto di vista formale esso è costituito dagli atti che precedono
l’esercizio dell’azione penale;
2) Il processo (procedimento in senso lato): abbraccia, invece, tutti gli atti compiuti successivamente
all’esercizio dell’azione penale.
A prescindere da queste distinzioni formali, il fine ultimo del procedimento penale in senso lato, è il
raggiungimento di una verità giudiziale, che può essere raggiunta solamente attraverso il rispetto delle
regole del giusto processo, costituzionalizzate nell’articolo 111, comma 1 Cost., che sancisce il principio di
legalità processuale.
Il punto fondamentale è che il processo non segue esclusivamente l’obiettivo di attuare la legge penale nel
caso concreto, ma assolve quella funzione di tutela di tutti i valori e gli interessi in gioco. Ed ecco che allora
il processo penale può essere descritto come la disciplina dei limiti imposti dalla legge al potere statuale
nell’amministrazione della giustizia penale per garantire il rispetto di diritti pari o addirittura superiori al
valore rappresentato dall’accertamento delle responsabilità e dalla conseguente punizione dei colpevoli.

Giusto processo e verità giudiziale


Quando si parla di verità giudiziale non si intende con ciò riferirsi ad una verità assoluta, oggettivamente
incontestabile. Da tempo non solo i giuristi ma anche i filosofi e gli scienziati, hanno concluso che il
conseguimento di una verità assoluta e oggettiva è un’illusione, data la mutevolezza della realtà e la
possibilità di giungere in futuro a nuove scoperte e verità.
Ciò è ancor più vero in ambito giuridico, dove l’accertamento della verità avviene relativamente a fatti
avvenuti in passato (che non sono per ciò suscettibili a verificazione sperimentale diretta, tipo la
testimonianza), ad opera di soggetti (il giudice e il pubblico ministero) che sono condizionati dai propri
convincimenti soggettivi e sulla base di prove caratterizzate, necessariamente, da un margine di
incertezza.
La ricerca della realtà oggettiva era uno degli obiettivi perseguiti dai giuristi mentre era ancora in vigore
il modello inquisitorio-autoritario. Questa ricerca si traduceva, normalmente, in un bieco tentativo di
imporre un determinato disegno politico celandolo dietro una parola che appare subito come intoccabile:
verità.
Data l’impossibilità di raggiungere una verità oggettiva, da tempo la dottrina e la giurisprudenza, che si
rifanno ad un modello accusatorio garantista, hanno ritenuto preferibile ricercare la c.d. verità semantica:
essa non mira ad accertare la verità o meno di un fatto ma semplicemente un enunciato formulato e
necessario a risolvere un procedimento penale in senso lato (ad es. accertate se, sulla base delle prove, è
possibile stabilire la colpevolezza di Tizio per un determinato reato).

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Nella contrapposizione tra modello accusatorio e inquisitorio, in quest’ultimo si ravvisa più che altro un
allontanamento che un conseguimento della chimerica verità sostanziale o materiale, mentre nel primo il
discorso è diverso, perché pare essere l’unico modello che permette di avvicinarsi approssimamente alla
verità.

Il principio di legalità processuale


L’art 111 comma 1 della Costituzione dispone che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato
dalla legge». Quest’articolo contiene uno dei principi più importanti del diritto penale: il principio della
legalità processuale, inteso come necessità che il processo si svolga nel rigoroso rispetto delle prescrizioni
normative; in altri termini, consiste nello stabilire in modo vincolante quale sia la legge da applicare al caso concreto
sottoposto a giudizio. Trattandosi di un principio di garanzia per l’accusato non è suscettibile di
interpretazione analogica in malam partem, ossia tese a limitare i diritti processuali riconosciuti
all’imputato.
Oltre alla Costituzione, anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo riconosce grande importanza
al principio di legalità processuale. La Corte di Giustizia, interpretando la Convenzione, ha qualificato il
principio di legalità processuale come un principio generale di diritto.
Il problema è che tale principio, ossequiato da diverse disposizioni normative, non trova alcun risconto
nella prassi. Questa regola, secondo cui il processo dovrebbe svolgersi nei limiti e secondo le modalità
indicate dalla legge, viene quotidianamente violata dalla giurisprudenza che, anziché limitarsi ad
interpretare la legge, compito indispensabile a chiarire e colmare eventuali lacune, spesso agisce per
sostituirsi al legislatore, creando una procedura penale di matrice giurisprudenziale. Questa tendenza ha
finito per creare un sistema procedurale per molti versi simile a quelli di common law (al quale fa capo il
principio dello stare decisis [cioè il principio che vincola i giudici al rispetto dei precedenti
giurisprudenziali] che rende il sistema ancor più pericoloso e ambiguo), aggravato dalla mancanza di
stabilità e certezza delle affermazioni giurisprudenziali suscettibili di essere modificate o comunque non
osservate da giudici diversi, o addirittura dallo stesso giudice. Ma non solo: il processo non sarà mai
davvero giusto fin quando ci sarà la presenza di norme che – per esempio – dispongono una violazione
del principio di uguaglianza formale, come l’art. 68 Cost. che disciplina l’immunità parlamentare,
mettendo su due punti di vista diversi i cittadini che invece, dal punto di vista processuale, dovrebbero
essere eguali dinanzi alla legge.
L’unica soluzione è quella di valorizzare le disposizioni costituzionali e ancor di più le norme comunitarie
e le Convenzioni internazionali, per ribadire il primato della legge (garantendo in tal modo la concreta
applicazione di questo principio, da tempo considerato di secondaria importanza).
Il principio di legalità processuale è simmetrico a quello imposto all’art. 25, comma 2 Cost. per il diritto
penale sostanziale.
Tale principio, come abbiamo appena visto, ha rilievo anche a livello internazionale, in seno alla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, visto – appunto – come un principio generale del diritto.
Infatti, al di sopra del codice e delle leggi speciali, ci sono variegate e dettagliate discipline costituzionale
ed europee del processo penale.

La struttura triadica del processo. Parti e soggetti


Il processo penale viene generalmente definito un «actus trium personarum». La struttura «triadica» del
processo (art. 111, comma 2) può essere facilmente compresa pensando a un triangolo equilatero: ai due
angoli opposti collocati alla base del triangolo si trovano le parti in una condizione di perfetta parità;

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all’angolo collocato alla sommità del triangolo si trova il giudice, che deve essere terzo ed imparziale
rispetto alle parti.
Questa struttura viene indicata con chiarezza dall’art 111, comma 2 della Costituzione, che dispone: «Ogni
processo si svolge nel contradditorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale».
Attenzione a tenere distinti i due concetti di parte e di soggetto, dove il primo consiste in un soggetto che
esercita o che subisce l’azione penale e l’azione civile (esercitata in sede penale), mentre il secondo è colui
che ha il potere-dovere di iniziativa nel compimento di atti processuali.
Questa disposizione normativa ci permette di distinguere diverse categorie di individui che, in modo
differente, prendono parte al procedimento.
Le parti necessarie: tradizionalmente parti necessarie sono l’accusa (cioè il pubblico ministero) e la
persona nei cui confronti si procede penalmente. Le parti necessarie sono immanenti in ogni fase del
procedimento penale, eccettuata l’ipotesi delle indagini svolte nei confronti di ignoti.
Le parti eventuali: la presenza di parti eventuali si verifica quando in sede penale viene esercitata l’azione
civile per chiedere direttamente al giudice penale la condanna dell’imputato (o di un soggetto diverso
dall’imputato responsabile per il risarcimento) al risarcimento del danno. Si parla di parti eventuali in
quanto l’esercizio dell’azione civile in sede penale è assolutamente eventuale. Altra figura eventuale è la
persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, che si affianca all’autore del reato per rispondere
delle obbligazioni che sorgono dall’eventuale condanna.
I soggetti: si tratta di una categoria più ampia rispetto a quella di parti. In essa rientrano, infatti, sia le parti
sia gli altri individui che pur non essendo attori o destinatari dell’azione penale, compaiono nel processo
per esercitare dei poteri/doveri (si pensi ad es. alla polizia giudiziaria o allo stesso giudice che, pur non
essendo parte è sicuramente uno dei soggetti necessari del procedimento penale).
Infine una categoria residuale è quella delle persone che partecipano al procedimento che include ogni
individuo che svolge un ruolo nel procedimento penale. Si pensi ad esempio ai testimoni, ai periti, ai
consulenti tecnici ecc.

Il giudice

La giurisdizione penale
La giurisdizione penale, così come disciplina dall’art. 1, è la funzione espletata dal giudice che ha il
compito di giudicare i soggetti accusati di aver commesso un fatto penalmente rilevante. L’organo
giudicante ha il compito di stabilire in modo vincolante quale legge debba applicarsi al caso concreto
sottoposto al loro giudizio. Detta giurisdizione presenta alcune caratteristiche fondamentali. Il giudice
penale risolve ogni questione da cui dipende la decisione tassativamente prevista (riferimento alla
pregiudiziale).
I giudici sono soggetti soltanto alla legge (così come precisato dall’art. 101 comma 2 della Cost.). Questa
regola è una chiara espressione del principio di legalità processuale, per il quale l’intero procedimento e,
in particolare, il momento del giudizio devono svolgersi nel più rigoroso rispetto del giudizio. Una
precisazione è d’obbligo: la soggezione dei giudici alla legge non implica una loro subordinazione al
legislatore (cioè al Parlamento) o al potere esecutivo (al Governo); al contrario è proprio la legge a
garantire l’indipendenza del potere giudiziario da qualunque condizionamento esterno.
Si devono sinotticamente indicare alcune caratteristiche:
1. La funzione giurisdizionale è indeclinabile: ciò implica anzitutto che il giudice, una volta adito
mediante l’esercizio dell’azione penale, non può rifiutarsi di emanare la sua decisione. L’indeclinabilità,

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inoltre, richiede che l’accertamento del reato avvenga attraverso forme giurisdizionali (la c.d. riserva di
giurisdizione in materia penale) in applicazione del principio «nullum crimen, nulla poena sine iudicio».
2. La giurisdizione penale deve garantire l’equità processuale: comporta che l’accertamento
giurisdizione debba essere improntato e conforme ai principi costituzionali ed europei; inoltre
all’imputato deve essere assicurato il giusto processo, richiamato non solo dall’art 111 della Costituzione,
ma anche da una serie di norme internazionali, fra cui l’art 6 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo che parla esplicitamente di «fairness». L’equità processuale risulta poi essere collegata con
un’altra serie di garanzie e solo attraverso l’interazione di queste garanzie il sistema processuale equo
opera: l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (articolo 3 della Costituzione e articolo 14 Convenzione
europea dei diritti dell’uomo); la presunzione d’innocenza (articolo 27 comma 2 della Costituzione e
articolo 6 paragrafo 2 C.e.d.u.); il diritto alla difesa (articolo 24 comma 2 della Costituzione e articolo 6
paragrafo 3 della C.e.d.u.), libertà personale, il domicilio, la riservatezza delle comunicazioni, tutti i diritti
inviolabili dell’uomo.
3. Poi, la giurisdizione può essere vista come un importante diritto fondamentale dell’imputato. È uno
dei principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, il quale assicura, per qualsiasi controversia,
un giudice e un giudizio, venendo così a far parte tra i diritti inviolabili dell’uomo, che la Costituzione
garantisce all’art. 2. Diritto importante anche a livello della giurisprudenza europea che da parte sua ha
sempre seguito la direzione di dare la possibilità al soggetto di un processo equo.
4. La giurisdizione penale riconosce al giudice il potere-dovere di risolvere in via incidentale, senza
efficacia vincolante, le questioni pregiudiziali (art. 2). Una particolare disciplina è prevista quando la
questione pregiudiziale attiene allo stato di famiglia o alla cittadinanza, ed essa sia l’oggetto di una causa
pendente in sede civile. In tal caso il giudice penale potrà (si tratta di una facoltà e non di un dovere)
sospendere il processo penale fino al passaggio in giudicato della sentenza civile. In tal caso la decisione
adottata dal giudice civile sarà vincolante per il giudice penale (art. 3); correlatamente all’art. 3 è meritevole
di citazione l’art. 478 che prevede la possibilità in mano al giudice di decidere immediatamente le questioni
incidentali sorte all’interno del processo senza però sospenderlo: in questo senso dà una certa stabilità al
provvedimento perché potrà essere impugnata solamente con la sentenza dibattimentale. Ancora: l’art.
479 invece prevede la sospensione del processo quando la sua definizione dipende dalla risoluzione di
questioni pregiudiziali amministrative e civili di particolare complessità.

Naturalità, precostituzione per legge, indipendenza, imparzialità e terzietà


I soggetti investiti della funzione giurisdizionale (i giudici) devono presentare alcune caratteristiche che
sono quelle della imparzialità, precostituzione, naturalità, terzietà, indipendenza.
Nei principi diretti a presidiare la garanzia dell’imparzialità del giudice – che si vedrà dopo – importanza
fondamentale assume quello posto dalla costituzione all’art. 25, comma 1, («nessuno può essere distolto
dal giudice naturale precostituito per legge») che fa riferimento alla naturalità e alla precostituzionalità
del giudice. Innanzitutto, la prima costituisce una qualificazione sostanziale dell’organo giurisdizionale, mentre
la seconda costituisce una qualificazione temporale della sua istituzione.
A questi due termini si tendeva a dare una corrispondenza sinonimica, mentre oggi sono considerati
differenti: il concetto di naturalità è collegato a quello del locus commissi delicti, ovvero al concetto generale
di competenza del giudice; mentre la precostituzione è individuata nell’istituzione del giudice operata
dall’ordinamento processuale sulla base di criteri generali fissati in anticipo (ante factum) e non in occasione
di un fatto già verificatosi in vista di determinate controversie.
In particolare, il giudice penale deve presentare alcune caratteristiche costituzionalmente imposte:

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1) La precostituzione per legge: questo requisito viene richiamato, insieme a quello della naturalità,
dall’articolo 25 comma 1 della Costituzione. Esso è una chiara espressione del principio della legalità
processuale, rivolto in questo caso all’organo giudicante il quale deve essere precostituito in base alla legge
da criteri predeterminati rispetto alla commissione del fatto da giudicare (cioè deve essere costituito sulla
base di criteri normativi che vengono formulati prima della commissione del reato, onde evitare che la scelta
dell’organo giudicante avvenga su base soggettiva).
La precostituzione riguarda non solo gli uffici giudiziari, ma anche la persona fisica che in concreto è
chiamato a svolgere l’attività giurisdizionale (il giudice). Per quest’ultimo la precostituzione è garantita
dalla legge di ordinamento giudiziario (artt. 7-bis e 7-ter), la quale ha istituito apposite tabelle degli uffici
giudiziari (con le quali vengono selezionati i giudici) e ha definito criteri precisi per la sostituzione dei
giudici impediti; questi vengono rinnovati ogni 3 anni con decreto del Ministro della Giustizia sulla
deliberazioni del CSM.
Dunque, devono essere rispettate due puntualizzazioni, una formale e l’altra sostanziale:
1) Secondo quella formale, il giudice deve risultare istituito soltanto con la legge (riserva di legge);
2) Secondo quella sostanziale, non è possibile creare, dopo il verificarsi di un determinato fatto, una
competenza ad hoc neppure per un giudice che sia già stato istituito (irretroattività).
Nel caso di violazione delle norme che attengono alla destinazione e all’assegnazione alla formazione dei
collegi, il codice non prevede la nullità degli atti adottati perché non inficiano la capacità del giudice.
La garanzia della precostituzione è esposta, tuttavia, al rischio della successione delle leggi nel tempo, dal
momento che nell’art. 25 Cost. manca un esplicito riferimento temporale. Se una determinata disposizione
normativa che va a regolamentare la competenza o la giurisdizione dei giudici viene sostituita, allora
occorrerà stabilire quale disposizione debba essere applicata per la costituzione dei giudici. Ci sono due
diversi orientamenti.
In primo luogo, la dottrina prevalente sostiene che la precostituzione debba avvenire applicando le norme
vigenti al momento della commissione del reato (dies delicti). Solamente in questo modo può essere
garantito con certezza il principio della precostituzione richiamato dall’art 25 della Costituzione.
In secondo luogo, la Corte Costituzionale che, in un primo momento aveva sposato le convinzioni della
dottrina maggioritaria, ha successivamente modificato la propria posizione sostenendo che «il principio
costituzionale della precostituzione, sancito dall’art 25, è rispettato quando l’organo decidente sia stato istituito dalla
legge sulla base di criteri generali fissati e non in vista di singole controversie; mentre non sarà rispettato tutte le
volte in cui il giudice venga designato a posteriori in relazione ad una determinata controversia o direttamente dal
legislatore in via di eccezione alle regole generali». In questo senso lo spostamento della competenza dall’uno
all’altro ufficio giudiziario non avviene in conseguenza ad una deroga alla disciplina generale, che sia
appunto adottata in vista di una determinata controversia, ma per effetto di una nuova designazione.
Ancora, la Corte ha ribadito che, nonostante l’effetto di modifiche sopravvenute e il giudice finisca per
essere designato in un momento successivo a quello della commissione del reato, la precostituzione del
giudice è rispettata se l’organo decidente sia stato istituito dalla legge sulla base di criteri generali fissati
non in vista di singole controversie. In questo senso si ravvisa di come l’orientamento costituzionale sia
caratterizzato dall’elemento della flessibilità comportando, di conseguenza, il passaggio da
precostituzione a costituzione del giudice per legge.
2) La naturalità: anche questo principio viene richiamato dall’art. 25 Cost. Esso è stato per lungo tempo
sottovalutato, essendo considerato un sinonimo della precostituzione, oggi invece considerato distinto. La
naturalità, infatti, deve essere considerata una garanzia autonoma.
Il suo scopo, secondo la dottrina maggioritaria, è quello di garantire che il giudice sia capace di cogliere i
valori socio-culturali coinvolti nel processo (termine infatti ricondotto al locus commissi delicti).

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Ma questa predisposizione del giudice a comprendere tutti i valori socio-culturali è stata gravemente
intaccata dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione. Oggi, la globalizzazione, che ha fatto cadere le
barriere che separavano le diverse realtà, comporta un dovere del giudice di comprendere ciò che deve
giudicare sia sotto un profilo sia culturale che giuridico, qualificando così la naturalità come la «capacità
del giudice di cogliere i fattori culturali che hanno inciso sulla dinamica del reato».

Alla figura del giudice delineata dalla Costituzione fanno riferimento anche i concetti espressi qui di
seguito, accomunati da una estraneità rispetto agli interessi coinvolti nel processo:
3) L’imparzialità, invece, è quando il giudice risulta assolutamente distaccato rispetto all’oggetto del
giudizio. Egli infatti deve essere disinteressato al risultato finale del processo; inoltre non deve avere
pregiudizi e deve essere privo di legami con le parti. Da notare che l’imparzialità, la terzietà e
l’indipendenza risultano strettamente connesse, così come precisato a più rispese dalla Corte
Costituzionale e dalla Corte di Giustizia.
Si riconoscono due tipi profili di imparzialità: uno soggettivo e l’altro oggettivo. Il primo presta attenzione
alla presunzione dell’imparzialità fino a prova contraria; la seconda attiene ad una valutazione caso per
caso considerando le condizioni esteriori reputate in grado di porre oggettivamente in dubbio
l’assicurazione di una giustizia imparziale.
Qui si fa riferimento agli artt. 101, comma 2 e 111, comma 2 della Costituzione, in quanto stabiliscono che
i giudici sono soggetti soltanto alla legge e che ogni processo si svolge davanti a giudice terzo e imparziale.
Al concetto di imparzialità, poi, competono alcuni istituti connessi come quello dell’incompatibilità del
giudice persona fisica a pronunciare su una regiudicanda; oppure il dovere del giudice di astenersi dal
partecipare ad un processo.
4) La terzietà, implica che il giudice rimanga assolutamente equidistante dalle parti. Ciò richiede che egli
sia estraneo sia alle funzioni dell’accusa, che a quelle della difesa e che sia collocato dalla legge in posizione
equidistante dalle parti (il requisito della terzietà, purtroppo, non viene garantito nel nostro ordinamento,
dal momento che il pubblico ministero e il giudice appartengono allo stesso ordine giudiziario. La terzietà
potrà essere garantita solamente quando i due magistrati, appartenenti l’uno alla magistratura inquirente
l’altro a quella giudicante, verranno inseriti in due ordinamenti giudiziari distinti).
5) L’indipendenza: essa viene considerata un requisito essenziale dell’imparzialità (un giudice, infatti, non
può essere imparziale se non è anzitutto indipendente). L’indipendenza richiede la piena autonomia dagli
altri poteri dello Stato (sancita con chiarezza dagli articoli 104 e 105 della Costituzione) e la soggezione
del giudice soltanto alla legge (indipendenza garantita anche nell’ordine giudiziario a cui appartiene,
essendo inamovibile e non sussistendo gerarchie interne, ma solo distinzioni fondate sulle funzioni
esercitata).
L’indipendenza può assumere diverse qualifiche a seconda dell’aspetto che viene in rilievo:
 Istituzionale o organica esterna: quando è relativa all’autonomia dell’organizzazione giudiziaria da
qualunque centro di potere (artt. 104, comma 1 e 105 Cost.);
 Organica interna: quando si intende l’autonomia del singolo giudice nel contesto dell’organizzazione
giudiziaria, nel cui ambito possono sussistere non distinzioni di tipo gerarchico ma solo diversità di
funzioni (artt. 101, comma 2 e 107, comma 3 Cost.);
 Funzionale: riguarda il momento di applicazione della norma nel singolo processo, esprimendo
l’esigenza che il giudice tragga solo dall’ordinamento giuridico l’indicazione delle regole per decidere.

L’attuazione dei principi costituzionale della precostituzione e della naturalità: la giurisdizione e le


regole di competenza

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Tutti i requisiti della imparzialità, terzietà, indipendenza, naturalità e precostituzione trovano effettiva
attuazione nella legge ordinaria.
Il rispetto della precostituzione e della naturalità, richiedono che sia la legge a determinare in via generale
(e non per il singolo processo) le regole necessarie per determinare la giurisdizione e la competenza.
Entrambe devono essere fissate dalla legge ordinaria vigente al momento della commissione del fatto da
giudicare, così da garantire la riserva di legge e la precostituzione del giudice.
1) La giurisdizione: essa serve a determinare se la questione rientra nella giurisdizione del giudice penale
ovvero in quella di un altro giudice (ad es. quello civile).
2) La competenza: una volta stabilito che la giurisdizione spetta al giudice penale, bisognerà stabilire chi
sia fra i vari giudici penali quello competente a giudicare quel singolo caso (attraverso il criterio della
competenza per materia, per territorio, per connessione, funzionale).
Da notare che la violazione delle norme sulla competenza (che si ha quando la sentenza viene adottata
da un giudice diverso rispetto a quello competente) non impedisce la formazione del giudicato,
qualificando la sentenza come valida e irrevocabile; al contrario la violazione delle norme sul riparto della
giurisdizione fanno sì che la sentenza provenga da un soggetto privo del potere giurisdizionale necessario
per giudicare, per questo motivo essa deve considerarsi inesistente e quindi priva della capacità di passare
in giudicato.
Dunque, la giurisdizione spetta ad ogni giudice, mentre le regole di competenza servono solo per
individuare il giudice che dovrà intervenire nel singolo caso, senza però avere alcuna incidenza sul potere
giurisdizionale.

Passando ad analizzare le diverse categorie di giudici penali, è possibile anzitutto distinguere i giudici
ordinari dai giudici speciali:
Sono giudici penali ordinari di primo grado il giudice di pace, il Tribunale (in composizione monocratica
e collegiale), la Corte d’assise, il tribunale per i minorenni. In secondo grado: la Corte d’appello, la Corte
d’assiste d’appello, la sezione della Corte d’appello per i minorenni. In terzo grado: la Corte di cassazione,
unica per tutto il territorio nazionale (la sua sede è collocata a Roma).
Sono giudici penali speciali il Tribunale militare (competente per i reati commessi dagli appartenenti alle
forze armate); la Corte costituzionale, per i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione, commessi
dal Presidente della Repubblica. Ai sensi dell’art 102 comma 2 della Costituzione, è vietato istituire nuovi
tribunali speciali e straordinari.

Le competenze del giudice

Mediante le norme di cui agli artt. 4-16, il legislatore ha predisposto i criteri attraverso i quali individuare
il giudice legittimato (ante delicto) a decidere, attuando i principi di naturalità e di precostituzione.
L’art. 4 stabilisce, in via generale, che il criterio base per la determinazione della competenza è costituito
dalla pena sancita dalla legge; con la precisazione che, ai fini del calcolo della pena, vanno escluse: la
recidiva, la continuazione, le circostanze del reato, eccezione fatta per le circostanze aggravanti per le quali
la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.
Gli articoli successivi forniscono i tre criteri per individuare il giudice competente rispetto ad un
determinato processo: materia, territorio, connessione.

Competenza per materia

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La competenza per materia, utilizzata per la ripartizione della competenza fra i giudici ordinari (artt. 5 e 6
c.p.p.), ripartisce la competenza fra i giudici a seconda del titolo del reato per cui si procede (criterio
qualitativo) ovvero della quantità della pena massima prevista (criterio quantitativo), computata ai sensi
dell’art. 4.
Quanto riguarda la giurisdizione ordinaria, la competenza è individuata:
 Alla Corte d’assise: spetta, ai sensi dell’articolo 5, la competenza per i delitti più gravi (di sangue e
politici) per i quali si ritiene che il giudice naturale (che per ripassare è il giudice più idoneo a cogliere
non solo gli elementi giuridici, ma anche quelli socio-culturali del reato) sia quello in composizione
mista popolare e professionale (la Corte d’assiste, infatti, è composta da 2 giudici professionisti e da 6
giudici popolari).
o In base al criterio qualitativo, alla Corte d’assiste è attribuita la competenza a giudicare l’omicidio
del consenziente (art 579 c.p.); l’istigazione o aiuto al suicidio (art 580 c.p.); l’omicidio
preterintenzionale (art 584 c.p.); il delitto di ricostituzione del partito fascista; di genocidio e tutti
i delitti dolosi da cui deriva la morte di una persona o di più persone. Alcuni reati, tuttavia, sono
sottratti alla competenza della Corte d’assise: in particolare quei reati per i quali si richiede una
particolare preparazione tecnico-giuridica (sicuramente estranea ad una giuria popolare), ovvero
per i quali si teme che il giudice popolare possa più facilmente essere soggetto ad influenze esterne
(si pensi ad es. al reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, previsto dall’articolo 416
bis del c.p.). Questi reati rientrano nella competenza del Tribunale;
o In base al criterio quantitativo: la Corte risulta competente a giudicare i delitti per i quali la legge
stabilisce la pena all’ergastolo o comunque una pena massima non inferiore a 24 anni (con
l’esclusione di alcuni delitti come quello di rapina, tentato omicidio, sequestro di persona ecc. di
competenza del tribunale).
 Il giudice di pace: è competente per i reati di minore gravità, in cui si vuole sfruttare la possibilità di
utilizzare quest’organo per una rapida soluzione del giudizio.
In base al criterio qualitativo, esso è competente per i reati minori espressione di micro-conflitti
individuali. Si pensi ad es. al reato di percosse (art. 581 c.p.); al reato d’ingiuria (art. 594 c.p.); alle
minacce (art. 612 c.p.) o al nuovo reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato.
 Il Tribunale: ai sensi dell’art. 6 esso ha una competenza residuale per tutti i reati che non rientrano
nella competenza della Corte d’assise e del giudice di pace. A sua volta la competenza del tribunale
può essere suddivisa a seconda che la causa venga attribuita al Tribunale in composizione collegiale
ovvero al Tribunale in composizione monocratica:
 Al Tribunale in composizione collegiale spetta:
o In base al criterio quantitativo: la competenza per i reati punti con una pena massima non inferiore
a 10 anni.
o In base al criterio qualitativo: una serie di reati indicati dalla legge come ad es. l’associazione a
delinquere di stampo mafioso, i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione; i
reati sessuali; i reati commessi dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni.
 Al Tribunale in composizione monocratica spetta:
o In base al criterio quantitativo: la competenza per i reati puniti con una pena che non eccede i 10
anni.
o In base al criterio qualitativo: i delitti legati al traffico, produzione e detenzione di stupefacenti; il
reato di guida sotto l’influenza di alcol e sostanze stupefacenti ecc.

Quanto riguarda invece le giurisdizioni speciali, la competenza viene così ripartita:

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 Corte costituzionale: si determina in base a una considerazione che tiene conto sia del tipo di reato, sia
dell’autore di esso, e si esaurisce nella cognizione dei reati di alto tradimento e di attentato alla
Costituzione commessi dal Presidente della Repubblica;
 Tribunale militare: si determina sulla natura del reato commesso e sui soggetti autori (militari in
servizio).

La competenza per territorio (art. 8-11 bis)


Ai sensi dell’art. 8 comma 1: «La competenza per territorio è determinata dal luogo in cui il reato è stato
consumato». È fondato sul rapporto che intercorre tra il luogo in cui è stato commesso il reato e la sede
giudiziaria entro la quale quel luogo è ricompreso.
Presupposto per l’applicazione della competenza per territorio è l’avvenuta individualizzazione della
competenza per materia del giudice (questo perché l’organo giudicante, per essere territorialmente
competente, deve conoscere di un certo reato sotto il profilo materiale).
Se la competenza per materia ripartisce i reati fra i vari giudici a seconda della maggiore o minore gravità
della causa (al giudice di pace le cause meno gravi alla Corte d’assise quelle più gravi), la competenza per
territorio, invece, ripartisce la causa fra i vari giudici dello stesso grado operanti sul territorio nazionale,
esprimendo il significato della garanzia del giudice naturale.
L’art 8, riconoscendo la competenza per territorio al giudice del luogo in cui il reato è stato consumato,
vuole dare attuazione al principio di naturalità sancito dall’art 25 della Costituzione.
Per regola generale, il giudice competente è dunque quello del luogo di consumazione del reato, anche se
dal punto di vista pratico non è per nulla semplice individuare tale luogo.
Infatti, la regola generale di cui all’art. 8 comma 1 c.p.p. subisce una serie di eccezioni.
In primo luogo, l’art. 8 comma 2 dispone che se dal fatto deriva la morte di una o più persone, la
competenza spetta al giudice in cui è stata tenuta l’azione o l’omissione causa della morte e non in luogo
in cui la persona è deceduta (si pensi ad esempio ad un ferimento compiuto in strada che porta,
successivamente, alla morte della persona ferita in ospedale).
In secondo luogo, l’art. 8 comma 3 prende in considerazione l’ipotesi di reato permanente (ad es. il reato
di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art 630 del c.p.). In questo caso, anche se dal fatto
deriva la morte del sequestrato, la competenza spetta al giudice del luogo in cui ha avuto inizio il
sequestro.
In terzo luogo, al comma 4, se si tratta di delitto tentato è competente il giudice del luogo in cui è stato
compiuto l’ultimo atto diretto a commettere il delitto.
L’art. 9, invece, introduce regole suppletive da applicare quando non è possibile identificare il giudice
territorialmente competente ai sensi dell’art. 8. In questo caso (1) quando non è noto il luogo di
consumazione del reato, la competenza spetterà al giudice in cui è avvenuta una parte di esso o, in
mancanza anche di questo criterio, (2) al giudice del luogo in cui risiede l’imputato. Se (3) nemmeno questo
criterio non può essere utilizzato, la competenza spetta al giudice del luogo in cui si trova l’ufficio del
pubblico ministero che per primo ha iscritto la notizia di reato nell’apposito registro.
Ancora, l’art. 10 si occupa della competenza per i reati commessi all’estero; in questo caso la competenza
si determina in base al luogo di residenza, dimora, domicilio o luogo di arresto dell’imputato.
Infine l’art. 11 prevede una disciplina particolare quando un magistrato assume nel processo la qualifica
di imputato ovvero di persona danneggiata dal reato; in tal caso se le normali regole sulla competenza
territoriale dovessero riconoscere come competente un ufficio compreso nel distretto di Corte d’appello in
cui il magistrato svolge le sue funzioni (o dove le svolgeva al momento del fatto, che però non trova
applicazione se al tempo era uscito dall’ordinamento giudiziario), la competenza sarà assegnata al giudice

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competente per materia compreso nel distretto di Corte d’appello più vicino, così come individuato
dall’art. 1 disp. att. e dalla tabella A (che per esempio è indicato da Roma a Perugia; da Perugia a Firenze).
In caso di connessione tra reati, invece, la competenza per materia subisce lo spostamento indicato dall’art.
16 comma 1 che statuisce la competenza del giudice del reato più grave.
Vi sono poi previsioni speciali derogatorie: una prima è sancita dall’art. 328 comma 1-bis e 1 quater che
riguarda le funzioni di giudice per le indagini preliminari che, nei procedimenti per delitti di criminalità
organizzata, terrorismo, pedopornografia e informatici, sono esercitate, salve specifiche disposizioni di
legge, da un magistrato del tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice
competente (competenza territoriale distrettuale).
Altre eccezioni sono previste da leggi speciali: si pensi come esempio al reato di diffamazione per mezzo
di trasmissioni radiotelevisive; in questo caso la competenza spetta al giudice del luogo in cui la persona
diffamata ha la sua residenza.

La competenza per connessione, la riunione e la separazione dei procedimenti (artt. 12-16)


La competenza deve essere determinata tenendo conto dei collegamenti (connessioni) esistenti fra fatti
penalmente rilevanti. Ai sensi dell’art. 12 si può parlare di connessione in tre casi:
1. In presenza di una connessione plurisoggettiva: essa ricorre quando il reato per cui si procede è stato
commesso da più persone in concorso (nel caso di reati dolosi) o in cooperazione (nel caso di reati
colposi) ovvero quando più persone con condotte indipendenti hanno determinato l’evento dannoso
(si pensi ad es. al ferimento di un uomo che successivamente muore a causa della negligenza del
medico curante).
2. In presenza di una connessione monosoggettiva: che ricorre quanto una persona è imputata per più
reati commessi con una sola azione od omissione; si parla in questo caso di concorso formale (si pensi,
ad esempio, se, nel corso di un’unica fattispecie di furto, siano asportati beni appartenenti a diversi
soggetti). Ovvero quando più azioni od omissioni rappresentano l’esecuzione di un medesimo
disegno criminoso (si parla in questo caso di reato continuato).
3. In presenza di una connessione teleologica: quanto si procede per più reati se gli uni sono stati
commessi per eseguire od occultare gli altri.
In presenza di una di queste cause di connessione, la competenza è assegnata ad un unico giudice
competente a giudicare tutti gli imputati e tutti i reati connessi. Ma per capire quale sia l’unico giudice
competente, bisogna fare riferimento a due situazioni: la prima è riguardo alla presenza di una
connessione di procedimenti che appartengono alla competenza per materia; mentre il secondo alla
competenza per territorio.
Nel primo caso si applica l’art. 15, che dice che «se alcuni dei procedimenti connessi appartengono alla
competenza della corte di assise ed altri a quella del tribunale, è competente per tutti la corte di assise»; dunque i
casi saranno attribuiti al giudice di competenza superiore. Per quanto riguarda la ripartizione all’interno
del Tribunale fra giudice monocratico e giudice collegiale, in caso di connessione la competenza spetta
sempre al giudice collegiale.
Nel secondo caso, invece, si applica l’art. 16 la competenza spetterà al giudice territorialmente competente
per il reato più grave (in caso di pari gravità dei reati, prevale il giudice competente per il reato commesso
per primo). Se non è possibile determinare il luogo in cui è stato commesso il reato più grave, la
competenza spetterà al giudice del luogo in cui è stato commesso il reato che dopo il primo è
immediatamente più grave. Se per nessun reato è ancora possibile determinare il luogo di commissione,
si applicheranno i criteri suppletivi di cui all’art 9 comma 2 e 3.

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I criteri suppletivi elencati dall’art. 9 comma 2 (la competenza appartiene successivamente al giudice della
residenza, della dimora o del domicilio dell’imputato) e 3 (Se nemmeno in tale modo è possibile
determinare la competenza, questa appartiene al giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico
ministero che ha provveduto a iscrivere la notizia di reato nel registro) che devono essere applicati solo
dopo la non possibile competenza del luogo in cui è stato commesso il reato immediatamente più grave.

La connessione può investire anche procedimenti spettanti ad alcuni giudici ordinari e altri giudici
speciali (art. 13), verso i quali si applicherà una disciplina diversa a seconda del caso concreto.
Se alcuni dei procedimenti connessi appartengono a un giudice ordinario e altri a quelli della Corte
costituzionale, è competente quest’ultima; invece, fra reati comuni e reati militari, la connessione opera
soltanto quando il reato comune è più grave di quello militare, tenuto conto dei criteri previsti dall’art. 16,
comma 3 (i delitti si considerano più gravi delle contravvenzioni; fra delitti o fra contravvenzioni si
considera più grave il reato per il quale è prevista la pena più elevata nel massimo ovvero, in caso di parità
dei massimi, la pena più elevata nel minimo; se sono previste pene detentive e pene pecuniarie, di queste
si tiene conto solo in caso di parità delle pene detentive).

A questo punto una precisazione è d’obbligo: sebbene la competenza per connessione presupponga
normalmente la riunione dei procedimenti dinanzi ad un unico giudice, essa non è obbligatoria ma
facoltativa così come precisato dall’art. 17. In particolare la riunione è possibile a patto che essa non
determini un ritardo nella definizione dei singoli procedimenti.
La riunione dei procedimenti presenta senza dubbio dei vantaggi in termini di economia processuale, ma
ha anche dei punti di debolezza: si pensi al c.d. gigantismo delle carte processuali, all’enorme
proliferazione delle udienze preliminari, alla lentezza processuale determina dalla presenza di un elevato
numero di imputati.
Per questo motivo la legge riconosce al giudice la discrezionalità, con l’accordo delle parti, di separare le
cause precedentemente riunite, quando lo ritiene utile ai fini della speditezza del processo.
La separazione, invece, è obbligatoria: (1) quando nel corso dell’udienza preliminare viene accertato che
la posizione di uno degli imputati può essere decisa immediatamente, mentre quella di altri richiede
ulteriori accertamenti istruttori; (2) quando per uno degli imputati è stata disposta la sospensione del
procedimento; (3) quando il difensore di uno degli imputati non comparare al dibattimento per mancato
avviso o legittimo impedimento; (4) quando per uno degli imputati stanno scadendo i termini per la
custodia cautelare, ed è necessario decidere con urgenza le questioni che lo riguardano per evitare la
scarcerazione automatica ecc.

La competenza funzionale
Tale tipo di competenza attiene alla ripartizione dei compiti ai quali devono assolvere i diversi giudici in
relazione allo sviluppo del procedimento e riflette i suoi effetti direttamente sull’idoneità specifica
dell’organo giurisdizionale all’adozione di un determinato provvedimento. Per esempio, la competenza a
decidere sulla richiesta di applicazione delle pena, proposta dopo la notifica del decreto di giudizio
immediato, è del giudice per le indagini preliminari che ha la disponibilità del fascicolo processuale.
Con essa si fa riferimento all’attribuzione in via esclusiva di una specifica funzione giurisdizionale ad un
determinato organo o ad un singolo magistrato: in questo senso la competenza è stabilita in relazione ad
uno specifico procedimento e in ragione del singolo atto che nel suo contesto e complesso iter
d’accertamento richiede di compiere (sono le direttive istituzionali a stabilire se un determinato
provvedimenti rientri nella sfera delle attribuzioni o meno del singolo giudice). L’esempio che si può fare

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è questo: la competenza a decidere sulla richiesta di applicazione della pena, proposta dopo la notifica del
decreto di giudizio immediato, è del giudice per le indagini preliminari che ha la disponibilità del fascicolo
processuale.

Il difetto di giurisdizione, di competenza e i relativi conflitti


Il difetto di giurisdizione (art. 20) può verificarsi in tre diverse ipotesi che possono essere così riassunte:
1. Quando il giudice penale esercita poteri che non spettano al potere giudiziario (ad es. adotta una
legge): in tal caso l’art. 606 c.p.p. prevede la possibilità di ricorrere alla Corte di Cassazione.
2. Quando il giudice ordinario giudica una materia rientrante nella giurisdizione di un giudice
speciale (come quello militare e la Corte costituzionale per i reati presidenziali) o viceversa: in questo
caso, ai sensi dell’art. 20 c.p.p., il difetto di giurisdizione potrà essere rilevato in ogni stato e grado del
giudizio.
3. Quando un giudice extrapenale giudica in una materia riservata al giudice penale: in questo caso la
Corte di Cassazione, con una sentenza adottata a sezioni unite nel 1999, ha qualificato il
provvedimento adottato da un giudice privo del potere di decidere in una determinata materia
giuridicamente inesistente.
In ogni modo il difetto di giurisdizione si verifica quando un procedimento appartiene alla cognizione di
un giudice appartenente ad un ordine diverso; essa può essere rilevata, anche d’ufficio, in ogni stato e
grado del procedimento.
Sono rilevabili due tipi: una assoluta (o forte), l’altra relativa (o debole). La prima quando qualsiasi organo
della giurisdizione penale (in questo caso) ne sia carente (è il caso dei soggetti coperti da immunità, come
il Presidente della Repubblica, i parlamentari, i consiglieri regionali e così via); la seconda quando il
giudice comune conosca una regiudicanda appartenente alla cognizione del giudice speciale o viceversa e
che comunque esiste un’autorità competente giurisdizionalmente diversa da quella inizialmente adita.
Al comma 2 soggiunge che, a seconda della fase del processo in cui si trova, il difetto di giurisdizione viene
rilevato diversamente: infatti nelle indagini preliminari esso assume la forma dell’ordinanza (con la quale
si dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero); mentre dopo la chiusura delle indagini
preliminari, il giudice emette una sentenza (e ordina la trasmissione degli atti al giudice munito di
giurisdizione).
Il difetto di competenza (art. 21), invece, sussiste nel momento in cui vengono violate le regole
(competenza per materia, per territorio, per connessione, funzionale) che ripartiscono la competenza fra i
diversi giudici penali ordinari, ossia c’è l’inosservanza dei criteri di ripartizione della competenza. È
possibile distinguere diverse ipotesi d’incompetenza, di cui si occupano gli artt. 21 e ss.
In primo luogo, l’incompetenza per materia, che è sempre rilevabile anche d’ufficio, sussiste quando il
processo viene celebrato da un giudice diverso rispetto a quello che, in base a quanto indicato dalla legge,
è competente per quella materia. É possibile distinguere due tipologie di incompetenza per materia:
1. L’incompetenza per difetto, che si ha quando la causa viene promossa dinanzi a un giudice inferiore
rispetto a quello competente (ad es. dinanzi al tribunale per le cause di competenza della Corte
d’assise). In questo caso l’incompetenza è sempre rilevabile («in ogni stato e grado del processo»), anche
d’ufficio;
2. L’incompetenza per eccesso, che si ha quando la causa viene promossa dinanzi a un giudice superiore
rispetto a quello competente: si tratta di un vizio meno grave, dal momento che il giudizio spetta a un
organo superiore, per questo l’incompetenza potrà essere rilevata fino all’apertura del dibattimento di
primo grado. Se non è dedotta in termini, la questione determina la perpetuatio iurisdictionis del giudice
indebitamente rivestito.

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Una particolare disciplina è prevista nella ripartizione interna al Tribunale della competenza (o meglio
dell’attribuzione) fra giudice monocratico e giudice collegiale. In questo caso sia alla violazione per
eccesso (che si ha quando la causa è stata proposta dinanzi al giudice collegiale nonostante la competenza
del giudice monocratico) sia alla violazione per difetto (che si ha nel caso opposto), si applica la regola per
cui l’incompetenza deve essere dedotta o rilevata d’ufficio nel corso dell’udienza preliminare (o in
mancanza in sede di questioni preliminari sono precluse se non sono poste per la prima volta subito dopo
l’accertamento della costituzione delle parti [art. 33-quinquies]) dopodiché diviene preclusa.
Le parti che hanno tempestivamente sollevato la questione, non accolta dal giudice, possono proporre
appello. Se il giudice di secondo grado ritiene il reato attribuito al giudice collegiale, annullerà la sentenza
del tribunale monocratico, trasmettendo gli atti al pubblico ministero (in difetto); se invece l’attribuzione
fosse in eccesso, la corte d’appello decide nel merito senza la regressione del procedimento (art. 33-octies).
In ultimo, l’inosservanza delle regole di attribuzione non determina l’invalidità degli atti del procedimento
né l’inutilizzabilità della prove (art. 33-nonies).
In secondo luogo, l’incompetenza per territorio (art. 21, comma 2) può essere dedotta sia dalle parti che
rilevata d’ufficio, fino alla chiusura della discussione dell’udienza preliminare ovvero entro il termine
di costituzione delle parti. Se una parte ha dedotto l’incompetenza nel corso dell’udienza preliminare e il
giudice non si è pronunciato, egli deve riproporre la questione, a pena di decadenza, all’apertura del
dibattimento.
In terzo luogo, l’incompetenza per connessione (le cui regole per l’incompetenza sono le medesime dei
criteri di ripartizione per territorio o per materia) ricorre quando vengono violati gli artt. 15 e 16. La legge
stabilisce che l’incompetenza per connessione deve essere rilevata entro gli stessi termini previsti per
l’incompetenza per territorio. Una disciplina condivisibile quando l’incompetenza per connessione
comporta una violazione delle regole sulla competenza territoriale, oppure quando l’errore determini la
competenza per materia del giudice superiore; non è invece accettabile qualora dal mancato rispetto della
regola di competenza per connessione consegua un’incompetenza per materia in difetto, con la
conseguenza che la questione risulterebbe rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del
procedimento, al fine di prevedere regole più garantistiche.
Quali sono le modalità con cui un giudice si dichiara incompetente?
 Se la questione relativa alla competenza viene posta nel corso della fase preliminare (art. 22), il giudice,
se si dichiara incompetente, lo farà per mezzo di un’apposita ordinanza con cui restituirà gli atti al
pubblico ministero. Questa disciplina trova giustificazione nel fatto che il giudice, in questa fase,
assume la veste di giudice ad acta (dato che il suo scopo è quello di adottare misure cautelari, di
garantire l’assunzione di determinate prove, di realizzare l’eventuale archiviazione ecc.). Nel caso in
cui il pubblico ministero reiterasse la richiesta di provvedimento al giudice dichiaratosi incompetente,
la situazione dovrà essere chiarita con un occhio all’art. 28 comma 2 (casi di conflitto).
 Se la questione sulla competenza viene proposta successivamente all’esercizio dell’azione penale e
dopo la chiusura delle indagini preliminari (artt. 22 e 23), il giudice andrà a dichiarare la propria
incompetenza con sentenza, e anche in questo caso rimettendo gli atti al pubblico ministero.
 Se la questione relativa alla competenza viene proposta dinanzi al giudice competente per l’appello
(art. 24), bisogna distinguere diverse ipotesi, a seconda che si parli di incompetenza per materia in
eccesso o in difetto:
- Se la questione riguarda un’ipotesi di incompetenza per materia in difetto, incompetenza per
territorio o per connessione, il giudice d’appello andrà ad annullare la decisione impugnata,
restituendo gli atti al pubblico ministero;

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- Se la questione riguarda un’ipotesi di incompetenza per materia in eccesso, il giudice d’appello


decide il merito della questione senza annullare la sentenza impugnata (comma 2);
 Se la questione sulla competenza viene proposta dinanzi alla Corte di Cassazione (art 25): essa
deciderà in modo vincolate per il processo in corso.
Per quanto riguarda gli effetti che vengono prodotti dalla declaratoria di incompetenza, di essi si
occupano gli artt. 26 e 27 per i quali (1) le prove già acquisite rimangono efficaci; (2) gli atti ripetibili
compiuti dal giudice incompetente per materia sono utilizzabili solamente nel corso dell’udienza
preliminare (questo limite non trova applicazione nel caso di contrasti relativi alla ripartizione di
competenza interna al tribunale fra giudice monocratico e giudice collegiale: in questo caso gli atti adottati
dal giudice incompetente potranno essere utilizzati nel corso di tutto il procedimento che si svolgerà
dinanzi al giudice competente); (3) le misure cautelati adottate dal giudice incompetente rimangono
provvisoriamente valide per i 20 giorni successivi alla trasmissione degli atti al giudice competente
(ultrattività), termine entro il quale il giudice stesso deve adottare un nuovo provvedimento cautelare.

Le questioni di competenza o di giurisdizione possono dar luogo a conflitti fra i diversi giudici (artt. 28 e
ss.).
In particolare, il conflitto di giurisdizione (relativo) attiene all’individuazione dell’organo giudicante se
corrisponde al giudice comune e speciale; mentre il conflitto di competenza attiene all’individuazione
dell’organo giudicante appartenenti alla medesima giurisdizione, in relazione della loro competenza per
materia o per territorio, sia essa originaria o determinata da connessione.
Il conflitto può sorgere in qualsiasi stato e grado del processo quando uno o più giudici ordinari e uno o
più giudici speciali contemporaneamente prendono o ricusano di prendere cognizione del medesimo fatto
attribuito alla stessa persona; ovvero quando due o più giudici ordinari contemporaneamente prendono
o ricusano di prendere in cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona sostenendo entrambi
la competenza o mancanza di giurisdizione; e può essere di due tipi:
1) Un conflitto positivo: quando due o più giudici ritengono di essere entrambi competenti (o di disporre
della giurisdizione) su una determinata questione.
2) Un conflitto negativo: quando due o più giudici ritengono entrambi di non essere competenti (o di
non disporre della giurisdizione) su una determinata questione.
Il conflitto potrà essere rilevato, ai sensi dell’art. 30 da uno dei giudici mediante ordinanza con la quale
vengono trasmessi, alla Corte di cassazione, gli atti necessari alla sua risoluzione; ovvero dalle parti (non
solo dalla parti private, ma anche dal pubblico ministero) con una denuncia che deve essere depositata
presso la cancelleria di uno dei giudici in conflitto, che poi verrà trasmessa da quest’ultimi alla Suprema
Corte. Né l’ordinanza né la denuncia hanno effetto sospensivo sui processi in corso. Allo stesso modo (art.
29) i conflitti cessano per effetto di un provvedimento di uno dei giudici che dichiara la propria
competenza o la propria incompetenza.
La risoluzione del conflitto è data dalla Corte di Cassazione che, ai sensi dell’art. 32, decide in camera di
consiglio con sentenza vincolante con cui stabilisce chi sia il giudice competente o che dispone della
giurisdizione sul caso sottoposto alla sua attenzione.
L’art. 28, al comma 2, disciplina i conflitti di competenza anche «nei casi analoghi». Con questa espressione
si fa riferimento alle ipotesi atipiche di conflitto da cui derivi una condizione di stasi o di blocco dell’attività
processuali direttamente collegabili al dissenso in ordina alla competenza ad emettere provvedimenti
necessari allo sviluppo del rapporto processuale.
I casi analoghi possono presentarsi sotto un profilo soggettivo e uno oggettivo, al di fuori di quelli
esplicitamente previsti al comma precedente. Riguardo al primo, essi nascono quando i contrasti

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coinvolgano anche organi giudiziali privi di giurisdizione; riguardo al secondo, quando i contrasti vertono
non sulla cognizione del medesimo fatto, ma sul compimento di un determinato atto processuale attribuito
alla sfera funzionale di uno degli organi dissidenti. Esula, per espressa disposizione di legge, l’eventuale
contrasto tra il giudice dell’udienza preliminare che abbia rinviato a giudizio e il giudice del dibattimento,
dal momento che «prevale la decisione di quest’ultimo».
Gli esempi che si possono fare sono, riguardo a quello soggettivo, quando il giudice chiede al pubblico
ministero di riformulare l’accusa; quanto a quello oggettivo, quando il giudice d’appello chiede al giudice
di primo grado di rivedere la sentenza emessa.

Capacità, incompatibilità al giudizio, di astensione, ricusazione e rimessione


Affinché un giudizio possa considerarsi valido ed efficace, è necessario che il giudice presenti alcune
caratteristiche fondamentali.
In merito alla capacità, che è intesa come l’idoneità all’esercizio delle funzioni giurisdizionali, l’art. 33 il
quale al comma 1 dispone: «le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i
collegi sono stabiliti dalle leggi di ordinamento giudiziario», con l’esclusione delle diposizione in tema di
funzionamento interno degli uffici giudiziaria, ma anche le regole attinenti la ripartizione degli affari
penali fra tribunale collegiale e monocratico.
La dottrina tradizionalmente distingue la «capacità di acquisto», comprensiva dei requisiti necessari per
assumere la qualità di giudice (cittadinanza italiana, laurea in giurisprudenza, godimento dei diritti civili,
ecc.), dalla «capacità di esercizio», che riguarda la sussistenza delle condizioni richieste per il legittimo
esercizio della giurisdizione (nomina, svolgimento del periodo di uditorato, ammissione all’esercizio delle
funzioni giurisdizionali). Quest’ultima si distingue in capacità generica, la quale si acquista con la nomina e
con l’ammissione alle funzioni e a seguito del superamento del concorso e del necessario periodo di
tirocinio, e in capacità specifica, che si riferisce alla regolare costituzione del giudice nell’ambito di un
determinato processo, prendendo in considerazione la competenza e le previsioni di carattere
dell’ordinamento giudiziario (come la decisione in tema di composizione numerica dei collegi).
La mancanza di capacità del giudice determina, ai sensi dell’art. 33, che gli atti adottati dal soggetto preso
in considerazione siano nulli, salvo le norme che presiedono alla regolare costituzione dell’organo
giudicante nell’ambito del singolo processo, quanto le regole poste a tutela dell’indipendenza e
dell’imparzialità del giudice.
Una parte della dottrina ha ritenuto necessario includere nelle ipotesi di incapacità anche la mancanza di
indipendenza e imparzialità del giudice (in modo da permettere che tali mancanze potessero essere
rilevate in ogni stato e grado del giudizio). La giurisprudenza consolidata, tuttavia, ha ritenuto preferibile
che le condizioni di indipendenza e imparzialità venissero tutelate attraverso gli istituti
dell’incompatibilità, dell’astensione, della ricusazione e della rimessione.

L’incompatibilità (artt. 34 e 35): tratta di una situazione che pregiudica l’imparzialità del giudice e che
perciò lo rende incapace di esercitare le sue funzioni giurisdizionali in un determinato processo. La
dottrina usa distinguere le ipotesi di incompatibilità in tre gruppi.
Il primo gruppo riguarda le ipotesi in cui il giudice, nello stesso procedimento, ha assunto dei ruoli che
devono rimanere distinti dalla funzione giudicante come il ruolo di pubblico ministero, difensore, procuratore
speciale di una delle parti, perito, consulente tecnico ecc. (art. 34, comma 3).
Il secondo gruppo riguarda le ipotesi di un rapporto di coniugio, parentela o affinità fino al secondo grado con i
giudici che hanno esercitato funzioni nello stesso procedimento (art. 35).

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Il terzo gruppo ricomprende quelle ipotesi in cui il giudice ha svolto funzioni giurisdizionali nello stesso
procedimento (art. 34, comma 1, 2, 2-bis, 2-ter, 2-quater). In questo caso si teme una mancanza di imparzialità:
il giudice, che si troverebbe condizionato dalla «forza delle prevenzione» – cioè quella naturale tendenza di
ogni individuo a mantenere un giudizio già espresso – sarebbe considerato incompetente nel momento in
cui abbia:
1. Pronunciato sentenza in un precedente grado di giudizio;
2. Emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare;
3. Adottato il decreto penale di condanna;
4. Disposto il giudizio immediato;
5. Rigettato la richiesta di patteggiamento prima dell’apertura del dibattimento;
6. Disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero perché il fatto era diverso da quello contestato ecc.
Inoltre, secondo il tenore dell’art. 34, comma 2-bis e 2-ter, il sistema della incompatibilità, inizialmente
calibrato sulla fase dibattimentale, deve ormai investire anche l’udienza preliminare. Infatti chi ha svolto
funzioni di giudice per le indagini preliminari non può, nel medesimo procedimento, emettere il decreto
penale di condanna né tenere l’udienza preliminare o partecipare al successivo giudizio, a meno che non
abbia compiuto atti che non abbiano implicato un pre-giudizio sul merito della regiudicanda (come
l’assunzione dell’incidente probatorio, i permessi per i detenuti, la restituzione nel termine, la
dichiarazione di latitanza).
Quanto riguarda invece atti compiuti all’interno di una medesima fase destinati ad essere assorbiti nella
pronuncia conclusiva, la Corte costituzionale ha enunciato il principio secondo cui l’imparzialità del
giudizio non è da ritenersi minata da una valutazione, anche nel merito, compiuta all’interno della
medesima fase del processo.

Quando ricorre un’ipotesi di incompatibilità, il giudice dovrà astenersi ovvero le parti potranno ricusarlo.
E l’astensione si può fondare anche sulle ulteriori condizioni dell’art. 36.
Oltre ai casi d’incompatibilità, l’astensione si può fondare anche sulle ulteriori condizioni dell’art. 36, per
le quali:
1. Se ha interesse nel procedimento o se alcuna delle parti private o un difensore è debitore o creditore di lui, del
coniuge o dei figli;
2. Se è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero se il difensore, procuratore
o curatore di una di dette parti è prossimo congiunto di lui o del coniuge;
3. Se ha dato consigli o manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dell’esercizio delle funzioni
giudiziarie;
4. Se vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti private;
5. Se alcuno dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è offeso o danneggiato dal reato o parte privata;
6. Se un prossimo congiunto di lui o del coniuge svolge o ha svolto funzioni di pubblico ministero;
7. Se si trova in taluna delle situazioni di incompatibilità stabilite dagli articoli 34 e 35 e dalle leggi di
ordinamento giudiziario;
8. Se esistono altre gravi ragioni di convenienza. La Corte Costituzionale ha precisato che questa formula
richiede una valutazione caso per caso della convenienza per cui il giudice si astenga dal
procedimento.
La dichiarazione di astensione è presentata al presidente dell’organo giudiziario cui appartiene il
magistrato, che decide con decreto de plano (senza formalità), che ne verifica i presupposti. Se l’astensione
proviene dal presidente del tribunale, su di essa si pronuncerà il presidente della Corte d’appello; se
l’astensione proviene dal presidente della Corte d’appello, su di essa si pronuncerà il presidente della

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Corte di cassazione; se l’astensione proviene dal Presidente della Corte di cassazione, non ci sarà alcuna
pronuncia dato che essa opererà motu proprio (cioè per la semplice astensione del presidente della suprema
corte).
Il decreto che accoglie l’astensione dichiara quali atti adottati dal giudice astenuto rimarranno efficaci. Da
quel momento l’astenuto non potrà più compiere alcun atto nel procedimento. Il giudice può essere
sostituito con un altro magistrato dello stesso ufficio.

Le parti possono ricusare il giudice (artt. 37 e ss.):


- Per gli stessi motivi che giustificano l’astensione (escluse le ragioni di convenienza);
- Quando il giudice, prima di pronunciare la sentenza, abbia manifestato indebitamente il proprio
convincimento sui fatti oggetti dell’imputazione;
- Quando chiamato a decidere sulla responsabilità penale dell’imputato, il giudice abbia espresso in un
altro procedimento (anche non penale) una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti dello stesso
soggetto.
I termini e le modalità per la proposizione della dichiarazione motivata e documentata sono disciplinati
dall’art. 38; la domanda, così, può essere proposta nell’udienza preliminare (fino a che non sono terminati
gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti) ovvero nel giudizio (entro i termini di cui all’art. 491).
In ogni caso prima del compimento dell’atto da parte del giudice.
Sulla domanda di ricusazione decide la Corte d’appello (a meno che la ricusazione non riguardi un giudice
della Corte d’appello, in tal caso deciderà una diversa sezione della Corte d’appello; la stessa regola vale
se viene ricusato un giudice della Corte di Cassazione).
La decisione avviene con ordinanza adottata nell’ambito di un procedimento camerale in cui, se è
necessario, vengono assunte ulteriori informazioni.
In attesa della pronuncia della Corte giudicante, il giudice ricusato non deve sospendere la sua attività
(salvo che la Corte disponga il tal senso, autorizzandolo a compiere solo gli atti urgenti). Al contrario in
caso di accoglimento della domanda di ricusazione, il giudice non potrà compiere nessun altro atto nel
procedimento, perché la Corte lo sostituirà stabilendo al contempo quali atti già posti in essere devono
rimanere efficaci. In particolare, se il giudice viola il divieto, e la ricusazione era stata accolta dalla Corte,
adotta sentenza o qualunque altro atto processuale, questi atti verranno colpiti da nullità assoluta; se il
giudice era stato solamente ricusato dalle parti e adotta sentenza, quest’ultima sarà colpita da nullità
solamente se la ricusazione viene successivamente accolta.

La rimessione del processo (artt. 45-49).


In ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del
processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al
processo ovvero la sicurezza o l’incolumità, o determino motivi di legittimo sospetto, la Corte di cassazione
rimette il processo ad altro giudice.
La rimessione del processo è prevista in tutti quei casi in cui l’imparzialità e l’indipendenza dell’organo
giudicante è condizionata dalle situazioni ambientali presenti nel luogo in cui, secondo le normali regole
della competenza territoriale, dovrebbe svolgersi il giudizio. In altri termini, ci deve essere un sereno ed
imparziale esercizio della giurisdizione, ma che può essere turbato da situazioni esterne al processo ed
estranee alla dialettica tra le parti. Esso non fa riferimento solo al giudice, inteso come persona fisica, ma
all’organo giudicante inteso come ufficio nel suo complesso.
Presenta un carattere di eccezione, implicando una deroga al principio costituzionale del giudice naturale,
comportando un trasferimento del giudice in una diversa sede giudiziaria.

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Ai fini della sua applicazione deve sussistere una grave situazione locale, tale da turbare la celebrazione
del processo e che non può essere eliminata (se non ricorrendo alla rimessione). Collegato a questa
condizione, si parla di legittimo sospetto: questa condizione deve infatti far riferimento alle gravi
situazioni locali e le conseguenze di queste. Legittimo sospetto inteso come quel ragionevole dubbio che
la gravità della situazione locale possa portare il giudice a non essere imparziale o sereno, dovendo
intendersi per imparzialità la neutralità e l’indifferenza del giudice rispetto all’esito del processo.
In particolare perché possa essere richiesta la rimessione, l’art. 45 richiede che sussistano gravi situazioni
locali, ovvero situazioni effettivamente esistenti e non eliminabili idonee a:
- Turbare lo svolgimento del processo;
- Pregiudicare la libera determinatezza delle persone che vi partecipano;
- Pregiudicare la sicurezza o l’incolumità pubblica;
- Determinare motivi di legittimo sospetto (così come introdotto dalla sentenza della Corte di cassazione
n. 248 del 2002).
Per assicurare il sereno svolgimento del processo, esso viene trasferito (mediante rimessione) ad una
diversa sede giudiziaria che si presume immune da condizionamenti ambientali.
È evidente che questo istituto finisce per compromettere il requisito della naturalità (anche se il giudizio
viene comunque predeterminata dalla legge sia nei presupposti (art. 45) che nella nuova individuazione
(art. 1 disp. att.), di cui all’art. 25 Cost., come detto precedentemente. Il legislatore, tuttavia, ha ritenuto
preferibile tutelare il regolare svolgimento del processo piuttosto che la naturalità.
Per quanto riguarda il procedimento con cui si realizza la rimessione del giudizio, la domanda di
remissione può essere proposta dall’imputato o dal pubblico ministero presso il giudice procedente in
ogni stato e grado del giudizio.
La decisione è presa dalla Corte di Cassazione in camera di consiglio (rito camerale), che può accogliere,
rigettare ovvero ritenere inammissibile la richiesta.
In attesa della pronuncia della Cassazione, l’art. 47 c.p.p. (effetti della richiesta) prevede la possibilità del
giudice di disporre con ordinanza la sospensione (tramite procedimento de plano, e non in camera di
consiglio per via della natura cautelare del provvedimento) del processo fino alla pronuncia della Suprema
corte. La stessa Cassazione potrà disporre con ordinanza la sospensione del procedimento.
Se la Cassazione accoglie la domanda rimetterà con ordinanza il processo ad un altro giudice, aventi pari
competenza per materia e sede presso il capoluogo di distretto della Corte d’appello, che verrà designato
applicando la disciplina di cui all’art. 11 c.p.p. (che si occupa dell’identificazione del giudice competente
per i procedimenti che riguardano i magistrati). Solo nel caso in cui si seguano i criteri predeterminati
dall’art. 11, il principio della precostituzione sarà salvaguardato. A questo punto il nuovo giudice
designato dalla Cassazione procederà alla rinnovazione degli atti compiuti anteriormente alla rimessione
(sempre che una parte lo richieda e sempre che non si tratti di atti per cui è divenuta impossibile la
ripetizione).
La richiesta può essere dunque ritenuta anche inammissibile, che può avvenire in mancanza dei requisiti
ex artt. 46 comma 1, 2 e 4 e 49, comma 2, ossia la mancanza della sottoscrizione dell’imputato o del suo
procuratore speciale, la mancata notifica alle parti della richiesta entro 7 giorni dal deposito, nonché
l’ipotesi di manifesta infondatezza della domanda.

L’accoglimento della richiesta di rimessione non preclude alle parti di richiedere ed ottenere un nuovo
trasferimento del processo (art. 49), che avviene in due ipotesi:

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1. La prima si realizza quando anche la nuova sede processuale si riveli inidonea per i motivi di cui
all’art. 45 c.p.p. In questo modo le parti possono richiedere la translatio iudicii ad un terzo giudice da
individuarsi sulla base del criterio ex art. 11.
2. La seconda è quella della restituzione della causa al giudice originariamente competente, in seguito
alla revoca dell’ordinanza di rimessione, in virtù del venire meno delle ragioni che l’hanno
determinata.

Il pubblico ministero

Il pubblico ministero è la parte pubblica alla quale è affidato principalmente il compito di esercitare
l’azione penale, ossia di formulare al giudice la domanda sulla quale quest’ultimo dovrà pronunciarsi. In
questo modo viene rispettato il brocardo ne procedat iudex ex officio, essendo un soggetto diverso a svolgere
l’accertamento del fatto commesso senza minare l’imparzialità e la terzietà del giudice.
L’articolo 112 della Costituzione dispone: «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale».
Obbligatorietà che però non comporta un esercizio dell’azione ad ogni notitia criminis, bensì solo qualora
non si riscontri una superfluità del processo; inoltre qualora si sia verificata la mancanza dei presupposti
che rendono doverosa l’archiviazione, che è il non-esercizio dell’azione penale in modo legittimo). Il suo
compito infatti è quello di esercitare l’azione penale, cioè di presentare al giudice la domanda in modo che
quest’ultimo possa pronunciarsi su di essa; in alternativa, se il pubblico ministero ritiene che la notizia di
reato sia infondata, procederà con l’archiviazione, impedendo il tal modo l’apertura della fase processuale.
A questo punto appare utile esaminare nel dettaglio che cosa intenda l’art. 50 quando parla di esercizio
dell’azione penale. Esercitare l’azione penale significa formulare l’imputazione che contiene un profilo
soggettivo – cioè l’identificazione dell’imputato – un profilo oggettivo – cioè la descrizione spazio-
temporale del fatto e la sua qualificazione come reato – e gli elementi accidentali – in particolare le
eventuali circostanze aggravanti.
Il momento in cui il pubblico ministero esercita l’azione penale è un momento fondamentale in quanto
rappresenta lo spartiacque fra la fase delle indagini preliminari e la fase processuale.
Per quanto riguarda quelle che sono le caratteristiche fondamenti dell’azione penale, esse possono essere
riassunte
In primo luogo, l’obbligatorietà per la quale, ai sensi dell’art. 112 della Costituzione il pubblico ministero
è obbligato ad esercitare l’azione penale e si traduce nella legalità dell’azione e per l’azione. Costituisce
la realizzazione dei valori della legalità sostanziale (artt. 25, comma 2 Cost. e 101, comma 2 Cost.) e della
eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.).
Questa norma, in realtà, non vuole obbligare il pubblico ministero a formulare l’imputazione ogni qual
volta gli venga presentata una notizia di reato (notitia criminis). Il suo compito, infatti, è quello di scegliere
fra l’esercizio dell’azione penale e archiviazione, sulla base di criteri oggettivi formulati dalla legge (chiara
applicazione del principio di legalità) e non sulla base di scelte discrezionali (che potrebbero minare
l’uguaglianza di tutti i cittadini).
Al fine di rendere effettivo il principio dell’obbligatorietà nell’azione occorre apprestare adeguati
meccanismi di controllo anche sulla legalità dell’inazione. Dunque, sussistono due criteri oggettivi, che
possono essere utilizzati per valutare se il pubblico ministero ha correttamente esercitato l’azione penale
(ovvero non l’ha esercitata, preferendo l’archiviazione):
- Il principio della completezza delle indagini preliminari: il pubblico ministero potrà legalmente
decidere di esercitare l’azione penale, solamente se le indagini preliminari sono state caratterizzate da

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una completa individuazione delle fonti e degli elementi di prova su cui basare l’imputazione ovvero
l’archiviazione;
- Il principio di non superfluità del processo: il pubblico ministero potrà esercitare l’azione penale
solamente se il processo può dirsi non superfluo. Si devono valutare gli elementi acquisiti nel corso
delle indagini non nell’ottica dell’esito finale processo, ma per la loro idoneità a sostenere l’accusa in
giudizio. Dunque, l’inazione si configurerebbe qualora «l’accusa è insostenibile e la notizia di reato è, sul
piano processuale, infondata». In questo caso il pubblico ministero dovrà optare per l’archiviazione;
In secondo luogo, l’indipendenza, la quale comporta che nessuno possa interferire sul promovimento o
meno dell’azione. Nell’esercitare l’azione penale (o nel preferire l’archiviazione) il pubblico ministero deve
essere indipendente rispetto ad ogni altro potere ed essere soggetto soltanto alla legge. Il pubblico
ministero è una parte processuale che non può essere ricusata dalle altre parti, anche se su di lui incombe
il dovere di imparzialità che viene garantito dalle norme in tema di astensione; infatti, ha la facoltà di
astenersi qualora esistono gravi ragioni di convenienza (e nel caso in cui non lo facesse potrebbe essere
sostituito dal capo dell’ufficio);
In terzo luogo, l’irretrattabilità per cui una volta esercitata l’azione penale, essa è irretrattabile; in altre
parole, il pubblico ministero, una volta che ha deciso di esercitare o di non esercitare l’azione penale, non
potrà tornare indietro sulla sua scelta. Ciò non significa, tuttavia, che nel corso delle fasi successive del
processo il pubblico ministero non possa mutare la propria opinione, richiedendo l’assoluzione
dell’imputato;
Ma ancora, l’indivisibilità esprime il concetto per cui il pubblico ministero nell’esercitare l’azione penale
deve agire contro tutti coloro che abbiano commesso il reato; poi c’è la pubblicità, con la quale il pubblico
ministero, quando esercita l’azione penale, agisce quale titolare di un organo pubblico che persegue
l’interesse generale della collettività, procedendo alla repressione dei reati; e in ultimo, l’officialità per cui
Il pubblico ministero, quando esercita l’azione penale, adempie alla sua specifica funzione.

Com’è strutturato l’ufficio del pubblico ministero? Il pubblico ministero svolge le sue funzioni attraverso
l’inserimento all’interno di uffici che prendono il nome di procure della Repubblica (una procura è istituita
presso il tribunale, una procura generale presso la Corte d’appello; la procura generale delle Repubblica è
istituita presso la Corte di Cassazione).
Una disciplina particolare è prevista nei procedimenti penali di competenza della Corte Costituzionale
(incaricata di giudicare il Presidente della Repubblica per i reati di alto tradimento e attentato alla
Costituzione): in questo caso la funzione di pubblico ministero è esercitata da uno o più commissari
appositamente nominati dal Parlamento.
Le procure della Repubblica sono organizzate al loro interno su base gerarchica. Al vertice di questa
piramide gerarchica si trova il procuratore della repubblica. Egli è il titolare esclusivo dell’azione penale
(dominus) e la esercita personalmente (agendo in qualità di pubblico ministero), ovvero assegnando tale
compito ad uno o più magistrati del suo ufficio, che dovranno attenersi ai criteri indicati dal procuratore
della Repubblica nell’atto di assegnazione.
La superiorità gerarchica (detta «attenuata») del procuratore della repubblica è dimostrata, inoltre, dalla
sua necessaria autorizzazione per l’adozione di misure cautelari (personali o reali) da parte dei magistrati
da lui incaricati. La giurisprudenza, tuttavia, ha attenuato il rigore di questa norma disponendo che il
mancato consenso comporta solamente delle sanzioni disciplinari, non compromettendo la validità della
misura cautelare (in un certo senso è andata a svuotare la norma della sua disciplina garantista).
Per quanto riguarda la possibilità del procuratore della Repubblica di revocare l’assegnazione compiuta
nei confronti dei magistrati appartenenti al suo ufficio, è possibile se non ancora è iniziata la fase processuale,

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il procuratore potrà revocare l’assegnazione ogni qual volta ravvisi un mancato rispetto dei criteri indicati
nell’atto di assegnazione; ovvero se invece è iniziata la fase processuale, la sostituzione del magistrato
incaricato è possibile solamente con il suo consenso ovvero in presenza di grave impedimento, di rilevanti
esigenze di servizio o di cause di incompatibilità (quali l’interesse del pubblico ministero nel
procedimento; il legame del pubblico ministero con una delle parti ecc.). In quest’ultimo caso la
sostituzione è obbligatoria; se non vi provvede il procuratore competente, interverrà il procuratore
generale presso la Corte d’appello (si tratta di una tipica ipotesi di avocazione).
Se le procure al loro interno sono organizzate gerarchicamente in modo attenuato, non si può dir lo stesso
riguardo al rapporto gerarchico fra i diversi uffici, dal momento che le procure «superiori» intervengono
in alcuni casi previsti dalla legge: (1) La procura generale presso la Corte di Cassazione, che interviene
per risolvere i contrasti fra le procure collocate in diversi distretti della Corte d’appello; (2) La procura
generale presso la Corte d’appello, che ha il compito di controllare il corretto esercizio dell’azione penale
da parte delle procure istituite presso i Tribunali, il rispetto delle norme sul giusto processo e
sull’organizzazione interna. Detta procura ha, inoltre, il compito di avocare a sé il procedimento
(sostituendosi all’organo inferiore, cioè alla procura del Tribunale) nei casi tassativamente previsti dalla
legge.
Infine per quanto concerne l’identificazione della procura della Repubblica competente a svolgere la
funzione di pubblico ministero, normalmente ciò avviene tenendo conto dell’inserimento delle procure
all’interno degli organi giurisdizionali. Per cui si applicheranno le normali regole per la determinazione
della competenza dei giudici e ciò, di conseguenza, determinerà anche la competenza delle procure (ciò
vuol dire che se per la causa è competente il tribunale, la funzione del pubblico ministero sarà esercitata
dal procuratore della repubblica presso il Tribunale ecc.).
Vi sono tuttavia delle eccezioni, si pensi come esempio:
a) Ai delitti di criminalità organizzata, ai delitti con finalità di terrorismo, a delitti di pedopornografia: in
questo caso la funzione di pubblico ministero, nonostante la competenza in primo grado del Tribunale, è
esercitata dal procuratore della direzione distrettuale antimafia presso il distretto della Corte d’Appello
all’interno della quale si trova il giudice competente. Si tratta di una competenza per materia accentrata,
che va a derogare le normali regole di competenza territoriale.
b) Molto particolare è, inoltre, la direzione generale antimafia istituita presso la Corte di Cassazione e
presieduta dal procuratore nazionale antimafia. Detto procuratore svolge un’attività di coordinamento fra
le varie direzioni distrettuali antimafia, avocando a se le indagini nelle quali registra un’ingiustificata
inerzia ovvero una violazione del dovere di coordinamento fra le varie procure distrettuali.
Cosa s’intende con competenza investigativa? Tale tipo di competenza chiama il pubblico ministero a
svolgere le sue funzioni requirenti.
Al contrario, quando si è ancora nella fase delle indagini preliminari, il legislatore ha preferito garantire
una maggiore libertà ai pubblici ministeri, che possono liberamente svolgere la loro attività investigativa
anche al di fuori del normale territorio di competenza della procura cui appartengono (non c’è nessuna
cristallizzazione della competenza per territorio o per materia, consentendo a ogni procura di indagare su
qualunque fatto). Dunque, è possibile che ci siano indagini paralleli e di conseguenza, questa disciplina,
potrebbe dar luogo a dei contrasti fra pubblici ministeri. È possibile distinguere due tipologie di contrasti:
1. Un contrasto negativo (art. 54), che si verifica quando un pubblico ministero, ritenutosi incompetente,
ha trasmesso gli atti ad un altro pubblico ministero il quale a sua volta si ritiene incompetente. Come
procedere?
In questo caso, se il contrasto sorge fra procure che appartengono allo stesso distretto, per la
determinazione della competenza, interviene il procuratore generale presso la Corte d’appello; ovvero

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interviene il procuratore generale presso la Corte di cassazione, se il contrasto sorge fra procure che
appartengono a distretti diversi;
2. Un contrasto positivo (art. 54-bis), che invece si verifica quando più procure indagano su di uno stesso
fatto e richiedano alle altre procure la trasmissione degli atti ritenendo ognuna competente. Nel caso
ci sia un contrasto tra le procure, tale viene risolto tramite la Corte d’appello ovvero la Corte di
cassazione (a seconda che il contrasto sia interno al distretto o esterno).
Una volta che viene risolto il contrasto, attraverso la designazione dell’inquirente competente, con
l’assegnazione della competenza ad un solo p.m., gli atti di indagine compiuti precedentemente dalle altre
procure rimangono validi e utilizzabili.
È possibile, inoltre, che la questione relativa alla competenza del pubblico ministero non derivi da un
contrasto, ma da un’istanza presentata dalle parti (dall’indagato, dalla persona offesa e dai rispettivi
difensori), i quali, ritenendo che il reato appartenga alla competenza di un diverso pubblico ministero (più
correttamente, di un giudice diverso da quello presso il quale il pubblico ministero che procede esercita le
sue funzioni), possono chiedere la trasmissione degli atti all’organo competenza motivando le ragione a
sostegno della richiesta (art. 54-quater).
L’istanza, con cui viene richiesto che gli atti siano trasmessi ad un altro p.m. ritenuto competente, deve
essere dunque motivata e indirizzata al pubblico ministero che sta svolgendo le indagini, il quale deciderà
entro 10 giorni. Se si dispone l’accoglimento, ci sarà la trasmissione degli atti alla procura competenze; se,
invece, si rigetta l’istanza di parte, la parte può presentare la stessa istanza al procuratore generale presso
la Corte d’appello, ovvero al procuratore generale presso la Corte di cassazione (a seconda che le due
procure siano interne o esterne al distretto).
Entro 20 giorni dal deposito della richiesta, il procuratore generale provvede alla determinazione della
competenza con decreto motivato alle parti e agli uffici interessati. Gli atti di indagine rimangono
comunque validi e utilizzabili.

In base a quanto dispone l’art. 109 Cost. «il pubblico ministero dispone direttamente della polizia giudiziaria,
che lo coadiuva nello svolgimento delle indagini».
La polizia giudiziaria non è un corpo di polizia a sé, ma è una funzione attribuita agli appartenenti delle
forze dell’ordine in generale, che quindi comprendono la Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Carabinieri.
A riguardo merita di essere preso in considerazione l’art. 55 comma 1 (rubricato – appunto – «funzioni
della polizia giudiziaria), il quale dispone che i soggetti investiti di tale funzione devono, anche di propria
iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenza ulteriori, ricercarne gli autori,
compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione
della legge penale.
Sotto la luce di tale articolo si riconosce che il discrimine tra la polizia di sicurezza e quella giudiziaria è
rappresentato dalla notizia di reato, e quest’ultima dispone anche di poteri coercitivi tipici della funzione
giudiziaria.
Per questo motivo si dice che i membri della polizia giudiziaria sono vincolati da due rapporti di
dipendenza: l’uno un rapporto di dipendenza organica (cioè dal corpo di polizia cui appartengono); l’altro
un rapporto di dipendenza funzionale (cioè dal pubblico ministero che dirige e coordina l’attività
d’indagine).
Quest’ultimo tipo di dipendenza è più stretta a seconda che si faccia rifermento alle sezioni di polizia
giudiziaria istituite presso le procure della Repubblica (che hanno – appunto – composizione interforze,
Carabinieri, Polizia di Stato, ecc.) e quelle invece incardinate presso i corpi di appartenenza che si

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rapportano al pubblico ministero tramite i loro dirigenti. Anche questi sono tenuti ad eseguire i compiti
dettati dal pubblico ministero.
Questa disciplina della polizia giudiziaria, al contempo dipendente dalla magistratura ma non affidata ad
un corpo autonomo di polizia, è stata criticata da alcuni i quali hanno sottolineato la possibilità che la
polizia giudiziaria incida sugli equilibri costituzionali: in particolar modo fungendo da filtro tra le notizie
di reato raccolte e quelle tramesse al pubblico ministero (con una chiara violazione dell’obbligatorietà
dell’azione penale). Per questo, alcuni, hanno ritenuto necessario introdurre una riforma che garantisse la
piena dipendenza della polizia giudiziaria dalle procure.
Per quanto riguarda le funzioni della polizia giudiziaria, essi devono, anche di propria iniziativa:
 Prendere notizia dei reati;
 Impedire che essi possano essere portati a conseguenza ulteriori, ricercarne gli autori;
 Ricercare le prove necessarie e tutti gli elementi necessari all’applicazione della legge penale e in
generale alla repressione dei reati.

L’imputato

L’imputato è soggetto che diventa tale nel momento in cui viene esercitata l’azione penale da parte del
p.m., distinguendolo dal termine di indagato, in riferimento a colui che invece è solo sottoposto alle
indagini e non è ancora stato rinviato a giudizio. In ogni modo, nonostante questa distinzione
terminologica, l’art. 61 dispone che all’indagato e all’imputato devono essere riconosciuti gli stessi diritti
e le stesse garanzie (estensione dei diritti e delle garanzie dell’imputato).
L’imputato assume tale qualificazione (art. 60, comma 1) quando gli è attribuito il reato nella richiesta di
rinvio a giudizio (formulazione dell’imputazione), di giudizio immediato, di decreto penale di condanna,
di applicazione della pena con il consenso, nel decreto di citazione diretta a giudizio e nel giudizio
direttissimo. E la conserva in ogni stato e grado del processo, fino a che il processo non si chiude con una
sentenza definitiva (comma 2); inoltre, la riacquista nel caso in cui il processo si riapre in seguito a
revisione o a revoca della sentenza di non luogo a procedere (comma 3). Dunque la qualità di imputato è
geneticamente connessa alla pendenza del processo, al termine del quale la persona muterà la propria
connotazione soggettiva in quella di prosciolto ovvero di condannato.
L’imputato è parte necessaria del processo.
Se risulta la morte dell’imputato, in ogni stato e grado del processo il giudice, sentiti il pubblico ministero
e il difensore, il giudice pronuncia sentenza a norma dell’articolo 129 (obbligo della immediata declaratoria
di determinate cause di non punibilità). Al comma 2, soggiunge che la sentenza non impedisce l’esercizio
dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona, qualora successivamente si accerti
che la morte dell’imputato è stata erroneamente dichiarata. Questo perché i presupposti per l’assunzione
della qualifica di imputato corrispondono non solo ad un essere umano in vita, ma anche l’accertamento
della sua esistenza che deve permanere durante tutta la celebrazione del processo.
La concezione moderna dell’imputato ha permesso di superare i canoni tipici del processo inquisitorio in
cui l’imputato era considerato il principale strumento di prova da cui trarre le informazioni utili alla
soluzione della controversia. Oggi, invece, nonostante la possibilità che l’imputato (o meglio la sua
conoscenza) sia utilizzate come fonte di prova per la soluzione della causa (si pensi ad esempio alla
confessione o all’interrogatorio), la legge gli riconosce una serie di diritti. Il più importante di questi diritti
è quello di non collaborare in alcun modo alla propria condanna, e correlato ad esso, in primo luogo,
appare fondamentale la disciplina dell’interrogatorio.

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L’attuale disciplina dell’interrogatorio, contenuta negli artt. 64 e 65, è una chiara dimostrazione del
superamento dei canoni tipici del processo inquisitorio. Esso si divide tra interrogatorio preliminare, che
indica le formalità delle regole generali da espletare, e l’interrogatorio nel merito, che descrive le modalità
attraverso le quali l’autorità giudiziaria si rapporta con la persona sottoposta alle indagini.
All’interrogato, infatti, devono essere riconosciute una serie di libertà: fisica e morale.
La libertà fisica, di cui ci parla l’art. 64 comma 1, prevede che la persona interrogata interviene libera
all’interrogatorio, salve le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenze;
La libertà morale invece è intesa come libertà di ragionare senza condizionamenti, di non essere ingannati nel
corso dell’interrogatorio e di poter parlare in piena autonomia. Infatti non possono essere utilizzati, neppure
con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di
autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti, che, esemplificando, non
dovrebbero esservi dubbi sull’utilizzo di ogni forma di violenza fisica e psicologia e sui metodi pseudo-
scientifici atti ad ottenere dichiarazione dal soggetto. Stesse conclusioni dettate anche a riguardo della
macchina della verità, seppur sia un meno invasivo rispetto ad altri, perché finisce con il limitare
fortemente la libertà di determinarsi attraverso la pressione psicologica esercitata proprio dalla presenza
stessa della macchina che va a captare quei riflessi psichici e biologici indipendenti dalla volontà del
soggetto. Tutte le dichiarazione prese con tali metodi e strumenti sono sanzionate dalla pena
dell’inutilizzabilità ai sensi dell’art. 191.
La libertà morale trova – in sostanza – il suo fondamento costituzionale nella libertà di
autodeterminazione, costituzionalmente protetta dall’art. 2 della Costituzione.
Oltre alla Costituzione, anche il diritto internazionale garantisce la libertà morale. Si pensi alla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che vieta pene e trattamenti inumani), alla Convenzione
internazionale contro la tortura (definita dall’art. 1 come quell’insieme di atti mediante i quali viene inflitto
dolore ad una persona per ottenere la sua confessione).

Il diritto di autodifesa, la presunzione d’innocenza e il nemo tenetur se detegere


Uno dei diritti fondamentali che viene riconosciuto all’imputato e all’indagato, non solo durante
l’interrogatorio ma, più in generale, durante l’intero procedimento penale è il diritto all’(auto)difesa,
inteso come un’incoercibile manifestazione dell’istinto di libertà, trovando così riconoscimento il principio
generale del nemo tenetur se detegere traducibile con l’affermazione «nessuno può essere costretto ad
autoaccusarsi». Si tratta di un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento e le sue violazioni
determinano la nullità dell’atto compiuto in suo spregio.
Tale diritto può manifestarsi in due modi: il primo è il diritto di autodifesa attivo e il secondo quello passivo.
In primo luogo, il diritto all’autodifesa passivo può trovare attuazione attraverso l’esercizio di diverse
facoltà: rimanendo in silenzio, esercitando il diritto a non autoincriminarsi non fornendo elementi in
proprio danno e rifiutare di essere interrogati dal giudice e dalle parti.
- Quanto riguarda il rimanere in silenzio (la c.d. recusatio respondendi) dinanzi alle singole domande o a
tutte le domande poste durante l’interrogatorio, questa facoltà può essere esercitata nella fase delle
indagini preliminari, in cui l’interrogato può rifiutarsi di rispondere alle domande del pubblico
ministero, ma naturalmente non può evitare l’instaurarsi dell’atto processuale deciso dall’autorità
giudiziaria (non così in sede di esame dibattimentale alla cui assunzione si procede per scelta
dell’imputato);
- Esercitando il diritto a non autoincriminarsi (ossia, non fornire elementi in proprio danno): tale diritto
viene riconosciuto a tutti coloro che prendono parte al procedimento, anche a quelli che non rivestono
la qualità di indagato o di imputato. Esso implica che nessuno di questi soggetti possa essere costretto

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a fornire risposte che potrebbero portare alla propria incriminazione e a maggior ragione per il
soggetto sottoposto a procedimento penale, quando le domande rivoltegli vertano su addebiti ulteriori
rispetto a quelli contestati. Consiste nella garanzia di non essere costretto a fornire risposte che
potrebbero aprire la via alla propria incriminazione.
L’art 63, che amplia la garanzia contro le autoincriminazioni, dispone al comma 1 che se un testimone,
una persona informata sui fatti, o un altro soggetto che partecipa al procedimento in una veste diversa
da quella di imputato ovvero di persona sottoposta ad indagini, rende dichiarazioni che contengono
indizi che potrebbero configurare un reato a suo carico, l’autorità procedente deve interrompere
l’esame, avvertendo il soggetto che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte delle indagini;
però le dichiarazioni indizianti precedenti l’avvertimento non possono essere utilizzate a carico di chi
le ha rese.
Il comma 2 dell’art. 63 continua precisando che queste dichiarazioni saranno inutilizzabili erga omnes
(dunque anche nei confronti di terzi), dal momento che solo un imputato o un indagato possono
fornire delle dichiarazioni che possano confermare gli elementi del reato di cui è indagato o imputato.
Invece sono utilizzabili le dichiarazioni riguardanti persone coinvolte dal dichiarante in reati diversi,
non connessi o collegati con quello o quelli in ordine ai quali esistevano fin dall’inizio indizi a suo
carico, poiché rispetto a questi egli si trova in una posizione di estraneità e può assumere la veste di
testimone. Non sono toccate dal vizio dell’inutilizzabilità anche quelle dichiarazioni favorevoli al
soggetto che le ha rese ed a terzi, chiunque essi siano, non essendovi ragione alcuna di escludere dal
materiale probatorio elementi che con quel diritto non collidono.
Ecco dunque che la determinazione della veste del dichiarante, da cui dipende l’operatività delle
garanzie sancite dall’art. 63, spetta al giudice il quale ha il potere di verificare l’attribuibilità della
notizia di reato alla qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazione vengano rese. Tuttavia, al
fine della declaratoria di inutilizzabilità, occorre dimostrare che a carico dell’interessato erano già
acquisiti indizi non equivoci di reità.
- Rifiutando di essere interrogati dal giudice o dalle parti.
In secondo luogo, il diritto all’autodifesa attivo, invece, prevede la possibilità dell’imputato di
interloquire nel processo per discolparsi con il giudice e con l’accusa, senza obblighi di verità. Riguardo a
questo punto assume importanza il mendacio.
Per quanto ancora riguarda il versante attivo dell’autodifesa, una delle più rilevanti manifestazioni è –
appunto – costituita dalla facoltà offerta all’inquisito di fornire il proprio apporto conoscitivo alla
ricostruzione fattuale senza sottostare agli obblighi di verità che caratterizzano la testimonianza. A questo
punto, correlatamente a quel diritto per cui nessuno può essere costretto ad autoaccusarsi, entra in gioco
la discussione sul mendacio e se bisogna riconoscere all’imputato questo diritto di mentire.
Inizialmente, la dottrina aveva concluso che l’imputato aveva l’onere di dire la verità, nel senso che
eventuali menzogne sarebbero state utilizzate come prove su cui il giudice avrebbe formato la propria
decisione. Diversamente l’orientamento attuale, per cui la dottrina maggioritaria ritiene che l’esercizio del
diritto attivo all’autodifesa implicherebbe anche la facoltà dell’imputato di mentire, come suo necessario
corollario (dovuto allo sviluppo dell’aspetto attivo dell’autodifesa). Non consentire all’imputato di
mentire, infatti, comporterebbe l’imposizione di un obbligo di verità, che legittimerebbe l’applicazione
degli strumenti coattivi volti ad ottenere la verità stessa. In questo modo, sul versante attivo dell’autodifesa
si viene ad integrare un diritto uguale a quella della facoltà di non rispondere sul versante passivo. I due
aspetti infatti sono autonomi e complementari.
La dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel sostenere che la facoltà di mentire trova una tutela
costituzionale del diritto attivo all’autodifesa, protetto dall’art. 24 Cost.

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La dottrina ne ha concluso che qualora la scelta di mentire avesse come scopo di perseguire
un’apprezzabile finalità di difesa, la condotta mendace dell’interrogato non sarebbe punibile, in quanto si
applicherebbe la scriminante dell’esercizio di un diritto costituzionale (il diritto alla difesa di cui all’art.
24) richiamata dall’art. 51 c.p.
Per quanto riguarda i limiti all’esercizio di questa facoltà di mentire, appunto per un configurare una vera
e propria facoltà di mentire, se ne individuano due, uno interno e l’altro esterno: il primo limite interno
consiste nella necessaria sussistenza di un collegamento fra la menzogna e lo scopo difensivo che vuol
essere perseguito attraverso essa; mentre quanto ai limiti esterni impone che la menzogna non vada a
ledere altri valori di rango costituzionale (ad es. il diritto costituzionale alla rapida conclusione del
procedimento penale o quello di calunnia ovvero quello di autocalunnia). Il problema è che questi scontri
si verificano di continuo e per questo, sia la dottrina che la giurisprudenza, hanno concluso che il diritto
all’autodifesa, essendo un diritto collocato al vertice dei valori costituzionali, deve considerarsi prevalente
rispetto alla maggior parte degli altri principi (fra cui anche quello che vuole una rapida conclusione del
procedimento) rendendo di fatto legittima la menzogna anche in caso di violazione di questi ultimi.
Il diritto di difesa è altresì da leggere sotto la luce del principio della presunzione di non colpevolezza
sancito dall’art. 27 comma 2 Cost. che pone a suo corollario il non obbligo collaborativo. Tale presunzione
opera quale regola di giudizio e di distribuzione dell’onere probatorio in capo alle parti. In particolare
grava sul pubblico ministero che «è tenuto a dimostrare tutti gli elementi della fattispecie criminosa, al di là di
ogni ragionevole dubbio», il quale ha l’obbligo – appunto – dell’onere della prova, che non comporta
necessariamente un onere di difesa. In questo senso l’imputato ha la più ampia libertà di scelta, alla luce
delle prova a carico prodotte dall’accusa, se fornire o meno prove a discarico, se cercare di confutare
l’addebito o invece limitarsi alla negativa. Ecco allora che il precetto costituzionale opera nell’ottica di
guardare all’indagato o imputato come un presunto non colpevole: vieta cioè all’autorità procedente di
coltivare anche solo un’aspettativa di collaborazione e qualsiasi obbligo in capo all’indagato o imputato di
collaborazione.

La disciplina dell’interrogatorio: i preliminari


L’attuale disciplina dell’interrogatorio, contenuta negli articoli 64 e ss. ed è possibile distinguere due fasi.
La prima fase sono i «preliminari dell’interrogatorio», che assumono particolare rilevanza quando
l’interrogatorio rappresenta il primo atto del procedimento al quale partecipa l’indagato. Nella fase
preliminare vengono compiuti, secondo un ordine prestabilito, determinati atti. È possibile distinguere
dunque diverse sotto-fasi:
La prima sotto-fase, con cui prendono avvio i preliminari ai sensi dell’art. 66 comma 1, prevede un invito
rivolto al pervenuto (cioè colui che è soggetto all’interrogatorio) dall’autorità procedente «a dichiarare le
proprie generalità e quant’altro possa valere a identificarlo, ammonendolo circa le conseguenze a cui si espone se si
rifiuta di fornire le proprie generalità ovvero le dà false». Per strette generalità si fa riferimento al nome,
cognome, data e luogo di nascita, così come individuate dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 108
del 1976. Le informazioni ulteriori rispetto alle strette generalità sono tassativamente indicate dall’art. 21
disp. att. (come per esempio se si chiede se l’interrogato ha un soprannome, beni patrimoniali, condizioni
di vita individuale, familiari e sociale e così via).
In questo frangente si nota la volontà di imporre all’interrogato l’obbligo di cooperare con l’autorità
procedente, sul presupposto che tali dichiarazioni non implicherebbero l’esercizio del diritto di difesa.
Dunque da un lato ci sono le dichiarazione di stretta generalità e dall’altro lato quelle informazioni ulteriori
utili all’identificazione. Si può mentire o rifiutare di rispondere in questi casi? La risposta è affermativa,
anche se all’imputato sarebbe richiesta un’attestazione veritiera circa i propri stretti indici di

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identificazione; ma nel caso in cui dovesse farlo rimarrebbe impunito qualora tali congegni risultassero
direttamente funzionali all’esercizio del diritto di difesa e perciò scriminati ai sensi dell’art. 51 c.p.; e il
medesimo discorso è fatto riguardo all’art. 21 disp. att. In merito va ricordato che in ogni modo l’autorità
procedente ha a disposizione tutti gli strumenti per verificare autonomamente i precedenti penali e i
procedimenti pendenti, senza il bisogno di dichiarazioni dell’indagato (come risulta dall’art. 66 bis).
A questo punto una precisazione è d’obbligo: la verifica dell’identità anagrafica dell’imputato non è
necessaria ai fini del procedimento, che infatti seguirà comunque il suo corso. È sufficiente, infatti, che la
persona contro cui si procede sia individuata fisicamente nel capo d’imputazione, anche a prescindere
dalla correttezza o meno dell’identità anagrafica. Questa distinzione fra identità fisica e identità anagrafica,
ci permette di distinguere due tipologie di errori che possono essere commessi durante il procedimento:
- Un errore sull’identità anagrafica: se nonostante l’identificazione fisica vi è un errore
nell’identificazione anagrafica (con conseguente attribuzione all’imputato o sospettato di errate
generalità), l’errore verrà rettificato d’ufficio dal giudice competenze ex articolo 130 e nelle indagini
preliminari con un provvedimento del pubblico ministero;
- Diversa è, invece, l’ipotesi in cui l’errore cade sull’identità fisica (con conseguente apertura del
procedimento nei confronti di un soggetto diverso rispetto a quello individuato dall’imputazione). In
questo caso l’imputato verrà estromesso dal processo, con successiva archiviazione dello stesso da
parte del pubblico ministero.
La seconda sotto-fase disciplina che, una volta che il pervenuto ha fornito le proprie generalità,
l’interrogato potrà nominare un difensore di fiducia. In caso contrario, l’autorità procedente nominerà
un difensore d’ufficio per assicurare il rispetto dell’articolo 24 della Costituzione.
La terza sotto-fase, che segna l’ultimo atto della scansione dei preliminari, afferma che dopo aver
nominato il difensore, il pervenuto è invitato a indicare il domicilio (o un altro luogo) presso il quale
verranno notificati gli atti che lo riguardano. In alternativa può eleggere il domicilio legale presso il suo
difensore.
Dopo aver proceduto all’identificazione dell’indagato limitatamente alle strette generalità, alla nomina del
difensore, della indicazione del domicilio ai fini delle notificazioni e dopo aver eventualmente provveduto
all’assunzione delle ulteriori notizie previste dall’art. 21 disp. att., devono essere presi in considerazione
gli avvertimenti al comma 3 dell’art. 64, per il quale, prima che abbia inizio l’interrogatorio, la persona
deve essere avvertita che: (1) le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti;
(2) che, salvo quanto disposto dall’articolo 66, comma 1, ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda,
ma comunque il procedimento seguirà il suo corso; (3) che se renderà dichiarazioni su fatti che
concernono la responsabilità di altri assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone, salve le
incompatibilità previste dall’articolo 197 e le garanzie di cui all’articolo 197-bis.
Il primo e il secondo avvertimento sono quelli della facoltà di non rispondere e che le dichiarazioni
dell’interrogato potranno essere utilizzate nei suoi confronti. In questo modo si rispetterebbe il dettato
normativo e, contestualmente, quella che permette all’inquisito di avere ben presenti portata e limiti dei
proprio obblighi di fronte alle domande dell’autorità procedente. Tali due punti assolvono una funzione
prettamente informativa rendendo edotto l’interrogato della facoltà di compiere scelte processuali
consapevoli e, al tempo stesso, favorendo le migliori condizioni psicologiche.
In ogni modo, l’avvertimento rivolto all’indagato che «le sue dichiarazioni potranno essere utilizzate contro di
lui, che ha facoltà di non rispondere alle domande che gli verranno poste e che, a prescindere dal suo silenzio, il
procedimento seguirà il suo corso (art. 64, comma 3 lett. a e b)» conclude la fase preliminare
dell’interrogatorio; e da quel momento inizia la fase di merito dell’interrogatorio. In tale affermazione
vengono illustrate le conseguenze sia del contegno omissivo (cioè che il procedimento seguitò il suo corso),

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sia del contegno collaborativo, nel senso che le dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei
confronti di chi le ha rese.
Per quanto riguarda le caratteristiche di questo avvertimento, non esiste una formula precisa che deve
essere usata per avvertire l’indagato del suo diritto a non prendere parte attivamente all’interrogatorio.
Qualora però gli avvertimenti non rispecchiassero i contenuti legislativamente stabiliti, le dichiarazioni
eventualmente rese dall’indagato sarebbero inutilizzabili. L’art. 64, comma 3 bis disciplina tale situazione
e sanziona con l’inutilizzabilità tale conseguenza non solo nel caso limite dell’omissione di tale tipo di
avvertimento, ma anche l’ipotesi in cui non siano state soddisfatte le esigenze informative imposte alle
lettere a e b del comma precedente (art. 64 comma 3). Per rilevare questa evenienza sarebbe consono alla
procedura verbalizzare e documentare le precise parole impiegate dall’autorità procedente nei confronti
dell’imputato, così da consentire e salvaguardare il diritto al silenzio (accertamento caso per caso). Da tale
concezione esula la prassi, nella quale si impiegano quasi sempre documenti informatici nei quali viene
spesso fatto firmare un foglio recante la dicitura «intendo rispondere», dimostrando in questo modo che
l’indagato era stato informato della facoltà di non rispondere.
L’avvertimento della facoltà di non rispondere è sempre stato oggetto di interpretazioni
giurisprudenziali diretta a limitarne la portata garantistica. Infatti, per quanto riguarda la giurisprudenza,
essa ha più volte ribadito che l’avviso della facoltà di non rispondere non condiziona l’intervento
dell’indagato. Da questa premessa la Corte di Cassazione ha concluso che l’omissione dell’avvertimento
della facoltà di non rispondere configura un’ipotesi di irregolarità e non di nullità. Tale tesi è sostenuta
per il fatto che l’art. 64 comma 3 non prescrive che l’inosservanza della disposizione causi una nullità, sia
perché la predetta inosservanza non rientra neppure nelle nullità di ordine generale di cui all’art. 178 non
riguardando l’intervento, l’assistenza e la rappresentazione dell’imputato. Questa interpretazione, però,
deve essere criticata, essendo in contrasto con le finalità dell’avvertimento più volte esposte. Infatti, la
riforma del 2001, in tema di attuazione dei principi del giusto processo, ha stabilito che l’inosservanza delle
disposizioni di cui all’art. 64, comma 3, lett. a e b, rende inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona
interrogata.
La dottrina ha accolto con favore questa disposizione normativa, criticandola tuttavia nella parte in cui
non limita l’inutilizzabilità alle dichiarazioni in malam partem (in altre parole la dottrina ritiene
eccessivamente dannoso e irragionevole per l’indagato che l’inutilizzabilità delle dichiarazioni sia estesa
anche a quelle favorevoli all’interrogato).
Una volta che l’indagato è stato avvertito del suo diritto a non rispondere, egli potrà dichiarare
immediatamente che non ha alcuna intenzione di collaborare con l’autorità che procede all’interrogatorio,
spiegando i relativi motivi. In questo caso tale scelta verrà utilizzata quale elemento di prova.

In seguito alla riforma del 2001, ai sensi dell’art. 64, comma 3, lett. c, l’indagato deve essere avvertito che
eventuali risposte su fatti concernenti la responsabilità altrui potranno avere per lui come conseguenza
l’assunzione del dovere testimoniare rispetto a tali fatti. Avvertimento funzionale alla possibile
trasformazione dell’imputato in testimone sul fatto altrui. In altre parole se l’imputato, nel corso
dell’interrogatorio, fornisce delle informazioni riguardanti una condotta criminosa altrui,
automaticamente assumerà la veste di testimone assistito.
Tale riforma limita le prerogative autodifensive dell’imputato quando questi decida di parlare sul fatto
altrui: infatti c’è il passaggio da accusato, che può far uso della facoltà di non rispondere o di mentire, a
quella di testimone, che invece ha l’obbligo di rispondere secondo verità, salvo ipotesi particolari previste
all’artt. 197 e 197 bis.

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Ma ci sono dei limiti all’applicazione. Tale articolo però non opera nel caso in cui le dichiarazioni si
riferiscano alla responsabilità di futuri o attuali coimputati del medesimo reato nello stesso procedimento o in
procedimenti connessi ex art. 12 comma 1 lett. a; infatti, non assumerà l’ufficio del testimone quando le sue
dichiarazioni, anche se dirette alla responsabilità altrui, riguardano gli stessi fatti che gli vengono
addebitati a titolo di concorso nel medesimo reato, cooperazione nel delitto colposo o determinazione
dell’evento mediante condotte indipendenti. Tale garanzia cade nel momento in cui il dichiarante, oramai
non più imputato, sia già stato prosciolto o condannato con sentenza irrevocabile.
Dunque l’avvertimento opererebbe soltanto nel caso di connessione debole o teleologica (art. 12 comma 1,
lett. c) e quelli di collegamento previsti dall’art. 371, comma 2, lett b.
L’assunzione di testimone su un fatto altrui avviene qualora ci sia una narrazione di accadimenti che si
presentano immediatamente integranti una condotta criminosa altrui; ma anche quelle circostanze che,
pur non integrando di per sé una fattispecie criminosa tipica, rispecchino alcuni elementi della condotta
criminosa tipica.
Affinché sorgano gli obblighi testimoniali, tuttavia, è necessario che i fatti narrati dall’imputato si
riferiscano ad una persona ben definita.
Gli obblighi testimoniali assunti previo avvertimento possono essere assunti sia nel corso del successivo
esame dinanzi al giudice in dibattimento o nell’incidente probatorio sia durante ulteriori atti condotti dagli
organi inquirenti. È da escludere, infatti, che la trasformazione avvenga nel corso dello stesso
interrogatorio in cui sono rese per la prima volta le dichiarazione sul fatto altrui.
L’omesso avvertimento comporta una duplice conseguenza: la prima, che le dichiarazioni rese
dall’indagato non avranno alcun effetto nei confronti del soggetto a cui si riferiscono (l’autore della
condotta criminosa); la seconda, che l’indagato non avrà l’obbligo di assumere la veste di testimone.

La contestazione dell’addebito e l’interrogatorio nel merito


Dopo aver formulato gli avvertimenti, l’autorità procedente deve (1) contestare all’interrogato, in forma
chiara e precisa – il fatto che gli è attribuito, (2) renderlo noto degli elementi di prova a carico, nonché (3)
delle fonti, sempre che ciò non pregiudichi lo svolgimento delle indagini.
L’interrogatorio nel merito, al pari dell’interrogatorio preliminare, può essere suddiviso in diverse sotto-
fasi.
La prima fase di merito prende avvio con la contestazione delle accuse mosse contro l’indagato (art. 65
comma 1). La contestazione dell’addebito si qualifica come una forma di imputazione preliminare, con cui
l’indagato viene informato delle accuse mosse contro di lui. Si tratta, in ogni caso, di un addebito
provvisorio, perché l’addebito definitivo si realizzerà con l’esercizio dell’azione penale da parte del
pubblico ministero.
Per quanto riguarda le modalità della contestazione dell’addebito, l’art. 65 al comma 1 dispone che
«l’autorità procedente deve contestare all’interrogato, in forma chiara e precisa, il fatto che gli è attribuito, rende
noti gli elementi di prova a suo carico, nonché le fonti, sempre che ciò non pregiudichi lo svolgimento delle
indagini».
Quanto riguarda l’espressione in forma chiara e precisa, sta a significare – rispettivamente – che l’autorità
procedente non può limitarsi ad elencare le accuse mosse contro l’indagato, dovendo altresì fornire
integralmente i dati raccolti fino a quel momento e descrivere il fatto-reato sotto ogni aspetto; inoltre questi
due elementi sono imposti anche dall’art. 6, par. 3, lett. a della C.e.d.u. che prevede in favore di ogni
accusato il diritto di essere informato in una lingua a lui comprendibile e in modo dettagliato, della natura
e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico. L’informativa circa i contenuti dell’accusa deve essere inviata
nel più breve tempo possibile (art. 11, comma 3 Cost.).

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Quanto invece al rendere noti gli elementi di prova a carico dell’accusato, nonché le relative fonti da cui
provengono queste prove, l’informativa sussiste sempre che non sussistano fondati motivi di riservatezza
al fine di non pregiudicare la prosecuzione delle indagini (come la possibilità di un inquinamento di
prove). Non è prevista, al contrario, la comunicazione obbligatoria degli elementi a discarico: motivazione
consona al fatto di evitare che l’imputato modelli le sue dichiarazioni su ciò che altri hanno affermato in
suo favore.
L’autorità procedente dovrà contestare l’addebito all’apertura della fase di merito dell’interrogatorio,
anche quando in precedenza l’indagato aveva già dichiarato di avvalersi della facoltà di non rispondere:
infatti l’accusato deve essere comunque reso edotto dell’addebito mosso nei suoi confronti.
È necessaria una contestazione completa e precisa: è vietato l’aggiramento dell’autorità procedente
facendo riferimento per relationem ad atti dai quali si potrebbe trarre il medesimo contenuto informativo,
allontanando una possibile dubbia comprensione delle accuse. Ma c’è un’eccezione: infatti in caso di
urgenza a causa di una serie di interrogatori in un lasso di tempo ristretto, per esigenze di ragionevole
durata dell’atto, si potrebbe considerare sufficiente ripetere sola contestazione chiara e precisa del fatto,
ammettendo che l’indicazione degli elementi e delle relative fonti di prova avvenga attraverso un rinvio
per relationem a quanto esposto nel primo interrogatorio.
L’omessa contestazione dell’addebito, l’errata contestazione o semplicemente la mancata indicazione
degli elementi costituitivi del reato o delle fonti di prova, comporta la nullità dell’interrogatorio; inoltre
non è possibile procedere a una contestazione parziale, con riserva di completarla nel corso
dell’interrogazione mano a mano che si succedano le dichiarazioni dell’interrogato.
La seconda fase, ossia una volta contestato l’addebito (litis contestatio), all’interrogato sarà riconosciuto il
diritto di parlare ex art. 65 comma 2, così da permettergli di esporre «quanto ritiene utile per la sua difesa».
Si introduce uno spazio in cui l’indagato, se vuole, può liberamente esplicare l’autodifesa attiva, non solo
discolpandosi, ma anche fornendo nuovi fatti e circostanze a proprio favore su cui poi il pubblico ministero
dovrà svolgere adeguate indagini, ovvero non fornendo nessun elemento conoscitivo.
A questo punto (terza fase), una volta che l’interrogato ha esercitato il suo diritto all’autodifesa, l’autorità
procedente comincerà l’interrogatorio in senso stretto (che dovrebbe dunque svolgersi, in senso
cronologico, con la contestazione dell’addebito e discovery – è l’emergere di elementi probatori funzionali
alla decisione finale in sede dibattimentale –, versione difensiva dell’indagato e poi le domande da parte
di chi conduce l’interrogatorio).
L’interrogatorio dell’indagato deve essere documentato all’interno di un verbale (art. 65, comma 3), nel
quale deve farsi espresso riferimento all’eventuale rifiuto di rispondere manifestato dall’interrogato. Nel
verbale possono, inoltre, essere indicate le caratteristiche fisiche dell’indagato e le caratteristiche
linguistiche. Per gli interrogatori compiuti fuori dall’udienza nei confronti di indagati che si trovano in
stato di detenzione, il verbale sarà redatto mediante riproduzione fonografica o audiovisiva.
In ultimo, occorre ricordare che solamente l’interrogatorio e gli istituti analoghi (come l’esame
dibattimentale o le dichiarazioni spontanee) sono gli unici strumenti idonei a introdurre nel processo le
conoscenze dell’accusato. Per garantire ciò la legge ha previsto una serie di divieti:
1. Il divieto, ex art. 62, che le dichiarazioni rese dall’imputato nel corso del procedimento, vadano a
formare oggetto di testimonianza;
2. L’inammissibilità della testimonianza resa da membri della polizia giudiziaria che, agendo sotto
copertura, hanno svolto dei colloqui con soggetti indagati (mantenendo segreta la propria identità).
Ammettere tale testimonianza significherebbe legittimare una sorta di «interrogatorio mascherato».

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Il difensore

Il diritto di (auto)difesa tecnica comporta il diritto dell’imputato o indagato di nominare un difensore che
andrà ad affiancarlo nel corso del procedimento, per assisterlo e rappresentarlo ampliando in questo modo
le garanzie del procedimento. Il difensore è un soggetto abilitato alla funzione di avvocato che si affianca
all’imputato per assisterlo e rappresentarlo.
La difesa tecnica è una garanzia indisponibile, ossia irrinunciabile (in caso contrario l’autorità
procedente, provvederà a nominare un difensore d’ufficio ex art. 97), nemmeno quando l’imputato abbia
una sufficiente preparazione giuridica. Il difensore allora nominato avrà il potere di compiere per conto
del suo assistito gli atti che il codice non riserva alla parte in prima persona (tramite rappresentanza ad litem).
Per legge ciascun imputato ha diritto a nominare fino a un massimo di due difensori di sua scelta, che
verranno definiti «difensori di fiducia». In realtà l’imputato potrà farsi assistere da un numero illimitato
di difensori, tuttavia solamente due potranno comparire sulla scena processuale.
Per quanto riguarda i compiti che verranno assolti dal difensore nell’esercizio del suo mandato: egli, ai
sensi degli artt. 99, ha infatti il potere di compiere tramite procura ad litem, per conto del suo assistito, tutti
gli atti che secondo il codice non debbono essere compiuti dalla parte in prima persona. Per questi ultimi
(si pensi ad esempio alla remissione della querela o alla richiesta di patteggiamento), il difensore dovrà
munirsi di una procura speciale, che gli consente di agire in nome e per conto del rappresentato.
L’imputato può comunque togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all’atto compiuto dal
difensore prima che, in relazione all’atto stesso, sia intervenuto un provvedimento del giudice (comma 2).
Vi sono poi atti personalissimi per i quali non è prevista la rappresentanza volontaria, ma solo l’assistenza
del difensore (come l’interrogatorio).

Come si nomina un difensore? Si tratta di un atto a forma libera, che può essere una dichiarazione scritta
o orale, consegnata all’autorità procedente dall’imputato o direttamente dal difensore. Se l’interessato si
trova in uno stato di privazione della libertà (arresto, fermo, custodia cautelare), la nomina del difensore
potrà essere operata da un prossimo congiunto (art. 96, comma 3).
Una volta che il difensore di fiducia è stato nominato potranno verificarsi due distinti eventi: il primo è
quello dove il difensore rifiuta la nomina, e in questo caso il rifiuto ha effetto solamente da quando esso
viene portato a conoscenza dell’autorità procedente; il secondo è quando il difensore rinuncia al mandato
dopo averlo accettato, e in questo caso sul difensore grava l’onere di comunicare tempestivamente la
rinuncia alla parte e all’autorità procedente (che, tuttavia, non produce effetto finché l’imputato non sia
assistito da un nuovo legale e comunque finché non sia trascorso un termine non inferiore a 7 giorni dalla
rinuncia (il c.d. termine a difesa), di cui all’art. 107, comma 3.
Queste previsioni servono a garantire la continuità nell’assistenza difensiva e a scongiurare possibili abusi
del processo: infatti di fronte a una situazione patologica, rappresentata dal reiterato avvicendamento di
difensori, posto in essere in chiusura del dibattimento, secondo una strategia non giustificata da alcuna
reale esigenza difensiva, ma con la sola funzione di ottenere una dilazione dei tempi processuali con
conseguente effetto della declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione, il giudice dovrebbe fare
corretta applicazione dell’art. 107, comma 3, e far terminare la discussione al difensore rinunciante o
revocato.
Se l’imputato non procede alla nomina di un difensore, l’autorità procedente nominerà un difensore
d’ufficio, selezionandolo in un elenco appositamente predisposto dal consiglio dell’ordine degli avvocati.
Il difensore d’ufficio ha le stesse prerogative di quello di fiducia, compreso il diritto ad essere retribuito
dal suo assistito. A differenza del difensore di fiducia, tuttavia, non potrà rinunciare o rifiutare l’incarico,

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a meno che non ricorra un giustificato motivo per la sua sostituzione (grave infermità). Anche dopo la
designazione di un difensore d’ufficio, l’imputato mantiene il diritto di nominare un difensore di fiducia
in sostituzione, con la conseguenza di far cessare automaticamente il difensore d’ufficio dalle sue funzioni.
Entrambe le due tipologie di difese tecniche hanno l’obbligo di partecipare agli atti per i quali è richiesta
la loro presenza necessaria: qualora il difensore però non sia stato reperito e di conseguenza non compaia
e non abbia quindi nominato un sostituto, ovvero abbia abbandonato la difesa, il giudice provvederà a
nominare un sostituto d’ufficio. Tale nomina produce effetti limitatamente al compimento dello specifico
atto, mentre il titolare dell’ufficio di difesa rimane sempre l’originario difensore designato il quale, cessata
la situazione che alla sostituzione ha dato causa, può riprendere il suo ruolo. La designazione d’ufficio
non sana la nullità ex art. 178 lett. c e 179 comma 1 dell’annesso avviso di udienza al difensore nominato
dall’imputato, a nulla rilevando che la notifica sia stata fatta al difensore d’ufficio designato dal giudice –
quando la presenza del legale è obbligatoria – perché verrebbe leso il diritto dell’imputato ad avere un
difensore di sua scelta.
Inoltre, se il difensore si trova nell’impossibilità di presenziare all’atto, a causa di un concomitante
impegno professionale, lo stesso può chiedere con apposita istanza il differimento all’autorità procedente.
La prassi, tuttavia, non riconosce al difensore un vero e proprio diritto al differimento; spetterà infatti al
giudice valutare se il differimento è necessario, valutando comparativamente l’interesse ad differimento
con quello alla tutela giurisdizionale e, soprattutto, valutando la possibilità di nominare un sostituto. La
giurisprudenza in questione ha enucleato dei criteri al cui rispetto è condizionata la sussistenza del
legittimo impedimento cha dà luogo ad assoluta impossibilità a comparire.
Il problema principale del difensore d’ufficio è la mancanza di una norma che obblighi l’autorità
procedente a intervenire ogni qual volta accerti una carenza nello svolgimento del mandato difensivo (da
parte del difensore d’ufficio). Il nostro sistema infatti non conosce forme normativamente stabilite di
controllo sulle concrete modalità di esecuzione del mandato da parte del difensore d’ufficio. La Corte
europea ha più volte segnalato la necessità di un intervento dell’autorità procedente, ogni qual volta il
difensore d’ufficio dimostri un’evidente carenza nello svolgimento del suo mandato (carenza che può
essere attestata dal giudice ovvero segnalata dallo stesso imputato).
Fra le varie ipotesi prese in considerazione dalla Corte, la più grave carenza di cui può rendersi
responsabile il difensore d’ufficio, è la mancata presenza nelle fasi procedimentali che richiedono il suo
intervento: in questo caso si ha una chiara e manifesta violazione del dovere di assicurare l’assistenza
dell’imputato, caratteristica primaria che contraddistingue il difensore d’ufficio dal difensore di fiducia.
Inoltre il mancato intervento nel processo obbligherà il giudice a nominare un sostituto per il compimento
di quell’atto processuale; sostituto che, frequentemente, risulta ancora meno adatto allo svolgimento del
mandato difensivo assumendo quasi solo una presenza formale nel processo. Tale situazione comporta un
difetto nella difesa d’ufficio che sfocerebbe in un risultato solo apparente di difesa tecnica d’ufficio.
La legge, inoltre, garantisce ai non abbienti il gratuito patrocinio, ponendo a carico dello Stato le relative
spese legali. L’ammissione al gratuito patrocinio è decisa dal giudice procedente (il giudice per le indagini
preliminari nella fase delle indagini).

Il difensore dell’imputato non è solamente titolare di diritti, ma anche di precisi doveri, oltre che di
garanzie per il libero esercizio dell’attività difensiva.
Il difensore può assistere più imputati, purché le loro posizioni non siano incompatibili ai sensi dell’art.
106 c.p.p.: il patrocinatore comune infatti deve evitare situazioni di incompatibilità che si verificano
quando un imputato ha incaricato il difensore di sostenere una tesi difensiva assolutamente incompatibile
con quella presentata allo stesso difensore da un altro imputato (non è causa di incompatibilità invece la

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semplice diversità di posizioni giuridiche o di linee di difesa tra più imputati, ma occorre che ci sia un
contrasto radicale e insuperabile, tale da rendere in impossibile, per il difensore, sostenere tesi logicamente
inconciliabili tra loro. In altri termini, occorre che la difesa dell’uno escluda la possibilità di difendere
l’altro il quale rimarrebbe sprovvisto dell’assistenza tecnica).
L’incompatibilità potrà essere rilevata d’ufficio dall’autorità procedente, che a seconda delle fasi sarà il
pubblico ministero o il giudice). L’autorità procedente deve indicare la questione agli interessati
spiegandone le ragione e concedendo un termine per rimuovere la situazione ostativa al regolare sviluppo
del procedimento. L’incompatibilità potrà comunque essere superata volontariamente mediante rinuncia
(ad uno dei mandati) da parte del difensore ovvero mediante nuove nomine da parte degli imputati.
In caso contrario interverrà il giudice (se l’incompatibilità è rilevata nella fase delle indagini preliminari, è
necessaria una segnalazione della parte o del p.m.) che provvederà a sostituire l’avvocato, che si trova in
uno stato di incompatibilità, con i difensori nominati d’ufficio. Invece, nel caso in cui ci sia un difensore
d’ufficio, il giudice potrebbe provvedere direttamente alla sua sostituzione.
Il giudice comunque non potrà operare la sostituzione per ragioni diverse dall’incompatibilità nella difesa
comune.
Una situazione di specifica incompatibilità è data dall’art. 106, comma 4-bis, il quale dispone che non può
essere assunta da uno stesso difensore la difesa di più imputati che abbiano reso dichiarazioni concernenti
la responsabilità di altro imputato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso ai sensi
dell’articolo 12 o collegato ai sensi dell’articolo 371, comma 2, lettera b), in modo da evitare che l’unico
difensore dei dichiaranti possa concertare una narrazione comune dei suoi assistiti. Tale situazione non
comporta nullità, ma solo una sanzione disciplinare del difensore.
In capo al difensore sta il dovere di non abbandonare la difesa, ossia ha il dovere, pur potendo rinunciare
al mandato, di non lasciare l’imputato privo di assistenza tecnica in attesa della nomina di un nuovo
difensore; il difensore d’ufficio invece non può rifiutare la designazione. La violazione di questo dovere
(l’abbandono o il rifiuto della difesa) comporta un non rispetto dei doveri di lealtà e probità, che
all’autorità procedente spetta segnalare al Consiglio dell’ordine degli avvocati affinché applichi le relative
sanzioni.
Il dovere deontologico di lealtà e probità, previsto dal codice deontologico-professionale e richiamato
dall’articolo 105, comma 4, tratta di un dovere di correttezza che non implica la collaborazione con l’accusa.
Al contrario il difensore ha il dovere di ricostruire i fatti però solo nell’ottica di ciò che è favorevole alla
posizione del suo assistito. Infatti la difesa persegue un interesse di parte e introduce nel processo solo le
prove e gli argomenti a discarico con l’unico limite di non produrre prove false.
Il difensore ha anche il dovere di garantire la massima segretezza e riservatezza sulle questioni trattate
con il suo assistito, prevedendo il segreto professionale, ma anche garanzie che impongono rigorosi limiti
all’attività d’indagine che non può avere ad oggetto le relazioni interne all’ufficio difensivi (art. 103), come
ispezioni, sequestri e perquisizioni.
Per esempio, le ispezioni e le perquisizioni sono ammesse, secondo l’art. 103 comma 2, negli uffici dei
difensori, in primo luogo, solo quando essi o altre persone che svolgono stabilmente attività nello stesso
ufficio sono imputati, limitatamente ai fini dell’accertamento del reato loro attribuito; in secondo luogo,
per rilevare tracce o altri effetti materiali del reato o per ricercare cose o persone specificamente
predeterminate.
Tali controlli, infatti, sono possibili solamente quando il loro scopo è quello di accertare un reato di cui
sono sospettati il difensore o i suoi collaboratori ovvero per ricercare cose o persone che sono elementi di
quel reato (si pensi ad es. alla ricerca di un latitante, nascosto dal difensore all’interno del suo ufficio).

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Quando le ispezioni e le perquisizioni sono possibili, la legge impone delle garanzie procedimentali. Le
ispezioni, infatti, possono essere disposte solamente dall’autorità giudiziaria ed essere eseguite dal giudice
o dal pubblico ministero. A pena di nullità dell’ispezione, deve essere avvertito il Consiglio dell’ordine
degli avvocati, così da permettere al presidente di inviare un delegato per assistere le operazioni durante
la perquisizione.
È vietato il sequestro di documenti attinenti alla difesa non costituenti corpo di reato qualunque sia il
luogo, e non solo negli uffici del difensore e degli ausiliari. Anche la Corte Suprema si è espressa
affermando che per le perquisizioni e le ispezioni la garanzia è collegata ai locali dell’ufficio, mentre per i
sequestri la garanzia è collegata non solo agli uffici, ma anche a luoghi diversi.
Un’altra garanzia è quella contro le intercettazioni di cui all’art. 103 comma 5 che vieta di intercettare le
comunicazioni che intercorrono fra i difensori, gli investigatori, i consulenti tecnici ovvero fra questi
soggetti e l’assistito. In realtà non tutte le comunicazioni sono garantite contro le intercettazioni ma
solamente quelle riguardanti l’attività difensiva lecita.
Dunque, in primo luogo, per i fatti non attinenti alla difesa i difensori, gli investigatori, i consulenti e
l’assistito, possono essere sottoposti ad intercettazioni. Se tuttavia dopo l’ascolto si scoprono fatti attinenti
alla difesa, questi non potranno essere utilizzati in giudizio.
In secondo luogo, la garanzia riguarda solamente la difesa lecita. Se ad esempio il difensore si accordasse
con il suo cliente per progettare la sua evasione dal carcere, questa conversazioni potrebbe essere utilizzata
in giudizio.
In terzo luogo, la garanzia di segretezza gravita intorno alla corrispondenza scambiata fra difensore e
assistito; infatti essa non può essere sottoposta a controlli e sequestri, salvo che l’autorità giudiziaria
ritenga che con dette comunicazioni si voglia commettere un reato.
Secondo quanto disciplinato dal comma 7, i risultati delle ispezioni, perquisizioni, sequestri,
intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, eseguiti in violazione delle disposizioni precedenti, non
possono essere utilizzati.
Altra garanzia è quella di poter avere un colloquio con il proprio assistito. Tale garanzia deve essere
rispettata anche quando l’assistito è stato privato della libertà personale. La legge, tuttavia, prevede la
possibilità per il giudice in caso di specifiche ed eccezionali ragioni di cautela, nel corso delle indagini
preliminari, di differire i colloqui difensivi per un termine non superiore a 5 giorni e con decreto motivato.
In caso di interrogatorio successivo – interrogatorio di garanzia – a un arresto o a un fermo, invece, questo
potere spetta direttamente al pubblico ministero che può differire il colloquio di 48 ore (art. 104 commi 3
e 4). Questa possibilità di differimento dei colloqui, appare in palese contrasto con l’art. 24, comma 2 Cost.,
che riconosce il fondamentale diritto alla difesa a tutti i cittadini. Questo atteggiamento del legislatore
sembra essere dettato dal convincimento che l’immediato incontro dell’imputato con il difensore potrebbe
avere un effetto dannoso sullo svolgimento delle indagini, con un conseguente inquinamento probatorio.
In questo caso lo scopo del differimento è chiaro, cioè impedire al detenuto di parlare con il suo difensore
prima dell’interrogatorio spostando appunto il colloquio di 5 giorni; in questo modo si evita il rischio di
un esercizio consapevole della facoltà di non rispondere e c’è una maggiore possibilità di ottenere la
collaborazione (spesso tramite l’intimidazione) dell’imputato. Questa regola, oltre ad essere in contrasto
con l’art. 24 Cost., si scontra anche con l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il quale
prevede che l’imputato abbia diritto ad ottenere l’assistenza del difensore prima dell’inizio
dell’interrogatorio.

La capacità dell’imputato

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Perché l’imputato possa esercitare tutti i diritti e le facoltà è necessario che egli sia capace di partecipare al
procedimento, in seguito ad accertamenti sulla sua capacità ex art. 70. In merito si fa riferimento a due
orientamenti, il primo giurisprudenziale, il secondo dogmatico.
Innanzitutto, la giurisprudenza ritiene che un soggetto può essere considerato incapace di stare in giudizio
ogni volta che il suo stato mentale gli impedisce di partecipare attivamente al processo tanto da non
riuscire a difendersi (in questa ipotesi vengono ricomprese non solo le patologie cliniche, ma anche tutte
le altre condizioni che rendano non utilizzabili le facoltà mentali dell’imputato anche solo in via
provvisoria). Al fine di rilevare la capacità di stare in giudizio secondo la Cassazione basterebbe, in luogo
di un approfondimento specialistico, solamente un’adeguata motivazione da parte del giudice per non
accedere alla valutazione scientifica della patologia. Mentre il giudice dovrebbe ricorrere agli esperti nel
caso in cui si riscontrassero sintomi seri dell’incapacità dell’imputato.
Inoltre, la Corte costituzionale ha affermato la previsione di una sospensione ogni volta che lo stato
mentale dell’imputato ne impedisca la cosciente partecipazione al processo, ossia la comprensione della
possibilità di essere parte attiva nella vicenda e di esprimersi, esercitando il suo diritto di autodifesa. Al
contrario, se risulta che lo stato mentale dell’imputato consente una partecipazione consapevole e attiva
ma sussistono solo ostacoli dovuti all’incapacità dell’udito o della parola (cioè la capacità di parlare e di
sentire), trova applicazione l’art. 119, che prevede il diritto all’assistenza di un interprete.
La dottrina, al contrario, ha ritenuto che per partecipare coscientemente al processo, l’imputato deve essere
pienamente capace di intendere e di volere. Un vizio di mente, infatti, limiterebbe di molto l’esercizio del
diritto all’autodifesa, con conseguente violazione dell’articolo 24 della Costituzione.
Passando ad esaminare le modalità con cui il giudice accerta l’incapacità dell’imputato di stare in giudizio.
L’art. 71 dispone: «se il giudice accerta che lo stato mentale dell’imputato è tale da impedirne la cosciente
partecipazione al procedimento, deve disporre la sospensione (del procedimento per incapacità dell’imputato)
di quest’ultimo». La sospensione non è necessaria se il giudice deve semplicemente pronunciare sentenza
di proscioglimento o di non luogo a procedere, svolgendo poi ogni 6 mesi ulteriori accertamenti sullo stato
di mente dell’imputato, in vista di una revoca della sospensione non appena risulti che lo stato mentale
dell’imputato ne consente la cosciente partecipazione al procedimento (art. 72).
Nel periodo di sospensione, il giudice può assumere le prove necessarie al proscioglimento dell’imputato
(esse, tuttavia, una volta acquisite potranno essere valutate anche contro l’imputato); inoltre se l’imputato
deve essere sottoposto a custodia cautelare, nel periodo di sospensione egli verrà ricoverato in ospedale
psichiatrico.

La persona offesa e il danneggiato

La persona offesa dal reato è il soggetto titolare del bene giuridico protetto dalla norma che si assume
violata.
Il danneggiato, invece, è il soggetto titolare del diritto civilistico alla restituzione e al risarcimento del
danno che può esercitare questo diritto costituendosi parte civile nel corso del procedimento penale
(anziché ricorrere dinanzi al giudice civile). La costituzione in parte civile non è altro che l’esercizio
dell’azione civile nella sede processale penale volta a riconoscere il danno derivante dal reato e la
conseguente riparazione nelle forme del risarcimento e della restituzione.
Il danno per il quale si richiede il risarcimento può essere il danno patrimoniale (comprensivo di danno
emergente e lucro cessante), il danno morale o non patrimoniale (rappresentato dalle sofferenze fisiche e
psichiche patite in conseguenza del reato). In ogni caso il danno deve essere direttamente collegato alla
condotta tenuta dall’autore del reato.

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Il danno patrimoniale può essere risarcito per equivalente, attraverso la corresponsione di una somma di
denaro pari all’entità del danno subito (ma anche attraverso la restituzione integrale dell’oggetto del
reato); mentre quello morale è risarcibile solo in via satisfattiva con l’attribuzione di una pecunia doloris,
che è una somma che, pur non potendo dare ristoro per il torto subito, sarà proporzionata alla gravità del
reato e all’entità del turbamento patito a causa dello stesso.
Molto spesso accade che la figura della persona offesa e quella del danneggiato vadano a coincidere nella
stessa persona (ciò in quanto il titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale ha, in caso di lesione,
sicuramente il diritto a chiedere un risarcimento dei danni, quantomeno di quelli morali). Vi sono tuttavia
dei casi in cui il danneggiato non coincide con la persona offesa (l’esempio di scuola è quello degli eredi
danneggiati e della persona fisica uccisa che è l’offeso del reato).
In ogni caso le due figure, quella di persona offesa e di danneggiato, rivestono ruoli distinti nel corso del
procedimento. E il loro intervento avviene diversamente nelle varie fasi del processo.
Nella fase delle indagini preliminari è prevista la partecipazione della sola persona offesa (nella
considerazione che il danneggiato non potrebbe far valere i suoi diritti risarcitori in questa fase embrionale
del procedimento). Essa, tuttavia, non partecipa in qualità di parte, bensì quale soggetto che si affianca al
pubblico ministero per stimolarne l’attività e ottenere il rinvio a giudizio dell’imputato (a tal fine la
persona offesa potrà presentare memorie, partecipare a determinati atti non ripetibili come gli
accertamenti tecnici, indicare elementi di prova ecc.)
Nella fase processuale, invece, la situazione cambia radicalmente. La persona offesa può solo continuare a
presentare memorie ed elementi di prova, ma non può prendere parte attiva all’udienza preliminare e al
dibattimento; il danneggiato, invece, può costituirsi parte civile, acquisendo tutti i diritti e gli obblighi
spettanti alla parte processuale.

La costituzione di parte civile

Dopo l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, il danneggiato esercita il suo diritto
alla restituzione e al risarcimento del danno, costituendosi parte civile. Detta costituzione avviene per
mezzo di una dichiarazione scritta contenente (art. 78): le generalità del soggetto che si costituisce, le generalità
dell’imputato, le ragioni che giustificano la costituzione (la c.d. causa petendi), l’indicazione del difensore munito di
procura.
La legittimazione alla costituzione di parte civile riguarda anche gli enti o associazioni dotati o privi di
personalità giuridica che abbiano subito un danno dal reato.
Per quanto riguarda il difensore, la parte civile non può stare in giudizio personalmente, ma deve farlo
per mezzo del difensore, a cui conferisce apposita procura ad litem. La parte civile può concedere al
difensore due tipi di procura: quella ad litem (o mandato alle liti), che legittima il difensore a compiere tutti
gli atti necessari, tranne quelli che sono riservati espressamente al rappresentato; e quella speciale, che
permette al difensore di agire quale rappresentante del danneggiato (in questo caso potrà costituirsi parte
civile in rappresentanza del danneggiato, potere di cui non dispone il procuratore ad litem).
La legge non prevede l’adozione di un formale provvedimento di ammissione della parte civile; ciò
nonostante il giudice è obbligato a verificare la regolare costituzione di tutte le parti, compresa la parte
civile, che in ogni modo non influisce sul merito della fondatezza dell’azione civile. È solo un mero
adempimento processuale.
Per quanto riguarda il momento in cui il danneggiato può costituirsi parte civile, detta costituzione può
avvenire, ai sensi dell’art. 78, o all’apertura dell’udienza preliminare o all’apertura dell’udienza
dibattimentale. La costituzione avviene con la presentazione in udienza della dichiarazione direttamente

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al giudice ovvero con il deposito della dichiarazione presso la cancelleria del giudice competente (in questo
caso è necessaria la notificazione della dichiarazione alle altre parti). L’art. 79 impone un termine ultimo
di decadenza alla costituzione di parte civile, la quale non può avvenire oltre i termini previsti per la
costituzione delle parti per l’udienza dibattimentale. L’art. 79 comma 3 prevede, inoltre, che se la
costituzione non avviene entro 7 giorni dalla data fissata per il dibattimento, la parte civile non può
avvalersi della facoltà di presentare la lista dei testimoni, periti o consulenti tecnici.
Ai sensi dell’art. 76 comma 2 «la costituzione della parte civile dispiega i propri effetti in ogni stato e grado del
processo» in forza del principio di immanenza della costituzione che non dovrà essere rinnovata nei diversi
gradi o nelle diverse fasi del processo e che la parte civile non ha nemmeno l’onere di impugnare la
decisione con cui l’imputato viene assolto in primo grado, potendo giovare dell’appello presentato dal
pubblico ministero. Qualora tale appello venga accolto, il giudice competente dovrà pronunciarsi anche
sulla domanda di restituzione/risarcimento presentata dalla parte civile.
Sempre per il principio di immanenza, la parte civile può non essere presente in udienza (e nemmeno il
suo difensore). L’assenza, data appunto per l’immanenza della costituzione, non può considerarsi
equivalente ad una revoca tacita della costituzione. L’unica udienza in cui il difensore deve essere
presente, è quella che chiude la fase dibattimentale. In questa udienza il difensore deve presentare
conclusioni scritte indicando con chiarezza l’ammontare del risarcimento richiesto (il c.d. petitum della
dichiarazione).
Secondo l’art. 80, la parte civile che si è costituita in giudizio può, inoltre, essere esclusa dal processo (su
istanza del pubblico ministero, dell’imputato, del responsabile civile o d’ufficio) quando il giudice accerti
che mancano i presupposti sostanziali (manca ad es. la capacità processuale), ovvero i requisiti formali
(non sono stati rispettati i termini per la presentazione della dichiarazione) richiesti per la costituzione in
giudizio della parte civile. L’esclusione avviene con un’ordinanza che non è impugnabile; è invece
impugnabile l’ordinanza che rigetta la domanda di esclusione proposta dall’imputato, dal pubblico
ministero o dal responsabile civile. Se l’esclusione avviene nella fase dell’udienza preliminare, l’escluso
può riproporre la sua costituzione prima dell’udienza dibattimentale.
La parte civile può, inoltre, revocare la sua costituzione con una dichiarazione resa in udienza ovvero con
una dichiarazione depositata presso la cancelleria del tribunale. La revoca invece opera ex lege nel caso in
cui la parte civile non si sia presentata all’udienza finale del dibattimento per presentare le sue conclusioni
scritte, ovvero abbia promosso azione dinanzi al giudice civile. In quest’ultimo caso si riscontra la facoltà
data dal legislatore di procedere instaurando un autonomo procedimento per la restituzione o il
risarcimento del danno nella sua sede naturale (favor separationis, cioè il favore del legislatore per la
separazione delle conseguenze civili dalle conseguenze penali del reato). In merito, si fa riferimento all’art.
75 (rapporti tra azioni civile e penali).
- L’azione civile, esercitata dinanzi al giudice civile, viene trasferita nel processo penale: ciò è possibile
fino a quando è consentita la costituzione della parte civile e sempre che il giudice civile non abbia
ancora pronunciato una sentenza di merito. Questa regola vuole, ovviamente, evitare che la stessa
domanda sia decisa da due giudici diversi. Il trasferimento dell’azione civile davanti al giudice penale,
comporta l’automatica rinuncia agli atti del giudizio civile (che, conseguentemente, sarà dichiarato
estinto);
- Se l’azione è stata trasferita nella sede civile dopo che era già stata proposta tempestivamente dinanzi
al giudice penale o se viene iniziata nella sede propria dopo che nel processo penale è stata pronunciata
sentenza di primo grado, è necessario tenere a mente due situazioni:
1. Se in sede penale è già stata adottata sentenza di primo grado, il procedimento civile rimarrà
sospeso fin quando non diverrà irrevocabile la decisone assunta dal giudice penale. A questo

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punto la decisone del giudice penale avrà efficacia di giudicato vincolante anche per il giudice
civile. Sospensione che però non avrà effetto nel caso in cui la parte civile era stata costretta ad
esercitare l’azione davanti al giudice civile in seguito all’esclusione dal processo penale o negli
altri casi in cui il danneggiato non ha potuto liberamente scegliere la sede nella quale far valere i
suoi diritti;
2. Se in sede penale non è ancora stata adottata sentenza di primo grado, il procedimento civile,
conseguente al trasferimento dell’azione dal giudice penale al giudice civile, si svolgerà
parallelamente al procedimento penale (senza subire sospensioni e senza che la decisione del
giudice penale abbia efficacia di giudicato vincolante). Ciò significa che il giudice civile sarebbe
libero di condannare l’imputato al risarcimento del danno anche se il giudice penale ha optato per
l’assoluzione.

In ogni modo, la presenza della parte civile nel processo penale è stata più volte criticata per due ragioni.
La prima concerne l’attribuzione al giudice penale del compito di accertare non solo le conseguenze penali
ma anche quelle civili del reato, ed è stato considerato in contrasto con gli obiettivi di semplificazione
dell’attività processuale (ciò nonostante l’unificazione favorisce, senza dubbio, l’economicità processuale).
La seconda ragione, invece, riguarda il fatto che la parte civile agisce nel processo come una vera e propria
accusa privata, interessata ad ottenere la condanna dell’imputato. Ciò conduce ad una totale asimmetria
fra le parti: la difesa, infatti, deve difendersi da due accusatori. Ciò appare in contrasto con il principio
della parità delle parti, sancito a livello costituzionale dall’art. 111 comma 2 della Costituzione.

Il responsabile civile, il civilmente obbligato per la pena pecuniaria, gli enti esponenziali degli
interessi lesi dal reato

La richiesta risarcitoria avanzata dalla parte civile nei confronti dell’imputato può avere un ulteriore
destinatario, ossia il responsabile civile. Chi è questa figura?
Tale soggetto è disciplinato dall’art. 185 c.p. che obbliga al risarcimento del danno da reato «il colpevole e
la persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui». A questo, infatti, viene
ascritta una responsabilità civile per l’altrui comportamento illecito penale sulla base di specifiche
previsioni normative (il tipico esempio è quello tra le compagnie assicurative per la responsabilità da
circolazione stradale).
Il responsabile civile accede al processo penale attraverso due strade: la citazione o l’intervento volontario
(artt. 83 e 85).
La citazione del responsabile civile avviene su richiesta della parte civile o, eccezionalmente, proviene dal
pubblico ministero, ma quando l’azione civile deve essere esercitata nell’interesse del danneggiato
incapace.
La citazione è possibile da quando la parte civile si è costituita in giudizio, e viene disposta direttamente
dal giudice dopo che ha accertato l’ammissibilità della richiesta proposta dalla parte civile. La citazione,
secondo il comma 3 dell’art. 83, deve contenere: (a) le generalità o la denominazione della parte civile, con
l’indicazione del difensore e le generalità del responsabile civile, se è una persona fisica, ovvero la
denominazione dell’associazione o dell’ente chiamato a rispondere e le generalità del suo legale
rappresentante; (b) l’indicazione delle domande che si fanno valere contro il responsabile civile; (c) l’invito

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a costituirsi nei modi previsti dall’articolo 84; (d) la data e le sottoscrizioni del giudice e dell’ausiliario che
lo assiste.
Una volta citato in giudizio, il responsabile civile potrà costituirsi in ogni stato e grado del processo (art.
84), con un’apposita dichiarazione in un tempo non inferiore a 20 giorni. Al responsabile civile si applicano
le stesse regole per la parte civile in materia di immanenza della costituzione e necessità di stare in giudizio
per mezzo del difensore.
L’intervento volontario (art. 85), invece, anch’esso, al pari della citazione, è possibile da quando la parte
civile si è costituita in giudizio o quando il pubblico ministero esercita l’azione civile per l’incapacità del
danneggiato. L’intervento volontario permette al responsabile civile di sviluppare la sua linea difensiva
senza attendere la citazione.
La presenza processuale del responsabile civile si giustifica fino a quando rimane validamente esercitata
l’azione civile. Di conseguenza, nel caso in cui ci fosse la revoca o l’esclusione della parte civile, perde
efficacia anche la citazione o l’intervento del responsabile civile.
Il responsabile civile, inoltre, può essere estromesso dal processo se presenta una richiesta motivata al
giudice, o a sua richiesta o di un’altra parte che non ne abbia richiesto la citazione, ovvero dal giudice.
L’estromissione è disposta sempre dal giudice, con ordinanza, valutata la mancanza dei presupposto
sostanziali o formali della sua presenza processuale. Lo stesso interessato può chiedere di essere escluso
anche quando le prove raccolte prima che venisse citato possano compromettere l’esercizio del suo diritto
di difesa in relazione ai possibili effetti di un giudicato penale di condanna nel giudizio civile di danno.
L’ultimo termine per richiedere l’esclusione coincide con l’apertura del dibattimento di primo grado. E
l’estromissione non pregiudica una separata azione civile nella sede propria, a meno che non sia stata
disposta a richiesta della parte civile.
Il civilmente obbligato per la pena pecuniaria, invece, è anch’esso una parte eventuale al pari del
responsabile civile che interviene nel procedimento in forza dell’obbligazione civile di corrispondere una
somma pari all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta al condannato e da quest’ultimo non
pagata. Si tratta di una tipica obbligazione fideiussoria che richiede un particolare legame fra il condannato
e il civilmente obbligato (si pensi come esempio ai soggetti che esercitano una funzione di direzione o di
vigilanza, i quali rispondono per i danni causati dai reati posti in essere dai sottoposti violando proprio
quelle disposizioni che i dirigenti/vigilanti dovevano far rispettare). Presupposto per l’intervento del
civilmente obbligato è, chiaramente, lo stato di insolvenza del condannato.
Il soggetto civilmente obbligato può essere citato in giudizio su richiesta del pubblico ministero ovvero su
richiesta dello stesso imputato che può richiedere la conversione della pena pecuniaria non pagata in
libertà controllata o lavoro sostitutivo.
La persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria è citata per l’udienza preliminare o per il giudizio
a richiesta del pubblico ministero o dell’imputato, come da art. 89
Figure particolari sono, in ultimo, gli enti rappresentativi degli interessi lesi dal reato ai quali sono
riconosciuti poteri molto simili a quelli spettanti alla persona offesa. Deve trattarsi di enti senza fini di
lucro, la cui finalità di rappresentare interessi (collettivi e diffusi) dei cittadini, deve essere stata
riconosciuta dalla legge prima della commissione del reato (si pensi ad esempio alla CONSOB nei reati di
insider trading), così come è affermato dall’art. 91. Infatti, «gli enti e le associazioni senza scopo di lucro ai quali,
anteriormente alla commissione del fatto per cui di procede sono state riconosciute, in forza di legge finalità di tutela
degli interessi lesi dal reato, possono esercitare, in ogni stato e grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti
alla persona offesa dal reato».

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L’intervento di questi enti avviene con il consenso della persona offesa (art. 92), che deve risultare da atto
pubblico o da scrittura privata autenticata e può essere prestato a non più di uno degli enti o delle
associazioni, pena l’inefficacia.
Il rispetto delle condizioni (ente riconosciuto in forza di legge come non avente fine di lucro, prima della
commissione del reato, rappresentativo degli interessi collettivi o diffusi) e il consenso della persona
offesa, il soggetto esponenziale degli interessi lesi dal reato interviene nel processo o nel procedimento
con apposito atto presentato all’autorità procedente, i cui requisiti sono elencati nell’art. 93. Le altre parti
possono opporsi all’intervento, in questo caso sulla questione si pronuncerà il giudice con ordinanza. Il
giudice, in ogni caso, può escludere d’ufficio l’ente in ogni stato e grado del processo.
Una volta intervenuto nel procedimento, l’ente ha le stesse prerogative della persona offesa e deve inoltre,
al pari di essa, farsi rappresentare da un difensore munito di procura speciale.
L’introduzione degli enti rappresentativi è avvenuta con lo scopo di garantire che la parte civile si
occupasse di tutelare i suoi diritti soggetti e interessi legittimi e gli enti rappresentativi di salvaguardare
interessi diffusi e collettivi. Questo obiettivo, tuttavia, non è stato pienamente realizzato a causa
dell’atteggiamento della giurisprudenza, che ha mostrato un certo ostruzionismo rispetto agli enti che
volevano costituirsi in giudizio per tutelare interessi diffusi o interessi collettivi.

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CAPITOLO IV – GLI ATTI

Innanzitutto, parlando di atti bisogna ricomprendere due piani concettuali. Il primo, quello dinamico,
l’atto è individuato dal comportamento o dalla condotta di un soggetto nel momento del suo verificarsi
caratterizzato dalla volontarietà, che necessita della documentazione per lasciare traccia nel procedimento
medesimo; il secondo, quello statico, l’atto è inteso come entità materiale attestante l’esecuzione del
comportamento e la relativa documentazione.
La prima disposizione normativa riguardante gli atti è del libro II del codice di procedura penale all’art.
109, il quale occupandosi della lingua degli atti al comma 1 dispone che «gli atti del procedimento penale
sono compiuti in lingua italiana», a pena di nullità relativa.
Il comma 2 dell’art. 109, invece, prende in considerazione la posizione dei cittadini appartenenti ad una
minoranza linguistica riconosciuta dall’Italia. Infatti, chi appartiene ad una minoranza linguistica
riconosciuta ha diritto di utilizzare nei rapporti con l’autorità giudiziaria la propria madrelingua, a
prescindere dal livello di conoscenza della lingua italiana, e nella stessa madrelingua sono tradotti gli atti
del procedimento a lui indirizzati.
L’utilizzo di una lingua diversa è subordinata alla ricorrenza di tre distinti requisiti:
1. Il soggetto deve appartenere ad una minoranza linguistica riconosciuta da una legge regionale o
statale (per esempio, la lingua sarda);
2. Il procedimento deve svolgersi dinanzi ad un autorità giudiziaria competente nel territorio in cui è
insediata la minoranza linguistica (nel caso della lingua sarda, ad esempio, l’autorità giudiziaria deve
esercitare le sue funzioni in Sardegna);
3. L’alloglotta deve presentare una domanda, scritta o orale, in cui richiede di utilizzare una lingua
diversa da quella italiana.
Inoltre, il dettato codicistico è implementato dall’art. 26 disp. att., nel quale è affermato che l’imputato e le
altre parti private hanno il diritto di nominare il difensore senza alcun limite derivante dall’appartenenza
etnica o linguistica dello stesso; e che, inoltre, nella scelta del difensore d’ufficio a norma dell’art. 97
l’autorità giudiziaria tenga conto dell’appartenenza etnica o linguistica dell’imputato.
Una disciplina particolare è prevista anche per i muti, i sordi e i sordomuti dall’art. 119, il quale dispone
che al sordo le domande devono essere presentate per iscritto ed egli risponde oralmente; al muto le
domande vengono fatte oralmente ed egli risponde per iscritto; con il sordomuto tutto avviene per iscritto.
Sempre l’articolo in questione riconosce a queste categorie il diritto di farsi assistere gratuitamente da un
interprete, scelto di preferenza tra le persone abituate a trattare con loro.
Ai sensi dell’art. 110 è disposto che «quando è richiesta la sottoscrizione di un atto, se la legge non dispone
altrimenti, è sufficiente la scrittura di propria mano» posta alla fine «dell’atto, del nome e cognome di chi
deve firmare».
L’obbligo della sottoscrizione autografa si ricava dall’art. 110, comma 2 che dichiara invalida la
sottoscrizione apposta o con segni diversi dalla scrittura o con mezzi meccanici; inoltre, al comma 3, se chi
deve firmare non è in grado di scrivere, il pubblico ufficiale, al quale è presentato l’atto scritto o che riceve
l’atto orale, accertata l’identità della persona, ne fa annotazione in fine dell’atto medesimo tale
impossibilità, perché analfabeta, ovvero permanentemente o temporaneamente impedito.
Per quanto riguarda la data, Il codice di procedura penale, all’art. 111, prevede che sugli atti sia indicato il
giorno, il mese e l’anno in cui gli atti vengono posti in essere, oltre al luogo di formazione (data topica).
Non è invece necessaria l’ora, tranne nei casi in cui la legge lo richieda.

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Surrogazione, ricostituzione e rinnovazione degli atti


La surrogazione, la ricostituzione e la rinnovazione degli atti sono istituti disciplinati dagli artt. 112 e 113.
Il loro scopo è quello di porre rimedio alla distruzione, smarrimento o sottrazione di atti processuali non
recuperabili. Si tratta di rimedi che sono tra loro sussidiari.
Quanto al primo (surrogazione), consiste in una sostituzione all’originale di una copia autentica, che ha
lo stesso valore dell’atto originale nel momento in cui viene consegnata alla cancelleria. Competenza
affidata al presidente della corte o del tribunale, i quali provvedono ad ordinare con decreto a chi detiene
la copia di consegnarla – appunto – alla cancelleria.
Invece, qualora non sia possibile procedere alla surrogazione, l’art. 113 dispone che l’atto venga
ricostituito. Il giudice davanti al quale pende il procedimento accerta il contenuto dell’atto mancante e
stabilisce con ordinanza se e in quale tenore esso deve essere ricostituito, sulla falsariga, se esiste, della
minuta o della bozza dell’atto mancante ritenuto conforme.
Infine, se non è possibile neanche la ricostituzione, l’atto verrà rinnovato su ordine del giudice che
indicherà gli eventuali altri atti che dovranno essere rinnovati.

I divieti di pubblicazione
Il legislatore all’art 114 ha previsto alcuni divieti di pubblicazione con il mezzo della stampa o altro mezzo
di diffusione idoneo a mettere corrente un numero indeterminato di persone degli atti di indagine del
procedimento penale compiuti dal p.m. e dalla polizia giudiziaria, sia per tutelare la segretezza
processuale esterna, sia la dignità e la sfera di riservatezza dell’indagato, dell’imputato e delle persone
intervenute nel processo. In questo modo, ci sono due distinti divieti di pubblicazione: uno assoluto e
l’altro relativo.
Il primo è un divieto assoluto (comma 1 dell’art. 114) per gli atti di indagine coperti dal segreto
investigativo. Si parla di divieto assoluto in quanto non è possibile né la pubblicazione del testo dell’atto
(cioè delle esatte parole che lo compongono), né la pubblicazione del suo contenuto (descritto,
generalmente, mediante un riassunto dell’atto stesso). Tale articolo lo si collega all’art. 329 (rubricato
«obbligo del segreto»), che prevede la segretezza degli atti di indagine non conoscibili dall’indagato, a
meno che non ne venga a conoscenza, o dal suo difensore e che pone come termine finale di tale segretezza
la chiusura delle indagini (salvo variazioni sul momento di cessazione del divieto, che possono essere
disposte con decreto motivato dal pubblico ministero).
Il divieto assoluto, invece, non si applica in alcuni casi, come nel caso di atti che non sono stati posti in
essere dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria (si pensi ad es. alle ordinanze cautelari adottate
dal giudice delle indagini preliminari); ovvero, nel caso di atti provenienti da soggetti privati (ad esempio
esposti, denunce ecc.); ovvero nel caso di atti che, sebbene posti in essere dal pubblico ministero o dalla
polizia giudiziaria, non risultano avere alcuna funzione investigativa.
Il divieto relativo (art. 114 commi 2, 3, 4, 5), invece, è per tutti gli altri atti di cui non è possibile pubblicare
il testo, ma è possibile pubblicare il contenuto.
Inoltre, è vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non coperti dal segreto fino a che non siano
concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare, come da art. 114, comma
2; invece se si procede a dibattimento occorre distinguere a seconda della categoria degli atti. È infatti
consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo per il dibattimento, dopo la formazione
del fascicolo e di quelli del fascicolo del p.m., solo dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello.
Questo al fine di preservare la neutralità metodologica del giudice, ossia evitare il rischio che il giudice del
dibattimento e del gravame possa essere condizionato dalla pubblicazione degli atti di indagine prima e

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dopo la sentenza di primo grado (dovendo fondare la sua decisione solo sulla base delle prove
legittimamente formatesi nel contraddittorio tra le parti).
Tutti i divieti in questione sono comunque destinati a venire meno alla scadenza dei termini stabiliti dalla
legge sugli archivi di Stato, normalmente 40 anni, ovvero decorso il termine di 10 anni dalla sentenza
irrevocabile (tranne nel caso in cui gli atti siano idonei a rivelare lo stato di salute, la vita sessuale o i
rapporti sessuali dei soggetti cui l’atto si riferisce, il cui termine, in questo caso, è di 60 anni).
L’articolo 114 comma 6, inoltre, vieta la pubblicazione delle generalità e dell’immagine dei minorenni che
hanno partecipato al procedimento, fino al raggiungimento della maggiore età.
L’articolo 114 comma 6-bis, invece, vieta la pubblicazione dell’immagine delle persone private della libertà
personale, che si trovano in manette o in un altro stato di coercizione fisica, salvo consenso.
Per quanto riguarda la violazione dei divieti di pubblicazione (art. 115), bisogna distinguere due ipotesi.
La prima, se la violazione è commessa da un privato cittadino, l’articolo 684 c.p. prevede l’arresto da 3
mesi a 1 anno ovvero l’ammenda da 50 a 300 euro circa.
La seconda, se la violazione è commessa da un impiegato dello Stato o di altro ente pubblico (ad esempio
da un magistrato, da un membro della polizia giudiziaria), all’illecito penale si aggiunge l’illecito
disciplinare, con conseguente segnalazione all’organo titolare del potere disciplinare. La stessa regola si
applica se la violazione è commessa da persone che esercitano una professione per la quale è prevista una
speciale abilitazione dello Stato (ad es. avvocati, notai, giornalisti ecc.).

Il rilascio di copie di atti e di informazioni scritte sul loro contenuto


La possibilità di chiedere il rilascio di copie di atti del procedimento penale, nonché di informazioni scritte
sul loro contenuto, è disciplinata dagli artt. 116, 117,118 e 118-bis.
L’art. 116 stabilisce che durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse,
può ottenere il rilascio a proprie spese di copie (cioè riproduzioni totali dell’atto), estratti (riproduzioni
parziali dell’atto) o certificati di singoli atti (certificati in cui vengono indicati, in modo sintetico,
l’esistenza, il contenuto e la data dell’atto).
Legittimati a richiedere la copia, l’estratto o il certificato sono, non solo le parti processuali, ma anche gli
altri soggetti che abbiano un qualche interesse alla conoscenza dell’atto.
Competenti ad autorizzare il rilascio sono gli organi nella cui disponibilità si trova l’atto al momento della
richiesta (il p.m. nella fase delle indagini preliminari, il giudice negli altri casi). L’autorizzazione viene data
con decreto motivato, previo accertamento dell’interesse del richiedente e previa valutazione
dell’esistenza di un divieto di pubblicazione assoluto o relativo (se il divieto è assoluto, in quanto l’atto è
coperto da segreto, non è possibile autorizzare il rilascio; se invece il divieto è relativo, il rilascio non fa
venir meno il divieto).
In ogni modo, tale norma va coordinata con l’art. 43 disp. att. per il quale nessuna autorizzazione è richiesta
nei casi in cui è riconosciuto espressamente al richiedente il diritto di rilascio di copie, estratti o certificati
di atti (questo è il caso delle sentenza emanate in nome del popolo italiano, per le persone o gli uffici
coinvolti nel procedimento, nonché per le parti private e i loro difensori).
Gli articoli 117 e ss. si occupano di alcune ipotesi nelle quali la richiesta viene proposta da soggetti
particolari per determinate finalità, derogando alla disciplina generale disposta nell’art. 116, in quanto
prevedono il rilascio di copie, di atti o di informazioni scritte sul loro contenuto a favore del pubblico
ministero, ovvero del Ministro dell’interno o del Presidente del Consiglio dei Ministri.
L’articolo 117 prevede la possibilità del pubblico ministero di richiedere «una copia degli atti relativi ad
altri procedimenti penali, qualora ciò sia necessario per il compimento delle proprie indagini anche
derogando alla segretezza degli atti di indagine (art. 329)»;

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L’articolo 118 consente al Ministro dell’Interno di ottenere o in via diretta o dall’autorità giudiziaria copie
di atti relativi a procedimenti penali, mediante una richiesta motivata inviata all’autorità giudiziaria,
indispensabili per la prevenzione dei delitti, anche in deroga all’art. 329;
L’articolo 118-bis autorizza il Presidente del Consiglio a richiedere all’autorità giudiziaria copie di atti
relativi a procedimenti penali, qualora ciò sia necessario per garantire la sicurezza della Repubblica.
L’autorità può accogliere o rigettare con decreto motivato, ma può anche permettere un accesso diretto al
registro della notizia di reato.
Un’altra deroga al segreto investigativo si ha di fronte al potere, conferito dagli artt. 117 comma 2-bis e
118-bis, comma 3, dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, dai funzionari delegati dal
direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, di accedere al registro delle notizie
di reato presso ogni procura della Repubblica. E per il solo procuratore nazionale antimafia e
antiterrorismo è possibile l’accesso ai registri delle misure di prevenzione e alle banche dati istituite presso
le direzioni distrettuali antimafia.
L’autorità deve comunque procedere senza ritardo; anche rigettando la richiesta con decreto motivato.

Gli atti e l’attività delle parti

Memorie e richieste delle parti


L’art. 121 riconosce alle parti il c.d. ius postulandi, cioè il diritto delle parti di interloquire con il giudice,
presentando memorie e richieste «in ogni stato e grado del procedimento, mediante deposito in
cancelleria». È pacifico riconoscere lo ius postulandi non solo alle parti, ma anche alla persona sottoposta
ad indagini (ai sensi dell’art. 61 che dispone: «i diritti e le garanzie dell’imputato si estendono alla persona
sottoposta ad indagini») e alla persona offesa (ai sensi dell’articolo 90 che dispone: «la persona offesa dal reato
può presentare memorie in goni stato e grado del procedimento»), ma come anche al consulente tecnico
endoperitale.
Quanto al contenuto, mentre le richieste sono finalizzate a provocare e ad avere un determinato
provvedimento, per le quale il giudice dovrà rispondere mediante l’adozione di un provvedimento
positivo o negativo entro 15 giorni; le memorie, che hanno come scopo di spiegare al giudice le opinioni e
le ragioni della parte, non esigono un’apposita pronuncia, pur rientrando nel materiale processuale di cui
occorrerà tener conto nella decisione. Il giudice, anche qui, risponde con l’adozione di un apposito
provvedimento.
Una particolare disciplina è dettata dai due commi dell’art. 123. Al comma 1, per l’esercizio dello ius
postulandi da parte delle persone detenute o internate è garantito dalla presentazione delle loro memorie
o richieste per mezzo del direttore dell’istituto; al comma 2, che comprende le persone in stato di arresto,
arresto domiciliare o custodia in luogo di cura, tale facoltà è garantita a loro per mezzo dell’ufficiale di un
ufficiale giudiziario.

L’art. 122 che disciplina la procura speciale, che prevede quali regole devono essere osservate quando la
legge processuale consente che un atto sia compiuto per mezzo di un procuratore speciale, ossia attraverso
un soggetto al quale si conferisce il potere di agire in proprio nome e per proprio conto.
Bisogna distinguere gli effetti a seconda che si faccia riferimento all’imputato o alle altre parti eventuali.
Per quanto riguarda l’imputato, per mezzo di procura speciale, permetterà al suo procuratore di compiere
atti di natura personalissima che normalmente richiederebbero la sua presenza.

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Per quanto concerne la parte civile, il responsabile civile e il civilmente obbligato, che non possono stare
in giudizio personalmente, ma solo tramite il loro procuratore, bisogna distinguere due diversi tipi di
procura:
1. La procura ad litem con la quale viene conferita al difensore la rappresentanza processuale;
2. La procura ad causam con la quale vengono concessi ad un soggetto (che può essere diverso dal
difensore) i poteri necessari per far valere l’azione risarcitoria nell’ambito del processo penale.
Per quanto riguarda i requisiti della procura speciale, l’art. 122 stabilisce che essa deve essere rilasciata
mediante atto pubblico, ovvero mediante scrittura privata autenticata. Deve, inoltre, essere indicato
l’oggetto per cui è conferita e i fatti ai quali si riferisce.

Partecipazione di testimoni ad atti del procedimento


Per garantire il regolare compimento degli atti processuali è possibile che alla formazione degli atti siano
presenti dei testimoni (si pensi come esempio ai testimoni presenti durante le ispezioni personali ovvero
durante le perquisizioni domiciliari). La legge parla di testimonianza impropria, per distinguerla da
quella utilizzata con finalità probatorie nel corso del procedimento. L’art. 120 enuncia tassativamente le
cause di incapacità naturali e giuridiche. Infatti, non possono fungere da testimoni i minori di anni 14, le
persone affette da infermità di mente o in stato di manifesta ubriachezza o intossicazione da sostanze
stupefacenti o psicotrope, coloro che sono soggetti a misure detentive o misure preventive di sicurezza.

Gli atti e i provvedimenti del giudice

La forma dei provvedimenti


L’art. 125 riserva alla legge il compito di stabilire quando il giudice adotta sentenza, ordinanza o decreto.
Le sentenze si caratterizzano per l’idoneità a chiudere uno stato o un grado del procedimento. L’art. 125
indica due requisiti di cui essa deve essere dotata.
Il primo è che deve essere pronunciata in nome del popolo italiano (dal momento che l’art. 101 comma 1
della Costituzione dispone che «la giustizia è amministrata in nome del popolo italiano»). Il secondo è che deve
essere motivata, a pena di nullità (dato che l’articolo 111 comma 6 della Costituzione dispone che «tutti i
provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati»).
È possibile distinguere diverse tipologie di sentenze a seconda della funzione per cui sono adottate: ad
esempio è possibile distinguere le sentenze dibattimentali dalle sentenze di non luogo a procedere (in
quanto le prime sono adottate al termine del dibattimento, le seconde al termine dell’udienza preliminare);
le sentenze di merito dalle sentenze di rito (dato che le prime conducono ad una condanna o ad
un’assoluzione, le seconde si occupano di questioni procedurali); le sentenze costitutive dalle sentenze
dichiarative (le prime producono effetti giuridici innovativi, le seconde accertano semplicemente un fatto).
Invece, l’ordinanza presenta un unico requisito, cioè che venga motivata a pena di nullità. Al pari della
sentenza, inoltre, l’ordinanza può essere adottata solamente dal giudice. Per tutto il resto l’ordinanza
assume caratteristiche diverse, a seconda della funzione per cui viene adottata.
Solo in via tendenziale l’ordinanza ha natura decisoria in quanto idonea a definire taluni segmenti del
procedimento (tipo i procedimenti incidentali).
Il decreto, infine, può essere adottato sia dal giudice sia dal pubblico ministero. Non è normalmente
previsto un obbligo di motivazione (salvo che nelle ipotesi previste dalla legge). Il decreto ha
tendenzialmente natura ordinatoria, cioè serve a garantire la prosecuzione del giudizio; tuttavia esistono
decreti con natura decisoria (si pensi al decreto di archiviazione o al decreto penale di condanna).

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Per quanto riguarda le modalità con cui vengono deliberati i provvedimenti da parte dell’autorità
giudiziaria, essi vengono adottati dal giudice in camera di consiglio (art. 125 comma 4), senza la presenza
delle parti e del giudice ausiliario e con deliberazione segreta. La segretezza della deliberazione non può
essere derogata.
Una volta deliberati i provvedimenti questi debbono, ex art. 128, essere depositati presso la cancelleria
entro 5 giorni (questa regola non si applica ai provvedimenti emessi nell’udienza preliminare e nel
dibattimento, del cui dispositivo viene data lettura in udienza).

Che cos’è il procedimento in camera di consiglio? L’art. 127 si occupa del procedimento in camera di
consiglio. Due sono le caratteristiche di tale procedimento.
1. La partecipazione eventuale, quindi non necessaria, delle parti. Dalla lettura dell’art. 127 comma 3 è
possibile ricavare, in primo luogo, un modello caratterizzato da un contradditorio puramente
eventuale, in cui la decisione di partecipare al procedimento è rimessa alla libera discrezionalità delle
parti (si pensi ad es. al procedimento per la risoluzione dei conflitti di giurisdizione o di competenza).
Inoltre ci sono altri modelli di procedimento che però si discostano da quello dell’art. 127:
- Un primo modello in cui sono ricompresi i procedimenti camerali con contraddittorio necessario,
sia del pubblico ministero che del difensore (ad esempio nell’incidente probatorio, nel giudizio
abbreviato, nel procedimento di esecuzione, nel procedimento di sorveglianza) o per il solo
difensore (si pensi all’udienza per la convalida dell’arresto o del fermo).
- Un secondo modello caratterizzato da un contradditorio scritto o cartolare, in cui il contradditorio
è garantito dalla possibilità delle parti di interloquire fra di loro e con il giudice solo in forma
scritta (si pensi, ad esempio, al procedimento camerale in Corte di cassazione; al procedimento
per la proroga dei termini di durata delle indagini preliminari).
- Un terzo modello caratterizzato da un contradditorio totalmente assente (si parla di procedimenti
camerali de plano), si tratta di un’ipotesi residuale, che non prevede né contraddittorio né
particolari formalità da parte del giudice (si pensi al procedimento di esecuzione).
2. L’assenza di pubblicità, per la quale normalmente le attività compiute nell’udienza camerale sono
documentate mediante un verbale redatto in forma riassuntiva ex art. 127 comma 10 salva la possibilità
del giudice di optare per una documentazione integrale e non riassuntiva dell’udienza.
In ogni caso il procedimento camerale prende normalmente avvio su richiesta di parte, salvo le ipotesi di
iniziativa d’ufficio. L’atto iniziale assume la forma del decreto di fissazione dell’udienza di cui è dato
avviso a pena di nullità almeno 10 giorni prima alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori. Fino
a 5 giorni prima si possono depositare memorie in cancelleria.
Per quanto riguarda il c.d. imputato in vinculis (cioè l’imputato detenuto o internato) dopo una serie di
interventi della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, il diritto di partecipare all’udienza è stato
riconosciuto sia al detenuto che si trova nella circoscrizione del giudice sia a quello che si trova al di fuori
della sua circoscrizione (prima la partecipazione era ammessa solo al primo).
L’art. 127, comma 4 prevede, inoltre, un rinvio dell’udienza nel caso in cui l’imputato (compreso il
detenuto o internato) abbia un legittimo impedimento che gli impedisce di prendere parte all’udienza;
può essere chiesta solo nell’udienza preliminare e nell’udienza dibattimentale.
Il procedimento si conclude (salvo ipotesi particolari, sentenza di non luogo a procedere) con l’adozione
di un’ordinanza che deve essere notificata alle parti le quali potranno proporre ricorso in Cassazione. La
proposizione del ricorso, come di consueto, non comporta la sospensione dell’esecuzione dell’ordinanza
(salvo decreto motivato, adottato dal giudice che l’ha emessa, che dispone la sospensione).

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L’immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità


L’art. 129 comma 1 si occupa della declaratoria di cause di non punibilità stabilendo che «il giudice, in
ogni stato e grado del processo, se riconosce che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che
il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato o che il reato è estinto o che manca una
condizione di procedibilità, lo dichiara d’ufficio con sentenza».
Le motivazione per cui la legge impone al giudice di disporre con sentenza la declaratoria sono
essenzialmente due: la prima è quella di economia processuale; la seconda è quella di un favor rei (si vuole
garantire una rapida uscita dal procedimento dell’imputato innocente).
L’istituto opera solo nel contesto del processo e non anche nella fase delle indagini preliminari, all’interno
delle quali il meccanismo dell’archiviazione svolge una funzione equivalente.
Secondo la dottrina, tale articolo non attribuisce al giudice un potere di giudizio ulteriore e autonomo
rispetto a quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l’epilogo proscioglitivo nelle varie
fasi e nei diversi gradi del processo; anzi identifica solo una regola di condotta rivolta al giudice medesimo,
la quale presuppone l’esercizio della giurisdizione con un pieno contraddittorio.
Il comma 2 stabilisce una gerarchia tra le formule di proscioglimento, ossia quando ricorre una causa di
estinzione del reato, ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha
commesso o che il fatto costituisce reato, o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia
sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta. In altri termini è stabilito che
sia disposta la formula di merito più favorevole su quella estintiva. Inoltre, le prove che giustificano il
proscioglimento nel merito devono essere già state acquisite al momento del verificarsi della causa
estintiva.
Per quanto riguarda la modalità di pronuncia del giudice, essa deve avvenire con sentenza e con garanzia
di contraddittorio.

La correzione dell’errore materiale


L’art. 130 disciplina la procedura semplificata per la correzione degli errori materiali commessi dal
giudice nell’adozione di sentenze, ordinanze e decreti.
Detto articolo dispone che «la correzione delle sentenze, delle ordinanze e dei decreti, inficiati da errori o da
omissioni che non determinano la nullità e la cui eliminazione non comporta una modifica essenziale dell’atto, è
compito del giudice che li ha adottati». In questo modo si evita il ricorso ai mezzi di impugnazione per
eliminare vizi non gravi che potrebbero creare incertezze nell’esecuzione. L’errore deve essere una mera
irregolarità, ossia una divergenza dal modello legale che non produce alcuna nullità, nonché di una mera
difformità esteriore tra il pensiero del giudice e la sua estrinsecazione formale che non incide sul contenuto
essenziale dell’atto.
Il compito di procedere alla correzione spetta, normalmente, al giudice che ha adottato il provvedimento,
anche d’ufficio, o su istanza del pubblico ministero o delle parti. Un’eccezione è prevista nel caso in cui
l’atto sia stato impugnato, infatti in tal caso l’errore sarà corretto dal giudice competente per
l’impugnazione, il giudice ad quem (tranne che nell’ipotesi in cui l’impugnazione sia dichiarata
inammissibile).
Dalla lettura della norma è, inoltre, possibile individuare i limiti entro i quali è possibile esercitare il potere
di correzione di cui all’art. 130.
In primo luogo, la correzione può riguardare solamente le sentenze, le ordinanze e i decreti adottati dal
giudice; infatti non è possibile per gli atti del p.m. o per gli atti adottati oralmente dal giudice.

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In secondo luogo, la correzione deve riguardare errori per i quali non è comminata la nullità: se ne
conclude che la correzione è possibile solo quando l’errore (vizio) dell’atto comporta la sua irregolarità (e
non la sua invalidità).
In terzo luogo, la correzione è possibile solamente se non va a modificare in modo essenziale l’atto: ciò
significa che la correzione non deve incidere sul significato sostanziale dell’atto.
Da notare che il legislatore, a fianco alla disciplina generale della correzione di cui all’art. 130, ha previsto
anche una serie di norme speciali regolamentate in particolari ipotesi di correzione o di integrazione (si
pensi alla correzione nell’indicazione delle generalità, alla correzione nell’indicazione dei motivi, al ricorso
straordinario in Cassazione di cui all’articolo 625-bis).
Il procedimento di correzione si svolgerà in Camera di Consiglio, ai sensi dell’art. 127, e si concluderà con
un’ordinanza che potrà essere ricorsa in Cassazione dai soggetti interessati. L’ordinanza correttiva viene
eseguita, annotandola in calce al provvedimento che viene emendato.

I poteri coercitivi del giudice e l’accompagnamento coattivo


L’art. 131 riconosce al giudice il potere di richiedere «l’intervento della polizia giudiziaria e, se è necessario,
della forza pubblica in modo da garantire il sicuro e ordinato compimento degli atti processuali».
L’intervento della polizia giudiziaria o della forza pubblica può essere richiesta dal giudice senza
particolari formalità, quindi anche oralmente.
Fra i vari poteri coercitivi riconosciuti al giudice particolarmente importante è il diritto di richiedere
l’accompagnamento coattivo, eseguibile anche con la forza a norma dell’art. 46 disp. att., dell’imputato e
delle altre persone che debbono partecipare al provvedimento. Il legislatore ha dettato una disciplina
differente a seconda del soggetto colpito dall’accompagnamento coattivo: (1) nel caso dell’imputato (art.
132), l’accompagnamento, anche con la forza, è possibile quando l’imputato si rifiuta illegittimamente di
prendere parte al procedimento. Ma per evitare che il decreto di accompagnamento si trasformi in una
misura coercitiva, si stabilisce una ben precisa efficacia temporale dell’atto, per il quale la persona non può
essere trattenuta oltre il compimento dell’atto medesimo e oltre le 24 ore; (2) nel caso degli altri soggetti
che devono prender parte al procedimento in base all’art. 133 (testimone, perito, consulente tecnico,
custode di cose sequestrate), l’accompagnamento può essere disposto soltanto se i soggetti non siano
comparsi nel luogo e nell’ora stabilita senza opporre un legittimo impedimento.

La documentazione degli atti

Per documentazione degli atti si intende l’attività avente tipicamente natura dinamica con la quale il
comportamento di un soggetto all’interno del procedimento penale viene rappresentato e conservato,
affinché il giudice – ma anche le parti e l’opinione pubblica – possano controllare la regolarità dell’atto e
valutarne il contenuto ai fini della decisione sia in primo grado che nel giudizio di impugnazione. Tale
operazione è posta in essere da un soggetto diverso dall’autore dell’atto documentato. In ogni modo, lo
scopo della documentazione degli atti è, dunque, quello di attestare il compimento dell’atto e di
permetterne la consultazione anche dopo che sia passato molto tempo dalla sua adozione.
Della documentazione degli atti si occupano gli articoli 134-142.
L’art. 134, comma 1 detta il principio secondo cui alla documentazione si procede mediante verbale,
redatto con la stenotipia o altro mezzo meccanico, assolvendo così alla funzione di rappresentare e
consultare l’attendibilità e la correttezza di quanto è attesta dal pubblico ufficiale.
Il codice distingue, al comma 2 dell’art. 134, due forme di verbalizzazione: quella integrale e quella
riassuntiva.

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La prima, la verbalizzazione integrale, prevede una descrizione completa e puntuale dell’atto


processuale; la seconda, la verbalizzazione riassuntiva, prevede una rappresentazione parziale dell’atto.
In questo caso il comma 3 dell’art. 134 stabilisce che alla verbalizzazione riassuntiva si accompagni quella
fonografica (salvo che il giudice la ritenga superflua, data la semplicità dell’atto per cui si procede alla
verbalizzazione).
In casi eccezionali, l’art. 134 prevede la possibilità che la documentazione avvenga mediante riproduzioni
audiovisive (ma solo quando ciò risulta assolutamente indispensabile). I mezzi di verbalizzazione
comunque sono quelli della stenotipia o altri strumenti meccanici, ovvero, nel caso di impossibilità di tali
mezzi, la scrittura manuale assimilata con la stenografia (art. 134, comma 2).
L’art. 135 stabilisce che la competenza per la redazione del verbale spetta all’ausiliario che assiste il
giudice nel compimento degli atti processuali. Al contrario, in sede di indagini preliminari, per gli atti del
p.m. provvederanno gli ufficiali o gli agenti di polizia giudiziaria ovvero il personale di segreteria, che
assumono la veste di pubblici ufficiali. Se tuttavia la registrazione avviene mediante stenotipia o altri
mezzi per cui l’ausiliario non ha le dovute competente, il giudice lo può autorizzare a farsi assistere da
personale tecnico abilitato di imprese specialistiche.
L’articolo 136 si occupa del contenuto del verbale, disponendo che il verbale deve necessariamente
contenere:
- La menzione del luogo, dell’anno, del mese, del giorno e, quando occorre, dell’ora in cui la
verbalizzazione è iniziata e terminata.
- Le generalità delle persone intervenute, l’indicazione delle cause della mancata presenza di coloro che
sarebbero dovuti intervenire.
- La descrizione di quanto l’ausiliario ha fatto o ha constatato o di quanto è avvenuto in sua presenza
nonché le dichiarazioni ricevute da lui da altro pubblico ufficiale che egli assiste.
Inoltre, come risulta dal comma 2, per ogni dichiarazione è indicato se è stata resa spontaneamente o previa
domanda e, in tal caso, è riprodotta anche la domanda; se la dichiarazione è stata dettata dal dichiarante,
o se questi si è avvalso dell’autorizzazione a consultare note scritte, ne è fatta menzione.
L’art. 137, che disciplina le formalità della sottoscrizione, dispone che il verbale, previa lettura, deve essere
sottoscritto alla fine di ogni foglio dal pubblico ufficiale che lo ha redatto, dal giudice e dalle persone
intervenute. Il comma successivo prosegue disponendo che se alcuno degli intervenuti non vuole o non è
in grado di sottoscrivere, ne è fatta menzione con l’indicazione del motivo.
L’art. 138 disciplina la trascrizione del verbale redatto con il mezzo della stenotipia, che deve essere
trascritta in caratteri comuni non oltre il giorno successivo a quello in cui sono stati formati, salvo il verbale
del dibattimento che deve essere trascritto entro 3 giorni). Invece, secondo l’art. 139, comma 5, la
trascrizione, quando le parti vi consentono, può non essere effettuata.
L’art. 142 individua la nullità relativa «se vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute», non
desumibile da altri dati contenuti nello stesso verbale né da altri atti processuali richiamati o ad esso
riconducibili; o «se manca la sottoscrizione del pubblico ministero che lo ha redatto».

Al fine di garantire il più possibile la libertà di autodeterminazione della persona sottoposta ad


interrogatorio, l’art. 141-bis disciplina le modalità di documentazione dell’interrogatorio di persona in
stato di detenzione, che impone la documentazione integrale, evitando così l’abuso della verbalizzazione
riassuntiva, con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva, a pena di inutilizzabilità
dell’interrogatorio, della persona che – appunto – si trovi a qualsiasi titolo in stato di detenzione, e che non
si svolga in udienza. Obbligo che si ricollega a tre presupposti.

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Si deve trattare di un interrogatorio della persona sottoposta alle indagini, dell’imputato, ovvero
dell’imputato in un procedimento per reato connesso o collegato a quello per cui si procede ai sensi
dell’art. 371, comma 2, lett. b.
In secondo luogo, l’interrogato deve essere a qualsiasi titolo in stato di detenzione, custodia cautelare o
che stia espiando una pena detentiva anche per un altro reato.
In terzo luogo, la norma non si applica agli interrogatori assunti nel contesto spazio-temporale
dell’udienza, essa infatti non trova applicazione nel caso di interrogatorio effettuato in sede di convalida
dell’arresto in flagranza o del fermo o in sede di udienza preliminare (dal momento che questa regola vale
solamente se l’interrogatorio si svolge fuori dall’udienza).
Importante ricordare che la mancata documentazione integrale dell’interrogatorio determina la
inutilizzabilità oggettiva e assoluta delle dichiarazioni acquisite.

Cosa s’intende con partecipazione e l’esame a distanza? Gli istituti della partecipazione e dell’esame a
distanza, hanno come scopo di permettere l’intervento nel procedimento anche di quei soggetti che non
possono essere presenti fisicamente in aula.
Queste procedure, ancorché criticate da una parte della dottrina, che le ha ritenute non paragonabili con
la partecipazione effettiva al procedimento, hanno ottenuto l’approvazione della Corte Costituzionale.
Per quanto riguarda la partecipazione a distanza, chiamata comunemente «videoconferenza» (in quanto
la legge prescrive che la partecipazione avvenga attraverso un collegamento audiovisivo, che permetta la
reciproca visibilità e la possibilità, per tutte le parti, di udire e di essere ascoltate), devono ricorrere tre
presupposti perché si possa utilizzare questo istituto (art. 146-bis disp. att.):
- Il reato per cui si procede contro l’imputato deve essere un delitto di criminalità organizzata di stampo
mafioso, un delitto di tipo terroristico ovvero un delitto di eversione dell’ordinamento costituzionale;
- La persona che partecipa a distanza deve trovarsi in carcere (artt. 51, comma 3-bis e 407 comma 2, lett.
a, n. 4);
- Un eccezione, che però può essere intesa come una vera e propria terza ipotesi di partecipazione, alle
regole sopra esposte è prevista per i detenuti sottoposti al regime carcerario differenziato (il c.d. carcere
duro) introdotto dall’articolo 41-bis della legge 354/1975 (la legge sull’Ordinamento penitenziario). Per
detti soggetti è sempre prevista la partecipazione a distanza, al fine di garantire l’isolamento che
caratterizza il carcere duro, al fine di permettere al detenuto di partecipare a distanza all’udienza, non
permettendogli di entrare in contatto con l’organizzazione criminale cui appartiene.
A questo punto, il giudice deve valutare la presenza di gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico,
che prescindono dal comportamento tenuto dall’imputato, ovvero per evitare ritardi nello svolgimento
del processo.
La videoconferenza si può sempre interrompere sulla base di alcune condizioni: quella di procedere a
confronto o ricognizione o ad altro atto che richieda la presenza dell’imputato (146-bis, comma 7 disp. att.).
Per quanto concerne le modalità, il collegamento – in ogni caso – deve essere contestuale, reciproco ed
effettivo; bisogna però distinguere due ipotesi, a seconda che si faccia riferimento al segmento pre-
dibattimentale o quello dibattimentale.
Se l’autorizzazione viene data prima dell’udienza dibattimentale, la partecipazione sarà autorizzata con
decreto motivato del Presidente del tribunale o della Corte d’assise, da comunicare alle parti almeno 10
giorni prima della partecipazione a distanza autorizzata; mentre se l’autorizzazione viene data nel corso
dell’udienza dibattimentale, la partecipazione sarà autorizzata con ordinanza adottata dal giudice, che
potrà essere impugnata dalle parti congiuntamente alla sentenza adottata al termine dell’udienza.

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Quando è disposta la partecipazione a distanza, alcune modalità di esecuzione devono essere rispettate.
Infatti è attivato un (1) collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza e il luogo della custodia, con
modalità tali da assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti in entrambi
i luoghi e la possibilità di udire quanto vi viene detto. Se il provvedimento è adottato (2) nei confronti di
più imputati che si trovano, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione in luoghi diversi, ciascuno è posto
altresì in grado, con il medesimo mezzo, di vedere ed udire gli altri. Inoltre, è sempre (3) consentito al
difensore o a un suo sostituto di essere presente nel luogo dove si trova l’imputato. Il difensore o il suo
sostituto presenti nell’aula di udienza e l’imputato possono consultarsi riservatamente, per mezzo di
strumenti tecnici idonei. In ultimo, Il luogo dove l’imputato si collega in audiovisione è (4) equiparato
all’aula di udienza.

Quanto invece all’esame a distanza, così recita l’art. 147 bis, comma 1 disp. att.: «l’esame in dibattimento
delle persone ammesse, in base alla legge, a programmi o misure di protezione anche di tipo urgente o provvisorio si
svolge con le cautele necessarie alla tutela della persona sottoposta all’esame, determinate, d’ufficio ovvero su richiesta
di parte o dell’autorità che ha disposto il programma o le misure di protezione, dal giudice o, nei casi di urgenza, dal
presidente del tribunale o della corte di assise». Si fa riferimento anche agli ufficiali e degli agenti di polizia
giudiziaria, anche appartenenti ad organismi di polizia esteri, degli ausiliari e delle interposte persone,
che abbiano operato in attività sotto copertura, verso i quali si adottano le cautele necessarie alla tutela e
alla riservatezza della persona sottoposta all’esame
Inoltre, il legislatore, al comma 2 dell’art. 147 disp. att., ecco che fissa la figura dell’esame a distanza nata
appunto per garantire i testimoni, operatori e altre persone contro la possibilità di subire attentati durante
la testimonianza resa nell’aula giudiziaria e che comunque garantisca a loro una contestuale visibilità delle
persone presenti nel luogo. Anche in questo caso è previsto l’uso della videoconferenza, come strumento
per realizzare l’esame a distanza. Per quanto riguarda le ipotesi in cui trova applicazione l’esame a
distanza, la legge, in base al dettato codicistico, distingue le ipotesi discrezionali da quelle obbligatorie:
1. Le ipotesi discrezionali, nelle quali l’esame a distanza, la cui ammissibilità sarà rimessa alla libera
valutazione del giudice, è domandato dal testimone che denuncia gravi difficoltà a comparire in
udienza;
2. Le ipotesi obbligatorie, nelle quali l’esame a distanza è obbligatorio quando deve essere assunta la
testimonianza di:
- Persone soggette ad un programma o a misure di protezione;
- Quando il testimone ha beneficiato del decreto di cambiamento di generalità (gli è stato accordato
di cambiare il proprio nome e cognome). In questo caso la testimonianza dovrà avvenire facendo
riferimento alle precedenti generalità e impedendo la visione del volto del testimone;
- Quando devono essere sentiti come testimoni agenti di polizia che abbiano agito sotto copertura.

La traduzione degli atti


Gli artt. 143-147 c.p.p. si occupano della traduzione degli atti processuali, da intendersi come
estrinsecazione dei diritti linguistici, funzionali alla partecipazione effettiva e consapevole dei soggetti al
procedimento penale.
Importante in merito anche l’art. 111, comma 3 Cost. che fissa il diritto fondamentale della persona
accusata di un reato ad essere assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata
nel processo.
Materia oggetto di una radicale riforma ad opera del d.lgs. 4.3.2014, n. 32 imposta da diverse normative.
L’intervento di tale novella lo si coglie all’art. 143, comma 1, il quale dispone che «l’imputato, che non conosce

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la lingua italiana, ha diritto a farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di comprendere l’accusa mossa
contro di lui e seguire il compimento degli atti a cui partecipa». In questo caso, l’art. 143 aggiunge che l’imputato
che non conosce la lingua italiana ha diritto all’assistenza gratuita di un interprete per le comunicazioni
con il difensore prima di rendere l’interrogatorio, ovvero al fine di presentare una richiesta o una memoria
nel corso del procedimento. Medesimo discorso per l’indagato e l’imputato in stato di custodia cautelare,
arrestato o fermato che non conoscono la lingua italiana, hanno diritto all’interprete in vista del proprio
interrogatorio. Ecco allora che si comprende che l’uso dell’interprete si ricollega non solo al venire a
conoscenza di informazioni, ma si proietta anche in termini di ausilio all’autodifesa attiva dell’accusato.
Ai sensi dell’articolo 143 comma 2, l’assistenza dell’interprete è inoltre richiesta «quando occorre tradurre
uno scritto in lingua straniera o in un dialetto poco comprensibile ovvero quando una persona che vuole fare una
dichiarazione non conosce la lingua».
La traduzione è disposta dal giudice o su richiesta di parte. In ogni caso, il giudice prima di disporre la
traduzione deve condurre un accertamento sulla conoscenza della lingua italiana e la conoscenza è
presunta fino a prova contraria per chi sia cittadino italiano.
Infine il comma 5 dell’articolo 143 dispone che «alla nomina dell’interprete si deve procedere anche se il giudice,
il pubblico ministero o l’ufficiale di polizia giudiziaria, conosce la lingua o il dialetto da interpretare».
La disciplina della «nomina dell’interprete» quindi deve essere ricollegata al generale principio della
ragionevole durata del procedimento: in tal senso c’è l’obbligo per l’autorità procedente di disporre la
traduzione scritta, entro un termine congruo tale da consentire l’esercizio dei diritti e delle facoltà della
difesa, dell’informazione di garanzia, dell’informazione sul diritto di difesa, dei provvedimenti che
dispongono le misure cautelari personale, e così via.
L’art. 144, che prevede una serie di motivi di incapacità e incompatibilità dell’interprete, dispone che
non può svolgere l’attività d’interprete il soggetto incapace (in quanto ad es. minore, interdetto, inabilitato
ecc.) ovvero colui che presenta ragioni di incompatibilità (ad es. perché svolge la funzione di perito o di
testimone nello stesso processo) ovvero chi è interdetto anche temporaneamente dai pubblici uffici ovvero
è interdetto o sospeso dall’esercizio di una professione o di un’arte ovvero chi è sottoposto a misure di
sicurezza personali o a misure di prevenzione. L’assunzione dell’interprete incapace o incompatibile è
nulla.
L’assunzione può essere ricusata dalle parti e sulla ricusazione (art. 145) deciderà il giudice con ordinanza
inoppugnabile. In ogni caso, quando esiste un motivo di ricusazione, anche se non proposto, ovvero se vi
sono gravi ragioni di convenienza per astenersi, l’interprete ha obbligo di dichiararlo.
Sulla sostituzione e conferimento dell’incarico al traduttore assurgono fondamentali gli artt. 146 e 147.
L’autorità procedente accerta l’identità dell’interprete, verifica le situazioni di incapacità e di
incompatibilità, lo ammonisce in ordine all’obbligo di adempiere bene e fedelmente all’incarico, con lo
scopo di far conoscere la verità, mantenendo il segreto sugli atti.

La notificazione degli atti

Innanzitutto con il termine notificazione, disciplinata dagli artt. 148-171 c.p.p., si fa riferimento a quel
procedimento con cui gli atti processuali recettizi sono portati a conoscenza dei soggetti interessati.
Tale istituto è strumentale alla vitalità del procedimento penale, consentendo alle parti e alle persone, che
hanno il diritto e il dovere di intervenire nel processo, di adempiere ai propri obblighi, di tutelare i propri
interessi e di fornire un contributo decisivo all’attuazione del contraddittorio.
Nel momento in cui viene portata a termine la notificazione, si avrà una presunzione di conoscenza
dell’atto da parte del destinatario.

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Il procedimento di notificazione è suddiviso in tre fasi: l’impulso, l’esecuzione e la documentazione.


La prima fase consiste nell’atto di impulso in cui viene emanato l’ordine di notificazione che, ai sensi
dell’art. 148 c.p.p. (rubricato «organi e forme della notificazione») viene realizzata per mezzo dell’ufficiale
giudiziario. Tuttavia, in situazioni di particolare urgenza, è possibile utilizzare per la notificazione gli
organi della polizia giudiziaria. Questa disciplina vuole garantire che gli ufficiali della polizia giudiziaria
non vengano distolti continuamente dalla loro funzione primaria: prevenire e reprimere i reati.
Anche la polizia penitenziaria può fungere da organo delle notificazioni: infatti, nel procedimento con
detenuti e in quelli davanti al tribunale del riesame, il giudice, in caso di urgenza, può avvalersi della
polizia giudiziaria del luogo in cui i destinatari sono detenuti.
L’oggetto della notifica, secondo l’art. 148 comma 3, è l’atto nella sua interezza; a parte in alcuni casi che,
per esigenze di economicità, è notificato per estratto, ossia la riproduzione è solo per la parte essenziale
dell’atto.
La seconda fase, che è quella dell’esecuzione, è il momento in cui l’atto da notificare viene predisposto,
viene poi identificato il destinatario e si realizza la consegna. Per quanto concerne la forma con cui viene
normalmente realizzata la notificazione, essa avviene mediante consegna di una copia dell’atto nelle mani
del destinatario. Quando questo non sia possibile, a tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti, il
comma 3 dispone che l’ufficiale giudiziario e la polizia consegnino la copia dell’atto ad altri soggetti
legittimati alla ricezione (principalmente familiari conviventi o portiere), dopo averlo inserito in busta che
provvedono a sigillare, trascrivendo il numero cronologico della notificazione e dandone atto nella
relazione in calce all’originale e alla copia dell’atto. Sempre a tutela della riservatezza, le comunicazioni,
gli avvisi ed ogni altro biglietto o invito consegnati non in busta chiusa a persona diversa dal destinatario
recano le indicazione strettamente necessarie (art. 148 comma 5-bis).
Per ragioni di semplificazione, il legislatore, inoltre, ha previsto alcune tecniche di comunicazione
equivalenti alla notifica. Infatti, la notificazione può avvenire ad opera della cancelleria del giudice o
della segreteria del pubblico ministero mediante la consegna di copia dell’atto all’interessato (art. 148,
comma 4).
L’art. 148, comma 2-bis ha introdotto un previsione generale per le notificazioni e gli avvisi ai difensori,
per il quale l’autorità giudiziaria può disporre che le comunicazioni e gli avvisi siano eseguiti con mezzi
tecnici idonei.
In caso di particolare urgenza e celerità, l’art. 149, comma 1 (rubricato «notificazioni urgenti a mezzo del
telefono e del telegrafo») stabilisce che il giudice può disporre una notificazione a persone diverse
dall’imputato avvisandole o convocandole per mezzo del telefono e del telegrafo (sempre che
successivamente sia rispettato l’obbligo di dare conferma della comunicazione mediante telegramma
inviato al destinatario) a cura della cancelleria. In ogni caso la comunicazione deve essere ricevuta o dal
destinatario stesso o da una persona con lui convivente. L’uso del telegrafo è in via residuale, ossia qualora
la comunicazione non sia stata possibile attraverso il telefono.
Forme atipiche di comunicazione sono disciplinate dall’art. 150, il quale stabilisce che, quando lo
consigliano circostanze particolare, il giudice possa disporre con decreto motivato contenente le modalità
da utilizzare la notificazione a persona diversa dall’imputato mediante l’impiego di mezzi tecnici idonei
che garantiscano la conoscenza dell’atto (posta elettronica certificata [PEC]).
La peculiarità di questi tre articoli sta nel fatto di evitare i mezzi elencati diventino obsoleti con il progresso
tecnologico.
La posta elettronica certificata è il mezzo tecnico idoneo per eccellenza a sostituire la consegna dell’ufficiale
giudiziario, in base al quale tutte le notificazioni e le comunicazioni si effettuano per via telematica. La
PEC è equiparata alla trasmissione postale a mezzo lettera raccomandata e permette di notificare gli atti

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attraverso – appunto – la posta elettronica attraverso il sistema informatico UNEP, evitando gli ingorghi
nelle cancellerie dei tribunali e delle corti d’appello. In questo senso la trasmissione degli atti avverrà tra
gli avvocati e la cancelleria dell’autorità giudiziaria tramite proprio pota elettronica certificata. Dunque, le
notificazioni a persona diversa dall’imputato devono essere effettuate, come disposto dall’art. 16 d.l.
18.10.2012, n. 179, all’indirizzo di posta elettronica certificata risultante da «pubblici elenchi o comunque
accessibili alle pubbliche amministrazioni». In particolare si fa riferimento anche alle comunicazioni
richieste dal pubblico ministero; alle notificazioni e degli avvisi al difensore disposte dall’autorità
giudiziaria con mezzi tecnici idonei; delle notificazioni di altri atti a persone diverse dall’imputato,
mediante l’impiego di mezzi tecnici che garantiscano la conoscenza dell’atto.
Ancora: le notificazioni al difensore, anche quale domiciliatario o rappresentante ex lege dell’imputato, e
alle parti private diverse dall’imputato sono effettuate con posta elettronica certificata, aspirando così a
quell’ideale di semplificazione. Al contrario, per le notificazioni personali all’imputato, al convivente e al
portiere prevale ancora l’art. 157 ss. (per cui, «la prima notificazione all’imputato non detenuto è eseguita
mediante consegna di copia alla persona. Se non è possibile consegnare personalmente la copia, la notificazione è
eseguita nella casa di abitazione o nel luogo in cui l’imputato esercita abitualmente l’attività lavorativa,
mediante consegna a una persona che conviva anche temporaneamente o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le
veci»).
Una particolare disciplina è prevista per le notificazioni richieste dalle parti private. In questo caso, l’art.
152 prevede la possibilità che la notificazione sia sostituita da un invio della copia dell’atto da parte del
difensore, mediante raccomandata con avviso di ricevimento (l’uso del servizio postale è possibile solo
per il difensore non per la parte che agisce personalmente). L’invio della copia deve essere documentato
dal difensore, che deve depositare presso la cancelleria una copia dell’atto inviato, attestandone la
conformità all’originale e allegando l’avviso di ricevimento.
Per quanto concerne la comunicazione di atti e provvedimenti del giudice al pubblico ministero, l’art.
153 comma 2, pone un’alternativa prevedendo sempre la consegna dell’atto o del provvedimento a cura
della cancelleria del giudice alla segreteria dell’organo dell’accusa e ammettendo la possibilità che il
pubblico ministero prenda visione diretta dell’atto sottoscrivendolo.
La terza fase, che è quella di documentazione, avviene la relazione di notificazione nella quale l’ufficiale
giudiziario andrà a certificare l’attività, ed è svolta in modo che su di essa possa essere compiuto un
controllo da parte di colui che ha richiesto la notificazione o del destinatario o del giudice.
La certificazione avverrà mediante apposizione, in calce all’originale e alla copia notificata, della relazione
che deve indicare:
- L’autorità o la parte privata che ha richiesto la notificazione.
- Le ricerche che ha dovuto effettuare per individuare il destinatario.
- Le generalità della persona a cui è stata consegnata la copia dell’atto (se persona diversa dal
destinatario, devono essere indicati i rapporti che la legano con quest’ultimo).
- Il luogo e la data di consegna della copia.
Come avviene la notificazione all’imputato detenuto o libero? Per quanto riguarda le modalità di
notificazione degli atti processuali all’imputato, esse sono differenti a seconda della situazione
soggettiva in cui esso si trova.
Nel caso di imputati detenuti, l’art. 156 dispone che la notificazione sia eseguita nelle mani del detenuto
nel luogo di detenzione. Se l’imputato detenuto rifiuti di ricevere l’atto, questo è consegnato al direttore
dell’istituto o a chi ne fa le veci e del rifiuto è fatta menzione della relazione di notifica; in ogni caso,
comunque, il detenuto ne può richiederne la consegna.

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Nel caso dell’imputato libero, a meno di elezione di domicilio (normalmente presso il suo avvocato), la
notificazione deve avvenire mediante una consegna della copia dell’atto nelle mani dell’imputato presso
la sua residenza, il suo domicilio o la sua dimora (art. 157). Il comma 1, infatti, afferma che «la prima
notificazione all’imputato non detenuto è eseguita mediante consegna di copia alla persona. Se non è possibile
consegnare personalmente la copia, la notificazione è eseguita nella casa di abitazione o nel luogo in cui l’imputato
esercita abitualmente l’attività lavorativa, mediante consegna a una persona che conviva anche temporaneamente o,
in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci».
L’imputato raggiunto di persona non può rifiutare di ricevere l’atto: infatti, il rifiuto equivale comunque
a consegna.
In mancanza dell’imputato, la legge prevede alcune modalità sussidiarie che dovranno essere tentate
progressivamente dall’ufficiale giudiziario, ma in ogni caso la copia non può essere consegnata a persona
minore degli anni quattordici o in stato di manifesta incapacità di intendere o di volere. Possono essere
individuati alcuni passaggi:
1. Innanzitutto, l’ufficiale dovrà verificare la possibilità di consegnare la copia dell’atto nelle mani delle
persone conviventi con l’imputato; se tuttavia l’imputato prova l’assenza dello status di convivente, la
notificazione risulterà nulla e dovrà essere nuovamente eseguita (comma 1);
2. In via sussidiaria, ossia quando non è possibile la notificazione nel modo precedente, l’ufficiale tenterà
di consegnare la copia dell’atto al portiere. Questi firmerà l’atto notificato, dopodiché l’ufficiale
giudiziario informerà l’imputato dell’avvenuta notifica mediante raccomandata con avviso di
ricevimento (comma 1 e comma 2);
3. In mancanza delle persone, o dell’incapacità a ricevere, o per via del rifiuto del convivente e del
portiere, l’ufficiale giudiziario dovrà tornare nuovamente presso il domicilio o la residenza o la dimora
per tentare la notificazione, in un giorno e in un orario differente rispetto a quello in cui ha fatto il
primo tentativo di notifica (comma 7);
4. Se anche la seconda volta non riesce ad effettuare la notificazione, dovrà lasciare sulla porta un avviso
di avvenuta notifica e informare l’imputato dell’avvenuta notifica mediante raccomandata con avviso
di ricevimento. A questo punto potrà depositare l’atto presso la casa del comune in cui l’imputato ha
la sua residenza o il domicilio o la dimora o, in mancanza di questa, nel comune dove esercita la sua
attività lavorativa (comma 8).
Da notare che queste regole debbono essere seguite solamente per la prima notificazione. Per le successive
notificazioni all’imputato libero che abbia nominato un difensore, opererà una presunzione ex lege per cui
le notificazioni saranno eseguite mediante consegna al difensore che ne diviene domiciliatario (salvo che
questi, repentinamente, dichiari di non accettare la consegna degli atti indirizzati al suo assistito).
Nel caso dell’imputato in servizio miliare, l’art. 158 dispone che la notificazione debba essere effettuata
mediante consegna personale dell’atto nel luogo in cui il militare svolge il suo servizio.
Nel caso di soggetto interdetto o infermo di mente, l’articolo 166 prevede una doppia notificazione: una
nelle mani del tutore, l’altra in quelle del curatore speciale.
Come ci si comporta nel momento in cui la notificazione debba essere effettuata nei confronti di un
imputato latitante o evaso, irreperibile o all’estero?
Nel caso di imputato latitante, l’art 165 stabilisce che la notificazione sia effettuata presso il suo
difensore, o in mancanza nominato d’ufficio, mediante consegna di copia dell’atto. La disciplina va letta
assieme agli artt. 295 e 296, rubricati, rispettivamente, «verbale di vane ricerche» e «latitanza» che
introduco ulteriori presupposti della notificazione. Quest’ultimo, in particolare, al comma 2 dispone che
«con il provvedimento che dichiara la latitanza, il giudice designa un difensore di ufficio al latitante che ne sia privo
e ordina che sia depositata in cancelleria copia dell’ordinanza con la quale è stata disposta la misura rimasta

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ineseguita. Avviso del deposito è notificato al difensore». E il decreto che dichiara lo stato di latitanza è
preceduto dall’emissione del verbale di vane ricerche, che la polizia giudiziaria redige a seguito della
mancata esecuzione dell’ordinanza cautelare.
Lo stesso vale per l’imputato irreperibile (artt. 159 e 160), sempre che l’irreperibilità sia stata dichiarata
con decreto dall’autorità giudiziaria. Al fine della dichiarazione dell’irreperibilità, il primo presupposto è
che nei confronti dell’imputato sia impossibile procedere alla notifica nei modi previsti dal 157, nonché la
non presenza dello status di latitante o evaso e di imputato risiedente all’estero. A questo punto si
dispongono nuove ricerche dell’imputato nei luoghi elencati dal 159 (nel luogo di nascita, dell’ultima
residenza anagrafica, dell’ultima dimora, in quello dove egli abitualmente esercita la sua attività lavorativa
e presso l’amministrazione carceraria centrale). Qualora le ricerche non diano esito positivo, l’autorità
giudiziaria emette decreto di irreperibilità con il quale, dopo avere designato un difensore all’imputato
che ne sia privo, ordina che la notificazione sia eseguita mediante consegna di copia al difensore.
Per l’imputato che si trova all’estero, l’art. 169 dispone che solo qualora l’imputato non abbia dichiarato
o eletto domicilio, «il giudice o il pubblico ministero debbono inviargli una raccomandata con avviso di ricevimento,
in modo da invitarlo a eleggere domicilio nel territorio dello Stato. Se entro 30 giorni l’imputato non elegge il suo
domicilio, le notificazioni verranno effettuate presso il suo difensore». In ultimo, il comma 4 stabilisce che «quando
dagli atti risulta che la persona nei cui confronti si deve procedere risiede o dimora all’estero, ma non si hanno notizie
sufficienti per provvedere, il giudice o il pubblico ministero, prima di pronunciare decreto di irreperibilità, dispone le
ricerche anche fuori del territorio dello Stato nei limiti consentiti dalle convenzioni internazionali».

La notificazione alla persona offesa e alle parti diverse dall’imputato


Per quanto riguarda la persona offesa dal reato (art. 154), la disciplina è la medesima per la prima
notificazione all’imputato libero, ma con due deroghe, una reale e l’altra apparente. La prima è costituita
dall’inapplicabilità del criterio del doppio accesso (art. 157 comma 7, per il quale se la persona che conviva
anche temporaneamente o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci mancano o non è idonee o si rifiuta
di ricevere la copia, si procede nuovamente alla ricerca dell’imputato, tornando nella casa di abitazione o
nel luogo in cui l’imputato esercita abitualmente l’attività lavorativa), in conseguenza del quale l’ufficiale
giudiziario, qualora sia risultato vano il primo tentativo di notifica, non è tenuto a procedere nuovamente
alla ricerca della persona offesa. Per la seconda, la riservatezza della notifica è garantita senza fare
distinzione tra imputato e persona offesa dal reato. L’unica differenza quindi è che, in caso di assenza della
persona offesa e degli altri soggetti legittimati a ricevere la notificazione (conviventi e portiere), l’ufficiale
giudiziario non ha l’obbligo di un secondo passaggio e potrà immediatamente depositare l’atto presso la
casa comunale.
In ogni caso, qualora la persona offesa dal reato abbia esercitato la facoltà di nominare un difensore, questi
ne diviene domiciliatario ex lege.
Il codice prevede inoltre che in caso di pluralità di persone offese, ovvero per l’impossibilità di
identificarne alcune, la notificazione possa avvenire attraverso pubblici proclami: l’autorità giudiziaria
può disporre che la notificazione sia eseguita mediante pubblici annunzi, indicando, quando occorre, i
destinatari nei cui confronti la notifica deve essere seguita nelle forme ordinarie e le modalità che appaiono
più opportune per portare l’atto a conoscenza degli altri interessati.
Gli effetti della notificazione decorrono dal momento in cui l’ufficiale giudiziario deposita una copia
dell’atto nella cancelleria o segreteria dell’autorità procedente.

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Per quanto riguarda la parte civile, la notificazione deve avvenire necessariamente presso il difensore,
essendo quest’ultimo suo rappresentante processuale necessario.
Infine per il responsabile civile e alla persona civilmente obbligata, bisogna distinguere tra la notifica
del primo atto e le notifiche successive.
Per la prima, ossia per la notificazione della prima citazione, si applica la disciplina prevista per la prima
notificazione all’imputato libero; mentre per la seconda, ossia la notificazione degli altri atti, se i soggetti
qui considerati si sono costituiti in giudizio, la notificazione avverrà presso i loro difensori; in caso
contrario la notificazione avverrà mediante deposito degli atti presso la cancelleria.

Il domicilio dichiarato e il domicilio eletto


Innanzitutto, il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, nel primo atto compiuto con
l’intervento della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato non detenuto né internato, lo invitano
a dichiarare uno dei luoghi indicati nell’articolo 157 comma 1 ovvero a eleggere domicilio per le
notificazioni, avvertendolo che, nella sua qualità di persona sottoposta alle indagini o di imputato, ha
l’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che in mancanza di tale
comunicazione o nel caso di rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio, le notificazioni verranno eseguite
mediante consegna al difensore. Questo quanto afferma l’art. 161. Ma a cosa si fa riferimento parlando di
elezione di domicilio e di dichiarazione di domicilio?
La dichiarazione di domicilio infatti significa indicare la propria residenza o il proprio domicilio o il luogo
dove presso cui si esercita la professione, nel quale vuole ricevere le notificazioni.
L’elezione di domicilio, invece, è una dichiarazione di volontà con cui un soggetto va a designare un
luogo e una persona presso cui devono essere effettuate le notificazioni che lo riguardano (solitamente il
domicilio del suo avvocato).
Sia la dichiarazione, sia l’elezione di domicilio, ai sensi dell’art. 162, debbono avvenire mediante una
dichiarazione espressa che deve essere «raccolta a verbale, spedita mediante telegramma ovvero mediante
raccomandata e contenente la sottoscrizione autentica del notaio, del difensore o di persona autorizzata».
In ogni modo, l’onere dell’imputato di dichiarare di eleggere domicilio può essere adempiuto in qualsiasi
momento, anche prima e indipendentemente dall’invito, come poi le successive modifiche.
Il soggetto interessato, quindi, può modificare la dichiarazione o l’elezione di domicilio ovvero surrogare
l’una all’altra (cioè sostituire l’elezione di domicilio con dichiarazione e viceversa) a patto che segua le
formalità prescritte dall’art. 162 e che informi l’autorità procedente.
Nel caso di impossibilità della notifica presso il domicilio dichiarato o eletto, si applica l’art. 161, comma
4, il quale stabilisce che la notificazione deve essere eseguita mediante consegne al difensore. Allo stesso
modo si procede quando la dichiarazione con l’elezione di domicilio mancano o sono insufficienti o
inidonea, ovvero non sia comunicata la variazione di domicilio, salvo il caso fortuito e forza maggiore
motivo per il quale si applicheranno gli artt. 157 e 159.

Le nullità delle notificazioni


Il legislatore ha previsto, accanto alle ipotesi di nullità di ordine generale, cause di nullità delle
notificazioni ai sensi dell’art. 171, per il quale la notifica è nulla:
a) Se l’atto è notificato in modo incompleto, fuori dei casi nei quali la legge consente la notificazione per
estratto; ma nel caso in cui l’atto sia riprodotto in tutte le parti indispensabili al destinatario,
condizione per la quale non è riconosciuta la nullità. Incompletezza oggettiva;
b) Se vi è incertezza assoluta sull’autorità o sulla parte privata richiedente ovvero sul destinatario della
notificazione. Incompletezza soggettiva;

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c) Se nella relazione della copia notificata manca la sottoscrizione di chi l’ha eseguita;
d) Se sono violate le disposizioni circa la persona a cui deve essere consegnata la copia (tale ipotesi può
comprendere l’incapacità del consegnatario e il mancato possesso delle qualità che legittimano la
consegna, il mancato rispetto delle disposizioni sui luoghi; la mancata osservanza dell’ordine
progressivo da osservarsi dei possibili consegnatari e così via);
e) Se non è stato dato l’avvertimento circa le conseguenze che derivano della mancata, insufficiente o
idonea indicazione del domicilio o delle sue variazioni;
f) Se è stata omessa l’affissione o non è stata data la comunicazione all’interessato;
g) Se sull’originale dell’atto notificato manca la sottoscrizione del portiere o di chi ne fa le veci;
h) Se non sono state osservate le modalità prescritte dal giudice nel decreto con il quale è disposta la
notificazione, in forma atipica, a persona diversa dall’imputato, sempre che l’atto non sia giunto a
conoscenza del destinatario.

I termini

All’interno del procedimento penale la dimensione temporale è componente essenziale per realizzare il
principio della ragionevole durata del processo, bilanciando le esigenze di celerità con quelle di garanzia
delle parti.
Dei termini processuali si occupano gli artt. 172-176. È possibile distinguere 3 tipologie di termini:
1. Termini perentori: la cui violazione impedisce di compiere l’atto per cui il termine era stato introdotto.
In questo caso i termini debbono, dunque, essere rispettati a pena di decadenza;
2. Termini ordinatori: che non comportano l’invalidità dell’atto adottato dopo la scadenza ma,
solamente, la possibilità che sia inflitta una sanzione al trasgressore;
3. Termini dilatori: che impediscono il compimento dell’atto prima della scadenza dei termini fissati.
Gli atti adottati prima della scadenza, sono considerati nulli.
Ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 172 «i termini sono stabiliti a ore, a giorni, a mesi o ad anni». Molto importante
è il comma 6 dell’art. 172 il quale stabilisce che «il termine per fare dichiarazioni, depositare documenti o compiere
altri atti in un ufficio giudiziario, scade nel momento in cui l’ufficio viene chiuso al pubblico». Questa regola, che
si applica a tutte le parti (necessarie e non) compreso il pubblico ministero, non riguarda il giudice che può
depositare i propri atti anche dopo l’orario di chiusura della cancelleria.
Secondo l’art. 173, i termini si considerano stabiliti a pena di decadenza soltanto nei casi previsti dalla
legge: cioè i termini si considerano stabiliti a pena di decadenza quando la legge dispone che la parte
decade dal relativo potere se non compie l’atto entro il termine stabilito; nonché quando la parte pone in
essere un atto inammissibile, se lo compie dopo la scadenza del termine stesso.
I termini sopra indicati possono essere prorogati, abbreviati, prolungati o sospesi, secondo le modalità
previste dalla legge.
La proroga consiste nella prosecuzione di durata di un termine che viene posticipato (nel caso di termini
perentori, è possibile solamente la proroga legale). La proroga può esse di due tipi:
- Legale, nel caso in cui sia concessa in base alla legge (la scadenza di un termine in un giorno festivo che
viene spostata al giorno successivo);
- Giudiziale, quando viene decisa dal giudice (la proroga delle indagini preliminari).
Il prolungamento (art. 174) dei termini è previsto solamente per quelle ipotesi in cui l’imputato, o un’altra
parte processuale, deve comparire dinanzi all’autorità giudiziaria e il suo domicilio (eletto o dichiarato)
sia collocato fuori dal comune in cui l’autorità giudiziaria ha la sua sede.

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L’abbreviazione: la parte può chiedere o consentire l’abbreviazione con dichiarazione scritta o orale
ricevuta nella cancelleria o nella segreteria dell’autorità procedente. Vi sono, tuttavia, dei casi tassativi in
cui l’abbreviazione può essere disposta d’ufficio dal giudice.
Infine una sospensione dei termini è prevista, oltre che nei casi in cui venga disposta dal giudice, nel
periodo feriale (che va dal 1 agosto al 15 settembre). Esistono tuttavia una serie di eccezioni alla
sospensione (si pensi ad es. i reati di criminalità organizzata, ai procedimenti promossi contro imputati
che si trovano in stato di custodia cautelare ecc.).

La restituzione nel termine


Tale istituto è un rimedio processuale eccezionale per ovviare a situazioni in cui l’infruttuoso decorso del
termine perentorio previsto a pena di decadenza o di inammissibilità per l’esercizio di un potere ne abbia
determinato l’estinzione. Inoltre, risponde all’esigenza che le parti possano concretamente esercitare le
facoltà e i diritti attribuiti dalla legge, da contemperare – naturalmente – con la certezza e la stabilità delle
situazioni giuridiche sottese ai termini perentori.
La restituzione nel termine è percorribile solo se l’inosservanza del termine perentorio sia dovuto alle
cause previste dalla legge (caso fortuito o forza maggiore) e sempre che lo stesso risultato non si possa
pervenire con altri rimedi (ecco svelato il suo carattere di eccezionalità).
L’articolo 175 comma 1 c.p.p. dispone che «Il pubblico ministero, le parti private e il difensore, sono restituite nel
termine stabilito a pena di decadenza (cioè il termine perentorio), se provando che la mancata osservanza del termine
deriva da caso fortuito o da causa di forza maggiore». Dunque, l’istituto – secondo il punto di vista soggettivo
– fa capo sia alla parte pubblica che quella privata (responsabile civile e civilmente obbligato per la pena
pecuniaria, parte civile, imputato-indagato), ma anche i difensori e della parte offesa.
Dal punto di vista oggettivo, l’impossibilità deve dipendere dal caso fortuito o dalla forza maggiore e
rivestire i caratteri dell’assolutezza, potendosi verificare in qualsiasi momento del tempo assegnato. E
quando si parla di queste due cause, si fa riferimento ad eventi non previsti e imprevedibili che nessuna
diligenza, prudenza o perizia può evitare, ovvero a quelle forze esterne contro cui nulla può la volontà
dell’uomo.
La richiesta di restituzione deve essere presentata entro un termine perentorio di 10 giorni dal momento
in cui è cessata la causa di forza maggiore o il fatto che costituisce il caso fortuito (comma 1). La restituzione
può essere concessa, ad ognuna delle parti, una sola volta nel corso del procedimento (comma 3). L’onere
della prova grava su chi chiede la restituzione.
Sulla richiesta di restituzione si pronuncerà il giudice con un’ordinanza adottata in un procedimento privo
di contradditorio (il c.d. procedimento de plano). Solamente l’ordinanza che concede la restituzione nel
termine per proporre impugnazione o per proporre opposizione contro il decreto penale di condanna, può
essere impugnata (negli altri casi l’ordinanza è inoppugnabile).
L’articolo 175 comma 2 prevede una disciplina speciale (dopo l’espunzione dal dettato codicistico
dell’istituto della contumacia) per la restituzione in termini della parte interessata a proporre opposizione
al decreto penale di condanna, per il quale «l’imputato condannato con decreto penale, che non ha avuto
tempestivamente effettiva conoscenza del provvedimento, è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre
opposizione, salvo che vi abbia volontariamente rinunciato». La nuova disciplina dispone che sia l’autorità
giudiziaria (così come afferma la giurisprudenza europea) a dimostrare la sussistenza di una condizione
che impedisce la restituzione, dove la condizione ostativa risulta essere conoscenza del procedimento e la
volontaria rinuncia a comparire o proporre opposizione ovvero impugnazione. Sia la conoscenza sia la
volontaria rinunzia debbono essere presenti per impedire la restituzione nel termine; in caso contrario la
restituzione deve essere concessa.

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La competenza a decidere è data al giudice che procede al tempo della presentazione della richiesta. È
necessario però specificare: se la richiesta avviene prima del dibattimento, la competenza spetta al giudice
delle indagini preliminari, altrimenti, se sono stati pronunciate sentenze o decreti di condanna, il giudice
competente per l’impugnazione od opposizione. Nel caso ci sia un rigetto, è ammesso il ricorso in
cassazione. Invece, in caso di accoglimento, la regola è l’inoppugnabilità.
Per quanto riguarda gli effetti della restituzione, essa comporta che il termine ricomincia a decorrere ex
novo nella sua interezza dal giorno successivo a quello della comunicazione o notificazione dell’ordinanza
(rinnovazione che, per esigenze di economia processuale, l’art. 176, comma 1 subordina la rimessione a
seconda che ci sia una richiesta di parte, che sia possibile e che riguardi atti quali la parte aveva diritto di
assistere); e che non si tiene conto del tempo intercorso tra la notificazione del decreto di condanna e la
notificazione alla parte dell’avviso di deposito dell’ordinanza che concede la restituzione.

Invalidità

L’atto irregolare e invalido


Nel processo penale si segue il principio della forma vincolata degli atti. Dunque, gli atti non possono
essere compiuti nel modo più idoneo al conseguimento dello scopo, ma devono conformarsi ad un preciso
modello legale, il cui rispetto rende l’atto perfetto ed efficace. Se è pacifico che un atto invalido è
imperfetto, non si può invece sostenere che tutti gli atti imperfetti siano invalidi; infatti esistono atti, che
pur essendo perfetti, non vengono considerati invalidi bensì irregolari. Allo stesso modo non tutti gli atti
invalidi sono nulli (e conseguentemente inefficaci), perché vi sono anche atti che rimangono perfettamente
efficaci finché non interviene una declaratoria di nullità. La differenza tra l’atto valido e quello invalidità
sta nella precarietà di quest’ultimo. Tale precarietà – appunto – cessa qualora sia stata dichiarata
l’invalidità dell’atto (effetto ex tunc) o disposta una sanatoria dell’atto (ex nunc).
Occorre dunque trattare diversamente le varie ipotesi, considerando anche la possibilità che
l’imperfezione venga sanata mediante un’apposita sanatoria.

La tassatività della nullità


La nullità è la specie più importante di invalidità dell’atto ed è l’unica specie di invalidità che viene
disciplina in modo compiuto dal codice, della quale si occupano gli artt. 177-186.
L’art. 177 introduce il principio fondamentale della nullità: il principio di tassatività, in base al quale la
nullità può essere comminata solamente nei casi previsti dalla legge («l’inosservanza delle disposizioni
stabilite per gli atti del procedimento è causa di nullità soltanto nei casi previsti dalla legge»). Ne consegue un
divieto per l’interprete di estendere le ipotesi di nullità in via analogica, evitando così gli abusi
giurisprudenziali volti ad una valutazione della lesività sostanziale dell’atto nullo.
Al principio di tassatività derogano le residue categorie di invalidità (di elaborazione dottrinale e
giurisprudenziale) dell’abnormità e della inesistenza, caratterizzate dall’incompatibilità dell’atto
processuale con i principi generali del sistema, rimuovendo così quegli atti che diversamente sarebbero
validi ed efficaci. In particolare, la prima concerne l’esistenza di un atto ma questo è in contrasto con
l’ordinamento che ne determina la stasi; il secondo concerne un atto solo apparente.
Correlatamente al principio di tassatività, è possibile distinguere due grandi generi di invalidità, a seconda
che siano previste da specifiche disposizioni normative nullità speciali (art. 177), ovvero rientrino nelle
ipotesi di nullità generale (art. 178).

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Le nullità speciali ricorrono quando la nullità discende dall’applicazione di una specifica disposizione
normativa, così come dice l’art. 177. Un esempio di scuola può essere quello della violazione della lingua
italiana per gli atti del procedimento penale; oppure quello della immutabilità del giudice.
Le nullità di ordine generale ricorrono quando vengono violati dei modelli comportamentali o delle
prescrizione generali previste dalla legge a pena di nullità dall’art. 178. Si fa riferimento a:
a) Le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi stabilito
dalle leggi di ordinamento giudiziario;
b) L’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale e la sua partecipazione al
procedimento;
c) L’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private nonché la
citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante.
Qualora ci dovesse essere un’inosservanza di tali prescrizione, ecco che scatterebbe il vizio di nullità. Però
occorre prima fare una duplice verifica.
Infatti, in primo luogo, se nella stessa norma violata sia contenuta una specifica previsione di nullità. In
caso negativo, accertare se l’inosservanza sia riconducibile alle situazioni elencate dall’art. 178. Nel caso ci
dovesse essere un secondo riscontro negativo, ecco che l’atto si ritiene solo meramente irregolare.
In particolare, l’art. 178 fa riferimento a tre figure. La prima è quella del giudice, la seconda il pubblico
ministero e il terzo all’imputato, alle altre parti private, alla persona offesa e al querelante.
Quanto riguardo al giudice, la lett. a fa riferimento alla sua capacità di acquisto delle funzioni
giurisdizionale e la capacità di esercitarle, distinguendo tra capacità generica (nomina, ammissione,
assenza di cause di compatibilità) e capacità specifica (regolare costituzione dell’organo giudicante,
assenza di situazione specifiche di incompatibilità). Non tutte queste situazioni però determinato una
nullità di ordine generale: non raramente la mancanza di alcuni di questi atti comportano una inesistenza,
come la mancanza di nomina o di un provvedimento di destinazione d’ufficio.

Il regime giuridico delle nullità: le nullità assolute, le nullità intermedie e le nullità relative
Sia le nullità speciali che quelle generali sono riconducibili a tre diversi tipi di nullità: assolute, a regime
intermedio e relative. Il codice di procedura penale – agli artt. 179, 180 e 181 – distingue queste tre tipologie.
La nullità assoluta (art. 179) presenta alcune caratteristiche fondamentali. Sono insanabili (non è possibile
l’adozione di una sanatoria, come avviene invece per le ipotesi di nullità intermedia e relativa), e sono
rilevate di ufficio (oltre che deducibile dalla parti) in ogni stato e grado del procedimento, le nullità
previste dall’articolo 178 comma 1 lettera a), cioè quelle relative alla violazione delle disposizioni
concernenti le condizioni di capacità del giudice ed il numero dei giudici necessario per costituire i
collegi stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario, quelle concernenti l’iniziativa del pubblico
ministero nell’esercizio dell’azione penale e quelle derivanti dalla omessa citazione dell’imputato o
dall’assenza del suo difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza (e in ogni caso non coinvolgono
le parti private diverse dall’imputato, né la persona offesa dal reato o il querelante). Si tratta di vizi molto
gravi, in grado di pregiudicare la regolare instaurazione e lo svolgimento del processo. Il comma 2
continua con il disporre che sono altresì insanabili e sono rilevate di ufficio in ogni stato e grado del
procedimento le nullità definite assolute da specifiche disposizioni di legge (esistono infatti ipotesi di
nullità assoluta anche al di fuori dell’elenco dell’art. 178).
Con la nullità a regime intermedio (art. 180) si fa riferimento a tutte le nullità di ordine generale non
dichiarate assolute dall’art. 179. Esso dispone che, salvo quanto disposto dall’articolo 179, le nullità
previste dall’articolo 178 sono rilevate anche di ufficio, ma non possono più essere rilevate né dedotte

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dopo la deliberazione della sentenza di primo grado ovvero, se si sono verificate nel giudizio, dopo la
deliberazione della sentenza del grado successivo.
In questo senso si ricava che solo alcune delle nullità di ordine generale di cui all’art. 178 prevedono una
rilevabilità anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento, poiché tutte le altre avendo in comune
la rilevabilità d’ufficio, sono assoggettate a tempi di rilevazione ben precisi e perentori che variano a
seconda del momento procedimentale in cui si verificano e dalla presenza o meno della parte interessata
al compimento dell’atto. Se invece la parte assiste allo svolgimento dell’atto, la nullità deve essere dedotta
prima del suo compimento; se invece non assiste, la nullità deve essere dedotta prima della deliberazione
della sentenza di primo grado, che ne segna appunto il limite cronologico. Diversamente per le nullità
rilevate nel corso del processo devono essere rilevate entro la deliberazione della sentenza di appello.
A questo punto viene da domandarsi che cosa accada se la nullità viene dedotta entro i termini previsti
dalla legge ma il giudice non la dichiari. Secondo la dottrina maggioritaria, la nullità può essere dichiarata
dal giudice del grado successivo senza la necessità che sia proposta una nuova deduzione.
La nullità relativa invece, ai sensi dell’art. 181, interviene solamente quando tale forma di nullità è
comminata da una specifica disposizione legislativa (la nullità relativa, perciò, può essere solo una nullità
speciale).
Per quanto riguarda le caratteristiche della nullità relativa, può essere rilevata solamente su eccezione di
parte: questa caratteristica è stata criticata dalla dottrina la quale ha sostenuto che impedire al giudice di
rilevare d’ufficio la nullità, comporta il rischio che essa non solo perduri nelle successive fasi del giudizio
ma soprattutto che le parti possano dedurre la nullità solamente con lo scopo di allungare i tempi del
processo. Esiste un’eccezione alla regola della non rilevabilità d’ufficio. È possibile infatti rilevare d’ufficio
le nullità dell’ordinanza che dispone una misura cautelare, quando la nullità deriva da mancanza dei
requisiti di contenuto previsti dalla legge, ovvero da mancata indicazione delle circostanze su cui si fonda
concessione misura cautelare.
Inoltre, può essere proposta entro ristretti limiti temporali previsti dalla legge. Questi limiti sono stati
introdotti proprio per evitare che le parti andassero ad abusare del loro potere di dedurre le nullità relative.
- Le nullità relative concernenti gli atti delle indagini preliminari, gli atti compiuti nell’incidente
probatorio e gli atti dell’udienza preliminare, devono essere eccepire prima del provvedimento
conclusivo dell’udienza preliminare (o in assenza di questo provvedimento, nel momento in cui
vengono discusse le questioni preliminari al dibattimento, cioè subito dopo la costituzione delle parti).
- Le nullità relative concernenti il decreto che dispone il giudizio e gli atti preliminari al dibattimento,
debbono essere eccepite nel momento in cui vengono discusse le questioni preliminari al dibattimento.
- Le nullità relative che si verificano nel giudizio, devono essere eccepite impugnando la sentenza (in
questo modo le nullità si convertono in motivi di impugnazione).

I limiti di deducibilità e le sanatorie


Il ossequio al principio di economia processuale, il legislatore ha inserito meccanismi con i quali si cerca
di rimediare e prevenire le nullità. La disciplina dei limiti di deducibilità deve essere nettamente distinta
da quella delle sanatorie.
I limiti di deducibilità impongono che la nullità non possa essere eccepita, ai sensi dell’art. 182, da:
1. Chi abbia concorso al verificarsi della causa di nullità o comunque non abbia interesse a che venga
osservata la disciplina violata; e quando la parte vi assiste, la nullità di un atto deve essere eccepita
prima del suo compimento ovvero, se ciò non è possibile, immediatamente dopo;
2. Chi non abbia rispettato i termini di deducibilità previsti dalla legge penale.

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La ratio è riscontrabile alla ricerca di favorire la lealtà processuale e quindi di responsabilizzare le parti
durante la formazione dell’atto, al fine di disincentivare comportamenti che siano causa, concausa o
condizione della nullità e così via.
La sanatoria invece, ai sensi degli artt. 183 e 184, opera di diritto senza che sia richiesto al giudice
un’apposita declaratoria e presuppone – naturalmente – l’esistenza di una nullità sanabile che non sia
ancora stata pronunciata. A questo punto se prima che viene pronunciata la nullità viene compiuto un atto
o viene ad esistenza un fatto che va a completare l’atto nullo, la nullità potrà essere sanata.
Il codice distingue due tipi di sanatoria:
a) Una sanatoria generale, che può essere utilizzata per qualunque tipologia di atto. In questa categoria
rientrano le due ipotesi di sanatoria previste dall’art. 183:
- Quando la parte che può eccepire la nullità dell’atto ha rinunciato a procedere all’eccezione ovvero ha
accettato il contenuto dell’atto (la c.d. acquiescenza);
- Quando la parte ha esercitato la facoltà il cui mancato esercizio era il presupposto dell’azione di nullità.
In tutte queste ipotesi la sanatoria opera automaticamente, quindi senza che sia necessaria un’apposita
declaratoria giudiziale.
b) Una sanatoria speciale: che può essere utilizzata solamente per determinate categorie di atti, volti ad
ottenere la comparizione di un soggetto processuale davanti al giudice. Si pensi come esempio alla
sanatoria speciale, prevista dall’art. 184, in materia di nullità delle citazioni, degli avvisi e delle
notificazioni.
Per quanto riguarda la citazione, in questo caso la nullità è sanata se la parte interessata è comparsa (si
considera comparsa la parte che si presenta personalmente e volontariamente in udienza) ovvero ha
rinunciato a comparire (cioè ha esplicitamente dichiarato che non comparirà in udienza, autorizzando che
essa si svolga in sua assenza).

Quali sono gli effetti derivanti dalla declaratoria di nullità?


Qualora i meccanismi disposti dal codice per prevenire o rimediare alle nullità non operino, il giudice deve
dichiarare la nullità, mediante declaratoria di nullità adottata con la forma dell’ordinanza.
Per quanto riguarda l’identificazione degli effetti della declaratoria di nullità, oltre all’automatica
caducazione degli effetti precari dell’atto (cioè degli effetti dell’atto che non si sono ancora esauriti), l’art.
185 dispone che:
1) Ai sensi del comma 1 dell’art. 185 vi è una diffusione, consequenzialità della nullità; in altre parole,
la nullità di un atto travolge anche gli altri atti che dipendono da questo. Si parla in questi casi di nullità
derivata. Affinché si applichi questa disciplina è necessario che fra l’atto viziato e l’atto derivato vi sia
un rapporto di consecutività e di dipendenza.
2) Vi è la possibilità che il giudice disponga la rinnovazione integrale dell’atto viziato (comma 2). La
rinnovazione potrà essere disposta dal giudice solamente quando l’atto risulta utile nel processo e
quando non sia surrogabile (è invece possibile la rinnovazione anche quando l’atto è ripetibile).
3) Vi è un’automatica regressione (comma 3) del procedimento allo stato o al grado del processo in cui
è stato compiuto l’atto nullo (questa regola vale solamente se la nullità colpisce un atto di natura
propulsiva, cioè un atto necessario alla prosecuzione del processo nelle sue varie fasi. Non trova invece
applicazione quanto colpisce un atto di natura probatoria).

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CAPITOLO V – IL CORPO DEL DIRITTO DELLE PROVE

Disposizioni generali

Delle prove si occupa il libro III del codice agli artt. 187-271. Questo libro è suddiviso in tre diversi titoli:
Il Titolo I denominato «Disposizioni generali». La disciplina contenuta è quella delle regole generali della
funzione probatoria, il cui esercizio consiste nelle attività svolte nel procedimento per acquisirvi le
conoscenze storiche necessarie a prendere provvedimenti e decisioni. La loro applicabilità è per il
dibattimento, mentre per le altre fasi si devono considerare le diverse situazioni che vi si presentino e cioè
se in ciascuna di queste ricorrano i presupposti.
Il Titolo II denominato «Mezzi di prova». Modellata sulla fase dibattimentale, richiede, invece, per le altre
fasi, un accertamento dei presupposti necessari per l’applicazione. I Mezzi di prova, per definizione, sono
gli strumenti utilizzati per introdurre nel processo i dati necessari a ricostruire il fatto oggetto del giudizio.
Questi sono intesi come gli istituti giuridico-processuali preordinati a introdurre nel processo i dati di
ricostruzione del fatto (per esempio: la testimonianza, l’esame delle parti, i confronti, le ricognizioni, gli
esperimenti giudiziali, la perizia, la consulenza tecnica endo-peritali, quella estraperitale, i documenti).
Il Titolo III denominato «Mezzi di ricerca della prova». Questi strumenti vengono utilizzati
principalmente nella fase delle indagini preliminari, a causa dell’elemento a sorpresa che li caratterizza (si
pensi ai sequestri o alle ispezioni); ciò nonostante i mezzi di ricerca della prova possono essere utilizzati
anche nelle fasi successive alle indagini preliminari (ad es. perché nella fase dell’udienza preliminare si
vuole sequestrare il corpo del reato, la cui collocazione viene scoperta in quel momento). Lo scopo dei
mezzi di ricerca della prova, non è quella di fornire delle prove ma di individuare degli elementi esterni
al processo (ad es. documenti o corpi del reato) che dopo essere stati trovati possono essere utilizzati come
mezzi di prova.

La prova assume una funzione specifica a seconda della fase del procedimento in cui viene assunta.
Nelle indagini preliminari, lo scopo della prova è quello di stabilire se la notizia di reato ha fondamento e
se ha senso promuovere l’azione penale. In contingenze particolari si allestiscono incidenti probatori di
utilizzabilità dibattimentale.
Nell’udienza preliminare, invece, le prove sono utilizzate per rafforzare quelle raccolte nella fase delle
indagini preliminari e per verificare se la tesi dell’accusa, delineata al momento della promozione
dell’azione penale, debba considerarsi valida.
In ultimo, nella fase dibattimentale, si utilizza la prova per decidere la fondatezza dell’imputazione. Una
regola generale è quella per cui, la decisione del dibattimento, può avvenire solamente sulla base di prove
assunte nella fase dibattimentale.

Il principio di legalità probatorio


Il principio di legalità probatorio, richiamato a proposito delle prove dall’art. 526 c.p.p., impone che si
possano utilizzare solamente i mezzi di prova previsti dalla legge e secondo modalità conformi alla legge.
Tale principio sta a significare che per formare liberamente il suo convincimento, il giudice non può
avvalersi di qualsiasi conoscenza, ma solo di quelle che gli provengano dagli esiti di procedimenti
probatori esperiti in conformità alla legge. Si può dire che questa linea probatoria sia stata assunta come
un contrappeso, legata al libero convincimento del giudice – che prima di questa scelta legislativa era
soggetto a soluzioni arbitrarie se non addirittura ad abusi.

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Questo principio è tuttavia bilanciato dalla possibilità di utilizzare, in determinati casi, prove atipiche non
previste dai modelli legislativi. Quando si parla delle prove atipiche, bisogna esaminare 3 punti
fondamentali che le caratterizzano:
In quale misura è consentito l’utilizzo delle prove atipiche? Le prove atipiche sono sicuramente utilizzabili
e questo trova conferma nell’art. 189 (rubricato «prove non disciplinate dalla legge»), il quale dispone che
quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea
ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona.
Esistono, tuttavia, dei limiti all’utilizzabilità di queste prove: infatti non è possibile utilizzare mezzi di
prova atipici quando la legge prevede che, per accertare un determinato fatto, debba essere utilizzato
tassativamente un certo mezzo di prova. Quindi, se la prova dovesse essere assunta in violazione di questo
divieto tassativo, allora sarà ritenuta inutilizzabile (art. 191). Il profilo tipico è ravvisabile
nell’inderogabilità del modello legale tipico senza disattendere alla tassatività e al nesso funzionale tra le
sue componenti.
Quanto ai requisiti che deve avere la prova atipica per essere assunta, l’art. 189 dispone che:
- La prova sia idonea a ricostruire il fatto per il quale viene adottata (validità data anche alla prova
scientifica);
- Non leda la libertà morale della persona, altrimenti verrà decretata l’inutilizzabilità della prova
qualora si ricorra all’utilizzo di strumenti idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad
alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti;
- L’assunzione deve essere preceduta da un contraddittorio tra le parti circa le rispettive modalità
d’assunzione. Infatti, al comma 3, lo stesso articolo dispone che alla prova atipica provvede il giudice,
sentite le parti sulla modalità di assunzione.
Anche non essendo previsto il principio di tassatività, il giudice comunque non è lasciato in una totale
libertà nell’assunzione della prova per via delle condizioni richieste dall’art. 189.
Passando a esaminare i mezzi probatori atipici che possono essere utilizzati nel corso del processo, è
possibile distinguere diverse tipologie:
1. La prova atipica innominata: si tratta di quei mezzi atipici di prova che non presentano nessuna
caratteristica in comune con mezzi di prova tipici e non sono previsti nel catalogo. Si tratta di una
categoria praticamente inesistente, dato che non esistono mezzi di prova atipici in cui nessun elemento
è riconducibile a un mezzo tipico di prova.
2. La prova atipica anomala: nel mezzo probatorio richiesto una componente tipica della sua struttura è
sostituita da una componente tipica di un diverso mezzo probatorio. Si pensi ad es. alla possibilità che
la ricognizione (cioè quel mezzo di prova che permette ad un soggetto, che ha assistito alla
commissione di un reato, di riconoscerne l’autore mettendo quest’ultimo in una stanza con altri
soggetti) avvenga secondo lo schema tipico della testimonianza (cioè mediante un’identificazione del
colpevole compiuta direttamente in udienza). In questo caso, in realtà, la prova dovrebbe ritenersi
inammissibile, dato che per accertare i fatti oggetto della ricognizione, la legge prevede tassativamente
la necessità di utilizzare il mezzo di prova tipico (cioè la ricognizione).
3. La prova atipica irrituale: nel mezzo probatorio richiesto una sua componente tipica è sostituita con
una componente non prevista dal catalogo per alcun mezzo di prova. Ora non si aspetta altro che
verificare se nella situazione concreta una tale componente atipica sia tale da disattendere un profilo
di tassatività. Si pensi ad una perizia compiuta su di una registrazione, in cui un esperto ascoltandola
riesce ad identificare la voce di un sospettato. L’ascolto di un esperto non è classificato nelle ipotesi di
perizia (non essendo una tecnifica scientifica vera e propria); ciò classificherà la perizia come atipica
ma non come inammissibile (in quanto le modalità di perizia, indicate dal c.p.p. non sono tassative).

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Giusto processo e prova


Il giusto processo, così come disciplinato dall’art. 111 comma 1 Cost., è quel principio che permette di
identificare gli elementi minimi che il processo deve possedere. Per quanto riguarda le prove, una serie di
principi correlati devono essere garantiti affinché si possa considerare rispettato il principio del giusto
processo:
- Il principio di legalità. Infatti la ricostruzione del fatto deve avvenire con i metodi previsti dalla legge,
sia riguardo all’ammissione e assunzione dei mezzi probatori che alla valutazione dei loro risultati.
Medesimo discorso per la prova atipica, che può essere consentita laddove rientri nei limiti e le
modalità che non riducono irragionevolmente la legalità della funzione probatoria;
- Il principio della terzietà e imparzialità del giudice. In base al quale la funzione probatoria deve
essere esercitata dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale. Per questo motivo il giudice, salvo casi
eccezionali, non può esercitare l’iniziativa nell’assunzione dei mezzi di prova, cioè un ruolo attivo
nella ricerca e acquisizione degli elementi conoscitivi; a questo discorso si ricollega anche la neutralità
metodologica dell’organo giudicante, premessa indispensabile ai fini di una decisione che cagioni un
pregiudizio sorto da coinvolgimenti. Inoltre, l’imparzialità denota la collocazione del giudice
nell’ordinamento giudiziario, che non deve inserirlo in una organizzazione che lo accomuni al
pubblico ministero, che è il titolare della funzione d’accusa (la loro comunanza comprometterebbe
l’effettiva terzietà del giudice nel processo e la sua neutralità rispetto alla controversia).
- L’uguaglianza delle parti. Nel corso del giudizio le parti debbono essere titolari di situazioni
giuridiche paritetiche, degli stessi poteri, diritti e oneri. Ciò significa, in materia di prove, che accusa e
difesa hanno il pieno diritto di produrre in giudizio le prove necessarie al fine di ottenere,
rispettivamente, la condanna e l’assoluzione.
- Diritto alla prova. Accusa e difesa hanno uguale diritto all’ammissione delle prove a carico e a
discarico e a escutere davanti al giudice le persone che rendono dichiarazioni, in modo tale che la
colpevolezza non venga affermata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre
volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore.
In generale, quanto al diritto di prova, l’art. 190 sancisce che le prove sono ammesse a richiesta di parte
e il giudice provvede senza ritardo con ordinanza escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che
manifestamente sono superflue o irrilevanti. La legge però stabilisce che in alcuni casi le prove possono
essere ammesse d’ufficio.

Che cos’è l’oggetto della prova? La funzione probatoria è contenuta all’interno del thema probandum e del
thema probans. Il primo fa riferimento ad una enunciazione storica dell’imputazione formulata con l’atto di
promovimento dell’azione penale, ribadita nel decreto che dispone il giudizio ed eventualmente
modificata nell’udienza preliminare o nel dibattimento; la seconda è l’enunciazione del fatto posta a base
della richiesta di un mezzo di prova che, con la sua dimostrazione positiva o negativa, statuisce, in sede
di valutazione, con l’oggetto dell’imputazione confermandolo o meno. Ed è proprio il thema probans a
costituire l’oggetto della prova che, ai sensi dell’art. 187 c.p.p. fa riferimento a:
a) I fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità, alla determinazione della pena o delle misure
di sicurezza. All’interno di questa categoria è possibile distinguere:
- I fatti giuridici (o fatti principali), che vogliono dimostrare l’applicabilità o l’inapplicabilità della
norma penale;

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- I fatti semplici (o fatti secondari), che possono essere utilizzati per dimostrare l’esistenza di un fatto
giuridico (si pensi all’alibi, che collocando il sospettato o l’imputato in un posto diverso al
momento della commissione del reato, dimostra l’esistenza di un fatto giuridico impeditivo
all’applicazione della norma penale). È possibile, inoltre, che i fatti semplici vengano utilizzati per
confermare la validità di un altro mezzo di prova: si tratta dei c.d. risconti;
b) I fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali;
c) Inoltre, se nel processo si è costituita la parte civile, sono oggetto di prova i fatti inerenti alla
responsabilità civile derivante dal reato.
Nel processo penale la ricostruzione del fatto va perseguita con tutti i mezzi probatori previsti dalla legge
processuale penale. Però vi è un’eccezione: infatti non è possibile introdurre prove in materia dello stato
di famiglia e di cittadinanza, giustificate dal fatto che il loro rilievo richiede stabilità e uniformità di
accertamento nelle loro sedi naturali.

Classi probatorie

Per comodità la dottrina usa distinguere fra diverse categorie di mezzi probatori.
Anzitutto bisogna ricordare la distinzione fra prove precostituite e prove costituende:
La prova precostituita è quella che si è formata prima dell’inizio del procedimento (si pensi ad es. al corpo
del reato, alle altre cose pertinenti con il reato ecc.). In questo caso l’atto probatorio si limiterà ad acquisire
il mezzo di prova.
La prova costituenda viene in essere nel processo con l’impiego dei mezzi probatori, nel momento in cui
viene svolta l’attività probatoria necessaria alla sua adozione (si pensi alla testimonianza).

Un’altra distinzione, che viene fatta dalla dottrina, è quella fra prova rappresentativa e prova critica:
1) La prova rappresentativa o prova storica o diretta ha per oggetto l’enunciazione di un fatto che coincide
con l’enunciazione di un fatto contenuto nell’imputazione. È un procedimento logico che dal fatto noto
ricava, per rappresentazione, l’esistenza del fatto da provare.
2) La prova critica o prova logica o indiretta, invece, enuncia un fatto che può anche non essere enunciato
nell’imputazione perché non riproduce un estremo della fattispecie di reato. Tale metodo implica un
ragionamento deduttivo e induttivo che si può compiere attraverso un breve iter:
1. L’accertamento in modo inconfutabile del dato o del fatto da assumere come premessa;
2. Ricondurre il dato o il fatto ad una regola d’esperienza generale, ricavata in via induttiva, che stabilisce
una connessione logica tra più accadimenti (l’esempio di scuola è l’alibi, oppure, dal punto di vista
scientifico, la presenza di un’impronta digitale);
3. Valutazione deduttiva del dato e del fatto alla stregua di questa «massima», al fine di pervenire ad
una conclusione affermativa o negativa.
Dunque con la prova critica si arriva all’affermazione o negazione di un fatto mediante un ragionamento
deduttivo, inferenziale condotto con l’impiego di leggi logiche o scientifiche non probalistiche.

Dalla prova critica viene distinto l’indizio, che è un fatto semplice da cui si deduce un fatto giuridico (per
esempio il corpo del reato rinvenuto con una perquisizione; ovvero tracce della condotta criminosa rilevate
con un’ispezione).
Tale tipo di prova è un procedimento mediante il quale, partendo da un fatto provato (la c.d. prova
indiziaria) si ricava, attraverso la logica, massime di esperienza o leggi scientifiche probabilistiche,
l’esistenza di un fatto da provare; e, affinché le circostanze indizianti possano ritenersi idonee a dimostrare

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l’esistenza del fatto da provare, è necessario che ricorrano determinate condizioni che diano un’affidabile
incontrovertibilità.
Dunque, l’Inferenza è possibile, ai sensi dell’art. 192 comma 2 c.p.p. solamente quando «l’esistenza del
fatto viene desunta da indizi gravi, precisi e concordanti».
La precisione attiene alla premessa del ragionamento deduttivo e deve consistere in un dato di pratica
certezza, non vago, non ambiguo nella sua consistenza storica. La gravità, invece, attiene alla concludenza
del ragionamento giuridico, che sulla base di una premessa precisa deve approdare a enunciare un fatto
in termini ragionevolmente non controvertibili. In ultimo, la concordanza stabilisce una regola di
fondamento legale, ossia al fine di assicurare una ragionevole certezza del fatto ricavato dall’operazione
deduttiva, occorre che questo sia sostenuto e suffragato da una pluralità di dati indizianti tra loro
concordanti.
Il limite alla prova indiziaria è dato dalla praesumptio de praesumpto o indizio mediato, cioè una catena di
deduzioni la cui la validità dell’una dipende dalla validità dell’altra.

Bisogna ricordare la distinzione, operata dalla dottrina, fra prova a carico e prova a discarico. Dove le
prime, le prove a carico, sono quelle prove che vengono utilizzate per dimostrare la fondatezza dell’accusa;
mentre le seconde, le prove a discarico, sono utilizzate per dimostrare che l’accusa è infondata.
Quando viene ammessa una prova a carico deve essere ammessa anche la corrispondere prova a discarico
e viceversa.
Inoltre, c’è da tenere a mente anche della distinzione tra prova diretta e prova indiretta (chiamate
altrimenti come prova rappresentativa e prova critica). La prima consiste in una percezione diretta nel suo
divenire e formarsi nella realtà che ha come oggetto il fatto stesso che deve essere provato ed è
immediatamente utile per il giudizio (come la testimonianza); la seconda è quella che ha ad oggetto una
ricostruzione di un fatto di cui è mancata l’immediata percezione del quale un soggetto è chiamato a
giudicare.
Un altro tipo di prova è quello documentale, la quale rappresenta fatti, persone o cose mediante la
fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsia altro mezzo. Tale tipo di prova ha efficacia
rappresentativa e valenza probatoria dotata di una forza inoppugnabile.
Ultimi tipi di prova sono quelli che risultano dalla distinzione tra prova generica e specifica: la prima
consiste nell’accertamento se un determinato reato sia stato o non stato commesso e, se sì, con quali mezzi,
quali modalità, in quali circostanze; la seconda invece, mira a trovare l’autore provandone la
responsabilità.

Il procedimento probatorio e le sue fasi

L’introduzione in giudizio di un mezzo di prova, avviene attraverso un insieme di atti concatenati fra loro,
secondo una sequenza predeterminata dal legislatore, definita procedimento probatorio. È possibile
distinguere tre fasi: l’ammissione, l’assunzione e la valutazione.

Parte 1. L’ammissione
Ai sensi dell’art. 190, l’ammissione avviene su richiesta di parte, tranne nei casi in cui la legge prevede che
il giudice possa ammetterla d’ufficio (i mezzi di prova che possono essere ammessi solo a richiesta di parte
non sono suscettibili di ammissione per iniziativa d’ufficio).

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Una volta che la parte ha presentato la richiesta per l’ammissione di un mezzo di prova, il giudice deve
accoglierla a meno che non ci siano dei limiti alla loro ammissione, che possono essere così elencati e
regolamentate dall’art 190, comma 1:
1. La prova è vietata dalla legge (si dice che la prova è contra legem) e allora essa sarà inammissibile;
2. La prova è manifestatamente superflua. Bisogna suddividere tale punto in altri 2:
a. Quando è superfluo, i mezzi probatori che con il proprio oggetto sono intesi a dare la
dimostrazione positiva o negativa dell’oggetto dell’imputazione conseguibile in modo esauriente
con altri mezzi di prova. Si pensi ad es. alla richiesta di svolgere una perizia rispetto ad un fatto
che è già stato provato per mezzo di testimoni.
Connessa con la superfluità è la possibilità che il giudice, nel corso dell’istruzione dibattimentale,
accerti che un mezzo di prova che prima era stato ammesso è in realtà superfluo. In tal caso il
giudice revocherà l’ammissione di quel mezzo di prova, per poi valutare se i mezzi di prova
precedentemente dichiarati superflui possano ritenersi utili.
b. Quando è sovrabbondante, si pensi ad esempio alla richiesta di esaminare un numero eccessivo
di testimoni. In questo caso il giudice ha il potere-dovere di impedire l’assunzione dei testimoni
ridondanti.
3. La prova è manifestatamente irrilevante. Sarà definita tale quella prova che presenta le seguenti
caratteristiche:
- Non è verosimile, ossia l’oggetto deve essere verificabile in base agli apparati di conoscenza di cui
si dispone grazie alle leggi della logica e della scienza. Si pensi ad un avvocato che, per dimostrare
l’incapacità di intendere e di volere del suo cliente al momento del compimento del fatto, eccepisca
che questi ha agito durante la luna piena (eccezione realmente eccepita durante un processo negli
Stati Uniti).
- Non è pertinente, per il quale è necessario che l’oggetto di prova postuli un esito dell’operazione
probatoria che influisca sulla decisione.

In ultimo, l’art. 189 dispone una disciplina differente che può qualificarsi come «regime di esclusione»
che presiede ai giudizi sull’ammissione dei mezzi probatori atipici. Infatti, quando è richiesta una prova
non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento
dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. E dunque non solo se non risultano i parametri
dell’art. 190 (vietati dalla legge, manifestamente superflui o irrilevanti).

Una disciplina particolare è prevista per l’ammissione delle c.d. prove scientifiche. Nella prassi
processuale è sempre più frequente l’uso di risorse della scienza e della tecnica e che quindi esulano dalla
comune sapere di un esperto. Essi devono comunque essere intese e comprese nell’organico di tutti mezzi
probatori, con i quali hanno rapporti necessari – come nel caso della perizia e la consulenza tecnica – e con
altri invece no.
Tradizionalmente la dottrina usa distinguere due categorie di prove scientifiche: quelle comuni collaudate
e quelle nuove non collaudate.
Quanto riguarda le prima (comuni e collaudate), si tratta di prove scientifiche la cui validità è già stata
verificata in numerosi processi (si pensi ad es. all’autopsia). Esse non presentano particolari problemi, e
l’ammissione avverrà secondo le modalità previste per le altre prove dall’art. 190.
Quanto alle seconde (nuove e non collaudate), a differenza di quelle collaudate, richiedono un’apposita
verifica da parte del giudice che, prima di poterne disporre l’ammissione, deve verificare l’idoneità della
nuova prova scientifica a ricostruire il fatto e la non lesività della libertà morale della persona (si tratta

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della disciplina prevista per le prove atipiche). In tema di prove scientifiche, la Corte di cassazione – già
nel 2002 con la famosa sentenza Franzese e successivamente nel 2010, sentenza Cozzini, e nel 2013,
sentenza Cantore – è intervenuta sul punto elaborando una disciplina all’interno del governo del processo.
Quanto affermato nella celeberrima sentenza «Franzese» della Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni
Unite 11/09/2002, secondo cui mentre la probabilità statistica attiene all’individuazione della frequenza
che caratterizza una determinata successione di eventi, la probabilità logica, seguendo l’incedere
induttivo del ragionamento probatorio per stabilire il grado di conferma dell’ipotesi formulata in ordine
allo specifico fatto da provare, contiene la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile,
dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale
credibilità dell’accertamento giudiziale.
Da qui la conclusione secondo cui coefficienti di probabilità anche «non prossimi ad 1» potranno, in un
contesto probatorio caratterizzato dal raggiungimento della prova dell’insussistenza di altri fattori
eziologici, condurre ad un accertamento positivo dell’esistenza del nesso causale; simmetricamente,
coefficienti elevatissimi di probabilità non potranno di per sé soli giustificare il riconoscimento della
sussistenza del nesso causale in presenza di un quadro probatorio inidoneo ad escludere la rilevanza, nella
ricostruzione del processo produttivo dell’evento, di spiegazioni alternative a quella incentrata sulla
condotta dell’accusato. In altri termini, il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base
delle circostanza di fatto e
Dell’evidenza disponibile, cosicché, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso
l’interferenza di altri fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la
condotta sia stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale
e probabilità logica.
Il giudice dunque non può assistere passivo all’accertamento del sapere scientifico, ma deve assumere un
ruolo critico, divenendo custode del metodo scientifico (iudex peritus peritorum).
Se di problemi non assurgono in sede di prova scientifica comune, non è così in quella nuova, che infatti
comporta problemi in tema di ammissibilità di prova atipiche così disciplinate dall’art. 189, che infatti
richiede una verifica che garantisca la ricostruzione del fatto e la non sua lesività della libertà morale della
persona, come detto precedentemente; inoltre, per ragioni di economia processuale, si richiede che la
verifica si svolta prima dell’assunzione per evitare la stasi del processo.

Parte 2. L’assunzione
L’assunzione, che consiste nell’attività con la quale si introducono i dati di conoscenza storica necessari
per la ricostruzione del fatto, avviene secondo le modalità stabilite dalla legge ovvero, per le prove
atipiche, secondo le modalità stabilite dal giudice.
In tale fase è assicurato il principio di legalità probatoria, essendo decisivo per l’attuazione del diritto alla
prova, che le parti possano fare affidamento su regole predeterminate le quali garantiscano che
l’operazione probatoria non sia suscettibile di discrezioni.
L’assunzione, dunque, è la fase che segue immediatamente quella dell’ammissione; ed essa presenta le
seguenti caratteristiche:
1. Innanzitutto, ha natura dialettica (o di contraddittorio) e dunque non è un’attività unilaterale, dal
momento che entrambe le parti debbono partecipare alla sua assunzione e proprio queste sono i
protagonisti;
2. Non ha natura autoritativa, in quanto non è attribuita al giudice, che è collocato in posizione di
terzietà, infatti il suo compito è quello di garantire la corretta assunzione.

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Il fulcro di questa struttura è il contraddittorio per la prova, che consiste nell’attività con cui le parti
formano la prova, nel quale le parti assumono la qualifica di protagonisti e il metodo dialettico assurge
come lo strumento di conoscenza più proficuo per coltivare le ricerche e ottenere i risultati.
L’assunzione è la fase presupposto per la successiva valutazione, però, nel suo concreto operare, il giudice
compie alcuni giudizi valutativi.

Parte 3. La valutazione
La valutazione della prova ha come scopo di determinare quali siano stati gli effetti della sua assunzione.
È possibile distinguere due fasi.
Nella prima fase vengono valutati i dati raccolti con i singoli mezzi di prova e se ne misura l’attendibilità;
nella seconda fase è valutata l’istruzione probatoria nel suo complesso. Qui si svolge un giudizio: la
valutazione in questa seconda fase dovrà avvenire attraverso le seguenti modalità:
1. Verifica incrociata dei risultati raggiunti con i singoli mezzi di prova espressi nel primo stadio della
valutazione;
2. Misurazione comparativa del grado di efficacia dimostrativo-persuasivo dei risultati di prova
selezionati come attendibili con la precedente valutazione;
3. Fissazione da parte del giudice dei fatti che risultano provati (il c.d. factum probans) dall’esame
incrociato dei vari mezzi di prova, organizzando un quadro unitario i giudizi sui singoli risultati di
prova;
4. Confronto tra il factum probans complessivo e il thema probandum. In questa fase il giudice determina
logicamente o non conferma ciò che è stato formulato nell’imputazione;
5. Accertamento se dall’insieme delle prove risulta dimostrata l’imputazione formulata dal pubblico
ministero con l’esercizio dell’azione penale: ciò avviene attraverso la decisione sull’esistenza o
sull’inesistenza dei fatti su cui si fonda l’imputazione (verificando, appunto, se tali fatti trovano un
riscontro nelle prove utilizzate nel giudizio).

Il giudice, nell’esercitare la funzione di valutazione degli esiti delle operazioni probatorie, deve seguire i
criteri del libero convincimento. In questo senso, l’organo giudicante è affrancato da norme legali che lo
vincolino ad attribuire a un risultato probatorio un determinato valore (superando il sistema delle prove
legali, per le quali i fatti una volta verificati imponevano di dimostrare la sussistenza inconfutabile di altri
perché dimostrati con prove ad efficacia legalmente predeterminata): questo però non vuol dire avere
piena discrezionalità in ambito probatorio; infatti ci sono dei limiti e dei criteri stabiliti che ne assicurano
la razionalità e non un giudizio soggettivo e arbitrario. E di questo se ne deve dare conto con l’obbligo di
motivazione definito nel comma 3 dell’art. 192.
È possibile distinguere 3 tipologie di regole:
- Le regole logiche, scientifiche, tecniche o di senso comune. Queste regole vogliono garantire che la
valutazione del giudice sia razionale. Nel momento in cui il giudice va a motivare la sua valutazione
dovrà dimostrare il rispetto di queste regole provando che la decisione non è dovuta a un
procedimento mentale irrazionale;
- Le regole fissate per i ragionamenti inferenziali da svolgere in particolari situazioni probatorie,
riprendendo i commi 2, 3, 4 dell’art. 192 («l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a
meno che questi siano gravi, precisi e concordanti» (comma 2). È la cd. prova indiziaria o critica, che
sancisce un’eccezione al principio del libero convincimento.
Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento
connesso a norma dell’art. 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano

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l’attendibilità (comma 3), chiamato riscontro. La disposizione del comma 3 si applica anche alle
dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso
previsto dall’articolo 371 comma 2 lettera b (comma 4). Questi commi sanciscono la chiamata in
correità.
- Le regole introdotte attraverso consolidati orientamenti giurisprudenziali. Si pensi, ad esempio, alla
testimonianza della parte civile che si è costituita in giudizio. Un orientamento giurisprudenziale
consolidato vuole che la testimonianza della parte civile sia esaminata in maniera critica dal giudice,
dato l’interesse che questa parte ha nella condanna dell’imputato.

Prova nulla, inutilizzabile o illecita

La violazione delle norme che disciplinano l’attività probatoria, può portare all’invalidità o all’illeceità.
1) L’invalidità viene comminata qualora vengano violate norme processuali, per la cui violazione la legge
stabilisce tassativamente la nullità ovvero l’inutilizzabilità delle prove raccolte:
- La nullità, che è disposta dalla legge ogni qual volta venga violata una norma che disciplina i
presupposti degli atti ovvero le forme per il loro compimento. La nullità può essere assoluta,
intermedia o relativa, a seconda che sia riconducibile ad una di queste tre ipotesi.
L’esempio di scuola è quello per cui la legge prevede, ad esempio, la nullità quando in sede di
testimonianza il giudice non avverte l’imputato delle possibili conseguenze della sua testimonianza e
non gli fa pronunciare l’impendo a dire tutta la verità.
Dunque, l’inosservanza comporta che i risultati conseguiti non possono essere utilizzati per la
decisione.
- L’inutilizzabilità, che è disposta quando viene assunta una prova che è vietata da specifiche
disposizioni processuali. Si pensi ad esempio al pubblico ministero che, nella fase delle indagini
preliminari, dispone una consulenza tecnica che prevede l’uso dell’ipnosi (violando la libertà morale
della persona, di cui all’articolo 188, così come affermato dalla Corte Suprema incidendo sulla libertà
di autodeterminazione).
2) L’illeceità della prova si ha qualora violi norme di diritto penale sostanziale. Si pensi ad esempio alla
perquisizione penale eseguita dal pubblico ufficiale abusando dei suoi poteri. L’illeceità della prova
implica la commissione di un reato (nel caso dell’esempio il reato è compiuto dal pubblico ufficiale) questo,
tuttavia, non significa che la prova non possa essere utilizzata dal giudice nel processo; non significa cioè
che la prova sia invalida dal punto di vista processuale perché ci dovrebbe essere un norma processuale
penale che statuisca la nullità o l’inutilizzabilità (se si pensa alla perquisizione, se essa porta al regolare
sequestro del corpo del reato, che viene poi validamente introdotto nel processo, esso è valido
processualmente a prescindere dall’abuso di potere di cui si è reso responsabile il pubblico ufficiale dal
punto di vista del diritto penale sostanziale).
3) Incostituzionale: disposte o assenti in violazione di diritti fondamentali.

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CAPITOLO VI – I MEZZI DI PROVA

La testimonianza

La testimonianza (artt. 194-207) consiste in una dichiarazione che un terzo, esterno alla causa, mediante le
proprie attitudini sensoriali e la memoria, rende in udienza.
Per quanto concerne l’oggetto della testimonianza, ai sensi dell’art. 194, essa deve riguardare l’oggetto
della prova. Al comma 2 si sancisce che l’esame può estendersi anche ai rapporti di parentela e di interesse
che intercorrono tra il testimone e le parti o altri testimoni nonché alle circostanze il cui accertamento è
necessario per valutarne la credibilità. La deposizione sui fatti che servono a definire la personalità della
persona offesa dal reato è ammessa solo quando il fatto dell’imputato deve essere valutato in relazione al
comportamento di quella persona. Mentre la testimonianza non può riguardare la moralità dell’imputato
(limiti alla testimonianza), trattandosi di una valutazione soggettiva su cui è impossibile fornire una
dichiarazione. Inoltre, la testimonianza non può portare all’autoincriminazione del testimone, ai sensi
dell’art. 198 comma 2. Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico, né esprimere apprezzamenti
personali, salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti.

Che cos’è la testimonianza indiretta? Della testimonianza indiretta (de relato o de auditu) si occupa l’art.
195. Si tratta di quella testimonianza in cui il testimone non racconta fatti di cui è venuto a conoscenza
direttamente, bensì di conoscenze che gli sono state comunicate da altri al di fuori del processo.
Ma c’è un problema. Il problema è che nella testimonianza indiretta è difficile attestare il grado di
attendibilità della fonte e le eventuali deformazioni che la notizia ha subito nel passaggio dalla fonte al
testimone de relato (cioè al testimone indiretto). Per questo motivo il legislatore ha introdotte alcune regole
di tutela:
- La testimonianza indiretta è possibile solamente se viene indicata la fonte, e quindi indicata la persona
protagonista dell’esperienza diretta, in modo che il giudice, su ufficio o su istanza di parte, possa
disporne, se necessario, la convocazione in udienza. Questa regola non trova applicazione se la fonte
è deceduta, inferma o irreperibile, secondo quanto dispone l’art. 195, comma 7, per il quale risulta
inutilizzabile;
- La testimonianza indiretta, inoltre, non può essere utilizzata quando la fonte è depositaria di un
segreto professionale o d’ufficio, salvo che di quel segreto si sia già venuti a conoscenza nel processo
per altra via, ad es. attraverso un’altra prova (comma 6).
- Nel caso in cui non vengano rispettati i requisiti necessari, la testimonianza è invalidata dal vizio
dell’inutilizzabilità.
Una particolare disciplina è prevista per la testimonianza indiretta della polizia giudiziaria. L’art. 4 della
legge sul giusto processo (la legge 63/2001) ha introdotto all’art. 195 comma 4 il principio per cui la polizia
giudiziaria non può fornire testimonianza indiretta, in primo luogo, sulle informazioni assunte attraverso
l’interrogatorio compiuto sui testimoni del procedimento (quando essi si qualificano, semplicemente,
come persone informate sui fatti); in secondo luogo, sul contenuto di denunce, querele, istanze e altri atti
utilizzati per la segnalazione delle notizie di reato; in terzo luogo, sulle dichiarazioni rese spontaneamente
dall’imputato, quando egli si qualificava come indagato nella fase delle indagini preliminari.
La ratio di questa norma è la volontà di garantire la regola generale per cui il dibattimento deve essere
deciso con le prove assunte nella fase dibattimentale.

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La capacità di testimoniare
Ai sensi dell’art. 196, si stabilisce il principio della generale capacità giuridica di testimoniare la cui ratio è
che il contributo dichiarativo di chi ha avuto un’esperienza conoscitiva storica del fatto oggetto di prova è
strumento unico e infungibile di ricostruzione di tale fatto e deve essere svincolato da regole che possano
negare o limitare l’impiego probatorio.
Ogni persona ha la capacità di testimoniare. Ciò significa che è possibile acquisire, ad esempio, anche la
testimonianza dei minorenni, degli interdetti, degli inabilitati ecc. (anche se con le procedure diverse,
introdotte dalla legge per garantire detti soggetti).
Tuttavia il comma 2 dell’art. 196 permette al giudice, se lo ritiene necessario, di valutare l’idoneità fisica e
mentale del testimone. L’accertamento di un’incapacità naturale, tuttavia, non impedirà l’assunzione della
testimonianza, qualora essa sia utile alla ricostruire dei fatti oggetto della causa. In caso di accertamento
negativo della capacità naturale non pregiudica necessariamente l’assunzione della testimonianza, che
comunque potrà fornire elementi utili alla ricostruzione del fatto.

Alla generale capacità di testimoniare, la legge prevede che la posizione assunta da alcuni soggetti sia
incompatibile con la capacità a testimoniare (art. 197) e che quindi alcuni limiti sono così elencati.
Una prima incompatibilità è prevista per i soggetti che sono coimputati nello stesso procedimento ovvero
imputati in un procedimento connesso ex art. 12, comma 1, lett a (concorso o cooperazione nel reato), per
i quali l’incompatibilità permane soltanto finché non interviene sentenza irrevocabile. La ratio di questa
norma è quella di evitare che il diritto alla difesa dell’imputato possa essere limitato dall’obbligo di dire
tutta la verità in qualità di testimone.
Una seconda incompatibilità è prevista per coloro che sono imputati in un processo teleologicamente
connesso (si pensi ad esempio ad un procedimento in cui viene giudicato un reato i cui risultati sono stati
utilizzati per realizzare reati giudicati da un altro procedimento) ovvero per coloro che sono imputati in
un reato preso in considerazione per fini probatori. Anche in questo caso di vuole evitare che venga minato
il diritto alla difesa dell’imputato, dato il collegamento esistente fra i due procedimenti; questi risultano
incompatibili con la testimonianza fino al proscioglimento, alla condanna o alla sentenza di applicazione
della pena irrevocabili e sempre che non abbiano già reso dichiarazioni su fatto altrui dopo l’avvertimento
(altrimenti avrebbero assunto l’ufficio di testimone e le stesse garanzie).
Una terza ipotesi di incompatibilità è prevista per il responsabile civile e per la persona civilmente
obbligata, che, in questo caso, l’incompatibilità deriva dall’interesse che questi soggetti hanno a che
l’imputato venga condannato. Nonostante non possano testimoniare, le loro dichiarazioni potranno essere
assunte nell’ambito dell’esame delle parti di cui all’art. 208.
Una quarta ipotesi di incompatibilità è prevista per il giudice, il pubblico ministero, i loro ausiliari, il
difensore, che in questo caso l’incompatibilità deriva dalla necessità di garantire che i soggetti qui indicati
svolgano le funzioni a cui sono preposti. Non è prevista, invece, alcuna incompatibilità per i periti e gli
interpreti.
Inoltre, come risulta da una recente decisione di Cassazione, un’ulteriore ipotesi di incompatibilità è quella
per cui colui che risulti essere persona offesa e, al tempo stesso, indagato in atto o di imputato di reato
connesso se non si è dato l’avviso di cui all’art. 64, comma 3 lett. c; al contrario, se nei suoi confronti è già
intervenuta una sentenza irrevocabile, allora questi potrà assumere la veste di testimone, anche senza
ricorrere all’avviso.

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Chi è il testimone assistito? L’art. 197 bis, introdotto con la legge del giusto processo del 2001, stabilisce
che gli imputati di un procedimento connesso possono comunque assumere – anche al di là della
situazione di incompatibilità creatasi – la veste di testimone. Questo però avviene in alcune situazioni:
- Se è intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna o di assoluzione per gli imputati in un
procedimento connesso o collegato probatoriamente al fine di dimostrare la loro indifferenza ai fatti;
- Se l’imputato connesso in un procedimento connesso teleologicamente o connesso, nonostante il
procedimento sia ancora pendente ovvero chiuso con un decreto di archiviazione, ovvero una
sentenza di non luogo a procedere, fornisce una testimonianza che implica una responsabilità penale
altrui (e non una sua responsabilità). In tal modo viene garantito il diritto alla difesa dell’imputato.
Al fine di tutelare l’imputato di un procedimento connesso, la legge ha introdotto una serie di garanzie.
La prima, la necessità che l’imputato o il testimone sia assistito da un difensore nella sua testimonianza
(ecco perché si parla di testimone assistito per il soggetto interrogato). Il difensore avrà il compito di
proporre eccezioni e opposizioni a domande estranee ai delimitati temi oggetto di questa speciale prova
testimoniale o rivendichi il privilegio contro l’autoincriminazione che, secondo quando disposto dall’art.
198, comma 2, non obbliga il testimone a rispondere secondo verità qualora possa emergere una sua
responsabilità penale. Tale privilegio può essere utilizzato dagli imputati connessi o collegati a fronte di
domande concernenti fatti già coperti da un giudicato di condanna e in ordine ai quali il dichiarante aveva
optato per una linea difensiva di negazione della propria responsabilità o di esercizio del diritto al silenzio,
ponendosi in linea con le garanzie concesse dal principio della non presunzione di colpevolezza.
Una seconda garanzia è che le dichiarazioni rese dall’imputato o dal testimone non potranno essere
utilizzate nel procedimento penale a suo carico che sia ancora pendente; allo stesso modo non possono
essere utilizzate nel procedimento di revisione della sentenza ovvero nel procedimento civile o
amministrativo connesso con la sua responsabilità penale.
In conclusione occorre ricordare che la testimonianza del testimone assistito dovrà essere valutata
criticamente dal giudice (il quale dovrà trovare riscontro in altri mezzi di prova, come stabilito dal comma
6). Questo perché il testimone assistito ha un interesse nella causa che lo rende potenzialmente inaffidabile.

La legge prende in considerazione delle ipotesi di astensione dall’ufficio di testimone, nelle quali
naturalmente la persona chiamata a testimoniare ha la facoltà o l’obbligo di astenersi. È possibile
distinguere due ipotesi, quella facoltativa e quella obbligatoria:
Le astensioni facoltative che, a loro volta, è possibile distinguere in due tipi.
Una prima ipotesi è prevista per coloro che sono legati all’imputato da un vincolo familiare (art. 199). Il
concetto di vincolo familiare è molto ampio, ricomprendendo anche i conviventi more uxorio, gli adottati e
gli ex coniugi (rispetto a questi ultimi, tuttavia, la facoltà di astensione vale solamente per i fatti di cui sono
venuti a conoscenza durante il matrimonio).
Alla facoltà dei familiari di non rendere testimonianza, corrisponde l’obbligo del giudice, dell’accusa e
della polizia giudiziaria di (1) non obbligare i familiari a deporre e di (2) informarli, in ogni fase del
procedimento, della facoltà di non rispondere. In caso di omissione, nullità delle dichiarazioni.
Esistono dei casi in cui la testimonianza dei familiari può essere assunta d’ufficio, ciò accade quando i
familiari abbiano agito processualmente contro l’imputato o il parente (presentando una denuncia, una
querela) ovvero quando il familiare è la persona offesa dal reato.
Una seconda ipotesi riguarda i soggetti vincolati dal segreto professionale. Il segreto professionale (art.
200) conferisce a determinate categorie di soggetti la facoltà di astenersi dal testimoniare su fatti appresi
in ragione della loro attività, come ministri delle varie confessioni religiose, agli avvocati, agli investigatori
privati, ai medici, ai giornalisti.

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A questi tipi di soggetto è data facoltà di astenersi invece dell’obbligo di non deporre così che ad essi è
conferito il compito di discernere se il segreto professionale, nelle sue complesse problematiche, in
concreto debba essere riaffermato a scapito dell’obbligo testimoniale. Necessario ricordarsi che il segreto
professionale, a differenza del segreto d’ufficio e del segreto di stato, non è opponibile in assoluto; anzi in
certi casi la legge prevede l’obbligo di riferire i fatti appresi all’autorità giudiziaria o il giudice.
Tale disciplina risponde, da un lato, all’esigenza di rispettare i dettami costituzionali (come il diritto di
cronaca all’art. 21 del giornalista) e la ricostruzione processuale del fatto al tempo stesso, ma dando
rilevanza al primo.
Le astensioni obbligatorie: a differenza dalle astensioni facoltative in questo caso, i soggetti di volta in
volta considerati, sono obbligati a non fornire alcuna testimonianza. Anche qui bisogna distinguere due
ipotesi.
Il segreto d’ufficio (art. 200, comma 2 e 3) ha come destinatari i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli
incaricati di pubblico servizio, i quali hanno l’obbligo di non deporre sui fatti conosciuti per ragione del
loro ufficio che devono rimanere segreti; l’obbligo sopravvive anche se viene meno la qualifica soggettiva.
L’obbligo di non testimoniare, è soppiantato dall’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria.
Una seconda ipotesi riguarda i soggetti vincolati dal segreto di Stato che sono coperti da segreto, ai sensi
dell’art. 202 c.p.p., tutti gli atti, i documenti, le notizie e le attività la cui diffusione possa arrecare un danno
all’integrità della repubblica, alla sua indipendenza, alla relazione con altri stati, alla difesa.
Quando l’autorità giudiziaria si trova dinanzi ad un segreto di Stato (art. 202) e ritiene essenziale conoscere
i fatti oggetto del segreto, deve chiedere al Presidente del Consiglio conferma dell’esistenza del segreto
(dalla risposta del Presidente deriverà la possibilità o meno di assumere con testimonianza i fatti oggetto
del segreto di Stato). Solo nel caso in cui ci dovesse essere un esito negativo, si può procedere con
l’acquisizione dei dati.
Una terza ipotesi riguarda i soggetti vincolati dal segreto di polizia: l’autorità giudiziaria non potrà
chiedere agli agenti di polizia di testimoniare sui nomi delle persone da cui hanno ricevuto informazioni,
a pena di inutilizzabilità.

All’inosservanza di ciascuno degli obblighi del testimone (art. 198), corrispondono conseguenze diverse
sul piano processuale e sostanziale.
Il testimone renitente è colui che non si presenta davanti al giudice: in questo caso l’art. 198, comma 1
dispone che egli sia accompagnato coattivamente in aula e che gli venga applicata una sanzione
pecuniaria.
Il testimone reticente è colui che compare in aula ma si rifiuta di deporre: in questo caso il giudice lo
inviterà a deporre; se la reticenza permane, egli trasmesse gli atti al pubblico ministero perché proceda nei
confronti del testimone reticente per il reato di rifiuto di uffici legalmente dovuti (art. 366 c.p.).
Il testimone falso è colui che non risponde secondo verità: in questo caso, se il giudice ravvisa gli estremi
della falsa testimonianza, trasmette gli atti al pubblico ministero affinché proceda per l’omonimo reato di
cui all’art. 372 c.p., salvo quanto previsto dall’art. 384 c.p. (casi di non punibilità). In merito, la norma
sostanziale incide su due situazioni distinte. Da un lato infatti prevede una scusante in favore del teste che
ha legittimamente assunto tale qualità qualora sia stato costretto dalla necessità di salvare se medesimo o
un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore; dall’altro lato,
dichiara non punibile chi, per legge, non avrebbe dovuto essere sentito come testimone, ovvero non
avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere, o avrebbe dovuto essere avvertito
della facoltà di astenersi dal rendere testimonianza.

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Il testimone comunque non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua
responsabilità penale, godendo in questo senso del privilegio del divieto dell’autoincriminazione,
riflettendo così sull’ufficio del testimone le garanzie previste dall’art. 63 e del principio del nemo tenetur se
detegere dell’indagato o dell’imputato.

L’esame delle parti

L’esame delle parti è disciplinato dagli artt. 208-210 ed è il mezzo di prova che permette di assumere nel
processo le conoscenze delle parti private (imputato, parte civile, responsabile civile, persona civilmente
obbligata). Esso sopperisce al limite che subisce la testimonianza per lo status di incompatibilità in cui
versano tali soggetti di cui all’art. 197 garantendo al processo il loro sapere.
Un discorso a sé va fatto per la parte civile che può essere citata come testimone: in questo caso, salvo che
il giudice dichiari inammissibile la testimonianza, le conoscenze della parte civile dovranno essere assunte
mediante la testimonianza e non mediante l’esame delle parti.
L’esame avviene attraverso il dibattimento (fase naturale della formazione della prova) e nell’incidente
probatorio. Mentre le dichiarazioni della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato nell’udienza
preliminare sono acquisite con l’interrogatorio.
L’esame delle parti può essere ammesso dal giudice a seguito di richiesta o di consenso alla richiesta di
altra parte. Bisogna, tuttavia, distinguere le due ipotesi:
La prima, se la richiesta proviene dalla stessa parte che si sottopone ad esame, il giudice ha il dovere di
ammettere l’esame, senza dover accertare il consenso delle altre parti.
La seconda, se la richiesta proviene da una parte diversa rispetto a quella che si deve sottoporre all’esame,
è necessario il consenso (anche tacito) della parte esaminata.
Richiesta e consenso non devono rispettare particolari forme, infatti il consenso è valido anche se tacito;
deve però essere consapevole ed esteso a tutta la situazione processuale dell’esaminando e non solo a una
sua parte.
L’esame delle parti avviene non appena è terminata l’assunzione delle prove a carico dell’imputato.
Dunque, anche prescindendo dalla situazione soggettiva processuale del dichiarante (imputato o persona
offesa o responsabile civile), l’art. 209 prevede, come regime dell’esame delle parti, alcune regole generali
riprese dalla disciplina della prova testimoniale. Infatti, l’oggetto dell’esame delle parti, come l’oggetto
della testimonianza, non può sconfinare dai limiti dell’art. 194 e la parte esaminata gode del privilegio –
come il testimone – contro l’autoincriminazione (con conseguente facoltà di non deporre su fatti che
potrebbero comportare una sua responsabilità penale) prevista dall’art. 198, comma 2. È vero che la parte
ha la facoltà di non dire il vero o di rifiutarsi di rispondere ad alcune o a tutte le domande poste, ma
qualora ci sia la richiesta o il consenso all’esame, la parte implicitamente rinuncia a un incondizionato
diritto al silenzio, così che il suo successivo rifiuto di rispondere deve essere oggetto di menzione nel
verbale (art. 209, comma 2) e confluirà nella valutazione probatoria.
Occorre però distinguere quale parte abbia mantenuto il silenzio: se è l’imputato, dal momento che ad esso
è riconosciuto in via generale il diritto al silenzio se interrogato, tale comportamento viene valutato solo
ai fini della credibilità; al contrario, se si tratta di parti private, tale comportamento potrà essere valutato
alla stregua di un argomento sfavorevole fonte di un possibile indizio.

L’esame dell’imputato in procedimento connesso o collegato


L’art. 210 disciplina l’esame delle persone imputate in un procedimento connesso o collegato. Lo si può
suddividere in due parti. Nei commi da 1 a 5, è disciplinato il regime riguardo agli imputati in

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procedimenti connessi per concorso nel medesimo reato o cooperazione ovvero se più persone con
condotte indipendenti hanno determinato l’evento (art. 12, lett. a); mentre al comma 6 è disciplinato il
regime degli obblighi e delle facoltà per gli imputati di procedimento connesso e dei reati per cui si procede
che sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri [o in occasione di questi ovvero per
conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità] (art. 12, lett.
c) o di reato collegato a norma dell’art. 371, comma 2, lett. b quando abbiano già reso in precedenza
dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato.
Ci sono due categorie di dichiaranti, quelli per procedimento connesso – i quali possono essere esaminati
solo dopo essere stati condannati o assolti per via della incompatibilità che avrebbero con l’istituto della
testimonianza – che possono essere esaminati solo tramite la procedura prescritta nei commi da 1 a 5 e
quelli per procedimento connesso teleologicamente o collegato – i quali hanno un legame con il fatto più
debole rispetto alla categoria precedente – che possono essere esaminati come testimoni anche prima della
sentenza irrevocabile quando abbiano reso dichiarazioni erga alios (verso altri) e dopo essere stati avvertiti
delle modalità dell’interrogatorio ex art. 64, comma 3.
Le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’articolo 12, comma 1, lettera a), nei
confronti delle quali si procede o si è proceduto separatamente e che non possono assumere l’ufficio di
testimone, sono esaminate a richiesta di parte, ovvero, nel caso indicato nell’articolo 195, anche di ufficio
(comma 1). Quindi: l’esame può avvenire su richiesta dell’imputato ovvero su iniziativa del giudice con
la peculiarità che quest’ultima ipotesi è possibile, solamente, quando il nome del soggetto imputato in un
procedimento connesso sia venuto fuori nell’ambito di una testimonianza indiretta.
Inoltre, nel corso dell’esame, l’imputato in procedimento gode dell’assistenza del difensore, che può anche
essere nominato d’ufficio (questo perché comporta l’evitare di dichiarazioni che potrebbero condurre ad
una eventuale responsabilità penale).
Al comma 6, c’è l’estensione della disciplina agli imputati in procedimento teleologico o collegato
prevedendo un’istantanea mutazione dell’esame della parte in testimonianza, solo quando però la
narrazione del dichiarante si sia estesa alla responsabilità altrui (erga alios). In questo modo essi
assumeranno le garanzie dei testimoni assistiti (art. 197-bis). A tali persone è prima dato l’avvertimento
della facoltà di non rispondere.

Confronti

I confronti sono regolamentati dagli artt. 211 e 212. Ai sensi dell’articolo 211 il confronto è ammesso
esclusivamente «fra persone già esaminate o interrogate, quando vi è disaccordo fra esse su fatti e circostanze
importanti» (art. 211 comma 1). Esso è ammissibile alla ricorrenza di tre presupposti:
1. Pregresse dichiarazioni rese dai soggetti confrontabili;
2. La discordanza di queste dichiarazioni;
3. L’importanza probatoria dei fatti e delle circostanze su cui si è verificato il disaccordo.
Una volta che il giudice, il quale svolge un ruolo centrale e direttivo, ha accertato un disaccordo degno di
nota, si attiva un procedimento (art. 212) che si articola in varie fasi.
In primo luogo, il giudice legge alle parti le loro dichiarazioni, chiedendo loro di confermarle o di smentirle
(oltre ai difensori possono assistere anche i periti).
In secondo luogo, se persiste il disaccordo (anche dopo eventuali modificazioni da parte delle parti), invita
le parti a compiere le reciproche contestazioni (indirizzandole direttamente al giudice, e non all’altra parte,
che si pone direttamente come intermediario).

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Infine il giudice menziona le domande e le risposte fornite dalle parti all’interno del verbale, unitamente
a quanto altro è avvenuto durante il confronto (art. 212, comma 2).

Ricognizione

La ricognizione deve essere intesa come quella prova consistente nel riconoscere una persona, una cosa
od altro che era stato percepito in precedenza da chi è chiamato ad effettuarla nel processo. Delle
ricognizioni si occupano gli artt. 213-217.
Il ricognitore deve procedere ad operazioni progressive:
1. Rievocare il ricordo di quanto ha vissuto;
2. Svolgere una comparizione tra l’oggetto del ricordo e quello sottopostogli;
3. Dichiarare se la pregressa percezione sia sovrapponibile a quella presenza.
Normalmente la ricognizione deve avvenire nel dibattimento. Tuttavia, data la particolare sensibilità di
questo mezzo di prova, tramite l’art. 392, comma 1, lett. g si dispone la possibilità che la ricognizione venga
assunta anche mediante incidente probatorio.
Tale strumento di prova, inoltre, può essere disposto dal giudice dell’udienza preliminare, qualora risulti
evidente che il suo esito possa condurre all’adozione di una sentenza di non luogo a procedere; ovvero nel
giudizio abbreviato, quando si ritenga di non poter decidere allo stato degli atti: allora si dispone, anche
d’ufficio, l’assunzione degli elementi necessari per la decisione.
È possibile distinguere diverse tipologie di ricognizione a seconda dell’oggetto (persone, cose, suoni), ma
solo la ricognizione di persone è disciplinata (art. 213 e 124); per le altre invece si opera tramite rinvio a
questi due articoli.
Dunque, per la ricognizione personale, prima di procedere alla ricognizione, il giudice deve compiere una
serie di adempimenti preliminari, dal momento che ad esso è attribuito un ruolo coattivo circa la presenza
del ricognitore e nell’allestire e condurre le operazioni ricognitive:
- Deve invitare il ricognitore a richiamare alla memoria la persona che egli deve riconoscere (importante
ricordare che al ricognitore è riconosciuto il diritto al silenzio [sentenza Corte Cost. n. 267 del 1994,
che prevede la legittimità costituzionale solo qualora tale articolo sia interpretato nel senso di
riconoscere all’imputato ricognitore il diritto di rifiutarsi di rispondere, in ossequio del principio
cardine del nostro sistema processuale; anche se non è previsto espressamente, permane comunque in
tutto il sistema]).
- Sollecita lo stesso ad assumere una posizione neutrale, senza quindi farsi condizionare dalla labilità
della memoria;
- Instaura così un dialogo serrato con il ricognitore per capire se sia stato già chiamato a svolgere il
riconoscimento presso altri processi o nel procedimento stesso; inoltre deve accertarsi che il
riconoscimento non avvenga per aver visto la persona semplicemente in foto ovvero grazie alla
descrizione operata da terzi (il giudice, in questo modo, garantisce la genuinità della ricognizione).
Tale accertamento avviene attraverso una serie di domande poste dal giudice al ricognitore, di cui si
deve fare menzione nel verbale (pena la nullità relativa della ricognizione).
Quanto riguarda le modalità (art. 214) con cui viene realizzata la ricognizione personale, il giudice, dopo
aver effettuato gli adempimenti preliminari, invita il ricognitore ad allontanarsi per eseguire la seconda
parte del procedimento probatorio.

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Il giudice, quindi, fa allineare, all’interno della stessa stanza, la persona che deve essere riconosciuta
(l’indagato, l’imputato o il testimone) insieme ad almeno altri due soggetti che debbono assomigliare alla
prima nei tratti somatici e nell’abbigliamento. Se vi è il rischio che il ricognitore possa subire intimidazioni
o influenza, il giudice dispone la c.d. ricognizione schermata di cui al comma 3 (la tipica ricognizione
dietro a un vetro che dalla parte delle comparse ha l’apparenza di uno specchio).
In questo modo, il ricognitore è invitato a procedere all’identificazione del soggetto. Se lo riconosce, è
necessario provare la certezza dell’affermazione; se, invece, non riconosce la persona che egli asseriva di
aver visto al momento del fatto ricorreranno gli estremi del favoreggiamento personale; se al contrario
riconosce appositamente una persona diversa, ricorreranno gli estremi della falsa testimonianza.
In ogni modo, lo svolgimento della ricognizione deve essere verbalizzato.

La ricognizione di cose riguarda il corpo del reato o qualunque altra cosa pertinente con il reato. Per la
ricognizione di cose si applica la stessa disciplina della ricognizione di persone per rinvio dell’art. 215,
comma 1 sia per gli adempimenti preliminari, sia per le modalità con cui il giudice predispone la
ricognizione (la cosa da identificare viene collocata a fianco ad altre due dall’aspetto similare).
Al comma 2 segue la modalità di ricognizione. Procurati, ove possibile, almeno due oggetti simili a quello
da riconoscere, il giudice chiede alla persona chiamata alla ricognizione se riconosca taluno tra essi e, in
caso affermativo, la invita a dichiarare quale abbia riconosciuto e a precisare se ne sia certa.

Per le altre ricognizioni, invece, nel corso del procedimento, il giudice può disporre anche la ricognizione
di voci, suoni o di quanto altro può essere percepito dai sensi. Anche in questo caso si applica la stessa
disciplina prevista per le ricognizioni personali.

Infine bisogna ricordare la possibilità che vengano predisposte delle ricognizioni plurime (art. 217). A tal
proposito bisogna distinguere a seconda che la pluralità riguardi:
- La parte attiva, che deve procedere alla ricognizione (vi sono una pluralità di ricognitori): in questo
caso il giudice provvederà ad isolare i ricognitori, per evitare scambi di informazione e fenomeni di
suggestione.
- La persona o l’oggetto della ricognizione: in tal caso il giudice separa le persone o gli oggetti da
riconoscere, per evitare che il loro riconoscimento sia compiuto dal ricognitore semplicemente in base
all’esclusione.

L’esperimento giudiziale

L’esperimento giudiziale è il mezzo di prova preordinato a riprodurre in via artificiale un fatto al fine di
verificare se possa essere avvenuto con certe modalità postulate nel processo. Ai sensi dell’art. 218
«l’esperimento giudiziale è ammesso quando occorre accertare se un fatto sia o possa essere avvenuto in un
determinato modo».
Dunque, consiste nella ricostruzione, per quanto possibile, dello scenario in cui il fatto si afferma o si ritiene
essere avvenuto e nella ripetizione delle modalità di svolgimento del fatto stesso: più è fedele l’esperienza
artificialmente provocata, più ne è attendibile il risultato probatorio. È anche possibile che la riproduzione,
ove non possa essere svolta in udienza, avvenga al di fuori di essa (si pensi ad es. agli esperimenti compiuti
sul luogo di un delitto).
Il successivo art. 219, invece, delinea le modalità di svolgimento dell’esperimento giudiziale. Il giudice in
ogni caso assume il ruolo attivo, direttivo e organizzativo.

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- L’esperimento può essere disposto dal giudice del dibattimento ovvero mediante incidente
probatorio. In ogni caso verrà autorizzato mediante ordinanza. L’ordinanza che dispone l’esperimento
giudiziale contiene una succinta enunciazione dell’oggetto dell’esperimento e l’indicazione del giorno,
dell’ora e del luogo in cui si procederà alle operazioni;
- Con la stessa ordinanza o con un provvedimento successivo il giudice può designare un esperto per
l’esecuzione di determinate operazioni;
- La documentazione dell’esperimento sarà disposta dal giudice, il quale potrà scegliere fra i vari metodi
di documentazione quello che ritiene più opportuno, rilevazione fotografica, cinematografica,
contemperando così l’interesse di un risultato probatorio il più possibile affidabile con l’esigenza di
tutelare la sfera personale dei soggetti che partecipano all’esperimento e la sicurezza pubblica;
- Infine bisogna ricordare che il giudice ha il dovere di organizzare l’esperimento, in modo da non
offendere i sentimenti di coscienza e da non esporre a pericolo l’incolumità delle persone o la sicurezza
pubblica.

La perizia e la consulenza tecnica

Questi due mezzi di prova, perizia e consulenza tecnica, disciplinati dagli artt. 220-233, vengono utilizzati
con uno scopo ben preciso: ricercare la verità attraverso le informazioni fornite da uno specialista,
incaricato di ricostruire il fatto oggetto del procedimento.
L’art. 220 inizia con il fissare l’oggetto della perizia che «è ammessa quando occorre svolgere indagini o
acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche».
Inoltre, con il comma 2 soggiunge che «non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la
professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le
qualità psichiche indipendenti da cause patologiche» vietando così indagini di tipo criminologico,
psicologico e caratteriale in funzione delle statuizioni sulla pena e sulle misure di sicurezza, salvo
indirizzandole nell’ottica del trattamento rieducativo e della risocializzazione del condannato.
In particolare, «acquisire dati» allude a dati che gli studi hanno rilevato dalla progressione e successione di
determinati fenomeni sistematicamente analizzati;
«Svolgere indagini» significa ricercare dati di conoscenza di un fatto esplorando una determinata realtà
storica;
«Fare valutazioni» è una locuzione che ricomprende diversi compiti assegnabili all’esperto, come
l’individuazione di leggi scientifico-tecniche valide a dedurre un fatto da un altro e metterle a diposizione
delle parti e del giudice.
«Specifiche competenze» denota la capacità conoscitiva che esorbita dal sapere comune introdotta
dall’esperto. Tali competenze possono essere tecniche, scientifiche o artistiche.
Tale strumento si base sui termini della doverosità e dell’occorrenza. Quanto al primo, la perizia deve
essere ammessa quando il sapere comune non sia sufficiente per ricostruire il fatto; quanto al secondo,
anche se sono disponibili altri mezzi di prova, è preferibile avvalersi di specifiche competenze scientifiche,
tecniche o artistiche.
In ogni modo, la perizia si svolge attraverso l’obbligo per il giudice di nominare un perito iscritto in un
apposito albo (iscrizione, meccanismi sanzionati disciplinati dall’art. 67 disp. att.); se l’incarico esula dalle
categorie individuate, che sono otto specialistiche, il giudice può nominare un perito non iscritto negli albi
(solitamente un soggetto che lavora già presso un Ente pubblico). Vi sono dei casi però in cui il giudice è
obbligato nella scelta dell’esperto (come accade, ad esempio, nel caso dei procedimenti di falsificazione

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dei biglietti di banca o le monete metalliche, in cui deve nominare i tecnici della Banca d’Italia e della
Direzione generale del tesoro).
L’art. 222, invece, si occupa delle ipotesi di incapacità (lett. a, b, c) e incompatibilità (lett. d, e) del perito,
dove la sussistenza determinerebbe la nullità relativa (e sanabile) della perizia:
- Le cause di incapacità possono derivare da uno stato di incapacità naturale (si pensi alla minore età),
da uno stato di incapacità giuridica (interdizione) o da uno stato di indegnità (ad es. sospensione
dall’esercizio di un’arte o di una professione);
- Le cause di incompatibilità devono essere ricollegate all’assunzione, da parte dell’esperto, di funzioni
incompatibili nell’ambito dello stesso procedimento (si pensi ad all’ipotesi che l’esperto abbia già
assunto la veste di testimone nel processo).
L’art. 223 disciplina le ipotesi di astensione e ricusazione del perito, con la ratio di garantire l’obiettività
del perito nello svolgimento dell’incarico affidatogli. Ciò avviene richiamando la disciplina contenuta
negli artt. 36 e 37 (che disciplinano le ipotesi di astensione e ricusazione del giudice).
Quando risulta una causa di astensione risultante dalle lettere a-h dell’art. 36, il perito ha l’obbligo di
dichiararlo; se non lo fa, può essere ricusato.
Per quanto riguarda la ricusazione, essa può essere compiuta dalle parti private e dal pubblico ministero
fino al compimento delle formalità necessarie al conferimento dell’incarico; se, invece, i motivi di
ricusazione sopravvengono alla nomina del perito, in tal caso la ricusazione è possibile fino alla
formazione del parere peritale. La domanda di ricusazione deve essere motivata (le prove e i motivi a
sostegno della dichiarazione). Una volta formalizzata non è più revocabile e su di essa decide il giudice
che fisserà un’udienza camerale ex art. 127. Se accoglie la domanda il giudice sostituisce il perito e stabilisce
quali atti compiuti dal perito ricusato rimarranno validi.
Secondo l’art. 224, «il giudice dispone anche di ufficio la perizia con ordinanza motivata, contenente la nomina del
perito, la sommaria enunciazione dell’oggetto delle indagini, l’indicazione del giorno, dell’ora e del luogo
fissati per la comparizione del perito».
Ecco allora che tale articolo stabilisce – appunto – che la perizia può essere richiesta dalle parti ovvero
può essere assunta d’ufficio dal giudice (infatti, qualora ritenga che vada ammessa una perizia, deve porre
la questione alle parti, aprire il contraddittorio e provvedere); dopodiché il giudice dispone la citazione
del perito mediante ordinanza motivata (inoppugnabile ma revocabile) e dà gli opportuni provvedimenti
per la comparizione delle persone sottoposte all’esame del perito. Adotta tutti gli altri provvedimenti che
si rendono necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali (comma 2).
Il perito, che è stato nominato, dovrà dichiarare se si trova in uno stato di incapacità o incompatibilità.
Viene, inoltre, avvertito dei suoi obblighi e delle sue responsabilità penali (art. 226).
Dopo questi adempimenti preliminari il giudice aprirà il contraddittorio tra le parti, in modo da definire
l’oggetto della perizia, che comunque deve essere mantenuta entro i limiti del rispetto della libertà delle
persona (art. 224-bis).
A questo punto il perito procederà alla perizia (se questa è particolarmente complessa, potrà richiedere un
tempo non superiore a 6 mesi per il suo completamento). Certe attività potranno essere svolte dal perito
in via autonoma (come avviene, ad es, nel caso in cui il perito debba prendere visione di documenti
contenuti nel fascicolo del dibattimento), altre richiederanno l’autorizzazione del giudice (si pensi, ad
esempio, alle procedure di estrazione del DNA che richiedono un’apposita autorizzazione del giudice che
viene conferita mediante ordinanza). Diverso ancora, invece, è il caso in cui il perito sia sprovvisto della
preparazione specialistica necessaria a compiere una determinata attività d’indagine o valutativa, dove il
giudice conferirà questo specifico incarico peritale ad un ulteriore esperto.

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Infine, i risultati della perizia verranno racchiusi all’interno del responso peritale (documento che non
vincolerà il giudice nella sua decisione finale).
Come detto precedentemente, l’art. 224-bis attribuisce al giudice determinati poteri coercitivi quando
l’espletamento della perizia comporta il compimento di atti rilevanti sulla libertà personale, come
l’esecuzione coattiva del prelievo di materiale biologico o l’accertamento medico su persone.
L’articolo in esame prevede anche un procedimento, che prende avvio con un’ordinanza che, oltre a
quanto disposto dall’articolo 224, deve contenere, a pena di nullità, a) le generalità della persona da
sottoporre all’esame e quanto altro valga ad identificarla; b) l’indicazione del reato per cui si procede, con
la descrizione sommaria del fatto; c) l’indicazione specifica del prelievo o dell’accertamento da effettuare
e delle ragioni che lo rendono assolutamente indispensabile per la prova dei fatti; d) l’avviso della facoltà
di farsi assistere da un difensore o da persona di fiducia; e) l’avviso che, in caso di mancata comparizione
non dovuta a legittimo impedimento, potrà essere ordinato l’accompagnamento coattivo ai sensi del
comma 6; f) l’indicazione del luogo, del giorno, e dell’ora stabiliti per il compimento dell’atto e delle
modalità di compimento.
È comunque necessario che le operazioni peritali siano eseguite nel rispetto della dignità e del pudore di
chi vi è sottoposto. E devono essere scelte le tecniche meno invasive.

La consulenza tecnica, invece, della quale si occupano gli artt. 225 e ss., risulta essere quell’attività di un
soggetto (il consulente tecnico) che è incaricato di contribuire all’elaborazione del responso. La consulenza
tecnica è svolta dopo la perizia disposta dal giudice.
Bisogna distinguere due tipologie di consulenza tecnica: quella endoperitale e quella estraperitale.
La consulenza tecnica endoperitale: in questo caso il consulente tecnico viene nominato dalle parti private
e dal pubblico ministero, in risposta alla nomina di un perito da parte del giudice, con un numero di
consulenti non superiori ai periti nominati dal giudice, per assicurare una dialettica processuale valida ed
efficacie.
Non può essere nominato nel caso in cui, secondo l’art. 222 comma 3, lett. a, b, c, d, versi in condizione di
incapacità, indegnità o incompatibilità.
Esso assolve la funzione di contribuire alla elaborazione del responso nel contraddittorio con il perito.
A differenza del perito, il consulente tecnico non deve essere scelto in appositi albi professionali; ciò
nonostante il giudice, successivamente alla sua nomina, controllerà che egli sia realmente dotato di
«specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche», che in caso contrario la nomina del consulente
è inammissibile. Ad esso, inoltre, concernono gli stessi obblighi di lealtà e di verità del perito (tanto che
anche a loro si richiede la dichiarazione d’impegno a norma dell’art. 497, comma 2).
Per quanto concerne l’identificazione dei compiti (art. 230) del consulente tecnico, essi sono essenziali e
determinanti per l’assunzione della prova. Possono essere riassunti per punti:
1. I consulenti tecnici possono assistere al conferimento dell’incarico al perito e presentare al giudice
richieste, osservazioni e riserve, delle quali è fatta menzione nel verbale.
2. Essi possono partecipare alle operazioni peritali, proponendo al perito specifiche indagini e
formulando osservazioni e riserve, delle quali deve darsi atto nella relazione.
3. Se sono nominati dopo l’esaurimento delle operazioni peritali, i consulenti tecnici possono esaminare
le relazioni e richiedere al giudice di essere autorizzati a esaminare la persona, la cosa e il luogo oggetto
della perizia.
4. La nomina dei consulenti tecnici e lo svolgimento della loro attività non può ritardare l’esecuzione
della perizia e il compimento delle altre attività processuali.

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Ecco dunque che l’apporto qualificante del consulente tecnico è dunque di partecipazione attiva nel
formarsi della prova e non di mero controllo ex post dell’operato del perito.

Il secondo tipo di consulenza tecnica è quella estraperitale, che è sempre un mezzo di prova ma che può
essere introdotto nel procedimento dalle parti solo quando non sia stata disposta la perizia (art. 233).
La ratio di questo istituto è che l’acquisizione processuale di un sapere specialistico possa essere disposta
secondo una perizia del giudice e secondo una consulenza tecnica disposta da una parte. Infatti «ciascuna
parte può nominare, in numero non superiore a due, propri consulenti tecnici. Questi possono esporre al
giudice il proprio parere, anche presentando memorie a norma dell’articolo 121» (art. 233, comma 1).
I suoi compiti sono fondamentali, dal momento che la legge prevede:
- La possibilità del consulente di esaminare le cose sottoposte a sequestro o su cui è stata compiuta
un’ispezione, di cui al comma 1-bis; esso è obbligato, tuttavia, a non manipolarle o alterarle (comma 1-
ter);
- La possibilità di presentare al giudice, in forma orale o attraverso memorie, il proprio parere in ogni
stato e grado del procedimento;
Se successivamente alla nomina di un consulente tecnico estraperitale viene nominato un perito,
automaticamente il consulente diventerà endoperitale, con conseguente possibilità di partecipare alla
perizia.

Documenti

Tale strumento è un mezzo di prova che consiste in uno scritto o altra entità idonea a rappresentare fatti,
persone o cose mediante congegni quali la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi diverso
mezzo evocativo di frammenti di realtà passata utili alla ricostruzione dei fatti (art. 234).
Per l’ammissione dei documenti all’interno del processo, debbono ricorrere due condizioni fondamentali:
(1) il documento deve essersi formato al di fuori del processo; (2) il documento deve attenere al fatto
oggetto del procedimento.
Passando a esaminare il regime di ammissione, la legge prevede due diversi regimi per l’acquisizione a
seconda della natura del documento:
1. Un regime incondizionato: per i documenti che costituiscono il corpo del reato (essendone l’oggetto, lo
strumento, il prodotto, il prezzo del reato), di cui all’art. 235, nonché per i documenti che provengono
dall’imputato (art. 237);
2. Un regime condizionato: è previsto per una serie di atti fra i quali bisogna ricordare i certificati del
casellario giudiziale, le sentenze italiane divenute irrevocabili e per le sentenze straniere riconosciute. Tali
documenti sono ammessi solamente se utili a valutare la personalità dell’imputato e dei testimoni
(deroga alla regola generale coerente con la tutela alla riservatezza che vieta l’acquisizione di
documenti attinenti alla moralità delle parti, dei testimoni, dei periti e dei consulenti tecnici).
Correlato al regime di acquisizione è necessario analizzare il divieto di acquisizione: (1) documenti che
contengono informazioni sulle voci correnti nel pubblico intorno ai fatti di cui si tratta nel processo o sulla
moralità in generale delle parti, dei testimoni, dei consulenti tecnici e dei periti (comma 3); (2) è vietato
acquisire documenti anonimi (art. 240) ed per questo motivo l’art. 239 prevede la possibilità, quando sia
necessario, di procedere all’accertamento della provenienza del documento, sottoponendo per il
riconoscimento alle parti private o ai testimoni. Tale riconoscimento si pone come presupposto
indispensabile per la sua rilevanza giuridica; (3) è vietato acquisire documenti che contengono
apprezzamenti soggetti sulla moralità delle parti, dei testimoni, dei periti e dei consulenti (stesso divieto

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previsto per la testimonianza); (4) è vietato acquisire documenti falsi che, ai sensi dell’art. 241, se il giudice
ritiene che la falsità di un documento possa incidere sulla decisione del procedimento penale, ha il dovere
di compiere una valutazione di genuinità. Se accerta l’esistenza di un documento falso trasmetterà gli atti
al p.m.
Quanto ai verbali di prova predisposti in procedimenti diversi (art. 238), la loro assunzione è possibile
solamente se le prove a cui i verbali si riferiscono si sono formate nel contraddittorio tra le parti o con
incidente probatorio. Inoltre, è ammessa l’acquisizione di verbali di prove assunte in un giudizio civile
definito con sentenza che abbia acquistato autorità di cosa giudicata.
Una volta accertati questi presupposti si consente l’utilizzo in generale dei verbali concernenti prove
acquisite in altro procedimento: tuttavia è anche necessario che alla loro assunzione abbia partecipato il
difensore (in caso contrario, ossia al di fuori delle ipotesi di partecipazione dialettica alla formazione della
prova, queste potranno essere utilizzate solamente con il consenso dell’imputato).
Una volta che questi verbali vengono assunti le parti hanno diritto a esaminare gli autori delle prove ivi
raccolte (salvo che si tratti di reati di particolare allarme sociale, in questo caso l’esame è possibile solo se
è necessario per ottenere ulteriori informazioni non desumibili dalla lettura del verbale).
Le sentenze irrevocabili, ai sensi dell’art. 238-bis, possono essere utilizzate come prove. Rispetto a queste
sentenze, la Corte Costituzionale ha precisato che esse debbono considerarsi dei mezzi di prova a tutti gli
effetti (sottoposte, dunque, al contradditorio delle parti e alla libera valutazione del giudice) e che non
vincolano assolutamente l’organo giudiziario nella sua decisione.
In conclusione occorre ricordare alcuni diritti fondamentali spettanti alle parti rispetto all’assunzione di
prove documentali. Se viene acquisito un documento in lingua estera, la parte ha il diritto di richiedere la
traduzione del documento ad opera di un interprete, qualora ciò sia necessario alla sua comprensione;
mentre, ai sensi dell’art. 243, la parte ha diritto a richiedere una copia dei documenti probatori acquisiti
nel processo (sempre che non debbano rimanere segreti e previa valutazione del giudice circa l’interesse
del richiedente all’ottenimento della copia). La copia autentica viene rilasciata dalla cancelleria su
autorizzazione del giudice.

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CAPITOLO VII – I MEZZI DI RICERCA DELLA PROVA

I mezzi di ricerca delle prova, che sono disciplinati dagli artt. 244-271, vengono utilizzati principalmente
nella fase delle indagini preliminari, a causa dell’elemento a sorpresa che li caratterizza.
La disciplina relativa a questi strumenti è stata innovata dalla legge 48/2008, adottata con lo scopo di dare
attuazione alla Convenzione di Budapest sulla criminalità informatica, che ha modificato la disciplina
precedente, in modo da adattare i mezzi di ricerca della prova (ispezioni, perquisizioni ecc.) all’uso
enormemente accresciuto delle tecnologie informatiche. Le principali innovazioni sono:
1. Nuove modalità di conservazione dei materiali rinvenuti in seguito a perquisizioni e sequestri;
2. Ai rapporti con i fornitori di servizi informatici, telematici e di telecomunicazione;
3. Sequestro della corrispondenza in forma elettronica o per via telematica.
Un primo segno di come la disciplina abbia operato sull’istituto lo si ravvisa dal comma 2 dell’art. 244, il
quale consente all’autorità giudiziaria di disporre rilievi segnaletici, descrittivi e fonografici e ogni altra
operazione tecnica anche in relazione a sistemi informatici o telematici. Questi, inoltre, hanno anche la
facoltà di adottare misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne
l’alterazione.

Le ispezioni

Innanzitutto, l’ispezione è un mezzo di ricerca della prova che consiste nell’osservare una persona, un
luogo o una cosa per rilevarne tracce o altri effetti materiali lasciati dal reato (art. 244, comma 1). Inoltre,
l’ispezione deve essere autorizzata mediante decreto motivato a pena di nullità, che riguarda alla
specificazione del presupposto generale dell’ispezione e tutela i principi costituzionali di inviolabilità della
libertà personale e del domicilio.
Se il reato non ha lasciato tracce o effetti materiali, o se questi sono scomparsi o sono stati cancellati o
dispersi, alterati o rimossi, l’autorità giudiziaria descrive lo stato attuale e, in quanto possibile, verifica
quello preesistente, curando anche di individuare modo, tempo e cause delle eventuali modificazioni.
L’autorità giudiziaria può disporre rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e ogni altra operazione
tecnica, anche in relazione a sistemi informatici o telematici, adottando misure tecniche dirette ad
assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione (comma 2).
Il soggetto legittimato a disporre l’ispezione è l’autorità giudiziaria.
Ci sono tre tipi di ispezioni, quello personale, di luoghi o di cose.
L’ispezione personale è disciplinata dall’art. 245 c.p.p.
In questo caso oggetto dell’ispezione, è il corpo umano vivo o una sua parte, visibile o nascosta alla vista
altrui; ovvero un cadavere quando devono essere riscontrati dati diagnostici (negli altri casi non si parla
di autopsia). Il corpo soggetto ad ispezione, può essere quello dell’indagato, della persona offesa dal reato
o di un terzo.
Il legislatore ha introdotto una serie di garanzie, al fine di protegge la dignità e il pudore dell’ispezionato,
che possono essere riassunte in tre punti.
1. L’ispezionato ha diritto di essere avvisato, almeno 24 ore prima, del compimento delle operazioni,
salvo le ipotesi di particolare urgenza. Inoltre, può essere assistito dal difensore ovvero da una persona
di fiducia dell’ispezionato. Quest’ultima, per poter partecipare, deve soddisfare due requisiti: quello
della pronta reperibilità (per evitare eccessive dilazioni nei tempi di ispezione) e quella dell’idoneità

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ad assumere il ruolo di testimone (qualora fosse chiamata a deporre in qualità di testimone sui fatti di
cui è venuta a conoscenza durante l’ispezione).
2. L’ispezione, ove possibile, deve essere compiuta da una persona dello stesso sesso dell’ispezionato,
secondo le cautele previste a tutela della dignità e del pudore dell’ispezionato dell’art. 79 disp. att.
3. L’autorità giudiziaria può evitare di partecipare all’ispezione qualora essa sia eseguita per mezzo di
un medico (art. 245, comma 3).
L’art. 246 si occupa di disciplinare l’ispezione di luoghi o di cose. Mentre l’ispezione di luoghi ha ad
oggetto, normalmente, i beni immobili in cui si presume sia stato commesso il reato; l’ispezione di cose
invece ha ad oggetto beni mobili, esseri animali, ma anche il cadavere di un uomo, sempre che l’attività
ispettiva si limiti all’osservazione e descrizioni delle tracce del reato.
Il comma 1, al fine di garantire il diritto del cittadino all’inviolabilità del domicilio, di cui all’art. 14 Cost.,
prima di procedere all’ispezione l’autorità giudiziaria deve consegnare a chi abbia la disponibilità del
luogo soggetto ad ispezione, una copia del decreto motivato che la autorizza. In altre parole, ottempera un
bilanciamento tra il principio costituzionale di inviolabilità del domicilio e la natura di atto «a sorpresa»,
perché il preavviso non è disposto.

Le perquisizioni

La nozione di perquisizione corrisponde a quel tipo di attività di ricerca del corpo del reato o di cose
pertinenti al reato, così come disciplinate dagli artt. 247-252 c.p.p.
Presupposto di questo mezzo di prova è che l’autorità abbia un fondato motivo di ritenere che le cose
oggetto di ricerca siano occultate su di una persona o in un luogo; in altre parole è necessario che vi siano
una serie di indizi convergenti su cui si fonda la perquisizione disposta dall’autorità, non essendo
sufficienti congetture o sospetti.
Possiamo distinguere due tipologie di perquisizioni:
1. Le perquisizioni personali (art. 249): vengono disposte quando c’è la convinzione che il corpo del
reato (o una cosa pertinente) sia occultata nel corpo, nei vestiti o negli oggetti trasportati dall’imputato,
dalla persona offesa dal reato o da soggetti estranei al procedimento.
Il perquisito, sulla falsariga dell’ispezionato, ha la facoltà si essere assistito da una persona di fiducia,
purché sia prontamente reperibile, oltre che al proprio difensore; inoltre ad esso deve essere
consegnato la copia del decreto motivato che ha disposto la perquisizione personale.
2. Le perquisizioni locali (art. 250): vengono disposte qualora si ritenga che in determinati luoghi (ad
es. nel domicilio dell’imputato) sia possibile trovare il corpo del reato ovvero possa essere eseguito
l’arresto dell’imputato evaso.
- Un particolare tipo di perquisizione locali è la perquisizione informatica (introdotte dalla legge
48/2008 per adeguarsi alla Convenzione di Budapest sulla criminalità informatica), disciplinata
dal comma 1-bis dell’art. 247, qualora vi sia un fondato motivo di ritenere che dati, informazioni,
programmi informatici o tracce pertinenti al reato di trovino in un sistema informatico o
telematico.
- Una maggiore tutela, in ambito di perquisizioni domiciliari (luogo dove si svolge abitualmente la
vita domestica, altro luogo chiuso adiacente all’abitazione che si pone in rapporto di stretta
contiguità, adibito alla vita familiare, o anche l’abitacolo di un’autovettura posteggiata presso il
domicilio dell’interessato e nella sua diretta disponibilità), è garantita dall’art. 251. In questo caso
la legge prevede la garanzia temporale che la perquisizione non possa iniziare prima delle 07:00 e

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dopo le 20:00 (si può derogare a questi limiti solo in caso di particolare urgenza, indicata nel
decreto che autorizza l’ispezione).

Per quanto riguarda le modalità di perquisizione, essa è disposta dal pubblico ministero nella fase delle
indagini preliminari ovvero dal giudice nelle fasi successive, ovvero delegare la polizia giudiziaria con lo
stesso decreto che dispone il mezzo di ricerca della prova. In entrambi i casi è necessaria l’adozione di un
decreto motivato, che deve indicare la norma che si ritiene violata e le modalità in cui si svolgerà la
perquisizione.
Inoltre, l’autorità procedente può estendere l’oggetto della ricerca dalla originaria perquisizione dei luoghi
alla perquisizione delle persone presenti o intervenute in tali luoghi, sempre però che ricorrano i
presupposti specifici per disporre la perquisizione personale (art. 247) e che si proceda tramite le modalità
specificate dall’art. 249 (per il quale, «prima di procedere alla perquisizione personale è consegnata una copia del
decreto all’interessato, con l’avviso della facoltà di farsi assistere da persona di fiducia, purché questa sia prontamente
reperibile e idonea»).
L’art. 248 prevede due procedure alternative alla perquisizione, uno per cosa determinata, l’altra
perquisizioni presso banche.
Se attraverso la perquisizione si ricerca una cosa determinata, l’autorità giudiziaria può invitare a
consegnarla. Se la cosa è presentata, non si procede alla perquisizione, salvo che si ritenga utile procedervi
per la completezza delle indagini (comma 1).
La seconda riguarda le informazioni informatiche ovvero le informazioni custodite presso le banche, dove
in prima di procedere alla perquisizione, l’autorità deve richiedere che le informazioni siano consegnate
spontaneamente. Nel caso in cui ci sia un rifiuto, la perquisizione sarà comunque disposta.
In entrambi i casi se dopo la consegna spontanea l’autorità non è soddisfatta, essa potrà comunque
disporre la perquisizione.
C’è un rapporto tra perquisizione e sequestro? La risposta è affermativa e, ai sensi dell’art. 252, una volta
identificata la cosa oggetto di perquisizione, essa verrà sequestrata (date in custodia alla cancelleria o alla
segreteria alle quali sarà apposto il relativo sigillo [artt. 259 e 260]) e affidata in custodia alla cancelleria
dell’organo giudiziario che ha autorizzato la perquisizione ovvero a un soggetto appositamente nominato
(in caso di cose deteriorabili, esse verranno alienate o distrutte).
Viene da domandarsi che cosa accada al sequestro se la perquisizione viene dichiarata invalida (in quanto
non compiuta secondo le modalità previste dalla legge). La Corte Costituzionale, con una sentenza del
2001, ha precisato che le cose sottoposte a sequestro, nonostante l’invalidità della perquisizione,
rimangono perfettamente utilizzabili come mezzi di prova, perché tali due mezzi di ricerca di prova sono
posti su due linee autonome e l’invalidità dell’uno non concerne l’inutilizzabilità dell’altro. Una disciplina
diversa, invece, si applica quando la legge prevede un divieto di perquisizione (come accade, ad esempio,
per le carte che si trovano presso il difensore e che rappresentano l’oggetto della difesa): in tal caso le prove
acquisite saranno inutilizzabili.

I sequestri

Il sequestro come mezzo di ricerca della prova deve essere distinto dal sequestro conservativo (avente
finalità cautelare) e dal sequestro preventivo (avente finalità di prevenzione), che sono appunto misure
cautelari reali.
È un mezzo di ricerca della prova finalizzato ad acquisire nel procedimento elementi necessari alla
ricostruzione del fatto tramite l’imposizione, su tali elementi, di un vincolo di indisponibilità materiale e

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giuridica. Dunque, oggetto di possibile sequestro sono il corpo di reato e le cose pertinenti di reato.
Quanto alle prime, sono le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso o le cose che ne
costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo; quanto alle seconde, sono le cose dotate di un’intrinseca,
specifica e strutturale strumentalità rispetto al reato contestato e a quelle future di cui si teme la
commissione, ma anche quelle indirettamente collegate al reato purché risultino necessarie alla
ricostruzione del fatto.
Il sequestro (art. 253) è disposto dall’autorità giudiziaria con decreto motivato (per via della sua natura
limitativa) a pena di nullità, che deve indicare:
1. Le cose da sequestrare (salvo che il decreto venga disposto nell’ambito della perquisizione, in tal caso
si può semplicemente indicare il decreto con cui questa è stata disposta);
2. Il nesso tra le cose da sequestrare e il reato;
3. Lo scopo probatorio che vuol essere raggiunto con il sequestro.
Una copia del decreto motivato deve essere consegnata alla persona interessata.
Tramite delega dell’autorità giudiziaria, al sequestro possono procedere direttamente gli uffici della
polizia giudiziaria (che può anche procedervi autonomamente prima dell’apertura della fase giudiziale,
salva la successiva convalida dal p.m.).
Ci sono diverse tipologie di sequestro, caratterizzate ognuna da particolari garanzie.
Il sequestro di corrispondenza, ai sensi dell’art. 254, è disposto presso gli uffici postali, telegrafici o di
telecomunicazione ed è possibile procedere al sequestro di lettere, pieghi, pacchi e altri oggetti di
corrispondenza, anche se inoltrati in via telematica, che sono stati spediti dall’imputato o da lui sono stati
ricevuti e che comunque possono avere relazione con il reato (è esclusa dal sequestro la corrispondenza
intercorsa fra il difensore e l’imputato, salvo che costituisca il corpo del reato).
Questo stesso articolo prevede una limitazione alla garanzia Costituzionale data dall’art. 15, comma 2 in
materia di inviolabilità e segretezza della corrispondenza: infatti il sequestro può essere disposto,
derogando così al dettato costituzionale, solamente qualora vi sia un «fondato motivo di ritenere» che si
tratti di corrispondenza spedita dall’imputato (o a lui indirizzata) anche sotto diverso nome o tramite terzi
intermediari; oppure che si ritenga tale corrispondenza in relazione pertinenziale con il reato.
Ai sensi del comma 2 dell’art. 254, quando al sequestro procede un agente di polizia giudiziaria, esso deve
trasmettere la corrispondenza all’autorità che ha disposto il sequestro senza visionare in alcun modo il
contenuto della corrispondenza. Il comma 3, infine, prevede che una volta aperta la corrispondenza,
l’autorità giudiziaria restituirà al soggetto da cui proviene quella che risulta inutile alla ricostruzione del
fatto oggetto del procedimento.
Il sequestro di dati informatici, invece, disciplinato dall’articolo 254-bis e introdotto dalla legge 48/2008,
dispone la possibilità di sequestrare i dati detenuti da fornitori di servizi informatici, telematici o di
telecomunicazioni. L’acquisizione può avvenire mediante copia dei dati originali su di un supporto
adeguato con l’obbligo, tuttavia, del detentore del servizio di garantire la custodia dei dati originali.
Il sequestro di dati bancari, disciplinato dall’art. 255, può riguardare documenti, titoli, valori, beni
custoditi in una cassetta di sicurezza e altre cose per le quali vi è un fondato motivo di ritenere che siano
collegate con il reato.
Il presupposto per applicare il sequestro è sempre quello del fondato motivo di ritenere che la cosa abbia
un legame pertinenziale con il reato.
Una particolare disciplina è prevista dall’art. 256 quando il sequestro vuole essere compiuto su beni
coperti da segreto di Stato, segreto professionale o segreto d’ufficio:
- Quando la dichiarazione concerne un segreto di ufficio o professionale, l’autorità giudiziaria, se ha
motivo di dubitare della fondatezza di essa e ritiene di non potere procedere senza acquisire gli atti, i

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documenti o le cose indicate nel comma 1, provvede agli accertamenti necessari. Se la dichiarazione
risulta infondata, l’autorità giudiziaria dispone il sequestro;
- Quando la dichiarazione concerne un segreto di Stato, l’autorità giudiziaria ne informa il Presidente
del Consiglio dei Ministri, chiedendo che ne sia data conferma. Qualora il segreto sia confermato e la
prova sia essenziale per la definizione del processo, il giudice dichiara non doversi procedere per
l’esistenza di un segreto di Stato. Qualora, entro sessanta giorni dalla notificazione della richiesta, il
Presidente del Consiglio dei Ministri non dia conferma del segreto, l’autorità giudiziaria dispone il
sequestro.

Operazioni successive al sequestro: estrazione di copie, custodia delle cose sequestrate e apposizione dei
sigilli.
Ai sensi dell’art. 258 l’autorità giudiziaria, dopo aver realizzato il sequestro, dispone di norme che siano
realizzate le estrazioni di copie di atti o dei documenti sequestrati, così da riconsegnare l’originale ai
legittimi detentori (qualora ciò non sia possibile, questi ultimi hanno diritto ad ottenere una copia autentica
gratuita).
Il comma 4 (che prevede una disciplina particolare), inoltre, dispone che se il documento sequestrato fa
parte di un volume o di un registro da cui non possa essere separato e l’autorità giudiziaria non ritiene di
farne estrarre copia, l’intero volume o registro rimane in deposito giudiziario. Il pubblico ufficiale addetto,
con l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, rilascia agli interessati che li richiedono copie, estratti o
certificati delle parti del volume o del registro non soggette al sequestro, facendo menzione del sequestro
parziale nelle copie, negli estratti e nei certificati.
Il successivo articolo 259 disciplina le modalità di conservazione dei beni sottoposti a sequestro, che
devono essere affidati in custodia alla cancelleria dell’autorità giudiziaria che procede al sequestro, con
eventuale nomina di un custode. La custodia deve avvenire in modo da conservare il bene e, nel caso di
dati informazioni e programmi informativi, evitare l’alterazione dei dati o l’accesso di terzi.
Se la custodia riguarda dati, informazioni o programmi informatici, secondo quanto modificato dalla L. 18
marzo 2008, n. 48, il custode deve essere avvertito anche dell’obbligo di impedire l’alterazione di tali dati
o l’accesso agli stessi da parte di terzi, salvo l’autorizzazione dell’autorità procedente.
Al fine di garantire che i beni sottoposti a sequestro non vengano manomessi o utilizzati da terzi, gli artt.
260 e 261 c.p.p. prevedono l’obbligo di apporvi un sigillo che ne manifesti esternamente l’indisponibilità.

La restituzione delle cose sottoposte a sequestro può essere l’epilogo naturale delle vicende attinenti il
sequestro (art. 262) o del procedimento di restituzione attivato dall’interessato (art. 263).
Quanto al primo (l’epilogo naturale delle vicende attinenti il sequestro), l’art. 262 si verifica quando
vengono meno le esigenze probatorie per cui il sequestro era stato disposto o si ritiene che tali esigenze
possano essere soddisfatte con altri strumenti meno afflittivi rispetto al vincolo ablativo. In questo caso il
giudice dispone la restituzione delle cose sequestrare (se la restituzione avviene prima dell’adozione della
sentenza, il titolare dei beni sequestrati è obbligato a presentarle in giudizio ove richiesto).
La naturale vicenda estintiva del sequestro può essere però accompagnata dalla necessità di mantenere, in
deroga al naturale epilogo, il sequestro per fini diversi da quelli di prova, quando:
- Il vincolo ablativo, ottenuto con il sequestro, può essere mantenuto in caso di conversione del
sequestro probatorio in sequestro conservativo, disposto per garantire il pagamento delle spese
processuali e delle obbligazioni civili derivanti da reato, sempre che ne sussistano i presupposti (ossia
il fumus boni iuris e il pericolo concreto di dispersione delle garanzie creditorie);

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- Inoltre, il giudice può mantenere il sequestro a fini preventivi se sussiste il pericolo che la disponibilità
della cosa sequestrata possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato contestato o servire per la
commissione di altri reati;
- È possibile che il sequestro, se ricorrono i presupposti dell’art. 240 c.p. (ossia quando si ha ad oggetto
delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto
o il profitto), possa essere convertito anche in confisca.
Quanto alla seconda (procedimento di restituzione attivato dall’interessato), si tratta quando il soggetto
interessato ha avviato la procedura per ottenere la restituzione della cosa sequestrata. Quando il sequestro
è stato disposto nella fase delle indagini preliminari, la restituzione verrà richiesta al p.m. il quale deciderà
sulla domanda con decreto motivato. Contro il decreto di rigetto può essere proposta opposizione dinanzi
al giudice delle indagini preliminari, che decide con sentenza in un’udienza caratterizzata dal
contraddittorio delle parti. Contro la sentenza è possibile proporre ricorso in Cassazione. Una volta che la
sentenza è divenuta irrevocabile, alla restituzione delle cose sequestrate provvede il giudice
dell’esecuzione.
In alternativa alla restituzione, è possibile che il sequestro probatorio si converta in sequestro conservativo,
sequestro preventivo o confisca.

Intercettazione di conversazioni o comunicazioni

Tale istituzione (artt. 266-271) consiste nella captazione occulta e contestuale del contenuto di una
conversazione fra presenti o di una comunicazione fra assenti, ad opera di soggetti estranei alle stesse
mediante strumenti tecnici idonei ad apprendere e registrare in tempo reale il dato comunicativo.
L’oggetto delle intercettazioni è disciplinato dall’art. 266, che si divide tra «persone assenti» e fra «persone
assenti».
 Deve avere carattere riservato, in modo da escluderne la conoscenza da parte di terzi ed è realizzata
ai fini di prova sotto il controllo giurisdizionale preventivo o successivo. Tale punto tratta le
conversazioni fra presenti;
 Invece per le conversazioni tra assenti, tale articolo sancisce che devono essere effettuate per mezzo
del telefono, del fax e di qualsiasi altro mezzo che garantisce la riservatezza della comunicazione. Ai
sensi dell’articolo 266-bis (introdotto dalla legge 48/2008) la disciplina di cui all’art. 266 si applica anche
alle intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche.
La Corte Costituzionale ha precisato che il rilevamento mediante g.p.s. (global position system), eseguito
mediante installazione di un segnale satellitare, normalmente sull’automobile del sospettato, per seguirne
gli spostamenti: non si qualifica come una forma di intercettazione bensì come un’attività investigativa di
competenza della polizia giudiziaria.
Passando a esaminare i limiti di ammissibilità delle intercettazioni, è possibile distinguere due tipologie
di limiti: quelli oggettivi e soggettivi.
I limiti soggettivi impediscono le intercettazioni contro determinati soggetti. Si pensi, come esempio, al
divieto di intercettazioni nei confronti del Presidente della Repubblica, del parlamento e così via.
I limiti oggettivi sono indicati dall’art. 266 c.p.p. il quale stabilisce che le intercettazioni possono essere
utilizzare solamente per determinati reati, individuati sulla base di un criterio quantitativo (per i delitti
non colposi per i quali è prevista la pena all’ergastolo o comunque una pena massima superiore a 5 anni,
per i delitti contro la P.A. per i quali è prevista una pena massima non inferiore a 5 anni) ovvero un criterio
qualitativo (per i delitti concernenti sostanze stupefacenti; per i delitti di contrabbando ecc.).

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Il comma 2 consente l’intercettazione di conversazioni fra presenti svolte nel domicilio, quando si tratti di
procedimenti per i reati individuati al comma 1 e si abbia fondato motivo di ritenere che nel domicilio sia
in atto l’attività criminosa. Ratio riconducibile all’inviolabilità del domicilio (ex art. 14 Cost.).
Dei presupposti e delle forme delle intercettazioni si occupa l’art. 267 il quale prevede che le
intercettazioni debbano essere autorizzate preventivamente solamente dal giudice delle indagini
preliminari o che debbano essere convalidate successivamente quelle del pubblico ministero adottate in
caso di urgenza.
In ogni caso il decreto di autorizzazione, che deve essere dato con le forme del decreto motivato, o di
convalida adottato dal giudice ha due presupposti:
1. Debbono sussistere gravi indizi di reato;
2. Le intercettazioni debbono risultare indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini, che infatti
non possono essere soddisfatte facendo ricorso ad altri mezzi investigativi.
Importante da ricordare è che il controllo giurisdizionale successivo da parte del giudice dell’udienza
preliminare per le intercettazioni disposte d’urgenza dal pubblico ministero deve intervenire in tempi
rapidi (entro 24 ore) comunicando al giudice il decreto motivato che indica le modalità e la durata, che
comunque non può superare i 15 giorni; ed entro le successive 48 ore deve essere adottato il decreto di
convalida.
L’art. 268 si occupa delle modalità di esecuzione delle intercettazioni disponendo che:
- Le comunicazioni o le conversazioni intercettate sono registrate e di esse deve essere redatto verbale
(comma 1);
- Nel verbale, oltre alla trascrizione integrale delle comunicazioni o conversazioni, deve essere riassunto
il loro contenuto (comma 2);
- Le intercettazioni possono essere compiute solamente con impianti della procura della repubblica
(tuttavia se questi impianti sono insufficienti, il pubblico ministero potrà utilizzare impianti di
pubblico servizio o in dotazione della polizia giudiziaria). Inoltre per le intercettazioni informatiche e
telematiche, è possibile l’utilizzo di impianti privati (comma 3 e comma 3-bis);
- I verbali e le registrazioni sono immediatamente trasmessi al pubblico ministero che provvede a
depositarli presso la segreteria entro un termine di 5 giorni. Se dal deposito può derivare un grave
pregiudizio per le indagini, il giudice autorizza il pubblico ministero a ritardarlo non oltre la chiusura
delle indagini preliminari (comma 4 e comma 5);
- I difensori hanno il diritto di esaminare gli atti relativi alle intercettazioni, chiedere l’estrazione di
copie e segnalare intercettazioni inutilizzabili, fino a quando esse non vengono depositate dal pubblico
ministero presso la segreteria (comma 6).
Per quanto riguarda la conservazione della documentazione delle intercettazioni, l’art. 269 dispone che
i verbali, le registrazioni e, in generale, tutto il materiale connesso con le intercettazioni, devono essere
conservate nel fascicolo del pubblico ministero fino a quando non intervenga la sentenza irrevocabile (lo
scopo è quello di conservare la documentazione, qualora dovesse essere utile in successive fasi del
giudizio). Le parti, tuttavia, potranno richiede anche prima della sentenza definitiva, la distruzione della
documentazione raccolta, salvo che la stessa non costituisca corpo del reato (art. 271, comma 3). Sulla
richiesta deciderà il giudice in un’udienza camerale. Se la richiesta è accolta, dell’operazione di distruzione
sarà redatto verbale.
È regola generale la non trasferibilità dei risultati delle intercettazioni dal procedimento in cui sono state
disposte ad altri procedimenti: infatti, l’art. 270 che prevede un divieto di utilizzazione, dispone che la
non trasferibilità delle intercettazioni in un procedimento diverso rispetto da quello in cui sono state
acquisite. Il motivo è che la trasmissione delle intercettazioni in un altro procedimento, violerebbe l’art. 15

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Cost. che al comma 2 stabilisce che la violazione della segretezza delle comunicazioni può avvenire
solamente per atto motivato dell’autorità giudiziaria.
Una deroga a questo divieto però è prevista quando l’intercettazione, assunta in un altro procedimento, è
necessaria per accertare il reato contestato all’imputato (per il quale sia previsto l’arresto in flagranza).
Qualora ci sia il passaggio delle intercettazioni, alle parti è ammesso controllare che esse siano state
disposte legittimamente ed è per questo che nel procedimento in cui si richiedono devono essere
depositate le registrazioni e i verbali delle intercettazioni, con annesso allegati i decreti autorizzativi.
L’articolo successivo, inoltre, ossia il 270-bis prevede un ulteriore divieto di utilizzare le intercettazioni.
Divieto che riguarda le comunicazioni di servizio effettuate tra gli appartenenti al Dipartimento delle
informazioni per la sicurezza o tra i servizi di sicurezza. Lo scopo è chiaramente quello di proteggere la
sicurezza della Repubblica. In questo caso si applica la tipica disciplina prevista per il segreto di Stato, per
la quale l’autorità giudiziaria che ritiene necessario utilizzare le informazioni, deve inviare richiesta al
Presidente del Consiglio che deve rispondere entro 60 giorni, trascorsi i quali l’autorità può utilizzare le
relative informazioni (in via eccezionale è possibile utilizzare le informazioni anche prima
dell’autorizzazione del Presidente del Consiglio, qualora vi sia il rischio di inquinamento probatorio,
pericolo di fuga o necessità di prevenire o interrompere un delitto per cui è prevista una pena massima
non inferiore a 4 anni). Se il Presidente del Consiglio oppone il segreto, l’autorità giudiziaria può contestare
tale decisione sollevando conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale (il cui scopo sarà
accertare l’esistenza del segreto).

Regime dei divieti di utilizzazione


L’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni è determinata da cause diverse.
In primo luogo, i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati qualora le stesse siano state
eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge.
In secondo luogo, quando le intercettazioni si siano svolte senza seguire le formalità previste dagli artt.
267 e 268. Il primo riguarda il rispetto delle forme del provvedimento autorizzativo dell’intercettazione
sotto vari profili; il secondo stabilisce che sono inutilizzabili i risultati delle intercettazioni i cui dati
comunicativi non sono stati registrati e verbalizzati o sono stati verbalizzati senza indicare il numero del
decreto autorizzativo, le modalità operative di registrazione, la durata delle intercettazione e i nomi delle
persone che vi hanno partecipato. E, in ultimo, sono inutilizzabili gli esiti delle operazioni di intercettazioni
compiuti mediante l’impiego di impianti diversi da quelli installati nell’ufficio della procura della
Repubblica.
In terzo luogo, quando le intercettazioni siano state illegalmente assunte (art. 240). In questo caso la
distruzione dei documenti avverrà attraverso diverse fasi:
a. Prima di tutto il pubblico ministero, venuto a conoscenza delle intercettazioni illegali, dispone
l’acquisizione e la relativa custodia dei documenti che le riguardano;
b. A questo punto il pubblico ministero, entro 48 ore dall’acquisizione, chiede al giudice delle indagini
preliminari di procedere alla distruzione dei documenti. Il giudice, entro ulteriori 48 ore, fissa
un’udienza camerale che deve tenersi entro 10 giorni e a cui devono partecipare le parti interessate
(comma 4) che hanno il diritto di interloquire con il giudice;
c. Terminato il contraddittorio (che è solo eventuale) ed accertata l’illegalità delle intercettazioni, il
giudice adotta oralmente un provvedimento con cui dispone l’immediata distruzione dei documenti,
che deve avvenire alla presenza delle parti;

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d. Dell’intero procedimento deve essere redato verbale (comma 6), il quale non deve tuttavia contenere
riferimenti che permettano di comprendere o intuire il contenuto dei documenti distrutti (altrimenti
la distruzione sarebbe vanificata).
La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 240 ai commi 4, 5 e 6, ritenendo
che il diritto costituzionale alla segretezza delle comunicazioni non possa pregiudicare, non garantendo
pienamente, il diritto di difesa e i principi del giusto processo. Questo quanto ai primi, perché il comma 6
non consente un adeguato controllo giudiziale nel contraddittorio tra le parti.

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CAPITOLO VIII – LE MISURE PRECAUTELARI

Provvedimenti provvisori e garanzie costituzionali

Le misure precautelari possono essere definite come provvedimenti restrittivi della libertà personale
provvisoriamente adottati a non iudice in base a presupposti e condizioni diverse da quelle richieste per
l’adozione di misure cautelari personali. Ecco dunque, che assurge fondamentale a questa trattazione l’art.
13 Cost., che ne tratta le linee fondamentali.
L’art. 13 della Costituzione proclama al comma 1 l’inviolabilità della libertà personale. Nonostante questa
formula, i successivi commi dell’art. 13 ammettono in via eccezionale una limitazione della libertà
personale introducendo contestualmente una riserva di legge, che impone che sia la legge a determinare i
casi in cui la libertà personale possa essere ristretta, e una riserva di giurisdizione, in base alla quale le
limitazioni della libertà personale debbano derivare da un atto dell’autorità giudiziaria (comma 2). La
condicio sine qua non della necessità e l’urgenza della situazione per l’intervento, mediante quegli
strumenti provvisori limitativi della libertà, è riservato alla valutazione dell’autorità di pubblica sicurezza,
derogando quella disciplina che vede la legittimazione solamente nella figura del giudice a fissare
provvedimento de libertate. Lo stesso comma soggiunge che al fine di non incorrere in una revoca e in una
inefficacia degli effetti del provvedimento provvisorio, è necessario che l’autorità di pubblica sicurezza lo
comunichi entro 48 ore all’autorità giudiziaria e che la stessa autorità convalidi il provvedimento; infatti
queste misure anticipano gli effetti che si sarebbero prodotti a seguito dell’intervento dell’autorità
competente, e cioè in via cautelare e come tali, essendo stati adottati in esercizio di una potestà derogatoria,
devono essere sempre seguiti da un apposito atto di adesione, quale la convalida.
In ogni caso è punita ogni sorta di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizione di libertà.
Sono due i provvedimenti provvisori che, pur avendo un contenuto restrittivo della libertà personale, non
risultano tra le misure cautelari personali. Sono l’arresto in flagranza (obbligatorio e facoltativo) e il fermo
dell’indiziato.

L’arresto in flagranza

Dell’arresto in flagranza si occupano gli artt. 380 e ss. Da un punto di vista cronologico, esso rappresenta
la prima misura restrittiva della libertà personale che rientra nei poteri degli agenti di polizia giudiziaria,
intesa come longa manus dello Stato.
Lo scopo dell’arresto in flagranza è di impedire che i reati vengano portati a conseguenze ulteriori e di
ricercarne gli autori, in quanto l’arresto mette a disposizione dell’autorità giudiziaria un soggetto nei
confronti del quale sussiste un concreto fumus commissi delicti. La ratio sta nel fatto della situazione
caratterizzata da urgenza e dalla necessità di salvaguardare con immediatezza beni o valori lesi o posti in
pericolo dall’arrestato.
Presupposto normale dell’arresto è la flagranza. Si considera in stato di flagranza:
- Chi viene colto nell’atto di commettere il reato;
- Chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone;
- Chi è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente
prima (c.d. quasi flagranza). In questo caso la connessione tra il reato e il presunto autore è data non da
una contestualità temporale, ma da una contiguità temporale.

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Dopo la legge 88/2003 si considera in flagranza chi venga arrestato entro le 36 ore dal fatto, sulla base di
documentazione video-fotografica inequivoca nel ricollegare l’autore al reato di violenza, in occasione o a
causa di manifestazioni sportive.
Ma non ogni situazione di flagranza determina la necessità o la possibilità dell’arresto: infatti, non avrebbe
senso ledere la libertà personale di un soggetto che ha commesso un delitto punibile con la sola pena
pecuniaria.
L’arresto in flagranza può essere obbligatorio o facoltativo.

Arresto in flagranza obbligatorio


L’arresto è obbligatorio per la polizia giudiziaria nei casi tassativi in cui il legislatore, al fine di tutelare la
collettività, ha previsto l’obbligo di procedere all’arresto. L’art. 380 prevede l’arresto obbligatorio alla luce
di 2 criteri:
1) Un criterio di gravità del delitto (comma 1), per il quale è previsto l’arresto obbligatorio di «chiunque è
colto in flagranza di un delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo
o della reclusione non inferiore nel minimo a 5 anni e nel massimo a 20 anni». La pena considerata è quella
edittale, il minimo ed il massimo previsti perché l’arresto sia obbligatorio, devono essere presenti
contemporaneamente.
2) Un criterio qualitativo in base al quale l’arresto è obbligatorio:
- Per i delitti contro la personalità dello Stato o eversivi dell’ordinamento costituzionale;
- Per i delitti di particolare frequenza o gravità come furto aggravato, rapina, estorsione o quelli attinenti
alle armi;
- Per i delitti di promozione, costituzione, direzione e organizzazione di associazioni razziste (legge
295/1993);
- Per i delitti di prostituzione minorile (legge 269/1998);
- Per i delitti di furto in abitazione (art. 626 bis c.p.);
- Per i delitti in materia di stupefacenti (l’arresto è obbligatorio se non ricorre l’attenuante del fatto
lieve).

Arresto in flagranza facoltativo


Tale istituto compete unicamente agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria, che a loro discrezione ex
art. 381 c.p.p. possono arrestare chi sia colto in flagranza.
L’arresto facoltativo in flagranza viene attuato applicando due criteri previsti dall’art. 381 del c.p.p.:
1) Il criterio di gravità del delitto, per il quale è previsto l’arresto facoltativo di «chiunque è colto in flagranza
di un delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel
massimo a 3 anni o di un delitto colposo per il quale la legge stabilisce una pena della reclusione superiore nel massimo
a 5 anni».
2) Il criterio qualitativo che invece prevede una elencazione analitica e tassativa dei delitti per cui è
previsto tale arresto (art. 381 comma 2). In tutte queste ipotesi l’arresto in flagranza è possibile solo se la
misura è giustificata dalla gravità del fatto o dalla pericolosità del soggetto, desunta dalla sua personalità
o dalla circostanze del fatto. Il verbale deve indicare le ragioni che hanno determinato l’arresto.

La misura precautelare dell’arresto può anche essere rimessa alla valutazione discrezionale di colui che
interviene a tutela della legalità violata: infatti l’arresto in flagranza da parte del privato è sempre
facoltativo nei casi in cui è obbligatorio per la polizia giudiziaria purché si sia in presenza di delitti

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perseguibili d’ufficio. Questi, secondo l’art. 383, devono senza ritardo consegnare l’arrestato e le cose
costituenti il corpo del reato alla polizia giudiziaria.
Lo Stato, da una parte, auspica l’intervento del cittadino, dall’altra parte, non impone un dovere di attivarsi
se questo lo esporrebbe a gravi rischi personali.

Sia all’arresto obbligatorio che all’arresto facoltativo si applicano una serie di norme che limitano l’arresto
(quando sussistono determinate condizioni) e che introducono delle garanzie.
1) L’art. 385 contiene un divieto di arresto quando il fatto appare compiuto in presenza di talune cause di
giustificazione (adempimento di un dovere o un esercizio di una facoltà legittima) o di una causa di non
punibilità;
2) Vi sono una serie di norme esterne al codice che vietano l’arresto (extra codicem): ad esempio in caso di
incidente ferroviario o stradale, il conducente non è arrestabile se rimane sul posto a prestare assistenza;
3) Il codice prevede inoltre una serie di garanzie onde evitare che l’arresto possa essere eccessivamente
dannoso:
- Entro 24 ore il pubblico ministero deve essere informato dell’arresto e l’arrestato deve essere messo a
sua disposizione. Il provvedimento precautelare perde efficacia, ope legis, se non vengono rispettati i
termini ex art. 386 comma 3 (arrestato messo a disposizione del pubblico ministero dopo le 24 ore
dall’arresto o verbale trasmesso al p.m. dopo le 24 ore dall’arresto);
- L’arrestato deve essere avvisato del suo diritto di nominare un difensore, il quale deve essere di
conseguenza avvertito dell’arresto;
- Devono essere avvertiti i familiari dell’arrestato, con il suo consenso;
- Conduzione dell’arrestato nella casa circondariale, salvo che il pubblico ministero disponga
diversamente;
4) Sia nel caso di arresto obbligatorio che di arresto facoltativo, solo gli ufficiali di polizia giudiziaria, sul
luogo e nell’immediatezza del fatto, possono assumere notizie utili ai fini dell’immediata prosecuzione
delle indagini (art. 350, comma 5 e 6);
5) Il pubblico ministero può procedere all’interrogatorio dell’arrestato, con le garanzie difensive
normalmente previste per l’interrogatorio dagli artt. 64 e ss.;
8) L’art. 389 si occupa dei casi in cui l’arrestato può essere immediatamente liberato, ossia nel caso di errore
di persona o fuori dai casi previsti dalla legge o se la misura dell’arresto o del fermo è divenuta inefficace.
La liberazione è effettuata dalla polizia giudiziaria prima dell’intervento del pubblico ministero;
9) Ai sensi dell’art. 476 c.p.p. il pubblico ministero può procedere all’arresto anche per i reati commessi in
udienza. L’arresto, tuttavia, è vietato per il testimone in udienza per reati che riguardano il contenuto della
deposizione (falsa testimonianza o false dichiarazioni al pubblico ministero).

Il fermo di indiziato di delitto

Il fermo, a differenza dell’arresto, non presuppone la flagranza. È disposto dal pubblico ministero e, prima
che tale magistrato abbia assunto la direzione delle indagini, dalla polizia giudiziaria. In ogni modo, se si
è in presenza di presupposti tassativi (come l’identificazione successiva dell’indiziato o sopravvenuto
concreto pericolo di fuga), la polizia giudiziaria può intervenire disponendo il fermo, ove il pubblico
ministero non possa tempestivamente intervenire.
Nella sostanza il fermo consiste in una privazione della libertà personale e, dopo la sua effettuazione, è
soggetto alle stesse disposizioni valide per l’arresto (artt. 385-391). Sono però diversi i presupposti, le

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finalità e la titolarità del potere, che spetta – appunto – al pubblico ministero e, in casi di urgenza, alla
polizia giudiziaria.
1) I Presupposti necessari perché si possa procedere al fermo dell’indiziato sono:
- Gravi indizi di colpevolezza: il c.d. fumus commissi delicti;
- Gravità del delitto: un delitto è grave quando appartiene ad un genus che lo qualifica tale (si pensi ai
delitti concernenti alcuni tipi di armi e esplosivi o per finalità di terrorismo) ovvero quando è applicata
una certa pena edittale (ad es. delitti puniti con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimo
a 2 anni e superiore nel massimo a 6 anni);
- Pericolo concreto di fuga (la fuga è presunta quando l’imputato è trovato in possesso di documenti
falsi);
2) La finalità del fermo è quella impedire che l’indagato possa darsi alla fuga.
Non è richiesto lo stato di flagranza ma, ove flagranza vi sia, può esserci sovrapposizione tra la disciplina
del fermo e quella dell’arresto. E dunque può essere disposto il fermo perché comunque sussiste un
pericolo di fuga

Il controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’arresto e del fermo. I provvedimenti


consequenziali

La ratio dei provvedimenti provvisori è quella di consentire l’intervento del giudice senza che il tempo
necessario per tale incombente venga a pregiudicare la tutela della collettività. Esso però segue un preciso
iter.
1. Infatti, il pubblico ministero ha 48 ore dall’arresto o dal fermo per richiedere al giudice delle indagini
preliminari (gip) del luogo di esecuzione della misura la convalida dell’arresto o del fermo (art. 390).
2. Entro ulteriori 48 ore, il giudice fissa l’udienza di convalida, dandone avviso al pubblico ministero e al
difensore. All’udienza (art. 391) deve partecipare il fermato o l’arrestato che verrà interrogato con
l’assistenza del difensore.
3. L’udienza è celebrata in camera di consiglio, che di regola si svolge nel luogo dove l’arrestato o il fermato
è custodito, e partecipa necessariamente il difensore. L’udienza si conclude con un’ordinanza.
I termini considerati permettono di rispettare il termine totale di 96 ore di cui parla l’art. 13 comma 3 della
Costituzione per il controllo del giudice sulla misura precautelare. Se non interviene il controllo del giudice
sulla misura pre-cautelare perde efficacia.
Di che tipo può essere l’ordinanza che verrà adottata dal giudice? Innanzitutto questa deve essere adottata
dopo un accertamento sull’avvenuto arresto o fermo, sulla configurabilità e qualificazione giuridica di
un’ipotesi di reato e dei presupposti della misura restrittiva, sull’identità del soggetto anche per escludere
un eventuale errore di persona, sul rispetto delle cadenze temporali a presidio della libertà. E allora
l’ordinanza potrà essere:
A. Di convalida: se l’arresto o il fermo erano legittimi ab initio (ex artt. 380, 381 e 384) e se non sono
sopravvenute cause di caducazione delle misure precautelari. Tale decisione non implica
necessariamente il permanere dello stato privativo della libertà. Al momento della convalida, il giudice
potrà comunque:
- Disporre la liberazione dell’arrestato o del fermato qualora il giudice, nonostante l’arresto o il
fermo fossero legittimi, non ravvisa la necessità di una misura coercitiva;
- Ravvisare l’esistenza di esigenze cautelari e quindi applicherà la misura coercitiva (nella prassi,
alla convalida fa sempre seguito una misura cautelare, anzi, nel caso di arresto facoltativo in

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flagranza ex art. 381 comma 2, la misura può essere applicata anche se mancano i presupposti per
l’applicazione di misure coercitive ex art. 280).
B. Di non convalida: se l’arresto o il fermo sono considerati illegittimi ab initio ovvero sono sopravvenute
cause di caducazione. Nonostante l’arresto o il fermo non vengano convalidati, il giudice potrà
comunque disporre l’applicazione di una misura coercitiva qualora ritenga necessario.
Esiste quindi una autonomia tra la decisione di convalida della misura pre-cautelare e la decisione
sulla misura coercitiva o cautelare eventualmente adottata. Autonomia confermata anche dal diverso
regime di impugnazione, infatti:
- L’ordinanza che decide sulla convalida dell’arresto o del fermo può essere impugnata solo con
ricorso per cassazione dal pubblico ministero o dall’arrestato;
- L’ordinanza sull’applicazione di misure coercitive è impugnabile con l’ordinario mezzo di
impugnazione del riesame o, per saltum, in Cassazione.

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CAPITOLO IX – LE MISURE CAUTELARI

L’art. 272 fornisce la garanzia che «le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari solo a
norma delle disposizioni del presente titolo (titolo I del libro IV)», che deve essere letto assieme al principio
della libertà personale tutelata dall’art. 13, comma 2 Cost., il quale dispone che «non è ammessa alcuna forma
di restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione) e
nei casi e modi previsti dalla legge (riserva di legge)».
L’art. 273 detta le condizioni generali di applicabilità di tutte le misure cautelari personali: qualunque sia
il carattere afflittivo della misura che si intende applicare, nessuno può esservi sottoposto se a suo carico
non sussistono gravi indizi di colpevolezza (il c.d. fumus commissi delicti). Indizi che devono far ritenere
che la persona sottoposta alla misura cautelare sarà condannata, in base ad un giudizio prognostico allo
stato degli atti, altrimenti la misura cautelare sarà da considerare illegittima, in quanto porterebbe ad una
limitazione non giustificata della libertà personale. Tale gravità va accompagnata con gli altri elementi
descritti dal comma 1-bis, per il quale nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le
disposizione dell’artt. 192, comma 3 e 4 e 195, comma 7 e 203 e 271, comma 1. Il giudice, in questo senso, è
guidato nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza attraverso la precisazione legislativa dei
parametri decisionali di riferimento.
Dunque, nel primo caso, si escludono le regole in tema di valutazione delle prove, per cui non è necessario
che gli indizi siano oltre che gravi, anche precisi e concordanti; in secondo luogo, gli artt. 195, comma 7 e
203 stabiliscono, rispettivamente, che non può essere utilizzata la testimonianza di chi si rifiuta o non è in
grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame e che gli
ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non sono obbligati a rilevare informazioni; inoltre c’è il divieto
di utilizzazione delle intercettazioni qualora non siano state eseguite le forme richieste per legge.
L’articolo 273, comma 2 vieta l’adozione di misure cautelari in tutti quei casi in cui non si possa giungere
alla condanna per:
- Presenza di una causa di giustificazione;
- Fatto compiuto in presenza di una causa di non punibilità;
- Una causa di estinzione del reato;
- Fatto compiuto in presenza di una causa di estinzione della pena che si ritiene possa essere irrogata.
In tutti questi casi sarebbe illogico sanzionare in via indiretta, con la restrizione di una libertà fondamentale
della persona, un fatto rispetto al quale il giudizio penale non può proseguire e il processo va
obbligatoriamente ed immediatamente chiuso con sentenza dichiarativa ex art. 129, comma 1.

La sussistenza di gravi indizi di colpevolezza (fumus commissi delicti) è condizione necessaria, ma non
sufficiente perché le libertà della persona possano essere limitate per fini di giustizia. Infatti, l’art. 274 si
occupa delle esigenze cautelari, cioè di quelle ragioni o finalità per la cui tutela è consentita la restrizione
della libertà personale.
Lo scopo della misura cautelare non è quello di cercare di anticipare l’applicazione della pena (finalità
inconciliabile con la presunzione di non colpevolezza), ma di rendere possibile l’accertamento dei fatti e
delle responsabilità penali. Ed ecco allora che si sono individuate 3 situazioni per le quali il codice
consente la limitazione alle libertà delle persone con gravi indizi a carico (esigenze cautelari):
1) Pericolo di inquinamento delle prove. La misura cautelare viene disposta dinanzi a situazioni di
concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova. La norma impone al giudice
di indicare, in motivazione, la mancanza di misure alternative all’adozione della misura e le ragioni

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che in concreto fanno temere l’inquinamento probatorio. Se manca questa indicazione o se è essa è
inconsistente, si determina la nullità, rilevabile anche d’ufficio, del provvedimento restrittivo adottato.
2) Pericolo di fuga. La misura va disposta quando l’imputato si è dato alla fuga o quando sussiste
concreto pericolo che egli si dia alla fuga, sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una
pena superiore a due anni di reclusione. Obiettivo della norma è assicurare la soggezione al
procedimento e all’eventuale condanna.
Però è necessario soddisfare alcune condizioni, infatti:
- Il pericolo di fuga deve essere concreto;
- La pena che il giudice ritiene di poter irrogare deve essere superiore ai 2 anni di reclusione.
Questo sia perché una pena di questa entità può comportare il beneficio della sospensione
condizionale della pena, sia perché la pena non sarebbe espressiva di un illecito particolarmente
grave o di una concreta pericolosità, di conseguenza la latitanza non determinerebbe allarme
sociale.
3) Pericolosità di reiterazione dei reati. Si tratta di una prevenzione speciale sintetizzata con
l’espressione periculum libertatis. In questo caso la limitazione della libertà personale è possibile se
sussiste il concreto pericolo che l’indagato o imputato possa commettere, desunto da comportamento
o atti concreti o dai suoi precedenti penali delitti:
- Gravi, cioè con l’uso di armi o di altri mezzi di violenza personale.
- Diretti contro l’ordine costituzionale.
- Di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede (rispetto a
quest’ultima ipotesi, le misure cautelari possono essere disposte soltanto se si tratta di delitti per i
quali è prevista la reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni, ovvero in caso di custodia
cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel
massimo a 5 anni).
È sufficiente il configurarsi di una delle tre esigenze cautelari perché l’adozione della misura diventi
doverosa. Queste esigenze condizionano non solo la possibilità di applicare la misura cautelare, ma anche
la persistenza della stessa, dovendo le misure essere revocate (se le esigenze cautelari vengono meno)
ovvero essere modificate o sostituite con altre misure di diverso tipo (se quelle esigenze si modificano),
come previsto dall’art. 299.

I criteri di scelta delle misure


I criteri di scelta delle misure assolvono la funzione di assicurare una decisione giudiziale rispettosa della
tendenziale inviolabilità della libertà della persona che, come affermato precedentemente con l’art. 13
Cost,, può essere limitata solo quando ricorrono le condizioni fissate dagli artt. 273 al 312.
L’art. 275 si occupa dei criteri di scelta delle misure cautelari che possono essere così riassunti:
1) Il principio dell’adeguatezza (comma 1) in base a questo principio la misura deve essere adeguata alle
esigenze cautelari da soddisfare in concreto («nel disporre le misure, il giudice tiene conto della specifica
idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso
concreto»), che deve anche tenere conto dell’esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli
elementi sopravvenuti (comma 1-bis); ma anche a seguito di condanna in appello (comma 2-ter).
2) Il principio di proporzionalità (comma 2) in base al quale ogni misura deve essere proporzionata
all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata.
3) Il principio di gradualità per cui il giudice dovrà scegliere la misura che in termini di adeguatezza e
proporzionalità appare sufficiente a soddisfare le esigenze del caso concreto. Per esempio, non può essere
disposta la misura della custodia cautelare se il giudice ritiene che possa essere concessa la sospensione

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condizionale della pena (comma 2-bis). Questo principio però non opera quando sussiste la condizione
dell’art. 274, lett. c (che infatti porterebbero una situazione di pericolosità sociale) o alcune condizioni
soggettive che escludono la concedibilità della sospensione condizionale della pena (facendo venir meno
il divieto della misura custodiale carceraria).
4) La custodia cautelare in carcere come extrema ratio (comma 3), cioè può essere disposta soltanto quando
ogni altra misura risulti inadeguata. Da notare che la custodia cautelare in carcere è obbligatoria quando
sussistano gravi indizi di colpevolezza (che con l’ultima riforma del 2015 la pericolosità è presunta)
riguardo ai delitti di cui all’art. 416-bis, 270 e 270-bis c.p. associazione mafiosa, associazioni eversive, con
finalità di terrorismo, salvo che siano stati acquisiti elementi dai quali non sussistono esigenze cautelari,
altrimenti in presenza di gravi indizi, deve essere applicata la misura della custodia in carcere, senza la
necessità di accertare la sussistenza delle esigenze cautelari che sono presunte ex lege. Dev’essere
comunque disposta la misura coercitiva più limitativa.
Inoltre, al fine di tutelare ulteriormente la libertà personale è affidata, al comma 3-bis, è prevista una
«motivazione rafforzata» richiesta al giudice per l’adozione della misura, nella quale deve essere espressa
l’indicazione delle specifiche ragioni per cui ritiene inidonea la misura degli arresti domicialiari con
controllo elettronico di cui all’art. 275 bis misura degli arresti domiciliari.

La custodia cautelare in carcere non può essere disposta quando è necessario tutelare la salute di cui
all’art. 32 Cost. Per questo il comma 4 dello stesso articolo vieta la custodia in carcere per: a) La donna
incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente (ovvero padre, qualora la madre sia
deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole); b) La persona che ha superato l’età
di 70 anni; c) Tossicodipendenti e alcol-dipendenti che abbiano in corso un programma terapeutico di
recupero (T.U. Stupefacenti); d) Per lo stesso motivo il comma 4-bis impedisce la custodia cautelare in
carcere quando l’imputato è affetto da AIDS conclamata, da grave deficienza immunitaria accertate ovvero
da altra malattia particolarmente grave (la stessa disciplina si applica nel caso di malattia terminale, di cui
al comma 4-quinquies); e) In tutti questi casi il comma 4-ter, per evitare una sorta di licenza a delinquere a
favore di quanti volessero sfruttare per finalità illecite lo stato di malattia, è stato previsto che, in presenza
di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, vanno disposti gli arresti domiciliari presso un luogo di cura
o di assistenza o di accoglienza; f) Nonostante quanto detto fin ora, la custodia in carcere può essere
disposta anche nei casi sopra esposti, qualora gravi delitti siano commessi dopo l’applicazione delle più
blande misure o vengano trasgredite le prescrizioni inerenti l’applicata misura non carceraria (art. 276
comma 1-bis); g) Quando il soggetto si trova in uno stato di malattia così avanzata da non rispondere più
ai trattamenti disponibili e alle terapie curative, dopo una serie di accertamenti effettuati.
Ancora, sotto la luce della disciplina generale, bisogna fare riferimento ad alcune eccezioni, dove la
discrezionalità del giudice procedente è stata soppressa in presenza di alcuni delitti indicati
nominativamente (come incendio boschivo, maltrattamenti in famiglia) o per categoria generale (art. 4 bis
ord. Penit.) che in loro presenza cade automaticamente il divieto di misura carceraria cautelare.

La tipologia delle misure cautelari personali

Tra le misure cautelari personali possiamo distinguere 9 tipi di misure coercitive e 3 tipi di misure
interdittive.

Le misure coercitive secondo l’art. 280, che si occupa delle condizioni necessarie per l’applicabilità delle
misure coercitive, dispone che, in primo luogo, possono essere applicate solo quando si procede per delitti

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per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a 3 anni (ciò
nonostante il legislatore prevede la possibilità di applicare le misure coercitive anche per reati meno gravi,
purché esse vengano applicate in sede di udienza di convalida dell’arresto); in secondo luogo, una
particolare disciplina è prevista per la custodia cautelare in carcere che può essere disposta solo per delitti,
tentati o consumati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni
(salvo che vengano violate le prescrizioni relative ad una misura cautelare che non prevede la custodia
cautelare in carcere.
Le misure coercitive sono indicate tassativamente dalla legge; le loro caratteristiche possono essere così
riassunte e si dividono in misure obbligatori e custodiali.
Quelle obbligatorie sono qui di seguito riportate.
Divieto di espatrio (art. 281): attuato mediante ritiro o annullamento del passaporto o altri documenti
validi per l’espatrio, lasciando però intatta la circolazione all’interno dello Stato.
Obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (art. 282): non impedisce la circolazione in Italia e
all’estero se non nella misura in cui impone la presenza in Italia e il presentarsi alla PG in determinati
giorni e ore.
Allontanamento dalla casa familiare: (282-bis): previsto per coloro che sono imputati in casi di violenza
nelle relazioni familiari. Questa misura, che riguarda normalmente la casa familiare, può applicarsi anche
ai luoghi di lavoro della persona offesa e dei suoi prossimi congiunti.
Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa: (art. 282-ter): l’imputato non deve
avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero deve mantenere una
determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa.
Divieto di dimora (art. 283): lascia libertà di circolazione con eccezione di un luogo determinato (ad es.
quello di commissione del reato).
Obbligo di dimora: (art. 283): circoscrive la libertà di circolazione al territorio del comune di dimora o
frazione di questo. L’obbligo di dimora può anche incidere limitatamente sulla libertà personale, il giudice
può prescrivere all’imputato di non allontanarsi dall’abitazione in alcune ore del giorno (tutte le
prescrizioni a riguardo sono poste sotto controllo dalla polizia giudiziaria.
La ratio di questa misura coercitiva è quella di assicurare un più efficace controllo e una migliore
reperibilità nel rispetto delle condizioni di vita sociale e lavorativa del soggetto. In realtà la scelta in
concreto può essere determinata da altre ragioni quali quella di garantire adeguatamente le esigenze
cautelari, di allontanare l’indiziato dal locus commissi delicti, di consentire il programma di recupero del
tossicodipendente.
Il divieto e l’obbligo di dimora sono accompagnati da prescrizioni il cui controllo è affidata alla polizia e
la cui violazione determina le conseguenze previste dall’art.276.

Quelle custodiali invece si dividono in arresti domiciliari e custodia cautelare.


Gli arresti domiciliari (art. 284) comportano che l’imputato non possa allontanarsi dalla propria abitazione
o da altro luogo in cui sia stato confinato dal giudice. Gli arresti domiciliari non possono essere concessi a
chi sia stato condannato per evasione nei 5 anni precedenti al fatto per il quale si procede, ma che
comunque il giudice, nel caso ravvisi una violazione di lieve entità, può decidere di non revocare la misura
(comma 5-bis).
Istituto nato con la finalità di evitare la custodia in carcere di particolari categorie di imputati per
scongiurare ogni qualsivoglia effetto negativo in cui rischiano di incorrere varcando la soglia del carcere.
L’ordinanza che dispone i domiciliari può prevedere procedure di controllo mediante mezzi elettronici o
altri strumenti tecnici: la non accettazione implica per il giudice l’obbligo di applicare la custodia cautelare

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in carcere. E in ogni caso ad essa possono essere accompagnati ulteriori limiti, divieti e anche attenuazioni
(come permessi per consentire il sostentamento o il lavoro).
Dato il forte contenuto afflittivo, gli arresti domiciliari equivalgono alla custodia in carcere sia per quanto
concerne i termini, che per quanto riguarda le conseguenze di una sottrazione alla misura (evasione). In
caso di violazione degli arresti domiciliari il giudice deve disporre la custodia cautelare in carcere (art.
276).
La custodia cautelare in carcere detta anche carcerazione preventiva (art. 285). La custodia cautelare può
avere luogo in:
- Carcere, quando la soluzione rappresenta l’extrema ratio, cioè quando tutte le altre misure risultano
inadeguate;
- Istituto a custodia attenuata, prevista per le detenute incinte o madri (o per padri) di prole di età non
superiore a sei anni, ove non ostino esigenze cautelari di eccezionale rilevanza;
- Un luogo di cura (art. 286). Può essere disposta se la persona da sottoporre a custodia cautelare si trova
in stato di infermità che ne escluda o diminuisca grandemente la capacità d’intendere o di volere. È
inapplicabile all’infermità fisica ma, poiché la custodia cautelare in carcere può essere disposta per
soggetti in condizione di salute particolarmente gravi, questi soggetti potranno subire i domiciliari in
un luogo pubblico di cura o di assistenza, mentre il malato non grave subisce la custodia cautelare in
un carcere idoneo al rispetto del diritto alla salute, nel caso in cui il giudice non ammetta gli arresti
domiciliari.
Il soggetto nei cui confronti è disposta la custodia cautelare in carcere va immediatamente condotto in
un istituto di custodia per rimanervi a disposizione dell’autorità.

Le misure interdittive, invece, non incidono sulla libertà personale ma limitano ugualmente la libertà della
persona incidendo sui rapporti personalissimi e sulla capacità lavorativa. Le misure interdittive sono 3:
1. Sospensione dall’esercizio della potestà genitoriale (art. 288);
2. Sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o da un pubblico servizio. (art. 289);
3. Divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali (art. 290).
L’adozione di queste misure può eventualmente cumularsi con una della misure coercitive di cui si è
parlato sopra.
L’applicazione di queste misure presuppongono alcune condizioni:
1. Gravi indizi di colpevolezza;
2. Almeno una delle 3 esigenze previste dall’art. 274;
3. L’attribuzione di un delitto con pena edittale dell’ergastolo o della reclusione superiore, nel massimo,
a 3 anni;
4. Che la misura interdittiva sia idonea allo scopo per il quale è disposta.
Lo scopo di queste misure è quello di recidere il legame tra l’indiziato e il ruolo sociale da esso svolto che
ha determinato il delitto, così da evitare l’inquinamento probatorio o il periculum libertatis.
In forza dell’art. 289, comma 2 nel corso delle indagini preliminari, prima di decidere sulla richiesta del
pubblico ministero di sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, il giudice deve
interrogare l’indagato.

Profili procedurali ed esecuzione delle misure

Il codice prevede che sia il giudice, mediante ordinanza, a pronunciarsi sull’applicazione, sulla revoca,
sulle modifiche delle modalità esecutive delle misure cautelari. Ciò significa che nella fase delle indagini

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preliminari vi provvederà il giudice per le indagini preliminari. Il pubblico ministero, avendo la qualifica
di parte, non potrà adottare, revocare o modificare le misure cautelari: il suo compito invece sarà quello di
esercitare il potere di iniziativa, stimolando l’adozione della misura da parte del giudice (il quale non sarà
comunque vincolato dalla richiesta del pubblico ministero).
L’art. 291 comma 1 prevede che le misure siano disposte dal giudice su richiesta del pubblico ministero,
che presenta al giudice competente gli elementi sui quali la richiesta si fonda, nonché tutti gli elementi a
favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate. Il provvedimento
applicativo di misura cautelare è atto a sorpresa e, di regola, non consente, quindi, un previo
contraddittorio.
L’art. 291 comma 2 prevede che quando ricorrono le condizioni e vi è l’urgenza di soddisfare taluna delle
esigenze cautelari previste dall’art 274, qualunque giudice può disporre la misura richiesta dal pubblico
ministero «anche se riconosce la propria incompetenza nella causa».
In attuazione del giusto processo, al comma 2-bis il codice prevede che il pubblico ministero, in caso di
necessità e urgenza, chieda al giudice l’adozione delle misure patrimoniali provvisorie per evitare che
l’offeso dal reato rimanga privo di sostentamento a causa dell’allontanamento dell’imputato dalla casa
familiare.
L’art. 292 disciplina il contenuto dell’ordinanza del giudice che risponde alla richiesta del pubblico
ministero. Con detta ordinanza il giudice potrà disporre la misura cautelare, negare la misura richiesta dal
pubblico ministero o applicare una misura diversa da quella richiesta. In ogni caso l’ordinanza deve
contenere, a pena di nullità, e rilevabile anche d’ufficio:
- Le generalità dell’imputato o quanto altro valga ad identificarlo;
- La sommaria descrizione del fatto con l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate;
- L’esposizione e l’autonoma valutazione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che
giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti
e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza;
- Fissare la durata della misura;
- La data o la sottoscrizione del giudice.
L’art. 293 dispone che una copia dell’ordinanza che ha disposto la custodia cautelare deve essere
consegnata al soggetto per renderlo edotto del fatto, delle norme di legge che si assumono violate e dei
motivi del provvedimento (per consentirgli, eventualmente, le opportune impugnazioni).
Ai sensi del comma 2 dell’art. 293, le ordinanze che dispongono delle misure diverse dalla custodia
cautelare vanno notificate all’imputato e depositate nella cancelleria del giudice che le ha emesse, dandone
avviso al difensore (l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, riguardando un atto a sorpresa, non può
essere preannunciata all’imputato o al difensore, senza rischiare di impedirne l’esecuzione). Infatti il
detenuto deve essere a conoscenza del provvedimento che ne dispone la custodia (il quale potrà anche
avvalersi di un interprete) e ha diritto di consultare anche la propria cartella personale e di ottenere copia
dei provvedimenti giudiziari ivi contenuti (art. 94 disp. att.).
Chi dispone la cattura deve avvertire l’imputato della facoltà di nominare un difensore di fiducia,
informando immediatamente quest’ultimo o, se del caso, il difensore d’ufficio: la finalità è precisa e
consiste nel garantire la difesa tecnica e con essa l’inviolabilità tendenziale della libertà personale.
Se la persona nei cui confronti è disposta una misura cautelare viene rintracciata, il provvedimento trova
esecuzione; se non è possibile rintracciare la persona interessata, la polizia giudiziaria incaricata
dell’esecuzione redige il «verbale di vane ricerche» e lo trasmette senza ritardo al giudice che potrà
disporre ulteriori ricerche o dichiarare l’irreperibilità (art. 159) o lo stato di latitanza, colui che si sottrae
volontariamente ad una misura cautelare coercitiva.

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Le vicende delle misure cautelari


La regola generale è che il giudice non abbia poteri di iniziativa in materia cautelare: infatti, secondo il
principio ne procedat iudex ex officio, il giudice non potrà disporre una misura, se non gli viene richiesta dal
pubblico ministero.
Nonostante ciò il giudice, una volta che il p.m. abbia esercitato il potere di iniziativa che gli viene
riconosciuto dalla legge, è titolare di una serie di poteri e di libertà.
In primo luogo, non è obbligato ad adottare la misura cautelare richiesta dal pubblico ministero. Il giudice,
infatti, può adottare una misura diversa da quella che gli è stata sollecitata dal p.m. perché è il giudice che
deve valutare il rapporto di idoneità fra la misura, la natura ed il grado delle esigenze cautelari, garantendo
il rispetto dei principi di proporzionalità ed adeguatezza. Per questi motivi al giudice viene riconosciuto
uno ius variandi rispetto alla richiesta avanzata da parte del pubblico ministero.
In secondo luogo, il giudice ha il compito di provvedere all’applicazione, alla revoca e alla sostituzione
delle misure cautelari, nonché alle modifiche delle loro modalità esecutive (artt. 279 e 299).
La revoca (art. 299 comma 1) delle misure coercitive e interdittive è doverosa quando risultino mancanti o
venute meno le condizioni di applicabilità (ad es. gravi indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari);
La sostituzione (art. 299 commi 2 e 4), che è suddivisa in melius e in peius, deve avvenire rispettando i
principi di proporzionalità e di adeguatezza; la sostituzione può essere anche disposta quando le esigenze
cautelari permangono, ma risultano attenuate (sostituzione in melius) o aggravate (sostituzione in peius):
allora il giudice provvederà alla sostituzione della misura o alla sua applicazione con modalità diverse,
ovvero applicherà congiuntamente un’altra misura coercitiva o interdittiva (questo potere deve tener
conto di quanto previsto dall’art. 275, comma 3 il quale, per alcuni gravi reati, non dà rilievo all’attenuarsi
delle esigenze cautelari, ma solo al loro venir meno).
Sia la revoca che la sostituzione delle misure cautelari possono essere richieste dal pubblico ministero o
dall’imputato. In questi casi l’art. 299 comma 3 dispone che il giudice deve provvedere con ordinanza
entro 5 giorni dal deposito della richiesta di revoca o di sostituzione.
Il giudice può provvedere anche ex officio (comma 3), ma solo in casi particolari in cui la posizione
dell’imputato o dell’indiziato è comunque portata alla sua valutazione (interrogatorio, richiesta di proroga
delle indagini preliminari, incidente probatorio, udienza preliminare e giudizio). L’art. 299 comma 3-bis
prevede, però, che prima di provvedere d’ufficio o a richiesta dell’imputato (o del suo difensore) il giudice
deve chiedere il parere del pubblico ministero, ma se questo parere non viene espresso nei 2 giorni
successivi, il giudice provvede ugualmente.
Infine l’art. 299 comma 3-ter prevede un potere (se gli elementi addotti a sostegno della richiesta sono
quelli già valutati precedentemente e dei quali si chiede una rivisitazione) o un dovere (se la richiesta è
basata su elementi nuovi o diversi rispetto a quelli già valutati) del giudice di interrogare la persona
sottoposta alle indagini, quando è chiamato a valutare gli elementi addotti per la revoca o la sostituzione
delle misure.
In terzo luogo, ha il dovere, ai sensi dell’art. 299 comma 4-ter, di disporre degli accertamenti sulle
condizioni di salute o sulle altre qualità o condizioni personali dell’indagato o dell’imputato, quando
non è in grado di decidere sulla misura da applicare o sulla sua sostituzione. Questa disciplina trova ampia
applicazione quando il giudice deve decidere se accogliere la richiesta di revoca o sostituzione della
custodia cautelare in carcere, proposta sulla base delle precarie condizioni di salute ex art. 275, comma 4-
bis c.p.p. In questo caso il giudice è obbligato a disporre una perizia medica, la quale, tuttavia, non
vincolerà il giudice nella decisione finale.

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Un altro potere di sostituzione (od estinzione) è ricollegato, ai sensi dell’art. 294, a quello di interrogare la
persona sottoposta a misura cautelare (interrogatorio di garanzia) senza la presenza del p.m. (che, ai sensi
dell’art. 294 comma 6, ha la facoltà di procedere all’interrogatorio per fini investigativi, ma solo dopo che
l’indagato o imputato sia stato interrogato dal giudice). Il giudice deve immediatamente procedervi e
comunque non oltre 5 giorni dall’inizio dell’esecuzione della custodia, salvo il caso in cui essa sia
assolutamente impedita e se non vi ha proceduto nel corso dell’udienza di convalida dell’arresto o del
fermo dell’indiziato di delitto. È un termine perentorio. E può comunque essere anticipato se il pubblico
ministero ne fa domanda con la richiesta di custodia cautelare (deve avvenire entro 48 ore). In ogni modo,
l’art. 294 stabilisce che l’interrogatorio debba essere compiuto entro precisi termini previsti dalla legge:
- Se la misura cautelare consiste nella custodia cautelare in carcere, l’interrogatorio deve essere
compiuto non oltre 5 giorni dall’inizio dell’esecuzione della custodia;
- Se la misura cautelare è una misura coercitiva non carceraria o una misura interdittiva, l’interrogatorio
deve avvenire non oltre 10 giorni dalla esecuzione del provvedimento o dalla sua notificazione;
- Infine l’interrogatorio deve avvenire entro il termine di 48 ore se il pubblico ministero ne fa istanza
nella richiesta di custodia cautelare.
Mediante l’interrogatorio il giudice valuta se permangono i presupposti per l’applicazione delle misure
cautelari. In caso contrario il giudice disporrà, ove ne ricorrano le condizioni, la revoca o la sostituzione
della misura disposta in precedenza.
Il mancato rispetto di questi termini comporta, ai sensi dell’art. 302, l’estinzione della custodia cautelare,
per omesso interrogatorio. L’estinzione della misura, tuttavia, non è irreversibile, potendo una nuova
misura essere disposta dal giudice su richiesta del pubblico ministero, ma soltanto dopo l’interrogatorio
che consente la valutazione delle condizioni legittimanti della misura presa. Ecco perché poco prima si è
parlato di caso di sostituzione od estinzione.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione, con la sentenza 95 del 2001, ha esteso l’ambito di
applicazione dell’articolo 302, stabilendo che l’omesso interrogatorio entro il termine di 10 giorni di cui
all’articolo 294, comporta l’estinzione delle misure interdittive e coercitive diverse dalla custodia in carcere
e dagli arresti domiciliari (la ratio è che anche queste misure hanno carattere afflittivo, richiedendo per ciò
l’applicazione della stessa disciplina prevista per la custodia in carcere e gli arresti domiciliari).
Ancora, l’art. 300 prevede l’estinzione ogni qual volta venga adottata una sentenza o una decisione che fa
venir meno i presupposti che hanno portato alla loro applicazione (si pensi ad esempio all’adozione di un
decreto di archiviazione, ad una sentenza di non luogo a procedere). Il comma 1 dispone che Le misure
disposte in relazione a un determinato fatto perdono immediatamente efficacia quando, per tale fatto e
nei confronti della medesima persona, è disposta l’archiviazione ovvero è pronunciata sentenza di non
luogo a procedere o di proscioglimento.
Una particolare disciplina è prevista per alcuni istituti.
Una prima, per la custodia cautelare e gli arresti domiciliari, dove dette misure infatti perdono efficacia,
pur in presenza di una sentenza di condanna, se la durata della custodia già subita è superiore all’entità
della pena irrogata.
Una seconda, l’art. 301 prevede una causa estintiva particolare con riguardo alle misure cautelari disposte
per esigenze probatorie, dove l’ordinanza deve contenere, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio, la
fissazione della durata della misura.
Una terza, l’art. 301 comma 2-bis quantifica (eccetto per alcuni reati che richiedono indagini complesse o
atti d’indagine all’estero) in non più di 30 giorni il termine per lo svolgimento delle indagini con l’imputato
in custodia cautelare. Il termine è prorogabile per non più di due volte ed entro il limite complessivo di 90

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giorni, su richiesta motivata del pubblico ministero, adotta prima della scadenza del termine da prorogare
e previo interrogatorio dell’imputato.
Infine delle conseguenze dell’estinzione si occupa l’art. 306 c.p.p. in base al quale qualora l’estinzione
delle misure cautelari è automatica, impone un nuovo provvedimento giudiziale che disponga
l’immediata liberazione o quanto necessario per la cessazione delle misure.

I tempi delle misure cautelari

Il momento dal quale si producono gli effetti delle misure (momento a quo) è:
- Per la custodia cautelare e per gli arresti domiciliari: la cattura, l’arresto o il fermo;
- Per le altre misure: la notifica dell’ordinanza che le dispone.
È possibile che lo stesso soggetto sia indagato o imputato per più reati. In questo caso l’art. 297 comma 3
vuole evitare che i magistrati prolunghino di fatto la durata della custodia preventiva, applicando una
nuova misura cautelare al momento della scadenza della misura disposta in precedenza per un altro reato.
A tale scopo la norma, proprio per impedire che l’imputato patisca una pluralità di carcerazioni
preventive, obbliga i magistrati a infliggere un’unica carcerazione la cui durata sarà commisurata al reato
più grave.
A questo punto è possibile esaminare i tempi di durata delle misure cautelari.
Il decorso del termine di durata, prima della definizione di quel grado del giudizio, comporta l’estinzione
della misura cautelare (con gli stessi effetti di cui agli articoli 300 e ss.).
Parlando dei tempi di durata delle misure cautelari, particolare attenzione è stata dedicata dal legislatore
alla durata della custodia cautelare in carcere (momento ad quem). L’articolo 13 della Costituzione, infatti,
impone al legislatore di stabilire i limiti massimi della carcerazione preventiva. Nel caso in cui il decorso
del termine di durata scade prima della definizione dello stato o grado del procedimento, la misura
cautelare perde efficacia. Dunque, la durata complessiva della custodia cautelare non può superare i
termini intermedi e i termini massimi fissati dal legislatore.
I primi, i termini intermedi, sono stati introdotti dal legislatore distinguendo il procedimento in diverse
fasce (5 fasce). Per ogni fascia la custodia cautelare in carcere potrà durare un tempo massimo differente a
seconda del reato per cui il soggetto è indagato o imputato.
Quanto ai secondi, i termini massimi, a prescindere dalle fasce in cui è suddiviso il procedimento, la
custodia cautelare in carcere non potrà comunque superare:
- 2 anni: per i delitti puniti con la reclusione fino a 6 anni;
- 4 anni: per i delitti puniti con la reclusione superiore a 6 anni ma inferiore a 20 anni;
- 6 anni: per i delitti puniti con la reclusione superiore a 20 anni o con l’ergastolo.

Dunque, la custodia cautelare perde efficacia quando:


Prima fascia: dall’inizio della sua esecuzione (quindi dalla cattura, dall’arresto o del fermo) sono decorsi i
seguenti termini senza che sia stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio o l’ordinanza con cui
il giudice dispone il giudizio abbreviato ai sensi dell’articolo 438, ovvero senza che sia stata pronunciata
la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti:
a) 3 mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non
superiore nel massimo a 6 anni;
b) 6 mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione
superiore nel massimo a 6 anni, salvo quanto previsto dal numero 3);

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c) 1 anno, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o la pena
della reclusione non inferiore nel massimo a 20 anni ovvero per uno dei delitti indicati nell’articolo
407, comma 2, lettera a), sempre che per lo stesso la legge preveda la pena della reclusione superiore
nel massimo a 6 anni;
Seconda fascia: dall’emissione del provvedimento che dispone il giudizio o dalla sopravvenuta
esecuzione della custodia sono decorsi i seguenti termini senza che sia stata pronunciata sentenza di
condanna di primo grado:
a) 6 mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non
superiore nel massimo a 6 anni;
b) 1 anno, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non
superiore nel massimo a 20 anni, salvo quanto previsto dal numero 1);
c) 1 anno e 6 mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo
o la pena della reclusione superiore nel massimo a 20 anni;
Terza fascia: secondo il comma 3-bis, qualora si proceda per i delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lettera
a), i termini di cui ai numeri 1), 2) e 3) sono aumentati fino a sei mesi. Tale termine è imputato a quello
della fase precedente ove non completamente utilizzato, ovvero ai termini di cui alla lettera d) per la parte
eventualmente residua. In quest’ultimo caso i termini di cui alla lettera d) sono proporzionalmente ridotti;
inoltre, la lettera b-bis) dall’emissione dell’ordinanza con cui il giudice dispone il giudizio abbreviato o
dalla sopravvenuta esecuzione della custodia sono decorsi i seguenti termini senza che sia stata
pronunciata sentenza di condanna ai sensi dell’articolo 442:
- 3 mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non
superiore nel massimo a 6 anni;
- 6 mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non
superiore nel massimo a 20 anni, salvo quanto previsto nel numero 1;
- 9 mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o la pena
della reclusione superiore nel massimo a 20 anni;
Quarta fascia: dalla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado o dalla sopravvenuta
esecuzione della custodia sono decorsi i seguenti termini senza che sia stata pronunciata sentenza di
condanna in grado di appello:
a) 9 mesi, se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a 3 anni;
b) 1 anno, se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a 10 anni;
c) 1 anno e 6 mesi, se vi è stata condanna alla pena dell’ergastolo o della reclusione superiore a 10 anni;
Quinta fascia: dalla pronuncia della sentenza di condanna in grado di appello o dalla sopravvenuta
esecuzione della custodia sono decorsi gli stessi termini previsti dalla lettera c) senza che sia stata
pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, salve le ipotesi di cui alla lettera b), numero 3-bis).
Tuttavia, se vi è stata condanna in primo grado, ovvero se la impugnazione è stata proposta
esclusivamente dal pubblico ministero, si applica soltanto la disposizione del comma 4.
Nel caso in cui, a seguito di annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione o per altra causa,
il procedimento regredisca a una fase o a un grado di giudizio diversi ovvero sia rinviato ad altro giudice,
dalla data del procedimento che dispone il regresso o il rinvio ovvero dalla sopravvenuta esecuzione della
custodia cautelare decorrono di nuovo i termini previsti dal comma 1 relativamente a ciascuno stato e
grado del procedimento.
Nel caso di evasione dell’imputato sottoposto a custodia cautelare, i termini previsti dal comma 1
decorrono di nuovo, relativamente a ciascuno stato e grado del procedimento, dal momento in cui venga
ripristinata la custodia cautelare (comma 3).

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In ogni modo, la durata complessiva della custodia cautelare, considerate anche le proroghe previste
dall’articolo 305, non può superare i seguenti termini:
- 2 anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non
superiore nel massimo a 6 anni;
- 4 anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non
superiore nel massimo a 20 anni, salvo quanto previsto dalla lettera a);
- 6 anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della
reclusione superiore nel massimo a 20 anni.

Tutti questi termini vengono applicati quanto l’esigenza che giustifica la misura cautelare è il pericolo di
fuga ovvero la pericolosità sociale. Per quanto riguarda l’esigenza di evitare l’inquinamento probatorio, i
termini rimangono inalterati per alcuni delitti (art. 407 c.p.p.) per i quali sono richieste investigazioni
particolarmente complesse, a causa della molteplicità di fattori fra loro collegati, ovvero per l’elevato
numero di persone sottoposte alle indagini o di persone offese; per i reati per il cui accertamento è richiesto
il compimento di atti di indagine all’estero. In tutti gli altri casi la custodia cautelare in carcere non può
durare più di 30 giorni.
A questo punto non resta che occuparci del tempo di durata delle misure cautelari diverse dalla custodia
cautelare che, a differenza di queste ultime, non risentono di sospensione e proroghe.
o Art. 308 comma 1 si occupa delle misure coercitive diverse dalla custodia: esse perdono efficacia
quando dall’inizio della loro esecuzione è decorso un periodo di tempo pari al doppio dei termini
(intermedi e massimi) previsti per la custodia cautelare.
o Art. 308 comma 2 si occupa delle misure interdittive: esse perdono efficacia quando sono decorsi due
mesi dall’inizio della loro esecuzione. Il rinnovo è ammesso solo per esigenze di cautela probatoria ed
in tal caso i limiti massimi sono come quelli delle misure coercitive diverse dalla custodia cautelare.

Proroga e sospensione dei termini di custodia


Tale istituto permette la sospensione dei termini previsti dall’art. 303: in questo modo dentro la rigidità
delle scansione temporali e processuali si inseriscono delle situazione capaci di modificare il fisiologico
rapporto tra sviluppo procedimentale e durata complessiva della custodia. In particolare, la sospensione
sterilizza il decorso del tempo agli effetti della durata massima; la proroga, invece, comporta la dilazione
gli effetti della misura cautelare.
Quanto alla sospensione dei termini, essa condivide due scenari:
 Il primo scenario riguarda il rinvio o la sospensione del dibattimento durante il tempo in cui è sospeso
o rinviato per impedimento dell’imputato o del suo difensore ovvero su richiesta dell’imputato o del
suo difensore, sempre che la sospensione o il rinvio non siano stati disposti per esigenze di
acquisizione della prova o a seguito di concessione di termini per la difesa (lett. a);
 Nella fase del giudizio è disposta la sospensione o il rinvio a causa della mancata presentazione,
dell’allontanamento o della mancata partecipazione di uno o più difensori che rendono privo di
assistenza uno o più imputati (lett. b);
 Nella fase dibattimentale, a causa della complessità della motivazione per numero delle parti o per
numero o per gravità delle imputazioni (lett. c);
 Nel giudizio abbreviato, durante il tempo in cui l’udienza è sospesa o rinviata per i casi presenti nelle
lettere a) e b) o durante la pendenza dei termini previsti dall’art. 544, comma 2 e 3 (quando non si
provvede ai motivi in consiglio, lo si deve fare entro 15 giorni e 90 giorni per la stesura della
motivazione particolarmente complessa) [lett. c-bis];

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 I termini previsti dall’art. 303, comma 1 sono sospesi dalla data del provvedimento che accoglie il
provvedimento di astensione o di ricusazione a quello in cui il dibattimento davanti al nuovo giudice
perviene allo stato in cui si trovava nel momento in cui è intervenuta la dichiarazione di astensione o
ricusazione; sospensione non può superare 60 giorni.
In questi casi i termini sono sospesi dalla data nella quale il provvedimento (ordinanza) è stato accolto.
Il secondo scenario è determinato dai commi 2 e 3 dell’art. 304.
La disciplina particolare della sospensione dei termini del comma 2 del presente articolo, che opera nel
caso di dibattimenti o di giudizi particolarmente complessi relativi a reati gravi tassativamente indicati
nell’art. 407, comma 2 lett. a dispone che il giudice sospenda i riferiti termini, durante il tempo in cui si
sono tenute le udienze o si delibera la sentenza nel giudizio di primo grado e nel giudizio sulle
impugnazioni (non concerne dunque la sospensione e il rinvio).
Per procedimenti particolarmente complessi si fa riferimento al numero degli imputati e delle imputazioni,
ai carichi di lavoro, alla tipologia probatorio, alle difficoltà logistiche ed organizzative (e non alla gravità
delle impugnazioni e dei titoli di reato).
Inoltre, quanto riguarda la sospensione risulta importante l’art. 304 comma 6 il quale introduce un limite
alla dilazione dei termini di custodia statuendo che «la durata della custodia cautelare non può comunque
superare il doppio dei termini previsti» dal codice. La norma esprime il favor libertatis.
La sospensione comunque non opera automaticamente e deve essere disposta dal giudice su richiesta del
pubblico ministero. L’ordinanza è soggetta ad impugnazione.
In conclusione occorre ricordare che la disciplina della sospensione dei termini processuali nel periodo
feriale non ha nessuna incidenza sui termini di durata delle misure cautelari in genere.

L’art. 305 permette di prorogare i termini di durata della custodia cautelare in carcere (che non può
comunque eccedere il termine massimo di 2, 4 o 6 anni fissati dalla legge). Ci sono due ipotesi di proroga,
una obbligatoria e una facoltativa:
1. Quella obbligatoria, quando deve essere espletata una perizia psichiatrica dell’indagato o imputato.
Questa proroga può essere disposta in ogni stato e grado del procedimento di merito quando deve
essere espletata una perizia psichiatrica sull’imputato;
2. Quella facoltativa, quando sussistano gravi esigenze cautelari (accertamenti complessi o nuove
indagini) che richiedano una proroga della custodia in carcere. Questa proroga può essere disposta
solamente nella fase delle indagini preliminari, su istanza del pubblico ministero;
La proroga non può riguardare misure cautelari diverse dalla custodia in carcere (o in luoghi di cura).
Sulla richiesta decide il giudice con ordinanza, su richiesta del pubblico ministero e sentito il difensore. Se
la decisione del giudice non interviene prima della scadenza del termine di custodia cautelare, l’indagato
va rimesso in libertà, non potendosi riconoscere effetto sospensivo dei termini alla mera richiesta di
proroga (deve ritenersi però che la decisione di proroga sopravvenuta implichi il ripristino dello stato
privativo della libertà personale).
La proroga è rinnovabile una sola volta: sono quindi possibili 2 proroghe della custodia cautelare.

I provvedimenti in caso di scarcerazione per decorrenza dei termini


Qualora la custodia cautelare perde efficacia, l’art. 306 prevede che il giudice dispone l’immediata
liberazione della persona ristretta; qualora si tratti delle altre misure cautelari, il giudice dà i
provvedimenti per la loro immediata cessazione.
Qualora la custodia cautelare si sia estinta per decorso dei termini massimi, l’imputato va scarcerato con
ordinanza che, al contempo, può disporre l’applicazione di altre misure cautelari (art. 307).

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L’estinzione della misura non esclude la possibilità del suo ripristino, non operando il giudicato cautelare.
Infatti, il ripristino può essere ammesso quando:
- Si è prodotta una modifica della situazione processuale per oggetto di un nuovo elemento (per
esempio un sentenza di condanna);
- La presenza di un nuovo quadro indiziario in precedenza non considerato;
- Si siano ricostruite situazioni che avevano determinato la perdita di efficacia del provvedimento
(mancanza di motivazione, incompetenza del giudice, ecc.)

Le impugnazioni

Poiché il provvedimento che limita la libertà della persona potrebbe essere stato adottato in violazione
della legge o in modo infondato, è sembrato necessario istituire dei mezzi di impugnazione di questi
provvedimenti. I mezzi di impugnazione in analisi sono 3: il riesame, l’appello e la cassazione.

Il riesame è il primo mezzo di impugnazione ordinario delle ordinanze che dispongono una misura
coercitiva, e non dunque nei confronti delle misure interdittive; si ritengono altresì esaminabili le misure
di sicurezza adottate provvisoriamente. Il suo scopo, innanzitutto, è quello di mantenere un controllo
giurisdizionale sul corretto uso del potere cautelare assolvendo una vera e propria competenza funzionale
esclusiva, prescindendo tanto dalla fase procedimentale o processuale nella quale siano state adottate,
quanto alla composizione del giudice che le abbia emesse. Esso si pone in una posiziona autonoma,
distaccandosi dagli altri mezzi di impugnazione.
L’accertamento al quale è deputato il controllo del tribunale delle libertà è quello sulla sussistenza dei
presupposti delle misure cautelari personali: il giudice deve infatti rivalutare, alla stregua di quanto già
fatto dal giudice che ha applicato la misure, che gli elementi sui quali si è basata la domanda cautelare,
possano davvero fungere da presupposti applicativi di una restrizione della libertà personale (saranno
dunque esaminati i presupposti, le esigenze, gli elementi e i relativi motivi che sussistono il provvedimento
restrittivo della libertà personale). Uno dei primi presupposti probatori, per esempio, è quello dei gravi
indizi di colpevolezza (art. 273), ma anche il rispetto delle esigenze cautelari e l’adeguatezza delle misure
alla stregua del pericolo di inquinamento probatorio, pericolo di fuga e il pericolo di reiterario criminis.
Il riesame – in ogni modo – è soggetto ad una serie di regole fondamentali prevista dall’art. 309.
Il presupposto del riesame è l’accoglimento della richiesta del pubblico ministero da parte del giudice e la
conseguente adozione di una misura coercitiva. Per questo motivo legittimato a richiedere la richiesta di
presame è l’imputato ovvero il difensore.
Il termine (perentorio) entro il quale proporre la richiesta è di 10 giorni dall’esecuzione o notificazione del
provvedimento (comma 1). Il riesame può essere richiesto anche nel merito, cosicché questa impugnazione
rende idoneo un controllo ex novo di tutti i presupposti di fatto e di diritto alla base della misura coercitiva.
Per l’imputato latitante invece il termine decorre dalla data di notificazione eseguita a norma dell’art. 165,
cioè mediante consegna al difensore, ovvero dalla sopravvenuta esecuzione quando l’imputato prova di
non aver avuto tempestiva conoscenza del provvedimento (comma 2).
La richiesta, che deve essere presentata presso la cancelleria del giudice, può esaurirsi sia nella semplice e
pura domanda di riesame, sia in una richiesta dettagliatamente motivata. Ci può dunque essere un riesame
anche in assenza di motivi di impugnazione, da ciò discende il fatto che questo mezzo di impugnazione
dunque non appaia come devolutivo e che il giudice del riesame non sia vincolato dal principio del
«tantum devolutum quantum appellatum». Ecco dunque che la richiesta può essere trasmessa anche tramite
una motivazione lacunosa: non necessita della presentazione dei motivi contestuali per l’impugnazione.

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In questo senso il riesame può essere considerato una forma sui generis di impugnazione, ovvero un mezzo
di impugnazione atipico, teso a verificare la validità dell’ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti
formali ed ai presupposto ai quali è subordinata la sua legittimità.
Il mancato obbligo di produrre motivi con la domanda di riesame si correla anche agli altri ampi poteri
del giudice del riesame, alla mancanza di un contraddittorio anticipato rispetto all’ordinanza impugnata,
ai limiti di conoscenza del materiale d’accusa.
Competente a decidere sulla richiesta del riesame è (in composizione collegiale) il tribunale del luogo nel
quale ha sede la Corte d’appello o la sezione distaccata della Corte d’appello nella cui circoscrizione è
compreso l’ufficio del giudice che ha emesso l’ordinanza.
La decisione è adottata, in camera di consiglio e con garanzia del contraddittorio (ma senza presenza del
pubblico). Il detenuto che impugna può essere sentito dal giudice di sorveglianza e, ove necessario,
tradotto davanti al tribunale del riesame. La decisione avviene:
- Sulla base dell’impugnazione (se motivata) o dei motivi enunciati prima dell’inizio della discussione;
- Sulla base degli atti su cui si è basata l’adozione della misura cautelare;
- Sulla base di tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini.
Sia gli atti su cui si è fondata la misura cautelare, sia nelle indagini che sono normalmente nella
disponibilità del pubblico ministero, sia gli elementi sopravvenuti devono essere trasmessi entro il giorno
successivo e non oltre 5 giorni dalla richiesta di riesame, all’autorità giudiziaria procedente (comma 5). Si
tratta di un termine perentorio, che decorre dal giorno stesso della presentazione della richiesta di riesame,
e la cui violazione determina la caducazione della misura coercitiva, in ossequio al favor libertatis.
A seguito della richiesta di riesame il tribunale de quo non può applicare una misura coercitiva più grave
di quella sottoposta al riesame (divieto di reformatio in peius). Potrà tuttavia, entro 10 giorni dalla
ricezione degli atti – termine perentorio la cui violazione determina l’estinzione della misura coercitiva
(comma 10) e l’automatica liberazione dell’imputato – dichiarare con ordinanza (comma 9):
- Declaratoria di inammissibilità della richiesta (perché tardiva o presentata da persona non legittimata
o senza il rispetto della forma di cui agli artt. 582-583);
- Declaratoria di annullamento del provvedimento, di conferma o di riforma (ma soltanto in melius)
anche per motivi diversi da quelli enunciati;
- Declaratoria confermativa ma per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del
provvedimento stesso, avvalendosi degli atti trasmetti al tribunale in base al comma 5, ovvero quelli
addotti dalle parti in udienza, e dai quali il tribunale abbia dedotto la sostanziale giustizia della misura
coercitiva;
- A questi esiti, la dottrina ravvisa anche il potere di revoca, evocando un vero e proprio controllo delle
condizioni di applicabilità (artt. 273 e 274) o di quelle relative alle singole misure, avendo riguardo sia
ai fatti sopravvenuti, sia a quelli originaria e coevi all’ordinanza impositiva.
Su richiesta personale dell’imputato, formulata entro 2 giorni dalla notificazione dell’avviso, il tribunale
può differire la data dell’udienza da un minimo di 5 ad una massimo di 10 se vi siano giustificati motivi;
di conseguenza possono essere dilatati anche i termini per la decisione e per il deposito. E naturalmente
se non vengono rispettati, l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia e non può essere
rinnovata.
Le decisioni che il tribunale del riesame – per riassumerle – sono quella di annullamento, riforma,
conferma, che devono essere assunte senza condizionamento: ossia che i motivi enunciati e le ragioni
indicate nella motivazione del provvedimento non ne vincolano il convincimento.
Il tribunale può annullare il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene
l’autonoma valutazione delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa.

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L’ordinanza emessa in sede di riesame, qualunque sia il contenuto, è ricorribile per Cassazione in caso di
violazione di legge (comma 9).

L’appello, fuori dai casi previsti dall’art. 309, il controllo sui provvedimenti in materia di libertà personale
è affidato all’appello (art. 310).
Si tratta di un mezzo d’impugnazione anche nel merito (al pari del riesame) proponibile davanti allo stesso
tribunale competente per il riesame.
I provvedimenti appellabili sono:
- Ordinanze con le quali il giudice non accoglie la richiesta di applicazione della misura cautelare
avanzata dal pubblico ministero;
- Ordinanze che dispongono o negano una misura interdittiva (infatti il riesame è ammesso solo per le
misure coercitive);
- Ordinanze che sospendono i termini di durata massima della custodia cautelare (art. 304);
- Ordinanze con le quali il giudice proroga i termini della custodia cautelare durante le indagini
preliminari complesse (art. 305, comma 2);
- Ordinanze che non dispongono la sospensione o la proroga delle richieste;
- Ordinanze che accolgono o rigettano la richiesta di revoca o di sostituzione delle misure cautelari
personali (art. 299);
- Ordinanze che dispongono la rinnovazione di misure applicate per esigenze probatorie (art. 301,
comma 2);
- Ordinanze consequenziali alla perdita di efficacia delle misure (art. 306, comma 2) e quelle di
rinnovazione delle misure interdittive (art. 308, comma 2).
L’appello ha la stessa disciplina del riesame in materia di termini per l’impugnazione (10 giorni), soggetti
legittimati (pubblico ministero, per il quale però mancano indicazioni specifiche, imputato e difensore),
forma e luogo di presentazione delle dichiarazioni di appello, competenza e incompatibilità a giudicare,
rito camerale e garanzie del contraddittorio.
Uno degli aspetti caratterizzanti del giudizio è costituito dalla necessaria prospettazione dei motivi
d’appello: infatti, a differenza del riesame, l’appello deve essere motivato ed i motivi vanno presentati
contestualmente. Il tribunale decide entro 20 giorni dalla ricezione degli atti. Deve ritenersi che il giudizio
di appello sia vincolato ai motivi di impugnazione e che non sia possibile adottare il provvedimento
diverso da quello richiesto (vale qui il principio del «tantum devolutum quantum appellatum»).
Il tribunale, quale giudice competente per l’appello, decide con ordinanza ricorribile per cassazione. Al
fine di garantire il favor libertatis, il legislatore ha stabilito che:
- L’ordinanza che dispone la misura cautelare è sospesa in pendenza del ricorso in cassazione;
- Le ordinanze liberatorie sono immediatamente esecutive in conformità della regola generale dell’art.
588, comma 2.

Il ricorso in Cassazione è ammesso quando non sono altrimenti impugnabili i provvedimenti con i quali
il giudice decide sulla libertà personale (art. 568, comma 2).
Il ricorso, soltanto per violazione di legge, è consentito (art. 311):
- Contro le decisioni emesse dal tribunale delle libertà in sede di riesame ed in sede di appello;
- Contro l’ordinanza di proroga della custodia cautelare per perizia psichiatrica in ogni stato e grado
del procedimento di merito (art. 305, comma 1);
- Contro l’ordinanza che decide sulla convalida del fermo e dell’arresto;

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Per le sole misure coercitive è previsto il c.d. ricorso per saltum: tramite questo particolare ricorso è
possibile adire direttamente alla Suprema Corte per violazione di legge (senza coinvolgere il Tribunale
delle libertà) al fine di avere una pronuncia definitiva e più celere sulla legittimità della misura cautelare
(il pubblico ministero non potrà beneficiare del ricorso per saltum, per cui è costretto a presentare appello).
I termini per impugnare per saltum sono quelli ex art. 309, comma 1 e 3, cioè 10 giorni dalla esecuzione o
notificazione del provvedimento o del suo deposito. Il ricorso proposto rende inammissibile la richiesta di
riesame.
Legittimato a proporre il ricorso è chiunque vi abbia interesse (pubblico ministero, imputato e difensore).
Il ricorso è presentato nella cancelleria del giudice a quo e va motivato (con possibilità di ulteriori motivi
prima dell’inizio della discussione).
La decisione della Cassazione, in camera di consiglio, deve intervenire entro 30 giorni dalla ricezione degli
atti.
Le decisioni definitive della Cassazione e quelle non impugnate del tribunale del riesame sono suscettibili
di acquisire una stabilità che viene qualificata come «giudicato cautelare», per il quale, qualora sono
esaurite le impugnazioni previste dalla legge, le stesse questioni di fatto o di diritto non possono essere
più riproposte

L’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza

Tra le misure cautelari personali, accanto alle misure coercitive, gli artt. 312-313, prevedono anche
l’applicazione provvisoria di misure di sicurezza a persone socialmente pericolose quando sussistono
gravi indizi di commissione del fatto e non ricorrono le condizioni previste dall’art. 273, comma 2.
L’applicazione può avvenire in qualunque stato e grado del procedimento, su richiesta del pubblico
ministero e a seguito di ordinanza del giudice. Prima di adottare l’ordinanza, il giudice deve accertare la
pericolosità sociale dell’imputato.
Trascorsi 6 mesi dall’adozione dell’ordinanza, il giudice deve verificare se è possibile sostituire o revocare
la misura di sicurezza provvisoriamente applicata.
Ai fini delle impugnazioni la misura di sicurezza provvisoria applicata è equiparata alla custodia
cautelare: è possibile anche il ricorso per saltum.
La misura di sicurezza applicata provvisoriamente ha un carattere afflittivo, viene quindi equiparata alla
detenzione e legittima la richiesta di riparazione ex artt. 314-315.

La riparazione per l’ingiusta detenzione

Legittimato alla domanda di riparazione è colui che abbia subito una ingiusta detenzione.
L’art. 314 prevede il diritto ad una equa riparazione per chi abbia subito un periodo di custodia cautelare
o di arresti domiciliari e viene successivamente:
1. Prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, perché non ha commesso il fatto,
perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato;
2. Non viene condannato in quanto viene adottato un provvedimento di archiviazione o di una sentenza
di non luogo a procedere;
3. Viene riconosciuto che la custodia cautelare o gli arresti domiciliari siano avvenuti senza che
sussistessero i gravi indizi di colpevolezza, presupposto necessario per l’applicazione di una misura
cautelare.

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Il diritto alla riparazione è escluso in presenza di archiviazione o sentenza di proscioglimento dovuta ad


abolitio criminis, non essendo ingiusta la custodia cautelare sofferta prima dell’intervento legislativo che ha
statuito che il fatto non è previsto come reato.
Per ottenere la riparazione il soggetto interessato deve, a pena d’inammissibilità, presentare la domanda
entro 2 anni dal giorno in cui è stato adottato il provvedimento che ha generato il diritto alla riparazione.
Non potendo essere restituita la libertà violata, la riparazione avviene mediante l’erogazione di una
somma comunque non superiore a euro 516. 456, 90.
Nel quantum da erogare a titolo di riparazione vanno ricomprese le spese legali sostenute per difendersi.
Competente a decidere sulla domanda di riparazione è la Corte d’appello nel cui distretto è stato
pronunciato il provvedimento su cui si fonda la riparazione.
La riparazione è possibile anche per la detenzione ingiusta, patita a seguito delle misure pre-cautelari
dell’arresto in flagranza e del fermo. Tale regola è stata ribadita dalla sentenza della Corte Costituzionale
109/1999. Restano non riparabili l’ingiusta misura coercitiva non cautelare e la misura interdittiva.
È prevista la reintegrazione nel posto di lavoro perduto per ingiusta detenzione ma solo nel pubblico
impiego.

Le misure cautelari reali

Le misure cautelari reali sono due: il sequestro conservativo (art. 316); il sequestro preventivo (art. 321).
Le misure cautelari reali hanno come scopo di imporre un vincolo su una cosa allo scopo di inibire
un’attività del soggetto colpito dalla misura (evitando così la vendita o l’uso del bene). In ogni caso
comportano un vincolo di indisponibilità su una cosa, ma si differenziano sulla base dello scopo
perseguito.
In via generale, la richiesta di misura cautelare reale da parte di un sostituto procuratore deve essere
preceduta da «l’assenso scritto» del Procuratore della Repubblica: l’assenso non è necessario solamente se
il bene o il fatto che porta all’adozione della misura non è significativo.

Il sequestro conservativo (art. 316) ha una funzione di garanzia dei crediti dello stato e della parte civile e
va adottato in presenza di fondate ragioni di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il
pagamento della pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario o
alla parte civile. In conseguenza del sequestro i crediti si considerano privilegiati. Il suo scopo è quello di
evitare la dispersione dei beni che potrebbe essere posta in essere in previsione di una condanna.
Può essere chiesto in ogni stato e grado del processo di merito ma non può essere chiesto né disposto
durante le indagini preliminari. Va richiesto:
- Dal pubblico ministero: che potrà richiedere il sequestro dei beni (mobili e immobili) dell’imputato.
Del sequestro richiesto dal PM può beneficiare la parte civile;
- Dalla parte civile: che potrà richiedere il pignoramento sia dei beni dell’imputato che dei beni del
responsabile civile.
Il sequestro viene disposto con ordinanza che viene adottata dal giudice procedente.
A questo punto, una volta che il giudice ha autorizzato con ordinanza il sequestro conservativo (effetti):
1. Gli effetti del sequestro cessano se viene adottata sentenza di proscioglimento o di non luogo a
procedere non più soggetta ad impugnazione;
2. Il sequestro conservativo si converte in pignoramento quando diventa irrevocabile la sentenza di
condanna al pagamento di una pena pecuniaria, ovvero quando diventa esecutiva la sentenza che
condanna l’imputato e il responsabile civile al risarcimento del danno a favore della parte civile;
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3. Il sequestro conservativo è impedito o sostituito se chi è interessato offre idonea cauzione,


rispettivamente prima o dopo l’adozione della misura.
Contro l’ordinanza di sequestro conservativo l’interessato può proporre riesame anche nel merito.
L’impugnazione non sospende l’esecuzione del provvedimento. La ratio di questa disciplina è quella di
evitare che un’impugnazione temeraria permetta una dispersione dei beni che vogliono essere protetti con
il sequestro.

Il sequestro preventivo (art. 321) che a sua volta si divide in due tipi, quello obbligatorio e quello facoltativo.
Quanto a quello obbligatorio, quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al
reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso o agevolare la commissione di altri reati.
Quanto a quello facoltativo, quando, pur in assenza del periculum in mora, vi sono cose di cui è consentita
la confisca e di cui è preferibile non lasciare la disponibilità all’imputato in pendenza del procedimento.
Legittimato alla richiesta di sequestro preventivo è il pubblico ministero (che potrà essere sollecitato dalla
persona offesa dal reato, e, nella fase processuale, dalla parte civile). Il sequestro in questione è disposto
diversamente a seconda che intervenga prima o dopo l’esercizio dell’azione penale:
- Con decreto motivato dal giudice per le indagini preliminari (prima dell’esercizio dell’azione penale);
- Dal giudice competente a decidere nel merito con ordinanza (dopo l’esercizio dell’azione penale).
In entrambi i casi il sequestro è immediatamente revocato a richiesta del pubblico ministero o
dell’interessato, quando risultano mancanti le condizioni che giustificano il ricorso al sequestro
preventivo.
In caso di particolare urgenza, l’art. 321 comma 3-bis e ter prevede che il sequestro possa essere compiuto
dagli ufficiali della polizia giudiziaria: cioè quando il periculum in mora sia tale da non consentire
l’intervento giudiziale. Consiste in un provvedimento a non iudice e dunque la polizia che non provvederà
a comunicarlo all’autorità giudiziaria per la convalida entro 48 ore, esso perderla la sua efficacia. Come
per il sequestro conservativo, il provvedimento di sequestro preventivo perde efficacia con la sentenza di
proscioglimento o di non luogo a procedere, anche se non definitiva: in tal caso la restituzione va ordinata
a favore dell’avente diritto.

Le impugnazioni delle misure cautelari reali

Per le impugnazioni delle misure cautelari reali si applica una disciplina del tutto simile a quella prevista
per misure cautelari personali, sia per quanto riguarda il riesame, sia per quanto riguarda l’appello, sia
per quanto riguarda il ricorso in Cassazione.

Il riesame è disposto avverso il decreto o l’ordinanza di sequestro preventivo ammesso dal giudice e
l’ordinanza di sequestro conservativo: è ammesso a chiunque vi abbia interesse (in questo modo
comprende la persona alla quale le cose sono state sequestrate nonché quella che avrebbe diritto alla loro
restituzione).
La richiesta va presentata entro 10 giorni dall’esecuzione o dalla conoscenza dell’avvenuto sequestro.
Il giudice competente è il tribunale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l’ufficio che ha
emesso il provvedimento nella cui cancelleria va depositata la richiesta del riesame. La decisione è presa
in tempi molto brevi, ossia 10 giorni dalla ricezione degli atti.
Una peculiarità sta nell’art. 324 che, dopo la modifica con L. n. 47 del 2015, riconosce all’imputato il potere
di richiedere il differimento dell’udienza, e introduce una nuova disciplina dei termini per la decisione e

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il deposito della motivazione e dei poteri di annullamento da parte del tribunale del riesame (come lo si
desume dai commi 9-bis e 10 dell’art. 309).
Il procedimento si svolge in rito camerale. Il tribunale può annullare, confermare o riformare per ragioni
diverse, anche parzialmente.
L’inutile decorso del termine di 10 giorni dalla ricezione degli atti estingue il provvedimento di sequestro.

L’appello è stato introdotto con l’art. 322-bis. È residuale, essendo consentito quando non è previsa la
richiesta di riesame.
I legittimati sono il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore, la persona alla quale le cose sono state
sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione.
I provvedimenti appellabili, invece, sono:
- L’ordinanza o il decreto in materia di sequestro preventivo e contro l’ordinanza di revoca del sequestro
emesso dal pubblico ministero;
- L’ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari provvede sulla richiesta di convalida del
sequestro provvisoriamente adottato dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria;
- L’ordinanza del GIP sulla richiesta di revoca del sequestro non accolta dal pubblico ministero e il
decreto di revoca del sequestro emesso dal pubblico ministero direttamente.

Il ricorso per cassazione si pronuncia su quanto è stato definito in sede di appello o di riesame per
violazione di legge. Il temine per ricorrere è quello di 15 giorni. Il ricorso deve essere motivato e il
procedimento è camerale.
I legittimati sono l’imputato, il difensore e il pubblico ministero, la persona che ha subito il sequestro e
quella che avrebbe diritto alla restituzione.
La Cassazione non ha termini prefissati entro cui dover decidere e il ricorso non produce effetti sospensivi
dell’esecuzione del provvedimento impugnato.
Anche in materia di sequestro conservativo e preventivo la richiesta di riesame può essere omessa per
adire direttamente (per saltum) la Corte di cassazione.

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PARTE SECONDA – PARTE DINAMICA

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CAPITOLO I – LE INDAGINI PRELIMINARI

L’indagine preliminare – insieme con l’udienza preliminare – è il momento iniziale del procedimento in
senso stretto e ne funge da filtro. Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale sancito dall’art. 112
Cost. costituisce il presupposto per il perseguimento di tutte le notizie di reato che pervengono agli organi
investigativi, non essendo previsto un potere di cernita tra le notizie di reato pervenute, ancorché non deve
essere affermato a priori perché in capo al pubblico ministero – in alcuni casi – sottostà un vero e proprio
potere di cestinazione inviando direttamente gli atti all’archivio senza alcun previo esame giurisdizionale.
In ogni modo si analizzerà tale fenomeno successivamente.
L’indagine preliminare dunque è la fase del procedimento nella quale viene verificato se e su quale
fondamento abbia la notizia di reato e se vi siano inoltre elementi sufficienti per procedere nei confronti
di chi è indicato, o risulterà in prosieguo, come possibile autore dell’illecito.
Tutti i sistemi processuali puntano ad un’attività preliminari volta all’acquisizione e alla verifica
dell’acquisizione della notizia del reato che serve a portare avanti un’indagine che ha ad oggetto un fatto
di reato. Innanzitutto le indagini sono essenzialmente funzionali all’azione penale e ineriscono ad essa.
Infatti l’art. 326 (finalità delle indagini preliminari), sancisce che il pubblico ministero e la polizia
giudiziaria svolgono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini necessarie per le
determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale.
Una delle caratteristiche principale che le indagini preliminari devono possedere è quella della (1)
completezza (o tendenzialmente complete), cioè devono andare ad individuare, accertare in modo completo
ed esaustivo tutti i mezzi di prova e di ricerca della prova che devono essere posti in essere. Completezza degli
strumenti accertativi e degli strumenti di prova (completezza oggettiva).
Una seconda caratteristica deve essere presa dal punto di vista soggettivo, che (2) deve riguardare tutte le
persone indagate (completezza soggettiva).
Una terza – completezza strumentale – con la quale si intendono utilizzabili tutti gli strumenti utili a quel
fine.
Questo concetto di «completezza» delle indagini preliminari, così come individuato dalla sentenza n. 88
del 1991 della Corte Costituzionale è essenziale in questa fase preliminare. È stato previsto anche l’art.
358, per il quale il p.m. deve fare tutti questi accertamenti in favore dell’indagato (in vista del giusto
processo), secondo cui: «Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell’articolo
326 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini». La
sperequazione del sistema, che vede una distinzione netta tra la parte pubblica e la privata, provoca una
sorta di riequilibrio.
All’interno di questa fase ci sono dei controlli che vanno ad accertare se vi è stata una completezza
dell’indagine (controllare una corretta azione o una corretta inazione).
L’azione penale deve essere qualcosa di concreto. Si arriva infatti ad esercitarla quando si hanno degli
elementi concreti in mano che consentano al p.m. di sostenere l’accusa in dibattimento (previsto anche
dall’art. 125 disp. att.). Ed è soltanto al termine di questa fase che il titolare dell’accusa riesce ad esercitarla
e sostenere che gli elementi che ha raccolto sono a sostegno dell’azione e che il dibattimento non sarà
superfluo (principio di non superfluità del procedimento): il pubblico ministero presenta al giudice la
richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti
nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio. È stato anch’esso elaborato
dalla sentenza n. 88 del 1991. È fondamentale perché la non superfluità del dibattimento significa che
l’azione penale esercitata può essere sostenuta seriamente nel procedimento.

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Queste indagini portano poi dei risultati che possono essere utilizzati solo in questa fase (che supporta la
raccolta degli elementi di prova). Occorre dunque ricordarsi il concetto di inutilizzabilità (art. 191). Ma qui
si fa riferimento, più precisamente, all’inutilizzabilità funzionale, che si distingue da quella patologica e
consegue alla suddivisione del procedimento penale in fase investigativa e fase giurisdizionale, da cui
deriva che un atto collocato nella prima, salvo talune ipotesi, esaurisce la sua funzione probatoria in essa,
dunque è inutilizzabile nella seconda. E si collega all’art. 526 per il quale il giudice non può utilizzare, ai
fini della deliberazione, prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento; per converso,
le prove raccolte in una fase diversa dunque non possono essere utilizzate, a meno che non ricorrano le tre
deroghe previste dal comma 5 dell’art. 111 (consenso, provata condotta illecita e impossibilità di natura
oggettiva).

La valenza degli atti preliminari è necessaria a tre punti:


1. L’art. 326, per il quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono, nell’ambito delle
rispettive attribuzioni, le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale;
2. Possono servire anche durante l’udienza preliminare (o il decreto che dispone il giudizio) per emettere la
sentenza di non luogo a procedere (in base alla raccolta degli elementi durante le indagini preliminari);
3. Non sono prova, ma potranno servire per la prova costituenda nel corso del procedimento, durante il
dibattimento, con le contestazioni.
Cosa vuol dire questo terzo punto? Esemplificando: ci si riferisce a tutti quei soggetti che sono stati sentiti
nel corso delle indagini preliminari e che successivamente (cioè nel dibattimento) hanno dichiarato cose
diverse da quelle che hanno detto. Queste dichiarazioni possono essere contestate. Ma possono essere
contestate anche le dichiarazioni che possono essere assunte in caso di impossibilità di natura oggettiva
(esempio del testimone che muore).

Chi sono i soggetti che operano nel corso delle indagini preliminari?
Abbiamo il pubblico ministero e la polizia giudiziaria. Il primo è il dominus delle indagini preliminari e
colui che le gestisce dall’inizio alla fine; la seconda è il braccio dell’azione penale. C’è un rapporto diretto
tra questi due organi.
Nel corso delle indagini però ci può essere anche l’intervento del difensore, mediante le cd. indagini
difensive. Sono un evoluzione dell’art. 38 disp. att. perché ora è prevista una vera e propria disciplina (art.
327 bis, che funge da macro-contenitore della disciplina dell’indagine del difensore, alla stregua dell’art.
326 per il pubblico ministero). L’art. 327 bis sancisce che fin dal momento dell’incarico professionale,
risultante da atto scritto, il difensore ha facoltà di svolgere investigazioni per ricercare ed individuare
elementi di prova a favore del proprio assistito, nelle forme e per le finalità stabilite. La facoltà può essere
attribuita per l’esercizio del diritto di difesa, in ogni stato e grado del procedimento, nell’esecuzione penale
e per promuovere il giudizio di revisione. E le attività previste possono essere svolte, su incarico del
difensore, dal sostituto, da investigatori privati autorizzati e, quando sono necessarie specifiche
competenze, da consulenti tecnici.
Un organo fondamentale (art. 328) in questa fase, che controlla il corretto svolgimento e che ha una
giurisdizione non continuativa ma a chiamata, è il giudice delle indagini preliminari (gip). È insomma
un organo di garanzia e opera laddove deve essere presa una scelta di questo tipo.
Può avere una competenza individuata oppure specifica (colore che si sono fatti assegnare, per esempio, ai
reati dell’art. 51 bis.).

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La formulazione dell’imputazione è un effetto solo eventuale delle indagini preliminari, perché il p.m.
può richiedere l’archiviazione; ma lo sviluppo delle indagini può avere comunque riflessi negativi per
l’imputato: le determinazioni intermedie del p.m., che però devono essere accertate dal giudice per le
indagini preliminari, possono portare a misure cautelari, anche sulla base di elementi che non hanno
alcuna valenza probatoria. Ma non solo. Quanto raccolto durante le indagini preliminari condiziona
dunque l’eventuale prosecuzione del procedimento e può addirittura costituire il presupposto e la
motivazione di una sentenza definitiva emersa nel corso delle indagini stesse (richiesta di applicazione
della pena art. 447) o nell’udienza preliminare (giudizio abbreviato art. 438).
Non tutte le indagini compiute dal p.m. sono preliminari. Vi sono ad esempio:
- Le indagini suppletive eventualmente espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art 419 comma 3). Non
solo sono successive alla fase delle indagini preliminari, ma rispondono anche ad altre finalità: non
più all’esercizio dell’azione penale, ma all’accoglimento della richiesta di rinvio a giudizio da parte
del giudice dell’udienza preliminare;
- Indagini integrative del p.m. (art. 430) successive all’emissione del decreto che dispone il giudizio e
quindi finalizzate a corroborare elementi già acquisiti per sostenere l’accusa in dibattimento;
- La regressione del processo alle fase delle indagini preliminari per completare le stesse (art 421 bis): il p.m.
svolge le ulteriori indagini a seguito di ordinanza per l’integrazione delle indagini emessa dal giudice
dell’udienza preliminare.
Sono invece ritenute indagini preliminari le ulteriori indagini previste dall’art. 409 comma 4 indicate dal
giudice a seguito dell’udienza sulla richiesta di archiviazione; anche le nuove indagini disposte dal
pubblico ministero a seguito di richiesta dell’indagato (art. 415 bis, comma 4).

Notizia di reato

È captata dalla polizia giudiziaria o rilevata direttamente dal pubblico ministero. Consiste in quella
informazione relativa ad un fatto che (all’apparenza) costituisce reato. Deve però trovare una sua
collocazione immediata (che non viene del tutto rispettata perché nella prassi i p.m. tardano a scrivere la
notizia di reato, in modo tale da prolungare, per esempio, la durata delle indagini preliminari) e la trova
nel registro delle notizie di reato presso gli uffici del pubblico ministero. Il registro di notizie di reato
rappresenta uno strumento importante per venire a conoscenza dell’imputazione e di un procedimento a
suo carico.
Questo sia quando gli pervenga direttamente, sia quando gli pervenga dalla polizia giudiziaria. La notizia
di reato deve essere soggettivizzata, cioè ascrivendo il reato ad un soggetto, sempre che sia conoscibile.
Qui sorge un problema: nel momento in cui viene iscritta la notizia di reato incominciano a cadere una
serie di termini perentori che pongono un ritmo al processo (un esempio può essere la durata delle indagini
preliminari). Gli atti che sono compiuti dopo la scadenza dei termini non possono essere utilizzati, perché
si è fuori dai termini di prescrizione dettati.
La notizia di reato non presenta altro che un’imputazione preliminare e rappresenta un tema di prova (si
collega l’art. 187 con l’art. 335 [registro delle notizie di reato]. Nel caso in cui, in questa fase preliminari,
non si riesca ad attribuire l’imputazione ad un soggetto, l’indagine sarà archiviata (perché il reato non è
ascritto a nessuno).
Se nel corso delle indagini preliminari muta la qualificazione giuridica del fatto ovvero questo risulta
diversamente circostanziato, il pubblico ministero cura l’aggiornamento delle iscrizioni senza procedere a
nuove iscrizioni (art. 335, comma 2).

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L’imputazione è fluida e sagomabile nel corso del processo, che infatti può essere modificata alla
presenza di fatti che obbligano a mutarla. Non ci deve essere una cripto-imputazione per l’imputato
altrimenti il suo diritto di difesa sarebbe pregiudicato.
L’art. 335 è la prima norma posta a fondamento della conoscenza di un procedimento a carico di un
soggetto: il comma 3 infatti stabilisce che le iscrizioni previste dai commi 1 e 2 sono comunicate alla
persona alla quale il reato è attribuito, alla persona offesa e ai rispettivi difensori, ove ne facciano richiesta,
ad esclusione dei casi in cui si procede per uno dei delitti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a). Ma non
mancano le deroghe, come dispone il comma successivo per il quale se sussistono specifiche esigenze
attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero, nel decidere sulla richiesta, può disporre, con
decreto motivato, il segreto sulle iscrizioni per un periodo non superiore a 3 mesi e non rinnovabile (potere
di segretazione).
Il registro assolve – come appena detto – quella funzione di rendere edotta la persona accusata
dell’imputazione a suo carico, costituendo un vero e proprio baluardo del principio di difesa. In questo
senso bisogna leggere l’art. 335 correlatamente agli artt. 369 (informazione di garanzia), 369 bis
(informazione della persona sottoposta alle indagini sul diritto di difesa) e il 415 bis (avviso all’indagato
della conclusione delle indagini preliminari), formando un sistema elaborato per consentire all’indagato
di difendersi.
Le notizie di reato di dividono in quelle (1) non qualificate cioè quelle assunte di propria iniziative dal
p.m., e quelle (2) qualificate, che si suddividono ulteriormente in (2.1) tipiche e (2.2) atipiche, cioè quelle
assunte attraverso le notizie di reato (denuncia e il referto) e le condizioni di procedibilità (la querela,
l’istanza e richiesta di procedimento, l’autorizzazione a procedere, la presenza del colpevole nel territorio
dello Stato) – quelle tipiche – mentre quelle riferite dalla stampa o apprese direttamente dal pubblico
ministero ecc. – le notizie di reato atipiche.
Le notizie non qualificate vengono iscritte automaticamente, mentre le seconde verranno iscritte laddove
il p.m. le ritenga meritevoli di iscrizioni (perché potrebbe ignorarle). Nel senso che esiste da parte del p.m.
un potere di cestinazione che gli consente di eliminare la notizia di reato – non attraverso l’archiviazione
– da iscrivere in un apposito registro, sempre che sussistano motivi di non punibilità (ma la soglia del
penalmente rilevante non è sempre percepibile in modo chiaro). Sono i casi delle c.d. pseudonotizie di reato,
che non comportano l’instaurazione formale di un procedimento, e di conseguenza consentono al pubblico
ministero di inviare direttamente gli atti all’archivio – senza l’archiviazione – senza alcun previo esame
giurisdizionale. Infatti parte della giurisprudenza sostiene che il procedimento garantito
dell’archiviazione si dovrebbe instaurare solamente con riferimento agli atti iscritti nel registro delle
notizie di reato ai sensi dell’art. 335, impostazione peraltro supportata dai riferimenti codicistici che ne
collegano l’archiviazione, quale unica alternativa all’esercizio dell’azione punitiva, alla formale iscrizione
di una notitia criminis ed alla conseguente insorgenza di un procedimento penale.
Vi è un’assoluta assenza di un controllo giurisdizionale sull’operato del pubblico ministero di fronte alle
c.d. pseudonotizie di reato tali da ingenerare un vulnus all’interno del sistema processuale. La mancata
instaurazione formale di un procedimento – dettata dalla arbitrale scelta del pubblico ministero –
determina l’inammissibilità del controllo da parte di un organo giurisdizionale, tanto al momento della
valutazione iniziale con la mancata iscrizione nel registro delle notizie di reato, quanto al momento della
decisione finale con la cestinazione diretta e l’invio in archivio. Si tratta del modello 45 dove sono iscritti i
fatti non costituenti notizie di reato (per esempio un esame autoptico per verificare se la morte non è
avvenuta per cause naturali).
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno aderito all’orientamento che riconosce il potere di
cestinazione in capo all’organo dell’accusa.

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In ogni modo, le notizie di reato qualificate invece sono le notizie di reato della (1) denuncia (autorità e
privato), e del (2) referto, e le condizioni di procedibilità della (3) querela, della (4) richiesta e dell’istanza
di procedimento, (5) dell’autorizzazione a procedere, (6) della presenza del colpevole nel territorio dello
Stato.
1. Cosa distingue la denuncia (art. 331) a carico di pubblico ufficiale o di privati e referto dalle altre?
Nei primi si ha una notitia criminis che si concreta in una dichiarazione di scienza dove viene raccontato
un fatto che secondo colui che racconta raggiunge la soglia dell’illecito. Nelle altre non solo si ha una
dichiarazione di scienza, ma anche una manifestazione di volontà di punire un determinato soggetto.
Nella denuncia di pubblici ufficiali e di incaricati di un pubblico servizio (art. 331), tali soggetti devono,
in presenza di un illecito, dichiararlo senza ritardo.
Il contenuto è sancito dall’art. 332 dove la denuncia contiene l’esposizione degli elementi essenziali del fatto e
indica il giorno dell’acquisizione della notizia nonché le fonti di prova già note. Contiene inoltre, quando è
possibile, le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla identificazione della persona alla quale il fatto
è attribuito, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la
ricostruzione dei fatti. Vige un obbligo di denuncia.
Questo obbligo di denuncia non vige invece nella denuncia da parte di privati (a meno che non sia previsto
dalla legge). Deve essere compiuta oralmente o per iscritto o personalmente o a mezzo di procuratore
speciale.
E le denunce anonime? Non possono essere utilizzate a meno che non costituiscano corpo di reato.
In ogni caso, il denunciante si deve assumere la responsabilità delle informazioni offerte. La denuncia
dev’essere sottoscritta dal denunciante o dal suo procuratore speciale (anche in caso di denuncia orale: chi
la riceve deve identificare il presentatore), così da assicurare una responsabilità morale e giuridica di
quanto segnalato: un reato che si sa non commesso o attribuire un reato a persona che si sa innocente sono
due delitti: di simulazione di reato e di calunnia.
L’art. 334 bis sancisce l’esclusione dell’obbligo di denuncia dell’ambito delle attività di investigazione
difensiva, per il quale infatti il difensore e gli altri soggetti di cui all’art. 391 bis, non hanno l’obbligo di
denuncia relativamente ai reati dei quali abbiano avuto notizia nel corso delle attività investigative da essi
svolte.

2. L’art. 334 afferma che chiunque, esercitando una professione sanitaria, si trova a prestare la propria
assistenza od opera in casi che possono rappresentare i caratteri di un delitto perseguibile d’ufficio, devono
di conseguenza dichiararlo (il referto). Il referto deve essere fatto pervenire entro 48 ore o, se vi è pericolo
nel ritardo, immediatamente al pubblico ministero o a qualsiasi ufficiale di polizia giudiziaria del luogo in
cui ha prestato la propria opera o assistenza ovvero, in loro mancanza, all’ufficiale di polizia giudiziaria
più vicino.
Inoltre, Il referto indica la persona alla quale è stata prestata assistenza e, se è possibile, le sue generalità,
il luogo dove si trova attualmente e quanto altro valga a identificarla nonché il luogo, il tempo e le altre
circostanze dell’intervento; dà inoltre le notizie che servono a stabilire le circostanze del fatto, i mezzi con
i quali è stato commesso e gli effetti che ha causato o può causare.

Le condizioni di procedibilità

Le condizioni di procedibilità sono manifestazioni di scienza di soggetti pubblici o privati (querela,


richiesta, istanza e autorizzazione a procedere, la presenza del colpevole nel territorio dello Stato quale

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requisito generale condizionante la perseguibilità del delitto comune del cittadino straniero all’estero e
dello straniero all’estero). In ordine a talune fattispecie delittuose il pubblico ministero non è gravato
dall’obbligo di procedere, piuttosto gli è precluso ogni atto persecutorio fino a quando non
sopraggiungano determinate condizioni, finalizzate alla rimozione dell’ostacolo all’esercizio dell’azione
penale nei confronti di chi si assume essere autore di un fatto penalmente rilevante.
L’art. 345 stabilisce che il provvedimento di archiviazione e la sentenza di proscioglimento o di non luogo
a procedere, anche se non più soggetta a impugnazione, con i quali è stata dichiarata la mancanza della
querela, della istanza, della richiesta o dell’autorizzazione a procedere, non impediscono l’esercizio
dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona se è in seguito proposta la querela,
l’istanza, la richiesta o è concessa l’autorizzazione ovvero se è venuta meno la condizione personale che
rendeva necessaria l’autorizzazione. Non vi è nessuna violazione del divieto del ne bis in idem. In ogni caso
in mancanza di una condizione di procedibilità che può ancora sopravvenire, possono essere compiuti gli
atti di indagine preliminare necessari ad assicurare le fonti di prova e, quando vi è pericolo nel ritardo,
possono essere assunte le prove previste con l’incidente probatorio.

3. La querela (art. 336), invece, è quella dichiarazione con cui la persona offesa dal reato manifesta la
volontà che si proceda in ordine ad un fatto previsto dalla legge come reato. Tale volontà è rilevante solo
in casi tassativi, nei quali è vista la rilevanza del bene giuridico e si esclude la normale regola della
perseguibilità d’ufficio.
In pendenza del termine per presentare querela – che è di 3 mesi dal giorno della notizia del fatto che
costituisce reato, a meno che la legge non disponga altrimenti – il pubblico ministero e la polizia giudiziaria
possono compiere gli atti di indagini preliminari e gli incidenti probatori necessari: in caso di rinuncia alla
querela, o di remissione della stessa, tale attività è come se non fosse mai stata compiuta.
La disciplina di tale istituto è a metà tra profili di diritto penale sostanziale e di diritto di procedura penale.
Quali sono le caratteristiche di questa condizione di procedibilità? È soggetta alle forme previste per la
denuncia (scritta o orale); ha gli stessi destinatari della denuncia, che sono i pubblici ufficiali e gli incaricati
di un pubblico servizio, con l’aggiunta dell’agente consolare all’estero; tale diritto è riconosciuto anche le
persone giuridiche, gli enti e le associazioni; il contenuto non deve seguire forme prestabilite, purché sia
chiara la volontà che si proceda penalmente.
La querela può essere sottoposta anche a rinuncia. Si ha rinuncia in caso di inutile decorso del termine
previsto per la presentazione della querela – 3 o 6 mesi, per i delitti sessuali – e implica automaticamente
la decadenza dall’esercizio del potere di querela.
La rinuncia può essere espressa o tacita:
1. In caso di rinuncia espressa la venuta meno del potere di presentare querela può aversi prima del
decorso del termine (il dichiarante va identificato e la rinuncia è improduttiva di effetti se sottoposta
a termine o condizione);
2. Se la rinuncia è tacita chi ha il potere di proporre querela compie fatti incompatibili con la volontà di
querelare.
Che cos’è la remissione della querela? La remissione consiste in una manifestazione espressa di volontà
della persona offesa di non voler dare un seguito penale al fatto illecito, in precedenza segnalato
all’autorità giudiziaria. Nel caso di arresto e fermo, la remissione comporta l’immediata liberazione
dell’arrestato (artt. 380 comma 3 e 381 comma 3).
La remissione è dunque un perdono penalmente rilevante, che deve essere accettato dal querelato, che
potrebbe avere un interesse ad un giudizio nel merito della querela per farne risaltare la pretestuosità o
l’infondatezza.

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I suoi caratteri peculiari sono: (1) non produce effetti se non vi è accettazione (a parte il caso che sia
presentata contro ignoti) da parte del querelato; (2) può avvenire in qualunque momento prima della
sentenza definitiva e dunque implicare l’annullamento di interi gradi di processo; (3) in casi previsti dalla
legge non è consentita la remissione della querela.

4. Richiesta ed istanza di procedimento. La richiesta è un atto amministrativo discrezionale (art. 342) che
elimina un ostacolo al processo penale sollecitandone lo svolgimento. Si basa su condizioni di opportunità
sociali ed è demandata agli organi del potere esecutivo. Il Ministro della Giustizia allora chiede al
rappresentante dell’accusa di procedere:
- Per un delitto punibile a querela in danno del Presidente della Repubblica;
- Per un delitto politico commesso all’estero, ma punibile in Italia;
- Per un delitto comune compiuto dal cittadino all’estero con pena minore di 3 anni;
- Per un delitto dello straniero all’estero punito con pena maggiore di 1 anno: è necessaria la presenza
del reo nel territorio dello Stato.
Parallelamente, l’istanza di procedimento è riservata alla persona offesa dal reato e assoggettata alle forme
della querela: si risolve in una dichiarazione con cui si manifesta la volontà di far procedere per delitti
comuni commessi:
- All’estero dal cittadino: se si tratta di reati puniti con reclusione maggiore a 3 anni;
- Dallo straniero: se si tratta di reati puniti con ergastolo o reclusione maggiore ad 1 anno.
Come la querela vanno proposte entro 3 mesi dalla notizia del fatto, ma sono irrevocabili. Il termine entro
cui il pubblico ministero deve chiudere le indagini decorre dal momento in cui gli pervengono istanza e
richiesta.

5. Autorizzazione a procedere: è un atto discrezionale che va a sollecitare il pubblico ministero a


procedere verso un determinato soggetto che ha commesso un reato.
Sostanzialmente è un’autorizzazione che viene data da determinati enti statali od organi dello Stato per
perseguire determinati soggetti che appartengono ad organi statali. Riguarda una serie di delitti compiuti
contro la personalità dello Stato (art. 313 c.p.) ovvero per reati commessi dal Presidente del Consiglio dei
Ministri o Ministri stessi, ovvero per i reati commessi dai giudici della Corte costituzionale.
Chi sono i soggetti competenti a concederla? Nell’ipotesi contro la personalità dello stato sarà il ministero
della giustizia; invece se si fa riferimento ad un reato compiuto dal Presidente del Consiglio dei Ministri
sarà competente uno delle camere del parlamento.
La richiesta di autorizzazione a procedere deve essere presentata entro 30 giorni dall’iscrizione nel registro
delle notizie di reato del nome della persona per la quale è necessaria l’autorizzazione. In assenza
dell’autorizzazione a procedere non è possibile compiere verso questi soggetti alcun atto.
Essa presenta alcune caratteristiche: la richiesta compete al pubblico ministero che deve attivarsi per farla
realizzare; la pendenza dell’autorizzazione a procedere non impedisce però atti di indagine diversi da
quelli elencati e nemmeno di atti necessari ad evitare la dispersione delle fonti di prova come l’incidente
probatorio, oltre che a tutti quelli consentiti dall’indagabile; se viene concessa l’autorizzazione a procedere,
questa non può essere revocata, se invece è rifiutata gli atti d’indagine eventualmente compiuti sono
inutilizzabili.
Una particolare specie di autorizzazione è prevista per i parlamentari. L’art. 68 Cost. legittima il pubblico
ministero alle indagini sui parlamentari con il solo limite della necessità di autorizzazione per il
compimento di singoli specifici e tassativi atti. Dunque il pubblico ministero non deve richiedere nessuna
autorizzazione per indagare su un parlamentare ove non intenda compiere uno degli atti previsti ai commi

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2 e 3 che sono subordinati ad autorizzazione e può procedere anche all’insaputa dell’interessato (come
l’interrogatorio, l’ispezione personale e domiciliare e il sequestro del corpo del reato o di cose pertinenti
al reato diverse dalla corrispondenza).

Attività ad iniziativa della polizia giudiziaria

Il punto di partenza è l’art. 55, che prende in considerazione le funzioni della polizia giudiziaria: (1)
prendere notizia dei reati, (2) impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, (3) ricercarne gli
autori, (4) compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e (5) raccogliere quant’altro possa
servire per l’applicazione della legge penale.
L’informativa di reato prevista dall’art. 347 è l’attività di iniziativa della polizia giudiziaria per la quale
quando viene acquisita la notizia di reato, questa ha l’obbligo di riferirla al pubblico ministero. La
tempistica a capo di questa norma la si può individuare sue tre piani: l’informazione di reato deve essere
trasmessa «senza ritardo», «al più tardi entro 48 ore dal compimento dell’atto» e infine «immediatamente
assunta».
Deve essere compiuta senza ritardo e deve riportare il contenuto della denuncia – elementi essenziali del
fatto e gli altri elementi sino a ad allora raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute –. Comunica,
inoltre, quando è possibile, le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla identificazione della persona
nei cui confronti vengono svolte le indagini, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire
su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti (comma 2).
Qualora siano stati compiuti atti (garantiti) per i quali è prevista l’assistenza del difensore della persona
nei cui confronti vengono svolte le indagini, la comunicazione della notizia di reato è trasmessa al più
tardi entro 48 ore dal compimento dell’atto.
In determinate situazioni – se si tratta di taluno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, lettera a),
numeri da 1) a 6) – l’informativa deve essere immediatamente assunta e anche in forma orale, alla quale
deve poi seguire una informativa in forma scritta (perché vi deve essere data prova del passaggio).
Altra attività di informazione è data dall’art. 330, per il quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria
prendono notizia dei reati di propria iniziativa e ricevono le notizie di reato presentate o trasmesse.
L’obbligo di riferire al magistrato costituisce espressione della subordinazione della polizia giudiziaria e
rappresenta il risultato della scelta di spostare dalla polizia al pubblico ministero il baricentro e la
responsabilità delle indagini.
Il coinvolgimento conoscitivo del pubblico ministero non esime la polizia giudiziaria dal continuare le
indagini raccogliendo ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e all’individuazione del colpevole, in
attesa di direttive da parte del pubblico ministero. Di conseguenza, l’attività della polizia giudiziaria si
esplica prima e dopo la notizia di reato. Ne è prova l’art. 348, comma 3 per il quale, dopo l’intervento del
pubblico ministero, la polizia giudiziaria compie gli atti ad essa specificamente delegati a norma
dell’articolo 370 [il pubblico ministero può avvalersi della polizia giudiziaria per il compimento di attività
di indagine e di atti specificamente delegati, ivi compresi gli interrogatori ed i confronti cui partecipi la
persona sottoposta alle indagini che si trovi in stato di libertà, con l’assistenza necessaria del difensore],
esegue le direttive del pubblico ministero ed inoltre svolge di propria iniziativa, informandone
prontamente il pubblico ministero, tutte le altre attività di indagine per accertare i reati ovvero richieste
da elementi successivamente emersi e assicura le nuove fonti di prova.
Infatti l’attività di indagine della polizia giudiziaria propria nasce nell’ambito dell’art. 348, che parla
dell’assicurazione delle fonti di prova. Investigazione che può essere anche indipendente dalle direttive

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del pubblico ministero, raccogliendo ogni elemento utili alla ricostruzione del fatto e alla individuazione
del colpevole.
Tale articolo afferma che la polizia giudiziaria partecipa (1) alla ricerca delle cose e delle tracce pertinenti
al reato nonché alla conservazione di esse e dello stato dei luoghi; (2) alla ricerca delle persone in grado di
riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti; (3) può avvalersi di competenza specifiche per
svolgere determinati atti che ne richiedono una professionalità particolare; (4) compimento degli delle
operazioni che possono suddividersi in due, tipici o atipici.
La prima (tipica) è quando di propria iniziativa la polizia giudiziaria può:
- Ricercare la notizia di reato e cose e tracce pertinenti al reato;
- Provvedere alla conservazione di esse e dello stato dei luoghi;
- Ricercare persone in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti;
- Compiere operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, anche avvalendosi di persone
idonee.
La seconda (atipica) fa riferimento a tutte quelle attività per cui rileva la:
- Attivazione di canali informati non istituzionalizzati;
- La predisposizione di blocchi stradali e il pedinamento;
- Ricerca di piste da seguire e di elementi idonei ad orientare le indagini.
Altro compito della polizia giudiziaria è quello di procedere all’identificazione (art. 349) della persona
nei cui confronti vengano svolte le indagini e di altre soggetti quali la persona offesa dal reato e i possibili
testimoni. E dichiarare le proprie generalità è un obbligo penalmente sanzionato anche per chi, come
l’indagato, ha facoltà di non rispondere. In caso di rifiuto è previsto l’accompagnamento presso gli uffici
di polizia per il tempo strettamente necessario per l’identificazione e comunque non superiore alle 24 ore.
Alla identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini può procedersi anche
eseguendo, ove occorra, rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici nonché altri accertamenti.
L’attività di propria iniziativa si giustifica per esigenze di tipo pratico che non consentono l’immediato
intervento dell’autorità giudiziaria. Questo trova conferma nell’art. 350 per il quale gli ufficiali di polizia
giudiziaria assumono, con le modalità previste dall’articolo 64, sommarie informazioni utili per le
investigazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini che non si trovi in stato di arresto
o di fermo a norma dell’articolo 384, e nei casi di cui all’articolo 384-bis.
Il concetto di queste «sommarie informazioni» porta al concetto di esame e testimonianza nel dibattimento.
Le modalità previste sono quelle dell’interrogatorio (art. 64), non solo forme ma anche garanzie. Sono
sommarie informazioni che sono utili per le investigazioni ma che non possono essere svolte nei confronti
della persona in stato di arresto o di fermo. Il difensore deve presenziare all’atto, sempre per il richiamo
alla disciplina dell’interrogatorio. Inoltre, prima di assumere le sommarie informazioni, la polizia
giudiziaria invita la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini a nominare un difensore di fiducia
e, in difetto, provvede a norma dell’articolo 97 comma 3.
Però c’è una deroga (comma 5). In questo caso si ravvisa che la figura del difensore viene messa in secondo
piano, cioè che gli ufficiali di polizia giudiziaria possono, anche senza la presenza del difensore, assumere
dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, anche se arrestata in flagranza o fermata a
norma dell’articolo 384, notizie e indicazioni utili ai fini della immediata prosecuzione delle indagini. Sul
luogo o nell’immediatezza del fatto è la parola chiave. Perde così alcune caratteristiche di garanzia.
Allora sorge una domanda: il diritto di difesa risulta tutelato o no? Questo risulta garantito, perché delle
notizie e delle indicazioni assunte senza l’assistenza del difensore sul luogo o nell’immediatezza del fatto
a norma del comma 5 è vietata ogni documentazione e utilizzazione.

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Inoltre può assumere dichiarazioni spontanee, cioè non sollecitate. Queste possono essere assunte anche
da persona arrestata o fermata e possono essere ricevuto pur in assenza del difensore. Possono essere
documentate e possono essere utilizzate per le indagini preliminari e nell’udienza preliminare. Di esse
però non è consentita l’utilizzazione nel dibattimento, salvo quanto previsto dall’articolo 503 comma 3 [il
pubblico ministero e i difensori, per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono
servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dalla parte esaminata e contenute nel fascicolo del
pubblico ministero. Tale facoltà può essere esercitata solo se sui fatti e sulle circostanze da contestare la
parte abbia già deposto].
L’art. 351 parla di altre sommarie informazioni. La polizia giudiziaria assume sommarie informazioni
dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini, come la polizia giudiziaria, o la
persona offesa o da chi può riferire circostanze. Anche i coimputati in procedimento connesso o collegato
possono essere chiamati a rendere sommarie informazioni alla polizia giudiziaria, ma il difensore deve
essere preavvisato. E l’interrogato può esercitare il diritto di non rispondere, senza dover motivare le
ragioni.
Se la problematicità delle dichiarazioni spontanee nasce dalla necessità di conciliare il rispetto del diritto
al silenzio (e all’avviso circa tale diritto) con le esigenze di non disperdere contributi informativi di
provenienza dell’indagato, meno problematiche risultano le sommarie informazioni dalla persona offesa
o da chi può riferire circostanze (per le seconde la polizia giudiziaria deve rispettare la disciplina del
segreto): non vi è, di regola, materia di tutela del diritto di difesa: le dichiarazioni indizianti sono
inutilizzabili (ma determinano l’assunzione della qualità dell’indagato).
Ulteriori attività poste in essere dalla polizia giudiziario sono quelle della perquisizione e del sequestro.
L’art. 352 tratta la perquisizione. È un istituto che pone le radici negli artt. 13 e 14, a seconda che sia
personale o locale e domiciliare. Quest’attività serve per trovare tracce o cose pertinenti al reato.
In un primo caso tratta dell’arresto in flagranza e di evasione (comma 1): gli ufficiali di polizia giudiziaria
procedono a perquisizione personale o locale quando hanno fondato motivo di ritenere che sulla persona si
trovino occultate cose o tracce pertinenti al reato che possono essere cancellate o disperse ovvero che tali cose
o tracce si trovino in un determinato luogo o che ivi si trovi la persona sottoposta alle indagini o l’evaso; inoltre
(comma 1 bis) gli ufficiali di polizia giudiziaria, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la
conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione, procedono altresì alla perquisizione di
sistemi informatici o telematici, ancorché protetti da misure di sicurezza, quando hanno fondato motivo
di ritenere che in questi si trovino occultati dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque
pertinenti al reato che possono essere cancellati o dispersi; in un secondo caso invece tratta dell’esecuzione
di un’ordinanza che dispone la custodia cautelare o di un ordine che dispone la carcerazione (comma 2):
gli ufficiali di polizia giudiziaria possono altresì procedere a perquisizione personale o locale se ricorrono
i presupposti indicati nel comma 1 – quando hanno fondato motivo di ritenere che sulla persona si trovino
occultate cose o tracce pertinenti al reato che possono essere cancellate o disperse ovvero che tali cose o
tracce si trovino in un determinato luogo o che ivi si trovi la persona sottoposta alle indagini o l’evaso – e
sussistono particolari motivi di urgenza che non consentono la emissione di un tempestivo decreto di
perquisizione.
Nel momento in cui viene svolta la perquisizione la polizia giudiziaria trasmette entro 48 ore il verbale che
prende in considerazione l’attività svolta al p.m. del luogo dove la perquisizione è stata eseguita. E lo
stesso procederà alla convalida nelle 48 ore successive.
L’art. 354 comma 1 prevede che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria curino che le tracce e le cose
pertinenti al reato siano conservate e che lo stato dei luoghi e delle cose non venga mutato prima
dell’intervento del pubblico ministero (accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone).

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Un’altra attività di assicurazione è il sequestro (art. 354 comma 2). Permette di acquisire cose o tracce
pertinenti al reato stesso, se vi è pericolo che le cose, le tracce e i luoghi indicati nel comma 1 si alterino o si
disperdano o comunque si modifichino. Il suo scopo è quello di mantenere la conservazione delle cose o
tracce prima dell’intervento del pubblico ministero, al fine di non alterare o modificare lo stato. La polizia
giudiziaria compirà poi gli accertamenti necessari. È un atto immediato e compiuto nell’imminenza dei
fatti.
L’art. 353, sempre con riferimento al sequestro, corrisponde a quell’altra funzione della polizia giudiziaria
che può procedere immediatamente ad acquisire plichi o corrispondenza qualora vi sia la necessità. Se
ha fondato motivo di ritenere che i plichi contengano notizie utili alla ricerca e all’assicurazione di fonti di
prova che potrebbero andare disperse a causa del ritardo, l’ufficiale di polizia giudiziaria informa col
mezzo più rapido il pubblico ministero il quale può autorizzarne l’apertura immediata e l’accertamento
del contenuto.
Trattandosi di un atto a sorpresa non è concepibile un previo avviso al difensore che può però assistere.
Infatti il difensore della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini ha facoltà di assistere, senza
diritto di essere preventivamente avvisato, agli atti previsti dagli articoli 352 e 354.

Dunque l’attività può essere autonoma o delegata. Quest’ultima è prevista dall’art. 370. La regola è che il
pubblico ministero può compiere ogni attività di indagine personalmente, tuttavia può avvalersi della
polizia giudiziaria per il compimento di attività di indagine e di atti specificamente delegati, ivi compresi
gli interrogatori e i confronti cui partecipi la persona sottoposta alle indagini che si trovi in stato di liberta,
con l’assistenza necessaria del difensore. Si è appena visto comunque che anche le perquisizioni e i
sequestri sono delegabili. Tutto ciò che non è consentito al pubblico ministero non può essere oggetto di
delega alla polizia giudiziaria.
Non solo la polizia giudiziaria può essere delegata a svolgere le funzioni investigative, ma anche un
pubblico ministero appartenente ad un tribunale di diversa circoscrizione, secondo la rispettiva
competenza per materia, per singoli atti da assumere nella circoscrizione di altro tribunale, qualora non
ritenga di procedere personalmente.
Tutta l’indagine della polizia giudiziaria deve essere documentata. E il modo tipico è l’annotazione, che
ha natura sommaria e anche per quanto riguarda l’individuazione delle fonti di prova. Infatti la polizia
giudiziaria annota secondo le modalità ritenute idonee ai fini delle indagini, anche sommariamente, tutte
le attività svolte, comprese quelle dirette alla individuazione delle fonti di prova.
Ci sono anche tutta una serie di attività per le quali non è sufficiente l’annotazione e si fa riferimento a
situazioni per le quali deve essere redatto il verbale (art. 373). Verbale che è un atto che riporta
specificamente le dichiarazioni e i contenuti che si rilasciano.
La documentazione dell’attività di polizia giudiziaria è disposta dall’art. 357. Salvo quanto disposto in
relazione a specifici atti, è redatto verbale: (1) delle denunce, querele e istanze di procedimento presentate
oralmente; (2) degli interrogatori e dei confronti con la persona sottoposta alle indagini; (3) delle ispezioni,
delle perquisizioni e dei sequestri; (4) delle sommarie informazioni assunte; (5) dell’interrogatorio assunto
a norma dell’articolo 363; (5) degli accertamenti tecnici compiuti.

Precedentemente si è accennato all’informativa di reato da comunicare al pubblico ministero, da parte


della polizia giudiziaria, entro 48 ore quando si sono svolti atti che richiedevano la presenza del difensore.
Pare dunque consono individuare cosa siano questi «atti garantiti». Sono quegli atti ai quali il difensore
ha diritto di assistere. L’art. 356 – rubricato assistenza del difensore – afferma che il difensore della
persona nei cui confronti vengono svolte le indagini ha facoltà di assistere, senza diritto di essere

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preventivamente avvisato, agli atti previsti dagli articoli 352 e 354 (perquisizioni e accertamenti tecnici)
oltre che all’immediata apertura del plico autorizzata dal pubblico ministero.
Si individuano tre tipi di atti: ci sono atti garantiti (come il 359, 360, 361, 364), atti parzialmente o meno
garantiti (il difensore non è avvisato, ma può comunque presentarsi) e assolutamente non garantiti (cioè
non è data la presenza e non è dato neanche il preavviso) alla presenza del difensore.
L’art. 365 prevede che il pubblico ministero, quando procede al compimento di atti di perquisizione o
sequestro, chiede alla persona sottoposta alle indagini, che sia presente, se è assistita da un difensore di
fiducia e, qualora ne sia privo, designa un difensore di ufficio. Al difensore deve essere dato l’avviso 24
ore prima. Questo è un atto parzialmente garantito.
Occorre tenere in considerazione che nell’ambito di tale fase, nella quale è richiesta obbligatoria la presenza
del difensore (confronti, arresto, interrogatorio), debba essere dato avviso almeno 24 ore prima. Per
l’attività che sia stata delegata alla polizia giudiziaria è sempre prevista l’assistenza del difensore.
L’art. 366 prevede un deposito degli atti cui hanno diritto di assistere i difensori. Infatti, salvo quanto
previsto da specifiche disposizioni, i verbali degli atti compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia
giudiziaria ai quali il difensore ha diritto di assistere, sono depositati nella segreteria del pubblico
ministero entro 3 giorni successivi al compimento dell’atto, con facoltà per il difensore di esaminarli ed
estrarne copia nei 5 giorni successivi. Quando non è stato dato avviso del compimento dell’atto, al
difensore è immediatamente notificato l’avviso di deposito e il termine decorre dal ricevimento della
notificazione. Il difensore ha facoltà di esaminare le cose sequestrate nel luogo in cui esse si trovano e, se
si tratta di documenti, di estrarne copia.

Attività di indagine del pubblico ministero

L’art. 358 impone al pubblico ministero di (1) compiere ogni attività necessaria al fine delle indagini,
altresì (2) accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini. È una sorte
di principio che deve indurre il pubblico ministero, volente o nolente, a tenere determinati comportamenti
nella sua attività investigativa in vista del giusto processo e per riequilibrare quella condizione di
sperequazione di cui si era accennato precedentemente.
Il pubblico ministero, essendo il dominus delle indagini preliminari, può compiere personalmente ogni
attività di indagine. Esso può anche avvalersi della polizia giudiziaria per il compimento di attività di
indagine e di atti specificamente delegati, ivi compresi gli interrogatori e i confronti cui partecipi la persona
sottoposta alle indagini che si trovi in stato di liberta, con l’assistenza necessaria del difensore. Dunque la
polizia giudiziaria può compiere singoli atti delegati dal pubblico ministero (interrogatorio e confronti).
Sempre nell’ambito dell’attività dell’indagine assurge fondamentale l’art. 375 e di conseguente il 376
(accompagnamento coattivo per procedere a interrogatorio o a confronto). È volto a compiere diversi atti
di indagine nei confronti dell’indagato, con la presenza di questi. Dunque può adottare un ordine di
comparizione (art. 375, invito a presentarsi).
Dunque, il pubblico ministero invita la persona sottoposta alle indagini a presentarsi quando deve
procedere ad atti che ne richiedono la presenza. L’invito a presentarsi contiene: (a) le generalità o le altre
indicazioni personali che valgono a identificare la persona sottoposta alle indagini; (b) il giorno, l’ora e il
luogo della presentazione nonché l’autorità davanti alla quale la persona deve presentarsi; (c) il tipo di
atto per il quale l’invito è predisposto; (d) l’avvertimento che il pubblico ministero potrà disporre
l’accompagnamento coattivo in caso di mancata presentazione senza che sia stato addotto legittimo
impedimento.

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Se l’indagato non si presenta, può essere ordinato l’accompagnamento coattivo, ma questo non vuol dire
che il soggetto portato all’interrogatorio o a confronto si avvalga della facoltà di rispondere.
Nell’invito viene inserita la sommaria enunciazione dei fatti che risulta fino a quel punto compiuto. Ma
qualora questo intervento sia finalizzato a porre in essere il giudizio immediato, l’invito dovrà contenere
l’indicazione degli elementi e delle fonti di prova e l’avvertimento (perché l’indagato deve sapere che cosa
gli è imputato – principio di conoscibilità dell’accusa). Questo perché il presupposto del rito immediato è
che si possa difendere su tutti gli elementi posti a suo carico.
Un altro potere del pubblico ministero è quello dettato dall’art. 361 che, qualora sia necessario per
l’immediata prosecuzione delle indagini, procede alla individuazione di persone, di cose o di quanto
altro può essere oggetto di percezione sensoriale. Inoltre, se ha fondata ragione di ritenere che la persona
chiamata alla individuazione possa subire intimidazione o altra influenza dalla presenza di quella
sottoposta a individuazione, il pubblico ministero adotta le cautele previste dall’articolo 214 comma 2
(ricognizione). Se il pubblico ministero non vuole incorrere in sanzioni, dovrà garantire tutte quelle cautele
richieste dalla ricognizione.
Ancora. Il pubblico ministero assume informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai
fini delle indagini (dai soggetti che successivamente potrebbero assumere l’ufficio di testimone).
Tenendo distinte i due soggetti, la figura del p.m. ha una funzione probatoria, mentre l’altra (polizia
giudiziaria) investigativa.
Una regola importante è che essendo possibile un «doppio binario investigativo» (quello del pubblico
ministero e del difensore), allora il pubblico ministero se sente persone che sono già state sentite dal
difensore dell’indagato, non può formulare domande o chiedere informazioni al secondo (si rileva una
sorta di segretezza sull’attività di quest’ultimo e solo alla fine delle indagini cade questo divieto).
L’interrogatorio, a seconda del momento in cui viene assunto, assume forme diverse. Quello assunto nelle
indagini preliminari diventa una sorta di strumento investigativo. Se il p.m. lo richiede è sintomo di stallo
nelle indagini.
In ogni modo, le attività del pubblico ministero possono essere sistematicamente enunciate per alcuni
punti.
1) Compie ogni attività necessaria per verificare l’esistenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione
penale.
2) Prima della scadenza dei termini delle indagini preliminari il pubblico ministero deve avvertire
l’indagato della conclusione delle indagini stesse, del deposito degli atti e di una serie di facoltà difensive,
tra cui «chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio».
3) Il pubblico ministero non può interrogare la persona in stato di custodia cautelare prima che vi abbia
proceduto il giudice, ma se ne fa istanza nella richiesta di custodia cautelare, può imporre al giudice di
procedere all’interrogatorio entro 48 ore dal provvedimento o dalla sua notificazione.
4) Il pubblico ministero può nominare ed avvalersi di consulenti tecnici quando procede ad accertamenti,
rilievi o qualsiasi operazione tecnica per cui sia richiesta competenza specifica non giuridica. L’incarico di
consulente tecnico del pubblico ministero è obbligatorio ma retribuito a spese dello Stato (art. 359).
Gli accertamenti possono essere ripetibili o non ripetibili. Quando sono ripetibili, il pubblico ministero deve
procedere in contraddittorio avvertendo l’indagato, la persona offesa e i difensori circa il conferimento
dell’incarico al consulente tecnico della parte pubblica e circa la facoltà di nominare consulenti tecnici i
quali hanno diritto di partecipare alle operazioni di accertamento. Mentre nel caso di accertamento tecnico
non ripetibile nel corso dell’investigazione difensiva è il difensore ad avvertire il pubblico ministero per
consentirgli l’esercizio delle facoltà di cui all’art. 360. Questi sono utilizzabili nel dibattimento e questo è
il motivo per cui all’indagato è consentito di promuovere l’incidente probatorio, affinché l’accertamento

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venga effettuato da un perito nominato dal giudice delle indagini preliminari invece che dal consulente
tecnico del pubblico ministero. Richiesta che non può essere disattesa, salvo che vi sia un pericolo nel
ritardo.
L’art. 359 mostra la cd. indagine atipica. Il pubblico ministero, quando procede ad accertamenti, rilievi
segnaletici, descrittivi o fotografici e ad ogni altra operazione tecnica per cui sono necessarie specifiche
competenze, può nominare e avvalersi di consulenti, che non possono rifiutare la loro opera. Un esempio
che può essere fatto è quello in caso di un incidente e la morte di due persone: quando c’è un dubbio viene
attivato questo istituto. Insomma ha qualche certezza ma anche dei dubbi.
Essa si svolge internamente, cioè ha una valenza interna nelle indagini. Non brucia nessuna prova e non
mette in discussione nessun elemento probatorio. È insomma un atto neutro che viene compiuto per
arrivare ad una certezza e sciogliere i dubbi.
Invece, quando gli accertamenti previsti dall’articolo 359 riguardano persone, cose o luoghi il cui stato è
soggetto a modificazione, il pubblico ministero avvisa, senza ritardo, la persona sottoposta alle indagini,
la persona offesa dal reato e i difensori del giorno, dell’ora e del luogo fissati per il conferimento
dell’incarico e della facoltà di nominare consulenti tecnici (art. 360).
I difensori, nonché i consulenti tecnici (propriamente «accertatore») eventualmente nominati, hanno
diritto di assistere al conferimento dell’incarico, di partecipare agli accertamenti e di formulare
osservazioni e riserve.
Laddove l’indagato non voglia procedere con questi metodi, ne fa riserva. E qualora, prima del
conferimento dell’incarico, la persona sottoposta alle indagini formuli riserva di promuovere incidente
probatorio, il pubblico ministero dispone che non si proceda agli accertamenti salvo che questi, se differiti,
non possano più essere utilmente compiuti.
Il p.m., malgrado la riserva formulata dalla persona sottoposta alle indagini e pur non sussistendo le
condizioni indicate dal comma 4, ha svolto ulteriori accertamenti, i risultati non possono essere utilizzati
nel dibattimento.
Tale accertamento tecnico non ripetibile calibra un capo d’imputazione corretto. Tale accertamento sarà
inserito nel fascicolo del processo.
6) Il pubblico ministero deve oltre che garantire la legalità della procedura, assicurare il rispetto del diritto
di difesa in tutti i momenti dell’indagine preliminare in cui la legge lo preveda, ossia deve: (1) inviare, a
pena di nullità degli atti successivi, l’informazione alla persona sottoposta ad indagini «sul diritto di
difesa»; (2) nominare il difensore di ufficio a chi ne è privo; (3) far avvertire il difensore circa il compimento
degli atti cui può assistere; (4) può disporre che sia ritardato il deposito dei verbali degli atti cui i difensori
hanno diritto di assistere, con decreto motivato e per gravi motivi; (5) difendere la possibilità e genuinità
delle indagini preliminari da eventi naturali ed umani che potrebbero comprometterle; (6) valutare
l’assoluta urgenza di procedere all’interrogatorio o confronto anche senza l’avviso al difensore; (7)
disporre il fermo delle persone indiziate di delitto; (8) richiedere l’applicazione di una misura cautelare e
la proroga dei termini della custodia cautelare; (9) richiedere e, nei casi di urgenza di disporre direttamente
le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni; (10) richiedere e, in casi di urgenza, disporre il
sequestro probatorio (quello conservativo n on è consentito durante le indagini preliminari).
Gli uffici diversi del pubblico ministero che procedono a indagini collegate (art. 371), si coordinano tra
loro per la speditezza, economia ed efficacia delle indagini medesime. A tali fini provvedono allo scambio
di atti e di informazioni nonché alla comunicazione delle direttive rispettivamente impartite alla polizia
giudiziaria. Possono altresì procedere, congiuntamente, al compimento di specifici atti.
In ogni modo le indagini di uffici diversi del pubblico ministero si considerano collegate se: (a) i
procedimenti sono connessi a norma dell’articolo 12; (b) si tratta di reati dei quali gli uni sono stati

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commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il
prezzo, il prodotto o l’impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle
altre, ovvero se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di
un’altra circostanza; (c) la prova di più reati deriva, anche in parte, dalla stessa fonte.
Un meccanismo analogo alle indagini collegate può essere l’attività di coordinamento dei procedimenti
di mafia, terrorismo, ovvero procedimenti di prevenzione antimafia e antiterrorismo.
In questo caso i procuratori distrettuali possono attivare un impulso affinché rendano effettivo il
coordinamento tra le indagini.
In particolare, per il comma 3, per lo svolgimento delle funzioni attribuitegli dalla legge, il procuratore
nazionale antimafia e antiterrorismo:
a) D’intesa con i procuratori distrettuali interessati, assicura il collegamento investigativo anche per
mezzo dei magistrati della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo;
b) Cura, mediante applicazioni temporanee dei magistrati della Direzione nazionale e delle ((procure
distrettuali, la necessaria flessibilità e mobilità che soddisfino specifiche e contingenti esigenze
investigative o processuali;
c) Ai fini del coordinamento investigativo e della repressione dei reati provvede all’acquisizione e
all’elaborazione di notizie, informazioni e dati attinenti alla criminalità organizzata e ai delitti di
terrorismo, anche internazionale;
d) Impartisce ai procuratori distrettuali specifiche direttive alle quali attenersi per prevenire o risolvere
contrasti riguardanti le modalità secondo le quali realizzare il coordinamento nell’attività di indagine;
e) Riunisce i procuratori distrettuali interessati al fine di risolvere i contrasti che, malgrado le direttive
specifiche impartite, sono insorti e hanno impedito di promuovere o di rendere effettivo il
coordinamento;
1. Dispone con decreto motivato, reclamabile al procuratore generale presso la corte di cassazione,
l’avocazione delle indagini preliminari relative a taluno dei delitti indicati nell’articolo 51 comma
3 bis e comma 3 quater quando non hanno dato esito le riunioni disposte al fine di promuovere o
rendere effettivo il coordinamento e questo non è stato possibile a causa del perdurante e
ingiustificata inerzia nella attività di indagine, ovvero a causa dell’ingiustificata e reiterata
violazione dei doveri previsti dall’articolo 371 ai fini del coordinamento delle indagini;
Nel caso in cui il procuratore ravvisi che non vi sia più un effettivo coordinamento tra le indagini, egli può
avocare a sé le indagini, dopo aver assunto sul luogo le necessarie informazioni personalmente o tramite
un magistrato della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo all’uopo designato.
Tutti gli atti compiuti dal p.m. sono documentati: sono cioè verbalizzati. La regola è che sia fatta in forma
integrale, cioè di tutto quello che viene detto e, per alcuni atti, in modo specifico (tutela dell’indagato).
a) Delle denunce, querele e istanze di procedimento presentate oralmente;
b) Degli interrogatori e dei confronti con la persona sottoposta alle indagini;
c) Delle ispezioni, delle perquisizioni e dei sequestri;
d) Delle sommarie informazioni assunte a norma dell’articolo 362;
e) Dell’interrogatorio assunto a norma dell’articolo 363;
f) Degli accertamenti tecnici compiuti a norma dell’articolo 360.
Negli altri casi si può essere fatto verbale riassuntivo: alla documentazione delle attività di indagine
preliminare, diverse da quelle previste dal comma 1, si procede soltanto mediante la redazione del verbale
in forma riassuntiva ovvero, quando si tratta di atti a contenuto semplice o di limitata rilevanza, mediante
le annotazioni ritenute necessarie.

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La verbalizzazione deve essere compiuta contestualmente, o in alcuni casi, senza ritardo, immediatamente
dopo.
L’informazione di garanzia (uno dei più importanti istituti nelle indagini) di cui all’art. 369 costituisce un
terzo strumento – accanto a quelli regolati dal 335 e 375 – tale da permettere la conoscibilità dell’accusa
ponendo un presidio al principio omonimo.
L’informazione di garanzia, essa così come è disciplinata, non è un’informazione, perché l’indagato scopre
di essere tale a seguito del compimento dell’atto cui il difensore ha diritto di assistere (ad es. perquisizione
o interrogatorio). Ma non è nemmeno una garanzia perché l’indicazione delle norme di legge che si
assumono violate, della data e del luogo del fatto appaiono insufficienti se non si descrive il fatto
addebitato.
Inoltre l’istituto dell’informazione di garanzia è fallito nella prassi perché, nato per riconoscere ed ampliare
il diritto di difesa, è diventato strumento di condanna anticipata. Per questo la riforma del 1995 ha agito nel
senso di riservare l’invio ai casi in cui il pubblico ministero intenda compiere un atto garantito, col solo
risultato di aver accentuato la segretezza delle indagini preliminari, al di là della volontà del pubblico
ministero.
Deve essere inviata all’indagato qualora il difensore abbia il diritto di assistere ad un atto (come
l’interrogatorio, il confronto, accertamenti tecnici non ripetibili, perquisizioni e i sequestri, ecc.). Ma viene
inviata anche alla persona offesa e solo in tal caso funge veramente da contenuto informativo perché
l’offeso non è al corrente dell’esistenza dello stato delle indagini e dunque tramite questa comunicazione
ne soddisfa la conoscenza. Ecco allora che solo quando deve compiere un atto al quale il difensore ha
diritto di assistere, il pubblico ministero invia per posta, in piego chiuso raccomandato con ricevuta di
ritorno, alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa una informazione di garanzia con
indicazione delle norme di legge che si assumono violate, della data e del luogo del fatto e con invito a
esercitare la facoltà di nominare un difensore di fiducia. Quando l’invio per posta risulta infruttuoso, la
notifica può avvenire personalmente per mezzo di un ufficiale giudiziario o della polizia giudiziaria.
Inoltre, il pubblico ministero informa altresì la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa del
diritto alla comunicazione previsto dall’articolo 335, comma 3 (cioè se c’è un indagine a suo carico).
Il presupposto dell’informazione di garanzia è l’atto garantito, e questo significa che se il pubblico
ministero non dovesse compiere nessun atto al quale il difensore ha diritto di partecipare, all’indagato non
verrà notificata l’informazione ex art. 369.
L’omissione dell’informazione di garanzia, nei casi tassativamente stabiliti dalla procedura penale, la sua
non tempestiva notifica, o il difetto della completa indicazione delle informazioni previste dalla legge,
configurano una fattispecie di lesione dei diritti di assistenza difensiva dell’indagato e determinano una
nullità, anche se non assoluta, degli atti irripetibili di indagine presupposto dell’informazione di garanzia.
Ne viene fatto un abuso di quella che è la ratio, perché sarebbe una vera e propria garanzia dell’indagato.
Non c’è un’indicazione del fatto sommario. Perché? Perché l’informazione di garanzia si accompagna ad
atti che indicano questi fatti sommari.
L’art. 369 bis, prevede l’informazione della persona sottoposta alle indagini sul diritto di difesa,
ampliando ulteriormente il diritto di difesa dell’indagato in questa fase. Dunque, al compimento del
primo atto a cui il difensore ha diritto di assistere e, comunque, prima dell’invito a presentarsi per
rendere l’interrogatorio, ovvero, al più tardi, contestualmente all’avviso della conclusione delle indagini
preliminari, il pubblico ministero, a pena di nullità degli atti successivi, notifica alla persona sottoposta
alle indagini la comunicazione della nomina del difensore d’ufficio. Prevede dunque l’obbligo per il
pubblico ministero di inviare alla persona sottoposta alle indagini, in occasione del compimento del primo
atto a cui il difensore ha diritto di assistere, una comunicazione sulla nomina del difensore d’ufficio, sulle

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facoltà e i diritti attribuiti per legge all’indagato e sul dovere di avvalersi di un difensore tecnico d’ufficio
o di fiducia e da retribuire.
In questo modo si cerca di rendere la difesa efficiente e concreta.

Giudice per le indagini preliminari

Il giudice delle indagini preliminari svolge una giurisdizione ad acta (relativa al solo atto). Soltanto in via
eccezionale la funzione del giudice delle indagini preliminari cade sulla raccolta delle prove. Interviene
comunque soprattutto in materia di incidente probatorio.
Tale organo possiede alcune importanti caratteristiche che possono essere così delineabili: (1) è un organo
monocratico; (2) provvede sulle richieste del pubblico ministero, delle parti private e della persona offesa;
(3) il giudice delle indagini preliminari competente per territorio è individuato a norma degli articoli sulla
competenza territoriale; (4) il giudice delle indagini preliminari non è responsabile della conduzione delle
indagini, anzi è normalmente estraneo ad esse; (5) è chiamato dunque ad intervenire solo in casi circoscritti
ed incidentali, a garanzie delle diverse parti e dei loro interessi.
I ruoli che esso assume possono anch’essi essere sinotticamente presentati.
A) Rappresenta la garanzia giurisdizionale imposta costituzionalmente quando entrano in gioco diritti e
libertà fondamentali. In questa veste decide sulla convalida delle misure precautelari (arresto in flagranza
e fermo); sull’applicazione e sulla revoca delle misure cautelari; sulla modifica delle loro modalità
esecutive anche d’ufficio; sulla proroga dei termini di custodia cautelare per gravi esigenze delle indagini
preliminari; sulla richiesta di dilazione, per non più di 5 giorni, presentata dal pubblico ministero riguardo
all’esercizio del diritto dell’indagato di conferire col difensore; sulla sostituzione del difensore per
incompatibilità; sull’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza richiesta dal pubblico ministero;
sulla richiesta di intercettazioni e sulla proroga del termine per il deposito di verbali e registrazioni.
Inoltre dispone il sequestro preventivo e convalida quello disposto d’urgenza dal pubblico ministero o
dalla polizia giudiziaria e assicura l’equilibrio fra esigenze d’accertamento e tutela della salute
dell’imputato e dei terzi.
Queste ed altre competenze del giudice delle indagini preliminari dimostrano la necessità di garantire la
legalità del comportamento della parte pubblica e sottrargli le decisioni più incisive sui diritti
fondamentali e sul patrimonio.
B) Rappresenta l’autorità giurisdizionale di garanzia sulla formazione anticipata della prova mediante
incidente probatorio: il giudice è considerato la miglior soluzione per il rispetto del principio iudici fit
probatio nel caso che sia necessario anticipare dal dibattimento alle indagini preliminari l’assunzione della
prova.
C) Rappresenta la garanzia giurisdizionale sui tempi di svolgimento delle indagini.

La Corte costituzionale ha più volte affermato l’incompatibilità del giudice delle indagini preliminari a
svolgere un ruolo ulteriore nel processo a causa del pregiudizio che nasce dal compimento di atti incisivi
(per esempio nell’adozione di misura restrittiva, o di un rigetto di richiesta di archiviazione ecc.) durante
le indagini preliminari. Il legislatore aveva introdotto l’art. 34 comma 2 bis, alla cui stregua il giudice per
le indagini preliminari non può essere giudice per l’udienza preliminare. Poi è stata mitigata questa
incompatibilità (con il comma 2 ter), escludendola che possa venir determinata da una serie di
provvedimenti tipici delle indagini preliminari che non presuppongono affatto un convincimento sul
merito dell’azione (elencati poi nello stesso comma: per es. qualora abbia emesso un provvedimento che
abbia dichiarato lo stato di latitanza).

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La diversità fisica tra giudice delle indagini preliminari e gup (giudice per l’udienza preliminare) vuole
garantire che la decisione sull’imputazione venga adottata da un giudice terzo rispetto ai risultati delle
indagini preliminari.

Incidente probatorio

Tale istituto opera qualora ci sia la necessità di anticipare nelle indagini preliminari il momento formativo
della prova e a tal fine soccorre l’istituto dell’incidente probatorio. È di uso eccezionale, dal momento che
dovrebbe essere il dibattimento il luogo naturale di formazione delle prove.
L’istituto è denominato «incidente» perché apre nelle indagini preliminari una parentesi avente finalità
probatoria. La sua natura eccezionale è resa evidente anche dalla tassatività dei casi in cui si possa far uso
di tale istituto (art. 392).
La ratio è quindi quella di anticipare la formazione di prove che per fatti naturali o volontari potrebbero
diventare non raccoglibili o non genuine o che rallenterebbero eccessivamente l’istruzione dibattimentale.
Ma se da una parte accelera il momento di formazione della prova, dall’altra indica all’indagato la fonte
di prova, l’oggetto della prova, il termine ultimo entro il quale tentare di esperirne «l’inquinamento».
La Corte Costituzionale con sentenza 10 marzo 1994, n. 77 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del
presente articolo nella parte in cui non consente che, nei casi previsti dalla prima di tali disposizioni,
l’incidente probatorio possa essere richiesto ed eseguito, oltre che nella fase dell’indagini preliminare,
nella fase dell’udienza preliminare.
Testimonianza, esame della persona, confronto, ricognizione rispondono a questo istituto qualora non
siano rinviabili del dibattimento.
Nel corso del tempo la disciplina si è modificata. Il timore (la non rinviabilità, non differibilità degli atti
al dibattimento riconducibile a un accertato pericolo di dispersione) che aveva fatto mantenere
l’incidente probatorio non c’era più, anche per via dell’interpretazione del concetto di non rinviabilità a
quello di atto urgente. Dunque il legislatore con una serie di interventi normativi ha ampliato l’ambito
operativo dell’incidente probatorio prevedendo casi in cui ci sia una rinviabilità presunta.
Innanzitutto ha introdotto il comma 1 bis, il quale ha ampliato tale articolo con alcuni reati in materia
sessuale. Nei procedimenti per maltrattamenti contro familiari o conviventi, per delitti contro la
personalità individuale, per i delitti sessuali, delitto di minaccia il pubblico ministero, anche su richiesta
della persona offesa, o la persona sottoposta alle indagini possono chiedere che si proceda con incidente
probatorio all’assunzione della testimonianza di persona minorenne ovvero della persona offesa
maggiorenne, anche al di fuori delle ipotesi previste, non occorre alcun presupposto. In tutte queste
situazioni si è liberalizzato l’incidente probatorio.
Attraverso un’altra normativa si è eliminato qualsiasi presupposto anche nella lettera d), dell’esame delle
persone indicate nell’art. 210. Anche in questo caso la non rinviabilità del dibattimento è presunta.
Abbiamo dunque una serie di situazione che non riguardano più solamente una non rinviabilità naturale,
che sono situazioni collegate in concreto l’inquinamento o il rischio di prova, bensì non rinviabilità
presunta, ossia riconducibili alla debolezza dei soggetti dichiaranti o alla loro esposizione costante a
minacce o promesse. Si fa riferimento alla debolezza dei soggetti (minorenni, ovvero maggiorenni su reati
particolarmente gravi), ovvero esposti a situazioni di minaccia. Ecco i casi di non rinviabilità presunta,
perché la debolezza di alcuni soggetti o anche per via dell’esposizione che comporta il loro mestiere, sono
stati eliminati i presupposti (necessità che venga data la prova). Ne è esempio il comma 1 bis.
Ma accanto alla non rinviabilità naturale e quella presunta, c’è un’altra non rinviabilità, che è quello
funzionale. Qui non è pregiudicata la possibilità di rinviare l’atto, ma solo l’utilità dell’acquisizione della

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prova. Ecco perché si parla di non rinviabilità funzionale: in ragione del sacrificio che potrebbe comportare
l’assunzione della prova nella sua sede fisiologica, tentando di salvaguardare la concentrazione del
dibattimento.
Da questa impostazione si può concludere che tutti gli atti da assumere con le forme dell’incidente
probatorio siano caratterizzati da una sorta di non rinviabilità e suscettibili di essere anche intesi come atti
urgenti.
L’atto non rinviabile è quell’atto che viene preso in considerazione in tale istituto. È molto simile all’atto
urgente e risponde alla stessa ratio: si teme che gli atti siano persi. Allora il sistema dice che l’atto non
rinviabile è facilmente assimilabile all’atto urgente di modo che possa essere richiamata la disciplina, nella
parte che precede il dibattimento, dell’art. 467 degli atti urgenti.
Dunque anche non essendo disciplinato espressamente, l’atto non rinviabile può essere equiparato
all’atto urgente. Definizione: ha tre requisiti. 1. Porta con sé una presunzione di non riassumibilità
dell’atto o di non utile riassumibilità dell’atto. 2. Una valutazione di tipo prognostico che deriva da
contingenti fattori di rischio che non permettono l’assunzione principale. 3. In alcune situazioni è
caratterizzato dal rischio, in alcune è presunta, in altre è necessaria.
È possibile che l’atto non rinviabile non sia anche irripetibile (si distingue tra irripetibilità originaria e
sopravvenuta).
L’art. 392 afferma che nel corso delle indagini preliminari il pubblico ministero e la persona sottoposta alle
indagini possono chiedere al giudice che si proceda con incidente probatorio:
a) All’assunzione della testimonianza di una persona, quando vi è fondato motivo di ritenere che la
stessa non potrà essere esaminata nel dibattimento per infermità o altro grave impedimento;
b) All’assunzione di una testimonianza quando, per elementi concreti e specifici, quando vi è fondato
motivo di ritenere che la stessa non potrà essere esaminata nel dibattimento per infermità o altro
grave impedimento;
Con la legge 66/1996 è stato introdotto un terzo caso di incidente probatorio circa la testimonianza di persona
minore di 16 anni testimone o vittima di reati sessuali, per evitarle la pubblicità del dibattimento. Disciplina
analoga per il maggiorenne infermo di mente quando le esigenze lo rendano necessario od opportuno.
Il principio alla base di questo istituto è quello di anticipare la formazione di prove che per fatti naturali o
volontari potrebbero divenire non raccoglibili o non genuine o che rallenterebbero troppo il dibattimento.
Vi è in realtà una contraddizione perché se lo scopo dell’istituto è quello di evitare l’inquinamento delle
prove, e in realtà questo lo facilita poiché indica all’indagato (diretto interessato dell’inquinamento
probatorio) la fonte, l’oggetto, i motivi della rilevanza della prova ed anche i termini per tentare
l’inquinamento.
c) All’esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri, con le
condizione di cui alle lett. a) e b);
d) All’esame delle persone indicate nell’articolo 210 (esame di persona imputata in un procedimento
connesso) con le condizione di cui alle lett. a) e b);
e) Al confronto tra persone che in altro incidente probatorio o al pubblico ministero hanno reso
dichiarazioni discordanti, quando ricorre una delle circostanze previste dalle lettere a) e b) ossia
quando vi è fondato motivo di ritenere che la stessa non potrà essere esaminata nel dibattimento per
infermità o altro grave impedimento;
f) A una perizia o a un esperimento giudiziale, se la prova riguarda una persona, una cosa o un luogo
il cui stato è soggetto a modificazione non evitabile; la perizia in questo caso è quella che viene
richiesta quando il p.m. decide di fare un accertamento tecnico non ripetibile. Questa perizia è la

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situazione che va ad incardinare su quella situazione di accertamento tecnico non ripetibile da parte
del p.m. (l’abbiamo visto in precedenza).
g) A una ricognizione, quando particolari ragioni di urgenza non consentono di rinviare l’atto al
dibattimento.
h) Infine c’è la perizia di lunga durata. Il pubblico ministero e la persona sottoposta alle indagini possono
altresì chiedere una perizia che, se disposta nel dibattimento, ne potrebbe determinare una
sospensione superiore a 60 giorni ovvero che comporti l’esecuzione di accertamenti o prelievi su
persona vivente previsti dall’articolo 224-bis. Serve soprattutto per accertare l’incapacità dell’imputato
a norma dell’art. 70.

Richiesta dell’incidente probatorio


L’art. 393 ha un unico schema. Lo possono chiedere il pubblico ministero e l’indagato. Il giudice delle
indagini preliminari non può in autonomia decidere – altrimenti ritornerebbe in auge il giudice istruttore
che raccoglieva le prove –. Il p.m. raccoglie le prove anche a favore dell’imputato.
Non lo si può chiedere quando non è noto l’autore del reato.
L’incidente probatorio può essere richiesto dal p.m. e dall’indagato. L’iscrizione a registro non è atto
costitutivo per assunzione della figura dell’indagato, quindi fa questo a sapere di esserlo e di utilizzare
l’incidente? In mezzo si mette prorompente la segretezza dell’indagine preliminare e come tale non
permette a tale soggetto si conoscere il suo status, cioè se è o non è indagato. Ad esso dunque non sarà
possibile far uso dell’incidente probatorio.
La persona offesa dal reato non può richiederlo, perché non ha il diritto alla prova. Potrebbe comunque
sollecitare il pubblico ministero a richiederlo. È una sorta di paternalismo giudiziario, essendogli riservata
una posizione particolare (art. 394).
La richiesta è presentata entro i termini per la conclusione delle indagini preliminari – ma dopo la
sentenza del 1994 è possibile che l’incidente possa essere richiesto anche nella fase dell’udienza
preliminare – e comunque in tempo sufficiente per l’assunzione della prova prima della scadenza dei
medesimi termini, a pena di inammissibilità.
La richiesta di incidente probatorio deve indicare, a pena di nullità: (1) quale sia la prova da assumere
(testimonianza, perizia ecc.); (2) i fatti che ne costituiscono oggetto (le circostanze da provare); (3) le ragioni
della sua rilevanza per la decisione dibattimentale; (4) le persone verso cui si procede per i fatti oggetto
della prova.
La richiesta di incidente probatorio è depositata nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari,
unitamente a eventuali cose o documenti, ed è notificata a cura di chi l’ha proposta, secondo i casi, al
pubblico ministero e alle persone nei confronti delle quali si procede per i fatti oggetto della prova. La
prova della notificazione è depositata in cancelleria.
Il pubblico ministero e la persona sottoposta alle indagini possono chiedere la proroga del termine delle
indagini preliminari ai fini dell’esecuzione dell’incidente probatorio. Il giudice provvede con decreto
motivato, concedendo la proroga per il tempo indispensabile all’assunzione della prova quando risulta
che la richiesta di incidente probatorio non avrebbe potuto essere formulata anteriormente. Nello stesso
modo il giudice provvede se il termine per le indagini preliminari scade durante l’esecuzione
dell’incidente probatorio.
L’ammissibilità e fondatezza dell’incidente probatorio è possibile su presentazione di deduzioni. Le
deduzioni devono essere presentate entro 2 giorni dalla presentazione della richiesta e non durante
l’udienza per l’incidente probatorio. Tra le deduzioni previste vi è la richiesta di differimento

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dell’incidente probatorio da parte del pubblico ministero quando la sua esecuzione pregiudicherebbe uno
o più atti di indagine preliminare.
L’ordinanza di inammissibilità o di rigetto della richiesta è notificata agli interessati e comunicata al
pubblico ministero. La riproposizione è possibile, una volta eliminati i motivi che ne impedivano
l’accoglimento.
Con l’ordinanza che accoglie la richiesta, il giudice stabilisce: (a) l’oggetto della prova nei limiti della
richiesta e delle deduzioni; (b) le persone interessate all’assunzione della prova individuate sulla base
della richiesta e delle deduzioni; (c) la data dell’udienza. Tra il provvedimento e la data dell’udienza non
può intercorrere un termine superiore a 10 giorni.
Quando per assicurare l’assunzione della prova è indispensabile procedere con urgenza all’incidente
probatorio, il giudice dispone con decreto motivato che i termini previsti dagli articoli precedenti siano
abbreviati nella misura necessaria.
La mera richiesta di incidente probatorio fa scattare il divieto per il pubblico ministero, la polizia
giudiziaria ed il difensore di assumere informazioni dalla persona indicata nella richiesta e rende
inutilizzabili le informazioni assunte in violazione di tale divieto. Si vuole evitare un’attività di indagine
parallela che potrebbe risultare preparatoria, intimidatoria o inquinante di quella demandata al giudice
dell’incidente probatorio. Il divieto cessa con l’esperimento dell’incidente probatorio (salvi i casi in cui non
sia stato ammesso o non abbia avuto luogo).

Svolgimento dell’udienza
È in camera di consiglio, cioè senza la partecipazione del pubblico. Questo «DASPO» lascia un po’
perplessi, perché una delle garanzie per la formazione della prova è che ci sia il pubblico. L’altro aspetto
fondamentale è la garanzia assoluta del contraddittorio (per la formazione della prova), cioè viene raccolta
la prova e trasferita nel dibattimento. Devono essere necessariamente presenti il pubblico ministero e il
difensore, altresì quello della persona offesa: devono partecipare direttamente all’elaborazione della
prova.
Per quanto riguarda la persona offesa e l’indagato possono partecipare quando si deve esaminare un
testimone o un’altra persona, altrimenti solo previa autorizzazione del giudice.
Se la persona sottoposta alle indagini, la cui presenza è necessaria per compiere un atto da assumere con
l’incidente probatorio, non compare senza addurre un legittimo impedimento, il giudice ne ordina
l’accompagnamento coattivo.
Al comma 5 è detto che le prove sono assunte con le forme stabilite per il dibattimento. Il difensore della
persona offesa può chiedere al giudice di rivolgere domande alle persone sottoposte ad esame.
Le prove assunte con incidente probatorio equivalgono a quelle formatesi in dibattimento. Tuttavia ci
sono due limiti: gli artt. 403 e 404.
Il primo limite afferma che le prove assunte con incidente probatorio sono utilizzabili solo verso imputati
i cui difensori hanno partecipato all’assunzione che può dunque essere decisiva per un imputato ma
irrilevante per un coimputato, tutelando così il principio della formazione della prova in contraddittorio
e del diritto di difesa.
Il secondo limite sancisce che la prova assunta con incidente probatorio non è opponibile al danneggiato
del reato costituitosi parte civile perché non può svolgere alcun ruolo nelle indagini preliminari e non può
quindi partecipare all’udienza. Quindi una sentenza di assoluzione pronunciata sulla base di una prova
assunta con incidente probatorio non ha efficacia verso la parte civile, a meno che questi non abbia
consentito, anche tacitamente, all’utilizzo di quel materiale probatorio.

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I verbali, le cose ed i documenti acquisiti nell’incidente probatorio vanno inseriti nel fascicolo del pubblico
ministero, che le può utilizzare per decidere sull’esercizio dell’azione penale.

Estensione dell’incidente probatorio


Se il pubblico ministero o il difensore della persona sottoposta alle indagini chiede che la prova si estenda
ai fatti o alle dichiarazioni riguardanti persone diverse da quelle i cui difensori partecipano all’incidente
probatorio, il giudice, se ne ricorrono i requisiti, dispone le necessarie notifiche, rinviando l’udienza per il
tempo strettamente necessario e comunque non oltre 3 giorni. La richiesta non è accolta se il rinvio
pregiudica l’assunzione della prova.
Prevede una integrazione del contraddittorio tra i soggetti qualora vi sia da raccogliere una prova che
riguardi persone diverse. Il p.m. deve dunque notificare agli soggetti coinvolti.

Utilizzabilità nel dibattimento delle prove assunte con incidente probatorio


Nel dibattimento le prove assunte con l’incidente probatorio sono utilizzabili soltanto nei confronti degli
imputati i cui difensori hanno partecipato alla loro assunzione.
Le prove non sono utilizzabili nei confronti dell’imputato raggiunto solo successivamente all’incidente
probatorio da indizi di colpevolezza se il difensore non ha partecipato alla loro assunzione, salvo che i
suddetti indizi siano emersi dopo che la ripetizione dell’atto sia divenuta impossibile.

Indagini del difensore

Alla grande sperequazione tra imputato e pubblico ministero cerca di trovare un equilibrio nell’istituto
delle indagini del difensore.
Inizialmente erano poco considerate ed era previsto solo l’art. 38 disp. att. e i suoi quattro commi.
Permetteva l’investigazione difensiva tramite investigatori privati, consulenti tecnici e difensori. Non era
neppure prevista una modalità che prevedeva come dovessero svolgersi: insomma era una disciplina
molto lacunosa. In un primo momento si era fatto un vademecum della prassi da seguire, finché non si è
attivato il parlamento adottando una normativa che poi si è andata ad integrare al codice aggiungendo il
titolo VI bis – investigazioni difensive.
Un altro punto importante è stato quello di verificare se il difensore che raccoglie le prove fosse o meno
un pubblico ufficiale. Dopo un momento di indecisione, si è optato per rispondere negativamente.
L’ultimo punto importante è che il difensore che raccoglie le prove tramite indagini è incompatibile alla
testimonianza.

In un sistema penale di matrice accusatoria, le prove sono molto importanti. In particolare l’art. 190 che
parla del diritto della prova. Le prove sono ammesse su richiesta di parte, tranne alcune eccezioni. Le
ipotesi nelle quali in cui è consentito al giudice introdurre mezzi di prova non richiesti dalle parti
costituiscono quindi una deroga al principio dispositivo e sono previste espressamente dalla legge. È il
caso, ad esempio, del potere di integrazione probatoria spettante al giudice ai sensi dell’art. 507.
Tutti gli ordinamenti di stampo accusatorio prevedono una disciplina difensiva. Invero con il codice del
1988, tale facoltà, connaturata con il diritto di difesa (art. 24 Cost.), è stata prevista. Inizialmente erano
enunciate solo in una norma e nemmeno all’interno del codice: come detto prima contenute nell’unica
norma dell’art. 38 disp. att. che però è stata abrogato nel 2000 con la legge n. 397. Essa constava di quattro
commi. Non diceva nulla sull’utilizzazione, sulla documentazione ecc. tanto che la dottrina riteneva questa

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norma scarna. Un altro orientamento diceva che secondo l’impianto originario questa invece era più che
sufficiente per il contesto processuale (NOBILI).
L’articolo recitava: «al fine di esercitare il diritto alla prova previsto dall’articolo 190 del codice, i difensori,
anche a mezzo di sostituti e di consulenti tecnici, hanno facoltà di svolgere investigazioni per ricercare e
individuare elementi di prova a favore del proprio assistito e di conferire con le persone che possano dare
informazioni».
Il comma 2 continuava col dire che «l’attività prevista dal comma 1 può essere svolta, su incarico del
difensore, da investigatori privati autorizzati». Successivamente, il comma 2-bis: «il difensore della
persona sottoposta alle indagini o della persona offesa può presentare direttamente al giudice elementi
che egli reputa rilevanti ai fini della decisione da adottare».
E in conclusione il comma 2-ter, per il quale «la documentazione presentata al giudice doveva essere
inserita nel fascicolo relativo agli atti di indagine in originale o in copia, se la persona sottoposta alle
indagini ne richiede la restituzione».
La corte costituzionale, con 3 sentenze, nel 1992 è andata ad ordinare il processo di matrice accusatoria in
nome del principio di assunzione della prova. Queste hanno minato le fondamenta del principio
accusatorio.
Successivamente all’art. 38 furono aggiunti alcuni commi, ma che non andavano ad implementare quanto
si riteneva lacunoso (2 bis e 2 ter).
Inoltre, nel 1999, con l’art. 111 riformato sancisce, con particolare riguardo al processo penale, che
l’accusato deve disporre del tempo per preparare la sua difesa, comprende anche tale titolo in esame.
In questo senso il difensore passa da una difesa di posizione a movimento: muta il suo ruolo.
Svolgere le indagini difensive non è solo un diritto, ma anche un dovere.
Ecco allora che la L. 397 del 2000 ha inserito questo titolo VI bis, che comprende le investigazioni
difensive.
Importante anche l’art. 327 bis, attività investigativa del difensore, che però è collocato in titolo differente
rispetto a quello principe delle investigazioni difensive. Con tale articolo si vuole arrivare al principio di
parità delle armi tra le parti: anche se una parità tra pubblico ministero e difensore non se ne può parlare.
Il primo deve svolgere le indagini, essendo il dominus, e deve condurle nell’interesse della giustizia,
conducendole anche a favore dell’indagato; il difensore invece non ha poteri coercitivi e deve sempre agire
in favore del suo assistito.
L’art. 327 bis è stato inserito dunque per far rilevare la parità davanti al giudice delle indagini preliminari
del difensore accanto al pubblico ministero.
In particolare, secondo l’art. 327 bis, fin dal momento dell’incarico professionale, risultante da atto scritto,
il difensore ha facoltà di svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a favore
del proprio assistito, nelle forme e per le finalità stabilite. Tale facoltà può essere attribuita per l’esercizio
del diritto di difesa, in ogni stato e grado del procedimento, nell’esecuzione penale e per promuovere il
giudizio di revisione. Le attività previste poi possono essere svolte, su incarico del difensore, dal sostituto,
da investigatori privati autorizzati e, quando sono necessarie specifiche competenze, da consulenti tecnici.
La disposizione 391 nonies invece consente, con formalità aggiuntive, anche la possibilità di far svolgere
indagini preventive: l’attività investigativa prevista dall’articolo 327-bis, con esclusione degli atti che
richiedono l’autorizzazione o l’intervento dell’autorità giudiziaria, può essere svolta anche dal difensore
che ha ricevuto apposito mandato per l’eventualità che si instauri un procedimento penale, quindi ancora
prima che abbia inizio il procedimento.
Per la parte civile, il responsabile civile e il civilmente obbligato, l’attività di investigare va desunta dai
loro tempi di intervento nel processo. Pertanto, venendo in gioco solo dopo la chiusura delle indagini

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preliminari, gli stessi non potranno svolgere indagini durante la fase del procedimento e, quindi, non sono
legittimati al compimento delle indagini preventive.
Dal punto di vista temporale le indagini possono essere svolte in ogni stato e grado, anche dopo
l’esecuzione irrevocabile di una sentenza. Dunque anche prima dell’iscrizione della notizia nel reato è
possibile compiere attività investigative. Questo tipo di facoltà è importante per il difensore e il suo
assistito perché quando il giudice deve adottare una decisione con l’intervento della parte privata, il
difensore può presentargli direttamente gli elementi di prova a favore del proprio assistito.
Due tipi di attività investigativa: una personale e l’altra di natura reale.
Investigazioni personali: art. 391 bis e ter. Quali sono? Colloquio informale non documentato (come dice il
comma 1), assunzione di informazioni non scritte, oppure escussione che viene poi documentata. Modalità che
non sono cumulative: o l’una o l’altra.
Inizialmente afferma quali soggetti non possono essere escussi, prevedendo le incompatibilità degli artt.
197. Dopodiché per acquisire notizie il difensore, il sostituto, gli investigatori privati autorizzati o i
consulenti tecnici possono conferire con le persone in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività
investigativa. In questo caso, l’acquisizione delle notizie avviene attraverso un colloquio non
documentato.
Tra il comma primo e il secondo il novero dei soggetti si restringe: infatti solo il difensore o il sostituto
possono chiedere alle persone di cui al comma 1 (le persone in grado di riferire circostanze utili ai fini
dell’attività investigativa) una dichiarazione scritta ovvero di rendere informazioni da documentare.
Il comma 3 prevede invece il «rosario» degli avvertimenti. Dunque, in ogni caso, il difensore, il sostituto,
gli investigatori privati autorizzati o i consulenti tecnici avvertono le persone indicate nel comma 1: (1)
della propria qualità e dello scopo del colloquio; (2) se intendono semplicemente conferire ovvero ricevere
dichiarazioni o assumere informazioni indicando, in tal caso, le modalità e la forma di documentazione
(che deve essere integrale); (3) dell’obbligo di dichiarare se sono sottoposte ad indagini o imputate nello
stesso procedimento, in un procedimento connesso o per un reato collegato. Se stiamo parlando di soggetti
dell’art. 210, è necessario che ci siano formalità ulteriori; (4) della facoltà di non rispondere o di non rendere la
dichiarazione; (5) del divieto di rivelare le domande eventualmente formulate dalla polizia giudiziaria o dal
pubblico ministero e le risposte date; (6) delle responsabilità penali conseguenti alla falsa dichiarazione.
Nel caso in cui non ci sia il rispetto di queste disposizioni, opera l’inutilizzabilità.
Il comma 7 prevede un’autorizzazione del giudice che procede per conferire, ricevere dichiarazioni o assumere
informazioni da persona detenuta, sentiti il suo difensore ed il pubblico ministero. Prima dell’esercizio
dell’azione penale l’autorizzazione è data dal giudice per le indagini preliminari. Durante l’esecuzione
della pena provvede il magistrato di sorveglianza.
All’assunzione di informazioni non possono assistere la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa
e le altre parti private, per via dell’interesse che esse hanno in gioco.
Il comma 9 funge da contraltare all’art. 63 delle dichiarazioni indizianti. Infatti, il difensore o il sostituto
interrompono l’assunzione di informazioni da parte della persona non imputata ovvero della persona non
sottoposta ad indagini, qualora essa renda dichiarazioni dalle quali emergano indizi di reità a suo carico.
La differenza con l’art. 63 è che il difensore non agisce nell’interesse generale della giustizia, ma deve
portare a termine l’incarico difensivo.
Quando la persona in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa abbia esercitato la
facoltà di non rispondere o di non rendere la dichiarazione, il pubblico ministero, su richiesta del difensore,
ne dispone l’audizione che fissa entro 7 giorni dalla richiesta medesima. Tale disposizione non si applica
nei confronti delle persone sottoposte ad indagini o imputate nello stesso procedimento e nei confronti
delle persone sottoposte ad indagini o imputate in un diverso procedimento nelle ipotesi previste

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dall’articolo 210 (che è il cd. imputato pentito). L’audizione si svolge alla presenza del difensore che per
primo formula le domande. Anche con riferimento alle informazioni richieste dal difensore si applicano le
disposizioni dell’articolo 362. Il difensore, in alternativa all’audizione, può chiedere che si proceda con
incidente probatorio all’assunzione della testimonianza o all’esame della persona che abbia esercitato la
facoltà di non rispondere.
Quali sono le modalità di documentazione (art. 391 ter)?
La dichiarazione di cui al comma 2 dell’articolo 391 bis, sottoscritta dal dichiarante, è autenticata dal
difensore o da un suo sostituto, che redige una relazione nella quale sono riportati: (a) la data in cui ha
ricevuto la dichiarazione; (b) le proprie generalità e quelle della persona che ha rilasciato la dichiarazione;
(c) l’attestazione di avere rivolto gli avvertimenti previsti dal comma 3 dell’articolo 391-bis; (d) i fatti sui
quali verte la dichiarazione.
La dichiarazione è allegata alla relazione.
Attività di natura reale. Tra queste c’è il 391 quater, richiesta di documentazione alla pubblica
amministrazione. Il difensore può chiedere i documenti in possesso della pubblica amministrazione e di
estrarne copia a sue spese. In caso di rifiuto, il difensore si può rivolgere all’autorità giudiziaria.
Ancora. L’art. 391 sexies, accesso ai luoghi e documentazione per rilevare effetti o tracce del reato. Infatti
quando effettuano un accesso per prendere visione dello stato dei luoghi e delle cose ovvero per procedere
alla loro descrizione o per eseguire rilievi tecnici, grafici, planimetrici, fotografici o audiovisivi, il difensore,
il sostituto e gli ausiliari possono redigere un verbale nel quale sono riportati: (a) la data ed il luogo
dell’accesso; (b) le proprie generalità e quelle delle persone intervenute; (c) la descrizione dello stato dei
luoghi e delle cose; (d) l’indicazione degli eventuali rilievi tecnici, grafici, planimetrici, fotografici o
audiovisivi eseguiti, che fanno parte integrante dell’atto e sono allegati al medesimo. Il verbale è
sottoscritto dalle persone intervenute.
Inoltre c’è anche l’art. 391 septies, accesso ai luoghi privati o non aperti al pubblico. Se è necessario accedere
a luoghi privati o non aperti al pubblico e vi è il consenso di che ne ha la disponibilità, l’accesso su richiesta
del difensore, è autorizzato dal giudice, con decreto motivato che ne specifica le concrete modalità.
Ci sono anche attività atipiche. Infatti è consentito al difensore compiere atti irripetibili. In questo caso
però deve farlo tramite l’attività della polizia giudiziaria o del pubblico ministero. Questi atti irripetibili
sono tali perché la persona o l’oggetto non possono essere modificati. Si farà dunque un’istanza di
compiere l’atto irripetibile (art. 391 decies). Infatti quando si tratta di accertamenti tecnici non ripetibili, il
difensore deve darne avviso, senza ritardo, al pubblico ministero per l’esercizio delle facoltà previste, in
quanto compatibili, dall’articolo 360. Negli altri casi di atti non ripetibili di cui al comma 2, il pubblico
ministero, personalmente o mediante delega alla polizia giudiziaria, ha facoltà di assistervi.
Un’altra differenza tra pubblico ministero e difensore è rilevabile dal potere di segretazione. Se sussistono
specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero può, con decreto motivato,
vietare alle persone sentite di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno
conoscenza. Il divieto non può avere una durata superiore a 2 mesi. Il pubblico ministero, nel comunicare
il divieto alle persone che hanno rilasciato le dichiarazioni, le avverte delle responsabilità penali
conseguenti all’indebita rivelazione delle notizie.
L’art. 391 octies (fascicolo del difensore) sancisce che nel corso delle indagini preliminari e nell’udienza
preliminare, quando il giudice deve adottare una decisione con l’intervento della parte privata, il difensore
può presentargli direttamente gli elementi di prova a favore del proprio assistito.
Nel corso delle indagini preliminari il difensore che abbia conoscenza di un procedimento penale può
presentare gli elementi difensivi di cui al comma 1 direttamente al giudice, perché ne tenga conto anche
nel caso in cui debba adottare una decisione per la quale non è previsto l’intervento della parte assistita.

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La documentazione di cui ai commi 1 e 2, in originale o, se il difensore ne richiede la restituzione, in copia,


è inserita nel fascicolo del difensore, che è formato e conservato presso l’ufficio del giudice per le indagini
preliminari. Della documentazione il pubblico ministero può prendere visione ed estrarre copia prima che
venga adottata una decisione su richiesta delle altre parti o con il loro intervento. Dopo la chiusura delle
indagini preliminari il fascicolo del difensore è inserito nel fascicolo di cui all’articolo 433 (fascicolo del
pubblico ministero).
Il difensore può, in ogni caso, presentare al pubblico ministero gli elementi di prova a favore del proprio
assistito.
L’art. 391 decies disciplina l’utilizzazione della documentazione delle investigazioni difensive.
Delle dichiarazioni inserite nel fascicolo del difensore le parti possono servirsi a norma degli articoli 500,
512 e 513. Gli atti contenuti nel fascicolo del p.m. hanno una loro rilevanza: cioè artt. 500, 512 e 513.
Nell’ambito di un esame testimoniale, un testimone rilascia dichiarazione e, precedentemente (come
persona informata dei fatti) che era stato sentito, si rileva che abbia detto cose non coincidenti. Entra in
gioco l’art. 500 (contestazione dell’esame testimoniale, che prova a minare l’attendibilità del testimone),
così si rileva se non vi sia stata minaccia, violenza ecc.
Altre conseguenze sono nei ss. artt.
È stata sentita una persona in buone condizioni di salute che ha visto delinquere un indagato, ma per una
serie di eventi è defunto. Allora se ne rende possibile la lettura. La prova è salvaguardata e non se ne dà
la dispersione. Non può essere usato per raggirare l’incidente probatorio.
Fuori del caso in cui è applicabile l’articolo 234, la documentazione di atti non ripetibili compiuti in
occasione dell’accesso ai luoghi, presentata nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare,
è inserita nel fascicolo previsto dall’articolo 431.
Quando si tratta di accertamenti tecnici non ripetibili, il difensore deve darne avviso, senza ritardo, al
pubblico ministero per l’esercizio delle facoltà previste, in quanto compatibili, dall’articolo 360. Negli altri
casi di atti non ripetibili di cui al comma 2, il pubblico ministero, personalmente o mediante delega alla
polizia giudiziaria, ha facoltà di assistervi.

Termini e proroghe delle indagini

All’esito di queste indagini viene fatta una vera e propria valutazione in tema di sostenibilità dell’accusa.
Dunque si gioca una pedina importante del processo.
Il primo dato che viene preso in considerazione è il termine delle indagini preliminare, che infatti
decorrono dall’iscrizione della notizia di reato (quando viene iscritto il nominativo). Le indagini hanno
una loro durata: è limitata dal codice, che tuttavia può essere derogata. Dunque è previsto anche un
termine massimo: la durata delle indagini preliminari non può comunque superare 18 mesi. Questo
perché è considerato lesivo il protrarsi sine die delle indagini preliminari, non perché l’indagato viene ad
essere privato dei diritti e delle garanzie proprie della qualità di imputato, quanto perché anche il
permanere della qualità di indagato produce effetti giuridici ed extragiuridici negativi.
Tutto ciò comunque non fa venir meno la possibilità di continuare a svolgere indagini da parte della difesa
o del pubblico ministero, anche quando i termini si sono conclusi (la proroga). È evidente che le indagini
compiute successivamente possono essere utilizzate nelle fasi successive (per es. nel dibattimento).
I termini li troviamo nell’art. 407, mentre la proroga del termine all’art. 406, che indica il procedimento
della proroga delle indagini. Il pubblico ministero, prima della scadenza, può richiedere al giudice, per
giusta causa, la proroga del termine di 6 mesi previsto dall’articolo 405. La richiesta contiene l’indicazione
della notizia di reato e l’esposizione dei motivi che la giustificano.

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Dunque salvo quando si deve richiedere l’archiviazione, il pubblico ministero richiede il rinvio a giudizio
entro 6 mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale è attribuito il reato è iscritto nel registro delle
notizie di reato. Il termine è di 1 anno se si procede per taluno dei delitti indicati nell’articolo 407 comma
2 lett. a). Questo è il dettato del comma 2 dell’art. 405.
Normalmente il termine è di 6 mesi. Qualora si proceda per reati più gravi è possibile una proroga di 1
anno.
La proroga deve essere richiesta prima della scadenza: dopo la scadenza non è più possibile. Si deve essere
in un regime temporale ancora operante.
Un’eccezione: se è necessaria la querela, l’istanza o la richiesta di procedimento, il termine decorre dal
momento in cui queste pervengono al pubblico ministero, e non più dal momento in cui c’è l’iscrizione nel
registro degli indagati di un soggetto individuato.
Il legislatore, essendo consapevole che i termini previsti dall’art. 405 possano essere insufficienti, consente
più proroghe di detto termine, ciascuna per un tempo non superiore a 6 mesi, affidando al giudice delle
indagini preliminari la verifica dell’esistenza della giusta causa esposta dal p.m. a sostegno della richiesta.
Richiesta di proroga che poi va notificata alla persona indagata e alla persona offesa con avviso della
facoltà di presentare memorie entro 5 giorni dalla notificazione, introducendo così un contradditorio,
seppur cartolare, in una fase in cui può essere totalmente mancato. Diverso invece nei casi in cui si procede
per i reati di criminalità organizzata, dove è consentito di non notificare la proroga, con la conseguenza
che queste potrebbero proseguire all’insaputa dell’indagato.
Il pubblico ministero, prima della scadenza, può richiedere al giudice, per giusta causa, la proroga del
termine previsto dall’articolo 405.
Ulteriori proroghe sono concesse da una particolare complessità delle indagini ovvero da una oggettiva
possibilità di non riuscire a concludere le indagini entro il termine prorogato. Per il primo punto
significa che ci sono delle indagini che implicano una serie di fatti di reato e che implicano una serie di
soggetti. Bisogna però fare una distinzione. La prima può essere chiesta unicamente per giusta causa (non
ha una oggettività, ma può essere motivata in diversi modi).
Il giudice autorizza la proroga del termine con ordinanza emessa in camera di consiglio senza intervento
del pubblico ministero e dei difensori.
Qualora ritenga che allo stato degli atti non si debba concedere la proroga, il giudice, entro il termine
previsto dal comma 3 secondo periodo, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa notificare
avviso al pubblico ministero, alla persona sottoposta alle indagini nonché, nella ipotesi prevista dal comma
3, alla persona offesa dal reato. Il procedimento si svolge nelle forme previste dall’articolo 127.
I termini di durata massima delle indagini preliminari non possono superare, salvo eventuali differimenti
per consentire l’incidente probatorio i 18 mesi ovvero i 2 anni nei casi dell’art. 407, comma 2.
La sospensione dei termini opera nel periodo compreso tra la richiesta di autorizzazione a procedere e la
notizia della concessione; nel caso di accertamenti peritarli, mediante incidente probatorio, sulle capacità
dell’indagato di partecipare coscientemente al procedimento; nel periodo feriale.
Gli atti di indagini compiuti dopo tale data non possono essere utilizzati.

Epilogo delle indagini preliminari

Il pubblico ministero, quando non deve richiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale, formulando
l’imputazione, nei casi previsti nei titoli II (applicazione della pena su richiesta delle parti), III (giudizio
direttissimo), IV (giudizio immediato) e V (procedimento per decreto) del libro VI ovvero con richiesta
di rinvio a giudizio.

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O archiviazione o richiesta di rinvio a giudizio, se non vi è il rito alternativo.


Quando però deve richiedere l’archiviazione? Da parte del legislatore c’è una sorta di favor rei. Infatti il
pubblico ministero deve valutare tutti gli atti al termine delle indagini. La prima verifica dunque è quella
di vedere se ci sono tutti gli elementi: una volta concluso che ci siano tutti i presupposti allora si esercita
l’azione penale.
Questa è la prima opzione che deve varare il p.m.: valutare tutti gli elementi al termine delle indagini.
L’art. 408 ne delinea i presupposti (ossia l’infondatezza). Infatti, entro i termini di 6 mesi o 1 anno in caso
di delitti più gravi, il pubblico ministero, se la notizia di reato è infondata, presenta al giudice richiesta di
archiviazione. Con la richiesta è trasmesso, il fascicolo contenente la notizia di reato, la documentazione
relativa alle indagini espletate, i verbali degli atti compiuti davanti al giudice per le indagini preliminari.
Prima si parlava di «manifesta infondatezza», ora solo di infondatezza. C’è una inidoneità all’esercizio
dell’azione: anche se non è sufficientemente chiara. Così è intervenuta con la sentenza 88 del 1991 della
corte costituzionale affermando la non superfluità del processo.
Azione penale obbligatoria non significa, però, consequenzialità automatica tra notizia di reato e
processo, né dovere del p.m. di iniziare il processo per qualsiasi notitia criminis. Limite implicito alla stessa
obbligatorietà, razionalmente intesa, è che il processo non debba essere instaurato quando si appalesi
oggettivamente superfluo: regola, questa, tanto più vera nel nuovo sistema, che pone le indagini
preliminari fuori dell’ambito del processo, stabilendo che, al loro esito, l’obbligo di esercitare l’azione
penale sorge solo se sia stata verificata la mancanza dei presupposti che rendono doverosa l’archiviazione,
che è, appunto, non-esercizio dell’azione.
Il problema dell’archiviazione sta nell’evitare il processo superfluo senza eludere il principio di
obbligatorietà ed anzi controllando caso per caso la legalità dell’inazione. Il che comporta di verificare
l’adeguatezza tra i meccanismi di controllo delle valutazioni di oggettiva non superfluità del processo e lo
scopo ultimo del controllo, che è quello di far sì che i processi concretamente non instaurati siano solo
quelli risultanti effettivamente superflui.
Tale verifica opera su due versanti: da un lato, quello dell’adeguatezza al suddetto fine della regola di
giudizio dettata per individuare il discrimine tra archiviazione ed azione; dall’altro, quello del controllo
del giudice sull’attività omissiva del pubblico ministero, sì da fornirgli la possibilità di contrastare le
inerzie e le lacune investigative di quest’ultimo ed evitare che le sue scelte si traducano in esercizio
discriminatorio dell’azione (o inazione) penale.
Sostanzialmente questa infondatezza viene ulteriormente tradotta nella superfluità del processo, così come
individuata dalla corte costituzionale con la sentenza n. 88 del 1991: cioè il dibattimento non può essere
superfluo e deve dare ulteriori elementi che vadano a corroborare gli elementi già raccolti, in modo tale
che l’imputazione ne esca rafforzata e che questi elementi abbiano un connotato tale da essere posto alla
base di un ragionamento che potrebbe pervenire ad una condanna. Cioè un giudizio prognostico che si
deve tradurre in un processo e in un’accusa sostenuta in modo ragionevole. Ecco l’art. 125 disp. att., per il
quale il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza
della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere accusa in
giudizio.
Il giudice delle indagini preliminari, che si deve pronunciare, deve avere a disposizione tutti gli elementi
investigativi: è necessario però che il p.m. prima depositi tutti gli atti affinché, poi, il giudice decida.
La richiesta di archiviazione viene notificata alla persona offesa la quale abbia fatto richiesta di volere
essere informata circa l’eventuale archiviazione. Infatti non è notificata in modo automatico. Ci deve essere
una manifestazione di volontà della persona offesa. La notificazione è trasmessa per permettere alla
persona offesa di opporre resistenza (opposizione). Ci sono poi casi particolari che vedono la

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notificazione alla persona offesa automaticamente (coloro che hanno subito violenze). Inoltre, con la
disposizione dell’art. 408, comma 3 bis, stabilisce l’obbligo di dare avviso alla persona offesa della richiesta
di archiviazione con riferimento ai delitti commessi con violenza alla persona, è riferibile anche ai reati di
atti persecutori e maltrattamenti, previsti rispettivamente dagli articoli 612 bis e 572 c.p., perché
l’espressione «violenza alla persona» deve essere intesa alla luce del concetto di violenza di genere, quale
risulta dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario. È quanto
emerge dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali del 16 marzo 2016, n. 10959.
Ci sono 10 giorni per prendere visione degli atti.
Esistono anche altri casi di archiviazione (art. 411). Si può applicare anche quando:
- Manca una condizione di procedibilità (per es. non c’è la querela);
- Il reato è estinto (prescrizione, morte del reo);
- Il fatto non è previsto dalla legge come reato (per es. è un illecito amministrativo e non penale).
- La persona non è punibile per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131 bis codice penale.
Particolare tenuità del fatto: di questa richiesta deve essere data comunicazione all’indagato e alla
persona offesa. Una volta accertato che il fatto è tenue viene fatta archiviazione (con riserva di
opposizione comunque). Il giudice, se l’opposizione è ammissibile, procede ai sensi dell’art. 409
comma 2, fissando l’udienza. E, dopo aver sentito le parti, provvede con ordinanza (c’è un
contraddittorio obbligatorio). In mancanza di opposizione, o quando questa è inammissibile, il giudice
restituisce gli atti al p.m.
La notificazione è fatta anche all’indagato perché tale tipo di archiviazione viene iscritta nel casellario
giudiziario e dunque non si risolve in un nulla di fatto. Questo perché è una causa di natura sostanziale e
pertanto il p.m. deve accertare l’esistenza del reato, accertare il fatto che sia soggettivizzato e dopo decide
che il soggetto non è punibile perché è di particolare punibilità. Questo elemento è stato introdotto per
eliminare i reati bagatellari, implica però una valutazione in concreto dell’esistenza di reato anche se c’è la
decisione di non procedere. In ogni caso lascia delle briciole del suo passaggio. Ecco perché si dà la
possibilità all’indagato di opporsi: vuole andare avanti per dimostrare la sua innocenza, al fine che
l’archiviazione del procedimento non venga comunque iscritta nel casellario giudiziario.
In tutti questi casi il giudice, se non è stata presentata richiesta di opposizione, se accoglie di archiviare,
emette «decreto di archiviazione» e restituisce gli atti al p.m. (perché non esercita l’azione penale e il
giudice non deve emettere un determinato provvedimento conclusivo [come la sentenza]). Interviene con
decreto perché non ha mai aperto la fase dell’azione penale.
Il decreto di archiviazione, da un punto di vista concreto, viene notificato all’indagato soltanto se, nel
corso delle indagini, è stata applicata nei suoi confronti una misura di custodia cautelare. Dunque un
soggetto viene a sapere se è stato sottoposto ad indagine nel momento in cui viene emesso il decreto di
archiviazione, ma anche qualora ci sia la disposizione della misura cautelare di custodia cautelare;
altrimenti si deve arrangiare.
Al decreto di archiviazione può essere proposta opposizione. Opposizione che si risolve nella richiesta
motivata di prosecuzione delle indagini, indicando, a pena di inammissibilità, l’oggetto della
investigazione suppletiva e i relativi elementi di prova. Deve quindi pervenire un dissenso alle conclusioni
cui è giunto il p.m. Dissenso che è espresso sulla base della visione degli atti e delle indagini svolte.
Ecco allora che la persona offesa se ritiene che ci siano elementi e ulteriori indicazioni può richiedere
indagini suppletive. La persona offesa allora deve indicare questo elemento di indagine e non solo
contestare. Se l’opposizione si manifesta come inammissibile, il giudice delle indagini preliminari
procederà con la pronuncia del decreto motivato di archiviazione e la trasmissione degli atti al pubblico
ministero. Al contrario, quando l’opposizione è ritenuta ammissibile, il giudice fissa un’udienza in camera

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di consiglio della quale vengono avvisati il rappresentante dell’accusa, la persona sottoposta alle indagini
e la persona offesa al cui termine deciderà con ordinanza se disporre la prosecuzione delle indagini –
fissando il termine indispensabile per il loro adempimento – ovvero ordinare la formulazione del capo di
imputazione – se il giudice delle indagini preliminari ritiene esaustiva l’indagine ma non condivide la
richiesta di archiviazione. Di questa udienza viene dato avviso anche al procuratore generale presso la
corte d’appello.
Dunque si dividono, da un lato, le indagini coatte, mentre dall’altro l’imputazione coatta.
Quando il giudice ritiene necessario che siano disposte ulteriori indagini (indagini coatte), si ravvisa un
controllo terzo sulla completezza delle indagini preliminari, richiamando il principio dell’obbligatorietà
penale. Il controllo è fatto sugli atti che sono stati depositati con la richiesta di archiviazione dal p.m. Sarà
poi il p.m. a decidere come compiere le ulteriori indagini.
Queste ulteriori indagini devono essere temi di indagine da approfondire sui quali il giudice fisserà un
termine entro il quale le indagini devono essere compiute. Al termine il p.m. dovrà di nuovo scegliere la
riserva: o fare richiesta di archiviazione, o esercitare l’azione penale.
In alternativa, il giudice delle indagini preliminari sulla richiesta può, quando non accoglie la richiesta di
archiviazione, disporre con ordinanza che, entro 10 giorni, il pubblico ministero formuli l’imputazione
(coatta). Entro 2 giorni dalla formulazione dell’imputazione, il giudice fissa con decreto l’udienza
preliminare. Questo perché gli elementi contenuti nel fascicolo del p.m. indicano una persona che può
essere individuata e gli elementi sono sufficienti. Allora il giudice può obbligare (imputazione coatta) il
p.m. ad esercitare l’azione penale.
Prima si è detto che dell’udienza viene dato avviso anche al procuratore generale presso la corte
d’appello. Perché? Per evitare l’empasse che si può venire a creare laddove il p.m. abbia fatto richiesta e il
giudice l’abbia obbligato a compiere ulteriori indagini o formulare imputazione coatta e il p.m. non abbia
condiviso, rimanendo inattivo e inerte. Qui c’è la riesumazione dei conflitti (analoghi). La notificazione è
data per dirimere eventuali contrasti tramite l’avocazione delle indagini al procuratore. In questo caso
emette un’ordinanza di archiviazione e non più un decreto.
Ci sono due interessi: il primo quello dell’indagato ad essere riconosciuto estraneo ai fatti con
l’archiviazione; il secondo che è quello dell’offeso dal reato nel vedere che le indagini si concludano senza
ritardo sia per aver affermazione del diritto violato sia per poter inserire nel processo eventuali pretese di
ordine civilistico.
Il procuratore generale non ha nessun obbligo di rispondere alla richiesta privata di avocazione delle
indagini ma, ove la ritenga fondata, non può non attivarsi proponendo nel termine di 30 giorni, previe
espletamento delle indagini indispensabili, le sue richieste al giudice delle indagini preliminari.
Nel caso di camera di consiglio viene data notifica, come detto prima. Infatti se il p.m. viene obbligato e
questo non si attiva, il procuratore può avocare a sé le indagini. Questo dunque quando il p.m., nel termine
previsto, non esercita l’azione penale e non esegue l’archiviazione.
Il procuratore in 30 giorni deve svolgere le indagini ed entro questi deve o esercitare o fare richiesta di
archiviazione.
Questa avocazione può essere anche sollecitata e richiesta (sia dalla persona offesa che dall’indagato). Con
l’archiviazione gli atti saranno poi riconsegnati al p.m. e depositati in archivio.

Un’ultima ipotesi di archiviazione è disciplinata dall’art. 415, cioè quando il reato è commesso da una
persona ignota.

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Quando è ignoto l’autore del reato il pubblico ministero entro 6 mesi dalla data della registrazione della
notizia di reato, presenta al giudice la richiesta di archiviazione ovvero la richiesta di autorizzazione a
proseguire le indagini.
Una terza ipotesi è che il giudice delle indagini preliminari, nell’indicare la richiesta di archiviazione o
prosecuzione, si rende conto che dentro il fascicolo esiste già una persona che può essere indagata, cioè
attribuire il fatto di reato. In questo caso allora il giudice può ordinare il p.m. ad iscrivere questo soggetto
nel registro. Anche qui c’è una sorta di coazione. Questo meccanismo è particolare perché c’è un soggetto
terzo che si va ad intromettere nell’azione del p.m. (che è il dominus e come tale autonomo).

Attenzione. L’archiviazione ha un effetto preclusivo limitato: se una sentenza divenuta irrevocabile può
essere impugnata tramite uno strumento straordinario come la revisione, l’archiviazione no. Infatti è
possibile l’autorizzazione sulla base di una semplice richiesta del p.m., rivolta al giudice delle indagini
preliminari, il quale richiede la riapertura delle indagini preliminari, motivata dall’esigenza di nuove
investigazioni.
Questa riapertura era una delle modalità attraverso le quali l’indagato riassumeva la qualifica di indagato
dopo che l’aveva persa dopo l’ottenimento del decreto dell’archiviazione. Cosa succede? Questo
provvedimento permette al p.m. di tornare ad indagare, tramite una nuova iscrizione ex art. 335 (che deve
essere motivata): allora o il p.m. fa una richiesta di riapertura delle indagini e il giudice emette il
provvedimento e poi fissa il termine per il compimento di queste; poi al termine seguiranno gli stessi
epiloghi. Oppure il p.m. che ha in mano già degli elementi può fare richiesta presentando queste e il
giudice riapre le indagini: il p.m. poi, avendo già il possesso degli elementi sufficienti, provvederà a
richiedere il rinvio a giudizio.
Parola chiave: scarso effetto preclusivo.

Avviso della chiusura delle indagini preliminari ed esercizio azione penale


Quando il p.m. non esercita l’archiviazione, esercita l’azione penale. Questa richiesta però è preceduta
dall’avviso della chiusura delle indagini preliminari (art. 415 bis).
Si tratta di un istituto che si pone accanto a tutti gli strumenti come 335 (registro delle notizie di reato), 366
(deposito degli atti cui hanno diritto di assistere i difensori), 375 (invito a presentarsi), 369 (informazione
di garanzia). Va così a chiudere il percorso di tutela del diritto alla conoscibilità dell’accusa nel nostro
procedimento, ossia tutti quegli istituti che portano l’indagato a conoscere l’accusa nei suoi confronti
nell’ambito di un sistema d’indagine segreto.
In origine, quando è stato emanato il codice, era possibile arrivare all’udienza preliminare senza sapere
che c’era stato un procedimento penale nei confronti di un soggetto. Se nel corso delle indagini preliminari
non vengono posti in essere atti che richiedono la presenza del soggetto, infatti il soggetto non ne sarebbe
venuto a conoscenza fino alla fissazione dell’udienza preliminare. Per evitare questo, nel 1999, è stato
inserito l’art. 415 bis per consentire all’indagato di avere prima della conclusione un contraddittorio
(imperfetto) tra p.m. e indagato sul contenuto delle investigazioni che sono state condotte e prima che il
p.m. avanzi la richiesta di giudizio.
Viene così introdotto e trova il suo fondamento nell’art. 111 comma 3 Cost.
Qual è la ratio? Esigenza di una effettiva partecipazione difensiva alla fase investigativa. Questo avviso
viene inviato unicamente qualora il p.m. decida di esercitare l’azione penale, con la richiesta di rinvio a
giudizio e non con un’altra modalità (come giudizio immediato). I presupposti dunque sono: invio entro
il termine di scadenza delle indagini e la notificazione con la richiesta di rinvio a giudizio.

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La non notificazione all’indagato determina la nullità della richiesta di rinvio a giudizio. Perché si viene a
violare il diritto di difesa dell’indagato: infatti l’indagato da quel momento in poi il soggetto può porre in
essere un contraddittorio con il p.m. e comprendere gli atti.
L’avviso contiene:
- La sommaria enunciazione del fatto per il quale si procede;
- Delle norme di legge che si assumono violate;
- Della data e del luogo del fatto.
Riguardo la sommaria enunciazione e l’enunciazione della forma chiara e precisa (che è richiesta
all’interno della richiesta di rinvio a giudizio) ci deve essere un rapporto. Concretizza il rapporto tra
imputazione provvisoria e imputazione definitiva: infatti si denota come non ci sia lo stesso grado di
specificità (in uno sommario, nell’altro in forma chiara e precisa). Ma che grado di specificità si deve porre
in essere il p.m. affinché possa consentire di assolvere i propri compiti in maniera corretta? Bisogna fare
un discorso che è collegato alla modifica dell’imputazione, che può avvenire per: fatto nuovo, fatto diverso,
reato connesso in circostanza aggravante. È qui che si denota il diverso grado di specificità che esiste tra i
due elementi.
Poi ci sono gli avvertimenti. Infatti si deve avvertire che la documentazione relativa alle indagini espletate
è depositata presso la segreteria del pubblico ministero e che l’indagato e il suo difensore hanno facoltà di
prenderne visione ed estrarne copia. In questo modo assolve la funzione il diritto di difesa, infatti che è
permesso.
Inoltre, c’è un’altra parte di contenuto, ossia che l’avviso contiene altresì:
- L’avvertimento che l’indagato ha facoltà, entro il termine di 20 giorni, di presentare memorie, produrre
documenti, depositare documentazione relativa ad investigazioni del difensore;
- Chiedere al pubblico ministero il compimento di atti di indagine, nonché di presentarsi per rilasciare
dichiarazioni;
- Chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio. Se l’indagato chiede di essere sottoposto ad interrogatorio
il pubblico ministero deve procedervi.
Si tratta di un termine ordinatorio (quei 20 giorni), non perentorio. Perché il p.m., finché ha la disponibilità
del fascicolo prima che venga trasmesso al giudice, il difensore e l’indagato possono fare alcune attività di
presa in visione.
Da sottolineare vi è che il p.m. ha l’obbligo di procedere all’interrogatorio, a differenza degli atti, quando
l’indagato lo richieda.
È stata inserita la possibilità di rendere dichiarazioni spontanee, non previa domanda, ma rilasciate
spontaneamente senza l’intervento del p.m.
Quando il pubblico ministero, a seguito delle richieste dell’indagato, dispone nuove indagini, queste
devono essere compiute entro 30 giorni dalla presentazione della richiesta. Il termine può essere prorogato
dal giudice per le indagini preliminari, su richiesta del pubblico ministero, per una sola volta e per non
più di 60 giorni. È naturale che le indagini non potranno uscire dal binario su cui erano già indirizzate,
cioè non si possono ampliare su altri temi. Al termine poi gli atti di indagine devono essere depositate.
Le dichiarazioni rilasciate dall’indagato, l’interrogatorio del medesimo ed i nuovi atti di indagine del
pubblico ministero sono utilizzabili se compiuti entro il termine di 30 giorni, ancorché sia decorso il
termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice per l’esercizio dell’azione penale o per la richiesta di
archiviazione. Se ci sono atti di indagini in favore dell’indagato, anche se fanno al di là dei termini della
clausola di esclusione (30 giorni), il giudice dovrà tenerne conto.
Istituto inserito per un fine nobile, volto a concretizzare quel principio di conoscibilità dell’accusa in capo
all’indagato. Ma la verifica che si deve rivolgere a questo istituto è che è stato inserito in un momento

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processuale troppo avanzato: infatti qui il p.m. ha concluso le indagini. Dunque è difficile evincere il
rapporto di prevenzione e far fare retromarcia su un capo di imputazione già individuato dal p.m., per via
delle possibilità che le parti hanno a disposizione di richiedere.
Lo scopo dell’art. 415 bis sta nel garantire il contraddittorio fra le parti fino a quel momento circoscritto o
addirittura mancante.

L’esercizio dell’azione penale


Se il pubblico ministero ritiene concluse le indagini preliminari (anche prima della scadenza del termine)
l’alternativa alla richiesta di archiviazione è l’esercizio dell’azione penale: il pubblico ministero esercita
l’azione penale quando non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione (art. 50). Il
pubblico ministero, se convinto di aver raccolto durante le indagini elementi idonei a sostenere l’accusa in
giudizio, ha l’obbligo di esercitare l’azione penale formulando l’imputazione. Questa segna:
1. La cessazione della qualità di indagato e l’assunzione della qualità di imputato;
2. L’inizio del processo in senso stretto;
3. Momento da cui è possibile introdurre accanto al tema penale il tema della pretesa civilistica.
4. La formulazione dell’imputazione attribuisce al giudice il compito di valutare quanto fatto durante le
indagini preliminari.

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CAPITOLO II – UDIENZA PRELIMINARE

Come nasce? Nel codice previgente non c’era. È stato infatti cambiato il modello procedurale del codice.
Inserita in un’ottica di controllo sull’azione o inazione allo scopo di dare concretezza al principio di
obbligatorietà dell’azione penale.
Inoltre, garantisce l’attuazione del diritto alla prova in sede di udienza preliminare. Rende altresì
possibile l’opzione alternativa dei riti speciali.
Dunque: 1) funzione di filtro; 2) garantire il diritto alla prova; 3) garantire i riti speciali.
In origine aveva anche una quarta funzione che era quella di discovery, che adesso avviene in sede di
indagine preliminare. Questo grazie all’inserimento, appunto, dell’art. 415 bis, che ha innestato
parzialmente la discovery, in favore dell’imputato, del materiale investigativo raccolto dal pubblico
ministero, che prima avveniva solamente in questa udienza. Nonostante ciò comunque l’udienza
preliminare continua a svolgere questa funzione nei confronti della persona offesa, destinataria dell’avviso
di fissazione dell’udienza preliminare, ma non dell’avviso di conclusione delle indagini.

Richiesta di rinvio a giudizio

È l’atto con il quale si esercita l’azione penale.


Il presupposto per il rinvio è insito nella valutazione del p.m., corroborato poi anche dall’enunciazione
dell’art. 125 disp. att. Devono sorgere elementi probatori sufficienti a dar ritenere ragionevole la possibilità
di sostenere l’accusa in dibattimento: la sentenza 88 del 1991 infatti aveva individuato il criterio della non
superfluità del processo. Questa è la linea di discrimine tra il rinvio a giudizio o non.
Importante anche l’art. 130 disp. att. (rubricato «contenuto del fascicolo trasmesso dal pubblico ministero
con la richiesta di rinvio a giudizio») deve essere letto nel senso di imporre che il p.m. nel momento in cui
deposita il rinvio a giudizio, deve depositare anche tutti gli atti e non ne deve fare una «cernita», cioè una
selezione. Invece il pubblico ministero può non inserire tutti gli atti solo qualora, laddove l’indagine
preliminare abbia riguardato più persone o più imputazioni, ci siano soggetto verso i quali non sia stata
esercitata l’azione. Ma non consiste in una scelta discrezionale ma risponde solo ad una esigenza oggettiva
di procedere alla separazione dei processi in relazione all’esistenza di diversi imputati o di diverse
imputazioni.
Inoltre, qualora si proceda per il reato di cui all’articolo 589, comma 2 (omicidio colposo stradale) del
codice penale, la richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero deve essere depositata entro 30 giorni
dalla chiusura delle indagini preliminari. Questo è stato inserito per forzare il risarcimento delle
assicurazioni infortunistiche: per consentire alle famiglie vittime di questi reati di aver un ristoro
velocizzato.
La richiesta di rinvio a giudizio è viziata da nullità se non è preceduta dal caso in cui il p.m. non abbia
inviato l’atto di conclusione delle indagini, ovvero non abbia inviato l’invito per rendere l’interrogatorio
all’indagato che abbia richiesto di essere interrogato entro 20 giorni (appunto per via dell’obbligo che p.m.
aveva nei suoi confronti).
Questa nullità è a regime intermedio, perché va ad incidere sull’intervento dell’indagato nell’ambito del
procedimento. Ma potrebbe essere anche una nullità assoluta perché va ad incidere sulla citazione in
giudizio dell’indagato. La giurisprudenza non ha sposato quest’ultima impostazione perché il vizio che
va a colpire questi due atti è sempre lo stesso.

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Quali sono i requisiti della richiesta di rinvio a giudizio, che è l’atto con cui si chiudono le indagini
preliminari?
Innanzitutto contiene l’imputazione (da un punto di vista soggettivo e oggettivo). Questo serve per
dirigere il giudice e le parti e sul quale confrontarsi in ordine a profili di responsabilità o meno. Inoltre
devono essere inserite le generalità e qualsiasi altro elemento idoneo ad individuarlo. In ogni modo, l’art.
417 prevede che la richiesta di rinvio a giudizio contenga:
a) Le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo nonché le
generalità della persona offesa dal reato qualora ne sia possibile l’identificazione. Tale previsione è
finalizzata a individuare il soggetto al quale il pubblico ministero imputa il fatto;
b) L’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che
possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di
legge. Qui si è di fronte ad un atto con il quale si assume per la prima volta la qualifica di imputato, a
fronte del quale la prima volta il danneggiato del reato si può costituire parte civile. Quindi deve essere
preciso e si deve porre come atto preciso. È stato quindi imposto questa enunciazione. Si deve tutelare
al massimo il diritto di difesa e di difendersi in modo corretto.
c) L’indicazione delle fonti di prova acquisite. In questo caso c’è l’enunciazione di carattere probatorio idoneo
a sostenere l’accusa in giudizio;
d) La domanda al giudice di emissione del decreto che dispone il giudizio, concretizzando il principio
nemo iudex sine actor;
e) La data e la sottoscrizione.
L’introduzione nel 1999 della lettera c) ha voluto evitare la cripto-imputazione, individuando nel modo
più preciso possibile il fatto di reato. Parte della giurisprudenza si era espressa che nel momento in cui
l’enunciazione fosse generica si sarebbe assistito ad una violazione del diritto di difesa e pertanto ci sarebbe
stata una nullità di natura intermedia. Altra parte di giurisprudenza dice che nell’ambito dell’udienza
preliminare, all’art. 423 c’è la possibilità di modificare l’imputazione. Dunque si ha all’interno dell’udienza
preliminare uno strumento che opera per porre rimedio ad un comportamento non troppo adeguato posto
in essere dal p.m. Nel 2007 le Sezioni Unite hanno deciso che la genericità dell’imputazione impone al
giudice di invitare il p.m. a modificare l’imputazione scarna, e soltanto una successiva l’inerzia a questa
richiesta determinerebbe la restituzione degli atti al p.m. e la sospensione dell’udienza per adeguare il
fatto storico a quanto è emerso nell’udienza preliminare.
Dunque, se da un lato la mancanza dell’indicazione dell’imputato o dell’imputazione comporta un vizio
di nullità assoluta, dall’altro lato la genericità comporta una modificazione dell’imputazione senza
pregiudicare l’atto con nullità.
Ancora. La mancata o incompleta indicazione delle fonti di prova (c), l’assenza di un’espressa domanda
di instaurazione del dibattimento (d), nonché la carenza della data (e), non producono alcuna specie di
invalidità della richiesta. Ma nel caso della sottoscrizione della richiesta di rinvio a giudizio (e), nel caso in
cui sia compromessa o meno la riconoscibilità dell’atto, sotto il profilo della sua provenienza, l’atto
risulterà viziato da nullità a regime assoluto.
Questo inserimento è un invito al p.m. di evitare l’utilizzo della cripto-imputazione, ma non dà luogo a
violazioni, anzi trasmette gli atti al p.m. al fine di adeguare la scarna imputazione.

Fissazione dell’udienza. Entro 5 giorni dal deposito della richiesta, il giudice fissa con decreto il giorno,
l’ora e il luogo dell’udienza in camera di consiglio, provvedendo a norma dell’articolo 97 (nomina
difensore d’ufficio) quando l’imputato è privo del difensore di fiducia. Tra la data di deposito della
richiesta e la data dell’udienza non può intercorrere un termine superiore a 30 giorni.

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I 5 giorni previsti all’inizio dell’art. 418 inizialmente erano 2.

Preparazione dell’udienza. All’art. 419 ci sono gli atti introduttivi.


La richiesta di rinvio a giudizio e l’avviso di fissazione dell’udienza sono notificati all’imputato – con
l’avvertimento all’imputato che, qualora non compaia, si applicheranno le disposizioni di cui agli articoli
420 bis, 420 ter, 420 quater e 420 quinquies – e alla persona offesa della quali risultino agli atti l’identità e
il domicilio e tale attività deve essere compiuta entro 10 giorni dalla prima udienza. Entro lo stesso termine
è altresì notificata la citazione del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena
pecuniaria. Ed entro lo stesso termine, l’avviso è comunicato anche al pubblico ministero, con l’invito a
trasmettere la documentazione delle indagini suppletive compiute dopo la richiesta di rinvio a giudizio,
nonché notificato al difensore dell’imputato (comma 3). Importante è che al comma 3 trovano luogo le
indagini suppletive, espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio. In questo modo si risalta quel concetto
di continuazione delle indagini, anche dopo la fase apposita. Anche per effettuare un controllo di legalità
su questi fatti. È il risultato del tentativo del legislatore di contemperare la duplice esigenza di non bloccare
l’attività investigativa e, nello stesso tempo, di garantire il pieno diritto alla prova della difesa.
Il comma 4 prosegue col dire che gli avvisi sono notificati e comunicati almeno 10 giorni prima della data
dell’udienza.
L’art. 419 al comma 5 consente all’imputato di rinunciare all’udienza preliminare e richiedere il giudizio
immediato con dichiarazione presentata in cancelleria, personalmente o a mezzo di procuratore speciale.
Inoltre c’è la possibilità che il giudizio immediato possa essere chiesto dall’imputato. Non è altro che un
riconoscimento oggettivo del fatto che l’udienza preliminare non è altro che un diritto dell’imputato,
appunto perché può essere rinunciata senza alcun presupposto. E dunque è un suo diritto rinunciare.
Nel momento in cui rinuncia, il giudice emette il decreto di giudizio immediato e si va direttamente al
dibattimento.

Costituzione delle parti. L’udienza si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del
pubblico ministero e del difensore dell’imputato. Il giudice procede agli accertamenti relativi alla
costituzione delle parti ordinando la rinnovazione degli avvisi, delle citazioni, delle comunicazioni e delle
notificazioni di cui dichiara la nullità. Può essere nominato anche un difensore d’ufficio.

Contumacia, assenza e impedimenti

Non c’è più l’istituto della contumacia nel nostro ordinamento. In seguito a una condanna della corte di
giustizia, che riteneva che la purgazione della contumacia non portava sufficienti garanzie, una normativa
del 2014 ne ha eliminato l’istituto. È rimasta ed è solamente disciplinata, così, il sistema dell’assenza (art.
420 bis). Non essendoci più la contumacia, questo meccanismo, seppur modificato, è stato traslato in parte
all’interno dell’istituto dell’assenza dell’imputato, il quale parzialmente ne ha assorbito la disciplina.
Alcuni Stati sospendono il processo fino a quando non c’è la presenza dell’imputato, non prevedendo
dunque la contumacia: qui c’è l’esigenza della tutela e della presenza dell’imputato, nolente e volente;
altri Stati invece, che sposano la contumacia, devono dare soddisfazione alla persona offesa dal reato,
perché deve trovare uno stato che reagisca immediatamente.
Il problema era che negli stati dove non c’era la contumacia, nel momento in cui si trovava l’imputato
contumace che era stato condannato, si ripeteva il processo. In Italia, invece se l’imputato contumace
riusciva a dimostrare che non aveva avuto notizia del decreto penale di condanna per causa a lui non
imputabile, veniva messo davanti a un giudice di secondo grado.

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Dunque, in seguito all’eliminazione dell’istituto della contumacia, l’assenza rimane l’unica situazione
codificata in cui l’imputato non risulta presente all’udienza preliminare.
Gli impedimenti però restano, infatti la mancanza dell’imputato nel processo concernono anche un
impedimento a comparire (art. 420 ter), che determina una nuova udienza da parte del giudice e dispone
che venga rinnovato l’avviso all’imputato. Tale istituto assume rilevanza in una tutela del diritto alla difesa
personale, ma anche del difensore, in un’ottica di maggiore consapevolezza del ruolo necessario svolto da
quest’ultimo sotto il profilo della difesa tecnica.
Quando appare probabile, dopo che ne sia data prova, che l’assenza dell’imputato sia dovuta ad assoluta
impossibilità di comparire per caso fortuito o forza maggiore o per altro legittimo impedimento, il
giudice valuta liberamente e non può essere oggetto né di discussione né di impugnazione. È una prova
su fatti secondari e attiene alla probabilità. Subito il giudice dispone che sia rinnovato l’avviso all’imputato.
Se anche l’udienza successiva l’imputato non si ripresenta e ricorrono le condizioni del comma 1 (cioè che
l’assenza sia dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro
legittimo impedimento), anche qui è necessaria una giustificazione, con le stesse valutazioni, e se positiva
si fissa una nuova udienza e se ne dà notificazione all’imputato.
Lo stesso meccanismo ricade sul difensore dell’imputato ma solo per legittimo impedimento, purché
prontamente comunicato (comma 5). Tale disposizione non opera qualora l’imputato abbia nominato due
difensori e l’impedimento riguardi soltanto uno di essi, ovvero il difensore impedito abbia nominato un
sostituto o l’imputato abbia comunque acconsentito a una difesa rappresentata da un unico legale.

L’assenza (art. 420 bis) è rimasto l’unico meccanismo di processo in cui non è presente l’imputato. Il
concetto è che se si svolge un processo senza l’imputato, è necessario che l’imputato faccia sapere
(espressamente) o abbia compiuto atti (tacitamente) con i quali il giudice capisca che l’imputato sia a
conoscenza del processo e che si sia sottratto volontariamente.
La parola chiave è che sappia del processo e volontariamente non partecipi o che lo si desuma
chiaramente dagli atti.
L’introduzione dell’assenza del processo è stato fatta per un motivo preciso: perché tutti i processi si
svolgevano avverso imputati irreperibili. Si è così cercato di equilibrare le tendenze: eliminazione della
contumacia e questa motivazione.
Salvo quanto previsto dall’articolo 420 ter (impedimento di imputato), il giudice procede in assenza
dell’imputato che nel corso del procedimento: (1) abbia dichiarato o eletto domicilio (dunque è a conoscenza
dell’esistenza di un processo a suo carico); (2) sia stato arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare; (3)
abbia nominato un difensore di fiducia; (4) nonché nel caso in cui l’imputato assente abbia ricevuto
personalmente la notificazione dell’avviso dell’udienza; (5) risulti comunque con certezza che lo stesso è a
conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del
medesimo. Se il concetto di conoscenza non può prescindere dall’oggetto, la sottrazione dalla conoscenza
rappresenta un comportamento artificioso.
Sono 5 situazione presunte, ma basate su un compimento di atti da parte dell’imputato.
La tutela dell’imputato è rappresentata dal fatto che comunque è rappresentato dal difensore e tutti gli atti
che avrebbero come destinatario l’assente, ne è diretto destinatario sempre il difensore. Il difensore va a
sostituire l’imputato.
Può succedere che l’ordinanza che stabilisca la sua assenza possa essere revocata, anche d’ufficio, nel caso
in cui voglia partecipare al processo.

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Inoltre il codice concede di andare oltre la presunzione: infatti è possibile fornire prove che l’assenza sia
stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo. Allora il giudice
rinvia l’udienza e l’imputato può chiedere l’acquisizione di atti e documenti.

L’art. 420 quater, che prevede la sospensione del processo per assenza dell’imputato, sancisce che sia
dato rinvio dell’udienza se l’imputato non è presente, sempreché non si tratti dei casi previsti dagli articoli
420-bis e 420-ter e fuori delle ipotesi di nullità della notificazione. Il giudice poi dovrà disporre che l’avviso
sia notificato all’imputato personalmente ad opera della polizia giudiziaria. Quando la notificazione ai
sensi del comma 1 non risulta possibile, e sempre che non debba essere pronunciata sentenza a norma
dell’articolo 129, il giudice dispone con ordinanza la sospensione del processo nei confronti dell’imputato
assente.
Durante la sospensione del processo, il giudice, con le modalità stabilite per il dibattimento, acquisisce, a
richiesta di parte, le prove non rinviabili. Inoltre provvederà alla ricerca dell’imputato tramite nuove
ricerche: l’art. 420 quinquies afferma che alla scadenza di 1 anno dalla pronuncia dell’ordinanza che ha
disposto la sospensione, o anche prima quando ne ravvisi l’esigenza, il giudice dispone nuove ricerche
dell’imputato per la notifica dell’avviso. Analogamente provvede a ogni successiva scadenza annuale,
qualora il procedimento non abbia ripreso il suo corso.
In modo dettagliato, qui di seguito sono riportati i passaggi della ricerca dell’imputato non comparso:
dunque, cosa succede quanto l’imputato irreperibile non si trova?
Una volta (a) effettuato il tentativo di notifica ai sensi dell’art. 420 quater nel corso dell’udienza di rinvio,
il giudice dovrà eventualmente dare atto a verbale che la polizia giudiziaria non ha potuto notificare
l’avviso all’imputato a mani proprie; (b) il giudice dovrà quindi ordinare alla polizia giudiziaria di
immettere il nome dell’imputato e l’avviso della nuova udienza fissata all’anno successivo, negli archivi
CED (centro elettronico di documentazione) del ministero dell’interno; (c) la polizia giudiziaria, qualora
riesca a reperire l’imputato, potrà condurlo direttamente in ufficio per la notifica dell’avviso; (d) in tal caso
il giudice verrà informato dalla polizia giudiziaria nel corso della nuova udienza e revocherà la
sospensione del processo, che proseguirà alla presenza dell’imputato comparso, ovvero assente
consapevole; (e) nel caso in cui l’imputato non venga invece rintracciato, l’udienza verrà nuovamente
rinviata di un anno, ordinando ancora l’inserimento del relativo avviso nel CED, al fine di consentire così
alla polizia giudiziaria, di anno in anno, la pronta notifica all’imputato eventualmente reperito della data
di nuova udienza;
Finché l’imputato sarà irreperibile il processo resterà sospeso, potranno essere comunque assunte le
prove non rinviabili e la parte civile potrà coltivare le proprie pretese dinnanzi al giudice civile.

Udienza

Il verbale dell’udienza preliminare è redatto di regola in forma riassuntiva; il giudice, su richiesta di parte,
dispone la riproduzione fonografica o audiovisiva ovvero la redazione del verbale con la stenotipia. Per
quanto riguarda le tecniche di documentazione, la regola è costituita dal verbale redatto con la scrittura
manuale, sostituibile tuttavia, su richiesta di parte, dal verbale compilato con la stenotipia, ovvero dalla
riproduzione fonografica o audiovisiva.
Conclusi gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, il giudice dichiara aperta la discussione.
Il pubblico ministero espone sinteticamente i risultati delle indagini preliminari e gli elementi di prova che
giustificano la richiesta di rinvio a giudizio. L’imputato può rendere dichiarazioni spontanee e chiedere di
essere sottoposto all’interrogatorio (si applicano le disposizioni degli articoli 64 e 65). Su richiesta di parte,

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il giudice dispone che l’interrogatorio sia reso nelle forme previste dagli articoli 498 e 499, ossia con le
forme dell’esame e del controesame.
Prendono poi la parola, nell’ordine, i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona
civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell’imputato che espongono le loro difese. Il pubblico
ministero e i difensori possono replicare una sola volta.
Gli interventi che hanno luogo nell’udienza preliminare si basano su fonti di prova precostituite come i
risultati delle indagini ordinarie, gli atti e i documenti raccolti dal pubblico ministero e i difensori
dell’imputato, ma anche sulle prove assunte con le forme dell’incidente probatorio, altresì
sull’interrogatorio e sulle dichiarazioni spontanee dell’imputato.
Tutti questi elementi accedono all’udienza tramite un controllo di ammissibilità condotto dal giudice,
orientato secondo il principio di legalità della prova. Egli deve controllare: il rispetto dei limiti oggettivi e
soggettivi delle indagini suppletiva; il fatto che il p.m. non abbia avuto la possibilità di effettuare detta
attività entro il termine di chiusura delle indagini; il rispetto delle regole sul deposito e sulla trasmissione
degli atti; gli strumenti utilizzati dal pubblico ministero nel corso delle ricerche.

Modificazione dell’imputazione (art. 423)


Prevede due tipi di nuove contestazioni. La prima prevede che se durante lo svolgimento dell’udienza
preliminare risulta che il fatto imputabile è diverso o è ipotizzabile un reato connesso a norma dell’art. 12
comma 1 lett. b) o una circostanza aggravante, per il sopravvenire di ulteriori elementi o alla luce di una
più attenta considerazione, l’imputazione viene modificata. Il secondo invece prevede che se risulta a
carico dell’imputato un fatto nuovo non enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio, per il quale si debba
procedere di ufficio, il giudice ne autorizza la contestazione se il pubblico ministero ne fa richiesta e vi è il
consenso dell’imputato.
Nel primo caso, se l’imputato non è presente, la modificazione della imputazione è comunicata al
difensore, che rappresenta l’imputato ai fini della contestazione.
Si distinguono dunque le ipotesi del fatto connesso, del fatto diverso e del fatto nuovo.
Per il «fatto nuovo», che non deve integrare l’ipotesi di reato connesso a norma dell’art. 12 comma 1, lett.
b, si intende un fatto che si aggiunge quale ulteriore ipotesi di accusa.
Per «fatto diverso» si intende una variazione dell’elemento psicologico, del nesso causale, dell’evento, del
luogo o del tempo di commissione del reato, ovvero si configurerebbe laddove il fatto indicato nella
richiesta di rinvio a giudizio sia persistente nella sua essenza, potendo il requisito di diversità inerire a
ognuno degli elementi costitutivo e a qualsiasi delle circostanze.
La nuova contestazione può avvenire anche dopo la discussione, quando il giudice dell’udienza
preliminare, invece di dichiararla chiusa, ritenga di attivare le procedure di cui agli artt. 421 bis e 422.
Tale norma è ispirata a principi di economia processuale. È da premettere, infatti, che al giudice
dell’udienza preliminare è inibita la possibilità di modificare l’imputazione formulata dal pubblico
ministero, sicché egli, ad esempio, di fronte ad un’imputazione che all’esito dell’udienza risulti diversa
(non più rapina, ma furto), non potrebbe far altro che prosciogliere l’imputato (non potendolo rinviare a
giudizio per furto così modificando di sua iniziativa l’imputazione). Il p.m., dal suo canto, dovrebbe
esercitare nuova azione penale per il fatto diverso. Invece, con il meccanismo della modifica
dell’imputazione di cui al primo comma il sistema processuale ne esce più snello. Il secondo comma è
ispirato dallo stesso principio, anche se qui la possibilità della nuova contestazione è subordinata a
determinati presupposti. La diversità di disciplina si spiega con il fatto che in tale ipotesi, seppure per il
fatto nuovo il pubblico ministero procede separatamente, per il fatto originariamente contestato l’udienza
preliminare prosegue pur sempre il suo corso.

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Se il pubblico ministero non rileva la diversità del fatto, il giudice dell’udienza preliminare dovrà invitare
il p.m. a modificare l’imputazione e solo laddove quest’ultimo rimanga inerte, allora troverà applicazione
l’art. 521 comma 2, disponendo la trasmissione degli atti al pubblico ministero. In questo senso il giudice
ha solo un potere di controllo.
Ma la modifica costituisce un atto dovuto o un obbligo? Laddove emerga un reato connesso ai sensi
dell’art. 12 comma 1 lett. b perseguibile d’ufficio, si avrà una trasformazione del potere-dovere di
contestazione in potere-facoltà; mentre qualora emergesse una circostanza aggravante o il fatto risultasse
diverso, il pubblico ministero sarà tenuto a modificare l’accusa e contestarla nella stessa udienza in cui è
emerso l’elemento di difformità.

Integrazione dell’udienza
Sono previsti due tipi di integrazione: quella investigativa e quella probatoria.
Integrazione investigativa (art. 421 bis). Al termine della discussione, quando il giudice non sia in grado
di decidere allo stato degli atti, perché ritiene incomplete le indagini preliminari, emette un’ordinanza con
la quale indica le ulteriori indagini, fissando il termine per il loro compimento e la data della nuova
udienza preliminare. Del provvedimento è data comunicazione al procuratore generale presso la corte
d’appello.
È così affidato al giudice un controllo su due piani: prima di procedere al sindacato in ordine alla richiesta
di rinvio a giudizio, egli è tenuto ad accertare il grado di completezza delle indagini svolte in sede
preliminare.
In questo caso allora il giudice identificherà analiticamente gli atti da compiere al pubblico ministero: il
dovere di seguire le indicazioni deriva dall’onere posto in capo al p.m. di compiere in modo completo le
indagini.
La vincolatività delle indicazioni del giudice è confermata indirettamente dalla facoltà di avocazione delle
indagini riconosciuta al procuratore generale. In tal caso il procuratore generale assume le funzioni del
pubblico ministero sostituito e non sarà vincolato alle precedenti conclusioni di questo, che vengono
automaticamente caducate. Ha anche il potere di chiedere la sentenza di non luogo a procedere al posto
del rinvio a giudizio, ma non l’archiviazione.
Quanto alla durata e alla natura: il periodo di durata è indicato dal giudice, il quale non può concedere
proroghe. La natura si pone in una prospettiva di integrazione del materiale già acquisito.
Laddove il giudice fissi un termine per la conclusione delle indagini e uno per l’udienza, gli atti dovranno
essere depositati entro la conclusione delle indagini integrativa. Mentre se il giudice stabilisce un unico
termine sia per la conclusione che per l’udienza, allora gli atti dovranno essere depositati immediatamente
man mano che vengono formati nella cancelleria del giudice.
Una volta terminate le indagini integrative, il pubblico ministero si presenta nuovamente al giudice per
esibire gli elementi raccolti e ottenere una pronuncia in ordine alla sua originaria richiesta. Gli elementi
dovranno essere comunque vagliati non potendo prescindere dal principio di legalità della prova.

Integrazione probatoria (art. 422): il presupposto che consente al giudice di accedere al supplemento
probatorio deriva sia da una situazione alla conclusione della discussione, sia da una situazione in
conclusione alle indagini integrative. Il giudice può disporre, anche d’ufficio, l’assunzione delle prove
delle quali appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere, in un’ottica di
favor rei.

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Si acquistano prove che si ipotizzano determinanti per la pronuncia di una sentenza di non luogo a
procedere.
Il giudice, se non è possibile procedere immediatamente all’assunzione delle prove, fissa la data della
nuova udienza e dispone la citazione dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici e delle persone indicate
nell’articolo 210 di cui siano stati ammessi l’audizione o l’interrogatorio. L’assunzione immediata è
quando le persone da sentire sono già presenti.
Sotto il profilo dell’ammissione delle prove, non è più previsto che il giudice indichi temi nuovi o
incompleti sui quali le parti raccolgano prove decisive a carico o a discarico. Il giudice può ora disporre,
su richiesta o anche d’ufficio, soltanto l’ammissione di prove decisive a discarico.
Il criterio qualitativo di ammissione delle prove si concretizza nella evidente decisività ai fini della
pronuncia della sentenza di non luogo a procedere e si risolve in una sorta di presunzione di irrilevanza di
prove diverse da quelle che appaiono decisive per raggiungere il proscioglimento.
L’assunzione è affidata al giudice dell’udienza preliminare, mentre il pubblico ministero e i difensori
possono soltanto porre domande suo tramite. Dopo l’escussione delle prove richieste dalle parti e di quelle
ammesse d’ufficio, l’imputato può domandare di essere sottoposto a interrogatorio, cui il giudice sarà
tenuto a dare corso.
Dopo aver assunte le prove, il pubblico ministero e i difensori formulano e illustrano le loro conclusione,
ponendo il giudice nella condizione di emettere un provvedimento. Sul presupposto che le prove da
raccogliere dovrebbero risultare decisive ai fini della sentenza di non luogo a procedere, l’esito naturale
dell’udienza preliminare, con supplemento probatorio, dovrebbe essere l’emissione di una sentenza di
proscioglimento. Tuttavia può accadere come le prove assunte non abbiano l’effetto desiderato e che
quindi il giudice emetta un decreto che dispone il giudice.

Epilogo dell’udienza preliminare

Sentenza di non luogo a procedere


L’art. 425 afferma che se sussiste una (1) causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva
essere iniziata o non deve essere proseguita, (2) se il fatto non è previsto dalla legge come reato ovvero quando risulta
che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che si tratta di
persona non punibile per qualsiasi causa (incapacità del soggetto, infermo di mente), il giudice pronuncia
sentenza di non luogo a procedere, indicandone la causa nel dispositivo.
Il giudizio che viene fatto è di tipo prognostico, cioè deve cercare di capire se questi elementi potrebbero
avere uno sviluppo processuale tale da portare su un percorso diverso. Infatti si trova di fronte ad elementi
investigativi e non prove.
Il comma 2. Si è una fase di snodo e ci si trova davanti ad una sentenza di carattere processuale, tuttavia il
legislatore prevede che il giudice debba tenere in considerazione anche le circostanze attenuanti (diviene
così una valutazione di merito molto approfondito, tutte situazioni che possono essere tenute in
considerazione solo nella fase dibattimentale). È di dubbio inserimento questo comma: per di più l’art. 69
fa riferimento al bilanciamento di attenuanti o aggravanti e dunque ha un occhio alla pena che dovrà essere
comminata. In sostanza non ha una valenza importante.
Il comma 3. Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti
risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio. Qui si ha
la vera sostanza dell’udienza preliminare, perché si capisce a cosa serve: cioè a capire se gli elementi se
sono stati raccolti si contraddicono tra loro, non sono sufficienti a sostenere l’accusa o non idonei. È una
valutazione di natura processuale: «sostenere l’accusa in giudizio».

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Il comma 4. Il giudice non può pronunciare sentenza di non luogo a procedere se ritiene che dal
proscioglimento dovrebbe conseguire l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca. Qui
c’è un valutazione di pericolosità data dall’imputato. Si dovrà andare al dibattimento, poi allora si potrà
emettere una sentenza di proscioglimento e l’adozione di una misura di sicurezza personale.
Quali sono i requisiti della sentenza?
La sentenza contiene:
a) L’intestazione «in nome del popolo italiano» e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata;
b) Le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo nonché le
generalità delle altre parti private;
c) L’imputazione;
d) L’esposizione sommaria dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata. È una decisione che
viene adottata in maniera sommaria e più delle volte non c’è una fase istruttoria. Bisogna indicare i
criteri che il giudice ha seguito per giungere alla decisione;
e) Il dispositivo, con l’indicazione degli articoli di legge applicati;
f) La data e la sottoscrizione del giudice.
È la conseguenza di un’udienza nella quale viene adottata una decisione allo stato degli atti.

Decreto che dispone il giudizio


È volto a realizzare la chiamata in giudizio dell’imputato. Se si legge il meccanismo con il quale si arriva,
al dibattimento si arriva con un decreto, cioè un provvedimento meno importante. Decreto infatti visto
come un semplice provvedimento che ordina che dà un impulso processuale, ma qui lo si vede come la
rappresentazione di un ultimo atto che chiude parte di un procedimento (nel codice del 1930, tutta la fase
investigativa si concludeva con una sentenza di rinvio a giudizio, con la quale ci si presentava dinanzi al
giudice del dibattimento; in seguito un’ordinanza; mentre oggi un decreto. Ma perché? C’è stata
un’assoluta evoluzione del sistema processuale, nel senso che un tempo tutti gli elementi investigativi che
venivano accolti, erano utilizzati in dibattimento e che pertanto la forza era solo quella preliminare [non
vi era un contraddittorio]. Dunque c’era una decisione che aveva una forza persuasiva anche nel
dibattimento, data l’importanza che avevano avuto la fase processuale preliminare. Oggi si va nella
direzione opposta, dove ogni fase ha una sua autonomia, anche la fase precedente si deve concludere con
un provvedimento che non deve andare a minare la verginità mentale del giudice. Differenza tra sentenza
e decreto: la prima molto lunga con la descrizione dei motivi di diritto, il decreto molto breve e di poche
righe, quindi la prova dovrà risultare dal dibattimento).
Se non ci fosse stato il decreto, lo stampo accusatorio sarebbe stato omesso e l’intero procedimento sarebbe
stato svolto solo nell’ambito delle investigazione senza la garanzia del contraddittorio. Con la disposizione
del decreto viene preservata la neutralità metodologica del giudice perché rispetto ad una sentenza c’è un
decreto, provvedimento che è l’ultimo tassello va a completare quel percorso costellato di atti volti a porre
in essere quel principio di conoscibilità dell’accusa. Questo ricalca la richiesta di rinvio a giudizio.
Esso contiene:
a) Le generalità dell’imputato e le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo nonché le
generalità delle altre parti private, con l’indicazione dei difensori;
b) L’indicazione della persona offesa dal reato qualora risulti identificata;
c) L’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che
possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di
legge;

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d) L’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono (esame di persone
informate di fatti, intercettazioni compiute, ecc.);
e) Il dispositivo, con l’indicazione del giudice competente per il giudizio;
f) L’indicazione del luogo, del giorno e dell’ora della comparizione, con l’avvertimento all’imputato che
non comparendo sarà giudicato in assenza;
g) La data e la sottoscrizione del giudice e dell’ausiliario che l’assiste.
È l’atto con il quale l’imputato è chiamato in dibattimento, ricorrendo dunque alla mancata citazione
dell’imputato prevista dalla nullità assoluta. Infatti il decreto è nullo se l’imputato non è identificato in
modo certo ovvero se manca o è insufficiente l’indicazione di uno dei requisiti previsti dal comma 1 lettere
c) e f).
Inoltre deve essere notificato per lo meno 20 giorni prima.

Vicende collegate alla sentenza di non luogo a procedere

Cosa può succedere nei confronti della sentenza di non luogo a preocedere? Ricorso per cassazione e
revoca.
1. L’unica impugnazione esperibile nei confronti della sentenza di non luogo a procedere è il ricorso per
cassazione, da proporre nel termine di 15 giorni, salvo i casi in cui il fatto non sussiste e l’imputato non lo
ha commesso. Perché? Qui manca l’interesse ed è un interesse diretto, concreto e attuale e riconosciuto
dal codice, che qui si presume che non vi sia. Interesse che è valutato per migliorare la sentenza di
condanna col gravame o in base alla difesa in caso di costituzione di parte civile della persona offesa.
Tra i soggetti legittimati vi sono il procuratore generale, il procurato della repubblica presso il tribunale e
l’imputato, nonché la persona offesa.
Rispetto alla posizione dell’imputato prosciolto dal giudice dell’udienza preliminare, la proposizione del
ricorso per cassazione risulta condizionata dalla circostanza che il proscioglimento non sia avvenuto per
insussistenza o non commissione del fatto.
2. Nei confronti di queste sentenze è possibile anche la revoca. Se dopo la pronuncia di una sentenza di
non luogo a procedere sopravvengono o si scoprono nuove fonti di prova che, da sole o unitamente a
quelle già acquisite, possono determinare il rinvio a giudizio, il giudice per le indagini preliminari, su
richiesta del pubblico ministero, dispone la revoca della sentenza.
Nella richiesta di revoca il pubblico ministero indica le nuove fonti di prova, specifica se queste sono già
state acquisite o sono ancora da acquisire e richiede, nel primo caso, il rinvio a giudizio e, nel secondo, la
riapertura delle indagini. E gli atti devono essere trasmessi al giudice.
Il giudice, se ritiene la richiesta ammissibile, designa un difensore all’imputato che ne sia privo, fissa la
data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso al pubblico ministero, all’imputato, al
difensore e alla persona offesa. Il procedimento si svolge nelle forme previste dall’articolo 127.
Sulla richiesta di revoca il giudice provvede con ordinanza. Quando revoca la sentenza di non luogo a
procedere, il giudice, se il pubblico ministero ha chiesto il rinvio a giudizio, fissa l’udienza preliminare,
dandone avviso agli interessati presenti e disponendo per gli altri la notificazione; altrimenti ordina la
riapertura delle indagini, allorché le nuove fonti di prova non siano state ancora acquisite. Con l’ordinanza
di riapertura delle indagini, il giudice stabilisce per il loro compimento un termine improrogabile non
superiore a 6 mesi. Entro la scadenza del termine, il pubblico ministero, qualora sulla base dei nuovi atti
di indagine non debba chiedere l’archiviazione, trasmette alla cancelleria del giudice la richiesta di rinvio
a giudizio.

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È un istituto particolare perché può essere attivato dal p.m. e l’ammissione è data dal giudice. È fatto uso
quando vengono trovate nuove prove o valorizzate nuove prove non sufficientemente utilizzate.

Vicende successive al decreto che dispone il giudizio: formazione dei fascicoli processuali

Tutti gli atti compiuti vengono inseriti all’interno del fascicolo del pubblico ministero. Non ha una
consistenza e può essere di vario tipo. Questo viene depositato con la richiesta di rinvio a giudizio. Viene
poi messo a disposizione delle parti.
Al termine dell’udienza il giudice deve formare il fascicolo per il dibattimento (art. 431). Immediatamente
dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio, il giudice provvede nel contraddittorio delle parti
alla formazione del fascicolo per il dibattimento. Se una delle parti ne fa richiesta il giudice fissa una nuova
udienza, non oltre il termine di 15 giorni, per la formazione del fascicolo.
Il contraddittorio comporta un controllo preventivo sulla selezione degli atti, volto a evitare un
appesantimento della fase dibattimentale per questioni collegate alla composizione del fascicolo. Le parti
assenti alla formazione del fascicolo possono comunque discutere le decisioni adottate, contestando
l’erroneo inserimento nel fascicolo dibattimentale di un atto che non avrebbe dovuto esservi incluso sia il
mancato inserimento di un atto che avrebbe invece dovuto confluirvi.
Nel fascicolo per il dibattimento sono raccolti: (a) gli atti relativi alla procedibilità dell’azione penale e
all’esercizio dell’azione civile; (b) i verbali degli atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria; (c) i
verbali degli atti non ripetibili compiuti dal pubblico ministero e dal difensore; (d) i documenti acquisiti
all’estero mediante rogatoria internazionale e i verbali degli atti non ripetibili assunti con le stesse
modalità; (e) i verbali degli atti assunti nell’incidente probatorio; (f) i verbali degli atti, diversi da quelli
previsti dalla lettera (d), assunti all’estero a seguito di rogatoria internazionale ai quali i difensori sono
stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana; (g) il certificato
generale del casellario giudiziario e gli altri documenti indicati nell’articolo 236; (h) il corpo del reato e le
cose pertinenti al reato, qualora non debbano essere custoditi altrove.
Anche se tale elencazione è da ritenersi tassativa, è previsto che le parti possano concordare l’acquisizione
al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonché della
documentazione relativa all’attività di investigazione difensiva. La ratio sottostà alla valorizzazione del
potere dispositivo delle parti, seguendo così una concezione logica di ispirazione accusatoria che tende a
esaltare la volontà del singolo all’interno del procedimento. Si tratta del cd. patteggiamento sulla prova.
La genericità che caratterizza il testo della disposizione fa presumere che qualsiasi atto compiuto o raccolto
nel corso delle indagini o dell’udienza preliminare sia suscettibile di entrare nel fascicolo del dibattimento,
con esclusione di quelli viziati da inutilizzabilità fisiologica o da nullità a regimo assoluto.
Il fascicolo del pubblico ministero (art. 433) invece è composta da tutti gli atti diversi da quelli previsti
dall’articolo 431, dagli atti acquisiti all’udienza preliminare, nonché dal verbale dell’udienza preliminare
ed, eventualmente, dalla documentazione relativa all’attività integrativa d’indagine compiuta dal
pubblico ministero e dal difensore dell’imputato, ed è altresì inserita la documentazione utilizzata dalle
parti per formulare richieste al giudice del dibattimento.

Indagini integrative (art. 430)


Sono volte ad assicurare la continuità investigativa volta al reperimento di ulteriori fonti di prova anche
negli spazi processuali contenuti tra la richiesta di rinvio a giudizio e l’inizio della fase dibattimentale:
infatti, successivamente all’emissione del decreto che dispone il giudizio, il pubblico ministero e il
difensore possono, ai fini delle proprie richieste al giudice del dibattimento, compiere attività integrativa

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di indagine, fatta eccezione degli atti per i quali è prevista la partecipazione dell’imputato o del difensore
di questo.
La documentazione relativa all’attività è immediatamente depositata nella segreteria del pubblico
ministero con facoltà delle parti di prenderne visione e di estrarne copia.
Si distinguono da quelle disposte dal p.m. viste a suo tempo, perché qui si tratta di una fase volta al
dibattimento. Sono poste alcune limitazioni a queste indagini: non possono essere compiute quelle attività
in cui non possono partecipare l’imputato e il difensore. Quelle suppletive sono funzionali
all’accoglimento della richiesta di rinvio a giudizio, le seconde riguardo alle richieste dibattimentali.
Questi atti devono essere garantiti, infatti seguono un regime di pubblicità nei confronti delle controparti
che scatta immediatamente dopo il compimento dell’atto. Questo deve poi essere depositato nella
segreteria del p.m. o del difensore.

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CAPITOLO III – PROCEDIMENTI SPECIALI

Il libro VI li introduce. Essi danno una «alternativa» al percorso ordinario che è volta e sorretta da profili
di economia processuale.
L’idea era quella di cercare i riti alternativi e speciali per i procedimenti di più difficile accertamento:
laddove non vi siano evidenze probatorie a carico dell’indagato, all’esito delle indagini, ma sufficienti, si
procede con il rito ordinario; altrimenti con i procedimenti speciali.
Ciò che li caratterizza è la prova a carico dell’indagato. Qui c’è il ruolo della parte, cioè può manifestare il
proprio consenso e modificare il percorso processuale in forza del quale si arriva all’accertamento della
responsabilità a suo carico.
Non è solo l’eliminazione di una parte del processo ma anche una perdita di garanzie processuali: ci si
trova davanti al principio di adeguatezza tra struttura e funzione in forza del quale le formule del rito si
improntano sul risultato, cioè su quella che è la rilevanza della fattispecie che costituisce il processo in
funzione della gravità delle conseguenza che ne possono derivare e dall’altra parte della difficoltà del
giudizio.
In questa cornice il legislatore ha rinunciato a un modello processuale unico: struttura polimorfica del
processo che nel tempo ha dovuto fare i conti con il principio di uguaglianza. Se non ci dovesse essere un
trattamento unitario, si ingesserebbe il sistema processuale; viceversa l’uguaglianza all’interno dell’ambito
processuale non può essere confusa con una pretesa di uniformità di riti per tutti gli imputati e reati.
Contro il canone di ragionevolezza, la situazione differenziata va comunque a permettere un minimo di
garanzie. Infatti è sempre rispettato un livello minimo di garanzia in linea del giusto processo, anche
perché non si deve dimenticare che buona parte di questi riti speciali sono frutto di una manifestazione
volontaria dell’imputato e del pubblico ministero.
Anche nel codice del ‘30 erano previsti alcuni, come il giudizio immediato (si applicava nel momento del
compimento di un reato in diretta: es. falsa testimonianza in giudizio).
Di recente è stata inserita la sospensione con messa alla prova, sperimentate nel processo minorile.
1. Un primo tipo di classificazione potrebbe derivare in termini di presupposti: si ha una serie di riti che
si basano su presupposti di natura soggettiva e altri su natura oggettiva. I primi nascono dalla scelta
volontaria di una o entrambe le parti (patteggiamento); i secondi provano il carattere o nel limitato disvalore o
eventualmente nella evidenza probatoria dell’ipotesi delittuosa processuale (giudizio direttissimo, giudizio
immediato). Accanto a questi, c’è una terza categoria, più specifica, nella quale sono combinati i
presupposti soggettivi ed oggettivi: si tratta del giudizio direttissimo, che richiede una sorta di evidenza
probatoria che tuttavia non ha trovato fondamento all’interno dell’arresto in flagranza (cioè non è stato
convalidato l’arresto) ma c’è il consenso delle parti e quindi si procede. Si mescolano i due caratteri.
2. Una seconda classificazione è fatta in relazione alla funzione posta in essere dai riti e abbiamo una
funzione volta ad accelerare i tempi del dibattimento e una funzione volta in un’ottica deflattiva e riduttiva
del dibattimento (natura acceleratoria e deflattiva). Dunque nel primo gruppo si trova il giudizio
direttissimo e immediato; nei secondi giudizio abbreviato, procedimento per decreto, oblazione,
patteggiamento. In quest’ottica la sospensione del procedimento con messa alla prova.
3. Una terza fa riferimento al requisito della premialità (natura premiale). Si risolverà in uno sconto di
pena riconducibile al fatto che scegliendo un rito speciale si determina un’economia temporale all’interno
del processo. Giudizio abbreviato, procedimento per decreto, oblazione, patteggiamento.
Inoltre, tra questi si fa una sotto-distinzione: premiali negoziali e consensuali. I primi si caratterizzano per
la presenza di un accordo tra le parti (patteggiamento); i secondi si caratterizzano per il fatto che è

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sufficiente l’iniziativa assunta da una sola parte, dovendo considerare il consenso dell’altra parte implicito
(procedimento per decreto).
4. Un’ultima classificazione prende origine dalla natura criminosa dei reati.

Giudizio abbreviato (artt. 438-443)

Premiale, deflativo dell’udienza preliminare.


È nato come un procedimento «allo stato degli atti» in funzione deflativa del dibattimento, cioè un rito
che deve svolgersi in sede di udienza preliminare, che si trasforma da sede di controllo a sede di controllo
di merito, e che infine deve rendere conto della responsabilità dell’imputato senza arrivare al dibattimento.
Allo stato degli atti perché si sceglie di essere giudicati sulla base degli elementi probatori raccolti durante
le indagini preliminari, che si trasformano in veri e propri elementi di prova (questa manifestazione di
volontà di accedere al rito abbreviato trasforma l’elemento investigativo in elemento di prova e di
consentire al gup di decidere sulla responsabilità).
Inizialmente occorreva sia la richiesta dell’imputato che il consenso del p.m., il quale poteva così esprimere
il suo veto, dopo aver valutato gli atti e rilevato che la decisione poteva venire allo stato degli atti. Ora
invece tale consenso non è più previsto da che con il tempo si era notato che il rito abbreviato era poco
utilizzato, appunto per il vincolo del p.m. che poteva porre il suo veto. Con la legge del 1999, dopo aver
introdotto l’integrazione delle indagini, è stato modificato anche il rito abbreviato eliminando il consenso
del p.m.
Il giudizio abbreviato è dunque avviato a richiesta dell’imputato il quale, fatti salvi gli art. 438 comma 5
(richiesta di giudizio condizionato ad un’integrazione probatoria o rito condizionato) ovvero all’art. 441
comma 5 (assunzione d’ufficio di prove da parte del giudice che non ritiene di poter decidere allo stato
degli atti), chiede che il giudizio sia definito dal giudice nell’udienza preliminare sulla base del materiale
esistente al momento della sua richiesta.
In base a tale elemento, che dà estrinsecazione al consenso richiesto dall’art. 111 comma 5 Cost., l’imputato
gode dello sconto di un terzo della pena che concretamente il giudice riterrà di applicare, dopo aver tenuto
conto di tutte le circostanze.
Da un punto di vista fattuale, il giudizio abbreviato è «il rito dei grandi colpevoli o grandi processi».
La richiesta può essere a mezzo dell’imputato o del difensore per mezzo di procura speciale ad hoc, perché
si tratta di un atto personalissimo. Può avanzare la richiesta entro termini predefiniti: cioè (1) dentro il
termine in cui non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422 (prima dell’inizio della
discussione). La difesa può però optare per questa via (2) anche dopo aver sentito le conclusioni dell’accusa
nonché pure in seguito all’attività di integrazione probatoria disposta d’ufficio dal giudice. Il giudice
dispone con ordinanza ed è sufficiente la sola manifestazione di volontà dell’imputato.
Inoltre, secondo la Corte costituzionale, il rito abbreviato potrà essere richiesto anche nel (3) corso del
dibattimento relativamente al fatto diverso, ad una circostanza aggravante e al reato concorrente contestato,
emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale ovvero quando la nuova contestazione concerne un fatto
che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale.
Il contenuto della domanda dell’imputato può essere duplice: una richiesta «secca» di giudizio allo stato
degli atti (comma 1), ed una «condizionata» all’assunzione di taluni mezzi di prova che dovranno essere
indicati nella richiesta unitamente alle circostanze su cui dovranno vertere (comma 5). Se nel primo caso
può essere sufficiente un vaglio di ammissibilità sotto il profilo del rispetto della forma e dei tempi della
domanda, nella seconda al giudice è richiesto un controllo sul merito della richiesta, rapportato alle
finalità del rito contratto e cioè dovrà essere valutata la necessità per la decisione delle prove richieste e la

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loro compatibilità con l’economia processuale che l’assunzione determinerebbe rispetto allo sviluppo
ordinario del processo.
Nel momento in cui l’imputato richiede un rito abbreviato condizionato all’assunzione degli elementi delle
prove, il legislatore tutela il p.m. consentendo di richiedere l’ammissione di una prova contraria. Anche in
questo caso i termini sono i medesimi.
Il giudice non è obbligato a disporre il giudizio abbreviato, ma può rigettare la richiesta quando:
- Le prove richieste sono ritenute irrilevanti o inammissibili;
- L’assunzione delle prove determinerebbe un appesantimento dell’udienza, incompatibile con la
natura del rito abbreviato.
Se, invece, la richiesta viene accolta e così anche l’integrazione probatoria, il p.m. può richiedere la prova
contraria.
Valutata l’ammissibilità della domanda, nonché, in caso di abbreviato condizionato, il suo fondamento, il
giudice disporrà con ordinanza il giudizio abbreviato. Lo svolgimento del giudizio abbreviato osserva,
in quanto applicabili, le disposizioni previste per l’udienza preliminare, fatta eccezione per quelle di cui
agli articoli 422 e 423 che trattano, rispettivamente, l’attività di integrazione probatoria e la modifica
dell’imputazione. Inoltre la presenza dell’imputato non è obbligatoria, mentre è necessaria quella del
difensore e del pubblico ministero; il giudizio si svolge in camera di consiglio, salvo che ne facciano
richiesta tutti gli imputati; all’esito della discussione, esaminato il fascicolo processuale, il giudice dovrà
valutare se il processo è definibile allo stato degli atti (e se così non fosse dovrebbe agire o su impulso di
parte o d’ufficio per assumere gli elementi necessari ai fini della decisione, acquisibili con le forme previste
dall’udienza preliminare e non dibattimentale). E nelle stesse forme nel caso di richiesta di giudizio
abbreviato condizionato.
Cosa succede nel caso in cui ci sia una significativa variabile nello svolgimento del rito che modifichi
l’imputazione? In questo caso ci sono due vie: l’imputato chiede che il procedimento prosegua nelle forme
ordinarie, ovvero il procedimento prosegua nelle forme del giudizio abbreviato.
Se si segue la prima strada (prosecuzione nelle forme ordinarie), l’ordinanza che aveva disposto il rito è
revocata e il giudice dovrà fissare la data per l’udienza preliminare o quella per la sua eventuale
prosecuzione. Il giudice potrà poi utilizzare per la decisione gli atti compiuti, risultando questi equiparati
a quelli da lui assunti. Il giudice, su istanza dell’imputato o del difensore, assegna un termine non
superiore a 10 giorni, per la prosecuzione del processo nelle forme ordinarie ovvero per l’integrazione
della difesa, in relazione alle quali al pubblico ministero è ammessa la prova contraria, e sospende il
giudizio per il tempo corrispondente. La mancata richiesta di trasformazione comporta la continuità del
giudizio abbreviato con la nuova imputazione: ai fini di questa decisione è disposto il termine di 10 giorni.
Se si segue la seconda strada, la continuazione del procedimento con il giudizio abbreviato dovrà
integrarsi anche con questi elementi individuati.
Una volta espletata l’eventuale attività probatoria e terminata la discussione, il giudice emetterà sentenza.
In caso di condanna, il giudice provvederà ad applicare la riduzione di pena che connota la premialità del
rito de quo.
Le decisioni dovranno essere assunte dallo stesso giudice che ha ammesso il rito contratto; in caso di
mutamento della persona del giudice, dopo la pronuncia dell’ordinanza, il nuovo giudice sarà libero di
prendere le proprie determinazioni anche in punto di ammissibilità.
Importanza nel giudizio abbreviato è data anche alla parte civile, che dovrà decidere se accettare o meno
il rito disposto dal giudice su richiesta dell’imputato. Allora si aprono due strade: se questa aderisca al rito
ne resta parte a tutti gli effetti; nel caso in cui non presti la sua adesione, allora ne dovrà dare

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manifestazione formale, attraverso la revoca della costituzione del processo, trasferendo la sua pretesa in
sede civile.

Quanto riguarda ai rapporti tra giudizio abbreviato e le misure cautelari, la legge Carotti del 2000 ha reso
più agevole il ricorso al giudizio abbreviato e, la previsione di un giudizio abbreviato con integrazione
probatoria, ha portato ad un allungamento della durata di tale giudizio. In questo modo vi era il rischio
che, nel tempo necessario per compiere tali attività, in processi con detenuti, potessero scadere i termini
massimi di custodia che erano quelli delle indagini preliminari. La legge 144/2000 ha modificato i termini
raddoppiandoli.
La misura custodiale decade, e quindi si procede a scarcerazione automatica, se non si è arrivati alla
sentenza entro i termini previsti che decorrono dall’ordinanza che ammette il giudizio abbreviato e non
dall’inizio dell’esecuzione della misura.

Impugnazione
All’esito dell’udienza, il giudice emette la sentenza di assoluzione o di condanna, che deve essere notificata
all’imputato che non sia comparso.
La sentenza può essere impugnata tramite appello e ricorso in cassazione. Per quest’ultimo non vi sono
limiti al ricorso in cassazione. Per quanto riguarda l’appello, invece, si prevede che l’imputato non può
proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, salvo quando questo sia stato disposto perché
l’imputato non è imputabile per totale infermità di mente, ma può appellare le sentenza di condanna, con
eccezione della sola pena dell’ammenda.
Si prevede altresì che il pubblico ministero non può proporre appello contro le sentenze di condanna,
salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato, ma può proporre appello contro le sentenza
di proscioglimento.
La parte civile potrà appellare se ha accettato il rito.
Il giudizio di appello si svolgerà con il rito della camera di consiglio.
In particolare. Nel caso di rito abbreviato condizionato, oltre alla possibile rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale effettuata in primo grado, l’imputato dovrebbe poter sollecitare l’assunzione delle prove
richieste con la domanda e non assunte dal giudice; al pubblico ministero sarà poi riconosciuta la prova
contraria.
Nel caso di rito abbreviato secco, la rinnovazione dovrebbe ammettersi solo nei limiti di quanto è già stato
disposto in prima istanza (cioè dopo aver assunto gli elementi necessari ai fini della decisione) e
l’integrazione dovrebbe essere consentita sulla base di quanto il giudice d’appello negli stessi termini
riterrà necessario per la decisione.

Efficacia della sentenza


L’efficacia della sentenza emessa nel giudizio abbreviato acquisisce i caratteri dell’irrevocabilità, cioè avrà
efficacia di giudicato nei giudizi civili o amministrativi di danno nonché a quelli del giudizio disciplinare.
Ha dunque valore di giudicato, come una sentenza dibattimentale.

Rito abbreviato atipico


C’è il rischio che i riti acceleratori come il giudizio direttissimo e il giudizio immediato, o quelli deflativi
come i procedimenti per decreto rischierebbero di precludere all’imputato la scelta del rito abbreviato. In
questo senso il legislatore ha previsto la possibilità che tale tipo di procedimento speciale possa essere

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richiesto anche dopo l’instaurazione del giudizio direttissimo, del giudizio immediato o anche al momento
dell’opposizione al decreto penale di condanna.
La logica è che, essendo un istituto forte, laddove vi sia una preclusione al giudizio determinata dalla
richiesta di un rito differente dal p.m., l’imputato deve comunque essere tutelato e gli deve essere data la
facoltà di procedere al rito abbreviato.
Nella prassi si riscontra anche l’ipotesi che la difesa accetta il giudizio sulla base del materiale d’accusa in
cambio di un favorevole giudizio di comparazione delle circostanze, suscettibile di determinare uno sconto
di un terzo della pena.

Applicazione della pena su richiesta delle parti o patteggiamento (artt. 444-448)

Rito premiale, deflativo dell’udienza preliminare.


L’art. 444 esordisce affermando che l’imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice
l’applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria,
diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita
fino a un terzo, non supera 5 anni soli o congiunti a pena pecuniaria.
Nella struttura di tale procedimento è stato introdotto il patteggiamento allargato (da 2 a 5 anni di pena
detentiva sola o congiunta a pena pecuniaria) che ha ampliato la sfera delle situazioni suscettibili di
accordo tra le parti, ridimensionando i vantaggi processuali propri del rito che restano fermati per il solo
modulo originario.
Il patteggiamento non si applica ad alcuni procedimenti: (1) davanti al giudice di pace; (2) processo
minorile; (3) procedimento a carico degli enti, ma solo per gli illeciti diversi dalla pena pecuniaria.
Inoltre sono al di fuori del raggio di operatività di tale procedimento alcuni reati carichi di allarme sociale,
come i delitti di criminalità organizzata, o di terrorismo o determinati delitti gravi specificati, nonché
particolari posizioni soggettive (delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o i recidivi).
Il rito si muove da:
- Una richiesta dell’imputato o del pubblico ministero, accolta dall’altra parte;
- Un loro accordo (imputato e pubblico ministero) che viene indirizzato al giudice per una definizione
anticipata del processo sulla base di una pena determinata dalle stesse parti, nella specie e nella
quantità.
Che si proceda per la prima strada o per la seconda resta necessario il rispetto del principio di legalità,
nella valutazione delle condizioni che ammettono ovvero escludono il rito.
In presenza dell’accordo, qualora non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma
dell’articolo 129, il giudice disporrà immediatamente con sentenza l’applicazione, ma solo dopo aver
valutato una corretta qualificazione giuridica del fatto, l’applicazione e la comparazione delle circostanze
prospettate dalle parti e la congruità della pena. Vi è insomma una valutazione circa la (1) presenza di
condizioni formali e sostanziali per l’accesso al rito, circa la (2) congruità della pena proposta alla luce di
quanto previsto dall’art. 27 comma 3 Cost. e la (3) verifica della qualificazione giuridica prospettata.
Alla presentazione della richiesta è correlato un termine, che si differenza a seconda dei diversi tipi di
procedimenti speciali:
- La richiesta può essere formulata nell’udienza preliminare fino alla presentazione delle conclusioni;
- Fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo;
- Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine di 15 giorni
dalla notificazione del decreto del relativo giudizio;
- Nel procedimento per decreto la richiesta va presentata con l’opposizione;

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- È possibile richiederla in dibattimento nel caso di contestazione di un fatto diverso, di una circostanza
aggravante o di un reato concorrente;
- In caso di rito monocratico deve essere richiesta prima della dichiarazione di apertura del
dibattimento.
La volontà dell’imputato, vista l’importanza notevole dell’atto, deve essere espressa personalmente o
tramite procuratore speciale: di fatto, in questo senso, è data facoltà al giudice di ritenere opportuno la
comparizione dell’imputato per verificare la volontarietà della richiesta o del consenso.
Una variabile è costituita quando la richiesta di applicazione della pena sia possibile nel corso delle
indagini preliminari: infatti il giudice, se è presentata una richiesta congiunta o una richiesta con il
consenso scritto dell’altra parte, fissa, con decreto in calce alla richiesta, l’udienza per la decisione,
assegnando, se necessario, un termine al richiedente per la notificazione all’altra parte. Almeno 3 giorni
prima dell’udienza il fascicolo del pubblico ministero è depositato nella cancelleria del giudice.
Se la richiesta è presentata da una parte, il giudice fissa con decreto un termine all’altra parte per esprimere
il consenso o il dissenso e dispone che la richiesta e il decreto siano notificati a cura del richiedente.
È possibile la revoca? Bisogna sempre distinguere a seconda che si tratti di accordo o richiesta. La richiesta
può essere revocata o modificata fino a quando non intervenga l’accettazione dell’altra parte. Nel caso in
cui invece la richiesta era stata proposta congiuntamente (accordo), allora questa è revocata qualora, di
comune accordo, sia stata revocata o modificata prima della decisione da parte del giudice.
Quanto alla sentenza, se il giudice risconta che nel corso delle indagini preliminari, nell’udienza
preliminare, nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato ricorrono le condizioni per accogliere la
richiesta pronuncia, immediatamente sentenza.
Nel caso di dissenso da parte del pubblico ministero o di rigetto della richiesta da parte del giudice per le
indagini preliminari, l’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado,
può rinnovare la richiesta e il giudice, se la ritiene fondata, pronuncia immediatamente sentenza (la
richiesta non è ulteriormente rinnovabile dinanzi ad altro giudice). Nello stesso modo il giudice provvede
dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel giudizio di impugnazione quando ritiene
ingiustificato il dissenso del pubblico ministero o il rigetto della richiesta.
La sentenza patteggiata è inappellabile, tuttavia in caso di dissenso del pubblico ministero e di
applicazione della pena in primo grado la sentenza sarà appellabile da parte dell’ufficio di procura.
Rimane comunque ricorribile per cassazione.

Riguardo l’applicazione della pena su richiesta delle parti, è necessario soffermarsi un poco sul carattere
della premialità, sugli effetti relativi all’azione civile inserita nel processo penale e le esclusioni delle
ricadute del giudicato in altri procedimenti.
Le connotazioni premiali sono riferibili al non pagamento delle spese processuali, alla non applicazione di pene
accessorie e nemmeno delle misure di sicurezza: questo però quando la pena irrogata non superi i 2 anni di
pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria. Non viene applicata altresì la menzione della sentenza nel
certificato generale del casellario giudiziale richiesto dal privato.
Riguardo agli effetti sull’azione civile, se è avvenuta la costituzione di parte civile il giudicato non si
pronuncia sulla domanda, limitandosi a condannare l’imputato al pagamento delle spese sostenute dalla
parte civile, la quale potrà trasferire l’azione in sede civile.
Infine il terzo aspetto riguarda il giudicato, e la pronuncia in seguito al patteggiamento è equiparata ad
una sentenza di condanna. Ma non ha efficacia di giudicato nei giudizi civili o amministrativi.

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Il patteggiamento può essere messo a confronto con il rito abbreviato e subito si riscontra che mentre nel
rito abbreviato si chiede un giudizio nel merito aperto per sua natura ad una prospettiva di
proscioglimento come di condanna, nell’applicazione della pena su richiesta delle parti si chiede un
giudizio sulla correttezza della pena su cui è stato raggiunto l’accordo e la domanda delle parti può essere
accolta o rigettata ma non modificata dal giudice.
Ecco allora il motivo della sussistenza della terminologia di patteggiamento sul rito (in caso di giudizio
abbreviato) in quanto l’imputato sceglie se essere giudicato nel merito oppure tramite rito contratto; in
caso di applicazione di pena su richiesta delle parti, si fa invece riferimento a un patteggiamento sulla pena.
Comuni ad entrambi i riti è la finalità deflativa dell’udienza preliminare, del dibattimento di primo grado.
Ulteriore distinzione è che il patteggiamento è un rito consensuale, fatta salva la verifica dell’ingiustificato
dissenso.
Una differenza è ravvisabile anche nella natura delle decisioni: nel caso di rito abbreviato, il giudice
provvede a norma dell’art. 529 e seguenti; nel caso di patteggiamento, ove non vi sia l’applicazione dell’art.
129, si determinerà la pronuncia di una sentenza la cui natura può definirsi ibrida, risultando omologabile
ad una decisione di condanna nei limiti in cui la legge espressamente le attribuisca questa connotazione.

Giudizio direttissimo (artt. 449-452)

C’è un’evidenza delle prove a carico dell’imputato massima. Il tratto essenziale è visibile nella sua natura
acceleratoria, deflativa dell’udienza preliminare, con una fase delle indagini circoscritta o contratta ed un
dibattimento rapido ed agile: sistema acceleratorio perché costituisce una risposta dello stato veloce in
ordine a quelle situazioni di grave allarme sociale.
Non si tratta comunque di un rito premiale.
All’interno del giudizio direttissimo si possono trovare diverse sfumature: il rito in esame infatti può
essere obbligatorio (art. 449 comma 4 e 5), ovvero facoltativo (art. 449 comma 1), ovvero consensuale,
ovvero atipico.
I casi in cui il giudizio direttissimo può essere applicato sono disciplinati dunque all’art. 449 e sono tre:
stato di flagranza (o quasi flagranza), confessione e consenso.
1. La prima ipotesi (art. 449 comma 1). Stato di flagranza e stato di quasi flagranza, laddove il p.m. ritenga
di procedere, può presentare direttamente l’imputato davanti al giudice del dibattimento, per la convalida
dell’arresto e il contestuale giudizio direttissimo, entro 48 ore dall’arresto. Questa ipotesi costituisce un
esercizio facoltativo del giudizio direttissimo.
Naturalmente al giudizio di convalida si applicano le stesse regole dell’art. 391 (udienza di convalida) che,
riassumendo, può essere ripreso per alcuni punti: (1) l’udienza di convalida si svolge in camera di
consiglio; (2) il pubblico ministero, se comparso, indica i motivi dell’arresto o del fermo e illustra le
richieste in ordine alla libertà personale; (3) il giudice procede quindi all’interrogatorio dell’arrestato o del
fermato; (4) quando risulta che l’arresto o il fermo è stato legittimamente eseguito (osservati anche i
termini), il giudice provvede alla convalida con ordinanza; (5) applicare la misura cautelare se sussistono
i requisiti necessari.
A questo punto si ha un bivio: convalida o non convalida del giudice delle indagini preliminari.
Se l’arresto viene convalidato, si procede immediatamente al giudizio. È necessario, per l’instaurazione
del rito, che con la convalida sia applicata anche la custodia cautelare: solo così sarà possibile contestare
all’imputato presente l’imputazione.
Infine, il comma 3 dell’art. 449 prevede finalmente, in caso di arresto in flagranza o quasi flagranza,
l’ipotesi obbligatoria: dunque consiste nella decisione di procedere a giudizio direttissimo dopo che sia

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avvenuta la convalida (nella prima ipotesi invece si ravvisa l’immediatezza del giudizio dopo la
convalida), se nei 30 giorni successivi il p.m. richiede il giudizio direttissimo e il giudice lo disponga.
Questo sempre che non vi sia stato pregiudizio nelle indagini, ossia per non pregiudicarne la completezza:
ciò perché è un meccanismo che permette al p.m. di compiere ulteriori indagini, senza incorrere in un
pregiudizio circa la loro non esperibilità.
2. La seconda ipotesi prende vita proprio nel caso in cui non vi sia la convalida con o senza applicazione
della custodia cautelare da parte del giudice dibattimentale, ovvero laddove vi sia la convalida ma senza
l’applicazione della custodia cautelare: infatti laddove vi sia il consenso delle parti, il giudizio direttissimo
può fare normalmente il suo corso.
Nel caso in cui l’arresto non sia convalidato, il giudice restituisce gli atti al p.m.; come del resto anche in
caso di convalida senza misura cautelare e mancato accordo.
3. La terza ipotesi (art. 449 comma 5). È il caso in cui la persona indagata abbia reso una confessione nel
corso delle indagini (la confessione è un istituto che non c’è nel codice, nonostante possa avvenire, e si
tratta di una dichiarazione che l’imputato/indagato riferisce perché ha ceduto alla pressione psicologica
del reato ecc.), salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini. Questo fatto consente al p.m. di richiedere
il giudizio direttissimo, anche se l’obbligo di questi a richiederlo è temperato dal pregiudizio del grave
pregiudizio per le indagini. In ogni modo la confessione deve essere valutata alla luce di tutti gli altri
elementi a disposizione e così si parla di confessione corroborata o «vestita».
L’imputato libero è citato a comparire a una udienza non successiva al 30esimo giorno dalla iscrizione nel
registro delle notizie di reato. L’imputato in stato di custodia cautelare per il fatto per cui si procede è
presentato all’udienza entro il medesimo termine. Il termine di 30 giorni è dato per il fatto che serve a
compiere altre indagini nei casi appena delineati (come per esempio quando non si fida della confessione),
che comportino un’attività investigativa di certo tipo. Inoltre, quando una persona è stata allontanata
d’urgenza dalla casa familiare ai sensi dell’articolo 384 bis, la polizia giudiziaria può provvedere, su
disposizione del pubblico ministero, alla sua citazione per il giudizio direttissimo e per la contestuale
convalida dell’arresto entro le successive 48 ore, salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini. In tal
caso la polizia giudiziaria provvede comunque, entro il medesimo termine, alla citazione per l’udienza di
convalida indicata dal pubblico ministero.
Il comma 6 dell’art. 449 continua con il prevedere il caso in cui il reato per cui è richiesto il giudizio
direttissimo risulti connesso con altri reati, ma che per i quali mancano le condizioni che giustificano la
scelta di tale rito. Il codice afferma che si deve procedere separatamente per gli altri reati (per cui manchino
le condizioni) e nei confronti degli altri imputati, salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini. Se la
riunione risulta indispensabile, allora in quel caso si procederà con il rito ordinario. La regola dunque è la
separazione, salvo che se ne richieda la connessione.
Il giudizio direttissimo è un giudizio che si caratterizza per un’assenza non totale di forme e di formalità
rispetto al rito ordinario, pertanto nel momento in cui l’imputato viene arrestato in flagranza o è in stato
di misura cautelare dopo convalida dell’arresto, questi viene condotto direttamente all’udienza. Invece nel
caso in cui questi sia libero, l’imputato è citato a comparire e il termine non può essere inferiore a 3 giorni.
3 giorni per potere preparare la difesa non sono tanti, anche se il principio su cui si basa questo istituto
regge sul fatto che la prova è tanto evidente che le vicende difensive possano essere derogate. Inoltre le
carte processuali messe a disposizione dell’imputato non saranno mai voluminose: questo perché prevede
le ipotesi appena viste e in ogni modo i termini delle indagini non possono superare i 30 giorni con la
conseguenza che il materiale sarà sempre esiguo.
La citazione (per l’imputato libero) contiene i requisiti previsti dall’articolo 429 comma 1 lettera a), b), c),
f), con l’indicazione del giudice competente per il giudizio nonché la data e la sottoscrizione. Si applica

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inoltre la disposizione dell’articolo 429 comma 2. Dunque conterrà: a) le generalità dell’imputato e le altre
indicazioni personali che valgono a identificarlo nonché le generalità delle altre parti private, con
l’indicazione dei difensori; b) l’indicazione della persona offesa dal reato qualora risulti identificata; c)
l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono
comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge; f)
l’indicazione del luogo, del giorno e dell’ora della comparizione, con l’avvertimento all’imputato che non
comparendo sarà giudicato in sua assenza.
Il meccanismo qual è? Il giudice del dibattimento che arriva a decidere dovrà avere a disposizione quegli
atti contenuti nel fascicolo del dibattimento ai sensi dell’art. 431. Dunque con il decreto che dispone il
giudizio, sarà lui (pubblico ministero) che creerà il fascicolo del dibattimento. E sarà trasmesso alla
cancelleria del giudice competente per il giudizio.
Al difensore è notificato senza ritardo a cura del pubblico ministero l’avviso della data fissata per il
giudizio. Il difensore ha facoltà di prendere visione e di estrarre copia, nella segreteria del pubblico
ministero, della documentazione relativa alle indagini espletate.
Rimane tutto in mano al p.m. perché non c’è un giudice dell’udienza preliminare.
Nel momento in cui si arriva al dibattimento nel giudizio direttissimo si osservano le disposizioni degli
articoli 470 e seguenti.
Nella logica di un’assenza di norme, è possibile che possano essere citati, anche oralmente, la persona
offesa e i testimoni. Infatti qui non c’è il diritto delle liste testimoniali, che possa consentire al difensore e
all’imputato, in relazione ai testimoni che ha presentato il pubblico ministero, nella possibilità di avere
una discovery e di conseguenza di potersi regolare per introdurre il proprio testimone. Qui questo non è
possibile: infatti non sono previsti atti preliminari al dibattimento e non ci sono perché si passa
direttamente dalle indagini al giudizio. Appunto per questo i testimoni possono essere portati
direttamente in giudizio senza citazione.
Il pubblico ministero in udienza può contestare l’imputazione all’imputato presente.
Il comma 6, in ultimo, afferma che l’imputato è altresì avvisato della facoltà di chiedere un termine per
preparare la difesa non superiore a 10 giorni. Quando l’imputato si avvale di tale facoltà, il dibattimento
è sospeso fino all’udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine.
L’art. 452 disciplina la trasformazione del rito. Se il giudizio direttissimo risulta promosso fuori dei casi
previsti dall’articolo 449, il giudice dispone con ordinanza la restituzione degli atti al pubblico ministero.
L’accertamento, a differenza del giudizio immediato, avviene nel contraddittorio tra le parti.

L’accesso ai riti premiali


L’eliminazione dell’udienza preliminare potrebbe pregiudicare l’accesso dell’imputato ai riti premiali. A
tal fine, il presidente avvisa l’imputato della possibilità di effettuare le relative richieste (patteggiamento e
rito abbreviato.
Se l’imputato chiede il giudizio abbreviato, il giudice, prima che sia dichiarato aperto il dibattimento,
dispone con ordinanza la prosecuzione del giudizio con il rito abbreviato.
Quanto al patteggiamento, la relativa domanda può essere formulata fino all’apertura del dibattimento.
Fino all’apertura del dibattimento può essere anche richiesta la sospensione del procedimento con messa
alla prova.

I giudizi direttissimi atipici


La legislazione sulla sicurezza con cui il legislatore ha ampliato i casi dei giudizi direttissimi atipici,
intervenendo su alcuni presupposti e meccanismi delle stesso, lo si può ravvisare in alcune singole

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normative del settore. Negli ultimi anni è diventato un rito che ha assunto delle caratteristiche variegate,
differenti. Nelle singole normative di settore, questo viene preso in considerazione a prescindere del fatto
che vi sia una condizione di flagranza di reato e che pertanto lo si trova nell’ambito di reati concernenti
armi ed esplosivi, discriminazione razziale, reati commessi in occasioni di manifestazione sportive ecc.
comunque in visione di un panorama non omogeneo e sono definiti atipici.

Giudizio immediato (artt. 453-458)

Procedimento acceleratorio e deflativo dell’udienza preliminare. Non è premiale. Lo scopo del rito in
esame può essere individuato nella esemplarietà, in linea con la filosofia della legislazione della sicurezza.
In una graduatoria, il giudizio immediato, in base agli elementi a carico dell’imputato, si mette subito
dietro al giudizio direttissimo. Non è caratterizzato da una immediatezza probatoria.
Due ipotesi: quello a richiesta dell’imputato e richiesta del p.m. (che si divide ulteriormente in ordinario
e custodiale).
Giudizio immediato chiesto dall’imputato: l’imputato può dunque rinunciare all’udienza preliminare e
chiedere al Gup l’applicazione di tale rito in esame. Tale ipotesi viene inquadrata nella «giustizia
consensuale».
La domanda deve essere presentata in cancelleria almeno 3 giorni prima della data fissata per l’udienza.
L’atto deve essere computo personalmente o a mezzo di procuratore speciale, essendo un atto con cui si
preclude un diritto difensivo.
La scelta dell’imputato non è sindacabile dal giudice delle indagini preliminari.
Inoltre nel giudizio immediato chiesto dall’imputato, questi non può richiedere il rito abbreviato nonché,
per quando non espressamente previsto, il patteggiamento.

Giudizio immediato chiesto dal pubblico ministero: i casi in cui il p.m. può attivarsi sono due: artt. 453,
comma 1 e comma 1 bis, rispettivamente, giudizio immediato ordinario e custodiale.
1. Ordinario obbligatorio. Quando la prova appare evidente, salvo che ciò pregiudichi gravemente le
indagini, il pubblico ministero chiede il giudizio immediato se la persona sottoposta alle indagini è stata
interrogata sui fatti dai quali emerge l’evidenza della prova ovvero, a seguito di invito a presentarsi con
l’osservanza delle forme indicate nell’articolo 375 comma 3 secondo periodo, la stessa abbia omesso di
comparire, sempre che non sia stato adottato un legittimo impedimento e che non si tratti di persona
irreperibile. La seconda condizione per attivare il giudizio immediato è stata predisposta per supplire a
quella situazione nella quale un soggetto si sottraesse volontariamente all’interrogatorio: ecco allora che
subentra l’art. 375 comma 3, dal quale si desumono i fatti che rendono evidenti i termini dell’accusa.
La prova deve dunque essere evidente e cioè quando le indagini abbiano raggiunto un livello di
completezza, di consistenza e di tenuta da rendere superflua l’udienza preliminare.
«Quando la prova appare evidente» (evidenza della prova a carico): concetto con cui si fa riferimento alla
consapevolezza della prova che viene chiesta al giudice per l’udienza preliminare per emettere il decreto
di giudizio. Deve avere cioè questo stesso tenore. La prova evidente non deve essere tale che nelle indagini
senza che sia stata richiesta la proroga di queste, dunque entro 6 mesi.
2. Custodiale. Ci si basa sul fatto che se un soggetto è sottoposto ad una misura cautelare, nei suoi confronti
esistono già alcune valutazioni indiziarie che giustifica un iter processuale che può fare a meno
dell’udienza preliminare nell’ambito della quale si deve valutare la sostenibilità dell’accusa in giudizio.
Occorre che la richiesta avvenga entro 180 giorni («anche al di fuori del termine previsto dall’art. 454
comma 1») dall’esecuzione della misura e comunque la richiesta nel momento in cui è stata mancata

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richiesta di riesame, dal difensore, questa potrà essere effettuata dal pubblico ministero, ma solamente
dopo che è terminato il procedimento di riesame (naturalmente terminato con una conferma custodiale)
ovvero potrà essere avanzata una volta spirati i termini per la richiesta di riesame dell’imputato. Questo
perché il giudice che deve valutare una evidenza della prova, non dovrà trovarsi nel caso in cui un altro
giudice metta in libertà il soggetto.
Quando il reato per cui è richiesto il giudizio immediato risulta connesso con altri reati per i quali mancano
le condizioni che giustificano la scelta di tale rito, si procede separatamente per gli altri reati e nei confronti
degli altri imputati, salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini. Se la riunione risulta indispensabile,
prevale in ogni caso il rito ordinario.

Richiesta del giudizio immediato


A corroborare il concetto che il giudizio immediato debba essere richiesto quando vi è l’evidenza della
prova, il legislatore impone di richiedere il giudizio immediato entro un termine di 90 giorni dall’iscrizione
del reato nell’apposito registro. Dunque ci si trova di fronte a 3 requisiti:
1. Evidenza della prova;
2. Che l’indagato sia stato interrogato o non abbia avuto motivi di impedimento ecc.;
3. Che questa evidenza probatoria sia tale per cui il pubblico ministero avanzi la richiesta entro 90 giorni.
Entro 90 giorni dalla iscrizione della notizia di reato nel registro, il pubblico ministero trasmette la richiesta
di giudizio immediato alla cancelleria del giudice per le indagini preliminari. Con la richiesta è trasmesso
il fascicolo contenente la notizia di reato, la documentazione relativa alle indagini espletate e i verbali degli
atti compiuti davanti al giudice per le indagini preliminari, in tal modo il giudice compirà un controllo
sulle condizioni del rito.
Il giudice, entro 5 giorni, emette decreto ai sensi dell’art. 429, con il quale dispone il giudizio immediato
ovvero rigetta la richiesta ordinando la trasmissione degli atti al pubblico ministero. Nei casi di cui
all’articolo 453, comma 1-bis (custodiale), il giudice rigetta la richiesta se l’ordinanza che dispone la
custodia cautelare è stata revocata o annullata per sopravvenuta insussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza.
Il decreto notificato all’imputato e comunicato al p.m. almeno 30 giorni prima del giudizio: giorni che
consentono all’imputato di predisporre una difesa. All’imputato e alla persona offesa sono notificate anche
la richiesta del p.m. E anche in questo caso ci si trova di fronte al fatto che deve essere trasferito al giudice
del dibattimento il fascicolo: infatti decorsi 15 giorni, il decreto che dispone il giudizio immediato è
trasmesso, con il fascicolo formato a norma dell’articolo 431, al giudice competente per il giudizio.
Il pubblico ministero non è tenuto a depositare gli atti d0indagine ai sensi dell’art. 415 bis.
Il provvedimento ricalca l’art. 429 comma 1 e 2. Dunque contiene le a) le generalità dell’imputato e le altre
indicazioni personali che valgono a identificarlo nonché le generalità delle altre parti private, con
l’indicazione dei difensori; b) l’indicazione della persona offesa dal reato qualora risulti identificata; c)
l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono
comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge; d)
l’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono; e) il dispositivo, con
l’indicazione del giudice competente per il giudizio; f) l’indicazione del luogo, del giorno e dell’ora della
comparizione, con l’avvertimento all’imputato che non comparendo sarà giudicato in contumacia; g) la
data e la sottoscrizione del e dell’ausiliario che l’assiste.

Accesso ai riti premiali

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Il decreto contiene altresì l’avviso che l’imputato può chiedere il giudizio abbreviato ovvero l’applicazione
della pena a norma dell’articolo 444, a pena di nullità di ordine generale. Tale disposizione sottostà alla
ratio di dare la possibilità all’imputato di accedere ai riti speciali per il solo motivo che la strada del rito
immediato scelta dal pubblico ministero non vada a precludere l’applicazione di pena su richiesta di parte e
del rito abbreviato. Ecco che l’imputato, a pena di decadenza, può chiedere il giudizio abbreviato
depositando nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari la richiesta, con la prova della
avvenuta notifica al pubblico ministero, entro 15 giorni dalla notificazione del decreto di giudizio
immediato. Qualora però, a seguito di nuove contestazioni, l’imputato chieda che il procedimento
prosegua nelle forme ordinarie, il giudice revocata l’ordinanza di ammissione del rito, fisserà l’udienza
per il giudizio immediato.
Nel caso del patteggiamento, bisogna fare riferimento all’art. 446 il quale afferma che se è stato notificato
il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabilite
dall’articolo 458, comma 1: quindi entro 15 giorni dalla notificazione del decreto di giudizio immediato.

Procedimento per decreto o decreto penale di condanna (artt. 459-464)

Deflativo, e premiale inedito. È un procedimento che ha delle caratteristiche di natura inquisitoria,


nonostante ci si trovi in un processo accusatorio. È stato tenuto per reati di non particolare gravità.
Ha caratteristiche particolari: «inquisitorietà»; laddove venga accettato segue l’economia processuale più
accentuate rispetto ad altri procedimenti e a fronte di ciò si trova in presenza di una premialità (sconto) di
pena più elevato di tutti gli altri riti speciali. Viene dunque ad essere rispettata la regola in forza della
quale più parti del processo si riescono a saltare, più il premio, sotto il profilo della pena, sarà riconosciuto.
Ha un ambito applicativo molto limitato, rilevabile soprattutto nella complessità della disposizione. L’art.
459 infatti afferma che nei procedimenti per reati perseguibili di ufficio ed in quelli perseguibili a querela
se questa è stata validamente presentata e se il querelante non ha nella stessa dichiarato di opporvisi, il
pubblico ministero, quando ritiene che si debba applicare soltanto una pena pecuniaria, anche se inflitta
in sostituzione di una pena detentiva, può presentare al giudice per le indagini preliminari, entro 6 mesi
dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di
reato e previa trasmissione del fascicolo, richiesta motivata di emissione del decreto penale di condanna,
indicando la misura della pena.
Qual è il profilo premiale? La pena può essere diminuita fino alla metà del minimo edittale.
Non si può applicarlo qualora si debba applicare una misura di sicurezza personale, questo perché è
richiesta una valutazione di pericolosità dell’imputato. Oppure quando l’imputabile non è reperibile,
perché deve essere data all’imputato la possibilità di predisporre la difesa.
Sostanzialmente si ha un limite temporale dove il pubblico ministero può fare richiesta entro 6 mesi dalla
data del cui nome del persona imputata è iscritta nel registro. Dunque c’è una certa esigenza probatoria.
Allora ne fa richiesta e nel suo ambito deve essere una richiesta motivata con la richiesta della pena e
unitamente deve essere trasmesso il fascicolo dell’indagine, per valutare l’integrità della posizione
dell’imputato, sia sotto il profilo dell’imputazione sia delle pena che dovrà essere scontata.
Il giudice investito dalla richiesta del pubblico ministero ha 3 opzioni: 1) applicare l’art. 129, e in tal caso
gli atti saranno restituiti al p.m. per accertare se l’imputato accetta o meno l’esito processuale; 2) non
accoglie la richiesta, restituendo gli atti al pubblico ministero; 3) emette il decreto penale di condanna.
Cosa contiene il decreto di condanna?
a. Le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgano a identificarlo nonché, quando
occorre, quelle della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria;

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b. L’enunciazione del fatto, delle circostanze e delle disposizioni di legge violate;


c. La concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, comprese le ragioni
dell’eventuale diminuzione della pena al di sotto del minimo edittale;
d. Il dispositivo;
e. L’avviso che l’imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria possono proporre
opposizione entro 15 giorni dalla notificazione del decreto e che l’imputato può chiedere mediante
l’opposizione il giudizio immediato ovvero il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena a norma
dell’articolo 444;
f. L’avvertimento all’imputato e alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria che, in caso di
mancata opposizione, il decreto diviene esecutivo;
g. L’avviso che l’imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria hanno la facoltà di
nominare un difensore;
h. La data e la sottoscrizione del giudice e dell’ausiliario che lo assiste.
Con il decreto di condanna il giudice applica la pena nella misura richiesta dal pubblico ministero
indicando l’entità dell’eventuale diminuzione della pena stessa al di sotto del minimo edittale; ordina la
confisca o la restituzione delle cose sequestrate; concede la sospensione condizionale della pena. Nei casi
previsti dagli artt. 196 e 197 c.p., dichiara altresì la responsabilità della persona civilmente obbligata per la
pena pecuniaria.
Copia del decreto è comunicata al pubblico ministero ed è notificata con il precetto al condannato, al
difensore d’ufficio o al difensore di fiducia eventualmente nominato ed alla persona civilmente obbligata
per la pena pecuniaria. Se non è possibile eseguire la notificazione per irreperibilità dell’imputato, il
giudice revoca il decreto penale di condanna e restituisce gli atti al pubblico ministero.
Il decreto penale di condanna non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento, né
l’applicazione di pene accessorie. Anche se divenuto esecutivo non ha efficacia di giudicato nel giudizio
civile o amministrativo.
Il decreto è emesso senza contraddittorio e non è preceduto dal deposito degli atti a favore della difesa
ai sensi dell’art. 415 bis. Entrambi gli elementi sono in linea con l’orientamento costituzionale, ritenendoli
legittimi, sulla base che, rispettivamente, si tratta di un rito a contraddittorio eventuale, differito,
improntato a criteri di economia processuale e massima speditezza, nel quale le garanzia del diritto di
difesa trovano tutela successivamente con l’opposizione; e sempre per criteri di celerità e semplificazione,
la scelta di non prevedere il deposito degli atti è in linea con la costituzione del rito.

Opposizione al decreto penale


La garanzia e la tutela per l’imputo ed il civilmente obbligato sono costituite dalla possibilità di presentare
opposizione.
Se nessuno si oppone o se l’opposizione è ritenuta inammissibile, tale decreto diventa esecutivo.
Occorre opporsi entro 15 giorni per non veder sfumato il proprio diritto.
Nel termine di 15 giorni dalla notificazione del decreto, l’imputato e la persona civilmente obbligata per
la pena pecuniaria, personalmente o a mezzo del difensore eventualmente nominato, possono proporre
opposizione mediante dichiarazione ricevuta nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari che
ha emesso il decreto ovvero nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trova
l’opponente.
La dichiarazione di opposizione deve indicare, a pena di inammissibilità, gli estremi del decreto di condanna,
la data del medesimo e il nome del giudice che lo ha emesso. Ove non abbia già provveduto in precedenza,
nella dichiarazione l’opponente può nominare un difensore di fiducia.

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Con l’istituto dell’opposizione risulta tutelato il diritto di difesa; inoltre, mancando il contraddittorio, la
decisione emessa inaudita altera parte non conterebbe le ragioni difensive, tutela le disattese ragioni
difensive.
Con l’atto di opposizione l’imputato può chiedere al giudice che ha emesso il decreto di condanna il
giudizio immediato ovvero il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena a norma dell’articolo 444.
Opposizione proposta soltanto da alcuni interessati. L’esecuzione del decreto di condanna pronunciato
a carico di più persone imputate dello stesso reato rimane sospesa nei confronti di coloro che non hanno
proposto opposizione fino a quando il giudizio conseguente all’opposizione proposta da altri coimputati
non sia definito con pronuncia irrevocabile.
Nel giudizio conseguente all’opposizione, l’imputato non può chiedere il giudizio abbreviato o
l’applicazione della pena su richiesta, né presentare domanda di oblazione, dunque si capisce come tali
procedimenti possano essere soltanto chiesti con l’opposizione. Può essere chiesta anche la messa alla
prova.
In caso di rito abbreviato si applicheranno le disposizioni relative al rito contratto. Se l’imputato chiede la
prosecuzione con le forme ordinarie (nel rito abbreviato), il giudice fisserà l’udienza del giudizio
conseguente all’opposizione, ma dopo aver revocato l’ordinanza di ammissione del rito abbreviato.
Quanto al patteggiamento, il giudice fissa con decreto un termine entro il quale il pubblico ministero possa
esprimere il suo consenso; richiesta e decreto sono notificati al pubblico ministero. In caso di dissenso del
p.m. o di rigetto del giudice delle indagini preliminari, l’imputato – prima della dichiarazione di apertura
del dibattimento di primo grado – potrà rinnovare la richiesta e il giudice, se la riterrà fondata, potrà
pronunciare sentenza.
Nel caso di giudizio immediato, il giudice per le indagini preliminari provvederà ad emettere il decreto
che dispone il giudizio immediato.
Con l’opposizione l’imputato può presentare pure la domanda di oblazione. Ecco allora che il pubblico
ministero può avvisare l’interessato che ha facoltà di chiedere l’ammissione all’oblazione con l’effetto di
estinguere il reato. Ove non si sia proceduto in tal senso, l’avviso della possibilità di chiedere l’oblazione
deve essere contenuta nel decreto penale di condanna. La relativa domanda è presentata contestualmente
all’atto di opposizione. Se non ammette l’oblazione, provvede con il decreto di giudizio immediato o
riguardo al giudizio abbreviato, oppure stabilisce il termine per il consenso del PM all’applicazione della
pena. È questione dibattuta (ma solitamente risolta in senso negativo) se l’opposizione sia o meno atto
rinunciabile.
Lo scopo di chiedere con l’opposizione tali procedimenti, e dunque affermando una sorta di preclusione
succedente ad una loro richiesta non pervenente in tali termini, sta nel fatto di evitare di far regredire il
procedimento ovvero a ritardarne la definizione.
Il passaggio alla fase dibattimentale, che si celebrerà davanti a un giudice di primo grado, è
contrassegnato dalla revoca del decreto di condanna. Il giudice dovrà essere diverso da quello che ha
emesso il decreto penale, sempre secondo i criteri di incompatibilità delineati dall’art. 34. Il giudizio è
regolato dalla disciplina ordinaria.
In conseguenza della revoca del decreto penale di condanna successivo alla opposizione proposta, il
giudice potrà applicare anche una pena diversa e più grave e può revocare anche i benefici concessi in
precedenza.

Oblazione (artt. 162-162 bis c.p.)

Procedimento deflativo.

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Si tratta di un pagamento volontario di una somma di danaro che produce l’effetto di estinguere il reato.
Sotto il profilo sostanziale si distinguono due ipotesi di oblazione: quella obbligatoria e quella facoltativa.
La prima (obbligatoria) riguarda le contravvenzioni per le quali la legge stabilisce la pena dell’ammenda
e il tal caso, a richiesta del contravventore, questi è ammesso a pagare, prima dell’apertura del
dibattimento o prima del decreto di condanna, una somma pari ad un terzo della pena massima prevista
per le fattispecie oltre alle spese del procedimento.
La seconda (facoltativa), che attiene alle contravvenzioni punite alternativamente con la pena dell’arresto
o dell’ammenda, vede il contravventore chiedere, con contestuale deposito della somma relativa, di essere
ammesso a pagare una imposta corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda prevista in via
edittale oltre alle spese del procedimento.

Al fine di accelerare i tempi l’indagato può chiedere l’oblazione già nel corso delle indagini preliminari, il
pubblico ministero trasmetterà poi la domanda insieme agli atti del procedimento al giudice per le
indagini preliminari.
Dopo l’esercizio dell’azione penale la domanda di oblazione deve essere presentata al giudice, prima
dell’apertura del dibattimento. I successivi passaggi procedimentali possono essere i seguenti: rigetto
(prima e dopo l’esercizio dell’azione penale) o ammissione.
Se respinge la domanda formulata durante le indagini preliminari, il giudice restituisce al pubblico
ministero con ordinanza gli atti per la prosecuzione delle indagini; se rigetta la domanda presentata dopo
l’esercizio dell’azione penale, gli atti saranno trasmessi in procura affinché il pubblico ministero formi il
fascicolo per il dibattimento e lo trasmetta al giudice con il decreto di citazione immediatamente dopo la
notificazione.
Se ammette l’oblazione il giudice fissa con ordinanza la somma da versare, avvisa l’interessato delle
somme da pagare e dopo il pagamento se la domanda era stata proposta durante le indagini preliminari
restituisce gli atti al pubblico ministero per le sue determinazioni (archiviazione), negli altri casi dichiara
con sentenza l’estinzione del reato.
La domanda rigettata può essere riproposta fino all’inizio della discussione finale del dibattimento di
primo grado.
Il pubblico ministero prima di richiedere il decreto deve qualora vi siano i presupposti, deve avvisare
l’interessato della possibilità di richiedere l’oblazione: nel caso in cui non agisca così l’avviso deve essere
dato con il decreto penale.

Sospensione del procedimento con messa alla prova (artt. 464 bis- 464 novies)

È stato inserito nel procedimento ordinario nei confronti degli adulti solamente nell’anno 2014 con la legge
n. 67, dopo aver dato buona prova nell’ambito minorile, sempre in un’ottica di tentativo di adottare strade
processuali alternative.
Si fa riferimento ai reati puniti con la sola pena pecuniaria o la pena detentiva non superiore a 4 anni. I
tempi rispondono fino alla conclusione delle indagini preliminari.
Ci si trova di fronte ad un procedimento con il quale si può approdare ad altri riti speciali. Questo perché
è un rito molto favorevole: si arriva infatti all’estinzione del reato qualora ci sia un esito positivo della
prova.
A questa richiesta bisogna sempre allegare un trattamento, tramite l’ausilio del UEPE (ufficio di esecuzione
penale esterna), che serve a fare in modo che tutte queste situazioni si concretizzino. Nel caso in cui non

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sia stato possibile elaborare questo programma, bisogna comunque dare prova al giudice di aver avanzato
una richiesta di trattamento.
In ogni modo la messa alla prova consiste nella prestazione di comportamenti tesi all’eliminazione delle
conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato nonché nel risarcimento, ove possibile, del danno
dallo stesso cagionato. È la «probation» che consiste altresì nell’affidamento dell’imputato al servizio
sociale per lo svolgimento di un programma che può comportare attività di volontariato di rilevo sociale.
All’istanza è allegato un programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale
esterna, ovvero, nel caso in cui non sia stata possibile l’elaborazione, la richiesta di elaborazione del
predetto programma. Cosa deve contenere?
- Le modalità di coinvolgimento dell’imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di
vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile;
- Le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di
elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le
condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità
ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale;
- Le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa.
Per valutare circa la concessione della sospensione, il giudice può anche acquisire attraverso la polizia
giudiziaria le ulteriori informazioni. Il giudice deve decidere in udienza e prima deve verificare che non
ci sia un caso di esclusione della punibilità. Infatti deve sentire le parti e poi decidere.
Tale istituto è concedibile una sola volta e la concessione determina la sospensione del corso della
prescrizione. L’esito positivo estingue il reato per il quale si procede ma non esclude l’applicazione delle
sanzioni amministrative accessorie e la confisca.
La richiesta è espressa dall’imputato personalmente o tramite procuratore speciale. Può essere proposta
fino a che non siano formulate le conclusioni dell’udienza preliminare o fino alla dichiarazione di apertura del
dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio. Se è stato
notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabiliti
dall’articolo 458, comma 1. Nel procedimento per decreto, la richiesta è presentata con l’atto di opposizione.
La richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova può essere presentata anche nel
corso delle indagini preliminari. Infatti nel corso delle indagini preliminari, il giudice, se è presentata
una richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, trasmette gli atti al pubblico ministero
affinché esprima il consenso o il dissenso nel termine di 5 giorni. Se il pubblico ministero presta il consenso,
il giudice provvede ai sensi dell’articolo 464 quater. Il pubblico ministero, in caso di dissenso, deve
enunciarne le ragioni. In caso di rigetto, l’imputato può rinnovare la richiesta prima dell’apertura del
dibattimento di primo grado e il giudice, se ritiene la richiesta fondata, provvede ai sensi dell’articolo 464
quater.
Il procedimento è diretto dall’art. 464 quater, che vede il giudice, se non deve pronunciare sentenza di
proscioglimento a norma dell’articolo 129, decidere con ordinanza nel corso della stessa udienza, dopo
aver sentito le parti nonché la persona offesa, oppure in apposita udienza in camera di consiglio, della cui
fissazione è dato contestuale avviso alle parti e alla persona offesa.
Il giudice, se ritiene opportuno verificare la volontarietà della richiesta, dispone la comparizione
dell’imputato.
La sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri
di cui all’articolo 133 del codice penale, reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene
che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati. A tal fine, il giudice valuta anche che il domicilio

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indicato nel programma dell’imputato sia tale da assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal
reato.
Durante il tempo della sospensione, il giudice assume le prove non rinviabili e quelle che possono
condurre al proscioglimento.
Il provvedimento favorevole del giudice fissa le modalità di esecuzione della messa alla prova e stabilisce
il termine entro il quale l’imputato deve adempiervi.
Una volta scaduto il tempo della prova, il giudice se il comportamento è stato adeguato alle prescrizioni
stabilite, dichiara con sentenza che la prova ha avuto esito positivo e dichiara estinto il reato. In caso di
esito negativo della prova, il giudice dispone con ordinanza che il processo riprenda il suo corso.

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CAPITOLO IV – IL GIUDIZIO ORDINARIO

È il cuore del processo. È la fase nella quale sono raccolte le prove e il momento in cui si decide.
Sono 3 i titoli, che regolano: gli «atti preliminari del dibattimento», del «dibattimento» e la «sentenza». Da un
punto di vista generale i primi sono volti a porre in essere una funzione preparatoria del dibattimento
stesso, nello specifico però bisogna fare un’ulteriore distinzione, che riporta una tipologia di atti: a)
strettamente preparatoria, b) atti con funzione probatoria, c) atti con funzione decisoria.
Il secondo è diviso in a) disposizione generale, b) atti introduttivi, c) istruzione dibattimentale, d)
discussione finale.
Il terzo invece prende in considerazione: a) deliberazione, b) decisione, c) atti successivi al dibattimento.
Il concetto di giudizio non coincide né con il concetto di processo né con quello di dibattimento; come
quello di udienza (con cui si fa riferimento alla giornata in cui si fanno uno o più dibattimenti) non coincide
con quello di dibattimento.

Atti preliminari al dibattimento

I difensori e il presidente (del tribunale o della Corte d’assise) hanno alcuni poteri e facoltà specifiche in
questa fase processuale.
Il presidente, una volta ricevuto il decreto che dispone il giudizio ha il potere di anticipare o differire la
data dell’udienza laddove sussistano i giustificati motivi: è una facoltà strumentale alle esigenze di celerità
e semplificazione delle procedure, in grado di evitare, presenti determinate condizioni, la regressione del
rito alla fase dell’udienza preliminari.
Il provvedimento è comunicato al pubblico ministero e notificato alle parti private, alla persona offesa e ai
difensori; nel caso di anticipazione, il provvedimento è comunicato e notificato almeno sette giorni prima
della nuova udienza.
Quanto ai difensori e i loro assistiti, invece, durante il termine per comparire, hanno facoltà di prendere
visione, nel luogo dove si trovano, delle cose sequestrate, di esaminare in cancelleria gli atti e i documenti
raccolti nel fascicolo per il dibattimento e di estrarne copia.

Atti urgenti
Nel tentativo di evitare incertezze e vuoti di competenza, nel passaggio tra una fase processuale e l’altra,
l’art. 467 rubricato atti urgenti, identifica i casi e le modalità di assunzione delle prove non rinviabili,
mediante il riconoscimento, in capo al presidente del tribunale o della corte d’assise, dell’opportunità di
assumere, a richiesta di parte le prove non rinviabili. Del giorno, dell’ora e del luogo stabiliti per il
compimento dell’atto è dato avviso almeno 24 ore prima al pubblico ministero, alla persona offesa e ai
difensori.
Bisogna adottare un ragionamento sulla base di quanto dell’incidente probatorio, ossia sull’inciso per cui
vi sarebbe pericolo di dispersione della prova, sussistendo una situazione di indifferibilità: risulterebbe
possibile allora raccogliere, in sede di atti urgenti, soltanto quelle prove, richiamate dall’art. 392 comma 1,
dalla lettera a) alla g).
La non rinviabilità però deve essere letta in una dimensione poliedrica, riferibile a una pluralità di
situazioni caratterizzate da una sorta di previsione di non riassumibilità e di non utile riassumibilità determinata
da contingenti fattori di rischio suscettibili di essere provati o presunti ex lege. Da qui le situazioni di non
rinviabilità naturali, collegate al rischio della dispersione della prova o dell’inquinamento della stessa;

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presunte, riconducibili alla debolezza dei soggetti dichiaranti o alla loro esposizione costante a minacce o
promesse; nonché funzionali, riferibili al tentativo di salvaguardare la concentrazione del dibattimento.
L’assunzione delle prove non rinviabili sottostà ai termini per cui il momento a quo per la proposizione
dell’istanza è quando viene emesso il decreto che dispone il giudizio, mentre il termine ultimo è quello
coincidente con l’inizio degli atti introduttivi al dibattimento. In ogni caso i soggetti legittimati a formulare
la richiesta devono essere già parti regolarmente costituite.

Citazione di testimoni, periti e consulenti tecnici


L’art. 468 afferma che le parti che intendono chiedere l’esame di testimoni, periti o consulenti tecnici
nonché delle persone indicate nell’articolo 210 devono, a pena di inammissibilità, depositare in cancelleria,
almeno 7 giorni prima della data fissata per il dibattimento, la lista con l’indicazione delle circostanze su
cui deve vertere l’esame. Ecco che l’attività di presentazione delle liste testimoniale tende a svolgere una
prevalente funzione di discovery, dettando un implicito divieto di introduzione di prove a sorpresa.
L’istituto dell’esame delle parti non è previsto dalla norma, ma è chiaro come esso sia comunque
ammissibile, data l’immanenza delle parti in questione al processo.
L’ammissibilità della citazione di testimoni è verificabile, non solo dalle parti, ma anche d’ufficio, il quale
allora potrà dichiarare l’inammissibilità.
Ci sono due modi tramite i quali si conducono i soggetti indicati nelle liste ex art. 468: autorizzazione del
presidente del tribunale o della corte d’assise, ovvero si presentano direttamente in dibattimento.
Il primo. La citazione può avvenire tramite autorizzazione del tribunale o della corte d’assise e qualora
dovesse essere concessa e il testimone non compaia, allora si potrebbe agire con la forza pubblica ed essere
condotto coattivamente in udienza. Ma se non si è fatta richiesta, non si potrà mai richiedere al giudice un
provvedimento di tale genere.
Al presidente, in questa fase, è riconosciuto un potere di selezione: quando gli è fatta richiesta, autorizza con
decreto la citazione dei testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell’articolo 210
(persone imputate in un procedimento connesso), escludendo le testimonianze vietate dalla legge e quelle
manifestamente sovrabbondanti. La ragione di tale cernita è ravvisabile in un mero carattere di economia
processuale.
La seconda. I testimoni possono essere presentati direttamente anche in dibattimento.
In relazione alle circostanze indicate nelle liste, ciascuna parte può chiedere la citazione a prova contraria
di testimoni, periti e consulenti tecnici non compresi nella propria lista, ovvero presentarli al dibattimento.
Unitamente alla lista, può essere depositata la richiesta di acquisizione di verbali di prova provenienti da
altri procedimenti: allora la parte che intenda chiedere l’acquisizione di verbali di prove di altro
procedimento penale deve farne espressa richiesta unitamente al deposito delle liste. In questo caso la
discovery risulta essere limitata, perché si indicherebbero soltanto gli estremi dei verbali di prove e non il
loro contenuto. Se invece si tratta di verbali di dichiarazioni di persone delle quali la stessa o altra parte
chiede la citazione, questa è autorizzata dal presidente solo dopo che in dibattimento il giudice ha
ammesso l’esame a norma dell’articolo 495.
Il presidente in ogni caso dispone di ufficio la citazione del perito nominato nell’incidente probatorio a
norma dell’articolo 392 comma 2.

Proscioglimento (art. 469)


Ci si trova di fronte ad una disposizione che riprende il contenuto dell’art. 129, realizzando un modello di
definizione anticipata del giudizio mediante l’attribuzione al collegio, e non al presidente, del compito di
pronunciare sentenza anticipata di proscioglimento qualora l’azione penale (1) risulti improcedibile o (2)

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improseguibile ovvero il reato risulti (3) estinto. Il giudice, in camera di consiglio, sentiti il pubblico
ministero e l’imputato e se questi non si oppongono, pronuncia sentenza inappellabile di non doversi
procedere enunciandone la causa nel dispositivo.
Sono necessarie tre condizioni.
La prima, di natura oggettiva, è ravvisabile nell’esordio dell’art. 469 «salvo quanto previsto dall’art. 129
comma 2» se l’azione penale non doveva essere iniziata o non doveva essere proseguita ovvero se il reato è estinto e
se per accertarlo non è necessario procedere al dibattimento, allora il giudice dichiarerà la sentenza di
proscioglimento.
La seconda, sempre di natura oggettiva, è insista nel fatto che non si deve procedere a dibattimento per
accertare la causa di proscioglimento già accertata allo stato degli atti, risultando una certa evidenza
probatoria.
La terza condizione, di natura soggettiva, si configura nel concorde assenso del pubblico ministero e
dell’imputato, desumibile dalla mancata opposizione da parte di questi soggetti, alla pronuncia stessa.
Il giudice può disporre proscioglimento nel caso in cui ritenga che per fare questa dichiarazione non sia
necessario procedere a dibattimento, ossia abbia elementi a discarico sufficienti per emettere questa
decisione. Come lo fa? In camera di consiglio, sentiti il pubblico ministero e l’imputato, se questi non si
oppongono. È cioè espressamente richiesta la mancata opposizione del pubblico ministero e dell’imputato.
Bisogna sottolineare che questa pronuncia sia inappellabile.
La sentenza di non doversi procedere è pronunciata anche quando l’imputato non è punibile ai sensi
dell’articolo 131-bis del codice penale (particolare tenuità del fatto), previa audizione in camera di
consiglio anche della persona offesa, se compare.

Dibattimento

È caratterizzato da alcuni principi: pubblicità, oralità, immediatezza, concentrazione e contraddittorio.


1. La pubblicità non attiene alla pubblicità interna, ossia alla conoscibilità delle carte processuali dei
soggetti facenti parte del processo, bensì a quella esterna, che può essere immediata o mediata. La seconda
è fatta tramite la stampa; la prima viene assicurata dalle modalità di svolgimento dell’udienza stessa.
L’art. 471 tratta dell’udienza che è pubblica, a pena di nullità. Questa implica un rapporto privo di
intermediazione tra l’acquisizione della prova e la decisione dibattimentale.
2. Il principio dell’oralità è volto ad attuare i caratteri del sistema accusatorio e rappresenta la caratteristica
tipica di comunicazione, strettamente collegata alla struttura della prova e del processo, che impone l’uso
della viva voce nell’assunzione delle dichiarazione dei testimoni e delle parti.
3. L’immediatezza si fonda sulla necessità di evitare che vi siano intervalli di tempo tra l’assunzione delle
prove in udienza: è cioè finalizzato ad ottenere una decisione che risulti basata su un nitido e preciso
ricorso dei fatti appresi dal giudice nel corso dell’istruzione dibattimentale.
4. Il principio della concentrazione richiama la necessità di evitare che vi siano intervalli di tempo tra
l’assunzione delle prove in udienza, la discussione finale e la deliberazione della sentenza, allo scopo di
garantire che la decisione rappresenti il risultato fedele delle elaborazioni processuali e non sia alterata da
elementi esterni in grado di ingannare la memoria di chi è chiamato a emetterla. La mancata
concentrazione potrebbe incidere di preservare il ricordo delle risultanze processuali.
5. Un altro principio è quello del contraddittorio, quale criterio volto ad attuare i principi del sistema
accusatorio, laddove prevede la partecipazione dell’accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e
grado del procedimento. Tale principio trova attuazione nell’art. 111 Cost. il quale prevede, al comma 2,
che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e

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imparziale e che, al comma 4, il processo penale sia regolato dal principio del contraddittorio nella formazione
della prova, sia che la colpevolezza dell’imputato non possa essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per
libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore.
Queste due asserzioni (art. 111 comma 2 e 4 Cost.) identificano due tipi di contraddittorio: uno generico e
l’altro specifico. Il primo è fondato sul fatto che il processo è caratterizzato dalla presenza dell’accusato e
del pubblico ministero in condizioni di parità, davanti al giudice individuato in una posizione di terzietà;
il secondo invece è destinato ad esplicarsi in un contradditorio mirato alla conoscenza dei fatti e
all’enunciazione del diritto dell’imputato a confrontarsi con il proprio accusatore.
Il legislatore, dovendo bilanciare gli interessi, ha previsto delle deroghe nell’assunzione delle prove: infatti
non si potrebbe pretendere che sempre tutte le prove debbano essere raccolte nel contraddittorio. Ci sono
delle situazioni diverse, costituzionalizzate, attraverso l’introduzione di deroghe a regole. Infatti il
legislatore ha inserito nel comma 5 una deroga alla regola della formazione della prova in
contraddittorio. La legge allora regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo all’interno del
contraddittorio. Il contraddittorio forte è il metodo migliore per accertare la responsabilità, ma come in
tutti i campi occorre introdurre dei bilanciamenti che regolino i casi nei quali non è possibile seguire questa
strada.
L’art. 111, comma 5 Cost. afferma che in tre casi è possibile derogare al principio che esige il contraddittorio
per la formazione della prova penale. Questi tre casi sono: consenso dell’imputato; accertata impossibilità di
natura oggettiva; provata condotta illecita.
Consenso dell’imputato: con una manifestazione di volontà (spontanea, non equivoca, consapevole e
successiva all’addebito che va a constatare la superfluità di un contraddittorio per la formazione della
prova), l’imputato rinuncia alle maggiori garanzie che gli sarebbero assicurate dallo svolgimento del
processo nella sede dibattimentale, in cambio di un trattamento premiale che consisterebbe in una cospicua
riduzione della pena. Si fa riferimento al giudizio abbreviato, al patteggiamento.
Lo scopo è quello di accelerare e permettere una rapida definizione dei processi.
Accertata impossibilità di natura oggettiva: corrisponde all’esigenza di evitare la dispersione di elementi
di prova. Dunque è permesso l’utilizzo di prove data la loro non reiterabilità o irripetibilità.
Facendo un esempio per cui il pubblico ministero raccoglie nelle indagini preliminari delle fonti di prova
anche dichiarative e si arriva al dibattimento dopo aver deciso di esercitare l’azione penale. Al
dibattimento le prove devono essere formate nel contraddittorio fra le parti stesse; il testimone chiave del
processo però è morto: questa consiste in una accertata impossibilità. Le dichiarazioni del testimone chiave
rilasciate al pubblico ministero nelle indagini preliminari (sia favorevoli, sia contrarie all’imputato)
potranno avere accesso nella fase del dibattimento al posto di quelle che avrebbe rilasciato nella fase stessa,
queste perché il sistema non può permettersi di perdere una tale fonte di informazione. È necessario però
che l’irripetibilità della dichiarazioni sia derivata da fatti o circostanze imprevedibili al tempo della
rispettiva assunzione: ciò vuol dire che se il testimone al momento dell’assunzione delle dichiarazioni
fosse stato già affetto da una malattia grave, queste non potrebbero essere utilizzate.
Provata condotta illecita: sempre alla base del principio di non dispersione della prova. Qui si fa
riferimento a quelle eventualità in cui appaia impossibile l’effettivo ottenimento di una dichiarazione
attendibile per ricostruire i fatti, essendovi ragione di ritenere che la persona chiamata a deporre neghi il
vero, dica il falso o sia reticente, per essere stata portata a simile condotta da qualche altrui comportamento
antigiuridico: una violenza, una minaccia, una dazione o promessa di denaro oppure altra utilità.
L’esempio che si può fare è: nel corso delle indagini preliminari il pubblico ministero sente un testimone
chiave che colpevolizza l’imputato, sulla base delle cui dichiarazioni il pubblico ministero esercita azione
penale e si va a processo. In questa sede il testimone afferma tutto il contrario in modo sospetto o taccia di

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ciò che ha detto al pubblico ministero in sede preliminare; a questo punto il giudice interviene cercando
di capire i motivi: può essere accaduto che il testimone sia stato minacciato da persone assoldate
dall’imputato o corrotto da essi. Si giunge a capire quindi che si ha avuta una provata condotta illecita,
quindi viene portato all’interno del processo il verbale delle dichiarazioni che il soggetto aveva rilasciato
al pubblico ministero in fase preliminare. Ciò consente al sistema di non perdere una preziosa fronte di
informazione.

Udienza
La disciplina dell’udienza e la direzione del dibattimento sono esercitate dal presidente che decide senza
formalità: sono espressione della potestà disciplinare del presidente del collegio e i casi possono essere
esemplificati; il presidente, o in sua assenza dal pubblico ministero, potrà adottare tutti quegli ordini atti
ad escludere dall’aula i minori, le persone sottoposte alle misure di prevenzione, gli ubriachi e le persone
armate al fine di ottenere un più fluido e celere svolgimento dell’udienza, mentre potrà adottare tutti quei
provvedimenti con i quali sono disciplinate le richieste di prova, impedendone ogni divagazione,
ripetizione o interruzione, ovvero l’adozione di strumenti pronti a regolare la discussione finale al fine di
dirigere su binari paralleli il dibattimento. Per l’esercizio di queste funzioni, il presidente o il pubblico
ministero si avvalgono, ove occorra, anche della forza pubblica, che dà immediata esecuzione ai relativi
provvedimenti. Come poco prima accennato, in assenza del presidente, la disciplina dell’udienza è
esercitata dal pubblico ministero, che ne fa le veci.
La ratio di tali provvedimenti è alla base della creazione di un clima di serenità: è necessario che non vi
siano fattori in grado di turbare il processo.

L’udienza è caratterizzata dalla pubblicità. Questa è una peculiarità che serve per controllare l’attività
giurisdizionale al fine di consentire a tutti i soggetti che partecipano all’udienza di verificare quello che è
il decisum e verificare quello che effettivamente si è svolto nel dibattimento: l’aver partecipato al
dibattimento consente al soggetto di rendersi conto della sua situazione processuale e di verificare sulla
base degli elementi raccolti se la sentenza è in linea con le risultanze processuali.
La pubblicità (esterna) può essere di due tipi, diversamente da quella interna che porta alla conoscenza
diretta degli atti a coloro che partecipano al processo. 1) Immediata e 2) mediata.
1. Immediata. Nell’art. 471 afferma nel comma 1 che l’udienza è pubblica, a pena di nullità. Seguono poi
una serie di deroghe, che sono fondate su determinati principi, che di regola sono poste a tutela di un
bilanciamento di interessi per determinati soggetti. Una prima e una seconda la si trova nel comma 2: non
sono ammessi nell’aula di udienza coloro che non hanno compiuto gli anni diciotto, le persone che sono
sottoposte a misure di prevenzione e quelle che appaiono in stato di ubriachezza, di intossicazione o di
squilibrio mentale. Una terza: non è consentita la presenza in udienza di persone armate, fatta eccezione
per gli appartenenti alla forza pubblica, né di persone che portino oggetti atti a molestare. Le persone che
turbano il regolare svolgimento dell’udienza sono espulse per ordine del presidente o, in sua assenza, del
pubblico ministero, con divieto di assistere alle ulteriori attività processuali.
Il divieto può essere assoluto e parziale, perché possono intervenire qualora dovessero essere sentiti come
testimoni, come dispone il comma 3: se alcuna di queste persone deve intervenire all’udienza come
testimone, è fatta allontanare non appena la sua presenza non è più necessaria.
È prevista anche la possibilità che si possa procedere anche a porte chiuse: art. 472. Il giudice dispone che
il dibattimento o alcuni atti di esso si svolgano a porte chiuse quando la pubblicità può nuocere al buon
costume ovvero, se vi è richiesta dell’autorità competente, quando la pubblicità può comportare la

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diffusione di notizie da mantenere segrete nell’interesse dello Stato. Interessano profili di sicurezza,
salvaguardia di alcuni soggetti. Dunque in questi casi la pubblicità può essere derogata.
Oltre alle ipotesi di carattere generale, ci sono alcuni casi particolari: su richiesta dell’interessato, il giudice
dispone che si proceda a porte chiuse all’assunzione di prove che possono causare pregiudizio alla
riservatezza dei testimoni ovvero delle parti private in ordine a fatti che non costituiscono oggetto
dell’imputazione. Quando l’interessato è assente o estraneo al processo, il giudice provvede di ufficio; ma
può procedere d’ufficio anche quando la pubblicità vada a ledere il pubblico igiene, quando avvengono
da parte del pubblico manifestazioni che turbano il regolare svolgimento delle udienze ovvero quando è
necessario salvaguardare la sicurezza di testimoni o di imputati.
Ancora. Per i reati previsti negli articoli 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-bis, 609-ter e 609-
octies del codice penale, ossia in riferimento a delitti di pedofilia, di violenza sessuale e tratta di persone
si svolge a porte aperte; tuttavia, la persona offesa può chiedere che si proceda a porte chiuse anche solo
per una parte di esso. Si procede sempre a porte chiuse quando la parte offesa è minorenne. In tali
procedimenti non sono ammesse domande sulla vita privata o sulla sessualità della persona offesa se non
sono necessarie alla ricostruzione del fatto.
Quando si è ordinato di procedere a porte chiuse, non possono per alcun motivo essere ammesse nell’aula
di udienza persone diverse da quelle che hanno il diritto o il dovere di intervenire. Nei casi previsti
dall’articolo 472 comma 3, il giudice può consentire la presenza dei giornalisti.
2. Mediata. Con ordinanza, sempre che questo non pregiudichi il sereno svolgimento del processo,
permette la riproduzione fonografica e audiovisiva, consentendo così la pubblicità mediata attraverso il
diritto di cronaca, ma è necessario anche il consenso delle parti. Il solo mancato consenso, comporterebbe
un vulnus nel diritto di cronaca. Ma nel caso ci sia un interesse sociale elevato, il mancato consenso sarebbe
irrilevante.
La regola è dunque la pubblicità e l’eccezione è lo svolgimento a porte chiuse, ma non vuol dire che lo sia
per tutta l’interezza del processo, perché il giudice può disporre che solo alcuni atti di esso si svolgano a
porta chiuse.

Quanto alla partecipazione dell’imputato assiste all’udienza libero (cioè non ammanettato) nella persona,
anche se detenuto, salvo che in questo caso siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di
violenza.
L’art. 475 prevede l’allontanamento coattivo dell’imputato. Infatti L’imputato che, dopo essere stato
ammonito, persiste nel comportarsi in modo da impedire il regolare svolgimento dell’udienza, è
allontanato dall’aula con ordinanza del presidente. Nel momento in cui viene allontanato, lo si considera
comunque presente. L’imputato allontanato può essere riammesso nell’aula di udienza, in ogni momento,
anche di ufficio. Qualora l’imputato debba essere nuovamente allontanato, il giudice può disporre con la
stessa ordinanza che sia espulso dall’aula, con divieto di partecipare ulteriormente al dibattimento, se non
per rendere le dichiarazioni previste dagli articoli 503 e 523 comma 5.
Per alcuni tipi di processi (terrorismo, mafia), laddove vi siano gravi ragioni di sicurezza o dove la
complessità del processo sia elevata, si prevede che vi sia una partecipazione a distanza, che si avrà in cui
anche quando ci sono dei soggetti sottoposti al regime di carcere «duro» (art. 41 bis ord. penitenziario). Ci
sono aule attrezzate per questi tipi di strumentazioni. L’imputato che partecipa a distanza deve vedere
tutta l’aula e sentire tutto ciò che accade. Egli può interloquire in due modi: innanzitutto è in presenza di
un ausiliario, il quale riferirà ogni volta quando l’imputato vuole prendere parola. A disposizione
dell’imputato a distanza, è disposto un telefono con il quale si permette al difensore e all’assistito di
interloquire, come se fossero presenti nella stessa stanza. La procedura è volta a tutta una serie di

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accorgimenti che vanno a tutelare l’imputato che partecipa a distanza ed evitare anche il «turismo
giudiziario».
Una volta però che si debba procedere a ricognizione, il giudice può ordinare all’imputato che partecipa a
distanza di comparire per quell’atto in udienza.
Gli istituti della partecipazione a distanza hanno dunque lo scopo di permettere l’intervento nel
procedimento anche da parte di quei soggetti che non possono essere presenti fisicamente in aula.
Devono ricorrere tre presupposti perché si possa utilizzare questo istituto (art. 146-bis disp. att.):
- Il reato per cui si procede contro l’imputato deve essere un delitto di criminalità organizzata di stampo
mafioso, un delitto di tipo terroristico ovvero un delitto di eversione dell’ordinamento costituzionale;
- La persona che partecipa a distanza, deve trovarsi in carcere (artt. 51, comma 3-bis e 407 comma 2, lett.
a, n. 4);
- Un eccezione, che però può essere intesa come una vera e propria terza ipotesi di partecipazione, alle
regole sopra esposte è prevista per i detenuti sottoposti al regime carcerario differenziato (il c.d.
carcere duro) introdotto dall’articolo 41-bis della legge 354/1975 (la legge sull’Ordinamento
penitenziario). Per detti soggetti è sempre prevista la partecipazione a distanza, al fine di garantire
l’isolamento che caratterizza il carcere duro, al fine di permettere al detenuto di partecipare a distanza
all’udienza, non permettendogli di entrare in contatto con l’organizzazione criminale cui appartiene.
A questo punto, il giudice deve valutare la presenza di gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico,
che prescindono dal comportamento tenuto dall’imputato, ovvero per evitare ritardi nello svolgimento
del processo.
Per quanto concerne le modalità, il collegamento deve essere contestuale, reciproco ed effettivo; bisogna però
distinguere due ipotesi, a seconda che si faccia riferimento al segmento pre-dibattimentale e quello
dibattimentale.
Se l’autorizzazione viene data prima dell’udienza dibattimentale, la partecipazione sarà autorizzata con
decreto motivato del Presidente del tribunale o della Corte d’assise, da comunicare alle parti almeno 10
giorni prima della partecipazione a distanza autorizzata; mentre se l’autorizzazione viene data nel corso
dell’udienza dibattimentale, la partecipazione sarà autorizzata con ordinanza adottata dal giudice, che
potrà essere impugnata dalle parti congiuntamente alla sentenza adottata al termine dell’udienza.
Quando è disposta la partecipazione a distanza, alcune modalità di esecuzione devono essere rispettate.
Infatti è attivato un (1) collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza e il luogo della custodia, con
modalità tali da assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti in entrambi
i luoghi e la possibilità di udire quanto vi viene detto. Se il provvedimento è adottato (2) nei confronti di
più imputati che si trovano, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione in luoghi diversi, ciascuno è posto
altresì in grado, con il medesimo mezzo, di vedere ed udire gli altri. Inoltre, è sempre (3) consentito al
difensore o a un suo sostituto di essere presente nel luogo dove si trova l’imputato. Il difensore o il suo
sostituto presenti nell’aula di udienza e l’imputato possono consultarsi riservatamente, per mezzo di
strumenti tecnici idonei. In ultimo, Il luogo dove l’imputato si collega in audiovisione è (4) equiparato
all’aula di udienza.

Il processo nella maggior parte dei casi non si esaurisce in una sola udienza. Quando non è assolutamente
possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente dispone che esso venga proseguito nel
giorno seguente non festivo (art. 477). In questo senso si è contemperato il principio della concentrazione.
Il giudice allora può sospendere il dibattimento soltanto per ragioni di assoluta necessità e per un termine
massimo che, computate tutte le dilazioni, non oltrepassi i 10 giorni, esclusi i festivi. Il presidente dà
oralmente gli avvisi opportuni e l’ausiliario ne fa menzione nel verbale. Sono termini ordinatori che

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comportano una non sanzioni in caso di un loro superamento, potendo così gravare sul principio sancito
costituzionalmente della ragionevole durata del processo (art. 111 comma 2 Cost.).
Tale istituito ricade nell’ambito dell’eccezionalità, cioè ha un evidente carattere generale e residuale.
Accanto a queste ipotesi, il legislatore ha previsto delle vere e proprie deroghe al principio della
concentrazione: le questioni pregiudiziali da parte di un giudice diverso da quello penale (art. 479).
Nel dibattimento possono nascere delle questioni. All’art. 3 si era già parlato delle questioni pregiudiziali
relativi allo stato di famiglia e di cittadinanza, ora si fa riferimento alle questioni civili o amministrative.
L’art. 479 afferma che, fermo quanto previsto dall’articolo 3, qualora la decisione sull’esistenza del reato
dipenda dalla risoluzione di una controversia civile o amministrativa di particolare complessità, per la quale sia
già in corso un procedimento presso il giudice competente, il giudice penale, se la legge non pone limitazioni
alla prova della posizione soggettiva controversa, può disporre la sospensione del dibattimento, fino a
che la questione non sia stata decisa con sentenza passata in giudicato. È una scelta discrezionale la
sospensione e il giudizio può essere procrastinato finché la questioni civile o amministrativa non sia stata
definita con sentenza passata in giudicato.
La sospensione è disposta con ordinanza, contro la quale può essere proposto ricorso per cassazione. Il
ricorso non ha effetto sospensivo. Durante il periodo di sospensione non possono essere compiuti atti
urgenti.
Qualora il giudizio civile o amministrativo non si sia concluso nel termine di un anno, il giudice, anche di
ufficio, può revocare l’ordinanza di sospensione.
Le questioni incidentali sono invece disciplinate dall’art. 478: sulle questioni incidentali proposte dalle
parti nel corso del dibattimento, il giudice decide immediatamente con ordinanza, previa discussione nei
modi previsti dall’articolo 491, senza prevedere la sospensione. Può essere una questione relativa
all’ammissione di una prova, dove le parti non siano concordi, facendo sì che il giudice decida su questa
questione, previa discussione con garanzia del contraddittorio.
Tale disciplina, se per un verso, evita l’inutile protrarsi di incertezze in ordine alla risoluzione di questioni
importanti in relazione all’intero processo, per l’altro, conferisce alla decisioni adottate in questa sede una
certa stabilità, essendo decisioni suscettibili di essere impugnate unicamente insieme alla sentenza
dibattimentale.

Il verbale descrive le attività svolte in udienza e riporta sinteticamente le richieste e le conclusioni del
pubblico ministero e dei difensori.
Ogni udienza, nel suo corso, il giudice redige il verbale, secondo quelle che sono le regole dell’art. 134.
Esso può essere in forma integrale o riassuntiva, al fine di garantire una più fedele documentazione alle
modalità ordinarie di documentazione che appaiono insufficienti, può essere aggiunta la riproduzione
audiovisiva, qualora venga ritenuta assolutamente indispensabile.
Forma integrale per i provvedimenti dati oralmente dal presidente, per le dichiarazioni spontanee
dell’imputato, nonché per l’esame dei testimoni, periti, consulenti tecnici e parti private; forma riassuntiva
per le richieste e le conclusioni del pubblico ministero e dei difensori.
Una deroga è prevista quando il contenuto dell’atto appare semplice o di limitata rilevanza o quando si
verifica una situazione di indisponibilità di strumenti di riproduzione o di ausiliari tecnici: infatti è
prevista una verbalizzazione in via riassuntiva non accompagnata dalla fonoregistrazione.
Alle regole della verbalizzazione generali sono affiancate disposizioni più specifiche al dibattimento tali
per cui forniscano al giudice la documentazione per una migliore attività di sindacato di rito e di merito negli
eventuali gradi di impugnazione e per promemoria ai fini della consultazione.
L’ausiliario che assiste il giudice redige il verbale di udienza, nel quale sono indicati:

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a) Il luogo, la data, l’ora di apertura e di chiusura dell’udienza;


b) I nomi e i cognomi dei giudici;
c) Il nome e il cognome del rappresentante del pubblico ministero, le generalità dell’imputato o le altre
indicazioni personali che valgono a identificarlo nonché le generalità delle altre parti e dei loro
rappresentanti, i nomi e i cognomi dei difensori.
Quanto al potere di controllo circa la documentazione, le parti hanno diritto di fare inserire nel verbale,
entro i limiti strettamente necessari, ogni dichiarazione a cui abbiano interesse, purché non contraria alla
legge. Il presidente può disporre, anche di ufficio, che l’ausiliario dia lettura di singole parti del verbale al
fine di verificarne la fedeltà e la completezza.

Atti introduttivi – Costituzione delle parti


Prima di dare inizio al dibattimento, il presidente controlla la regolare costituzione delle parti. Il controllo
può scindersi in due fasi.
La prima fase è riguardo alla costituzione delle parti, sia necessarie che eventuali. Questi atti hanno lo
scopo di consentire la verifica delle condizioni necessarie affinché il dibattimento possa svolgersi in modo
ordinato e regolare, nel rispetto dei diritti reciproci delle parti; anche se comunque non ha molto senso
perché il p.m. e l’imputato arrivano al dibattimento automaticamente dalla fase precedente. La
costituzione di quest’ultimo è verificata qualora ci sia la presenza del difensore. Qualora il difensore
dell’imputato non sia presente, il presidente designa come sostituto altro difensore a norma dell’articolo
97 comma 4.
Se per le parti eventuali c’è un controllo di tipo tecnico puntato sul controllo dei requisiti della regolarità
delle procure speciali, la validità delle citazioni e delle notifiche; se da altra parte per le parti necessarie
stanno in giudizio senza l’onere di costituirsi; per altra parte ancora il controllo (della costituzione) del
giudice è già avvenuto preliminarmente tramite l’osservanza delle condizioni di capacità e il numero di
giudici necessario per costituire i collegi (che se non osservati causano nullità di ordine generale assoluta).
In caso in cui ci siano irregolarità, anormalità o nullità in seguito al controllo effettuato dal giudice, questi
dovrà rinviare l’udienza e ordinare la rinnovazione delle citazioni, delle comunicazioni o delle
notificazioni di cui ha dichiarato la nullità,
Qualora non ci siano nullità o irregolarità, il giudice è chiamato a porre in essere una seconda fase di
controllo: questa è determinata per rispettare una compatibilità strutturale. Ecco allora che si applicano,
in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 420-bis, 420-ter, 420-quater e 420-quinquies: l’assenza
e l’impedimento a comparire. Si fonda sul presupposto che la presenza dell’imputato nel dibattimento sia
particolarmente tutelata al fine di determinare l’assunzione di mezzi di prova diversi dall’esame, come
per esempio i confronti e ricognizioni.
1. L’impedimento a comparire può importare sia l’imputato che il difensore. Quanto riguardo l’imputato,
il giudice dovrà rinviare l’udienza qualora l’impedimento sia stato reso possibile per forza maggiore, caso
fortuito o altro legittimo impedimento, ovvero dalla probabilità che la sua assenza sia stata determinata
da assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito o forza maggiore; quanto al difensore si deve
determinare una assoluta impossibilità di comparire riconducibili a impedimenti legittimi prontamente
comunicati.
2. L’assenza invece è quell’istituto per il quale l’autorità giudiziaria è chiamata a stabilire se l’imputato sia
o meno a conoscenza del provvedimento di fissazione dell’udienza, allo specifico scopo di accertare se la

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sua mancata presenza sia o meno frutto di una scelta consapevole. In caso di accertamento positivo, il
giudice emetterà ordinanza di procedere in sua assenza.
Ci sono tre diversi livelli di conoscenza dello sviluppo processuale: conoscenza certa; conoscenza presunta
dell’udienza per conoscenza certa del procedimento; mancata conoscenza dell’udienza e del procedimento. Il primo
è quando l’imputato abbia espressamente dichiarato di rinunciare a comparire; il secondo quando, pur
mancando espressa rinuncia, risulti un atto documentato in grado di far presumere, con ragionevole
certezza, che egli sia a conoscenza del procedimento a suo carico; la terza quando non è a conoscenza né
dell’udienza né del procedimento e nessun atto documento lascia presumere che sia conoscenza
dell’esistenza di questo, e di conseguenza il giudice non potrà celebrare il processo, ma dovrà agire
rinviando l’udienza e procedere alla notificazione dell’avviso personalmente all’imputato mediante
polizia giudiziaria. L’esito negativo impone la sospensione del processo: la sospensione comporta alcuni
effetti sulle nuove ricerche dell’imputato per la notifica dell’avviso e per la separazione dei processi
laddove risulti possibile proseguire nei confronti di altri coimputati.
Nei casi al di fuori di una non conoscenza del processo, l’imputato potrà comparire in udienza e fornire,
prima della decisione, (1) prova che l’assenza era dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della
celebrazione del processo e la (2) dimostrazione che egli versava nell’assoluta impossibilità di comparire
per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento e che la prova dell’impedimento è
pervenuta con ritardo senza una sua colpa.
Se tali situazioni sono accertate positivamente, il tribunale revocherà la dichiarazione d’assenza e dovrà
rinviare l’udienza per acconsentire che l’imputato possa avanzare richiesta di prove e chiedere la
rinnovazione di prove già assunte.
Potrà accadere che l’imputato compaia in dibattimento dopo essere stato assente all’udienza preliminare
e allora questi può chiedere di rendere le dichiarazioni previste dall’articolo 494. Potrà altresì essere
rimesso nel termine per formulare le richieste di rito abbreviato o di patteggiamento: è naturale però che
si dimostrino le circostanze da ricondurre alla scusabile ignoranza del procedimento.

All’art. 491 sono previste le questioni preliminari. Sono destinate ad essere discusse in questa fase affinché
il processo penale possa seguire il suo corso senza che emergano questioni che possano sconvolgere il
processo o farlo regredire, essendo incorsa una nullità. Permettono al processo di muoversi in modo
lineare.
Sono casi tassativi e si possono dividere in due categorie: quelle assolute e relative, a seconda del momento
processuale in cui possono emergere: prima dell’apertura del dibattimento (assolute), ovvero possono
accorrere non solo prima ma anche nel corso del dibattimento (relative). Quelle assolute sono quelle
contenute nel primo comma sono precluse se non sono proposte subito dopo la costituzione delle parti:
1. Questioni concernenti la competenza per territorio o per connessione;
2. Le nullità indicate nell’articolo 181 commi 2 e 3 (nullità riguardanti l’incidente probatorio, l’indagine
preliminare, l’udienza preliminare, il decreto che dispone il giudizio;
3. La costituzione di parte civile, la citazione o l’intervento del responsabile civile e della persona civilmente
obbligata per la pena pecuniaria;
4. L’intervento degli enti e delle associazioni previsti dall’articolo 91.
Devono emergere prima dell’apertura del dibattimento (altrimenti non eccepibili) e sono precluse subito
dopo aver compiuto per la prima volta la regolare costituzione delle parti.
Quelle relative possono emergere prima, ma anche nel corso del dibattimento. Devono essere eccepite, a
pena di reclusione, entro lo stesso termine delle assolute (subito dopo aver compiuto per la prima volta
l’accertamento della costituzione delle parti), ma qualora emergano in un momento successivo, esse

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potranno comunque essere sollevate anche nel corso del dibattimento. La disposizione del comma 1 si
applica anche alle questioni concernenti:
1. Il contenuto del fascicolo per il dibattimento;
2. La riunione o la separazione dei giudizi, salvo che la possibilità di proporle sorga soltanto nel corso del
dibattimento.
Le questioni preliminari sono discusse dal pubblico ministero e da un difensore per ogni parte privata in
contraddittorio, proposte mediante eccezione. La discussione deve essere contenuta nei limiti di tempo
strettamente necessari alla illustrazione delle questioni. Non sono ammesse repliche.
Il giudice provvede in merito agli atti che devono essere acquisiti all’interno del fascicolo per il
dibattimento ovvero quelli che si vogliono eliminare da esso. Qui però bisogna tenere conto che il fascicolo
è composto da due elementi: ove si tratti di atti provenienti dal fascicolo del pubblico ministero, ivi inseriti,
in seguito a contestazioni, letture o altri strumenti di acquisizioni, e cioè l’eccezione deve essere eccepita
nel momento in cui è sorta; ove invece si tratti di atti inseriti originariamente nel fascicolo del dibattimento
ex art. 431, la questione può essere entro i termini per la costituzione delle parti.
Sulle questioni preliminari il giudice decide con ordinanza.

Dopo l’indicazione dei fatti e la richiesta di prove, il presidente informa l’imputato che ha facoltà di
rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni (spontanee) che ritiene opportune, purché esse si
riferiscano all’oggetto dell’imputazione e non intralcino l’istruzione dibattimentale. Se nel corso delle
dichiarazioni l’imputato non si attiene all’oggetto dell’imputazione, il presidente lo ammonisce e, se
l’imputato persiste, gli toglie la parola.
Le dichiarazioni non devono sottostare all’obbligo della verità; valgono come contributo chiarificatore,
affidato alla libera disponibilità dell’autodifesa da parte dell’imputato: il mancato avvertimento determina
quindi una nullità di ordine generale a regime intermedio ex art. 178 comma 1, lett c.
La peculiarità di questo strumento in mano all’imputato sta nel fatto che, nell’arco di tempo in cui le
rilascia, esclude ogni sorta di domanda, interpello ad opere delle altre parti o del giudice, non ammettendo
contestazioni.

Una volta effettuato il controllo sulla costituzione delle parti e risolte le eventuali questioni preliminari, il
presidente dichiara aperto il dibattimento (art. 492) e affida al suo ausiliario il compito di dare lettura
dell’imputazione. Ma poiché all’imputato non è dato sapere nulla circa quanto è avvenuto nel corso delle
indagini preliminari, spetta alle parti, titolari del diritto alla prova, indicare i fatti che intendono provare
nonché chiedere l’ammissione dei mezzi di prova.
Ecco allora che la prima attività che viene fatta nel dibattimento è la richiesta di prova (art. 493), e viene
fatta nella prima udienza (che deve avvenire per citazione diretta in giudizio: udienza di comparizione).
Questa prima udienza dibattimentale, che nella pratica è definita come udienza di smistamento, e qui si
fa la richiesta di prova, ma è possibile che si faccia anche una serie di atti preliminari laddove questi non
implichino un rinvio dell’udienza.
È molto importante perché è qui che si delinea l’oggetto su cui ci si deve confrontare e si va ad introdurre
i mezzi si prova attraverso i quali le parti dimostrano la propria tesi.
Prima del 1999 le parti avevano una posizione diversa, ora sono sullo stesso livello. Infatti prima il p.m.
dava l’input di esposizione. Ora invece tutte le parti, dunque il pubblico ministero, i difensori della parte
civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell’imputato,
nell’ordine indicano i fatti che intendono provare, possono chiedere l’ammissione delle prove.

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L’articolo della richiesta di prove deve essere collegato con l’articolo 468 delle liste testimoniali: non
possono essere portate prove diverse da quelle dedotte in queste liste, cioè dovevano essere state indicate
tempestivamente al momento della formazione della lista. Ma qui è previsto il meccanismo della
restituzione nel termine: quindi la parte che richieda prove diverse deve dimostrare di non averle potute
indicare tempestivamente.
In questa fase si ripresenta poi la figura dell’accordo probatorio, ossia che le parti si possono accordare di
inserire nel fascicolo del dibattimento degli atti investigativi che in sé dovrebbero rimanere nel fascicolo
del pubblico ministero, ma che con il loro accordo si potrebbe avere la ripetizione degli atti. Il comma 3
dell’art. 493 determinerebbe l’entrata nel fascicolo dibattimentale di qualsiasi atto compiuto o raccolto nel
corso delle indagini, esaltando il principio dispositivo delle parti.
L’accordo non può superare certi vizi dell’atto come la nullità assoluta, la inutilizzabilità, diverso invece
per la nullità relativa e intermedia, laddove ci sia una sanatoria.
È importante sottolineare che le parti quando indicano le prove sono richiamate dal giudice: le prove
devono essere succinte e il presidente impedisce ogni divagazione, ripetizione e ogni lettura o esposizione
del contenuto degli atti compiuti durante le indagini preliminari.
Una volta terminata la richiesta delle prove, il giudice si pronuncia dopo aver sentito le parti e provvede
ad emettere un’ordinanza con la quale ammette le prove. Nel compiere tale attività, e li deve seguire i
criteri stabiliti dagli artt. 190 e 190 bis. Secondo l’art. 190 il giudice è tenuto ad ammettere tutte le prove
richieste, escludendo soltanto quelle manifestamente superflue (che sono appunto in più), irrilevanti (non
c’entrano con i temi che si vogliono provare) o vietate dalla legge. Secondo l’art. 190 bis invece sorge il
problema di evitare l’usura del testimone ed evitare che questi sia chiamato a rilasciare dichiarazioni nel
procedimento: il testimone sarà ammesso solo se riguarda fatti diversi da quelli presi in considerazione
oppure perché le parti lo ritengano assolutamente necessario.
Ancora: quando è stata ammessa l’acquisizione di verbali di prove di altri procedimenti, il giudice
provvede in ordine alla richiesta di nuova assunzione della stessa prova solo dopo l’acquisizione della
documentazione relativa alla prova dell’altro procedimento. In merito a questo punto vi è da dire che la
richiesta può essere contestata qualora la prova documentale non sia in linea con i criteri dell’art. 190
ovvero non rientra nella categoria dell’art. 234 e ss, cioè delle prove documentali.
Ogni parte ha diritto all’ammissione della prova contraria (a discarico). Lo stesso diritto spetta al pubblico
ministero in ordine alle prove a carico dell’imputato sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico.
L’ammissione può tendere a negare l’esistenza del medesimo fatto principale e può tendere ad affermare
anche l’esistenza di un fatto diverso, incompatibile con l’esistenza del fatto principale (alibi). In ogni modo
la prova contraria deve essere valutata in base ai criteri stabiliti dall’art. 190.
Dal momento che il processo è molto complesso, e non tutte le prove vengono presentate alla prima
udienza, si può fare riserva di documentazione e presentarla così successivamente. In ogni modo
comunque le parti hanno la facoltà di esaminare i documenti di cui è chiesta l’ammissione. Si può allora
proporre eccezione e il giudice decide con un’ordinanza che tuttavia, fino al momento in cui la prova viene
raccolto, il giudice può revocarla, dopo aver sentito le parti e revocare la prova stessa. Infatti, il comma 4
dell’art. 495 dispone che nel corso dell’istruzione dibattimentale, il giudice decide con ordinanza sulle
eccezioni proposte dalle parti in ordine alla ammissibilità delle prove. Il giudice, sentite le parti, può
revocare con ordinanza l’ammissione di prove che risultano superflue o ammettere prove già escluse.
Nel momento in cui vengono richieste diventano patrimonio comune e allora può succedere che la parte
che ha richiesto la prova, decida che non le serve più, rinunciando l’ammissione (forse perché i fatti che
intendeva provava con quel testimone sono già stati provati in altro modo). Ma è necessario il consenso
dell’altra parte.

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Istruzione dibattimentale

Dopo aver ammesso tutte le prove si forma un panorama chiaro di quello che sarà lo sviluppo del processo
in senso stretto sia in termini di tempo che di prove. A questo punto inizia l’istruzione dibattimentale,
che è la fase nell’ambito della quale si formano le prove.
L’istruzione dibattimentale inizia con l’assunzione delle prove richieste dal pubblico ministero e prosegue
con l’assunzione di quelle richieste da altre parti (che vede per ultimo l’imputato), nell’ordine previsto
dall’articolo 493 comma 2. In ogni caso le parti possono concordare tra di loro un nuovo ordine.
L’istruzione dibattimentale è fondata sull’onere della prova.

L’esame testimoniale obbliga il teste a dire la verità. È strutturato in una maniera particolare. Come
prevede l’art. 111 Cost, la prova deve formarsi in contraddittorio tra le parti: è un passo articolato. Significa
consentire alle parti di intervenire sulle dichiarazioni che si rilasciano, ossia esaminare e contro-esaminare
un testimone. È ritenuto lo strumento più adeguato per accertare i confini della responsabilità.
Prima che l’esame abbia inizio, il presidente avverte il testimone dell’obbligo di dire la verità. Salvo che
si tratti di persona minore degli anni quattordici, il presidente avverte altresì il testimone delle
responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti. Il mancato rispetto delle
previsioni concernenti avvertimenti e inviti preliminari alla testimonianza determina la nullità della stessa
ed è da ricondurre alla violazione degli artt. 181 e 182 nonché alla categoria delle nullità relative. Inoltre,
quanto risulta dalla lettura dell’art. 149 disp. att. i testimoni non devono comunicare con alcuna delle altre
parti, né possono assistere all’esame delle altre persone, né possono vedere, udire o comunque essere
informati su ciò che avviene in aula. In ogni modo il mancato rispetto di quest’ultima prescrizione non
comporta nullità ma sono irregolarità. Nella pratica succede spesso che i testimoni siano fatti allontanare
al di fuori delle porte dell’aula, con la possibilità che essi possano comunque udire quanto avviene durante
le deposizioni altrui.
È previsto una schema destinato ad articolarsi in tre momenti fondamentali: esame diretto, controesame e
riesame.
L’esame è condotto dalla parte che lo ha chiesto, la quale formula direttamente le domande al testimone
senza intermediazioni o interventi del giudice: le domande infatti sono rivolte direttamente dal pubblico
ministero o dal difensore che ha chiesto l’esame del testimone. Lo scopo dell’esame diretto è quello di fare
in modo che il testimoni riveli i fatti così come da lui percepiti.
Successivamente intervengono poi tutte le altre parti, regolando il loro controesame. Questo è condotto
dalle parti che hanno un interesse contrario rispetto a quella che ha chiesto l’esame del testimone e tende
a fare in modo che il testimone: 1) dichiari un fatto diverso o contrario rispetto a quello esposto nell’esame
diretto; 2) sia una spiegazione alternativa del fatto esposto nell’esame diretto; 3) ammetta fatti che
contraddicano le conclusioni alle quali è pervenuta la controparte.
Lo scopo dell’esame e controesame è quello di esaltare la spontaneità della dichiarazione.
Una volta terminato, per tutte le parti, la parte che ha proposto l’esame può proporre riesame. Il riesame
è condotto dalla parte che ha chiesto l’assunzione della testimonianza. Può avere luogo unicamente
quando è stato disposto il controesame: esso è teso al recupero della sequenza dei fatti come emersi nel
corso dell’esame, dopo che il controesame ha cercato di prospettare soluzioni alternative, sia a consentire
al testimone di giustificare eventuali contraddizioni emerse in sede di controesame.
L’esame testimoniale del minorenne è condotto dal presidente su domande e contestazioni proposte dalle
parti. Nell’esame il presidente può avvalersi dell’ausilio di un familiare del minore o di un esperto in

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psicologia infantile. Il presidente, sentite le parti, se ritiene che l’esame diretto del minore non possa
nuocere alla serenità del teste, dispone con ordinanza che la deposizione prosegua nelle forme previste
dai commi precedenti. L’ordinanza può essere revocata nel corso dell’esame.
Quando poi si hanno casi delicati molto particolari, se la parte lo richiede l’esame può essere fatto con lo
schermo unidirezionale.
L’esame testimoniale si svolge mediante domande su fatti specifici.
Qual è il contenuto di queste domande? È naturale che debbano avere diverse caratteristiche e devono
vertere su fatti specifici: nel corso dell’esame, come si denota dall’art. 499, sono vietate le domande che
possono nuocere la sincerità del teste (cioè le domande trabocchetto) e anche quelle suggestive (cioè che
suggeriscono una risposta).
Il presidente cura che l’esame del testimone sia condotto senza ledere il rispetto della persona.
Inoltre, il testimone può essere autorizzato dal presidente a consultare, in aiuto della memoria, documenti
da lui redatti. Poi durante l’esame, il presidente, anche di ufficio, interviene per assicurare la pertinenza
delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni,
ordinando, se occorre, l’esibizione del verbale nella parte in cui le dichiarazioni sono state utilizzate per le
contestazioni.
Le contestazioni sono effettuate sulle dichiarazioni discordanti rese.

L’esame può essere compiuto anche sulle parti private: infatti queste si possono sottoporre all’esame
diretto solo volontariamente: cioè queste si sottopongono se ne facciano richiesta ovvero se prestano
consenso ad una richiesta. Il presidente dispone l’esame delle parti che ne abbiano fatto richiesta o che vi
abbiano consentito, secondo il seguente ordine: parte civile, responsabile civile, persona civilmente
obbligata per la pena pecuniaria e imputato.
Innanzitutto bisogna ricordare che cosa sia l’esame delle parti: si tratta del mezzo di prova con cui si
traducono nel processo le conoscenze dell’imputato, della parte civile, del responsabile civile e della
persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria sopperendo al limite della testimonianza.
Le modalità dell’esame delle parti sono quelle utilizzate per i testimoni, dunque art. 498 e art. 499: c’è
dunque l’esame della parte che l’ha richiesto e poi il controesame delle altre (che come sempre si riflette
in quello scopo di far cadere in contraddizione la parte che aveva prestato l’esame) e l’eventuale riesame.
Tuttavia delle caratteristiche particolari le può assumere l’esame dell’imputato che rilasci delle
dichiarazioni sulla responsabilità di terzi: in questo caso allora si andrà a collegare con le varie modalità
nell’ambito della parte statica (come l’art. 197 bis, nonché le posizioni disciplinate dall’art. 12 lett. a e c).
Ci possono essere quattro ipotesi.
1. La prima attiene al caso di colui che, originariamente imputato in un procedimento connesso ai sensi
dell’art. 12 o di un reato collegato probatoriamente ai sensi dell’art. 371, comma 2 lett. b, venga poi ad
essere destinatario di una sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della
pena su richiesta di parte. Questo soggetto potrà essere sentito come testimone sul fatto altrui, con le
garanzie di cui all’art. 197 bis.
2. La seconda riguarda colui il quale sia imputato in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 comma
1 lett. a che abbia reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri e che, non essendo
stato destinatario di sentenza irrevocabile, non può assumere l’ufficio di testimone. Questo soggetto prima
che abbia inizio l’esame dovrà essere avvertito della facoltà di non rispondere alle domande che gli
verranno formulate.
3. La terza situazione concerne l’imputato in un procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 comma 1 lett
c, o di un reato collegato probatoriamente. Questo soggetto, laddove non abbia reso dichiarazioni sul fatto

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altrui, potrà essere esaminato ai sensi dell’art. 210, ma prima che abbia inizio l’esame bisogna avvertirlo
della facoltà di non rispondere. Se non si avvale di questa facoltà, e rende dichiarazioni concernenti il fatto
altrui, assumerà l’ufficio di testimone.
4. La quarta trova applicazione nei confronti dell’imputato in un procedimento connesso teleologicamente
(art. 12 comma 1, lett. c) o di un reato collegato probatoriamente che abbia già reso dichiarazioni
concernenti il fatto altrui in sede di indagini preliminari o in udienza preliminare, allora bisognerà
avvertirlo della facoltà di non rispondere.
Quanto all’esame dei periti e dei consulenti tecnici, sono ricalcate le norme concernenti il testimone, a
parte alcune differenza. La prima la si reperisce nell’art. 501 dove il perito e il consulente tecnico hanno in
ogni caso facoltà di consultare documenti, note scritte e pubblicazioni, che possono essere acquisite anche
di ufficio. La seconda è che il perito o il consulente tecnico è autorizzato ad assistere all’esame e
all’assunzione di prove. Una terza differenza sta nel rendere le dichiarazioni veritiere: se il testimone è
vincolato alla verità storica, il perito è sottoposto alla verità critica, mentre il consulente tecnico di parte
non è limitato ad alcun vincolo.
Ci sono anche delle situazioni che possono riguardare dei modelli alternativi di assunzione delle
testimonianza e in particolare sono presi in considerazione nell’ambito dell’art. 147 bis disp. att. Si tratta
dell’esame di persone sotto copertura, dei collaboratori di giustizia e degli imputati di reato connesso. Di
questi viene effettuato un esame a distanza che può essere richiesto sia dalle parte sia d’ufficio dal giudice:
questo serve per evitare che siano disposti nel nulla tutti i percorsi di operazioni sotto copertura degli
agenti. Viene assicurato un collegamento audiovisivo, ma anche con uno schermo unidirezionale.
Un altro modello alternativo è rappresentato dall’art. 502. In caso di assoluta impossibilità di un testimone,
di un perito o di un consulente tecnico a comparire per legittimo impedimento, il giudice, a richiesta di
parte, può disporne l’esame nel luogo in cui si trova, dando comunicazione, a norma dell’articolo 477
comma 3, del giorno, dell’ora e del luogo dell’esame.

Che cos’è la contestazione? È una richiesta per accertare la discrepanza tra una dichiarazione resa dal
teste nel corso dibattimentale e un’altra dichiarazione resa dallo stesso soggetto in un’altra fase. Occorre
che vi sia una certa promiscuità in fase di indagine preliminare e in fase di udienza preliminare e
dichiarazioni che sono rese nel dibattimento. Se per un verso ci si trova davanti ad uno strumento che va
a saggiare la credibilità del testimone, dall’altro lato è uno strumento che pone in discussione l’istituto del
contraddittorio come strumento principale, perché si hanno delle dichiarazioni rese non nel corso del
contraddittorio e sono rese comunque per accertare la responsabilità dell’imputato.
La contestazione avviene tramite la lettura della precedente dichiarazione.
Il primo presupposto che consente una contestazione è che il testimone abbia già deposto. La finalità
principale è dunque quella di valutare la credibilità del teste. La lettura delle contestazione può avvenire
anche quando il teste sia reticente o in una sorta di amnesia al fine di stimolare una risposta più precisa.
Ma sono previste tre eccezioni all’irrilevanza probatoria del precedente difforme:
1. La prima, che riproduce l’art. 111 comma 5 Cost. in merito alla provata condotta illecita, si realizza in
caso di inquinamento probatorio: si va a creare una trasmigrazione agli atti del fascicolo del dibattimento
di dichiarazioni che sono già state rese. Quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono
elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa
di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel
fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del
dibattimento e quelle previste dal comma 3, possono essere utilizzate. In questo caso il giudice, per
verificare le pressioni esterne, apre un procedimento incidentale destinato a concludersi, senza ritardo,

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con la pronuncia di un’ordinanza. In caso di positivo accertamento, l’acquisizione delle dichiarazioni


precedentemente rese è consentita.
2. La seconda attiene alle dichiarazioni assunte dal giudice dell’udienza preliminare ai sensi dell’art. 422
(integrazione probatoria). Tali dichiarazioni utilizzate per le contestazione nell’esame testimoniale
possono essere acquisite, su richiesta di parte, nel fascicolo del dibattimento, nonché essere valutate a fini
probatori nei confronti soltanto delle parti che, nel corso dell’udienza preliminare, hanno partecipato in
contraddittorio alla loro assunzione. Se non sussistono tali requisiti, allora potranno essere utilizzate solo
per valutare la credibilità del teste.
3. La terza, che è impostata sulla falsariga dell’art. 111 comma 5 Cost. del consenso dell’imputato, consente
l’acquisizione al fascicolo dibattimentale, su accordo delle parti, delle dichiarazioni, contenute nel fascicolo
del pubblico ministero, precedentemente rese dal testimone.
Il comma 3 dell’art. 500 – se il teste rifiuta di sottoporsi all’esame o al controesame di una delle parti, nei
confronti di questa non possono essere utilizzate, senza il suo consenso, le dichiarazioni rese ad altra parte,
salve restando le sanzioni penali eventualmente applicabili al dichiarante – riproduce il divieto unilaterale
contenuto nell’art. 111 comma 4 Cost. concernente la volontaria sottrazione all’esame condotto da parte
della difesa.
Le contestazioni nell’esame delle parti sono previste all’art. 503 comma 3, 4, 5 e 6 e ricalcano quanto si è
appena detto in riferimento al testimone.
Anche in tema di parti vengono stabilite delle eccezioni all’irrilevanza probatoria del precedente difforme.
Infatti il pubblico ministero e i difensori, per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione,
possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dalla parte esaminata e contenute nel fascicolo
del pubblico ministero. Tale facoltà può essere esercitata solo se sui fatti e sulle circostanze da contestare
la parte abbia già deposto.

Nel corso dell’istruzione dibattimentale, sebbene il dibattimento sia caratterizzato dai principi dell’oralità
e dell’immediatezza, ci sono delle eccezioni dettate da ragioni di eccezionalità. Infatti in alcuni casi il
legislatore ha ritenuto che si possano utilizzare dichiarazioni rese durante le indagini o l’udienza
preliminare che non possono essere ripetute nel corso del dibattimento. Allora il giudice del dibattimento
può avere indirettamente conoscenza di queste dichiarazioni precedenti al dibattimento. In quest’ottica è
stato coniato l’istituto delle letture dibattimentali: letture consentite e letture vietate.
Letture consentite. Occorre dire che un atto per poter essere utilizzato ai fini delle proprie decisioni non è
sufficiente che sia inserito nel fascicolo del dibattimento, prima o dopo. Il meccanismo della lettura serve
per veicolare gli atti contenuti del fascicolo del dibattimento nella possibilità in capo al giudice di poterli
utilizzare nell’ambito della propria decisione.
Così l’art. 511 stabilisce che il giudice, anche di ufficio, disponga che sia data lettura, integrale o parziale,
degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento (lettura atti contenuti nel fascicolo del dibattimento).
La lettura così rappresenta una modalità di acquisizione probatoria degli atti processuali non compiuti
nel dibattimento.
Uno dei presupposti che serve per dare validità a questa lettura è che il giudice potrà dare lettura dei
verbali delle dichiarazioni unicamente dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non
abbia luogo.
Dunque tutte le dichiarazioni rilasciate devono essere lette dopo aver sentito coloro che le avevano
rilasciate: questo per consentire al giudice di dare piena valenza.
C’è un meccanismo che può andare sostituire la lettura, avendo gli stessi effetti sotto il punto di vista della
lettura, che è l’indicazione degli atti.

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La possibilità di chiedere la lettura al posto dell’indicazione viene lasciata in modo particolare, perché si
tratta di uno strumento di stretto dominio alle parti (essendo coloro che gestiscono la prova): infatti può
essere esercitata, tale funzione, dagli enti rappresentativi
Il successivo articolo (art. 511 bis) prevede la lettura dei verbali da altri procedimenti: questa deve essere
effettuata solamente dopo aver sentito la parte che le ha rese. La lettura deve essere data nell’art. 238. Sono
atti non originariamente inseriti nel fascicolo del dibattimento, ma ci entrano quando la parte ne abbia
fatto espressa menzione nella lista testimoniale e il giudice l’abbia emessa dopo averla acquisita.
L’art. 512 disciplina la lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione e il giudice, a richiesta
di parte, dispone che sia data lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, dai
difensori delle parti private e dal giudice nel corso della udienza preliminare quando, per fatti o
circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la ripetizione.
Questo meccanismo di letture di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione, ma anche quella di
altre procedimenti e quella di lettura di dichiarazioni di persona residente all’estero danno vita a un
bilanciamento di interessi. Questo è postumo al fatto che il giudice del dibattimento non ne può fare a
meno e allora va a creare piccoli vuoti di tutela nella formazione della prova sul principio di oralità e di
immediatezza, che sono soltanto diverse accezioni dell’impossibilità di formare la prova del
contraddittorio.
L’art. 512 bis segue con la lettura di dichiarazioni rese da persona residente all’estero: dunque il giudice,
a richiesta di parte, può disporre, tenuto conto degli altri elementi di prova acquisiti, che sia data lettura
dei verbali di dichiarazioni rese da persona residente all’estero anche a seguito di rogatoria internazionale
se essa, essendo stata citata, non è comparsa e solo nel caso in cui non ne sia assolutamente possibile
l’esame dibattimentale.
Cosa succede nel caso in cui non si riesca a sentire il soggetto nuovamente nell’ambito del dibattimento?
L’art. 513 dispone comunque la lettura delle dichiarazioni rese dall’imputato nel corso delle indagini
preliminari o nell’udienza preliminare, permettendo al giudice, se l’imputato è assente ovvero rifiuta di
sottoporsi all’esame, di disporre, a richiesta di parte, che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni
rese dall’imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al
giudice nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare, ma tali dichiarazioni non possono
essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso salvo che ricorrano i presupposti di cui
all’articolo 500, comma 4 (ossia quando c’è stata una condotta provata illecita).
Se le dichiarazioni sono state rese dalle persone indicate nell’articolo 210, comma 1, il giudice, a richiesta
di parte, dispone, secondo i casi, l’accompagnamento coattivo del dichiarante o l’esame a domicilio o la
rogatoria internazionale ovvero l’esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del
contradditorio. Se non è possibile ottenere la presenza del dichiarante, ovvero procedere all’esame in uno
dei modi suddetti, si applica la disposizione dell’articolo 512 qualora la impossibilità dipenda da fatti o
circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni. Qualora il dichiarante si avvalga della facoltà di
non rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali contenenti le suddette dichiarazioni soltanto con
l’accordo delle parti.
La disposizione in esame attua in modo pieno il principio del contraddittorio evitando che il giudice possa
porre a fondamento della decisione relativa a un determinato imputato dichiarazioni rese da una persona
nei cui confronti pende un altro procedimento.
A fronte di tutte queste letture inserite nel fascicolo del dibattimento, esistono anche quelle vietate (art.
514).
Queste dichiarazioni devono essere lette nel corso di una fase processuale caratterizzata da un
contraddittorio. Non può essere data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall’imputato, dalle

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persone indicate nell’articolo 210 e dai testimoni alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero o al giudice
nel corso delle indagini preliminari o nella udienza preliminare, a meno che nell’udienza preliminare le
dichiarazioni siano state rese nelle forme previste dagli articoli 498 e 499, alla presenza dell’imputato o del
suo difensore.
La norma pone l’accento sulla necessità di non disperdere elementi probatori raccolti al di fuori del
dibattimento nel rispetto del contraddittorio e ha fatto salva la lettura di ogni dichiarazione resa nel corso
dell’udienza preliminare con le forme dell’esame incrociato e alla presenza dell’imputato o del difensore.
La logica è quella di impedire il passaggio delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari e
dunque in un procedimento non caratterizzato dal contraddittorio delle parti: lo scopo è quello di tutelare
tutte le parti sotto questo specifico motivo, salvo la possibilità di dare lettura agli atti a seconda degli artt.
511, 511 bis, 512, 512 bis e 513 appena visti.

Talvolta accade che nel corso dell’istruzione dibattimentale si manifesti la necessità di un accertamento
peritale. Il questo caso il giudice, d’ufficio o su richiesta di parte, nel disporre la perizia, cita
immediatamente il perito a comparire in udienza affinché, nell’ambito dello stesso dibattimento, esponga
il proprio parere circa i quesiti formulati con l’incarico peritale. Al fine di salvaguardare il contraddittorio
nella formazione della prova, le parti sono autorizzate a presentare in dibattimento, anche senza citazione,
i propri consulenti tecnici.
Nel caso in cui l’accertamento richieda più ricerche, il giudice può disporre la sospensione del dibattimento
e riassunzione dello stesso entro 60 giorni.

L’assunzione dei mezzi di prova è richiesta dalle parti, ma ai sensi dell’art. 505, oltre alle parti,
l’assunzione dei mezzi di prova può essere richiesta dagli enti esponenziali (gli enti rappresentatori di
interessi diffusi): in verità agli enti non è riconosciuto un vero e proprio diritto alla prova. La loro funzione,
infatti, è quella di stimolare l’acquisizione di nuove prove da parte del giudice.
Oltre alle parti, oltre agli enti esponenziali, un potere di integrazione probatoria è riconosciuto anche al
presidente che al fine di garantire la completezza delle prove potrà muoversi in 2 direzioni:
Ai sensi dell’articolo 506 in risposta all’esame dei testimoni e delle parti private, può al termine
dell’istruzione dibattimentale (1) indicare alle parti temi di prova nuovi o più ampi, a patto che siano utili per
la completezza dell’esame ovvero (2) rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti e alle altre persone
esaminate.
Il potere del presidente però soggiace a due limiti: uno temporale e uno teleologico. Il primo consistente
nel fatto che al presidente è consentito attivarsi soltanto al termine dell’istruzione dibattimentale; il
secondo corrisponde all’esigenza di completezza dell’esame, dovendo far riferimento a parametri
oggettivi desumibili dalle circostanze indicate nelle liste testimoniali, dai temi di prova individuati dalle
parti nel contesto degli atti introduttivi e dai risultati conseguiti nel corso dell’esame.
Inoltre, ai sensi dell’articolo 507, al termine dell’acquisizione probatoria, il giudice, se risulta assolutamente
necessario, può disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova, anche relativi agli atti
acquisiti al fascicolo per il dibattimento. Trattasi, tuttavia, di un potere integrativo ed eccezionale del
giudice che può essere esercitato anche su istanza delle parti, le quali possono in tal modo supplire alla
precedente carenza probatoria.
Tale articolo costituisce il compromesso necessario cui è dovuto pervenire un sistema di tipo accusatorio,
basato sul principio dispositivo, che continua a ruotare intorno a una giurisdizione fondata sul principio
di obbligatorietà dell’azione penale.

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Con l’assunzione di nuovi mezzi di prova da parte del giudice non corrisponde a una deroga al principio
dispositivo perché manca la possibilità di ipotizzare una lesione del principio di imparzialità con riguardo
al rischio, anche solo astratto, di una impropria assunzione da parte del giudice di compiti dell’accusa o
della difesa, atta a trasformarlo in un alleato dell’uno o dell’altro dei contendenti: vi è piuttosto un
prevalente diritto di giustizia che supplisce all’inattività di una delle parti.
Le condizione per attivare questo meccanismo sono tre:
1. Occorre che sia terminata l’acquisizione delle prove;
2. L’assunzione del mezzo di prova deve risultare assolutamente necessario;
3. Novità del mezzo di prova da assumere («nuovo»). Per prova nuova si intende non solo la prova
sopravvenuta o scoperta successivamente alla richiesta di prova, ma anche quella non disposta
precedentemente, preesistente o sopravvenuta, conosciuta o non conosciuta, purché risulti dagli atti
processuali.
Sussistendo queste condizioni si può procedere all’ammissione, nonché alla conseguente assunzione.

Terminata l’assunzione dei mezzi di prova, l’articolo 510 dispone che dell’istruzione probatoria deve
essere redatto verbale (verbale di assunzione dei mezzi di prova).
Nel verbale sono indicate le generalità dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici e degli interpreti.
L’ausiliario che assiste il giudice documenta nel verbale lo svolgimento dell’esame dei testimoni, dei periti,
dei consulenti tecnici e delle parti private, riproducendo integralmente in forma diretta le domande poste
dalle parti o dal presidente nonché le risposte delle persone esaminate.

Istituto delle nuove contestazioni


Ci si trova di fronte alla possibilità di adeguare il capo di imputazione a tutto ciò che accade nel corso del
processo. Dato che l’imputazione deve seguire il corso del processo, esiste sempre la possibilità di andare
a modificarla: prima, nelle indagini preliminari; e dopo, nel corso del dibattimento.
È un istituto che orbita nell’ambito nel contesto dell’esercizio dell’azione penale e nel contesto
dell’obbligatorietà penale.
C’è un disallineamento di quanto è previsto nella norma e di quanto accade nella pratica.
Se nel corso dell’istruzione dibattimentale il fatto risulta diverso da come è descritto nel decreto che
dispone il giudizio, ovvero emerga un reato connesso a norma dell’art. 12 comma 1 lett. b ovvero una
circostanza aggravante, e non appartiene alla competenza di un giudice superiore, il pubblico ministero
modifica l’imputazione e procede alla relativa contestazione all’imputato presente.
Se l’imputato risulta assente, il pubblico ministero chiede al presidente di inserire nel verbale del
dibattimento l’imputazione modificata, nonché di notificare tale verbale, per estratto, all’imputato. Nel
contempo, il presidente sospende il dibattimento e fissa una nuova udienza per la prosecuzione,
premurandosi di osservare i termini a difesa riconosciuti all’imputato.
Una sentenza a sezioni unite della corte di cassazione del 1998 ha affermato che l’istituto sia applicabile
anche dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento ma prima dell’istruzione, perché l’anticipazione della
nuova contestazione non produrrebbe alcune lesione del diritto di difesa. Qui ce n’è già uno di
disallineamento: questo perché tale istituito è stato costruito seguendo lo scherma «perfetto» delineato dal
codice di come, cioè, si dovrebbe procedere: spesso, nella pratica, la possibilità di modificare l’imputazione
i p.m. la contestano all’inizio dell’udienza. Se la ratio astratta era rivolta ad adeguare il processo e il
contenuto del decreto che dispone il giudizio, in concreto risulta essere un meccanismo che consente di
cambiare l’imputazione quando il pubblico ministero cerca di colmare le lacune o alcune omissioni nella
sua imputazione.

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Se a seguito della modifica il reato risulta attribuito alla cognizione o alla competenza del tribunale in
composizione collegiale, anziché monocratica, l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione del
giudice è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, immediatamente dopo la nuova contestazione ovvero, nei
casi indicati dagli articoli 519 comma 2 e 520 comma 2, prima del compimento di ogni altro atto nella nuova
udienza fissata a norma dei medesimi articoli.
La corte costituzionale si è più volte pronunciata sul fatto che l’articolo non prevede un rito alternativo.
Dunque è incostituzionale in tutte le parti in cui non consente all’imputato di richiedere patteggiamento,
rito abbreviato od oblazione in relazione al fatto di reato che già risulta dagli atti di indagine al momento
dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato ha tempestivamente e ritualmente proposto la
richiesta di applicazione di pena in ordine alle originarie imputazioni. Afferma che in un sistema
accusatorio la modifica dell’accusa non sia da ritenerne un fenomeno infrequente.
Se risulta un fatto nuovo, non enunciato nel decreto che dispone il giudizio, il pubblico ministero esercita
l’azione penale nelle forme ordinarie, potendo tuttavia procedere alla nuova contestazione in sede di
udienza, qualora lo richieda al presidente e questi lo autorizzi dopo avere accertato che vi sia il consenso
dell’imputato presente e non ne derivi pregiudizio per la speditezza dei procedimenti.
Il presidente informa l’imputato che può chiedere un termine per la difesa. Se l’imputato ne fa richiesta,
il presidente sospende il dibattimento per un tempo non inferiore al termine per comparire previsto
dall’articolo 429, ma comunque non superiore a quaranta giorni. In ogni caso l’imputato può chiedere
l’ammissione di nuove prove a norma dell’articolo 507.
Problemi di competenza: l’unica verifica posta in essere è relativa alla competenza per materia e
all’attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione monocratica o collegiale. Gli artt.
che interessano il controllo di competenza sono: art. 516 comma 1 bis e 1 ter.
Comma 1 bis: se a seguito della modifica il reato risulta attribuito alla cognizione del tribunale in
composizione collegiale anziché monocratica, l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione del
giudice è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, immediatamente dopo la nuova contestazione ovvero,
nei casi indicati dagli articoli 519 comma 2 e 520 comma 2, prima del compimento di ogni altro atto nella
nuova udienza fissata a norma dei medesimi articoli.
Comma 1 ter: se a seguito della modifica risulta un reato per il quale è prevista l’udienza preliminare, e
questa non si è tenuta, l’inosservanza delle relative disposizioni è eccepita, a pena di decadenza, entro il
termine indicato dal comma 1-bis.
L’art. 521 bis costituisce il baluardo per consentire all’imputato un adeguato sfruttamento dei riti
alternativi. Se, in seguito ad una diversa definizione giuridica o alle contestazioni previste dagli articoli
516, commi 1-bis e 1-ter, 517, comma 1-bis, e 518, il reato risulta tra quelli attribuiti alla cognizione del
tribunale per cui è prevista l’udienza preliminare e questa non si è tenuta, il giudice dispone con ordinanza
la trasmissione degli atti al pubblico ministero.

Correlazione tra accusa contestata e sentenza: nella sentenza il giudice può dare al fatto una definizione
giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza né
risulti attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica, ovvero che
non appartenga ala categoria dei delitti che richiedono il vaglio dell’udienza.
Il giudice, contestata la diversità del fatto e preso atto dell’inerzia del p.m. di fronte al dovere di adeguare
la sua iniziativa alle emergenze del contraddittorio, deve ordinare la trasmissione degli atti al pubblico
ministero, il quale non risulta comunque vincolato al provvedimento stesso.

Cause di nullità delle sentenze per difetto di contestazione

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Se non sono osservate le disposizioni predette, si incorre nel vizio della nullità.
La nullità è data in conseguenza del non rispetto del principio dell’obbligatorietà. La sentenza di condanna
pronunciata per un fatto nuovo, per un reato concorrente o per una circostanza aggravante senza che siano
state osservate le disposizioni degli articoli precedenti è nulla soltanto nella parte relativa al fatto nuovo,
al reato concorrente o alla circostanza aggravante.

Discussione finale e chiusura del dibattimento


Esaurita l’assunzione delle prove, si procede alla discussione finale. Allora il pubblico ministero, e
successivamente i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata
per la pena pecuniaria e dell’imputato formulano e illustrano le rispettive conclusioni. Le parti dunque
dovranno valutare i risultati probatori, argomentandoli dialetticamente, con il fine di propiziare il libero
convincimento del giudice.
Quando la parte civile mostra le conclusioni è necessario che quantifichi il danno. In questo caso il pubblico
ministero potrebbe riprendere la parola e replicare: solo qualora quest’ultimo replichi, anche le altre parti
possono intervenire.
La discussione non può essere interrotta per l’assunzione di nuove prove, se non in caso di assoluta
necessità, che allora si procederà tramite l’art. 507.
Esaurita la discussione, il presidente dichiara chiuso il dibattimento (chiusura del dibattimento).

Sentenza

Fondamentale è il principio dell’immediatezza della deliberazione, che mira a garantire la continuità tra
il omento della formazione della prova e quello della decisione, la deliberazione infatti deve esserci subito
dopo la chiusura del dibattimento (art. 525). Immediatezza non significa che la sentenza deve essere
immediatamente redatta. C’è infatti un’eccezione: il giudice può richiedere alle parti di rinviare la
deliberazione. Qualora sia necessaria la lettura del verbale di udienza redatto con la stenotipia ovvero
l’ascolto o la visione di riproduzioni fonografiche o audiovisive di atti del dibattimento, il giudice
sospende la deliberazione e procede in camera di consiglio alle operazioni necessarie, con l’assistenza
dell’ausiliario ed eventualmente del tecnico incaricato della documentazione.
Alla deliberazione concorrono, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al
dibattimento: sono i giudici davanti ai quali si è formata la prova e dunque devono essere colore che
formeranno la decisione. A volte però succede che debbano essere sostituiti perché impediti. I
provvedimenti già emessi conservano efficacia se non sono espressamente revocati. A questa disposizione
corrisponde il principio di immutabilità del giudice, in forza del quale soltanto l’identità fisica tra giudice
che istruisce e iudice che decide consente a quest’ultimo di avere una conoscenza diretta del materiale
probatorio sul quale fondare la decisione. Se tale identità viene meno, dopo che il giudice sostituito abbia
proceduto all’assunzione delle prove, la nullità della decisione si evita con la rinnovazione del
dibattimento (tesi massimalistica). Una tesi minimalista salvaguarda tale principio attraverso la lettura dei
verbali di prova. Un altro orientamento è previsto dalla corte di cassazione, a sezioni unite, che ha chiarito
come la lettura non possa mai surrogare l’esame del dichiarante quando sia richiesto e quindi sarà
suscettibile di ripetizione davanti al nuovo giudice.
Se alla deliberazione devono concorrere i giudici supplenti in sostituzione dei titolari impediti, i
provvedimenti già emessi conservano efficacia se non sono espressamente revocati da questi ultimi.
Una seconda preclusione è dettata nell’ambito del codice in tema di inutilizzabilità insieme all’art. 191. Il
giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel

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dibattimento. Una incidenza indiretta la possono avere gli elementi di prove raccolte nel dibattimento
laddove ci siano state delle contestazioni.
La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera
scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore. Qui si
ribadisce il concetto che l’accusato ha il diritto di interrogare in contraddittorio il proprio accusatore.

La deliberazione è disciplina da alcune regole: queste sono delineate dall’art. 527.


Qualora l’esame del merito non risulti precluso dall’esito della votazione, sono poste in decisione le
questioni di fatto e di diritto concernenti l’imputazione e, se occorre, quelle relative all’applicazione delle
pene e delle misure di sicurezza nonché quelle relative alla responsabilità civile.
Tutti i giudici enunciano le ragioni della loro opinione e votano su ciascuna questione qualunque sia stato
il voto espresso sulle altre. Il presidente raccoglie i voti cominciando dal giudice con minore anzianità di
servizio e vota per ultimo. Nei giudizi davanti alla corte di assise votano per primi i giudici popolari,
cominciando dal meno anziano per età. Se nella votazione sull’entità della pena o della misura di sicurezza
si manifestano più di due opinioni, i voti espressi per la pena o la misura di maggiore gravità si riuniscono
a quelli per la pena o la misura gradatamente inferiore, fino a che venga a risultare la maggioranza. In ogni
altro caso, qualora vi sia parità di voti, prevale la soluzione più favorevole all’imputato.
Motivazione contestuale: precisa esposizione dei fatti su cui si fonda la sentenza. Inoltre c’è la
motivazione differita, ossia quando non è in grado di redigerla, il giudice deve provvedere entro i 15
giorni successivi, che dovrà essere depositata in cancelleria. Inoltre può prendersi un tempo non superiore
a 90 giorni per la motivazione. Una volta depositata la motivazione scattano i termini per l’impugnazione.
Se il giudice non rispetta questi termini allora nasce l’obbligo in capo ai giudici di notificare al difensore
dell’imputato il giorno in cui viene depositata la sentenza (avviso di deposito della sentenza). Allora da questo
giorno scatta il termine per proporre il ricorso per impugnare. Alla notificazione deve seguire la
pubblicazione, viene fatta attraverso la lettura del dispositivo. E laddove vi sia la motivazione contestuale,
la pubblicazione della sentenza può essere fatta con un’esposizione riassuntiva della motivazione. Questa
equivale per le parti presenti in udienza ad una notificazione della sentenza. E da qui decorrerà il tempo
per impugnarla.
Nella decisione deve trovare concretezza il principio del libero convincimento del giudice e dovrà essere
saggiato nel corpo della motivazione. Ci deve essere un ragionamento sulle prove che ha posto a
fondamento della propria decisione, ma anche un ragionamento sulle prove contrarie che sono state
portate e che, a parer suo, non sono state convincenti. Questo perché la sentenza deve essere caratterizzata
da estrema logicità e non contraddittorietà. Questi infatti potrebbero essere i vizi che potrebbero essere
fatti valere in cassazione.

Una volta redatta la sentenza il giudice entra di nuovo nell’aula di udienza e provvede alla sua
pubblicazione: se c’è stato differimento della motivazione, attraverso la lettura in udienza del dispositivo
(lettura che sarà compiuta dal Presidente o da un giudice da lui delegato); ovvero se la motivazione è stata
redatta contestualmente al dispositivo: viene letta anche la motivazione o una esposizione riassuntiva. In
tal caso la lettura equivale a notificazione per le parti che sono o devono considerarsi presenti all’udienza,
alle eventuali parti assenti deve essere invece inviato l’estratto della sentenza insieme all’avviso di
deposito.
Il deposito della sentenza di cui all’articolo 548: il comma 1 dell’articolo 548 dispone che la sentenza deve
essere depositata, subito dopo la pubblicazione (tenendo conto anche dell’eventuale pubblicazione tardiva

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dei motivi) in cancelleria, da parte del pubblico ufficiale, il quale vi appone sottoscrizione e data del
deposito.
Diventa a questo punto rilevante, ai fini dell’impugnazione della sentenza, distinguere l’ipotesi in cui in
udienza è stata data lettura del solo dispositivo o anche della motivazione: se è stata data lettura del solo
dispositivo, il termine per l’impugnazione decorrerà dal deposito della sentenza; se è stata data lettura
anche della motivazione, il termine per l’impugnazione decorrerà dalla lettura del provvedimento in
udienza.
Se la sentenza non è depositata entro 30 giorni dalla pubblicazione o entro il diverso termine fissato dal
giudice, l’avviso di deposito è comunicato al pubblico ministero e notificato alle parti private cui spetta il
diritto di impugnazione.

Per quanto concerne i requisiti della sentenza, l’articolo 546 afferma che la sentenza, che può essere
scomposta in parte enunciativa, parte espositiva e parte dispositiva, deve contenere:
1. L’intestazione: «in nome del popolo italiano e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata» e
l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata;
2. Le generalità dell’imputato e delle altre parti private;
3. L’imputazione;
4. L’indicazione delle conclusioni delle parti;
5. La concisa indicazione dei motivi di fatto e di diritto su cui si è fondata l’adozione della sentenza;
6. Il dispositivo con indicazione degli articoli di legge applicati;
7. La data e la sottoscrizione del giudice.
L’art 546 al comma 2 si occupa della sottoscrizione della sentenza disponendo che la sentenza, emessa
collegio, è sottoscritta dal presidente e dal giudice estensore. Se, per morte o altro impedimento, il
presidente non può sottoscrivere, alla sottoscrizione provvede, previa menzione dell’impedimento, il
componente più anziano del collegio; se non può sottoscrivere l’estensore, alla sottoscrizione, previa
menzione dell’impedimento, provvede il solo presidente.
Per quanto riguarda i vizi della sentenza, il comma 3 dell’articolo 546 dispone che la sentenza è nulla nel
caso in cui sussista un vizio attinente alla motivazione. In questo caso la nullità si verifica quando:
a) Uno o più punti della sentenza non vengono giustificati;
b) Non sono indicate le prove acquisiti o i criteri per la loro valutazione;
c) Sono state ignorate le prove incompatibili con la ricostruzione del fatto accolta in sentenza.
Nel caso in cui sussista un vizio attinente al dispositivo, rilevano in termini di nullità gli errori relativi:
a) all’indicazione del nominativo di uno degli imputati e alla relativa pena;
b) alla specificazione della causa di proscioglimento;
c) alla statuizione sulla responsabilità e alla pena collegata.
Infine il vizio attinente alla sottoscrizione rileva in termini di nullità quando sono assenti la firma del
presidente e quella dell’estensore.

Ci sono diversi tipi di sentenza: proscioglimento e condanna.


Proscioglimento.
L’art. 529 dispone la sentenza di non doversi procedere, che è sempre una sentenza di proscioglimento,
ma fa riferimento ad una serie di cause, che sono suddivise in due commi:
1. Se l’azione penale non doveva essere iniziata o non diveva essere proseguita, il giudice pronuncia
sentenza di non doversi procedere indicandone la causa nel dispositivo (manca la querela, non si doveva
procedere);

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2. Il giudice provvede nello stesso modo quando la prova dell’esistenza di una condizione di procedibilità
è insufficiente o contraddittoria.
Viene emessa anche quando la prova di una condizione di procedibilità è insufficiente e contraddittoria:
ciò potrebbe essere interpretato come che il dubbio sia a favore del reo.
Nell’ambito del dibattimento, si dovrà emettere una sentenza di non doversi procedere se il reato è estinto,
salvo quanto disposto dall’art. 129 comma 2.
Il giudice provvede nello stesso modo quando vi è dubbio sull’esistenza di una causa di estinzione del
reato.

La sentenza di assoluzione è definita dall’art. 530. Se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha
commesso, se il fatto non costituisce reato (manca l’elemento soggettivo del reato o c’è una causa di
giustificazione) o non è previsto dalla legge come reato (è stata abrogata la norma del reato) ovvero se il
reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione (infermo di mente,
soggetto immune, minore di 14 anni), il giudice pronuncia sentenza di assoluzione indicandone la causa
nel dispositivo. Ci si trova davanti a un elenco tassativi che va dal più favorevole al meno favorevole.
È interessante sottolineare che in tale contesto è stata di fatto eliminata la causa di assoluzione per
mancanza di prova. Formalmente non c’è più, ma in sostanza ancora sopravvive: infatti nel comma 2, il
giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la
prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato
commesso da persona imputabile. Il giudice è obbligato ad emettere una sentenza di assoluzione.
Ancora. Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una
causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull’esistenza delle stesse, il giudice pronuncia
sentenza di assoluzione a norma del comma 1. Anche in questo caso il legislatore gioca a favore del reo.
In sostanza tutte queste situazioni possono essere pronunciate sia che si abbia la prova piena, sia che si
abbia una formula di prova non piena, cioè un dubbio.
Nel momento in cui viene emessa la sentenza di proscioglimento, il giudice può applicare una misura di
sicurezza, ovvero ordina la liberazione dell’imputato in stato di custodia cautelare e dichiara la cessazione
delle altre misure cautelari personali eventualmente disposte.

La sentenza di condanna ha una valutazione di riprovevolezza e di un’individuazione di una pena. Il


giudice ha rinvenuto quindi che il fatto contestato all’imputato sussunto in una norma penale, e dopo aver
fatto tutte le valutazioni in merito, è andato ad applicare una sanzione, che può talvolta essere
accompagnata da una misura di sicurezza (in caso di pericolosità). La condanna deve essere pronunciata
al di là di ogni ragionevole dubbio. Formula introdotta di recente, anche se molti sostenevano che questa
espressione dovesse essere una valutazione esistente già in passato. Oggi ciò è escluso. Va ad incidere in
qualche modo sul principio del libero convincimento del giudice, ponendo un ulteriore vincolo, nel
momento in cui il giudice va ad elaborare la propria decisione.
Questa valutazione «oltre ogni ragionevole dubbio» non indica un dubbio razionale o logico, perché in
qualunque processo indiziario (come il 90% di quelli nel nostro territorio nazionale, perché quelli in
flagranza sono la minoranza), il giudice deve vedere un dubbio plausibile, munito di una certa oggettività
capace di estrinsecarsi in una motivazione ineccepibile; motivazione che deve dunque passare attraverso
categorie logiche. Questo dubbio deve essere filtrato cioè attraverso una plausibilità che deve essere
caratterizzata da una sorta di oggettività.

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Bisogna poi compiere tutta una serie di valutazioni. In caso di presenza di più reati, il giudice deve stabilire
la pena per ciascuna di questi reati e poi vedere se sono applicabili le norme per esempio sul concorso di
reati o di pene, continuazione.
Sulla sentenza il giudice deve verificare se sia possibile applicare i benefici all’imputato: sospensione
condizionale della pena o la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
Quando la condanna riguarda i procedimenti per i delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), anche
se connessi ad altri reati, il giudice può disporre, nel pronunciare la sentenza, la separazione dei
procedimenti anche con riferimento allo stesso condannato quando taluno dei condannati si trovi in stato
di custodia cautelare e, per la scadenza dei termini e la mancanza di altri titoli, sarebbe rimesso in libertà.
Inoltre, il giudice condanna la persona civilmente obbligata a pagare, se il condannato risulterà insolvibile,
una somma pari alla pena pecuniaria a questo inflitta.
Il giudice deciderà in ordine anche alle spese processuali e in determinate situazioni potrà ordinare la
pubblicazione della sentenza sui quotidiani.

Si deve anche pronunciare sulle questioni civilistiche, laddove vi sia la costituzione civile. Quando
pronuncia sentenza di condanna, il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del
danno, proposta a norma degli articoli 74 e seguenti. Se pronuncia condanna dell’imputato al risarcimento
del danno, il giudice provvede altresì alla liquidazione, salvo che sia prevista la competenza di altro
giudice. Se il responsabile civile è stato citato o è intervenuto nel giudizio, la condanna alle restituzioni e
al risarcimento del danno è pronunciata anche contro di lui in solido, quando è riconosciuta la sua
responsabilità.
È possibile che la condanna sia provvisionale. Il giudice, se le prove acquisite non consentono la
liquidazione del danno, pronuncia condanna generica e rimette le parti davanti al giudice civile. A
richiesta della parte civile, l’imputato e il responsabile civile sono condannati al pagamento di una
provvisionale nei limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova. La condanna alle restituzioni e
al risarcimento del danno è dichiarata provvisoriamente esecutiva, a richiesta della parte civile, quando
ricorrono giustificati motivi. La condanna al pagamento della provvisionale è immediatamente esecutiva.

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CAPITOLO V – IL PROCEDIMENTO DAVANTI AL TRIBUNALE IN


COMPOSIZIONE MONOCRATICA

Legge 16 dicembre 1999, n. 479.


Si tratta di un rito che si svolge secondo criteri di massima semplificazione, con esclusione dell’udienza
preliminare e con la possibilità di incidenti probatori solo in casi eccezionali.
Il 90% dei processi sono sottoposti al giudizio del giudice monocratico.
In questo ambito si ha un rinvio di carattere generale alle norme che vengono applicate nel rito ordinario.
Infatti nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, per tutto ciò che non è previsto
nel presente libro o in altre disposizioni, si osservano le norme contenute nei libri che precedono, in quanto
applicabili. C’è un principio di sussidiarietà. Si dovrà effettuare in concreto e volta per volta se le norme
siano applicabili.
Ad esso si adisce tramite una citazione diretta a giudizio. È l’art. 550 che ne disciplina le modalità, per le
quali infatti il pubblico esercita l’azione penale con la citazione diretta a giudizio quando si tratta di
contravvenzioni ovvero di delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a 4 o
con la multa, sola o congiunta alla predetta pena detentiva. Si applicano, in quanto compatibili, le
disposizioni di cui all’articolo 415-bis. Per la determinazione della pena si osservano le disposizioni
dell’articolo 4 (è importante perché tale disposizione va ad identificare un concetto di attribuzione.
Ci sono un criterio di natura qualitativa e quantitativa.
Non si passa per l’udienza preliminare, dato che questi reati sono poco difficile, cioè non hanno una
notevole difficoltà di accertamento.
Inoltre c’è un’individuazione dei reati con il solo criterio qualitativo. Infatti si procede con il rito ordinario
anche secondo questi reati:
La disposizione del comma 1 si applica anche quando si procede per uno dei seguenti reati:
a) violenza o minaccia a un pubblico ufficiale prevista dall’articolo 336 del codice penale;
b) resistenza a un pubblico ufficiale prevista dall’articolo 337 del codice penale;
c) oltraggio a un magistrato in udienza aggravato a norma dell’articolo 343, secondo comma, del codice penale;
d) violazione di sigilli aggravata a norma dell’articolo 349, secondo comma, del codice penale;
e) rissa aggravata a norma dell’articolo 588, secondo comma, del codice penale, con esclusione delle ipotesi
in cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime;
f) furto aggravato a norma dell’articolo 625 del codice penale;
g) ricettazione prevista dall’articolo 648 del codice penale.
Nel caso in cui ci sia un errore nella citazione diretta a giudizio per un reato per il quale è prevista l’udienza
preliminare, il giudice dispone con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero. Nel caso si
voglia far valere tale errore, l’interessato deve proporre l’eccezione entro il termine delle questioni
preliminari.
Anche i procedimenti connessi sono disciplinati: infatti in questi casi, se la citazione diretta a giudizio è
ammessa solo per alcuni di essi, il pubblico ministero presenta per tutti la richiesta di rinvio a giudizio a
norma dell’articolo 416. La connessione deroga i criteri autonomi di competenza per materia e per
territorio. Deroga che però deve essere valutata all’interno della stessa competenza per materia attribuita
al tribunale.

Il decreto di citazione diretta a giudizio fa «il paio» con la richiesta di rinvio a giudizio. Ci si trova davanti
un unico strumento che va a sostituire quello che nel rito ordinario è rappresentato dalla richiesta di rinvio

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a giudizio e la citazione in giudizio. Sostanzialmente allora si ha un istituto che coinvolge sia il concetto di
azione penale che di citazione.
Questo impone l’assunzione della qualifica di imputato. Da un punto di vista formale, la struttura di
questo decreto detta perplessità perché viene conclusa una fase come le indagini preliminari con un
provvedimento quale il decreto che è un provvedimento con delle forme limitate e che di solito è utilizzato
in via ordinativa.
Da un punto di vista sistematico, ha un duplice contenuto: uno generico volto a determinare la chiamata
in giudizio e uno più specifico teso a stimolare l’imputato per addivenire ad un epilogo.
Appartengono al contenuto generico la maggior parte delle lettere richiamate nell’art. 550, mentre in quello
specifico solo la lettera f).
Contiene innanzitutto il profilo soggettivo dell’imputazione, dunque:
a) Le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo nonché le
generalità delle altre parti private, con l’indicazione dei difensori;
b) L’indicazione della persona offesa, qualora risulti identificata;
c) L’enunciazione del fatto, in forma chiara e precisa, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono
comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge (in
questo momento viene individuata l’imputazione in modo formale, anche se poi ulteriormente può
essere modificata o integrata). Viene rispettato il diritto di difesa;
d) L’indicazione del giudice competente per il giudizio nonché del luogo, del giorno e dell’ora della
comparizione, con l’avvertimento all’imputato che non comparendo sarà giudicato in assenza. Questa
circostanza indica un collegamento tra la segreteria del p.m. e della cancelleria del giudice del
dibattimento, perché il p.m. quando emette il decreto di citazione diretta a giudizio deve sapere
quando il giudice dà udienza;
e) L’avviso che l’imputato ha facoltà di nominare un difensore di fiducia e che, in mancanza, sarà assistito
dal difensore di ufficio;
f) L’avviso che, qualora ne ricorrano i presupposti, l’imputato, prima della dichiarazione di apertura del
dibattimento di primo grado, può presentare le richieste previste dagli articoli 438 e 444 ovvero
presentare domanda di oblazione;
g) L’avviso che il fascicolo relativo alle indagini preliminari è depositato nella segreteria del pubblico
ministero e che le parti e i loro difensori hanno facoltà di prenderne visione e di estrarne copia. Con
tutti questi avvisi viene di fatto consentito all’imputato di aver accesso al fascicolo del pubblico
ministero;
h) La data e la sottoscrizione del pubblico ministero e dell’ausiliario che lo assiste.
Il decreto è nullo se l’imputato non è identificato in modo certo ovvero se manca o è insufficiente
l’indicazione di uno dei requisiti previsti dalle lettere c), d), e) ed f) del comma 1. Il decreto è altresì nullo
se non è preceduto dall’avviso previsto dall’articolo 415-bis, nonché dall’invito a presentarsi per rendere
l’interrogatorio ai sensi dell’articolo 375, comma 3, qualora la persona sottoposta alle indagini lo abbia
richiesto entro il termine di cui al comma 3 del medesimo articolo 415-bis,cioè qualora vi sia un vizio che
vada ad incidere sulla struttura (come l’assenza dell’avviso dell’atto delle conclusione delle indagini
preliminari), il giudice del dibattimento dovrà rimettere gli atti al p.m.
Il decreto di citazione è notificato all’imputato, al suo difensore e alla parte offesa almeno 60 giorni prima
della data fissata per l’udienza di comparizione. Nei casi di urgenza, di cui deve essere data motivazione,
il termine è ridotto a 45 giorni. Il termine è comunque ampio perché qui si è in mancanza di una udienza
preliminare.

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Nei casi dei commi 1 bis e 1 ter si sollecita il p.m. per evitare la prescrizione e a intervenire per il
risarcimento del danno.
Il pubblico ministero forma il fascicolo per il dibattimento e lo trasmette al giudice con il decreto di
citazione immediatamente dopo la notificazione.
L’art. 554 prende in considerazione gli atti urgenti. Sono quelli predisposti prima del dibattimento. Il
giudice per le indagini preliminari è competente ad assumere gli atti urgenti a norma dell’articolo 467 e
provvede sulle misure cautelari fino a quando il decreto, unitamente al fascicolo per il dibattimento, non
è trasmesso al giudice a norma dell’articolo 553, comma 1.
In seguito al decreto di citazione diretta è prevista l’udienza di comparizione (art. 555), che è molto
particolare. È stata creata per andare a istituire un’udienza simile all’udienza di smistamento. Non è altro
che un’udienza di preparazione e nulla c’entra con l’udienza preliminare, anche se sono svolte. Udienza
di preparazione al dibattimento nell’ambito della quale sono svolte dell’attività che nel rito ordinario sono
previste all’interno dell’udienza preliminare. Comunque non ha nessuna caratteristica dell’udienza
preliminare.
Si svolgono due tipi di attività: una di deflazione, l’altra di preparazione del dibattimento.
Nella prima succede che, all’esordio, le parti possono chiedere il patteggiamento, il giudizio abbreviato o
presentare domanda di oblazione. Ci si trova di fronte ad un’udienza nella quale il giudice dovrà avere il
consenso dell’altra parte.
I riti speciali deflativi devono essere presentati prima della dichiarazione di apertura del dibattimento:
l’imputato potrà richiedere il giudizio abbreviato, con immediata prosecuzione del rito secondo le regole
ordinarie, che quindi potrebbero comportare anche una revoca del rito contratto e la fissazione
dell’udienza dibattimentale.
Sempre prima dell’apertura del dibattimento, l’imputato o il pubblico ministero ovvero entrambi possono
chiedere il patteggiamento. Per agevolare l’accesso ai riti, il pubblico ministero può favorirne l’accesso
prevendendo già nel decreto di citazione il suo consenso a procedere.
L’imputato può presentare anche domanda di oblazione, e se il giudice accoglierà la richiesta fisserà con
ordinanza la somma da corrispondere, con estinzione del reato a seguito dell’avvenuto pagamento; se la
richiesta sarà respinta, si procederà al dibattimento.
Il comma 3 dell’art. 555 introduce un tentativo di conciliazione: il giudice, quando il reato è perseguibile
a querela, verifica se il querelante è disposto a rimettere la querela e il querelato ad accettare la remissione.
Precedentemente questo potere era lasciato alla polizia giudiziaria.
Questo tentativo, in caso negativo, il giudice dovrà indagare il punto di responsabilità dell’imputato, dopo
aver conosciuto tutto ciò che era sotteso a quel caso. Qui non si ha una conciliazione come quella prevista
dal giudice pace, caratterizzato da una effettiva conciliazione, pertanto questo obbligo del giudice
monocratico, nella pratica, non è incisivo: difficilmente si arriva a una remissione della querela.
Udienza come preparazione: almeno 7 giorni prima della data fissata per l’udienza di comparizione, le
parti devono, a pena di inammissibilità, depositare in cancelleria le liste dei testimoni, periti o consulenti
tecnici nonché delle persone indicate nell’articolo 210 di cui intendono chiedere l’esame. Non sono citate
le circostanze, ma la giurisprudenza ritiene che ci siano anche quelle a pena di inammissibilità. Inoltre
sono previsti tutti quei controlli concernenti la regolare costituzione delle parti e la discussione sulle
questioni preliminari.

Nel procedimento davanti al giudice in composizione monocratica senza udienza preliminare trova
estrinsecazione un solo rito acceleratorio: il rito direttissimo. Le ipotesi di instaurazione sono quelle

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ordinarie e si prevede in caso di arresto in flagranza convalidata dal giudice delle indagini preliminari e
in caso di confessione resa dall’imputato.
Una prima modalità: gli ufficiali o gli agenti di polizia giudiziaria che hanno eseguito l’arresto in flagranza
o che hanno avuto in consegna l’arrestato lo conducono direttamente davanti al giudice del dibattimento
per la convalida dell’arresto e il contestuale giudizio, sulla base della imputazione formulata dal pubblico
ministero. In tal caso citano anche oralmente la persona offesa e i testimoni e avvisano il difensore di
fiducia o, in mancanza, quello designato di ufficio a norma dell’articolo 97, comma 3.
Quando il giudice non tiene udienza, gli ufficiali o gli agenti di polizia giudiziaria che hanno eseguito
l’arresto o che hanno avuto in consegna l’arrestato gliene danno immediata notizia e presentano l’arrestato
all’udienza che il giudice fissa entro 48 ore dall’arresto.
Una seconda modalità è individuata nel comma 4 dell’art. 558: se il pubblico ministero ordina che
l’arrestato in flagranza sia posto a sua disposizione, lo può presentare direttamente all’udienza, in stato di
arresto, per la convalida e il contestuale giudizio, entro 48 ore dall’arresto.
Se l’arresto non è convalidato, il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero. Il giudice procede tuttavia
a giudizio direttissimo quando l’imputato e il pubblico ministero vi consentono.
Se l’arresto è convalidato a norma dei commi precedenti, si procede immediatamente al giudizio.
L’imputato ha facoltà di chiedere un termine per preparare la difesa non superiore a 5 giorni. Quando
l’imputato si avvale di tale facoltà, il dibattimento è sospeso fino all’udienza immediatamente successiva
alla scadenza del termine.
Subito dopo l’udienza di convalida, l’imputato può formulare richiesta di giudizio abbreviato ovvero di
applicazione della pena su richiesta. In tal caso il giudizio si svolge davanti allo stesso giudice del
dibattimento.

Se deve procedersi al giudizio, le parti, dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento, indicano i fatti
che intendono provare e chiedono l’ammissione delle prove. È la cd. richiesta di prove, che devono essere
poste a fondamento dell’indicazione dei fatti che le parti intendano fare; inoltre, le parti possono
concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico
ministero, nonché della documentazione relativa all’attività di investigazione difensiva.
L’udienza dibattimentale è disciplinata da un solo articolo che va a mettere in evidenza le differenze
principali dal dibattimento ordinario. Qui c’è sempre un rinvio, che è inutile perché a monte ci sta già l’art.
549.
Alla redazione del verbale c’è una deroga, perché anche al di fuori dei casi previsti dall’art. 140, il verbale
di udienza è redatto soltanto in forma riassuntiva se le parti vi consentono e il giudice non ritiene
necessaria la redazione in forma integrale. Questo perché bisogna essere in linea con la speditezza
processuale. Infatti tale tipo di procedimento è caratterizzata da speditezza e accelerazione.
L’accusa può essere delegata. L’art. 162 disp. att. afferma che c’è la possibilità che le funzioni del p.m.
nell’ambito di citazione diretta di giudizio siano svolte da un pubblico ministero onorario.
L’esame diretto e il controesame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle persone indicate
nell’articolo 210 e delle parti private sono svolti dal pubblico ministero e dai difensori. Su concorde
richiesta delle parti, l’esame può essere condotto direttamente dal giudice sulla base delle domande e
contestazioni proposte dal pubblico ministero e dai difensori. C’è una sorta di ritorno al rito inquisitorio,
che vede infatti il giudice condurre l’esame e il controesame. Era rivolto a dire che il giudizio arrivava da
parte di un giudice togato e quindi preparato professionalmente rispetto a uno onorario.
In caso di impedimento del giudice, la sentenza è sottoscritta dal presidente del tribunale previa menzione
della causa della sostituzione.

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Procedimenti davanti al tribunale in composizione monocratica con udienza preliminare


Qualora si procede per un reato attribuito alla competenza del tribunale in composizione monocratica, ma
al di fuori dei casi che prevedono la citazione diretta, il procedimento de quo prevede che la fase
dibattimentale sia preceduta dall’udienza preliminare.
Questo procedimento allora si caratterizza sia per le deroghe al rito collegiale con udienza preliminare, sia
per le eccezioni al rito monocratico senza udienza.
Le maggiori garanzie legate al rito con l’udienza preliminare determinano due significative implicazioni
processuali: la prima si ha nel caso di procedimenti connessi, quando è ammessa la citazione diretta
solamente per alcuni di essi, il pubblico ministero dovrà presentare richiesta di rinvio a giudizio per tutti
i procedimenti (art. 551); la seconda, invece, si ha quando il pubblico ministero ha esercitato l’azione penale
con citazione diretta a giudizio per un reato devoluto al tribunale in composizione monocratica, per il
quale è prevista l’udienza preliminare, qualora l’ eccezione sia proposta entro il termine di cui all’art. 491
comma 1, il giudice dovrà disporre con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero affinché
richieda il rinvio a giudizio. Nell’ipotesi inversa troverà applicazione l’art. 33 sexies comma 1: se nel corso
dell’udienza preliminare il giudice accoglierà l’eccezione o rileverà che si deve procedere con citazione
diretta, trasmetterà gli atti al pubblico ministero per l’emissione del relativo decreto.

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CAPITOLO VI – IL PROCEDIMENTO PENALE DAVANTI AL


GIUDICE DI PACE

Con il d.lgs. 274/2000 è stata istituita la competenza penale del giudice di pace. Questo è stato istituito nel
contesto della riorganizzazione delle competenze penali, come un giudice, vicino al cittadino, che si
occupasse della fascia minore della criminalità. Si tratta comunque di un sottosistema gestito da un
giudice onorario con competenze, sanzioni e rito del tutto peculiari. I tratti caratteristici di questa figura
sono denotati maggiormente dalla presenza di un giudice di prossimità con lo scopo di rafforzare la
giurisdizione liberandola dai reati bagatellari, riavvicinare la giustizia ai cittadini, comporre la
microconflittualità individuale e sperimentare nuovi percorsi procedurali.
Il procedimento davanti al giudice di pace è regolato dal d.lgs. 274/2000 e dal codice di procedura penale,
ed è caratterizzato dalla funzione conciliativa del procedimento.
Per quanto riguarda la disciplina applicabile del codice di procedura penale, sono previste delle esclusioni:
1) l’arresto in flagranza, il fermo di indiziato di reato, le misure cautelari; 2) l’incidente probatorio, la
proroga delle indagini, l’udienza preliminare; 3) giudizio abbreviato, applicazione della pena su richiesta,
giudizio direttissimo, giudizio immediato, decreto penale di condanna, sospensione con messa alla prova.
Le funzioni giudicanti sono assegnate da un magistrato onorario che ha sede nei capoluoghi dei
mandamenti.
Poiché non esiste un procuratore di pace, le funzioni d’accusa sono attribuite alla procura della repubblica
presso il circondario dove ha sede il giudice di pace.
Le funzioni svolte, nel processo ordinari, dal giudice delle indagini preliminari, sono assegnate al giudice
di pace dove ha sede il Tribunale del circondario in cui è compreso il giudice di pace territorialmente
competente. Questi adotta: (1) le decisioni sulla richiesta di archiviazione; (2) il provvedimento sul
sequestro preventivo e conservativo; (3) la decisione sull’opposizione e sulla richiesta di sequestro; (4) le
valutazioni sulla richiesta di riapertura delle indagini; (5) l’autorizzazione a disporre le operazioni di
intercettazioni.
La competenza del giudice di pace è delineata in modo indiretto dall’art 6 c.p.p. che attribuisce al tribunale
la competenza per i reati che non appartengono alla Corte d’assise o al giudice di pace. Relativamente ai
reati, si tratta di reati che, pur non depenalizzati, non determinano un particolare allarme sociale.
Per quanto riguarda la competenza territoriale è necessario fare una distinzione:
- Per la fase del giudizio è competente il giudice di pace del luogo in cui il reato è stato consumato;
- Per la fase delle indagini preliminari le funzioni sono svolte dal giudice di pace circondariale (il giudice
di pace del luogo dove ha sede il Tribunale del circondario in cui è compreso il giudice territorialmente
competente).
Per quanto riguarda la connessione per connessione, questa si divide in eterogenea (art. 6) e omogenea (art.
7).
Quella eterogenea (tra giudici diversi), questa opera solo nel caso di persona imputata di più reati
commessi con la stessa azione od omissione: la competenza appartiene al giudice superiore, tuttavia non
opera se non è possibile la riunione dei procedimenti o se uno dei reati è attribuito a un giudice speciale.
La connessione omogenea (tra diversi giudici di pace): questa sarà rilevante solamente nel caso in cui lo
stesso reato sia stato commesso da più persone in concorso o cooperazione.
La connessione ha ricadute anche sulla competenza territoriale: nel caso di connessione eterogenea,
dipende dal giudice competente per materia; nel caso di connessione omogenea, non opererà il criterio
della gravità ma quella del giudice del luogo dove è stato commesso il primo reato (se non si può applicare

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questo criterio la competenza sarà del giudice del luogo in cui è stato compiuto il primo atto a valenza
procedimentale). Nell’impossibilità di ricorrere a questo criterio, la competenza si radicherà nel luogo in
cui è stato compiuto il primo atto a valenza procedimentale, qualunque sia l’organo che vi abbia
proceduto.
In caso di connessione omogenea, il giudice, precedentemente all’udienza di comparizione, qualora non
rilevi che possa causare un pregiudizio, dispone la riunione dei procedimenti. Questa si può avere anche
in caso di condotte colpose indipendenti (es. lesioni in caso di incidenti stradali), continuazione, reati
commessi in danno reciproco.
Il processo cumulativo è interdetto in caso di connessione teleologica, connessione consequenziale,
connessione occasionale, collegamento probatorio, mentre può essere disposto quando giovi alla celerità
e alla completezza dell’accertamento.
Riguardo la separazione dei processi, il comma 3 dell’art. 9 afferma che questa deve essere effettuata
prima dell’udienza di comparazione e comunque non oltre la dichiarazione di apertura del dibattimento.
Ci sono casi però in cui la separazione è obbligatoria ossia quando permette la composizione di almeno
una delle vicende sottoposte al giudice di pace ovvero quando determina la rapida definizione di uno dei
processi riuniti. Nelle altre ipotesi è rimessa alla discrezionalità del giudice, tranne quando la riunione sia
assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti.
Qualora i giudici riconoscano, in ogni stato e grado del processo, la competenza del giudice di pace, la
dichiarano con sentenza trasmettendo gli atti, pienamente utilizzabili, al pubblico ministero.
La decisione sull’astensione del giudice spetta al presidente del Tribunale. La decisione sulla ricusazione
del giudice spetta alla Corte d’appello.

Indagini preliminari

Un elemento che caratterizza il procedimento davanti al giudice di pace è costituito dalla prevalente
conduzione delle indagini da parte della polizia giudiziaria. Infatti per ragioni di snellezza ed economia
procedurale, le indagini sono svolte prevalentemente dalla polizia giudiziaria, in autonomia e senza
deleghe o direttive del procuratore della Repubblica (salvo i casi in cui è necessaria l’autorizzazione del
pubblico ministero che può comunque essere informato) e possono essere condotte per 4 mesi dalla
ricezione della notizia di reato.
La violazione del termine non incide sull’utilizzabilità degli atti espletati, potendosi prospettare profili di
responsabilità disciplina. Non può escludersi che la polizia giudiziaria possa informare il pubblico
ministero del fatto di reato appreso o ricevuto (tra l’altro doveroso nei casi in cui ci siano atti che richiedono
la presenza del difensore. L’attività investigativa viene espletata nel rispetto delle disposizioni del codice,
tuttavia è possibile l’espletamento di una attività atipica su autorizzazione del pubblico ministero che
potrà anche procedere personalmente per (1) gli accertamenti tecnici non ripetibili (salvo che la difesa non
abbia avanzato richiesta di assunzione di prove non rinviabili ex art 18); (2) per le perquisizioni e i sequestri
nelle situazioni nelle quali la polizia giudiziaria non può procedervi di propria iniziativa; per (3) gli
interrogatori o i confronti ai quali debba partecipare la persona sottoposta alle indagini.
Insomma la polizia giudiziaria svolgerà tutte quelle attività tese ad esaurire le indagini: infatti questa,
acquisita la notizia di reato, compie di propria iniziativa tutti gli atti di indagine necessari per la
ricostruzione del fatto e per l’individuazione del colpevole e ne riferisce al pubblico ministero, con
relazione scritta, entro il termine di 4 mesi; relazione che consentirà al p.m. di determinarsi ai sensi dell’art.
112 Cost.

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Se la notizia di reato risulta fondata, la polizia giudiziaria enuncia nella relazione il fatto in forma chiara e
precisa, con l’indicazione degli articoli di legge che si assumono violati, e richiede l’autorizzazione a
disporre la comparizione della persona sottoposta ad indagini davanti al giudice di pace.
Ricevuta la relazione, il pubblico ministero, dopo aver iscritto la notizia del reato, potrà o chiedere
l’archiviazione o formulare l’imputazione o espletare personalmente ulteriori indagini (nel termine di 4 mesi
più 2 in caso di complessità) o impartire alla polizia giudiziaria direttive per il loro svolgimento.
L’esclusione della possibilità di disporre incidenti probatori, non esclude che sia necessario assumere
durante la fase investigativa gli elementi probatori non rinviabili al dibattimento. In caso di urgenza si può
applicare l’art 467 commi 2 e 3 c.p.p. (atti urgenti) con competenza del giudice di pace competente per le
indagini preliminari. Successivamente alla chiusura delle indagini preliminari e fino all’udienza di
comparizione provvederà il giudice di pace competente nel merito.
In alternativa all’esercizio dell’azione penale può essere disposta l’archiviazione quando (1) la notizia è
infondata; (2) manca una condizione di procedibilità, il reato è estinto, il fatto non è previsto come reato;
(3) gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono sufficienti a sostenere l’accusa; (4) quando è
ignoto l’autore del reato; (5) quando il fatto ha un’offensività minima; (6) per intervenute condotte
riparatorie.
Sono presenti delle differenze rispetto al rito ordinario:
- Si prevede che il pubblico ministero debba notificare, e non avvisare, alla persona offesa la copia della
richiesta: questa potrà così presentare richiesta motivata di prosecuzione delle indagini e in caso di
rigetto proporre opposizione.
- La decisione del giudice circa l’ammissibilità dell’opposizione si basa con un procedimento con
contraddittorio meramente cartolare.
- Le determinazioni del giudice sono modellate sulle previsioni del rito ordinario: accoglimento della
richiesta, indagini coatte, imputazione coatta.
- Una volta archiviata, qualora emergessero esigenze di nuove investigazioni, il p.m. si attiverà con
formale richiesta al giudice di pace, cui seguirà una nuova iscrizione e l’avvio delle indagini da parte
del pubblico ministero.
È prevista altresì una situazione di improcedibilità in presenza di un fatto che abbia un’offensività penale
minima data dalla particolare tenuità del fatto. Al fine di evitare una lesione al principio di obbligatorietà
dell’azione penale sono fissati precisi parametri che connotano il fatto criminoso del canone della
particolare tenuità: condizioni oggettive, delineate da un’esiguità del danno o del pericolo; condizioni
soggettive, connotate sul grado della colpevolezza ed elementi inerenti all’autore del fatto (occasionalità
della condotta, esigenze familiari, lavorative e così via).
Altra ipotesi peculiare di archiviazione è costituita dall’estinzione del reato conseguente a condotte
riparatorie – restituzione e/o risarcimento – o risarcitorie – risarcimento del danno patrimoniale e/o non
patrimoniale ovvero in forma specifica o per equivalente – da parte dell’autore del reato.
L’attività deve essere volontaria ed effettiva. Spetterà al giudice valutare l’idoneità dell’attività svolta
dall’imputato, senza che incida l’eventuale volontà contraria della persona offesa.
La causa di estinzione costituisce una ragione sopravvenuta di non punibilità. Nel corso delle indagini
darà luogo e remissione della querela; successivamente ad archiviazione ex art 411cpp.

Dibattimento

Esaurita l’attività di indagine il pubblico ministero formulerà l’imputazione attraverso la citazione a


giudizio. L’atto sarà notificato all’imputato, al suo difensore e alla persona offesa almeno 30 giorni prima

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della data dell’udienza. Esso conterrà l’imputazione, testimoni, consulenti, l’avviso di deposito del
fascicolo delle indagini preliminari nella segreteria del PM.
Con la L. 94/2009 sono state introdotte la presentazione immediata a giudizio dell’imputato in casi particolari e
la citazione contestuale dell’imputato in udienza in casi particolari.
La presentazione immediata a giudizio è obbligatoria per tutti i reati di competenza del giudice di pace
procedibili d’ufficio, in caso di flagranza di reato o di prova evidente: infatti prevede che la polizia
giudiziaria chieda al pubblico ministero l’autorizzazione a presentare immediatamente l’imputato davanti
al giudice.
Il p.m. potrà negare l’autorizzazione in caso di insussistenza o manifesta infondatezza dei presupposti o
per incompetenza territoriale del giudice di pace indicato. Potrà invece autorizzare entro 15 giorni la
presentazione a giudizio dell’imputato.
L’autorizzazione costituisce esercizio dell’azione penale.
All’autorizzazione seguirà la notifica della copia della richiesta della polizia giudiziaria e
dell’autorizzazione del pubblico ministero, con l’avviso che in caso di mancata presentazione si procederà
in contumacia e che in mancanza di nomina di un avvocato ne sarà assegnato uno d’ufficio. Sarà
comunicato anche il deposito del fascicolo.
Nelle medesime ipotesi di flagranza di reato o di evidenza delle prova, in caso di gravi ragioni d’urgenza
o se l’imputato è sottoposto a misure limitative della libertà, la polizia giudiziaria formulerà la richiesta
della citazione contestuale per udienza.
Se il pubblico ministero non accoglie la richiesta, si procederà con le regole della presentazione immediata;
qualora il pubblico ministero accolga la richiesta, l’imputato sarà rinviato direttamente davanti al giudice
di pace con citazione per l’udienza contestuale all’autorizzazione.
I successivi adempimenti si differenziano a seconda che si parli di imputato libero o ristretto: quanto al
primo, la polizia giudiziaria gli notificherà immediatamente la richiesta e il provvedimento del pubblico
ministero; quanto al secondo, verrà condotto, salva espressa rinuncia a partecipare all’udienza, davanti al
giudice di pace per la trattazione del processo.
Per i reati procedibili a querela è ammessa la citazione a giudizio dinanzi al giudice di pace della persona
alla quale il reato è attribuito su ricorso della persona offesa, individuando così il ricorso immediato al
giudice.
L’atto dovrà essere sottoscritto a pena di inammissibilità dall’offeso, o dal suo legale rappresentante, e dal
difensore e deve contenere determinati elementi: descrizione chiara e precisa del fatto, i documenti di cui
si chiede l’acquisizione, l’indicazione dei mezzi di prova, le circostanze su cui deve vertere l’esame di
testimoni e consulenti, l’indicazione di eventuali altre persone offese.
Oltre al rispetto del termine di 3 mesi dalla notizia del fatto che costituisce reato per la presentazione del
ricorso, è previsto che la persona offesa dia prova di averlo previamente comunicato al pubblico ministero,
il quale, entro 10 giorni, presenterà le sue richieste nella cancelleria del giudice di pace.
Il pubblico ministero, se ritiene il ricorso inammissibile o manifestamente infondato, ovvero presentato
dinanzi ad un giudice di pace incompetente per territorio, esprime parere contrario alla citazione
altrimenti formula l’imputazione confermando o modificando l’addebito contenuto nel ricorso.
Una volta scaduto tale termine, il giudice di pace potrà verificare preliminarmente, e anche assumere
autonomamente le sue determinazioni, circa l’ammissibilità o meno del giudizio, presentato dall’accusa, e
la sua competenza. Esso potrà, se ritiene il ricorso inammissibile o manifestamente infondato, disporre la
trasmissione al pubblico ministero per l’ulteriore corso del procedimento. Se il ricorso risulta presentato
per un reato che appartiene alla competenza di altro giudice, il giudice di pace ne dispone, con ordinanza,
la trasmissione al pubblico ministero. Se riconosce la propria incompetenza per territorio, il giudice di pace

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la dichiara con ordinanza e restituisce gli atti al ricorrente che, nel termine di 20 giorni, ha facoltà di
reiterare il ricorso davanti al giudice competente. L’inosservanza del termine è causa di inammissibilità
del ricorso.
Qualora non dovesse eccepire contrariamente alle verifiche preliminari, il giudice di pace provvederà con
il decreto di convocazione delle parti in udienza che emetterà entro 20 giorni dal deposito del ricorso.
Il decreto farà assumere la qualifica di imputato al soggetto al quale il reato è attribuito e la trascrizione
dell’imputazione che il pubblico ministero aveva formulato. In questo senso si consente di affermare che,
in difetto della sua formulazione, il giudice non potrà convocare le parti, essendogli precluso il potere di
formulare l’atto di imputazione, e rimetterà gli atti al pubblico ministero.

Udienza
Ove il procedimento non sia stato archiviato, esclusa l’udienza preliminare, il giudizio davanti al giudice
di pace si apre con l’udienza di comparizione (art. 29).
Almeno 7 giorni prima della data fissata per l’udienza il pubblico ministero o la parte offesa, in caso di
ricorso immediato, devono depositare l’atto di citazione con le relative notifiche presso la cancelleria del
giudice. Nello stesso termine le altre parti devono (a pena di inammissibilità) depositare le liste contenenti
l’indicazione dei testimoni, periti, consulenti tecnici, nonché delle persone di cui all’art. 210 c.p.p.
La mancata comparizione all’udienza del ricorrente o del suo procuratore speciale non dovuta ad
impossibilità a comparire per caso fortuito o forza maggiore determina l’improcedibilità del ricorso, salvo
che l’imputato o la persona offesa intervenuta e che abbia presentato querela chieda che si proceda al
giudizio. In caso di dichiarazione di improcedibilità il ricorrente può presentare istanza di fissazione di
nuova udienza se prova che la mancata comparizione è stata dovuta a caso fortuito o a forza maggiore.
L’istanza è presentata al giudice di pace entro 10 giorni dalla cessazione del fatto costituente caso fortuito
o forza maggiore, a pena di decadenza. Se accoglie l’istanza, il giudice di pace convoca le parti per una
nuova udienza.
Il giudice dovrà obbligatoriamente tentare la conciliazione tra le parti, con la possibilità di avvalersi di
centri di mediazione o di rinviare l’udienza (non oltre 2 mesi).
Il giudice, quando il reato è perseguibile a querela, promuove la conciliazione tra le parti. In tal caso,
qualora sia utile per favorire la conciliazione, il giudice può rinviare l’udienza per un periodo non
superiore a 2 mesi e, ove occorra, può avvalersi anche dell’attività di mediazione di centri e strutture
pubbliche o private presenti sul territorio. In ogni caso, le dichiarazioni rese dalle parti nel corso
dell’attività di conciliazione non possono essere in alcun modo utilizzate ai fini della deliberazione.
In caso di assenza del ricorrente privato alla conciliazione, il ricorso sarà improcedibile ed egli dovrà
pagare le spese processuali e, su richiesta dell’imputato, risarcirgli il danno. In caso di assenza
dell’imputato questa si considererà come assenso alla procedura conciliativa. Riguardo le altre persone
offese, queste potranno non aderire alla conciliazione e esercitare il proprio diritto di querela dando avvio
ad un giudizio ordinario.
La conciliazione risponde comunque a finalità deflative: la felice conclusione della conciliazione procede
la remissione della querela o la rinuncia al ricorso, solo a seguito dell’accettazione da parte della persona
offesa ovvero della mancata opposizione alla remissioni o alla rinuncia.
Sempre collegata alla logica deflativo è la possibilità, per l’imputato, di poter presentare prima del
dibattimento domanda di oblazione. Questa potrà essere ordinaria, ossia il diritto soggettivo di ottenere
l’estinzione del reato contravvenzionale, ovvero speciale, se è subordinata alla discrezionalità da parte del
giudice. Le spese del procedimento graveranno, in questo caso, sull’imputato.

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In tale contesto si inseriscono anche le ipotesi alternative definitorie del procedimento della particolare
tenuità del fatto e dall’estinzione del reato per condotta riparatoria. Il giudice potrà dichiarare
l’improcedibilità per particolare tenuità del fatto nella fase predibattimentale, all’esito della domanda di
comparizione o al termine del giudizio. Fino all’udienza di comparizione è possibile anche l’estinzione del
reato per condotta riparatoria.

Ai tentativi di conciliazione e di oblazione non espletati o non positivamente conclusi, fa seguito l’apertura
del dibattimento, che costituisce peraltro il limite utile per proporre le questioni preliminari.
Se è possibile procedere immediatamente al giudizio, il giudice provvede all’ammissione delle prove,
escludendo quelle vietate dalla legge, quelle superflue o irrilevanti (senza però che quest’ultime emergano
in maniera «manifesta» come prevede l’art. 190).
Successivamente all’ammissione delle prova, il giudice forma il fascicolo del dibattimento. A differenza
del processo ordinario nel processo davanti al giudice di pace la formazione del materiale sul quale il
giudice deciderà si forma successivamente all’apertura del giudizio. In questo senso allora non graverà
alla cancelleria la formazione del fascicolo e di conseguenza, dato che la scelta di determinarlo spetta alle
parti tramite loro accordi, permette di risolvere immediatamente ogni conflittualità in merito fascicolo per
il dibattimento e la riunione o la separazione dei giudizi.
Se occorre fissare o rinviare ad un’altra udienza l’istruttoria, il giudice autorizza ciascuna parte alla
citazione dei propri testimoni o consulenti tecnici, escludendo le testimonianze vietate dalla legge e quelle
manifestamente sovrabbondanti. La parte che omette la citazione decade dalla prova.
L’istruzione è caratterizzata e modellata secondo modalità connotate dall’essenzialità: infatti l’esame dei
testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici e delle parti private può essere condotto dallo stesso giudice,
salvo che ritenga necessario procedere all’istruzione dibattimentale ordinaria. Il giudice può anche
disporre l’assunzione di nuovi mezzi di prova, se necessario.
Il verbale d’udienza, di norma viene redatto in forma riassuntiva, in linea con la ratio generale del rito
semplificato. Sempre per ragioni di celerità e snellezza il giudice potrà anche redigere la motivazione della
sentenza in forma abbreviata, che dovrà essere depositata entro 15 giorni dalla lettura del dispositivo
(salvo che non sia stata dettata direttamente a verbale).
In caso di impedimento alla sottoscrizione da parte del giudice di pace, la sentenza potrà essere sottoscritta
dal presidente del Tribunale, limitatamente alle parti in cui la motivazione sia stata redatta: se così non
fosse, l’impedimento determina la nullità della sentenza per totale carenza di sottoscrizione e di
motivazione.
Un iter maggiormente semplificato è costituito dalla presentazione immediata: caratterizzato da maggiore
semplicità e snellezza dove la persona offesa e testimoni possono essere citati oralmente; il pubblico
ministero, imputato e parte civile presentano testimoni e consulenti tecnici direttamente al dibattimento.
Il pubblico ministero dà lettura dell’imputazione. L’imputato può chiedere un termine a difesa non
superiore a 7 giorni.

Decisione

Il processo si può concludere se non con la conciliazione, oblazione, improcedibilità per particolare tenuità
del fatto o condotte riparatorie, per:
1. Proscioglimento, assoluzione, estinzione del reato;
2. Sentenza di condanna.

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Oltre alla pena pecuniaria sono previste le misure para-detentive (permanenza domiciliare e lavoro di pubblica
utilità).
Qualora il giudice condanni l’imputato alla permanenza domiciliare, questo o il suo difensore potranno
chiedere l’esecuzione continuativa. Il giudice dovrà di conseguenza indicare nel dispositivo provvisorio
tipo e durata e, successivamente, stabilire le modalità di esecuzione della pena, assumendo dunque le
funzioni tipiche del magistrato di sorveglianza. La scelta costituisce un atto personalissimo.
In ogni modo il dispositivo della sentenza di condanna sarà di formazione progressiva, nel senso che alla
fase in cui il giudice di pace è assoluto monopolista della decisione ne segue un’altra, volta al
completamento della stessa, secondo le scelte formulate dall’imputato.

Pene da applicare
Oltre alla pena pecuniaria, sono state introdotte nuove sanzioni: la permanenza domiciliare e il lavoro di
pubblica utilità.
La permanenza domiciliare consiste nell’obbligo di rimanere presso la propria abitazione o altro luogo di
privata dimora, di cura, di assistenza o di accoglienza nei giorni di sabato e domenica, fatta salva la
possibilità per il giudice di disporre giorni diversi in presenza di ragioni familiari, lavorative, di salute, di
studio, ecc. La durata della pena va dai 6 ai 45 giorni e il condannato non è considerato in stato di
detenzione. Il giudice può disporre pene accessorie, per una durata massima doppia rispetto alla
permanenza domiciliare, come il divieto di accedere a determinati luoghi.
Il lavoro di pubblica utilità (applicato solo su richiesta dell’imputato) consiste nell’obbligo di svolgere un
attività non retribuita in favore della collettività da espletare presso lo Stato, le regioni, le province, i
comuni, enti o organizzazione di assistenza sociale e volontariato. La durata va dai 10 giorni ai 6 mesi. La
pena comporta la prestazione per non più di 6 ore settimanali (aumentabili dal giudice nel limite di 8 ore
al giorno), da svolgere in compatibilità con gli impegni lavorativi, familiari, ecc. Ai fini del computo della
pena, a un giorno corrispondono 2 ore di lavoro.
Qualora il condannato non rispetti, senza giustificato motivo, gli obblighi di queste misure sostitutive,
potrà essere condannato dal Tribunale (monocratico) alla reclusione fino ad 1 anno.

Le impugnazioni

Il pubblico ministero può proporre appello contro le sentenze di condanna se è applicata una pena diversa
da quella pecuniaria, mentre non può appellare le sentenze di proscioglimento. Il pubblico ministero può
anche proporre ricorso per cassazione contro le sentenze del giudice di pace.
L’imputato invece può proporre appello contro le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano
una pena diversa da quella pecuniaria; può proporre appello anche contro le sentenze che applicano la
pena pecuniaria se impugna il capo relativo alla condanna, anche generica, al risarcimento del danno. Può
altresì proporre ricorso per cassazione contro le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano la
sola pena pecuniaria e contro le sentenze di proscioglimento.
La competenza per il giudizio di appello spetterà al tribunale in composizione monocratica del circondario
i cui ha la sede il giudice di pace.
Questo giudizio si svolgerà secondo le regole previste per l’appello delle sentenze dibattimentali.
Il tribunale annullerà la decisione, oltre che nei casi di cui all’art 604 c.p.p. rubricato appunto «questioni
di nullità», disponendo la trasmissione degli atti al giudice di pace, anche quando l’imputato, contumace
in primo grado, prova di non essere potuto comparire per caso fortuito o per forza maggiore o per non
avere avuto conoscenza del provvedimento di citazione a giudizio, sempre che in tal caso il fatto non sia

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dovuto a sua colpa, ovvero, quando l’atto di citazione per il giudizio di primo grado è stato notificato
mediante consegna al difensore, non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del
procedimento.
Il ricorso per cassazione (art. 111 cost.) è previsto per le sentenze emesse a seguito del giudizio d’appello
e quelle inappellabili. Legittimati a ricorrere sono il procuratore generale presso la corte d’appello e
l’imputato.

L’esecuzione

La competenza spetta al giudice di pace che ha emesso la sentenza. In caso di concorso con un
provvedimento di un altro giudice ordinario o speciale, la competenza spetterà, rispettivamente al giudice
ordinario o al Tribunale in composizione collegiale.
Il procedimento è disciplinato dall’art 666 c.p.p. L’unica eccezione è che contro il decreto del giudice di
pace che dichiara inammissibile la richiesta formulata nel procedimento di esecuzione e che contro
l’ordinanza che decide sulla richiesta, l’interessato può proporre, entro 15 giorni dalla notifica del
provvedimento, ricorso per motivi di legittimità al tribunale in composizione monocratica nel cui
circondario ha sede il giudice di pace.

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CAPITOLO VII – LA PROCEDURA PER ACCERTARE LA


RESPONSABILITÁ DEGLI ENTI

Disposizioni generali

La sua caratteristica è che gli imputati sono società.


La legge è stata introdotta nel 2001, in ritardo rispetto agli altri paesi, perché c’è una disposizione nella
costituzione che afferma che la responsabilità penale è personale (comma 1 art. 27 Cost.). La questione
però è cambiata e l’Italia si è dovuta adeguare – soprattutto ai processi targati tangentopoli – dovuti a reati
commessi da persone giuridiche.
Il legislatore, consapevole dell’anti-economicità di una disciplina codicistica volta a regolare il rito di
pertinenza degli enti, si è limitato a introdurre un meccanismo di chiusura fondato sul principio di
sussidiarietà, ovvero sarà applicabile in un’ottica di extrema ratio, allorché tutti gli altri strumenti non siano
praticabili.
Per punire tali tipi di soggetti e per essere rispettosi della disposizione della Costituzione, il legislatore ha
introdotto questo tipo di responsabilità che ha avuto l’accortezza e la furbizia di definirla «responsabilità
amministrativa degli enti». Ma ci troviamo di fronte a una responsabilità che deriva dal compimento di
un reato, accertato tramite una procedura (penale), con tutte le garanzie esistenti, e comporta sanzioni
interdittive (anche a chiusura dell’attività). Inoltre ci si trova dinanzi a una responsabilità che non è
oggettiva, ma contiene una sorta di colpa in capo alla società (colpa di organizzazione). Questa consente
di rimproverare alla società il fatto di aver consentito quel fatto di reato perché non era sufficientemente
organizzato.
La giurisprudenza e la dottrina dicono che è un terzo tipo di responsabilità che deriva dalla commissione
di un reato, anche se si svolge in un procedimento penale.
La competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente appartiene al giudice penale competente
per i reati dai quali gli stessi dipendono (art. 36). Non possono essere sottoposti a processo lo Stato, gli
istituti pubblici. Gli istituti economici invece possono andare sotto processo come le società.
Quali sono i presupposti?
1. Il fatto che si è commesso un reato nell’orbita della pubblica amministrazione in ambito statuale;
2. Il reato infatti deve essere compiuto da un soggetto che abbia un rapporto con la società (soggetti
apicali o dipendenti);
3. Infine ci deve essere l’esistenza per la società di un interesse o di un vantaggio derivante dal
compimento di un reato.
Interesse e vantaggio sono due entità differenti: «interesse» è l’elemento considerati dal p.m. nel momento
in cui si è verificato il reato, dunque il base al criterio della prognosi postuma i magistrati dovranno
valutare se ex ante tutti gli elementi che erano presenti nel momento del compimento di reato costituivano
un interesse che l’autore aveva compiuto per raggiungere il fine prefissatosi. «Vantaggio» invece si riferisce
al beneficio, e qui si fa un accertamento ex post, che la società ha avuto dal compimento del reato. Va
ricondotto alla condotta che ha determinato l’illecito.
Le sanzioni di natura pecuniaria sono impostate su un sistema di quote. È un sistema bifasico e consente
di guardare alle reali capacità economiche della società. La determinazione delle quote necessarie per
punire il fatto viene fatta sulla base di una serie di criteri: (1) il grado di responsabilità della società; (2)
l’attività svolta per attenuare le cause che hanno portato il reato o eliminare le causa; (3) come si è mossa
la società per evitare ulteriori reati. Sulla base di questi elementi il giudice va da un minimo a un massimo
ad individuare in concreto che quota assegnare. Il giudice deve poi fare una valutazione al valore da dare
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alla singola quota che va da 258 euro a 2500 euro, valutato in base alla capacità economica della società
che può essere dedotta dal fatturato, per esempio, della società (da elementi idonei).
La sanzione massima è di mille quote, la minore di cento.
Le sanzioni interdittive: la più grave è quella dell’interdizione dall’esercizio dell’attività, oppure e in
particolare chiudere solo un determinato sito, settore dell’azienda.
- Revoca delle concessioni.
- Divieto di contrattare con la pubblica amministrazione;
- Esclusioni da benefici;
- Diniego di concedere beni e servizi.
È evidente che questi tipi di sanzioni devono essere determinati in base al reato compiuto: non si può
applicare la sanzione del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione se di fatto la società non
ha mai e non intratterrà mai rapporti con quelle.
Inoltre c’è la confisca. Questa è sempre disposta, congelando il vantaggio o l’interesse aggiunto.
In ultimo c’è la pubblicazione della sentenza.

Importanti sono i modelli di organizzazione e di gestione (MOG), che sono una sorta di scriminante. Nel
caso di illeciti commessi da soggetti in posizione apicale, l’ente non risponde se prova che il dirigente ha
adottato dei modelli di gestione e controllo idonei ad evitare i reati. C’è anche il loro relativo obbligo di
vigilare nel rispetto di questo MOG. La società deve anche dimostrare che i soggetti autori del reato hanno
bypassato i MOG. Inoltre si deve dimostrare che non vi fosse stata una carenza di vigilanza.
Nel caso in cui il reato sia compiuto da un soggetto dipendente, l’onere di dimostrare la colpevolezza
spetta al pubblico ministero.
Esistono meccanismi che mostrano questa disciplina come volta a colpire e dare importanza al principio
della carota e del bastone. Ci si trova di fronte a un meccanismo che punisce duramente, ma poi concede
l’occasione di riprendersi in tempi brevi, come l’applicazione del commissario giudiziario in luogo delle
sanzioni interdittiva. Questi viene nominato per operare in luogo delle posizioni apicali che prima
dirigevano la società: il motivo sta per evitare di una notevole ricaduta occupazionale.
Per poter applicare una sanzione pecuniaria limitata, bisogna operare delle condotte operatorie, poste in
essere prima dell’apertura del dibattimento. Come adozione di modelli di organizzazione per prevenire
ulteriori reati, utilizzo del profitto derivante da reato per riparare quanto causato.

Quali sono le regole processuali che disciplinano questo tipo di responsabilità?


Chi ha cognizione del processo è il giudice che ha il compito di giudicare anche il procedimento in ordine
all’illecito penale (art. 36).
In questo senso il giudice penale è competente a conoscere l’illecito amministrativo dell’ente, come è
competente a conoscere lo stesso illecito penale. Ecco allora, che sotto il profilo giuridico, si ha di fronte un
cumulo processuale di competenze principali, conseguente a un rapporto di pregiudizialità di fatto
connotato in termini di dipendenza dell’illecito amministrativo da quello criminoso.
Il processo in capo alle società si fermerà solamente quando ci sarà la cancellazione dal registro delle
imprese e non quando c’è una modificazione dello statuto sociale e nemmeno quando c’è un fallimento:
infatti nel caso di trasformazione, di fusione o di scissione dell’ente originariamente responsabile, il
procedimento prosegue nei confronti degli enti risultanti da tali vicende modificative o beneficiari della
scissione, che partecipano al processo, nello stato in cui lo stesso si trova, depositando la dichiarazione di
cui all’articolo 39, comma 2.
Il processo peraltro muore nel momento in cui vengono a mancare le condizione di procedibilità.

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La regola fondamentale del processo è tenere divisi i singoli processi, ma la norma dell’art. 17 della
riunione è frutto di un sistema previsto soltanto in determinati casi. Il simultaneus processus: secondo
l’art. 38 Il procedimento per l’illecito amministrativo dell’ente è riunito al procedimento penale instaurato
nei confronti dell’autore del reato da cui l’illecito dipende. In ogni modo tale regola trova un
temperamento nel comma 2 della medesima disposizione, che disciplina le situazioni in cui si procede
separatamente per l’illecito amministrativo, ossia quando: soltanto quando: a) è stata ordinata la
sospensione del procedimento ai sensi dell’articolo 71 del codice di procedura penale; b) il procedimento
è stato definito con il giudizio abbreviato o con l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice
di procedura penale, ovvero è stato emesso il decreto penale di condanna; c) l’osservanza delle
disposizioni processuali lo rende necessario.
La disciplina della partecipazione non è la medesima di quella dell’imputato. Infatti si deve proseguire e
partecipare al processo tramite l’atto della costituzione. All’ente infatti deve essere data voce e deve
essergli data la facoltà di difendersi, e pertanto deve partecipare con un soggetto che lo rappresenti. Ecco
allora che questo partecipa con il proprio rappresentante legale, a meno che non sia imputato per il reato
amministrativo presupposto ascrittogli. È l’incompatibilità assoluta di rappresentare l’ente da parte di
quel soggetto imputato (l’atto compiuto è un atto illegittimo che non produce alcun effetto nell’ambito del
processo). Il legislatore ha introdotto ciò perché laddove non avesse inserito tale istituto era limitato il
diritto di difesa. Quando non compare il legale rappresentante, l’ente è difeso dal difensore. C’è una
rappresentazione necessaria. C’è la figura anche del difensore d’ufficio.
L’ente che intende partecipare al procedimento si costituisce depositando nella cancelleria dell’autorità
giudiziaria procedente una dichiarazione contenente a pena di inammissibilità:
a) La denominazione dell’ente e le generalità del suo legale rappresentante;
b) Il nome ed il cognome del difensore e l’indicazione della procura;
c) La sottoscrizione del difensore;
d) La dichiarazione o l’elezione di domicilio.
Qui è presente l’istituto della contumacia (art. 41). È un tipo di contumacia particolare: deriva dalla
mancata costituzione dell’ente nel processo, mentre nei confronti delle persone fisiche era la mancata
partecipazione ingiustificata all’udienza (ora però c’è l’assenza e non la contumacia). Pertanto ci sarà un
rinvio all’istituto dell’assenza presente nel codice di procedura penale. Dovrà dunque costituirsi nel
processo con un nuovo nominativo e rappresentante legale.
È previsto anche un istituto di notificazione. Viene preso il sistema delle pubbliche amministrazioni (art.
43).
Se per la prima notificazione all’ente deve essere eseguita a norma dell’art. 154 comma 3, cioè nelle forme
del processo civile, le notificazioni effettuate mediante consegna al rappresentante legale dell’ente sono
comunque valide. Qualora l’ente abbia eletto o dichiarato domicilio, le notificazioni possono essere
eseguite nel domicilio eletto.
L’atto può essere altresì consegnato al rappresentante dell’ente e alla persona incaricata di ricevere la
notificazione; in via successiva può essere consegnato anche ad altra persona addetta alla sede dell’ente.
Se è impossibile notificare presso la sede è possibile applicare le disposizioni della notificazione in mani
proprie del rappresentane.

Misure cautelari

La scelta del legislatore è stata quella di favorire l’introduzione di un vero e proprio sistema cautelare,
asserendo che l’anticipazione di taluni effetti della decisione di merito mediante l’adozione di misure

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cautelari è in funzione dell’effettività dell’accertamento giurisdizione. Ecco allora la creazione di un


sistema destinato a disciplinare l’applicazione e le vicende in sede cautelare delle sanzioni interdittive e reali.
Le misure cautelari interdittive devono essere parametrate al tipo di reato compiuto. Infatti sarà inutile
applicare l’interdizione di contrattare con la pubblica amministrazione, qualora la società abbia commesso
un reato diverso da questi oppure che la società non faccia appalti. L’art. 46 afferma che nel disporre le
misure cautelari, il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al
grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto.
La misure interdittive: a) l’interdizione dall’esercizio dell’attività; b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni,
licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; c) il divieto di contrattare con la pubblica
amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; d) l’esclusione da agevolazioni,
finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; e) il divieto di pubblicizzare beni o
servizi.
Sono escluse per mancanza di idoneità generica la pubblicazione della sentenza e specifica la chiusura
temporanea dello stabilimento o sede commerciale.
Il giudice può, in alternativa, nominare un commissario per la durata della misura che sarebbe stata
applicata. L’adozione di queste misure sarà possibile solo nei confronti di reati per i quali sia prevista la
corrispondente misura interdittiva.
Problema di presunzione di colpevolezza: sono provvedimenti che rischiano di avere una natura definitiva
se applicati.
Le condizioni di applicabilità: qualora sussistano i presupposti delle misure ordinarie ma più limitata.
L’art. 45 dice quando ci sono gravi indizi (cosa significa?). Devono essere parametrati. Questi sono delle
situazioni che devono essere verificate in concreto, che la giurisprudenza li vede nella presenza di uno dei
requisiti di cui all’art. 13, che tratta delle sanzioni interdittive: cioè quando a) l’ente ha tratto dal reato un
profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero da soggetti
sottoposti all’altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o
agevolata da gravi carenze organizzative; ovvero b) in caso di reiterazione degli illeciti.
La sussistenza della responsabilità dell’ente deve essere accompagnata altresì dal pericolo concreto,
desumibile da fondati e specifici elementi.
Una volta accertata la presenza di tali condizioni, il giudice può adottare una misura cautelare interdittiva,
dovendo tenere conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze
cautelari da soddisfare nel caso concreto. Ogni misura cautelare deve essere proporzionata all’entità del
fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere applicata all’ente.
Principio della domanda: l’applicazione della misura cautelare è richiesta dal p.m. al giudice delle
indagini preliminari. Il proponimento della domanda confluisce poi nell’esperimento del contraddittorio,
che è definito anticipato: se nei confronti della persona è previsto un contraddittorio posticipato (riesame)
appunto per il rischio che la persona scappi, nei confronti della società tale rischio non esiste. Qualora ci
sia l’applicazione di una misura interdittiva, la società se si trova privata di agire e poi risulta che non
aveva commesso il fatto, potrebbe succedere che vi erano stati risvolti negativi sull’impiego all’interno
della società, oppure la chiusura della stessa società. Dunque ecco spiegato il motivo del contraddittorio
anticipato.
L’ordinanza che dispone l’applicazione di una misura cautelare è notificata all’ente a cura del pubblico
ministero.
Tra le vicende evolutive attinenti le misure di interdizione, il decreto legislativo prevede la revoca, la
sostituzione, la perenzione e la sospensione.

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Le misure cautelari possono essere sospese se l’ente chiede di poter realizzare gli adempimenti cui la legge
condiziona l’esclusione di sanzioni interdittive a norma dell’articolo 17 (laddove quindi ponga in essere le
condotte riparatorie). In tal caso, il giudice, sentito il pubblico ministero, se ritiene di accogliere la richiesta,
determina una somma di denaro a titolo di cauzione, dispone la sospensione della misura e indica il
termine per la realizzazione delle condotte riparatorie di cui al medesimo articolo 17.
Le condotte delineate dall’art. 17 sono: a) l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le
conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso;
b) l’ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e
l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; c) l’ente ha
messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca.
Le misure cautelari sono revocate, anche d’ufficio, quando risultano mancanti, anche per fatti
sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dall’articolo 45 ovvero quando ricorrono le ipotesi
previste dall’articolo 17. Quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non
appare più proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere applicata in via
definitiva, il giudice, su richiesta del pubblico ministero o dell’ente, sostituisce la misura con un’altra meno
grave ovvero ne dispone l’applicazione con modalità meno gravose, anche stabilendo una minore durata.
La perenzione è prevista in ragione del decorso dei termini massimi di durata, provocando l’estinzione in
via automatica.
Oltre alla perenzione, la pronuncia di determinate sentenze provoca l’estinzione in via automatica della
misura cautelare, come la sentenza di cessazione della misura derivanti dalla pronuncia, la sentenza di
esclusione della responsabilità e la sentenza di non doversi procedere per prescrizione della sanzione
amministrativa o del reato dal quale dipende l’illecito contestato all’ente.
Nel disporre le misure cautelari, con ordinanza, dopo aver sentito le parti in contraddittorio, il giudice ne
determina la durata, che non può superare la metà del termine massimo indicato dall’articolo 13, comma
2. Dopo la sentenza di condanna di primo grado, la durata della misura cautelare può avere la stessa durata
della corrispondente sanzione applicata con la medesima sentenza. In ogni caso, la durata della misura
cautelare non può superare i due terzi del termine massimo di 2 anni e comunque non possono essere
inferiori, di durata, a 3. Il termine di durata delle misure cautelari decorre dalla data della notifica
dell’ordinanza. La durata delle misure cautelari è computata nella durata delle sanzioni applicate in via
definitiva.
È naturale che non ci sia un riesame (per il motivo della presenza del contraddittorio anticipato), ma ci
può essere l’appello. Il pubblico ministero e l’ente, per mezzo del suo difensore, possono proporre appello
contro tutti i provvedimenti in materia di misure cautelari, indicandone contestualmente i motivi. Contro tutti
che vuol dire che sarà possibile amministrare un controllo su tutte le ordinanze del giudice che applicano,
sospendono, revocano, sostituiscono o dichiarano la cessazione delle misure, nonché rigettano la richiesta
di adozione avanzata dal pubblico ministero, e di revoca o sostituzione eventualmente proposta dall’ente
o dal rappresentante dell’accusa. Non è però possibile il ricorso per saltum.
Sull’appello decide il tribunale collegiale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l’ufficio che ha
emesso il provvedimento cautelare. La proposizione dell’appello non sospende l’esecuzione del
provvedimento.

Le misure cautelari reali sono il sequestro preventivo e conservativo. Il primo ha ad oggetto le cose di cui
è consentita la confisca, sequestrando quanto poi sarà confiscato, mentre il secondo è finalizzato ad evitare
il realizzarsi di reati della stessa specie.

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Il sequestro conservativo è richiesto quando vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano
le garanzie per il pagamento della sanzione pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma
dovuta all’erario dello Stato, il pubblico ministero, in ogni stato e grado del processo di merito, chiede il
sequestro conservativo dei beni mobili e immobili dell’ente o delle somme o cose allo stesso dovute.
Bisogna tenere in considerazione che questo serve a porre un vincolo di inabilità su mobili o immobili per
poi pagare la sanzione pecuniaria o le spese processuali. Non c’è nessun riferimento alle spese di
risarcimento del danno: il pubblico ministero può essere chiesto solo dal p.m. e non dalla parte civile (come
nel processo ordinario). Se ci fosse tale specificazione si verificherebbe una duplicazione dell’illecito
sanzionatorio, perché il reato è solo una piccola parte.
Quanto riguarda il sequestro preventivo, Il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita
la confisca a norma dell’articolo 19. Al fine di applicare questa misura bisogna accertare la sussistenza del
periculum in mora, presunta ope legis poiché connaturata ai beni suscettibili di confisca, e il fumus boni
iuris.
Modalità particolari assistono il sequestro quando abbia ad oggetto società, aziende ovvero beni, compresi
titoli, quote azionarie o liquidità anche in deposito. In tal caso, il custode amministratore giudiziario ne
consente l’utilizzo e la gestione agli organi societari al fine esclusivo di garantire la continuità e lo sviluppo
aziendale, esercitando i poteri di vigilanza e riferendo all’autorità giudiziari.

Indagini preliminari e udienza preliminare

Le indagini preliminari si rifanno sulla disciplina del rito ordinario. Si hanno quindi 4 previsioni: art. 55
(annotazione illecito amministrativo), art. 56 (i termini di durata), art. 57 (informazione di garanzia) e art. 58
(archiviazione).
Il pubblico ministero, che ha acquisito la notizia dell’illecito amministrativo dipendente da reato, ha
l’onere di annotare immediatamente nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. gli elementi identificativi
dell’ente, e se possibile, le generalità del suo rappresentante legale, nonché il reato dal quale dipende
l’illecito.
Il termine per l’accertamento dell’illecito amministrativo a carico dell’ente decorre dalla annotazione
prevista dall’articolo 55. È lo stesso registro delle persone fisiche, costituitone uno a parte. Il legale
rappresentante dell’ente può chiedere in qualunque momento se avverso l’ente esista una qualche
annotazione di svolgimento delle indagini preliminari a carico dell’ente.
L’informazione di garanzia inviata all’ente deve contenere l’invito a dichiarare ovvero eleggere domicilio
per le notificazioni nonché l’avvertimento che per partecipare al procedimento deve depositare la
dichiarazione.
Al termine delle indagini preliminari, il pubblico ministero che decida di non procedere alla contestazione
dell’illecito amministrativo dispone direttamente, con decreto motivato, l’archiviazione degli atti,
dandone comunicazione al procuratore generale presso la Corte d’appello. Quest’ultimo, non convinto
dell’opzione archiviativa, può svolgere ulteriori accertamenti e, ravvisandone l’opportunità, contesta
all’ente la violazione amministrativa, entro 6 mesi dalla comunicazione.
L’archiviazione dunque non segue il percorso del rito ordinario (il p.m. chiede e il giudice delle indagini
preliminari indica i presupposti e poi decide). Infatti qui il p.m. decide egli stesso sull’archiviazione e può
emettere di conseguenza decreto motivato di archiviazione. Questo perché non c’è il controllo del giudice
preliminare, ma solo un controllo del procuratore generale della corte d’appello. C’è solo un controllo
interno e non di un terzo.

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Tale meccanismo allora sembra prestare il fianco al principio dell’obbligatorietà penale (art. 112 Cost.)
immettendo al pubblico ministero un vero e proprio potere di cestinazione diretta: nel tentativo di
superare questa perplessità, si cerca di conciliare le idee soffermandosi sul fatto che la responsabilità in
esame sia improntata più sull’art. 97, ovverosia il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione,
che ad un vero e proprio esercizio dell’azione penale.
Il pubblico ministero – in ogni modo – deve disporre l’archiviazione in caso di infondatezza del reato o
negli altri casi di cui all’art 411 c.p.p., cioè quando (1) manca una condizione di procedibilità, (2) il reato
è estinto, (3) il fatto non è previsto dalla legge come reato.
È prevista altresì l’archiviazione per particolare tenuità del fatto.
Quando non dispone l’archiviazione, il pubblico ministero contesta all’ente l’illecito amministrativo
dipendente dal reato. Le modalità di contestazione sono uguali a quelle del rito ordinario.
La contestazione può avvenire tramite richiesta di rinvio a giudizio, richiesta di applicazione della sanzione;
richiesta di giudizio immediato; richiesta di emissione del decreto penale di condanna; presentazione dell’ente steso a
giudizio direttissimo.
La contestazione contiene gli elementi identificativi dell’ente, l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del
fatto che può comportare l’applicazione delle sanzioni amministrative, con l’indicazione del reato da cui
l’illecito dipende e dei relativi articoli di legge e delle fonti di prova. Non può procedersi alla contestazione
quando il reato da cui dipende l’illecito amministrativo dell’ente è estinto per prescrizione.
Non si fa riferimento all’avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari previsto dall’art.
415 bis c.p.p. Ma non si può dire che questa non operi e si individuano due profili: uno temporale e l’altro
strutturale. Il primo riguarda il fatto che il pubblico ministero è tenuto a procedere alla contestazione entro
determinati termini, decadendo dal diritto di compiere tale attività laddove il reato dal quale dipende
l’illecito amministrativo risulti estinto per prescrizione. Il secondo invece gioca sul fatto che nel caso in cui
il procedimento per l’accertamento dell’illecito amministrativo venga separato dal processo a carico
dell’autore del reato-presupposto, bisognerebbe garantire un’adeguata difesa anche alla persona giuridica
e il pieno esercizio del diritto alla prova.

L’udienza preliminare è parametrata sull’accertamento dell’illecito amministrativo. L’art. 61 non prevede


norme specifiche a disciplinare tale fase del processo, dunque se ne desume che sia improntata sulle norme
ordinarie del codice di procedura penale, con il limite – naturalmente – della compatibilità.
La richiesta di rinvio a giudizio, contenente la contestazione dell’illecito a carico della persona fisica e a
carico della persona giuridica, nei confronti dell’ente sarà depositata dal pubblico ministero nella
cancelleria del giudice dell’udienza preliminare insieme al fascicolo delle indagini espletate se non siano
state separate.
Una volta ricevuta la richiesta di rinvio a giudizio, il giudice entro 5 giorni fissa con decreto l’udienza
preliminare. Il decreto deve essere notificato all’ente e al difensore almeno 10 giorni prima dell’udienza
insieme all’avvertimento che i caso di mancata costituzione si procederà in contumacia.
La costituzione avviene attraverso il deposito nella cancelleria del giudice o in udienza dell’atto di
costituzione e della procura conferita al difensore. La mancata comparizione del rappresentante legale
non comporta contumacia, ma solamente che la rappresentanza sarà assunta dal difensore (di fiducia o
d’ufficio che sia).
Quanto riguarda la discussione, vedono ingresso al processo delle società le disposizioni agli artt.: 421
(discussione), 421 bis (ordinanza per l’integrazione delle indagini), 422 (attività di integrazione probatoria
da parte del giudice) c.p.p.

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Si ritiene applicabile anche l’art 423 (modificazione dell’imputazione), che in assenza del legale
rappresentante avverrà alla presenza del difensore tale modificazione si deve provvedere soltanto dove la
diversa descrizione dell’evento delittuoso o la contestazione di un reato connesso a norma dell’art. 12
comma 1 lett. b c.p.p. si riverberi sulla configurazione del fatto che può comportare l’applicazione della
sanzione amministrativa.

La decisione, per quanto riguarda gli esiti dell’udienza preliminare, ha caratteristiche particolari: la
sentenza di non luogo a procedere si avrà nei casi di (1) improcedibilità o estinzione, ovvero (2) quando
l’illecito extrapenale stesso non sussiste o gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque
non idonei a sostenere in giudizio la responsabilità dell’ente, (3) quando sia stata concessa amnistia; mentre il
decreto che dispone il giudizio nei confronti dell’ente, contiene, a pena di nullità, la contestazione
dell’illecito amministrativo dipendente dal reato-presupposto, con l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto
che può comportare l’applicazione delle sanzioni e l’indicazione del reato da cui l’illecito dipende e dei relativi articoli
di legge e delle fonti di prova nonché gli elementi identificativi dell’ente.
Con la sentenza di non luogo a procedere si fanno dunque valere, comportando un esito positivo
all’imputato, gli ostacoli procedurali insorti del processo, la inidoneità probatoria degli elementi
conoscitivi prospettati dal pubblico ministero unitamente all’atto di contestazione dell’illecito.
Le regole di giudizio per l’emissione della sentenza di non luogo a procedere devono essere combinate
con i criteri di imputazione, oggettiva e soggettiva, destinati a costituire i presupposti della responsabilità
amministrativa dell’ente, dunque bisogna accertare se l’ente abbia avuto un vantaggio o un intesse e, al
contempo, se i modelli di gestione e organizzazione erano tesi ad evitare che il reato si integrasse.
Sotto il profilo dell’onere probatorio, dovrà essere l’ente a dimostrare la propria estraneità attraverso la
prova della sussistenza di una serie di requisiti tra loro concorrenti: inversione dell’onere probatorio. Così
non accade qualora il reato-presupposto sia stata posto in essere da un dipendente.
La sentenza di non luogo a procedere è altresì emessa qualora l’ente, prima della commissione del reato,
abbia adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a
prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Sotto il profilo delle patologie, la nullità assoluta è prevista nei casi di: (1) incerta identificazione dell’ente
e (2) le carenze della contestazione dell’illecito, (3) dell’enunciazione del fatto e (4) della specificazione del
reato presupposto e i (5) casi di inesatta indicazione della data di comparizione.
Sarà invece affetto da nullità a regime intermedio l’inesatta indicazione dell’ora fissata per la
comparizione delle parti.
Infine sarà nullità relativa qualora ci sia l’assenza di indicazioni circa le fonti di prova, afferendo alla
violazione dei diritti di intervento, rappresentanza e assistenza.
Alla conclusione dell’udienza preliminare segue la formazione del fascicolo per il dibattimento secondo le
regole dell’art. 431.

Procedimenti speciali

Sono presi in considerazione anche i procedimenti speciali. Non è menzionato il giudizio direttissimo e
immediato. Non è applicabile la sospensione per messa alla prova.
Giudizio abbreviato, patteggiamento, procedimento per decreto invece sono applicabili.

Giudizio abbreviato

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L’art. 62 esordisce con il rinvio alle disposizioni previste per il rito abbreviato in quanto applicabili che
possono così essere riassunte: (1) il giudizio può essere richiesto dall’ente, oralmente o per iscritto nel corso
dell’udienza preliminare, fino alla formulazione delle conclusioni; (2) la richiesta può essere subordinata
ad una integrazione probatoria e accolta solo se tale integrazione sia sufficiente per la decisione; (3) nel
corso del giudizio il pubblico ministero può chiedere l’ammissione della prova contraria ove l’integrazione
probatoria sollecitata dall’imputato sia ammessa e il giudice, d’ufficio, può assumere gli elementi necessari
alla decisione; (4) sono applicabili le norme in tema di decisione e appello.
A fronte di una nuova contestazione, l’ente può optare o per l’estensione del rito abbreviato e l’eventuale
ammissione di ulteriori prove in relazione alla nuova fattispecie delittuosa, o per la prosecuzione del
procedimento con le forme ordinarie.
È prevista anche l’ipotesi di giudizio abbreviato in assenza di udienza preliminare. Il rinvio agli articoli
del codice è scontato: (1) in caso di procedimento monocratico instaurato a seguito di citazione diretta, la
richiesta di rito abbreviato deve essere effettuato durante l’udienza di comparizione prima dell’apertura
del dibattimento; (2) in caso di procedimento per decreto, la richiesta deve essere fatta con l’atto di
opposizione al decreto penale di condanna; (3) in caso di giudizio direttissimo, poiché per l’ente non è
configurabile l’arresto in flagranza, la richiesta deve essere effettuata prima dell’apertura del dibattimento.

Applicazione della sanzione su richiesta


L’art. 63 disciplina i casi in cui è ammessa l’applicazione della pena su richiesta, ossia nei casi di punibilità
dell’illecito amministravo con solo la pena pecuniaria, nonché i casi in cui il giudizio nei confronti
dell’imputato sia definibile con l’applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444.
L’ente e il pubblico ministero possono chiedere dunque l’applicazione de una sanzione, nella specie e nella
misura indicata, ridotta fino a 1/3. Questa richiesta può essere formulata fino alla presentazione delle
conclusioni nell’udienza preliminare o fino alla dichiarazione dell’apertura del dibattimento nel giudizio
direttissimo.
In caso di dissenso del pubblico ministero o di rigetto da parte del giudice per le indagini preliminari, la
richiesta può essere riproposta prima dell’apertura del dibattimento e il giudice può accoglierla con
sentenza, ove non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129 e ove ritenga
corretta la qualificazione giuridica del fatto, l’applicazione e la comparazione delle circostanze, nonché
congrua la sanzione.
Il giudice, se ritiene che debba essere applicata una sanzione interdittiva in via definitiva, rigetta la
richiesta.

Procedimento per decreto


L’art 64 prevede che il decreto di condanna possa essere richiesto al giudice per le indagini preliminari dal
pubblico ministero che ritenga applicabile all’illecito extrapenale la sola pena pecuniaria. La richiesta
dovrà essere motivata e indicare la misura della sanzione pecuniaria che potrà sere ridota fino alla metà
del minimo applicabile.
Qualora il giudice non sia d’accordo e non debba pronunciare sentenza di esclusione della responsabilità
dell’ente, restituirà gli atti al p.m.

Altri riti speciali: giudizio direttissimo e giudizio immediato


Qualora dovessero sussistere i presupposti per l’accesso a tali riti e non debba disporsi la separazione del
procedimento penale da quello amministrativo, i due riti in esame saranno applicabili secondo la
disciplina ordinaria.

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Giudizio immediato. Qualora invece sia necessaria la separazione dei procedimenti, nell’ambito del
procedimento amministrativo, la richiesta di applicazione del giudizio immediato potrà avvenire ad opera
del pubblico ministero o dell’ente stesso. Qualora la richiesta sia fatta dal pubblico ministero è necessario
che sussistano 3 condizioni:
1. Una situazione di evidenza probatoria;
2. L’invito del rappresentante legale dell’ente a rendere interrogatorio sui fatti dai quali emerge
l’evidenza probatoria;
3. La presentazione della richiesta del pubblico ministero nella cancelleria del giudice per le indagini
preliminari entro 90 giorni dall’annotazione dell’illecito amministrativo nel registro delle notizie di
reato.
Qualora la richiesta sia fatta dall’ente è necessario che questo rinunci all’udienza preliminare e richieda il
giudizio immediato con una dichiarazione presentata nella cancelleria del giudice per l’udienza
preliminare, almeno 3 giorni prima della stessa udienza.
Giudizio direttissimo. È possibile anche la richiesta del giudizio direttissimo per l’accertamento della
responsabilità dell’ente. Ciò avverrà qualora l’ente, attraverso i suo legale rappresentante, avrà confessato
la commissione dell’illecito dipendente da reato. Il giudizio direttissimo non è applicabile in caso di arresto
in flagranza poiché questo non è configurabile nei confronti di un ente.

Il giudizio

Ci sono poche disposizioni e tanti rinvii.


Apre la sezione con il termine per provvedere alla riparazione delle conseguenze del reato: prima
dell’apertura del dibattimento di primo grado, il giudice può disporre la sospensione del processo se l’ente
chiede di provvedere alle attività di cui all’articolo 17 e dimostra di essere stato nell’impossibilità di
effettuarle prima. In tal caso, il giudice, se ritiene di accogliere la richiesta, determina una somma di denaro
a titolo di cauzione.
In tale contesto si va ad inserire l’unica disposizione di prove presente che è l’art. 44: incompatibilità con
l’ufficio di testimone. Non può essere assunta come testimone: a) la persona imputata del reato da cui
dipende l’illecito amministrativo; b) la persona che rappresenta l’ente indicata nella dichiarazione di cui
all’articolo 39, comma 2 (rappresentante legale), e che rivestiva tale funzione anche al momento della
commissione del reato. Nel caso di incompatibilità la persona che rappresenta l’ente può essere interrogata
ed esaminata nelle forme, con i limiti e con gli effetti previsti per l’interrogatorio e per l’esame della
persona imputata in un procedimento connesso. Norma che ci fa intendere che siamo di fronte a una
disciplina che fonda nella prova testimoniale il mezzo di prova principale.
Accanto alla prima previsione dell’art. 65, ci sono altre norme che riguardano alle sentenze. Dunque c’è la
sentenza di esclusione della responsabilità dell’ente. Se l’illecito amministrativo contestato all’ente non
sussiste, il giudice lo dichiara con sentenza, indicandone la causa nel dispositivo. Allo stesso modo procede
quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova dell’illecito amministrativo. Si vede come il
dubbio gioca a favore dell’ente.
Inoltre c’è la sentenza di non doversi procedere: il giudice pronuncia sentenza di non doversi procedere
qualora la contestazione dell’illecito amministrativo sia intervenuta nonostante il reato o la sanzione
risultino estinti per prescrizione.
La sentenza di condanna risulta dall’art. 69, il quale afferma che se l’ente risulta responsabile dell’illecito
amministrativo contestato il giudice applica le sanzioni previste dalla legge e lo condanna al pagamento

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delle spese processuali. In caso di applicazione delle sanzioni interdittive la sentenza deve sempre indicare
l’attività o le strutture oggetto della sanzione.
Nel caso di trasformazione, fusione o scissione dell’ente responsabile, il giudice dà atto nel dispositivo che
la sentenza è pronunciata nei confronti degli enti risultanti dalla trasformazione o fusione ovvero
beneficiari della scissione, indicando l’ente originariamente responsabile. La sentenza pronunciata nei
confronti dell’ente originariamente responsabile ha comunque effetto anche nei confronti degli enti
indicati nel comma 1.

Impugnazioni

Le sentenze possono essere impugnate:


1. Contro la sentenza che applica sanzioni amministrative diverse da quelle interdittive, l’ente può
proporre impugnazione nei casi e nei modi stabiliti per l’imputato del reato dal quale dipende l’illecito
amministrativo.
2. Contro la sentenza che applica una o più sanzioni interdittive, l’ente può sempre proporre appello anche
se questo non è ammesso per l’imputato del reato dal quale dipende l’illecito amministrativo.
3. Contro la sentenza che riguarda l’illecito amministrativo il pubblico ministero può proporre le stesse
impugnazioni consentite per il reato da cui l’illecito amministrativo dipende.
Alle sentenze pronunciate nei confronti dell’ente si applicano le disposizioni riguardanti la revisione.
Le impugnazioni proposte dall’imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo e dall’ente,
giovano, rispettivamente, all’ente e all’imputato, purché non fondate su motivi esclusivamente personali.

Esecuzione

In caso di condanna, in fase esecutiva, può fare luogo la pubblicazione della condanna, eseguita a spese
dell’ente. È importante ravvisare che, in linea di tutte quelle situazioni premiali, è possibile procedere, in
fase esecutiva, alla conversione delle sanzioni interdittive, quando l’ente, avendo pur posto in essere le
condotte riparatorie dimostra, alla notificazione della sentenza che prevede la sentenza interdittiva, può
convertirla da interdittiva a pecuniaria.
La legge attribuisce al giudice dell’esecuzione (art 665 c.p.p.) la competenza riguardo:
1. L’esecuzione delle sanzioni amministrative dipendenti da reato;
2. La cessazione dell’esecuzione in caso di abrogazione dell’illecito amministrativo o del reato
presupposto;
3. La cessazione dell’esecuzione in caso di estinzione del reato per amnistia;
4. La determinazione della sanzione amministrativa applicabile il caso di cumulo delle comminatorie;
5. La confisca e la restituzione delle cose sequestrate.

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CAPITOLO VIII – LE IMPUGNAZIONI IN GENERALE

La ratio dei mezzi di impugnazione sta nel fatto che ogni persona dichiarata colpevole da un tribunale ha
il diritto di fare esaminare la dichiarazione di colpevolezza o la condanna da una giurisdizione superiore.
E l’esercizio di tale diritto è disciplinato dalla legge.
Sono rimedi giuridici a disposizione delle parti volti a rimuovere gli svantaggi che sono derivanti dalle
sentenze che saranno oggetto di impugnazione.
Le impugnazioni si dividono in due categorie: mezzi ordinari e straordinari. Appello e cassazione, altresì il
ricorso immediato per cassazione, ma anche il riesame, l’appello e il ricorso per cassazione esperibile contro le
ordinanze in materia di misure cautelari personali e reali; revisione, ricorso straordinario per cassazione per errore
materiale o di fatto e il ricorso per cassazione per rescissione del giudicato.
I primi si rivolgono verso una decisione non ancora passata in giudicato (ossia quando spira il termine per
proporre impugnazione o quando sono esauriti tutti i mezzi ordinari). I secondi sono quelli che vanno ad
attaccare delle decisioni già passate in giudicato, dunque si elide quella stabilità e certezza duratura che è
sempre stata vista in capo alla sentenza passata in giudicato.
Non hanno un fondamento all’interno della costituzione e nemmeno nella C.e.d.u.: non c’è una disciplina
nazionale e sovrannazionale in sé. Riferimenti sono solo nel c.p.p.
Questi modelli si riferiscono a modelli tipici di natura differente. Due tipi: mezzo di impugnazione in
senso stretto e gravame.
Il primo è finalizzato alla rescissione totale o parziale della decisione impugnata, limitato ai vizi della sentenza
e, più in generale, agli errori del giudice del grado precedente, provando che nel provvedimento
impugnato è presente uno dei vizi tassativamente previsti dal legislatore per quel mezzo di impugnazione
verso i quali è stata fatta istanza di impugnazione (esse mirano innanzitutto ad accertare l’esistenza del
vizio e, in caso positivo, ad eliminare la sentenza viziata, riservando in tal caso ad una seconda fase la
sostituzione della sentenza viziata: divisione dunque tra fase rescindente e rescissoria).
Il secondo è volto a dedurre al giudice l’intera causa nella quale la parte ha lamentato l’ingiustizia (i gravami
sono strumenti attraverso cui si realizza il doppio grado di giurisdizione; presupposto per il loro esercizio
è unicamente la soccombenza, non la denuncia di un vizio della sentenza, da cui prescindono del tutto; la
loro funzione è il provocare un nuovo giudizio sul rapporto sostanziale; la sentenza pronunciata a termine
del gravame ha sempre carattere sostitutivo rispetto a quella impugnata ed essa solo è destinata ad avere
efficacia esecutiva; a differenza dei mezzi di impugnazione non esista la distinzione tra fase rescindente e
rescissoria è loro del tutto estranea).
La differenza – in ogni modo – è che al primo si portano a conoscenza solo i motivi, mentre al secondo
l’intera decisione. Il gravame, in generale, corrisponde a una prosecuzione del giudizio di primo grado,
diversamente dai mezzi di impugnazione in senso stretto che lamentano specifici vizi della sentenza
impugnata e del procedimento che ha preceduto la sentenza.
In particolare: alle impugnazioni in senso stretto corrisponde il ricorso per cassazione, mentre al gravame
corrisponde l’appello.
Entrambi i mezzi di impugnazioni poi sono utilizzati con modalità pretestuose, cioè usate nei confronti di
decisioni solo ai fini della prescrizione.
In ogni modo la finalità è quella di ottenere un vantaggio dalla decisione del giudice del controllo: infatti
è necessario che la parte abbia un interesse concreto a chiedere ed ottenere un controllo effettivo da parte
di un giudice diverso, ossia una decisione pratica più vantaggiosa che vada oltre il risultato astrattamente
più corretto (comma 4 art. 568).

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La materia delle impugnazioni è basata sul principio di tassatività che è disciplinato dall’art. 568: i casi e
i modi delle impugnazioni sono fissati dalla legge e i soggetti legittimati ad impugnare sono solo quelli
espressamente previsti dalla legge; per converso i provvedimenti non soggetti per legge ad un determinato
mezzo di impugnazione sono inoppugnabili. A prescindere dai limiti definiti dal comma 1, sono sempre
soggetti a ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i provvedimenti con i quali il
giudice decide sulla libertà personale e le sentenze, in linea con il dettato costituzionale dell’art. 111 comma
7. Ma talvolta accade che, per anomalie genetiche o funzionali, il provvedimento non possa essere
inquadrato in uno schema processuale tipico: ecco che entra in gioco il ricorso per cassazione che si offre
come strumento al rimedio agli arbìtri degli organi giudicanti, inteso come controllo a tutte le inesatte
osservanze di legge.
Questo principio del ricorso di cassazione come strumento di controllo riguardo a gli arbitri degli giudici,
allora lo si deve coordinare con l’eccezionalità dell’atto abnorme che, secondo la giurisprudenza, è quel
provvedimento che per singolarità e stranezza del suo contenuto risulti avulso dall’intero ordinamento
processuale tipico ovvero quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi
al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste oltre ogni ragionevole limite.
L’abnormità può anche discendere da ragioni strutturali, qualora l’atto si collochi al di fuori del sistema
organico della legge processuale. L’abnormità può riguardare anche un profilo funzionale: nel caso in cui
l’atto, pur non essendo estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di
proseguirlo. In ogni modo la giurisprudenza lo ritiene impugnabile attraverso il ricorso per cassazione,
al fine di rimuovere un provvedimento non inquadrabile nel sistema. Con tale premessa sembra appunto
che l’atto abnorme abbia indubbi caratteri di eccezionalità.

Chi sono i titolari delle impugnazioni? Ci si trova di fronte ad una sorta di principio di tassatività perché
il comma 3 art. 568 afferma che il diritto di impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge
espressamente lo conferisce e se la legge non distingue tra le diverse parti, tale diritto spetta a ciascuna di
esse. È necessario che ci sia anche l’interesse ad impugnare (art. 568 comma 4) e non solo l’impugnazione.
La legittimazione delle parti a impugnare può essere così sintetizzata: (1) pubblico ministero, (2) imputato,
(3) parte civile o della persona offesa (tramite sollecitazione al p.m.), responsabile civile e della persona civilmente
obbligata per la pena pecuniaria e parte civile e del querelante.
1. Il procuratore della Repubblica presso il tribunale e il procuratore generale presso la corte di appello
possono proporre impugnazione, nei casi stabiliti dalla legge. Il procuratore presso la corte di appello può
proporre impugnazione nonostante l’impugnazione o l’acquiescenza del pubblico ministero presso il
giudice di primo grado che ha emesso il provvedimento.
Per il pubblico ministero l’interesse è quello di sorvegliare la regolarità delle leggi.
Inoltre il pubblico ministero può impugnare agli effetti penali anche a seguito di richiesta della parte civile,
della persona offesa, anche se non costituita parte civile, e gli enti e le associazioni intervenuti.
Esiste una sorta di paternalismo giudiziario, improntato a benevola protezione, nei confronti del p.m.:
cioè questi può essere sollecitato dalla parte civile o parte offesa dal reato e così tutelare i loro interessi.
Ma qualora il pubblico ministero non proponesse impugnazione, allora provvederà ad esplicare le ragioni
per le quali non intende dar corso alla domanda di impugnazione.
2. L’imputato può proporre impugnazione personalmente o per mezzo di un procuratore speciale
nominato anche prima dell’emissione del provvedimento. Nel caso in cui la parte sia incapace di intendere
e di volere, all’impugnazione provvede il tutore e, se si tratta di persona inabilitata, la dichiarazione di
impugnazione deve essere integrata da un curatore.

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Può inoltre proporre impugnazione il difensore dell’imputato al momento del deposito del
provvedimento ovvero il difensore nominato a tal fine. Ma l’imputato, nei modi previsti per la rinuncia,
può togliere effetto all’impugnazione proposta dal suo difensore.
3. Tra i soggetti legittimati a proporre impugnazione sono annoverate anche le parti eventuali, quali la
parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata. Il codice riconosce alla parte di
proporre impugnazione, contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti
della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio. La parte civile
può altresì proporre impugnazione contro la sentenza pronunciata dopo la decisione sul rito abbreviato, quando
però abbia acconsentito al rito contratto.
Di norma le ordinanze predibattimentali e dibattimentali possono essere impugnate solamente con la
sentenza. Tuttavia vi sono delle eccezioni e l’impugnazione è ammissibile (a) nel caso in cui l’ordinanza
sia da considerare alla stregua di un atto abnorme, e allora questa è immediatamente ricorribile per
cassazione; (b) le ordinanze in materia di libertà personale, che sono impugnabili immediatamente; (c) le
sentenze di condanna, proscioglimento, non luogo a procedere sono impugnabili anche per quanto
riguarda le misure di sicurezza (ma non per gli effetti civili); infine (d) per le decisioni che riguardano la
confisca, l’impugnazione è proponibile con lo stesso mezzo previsto per l’impugnazione contro i capi
penali della sentenza.
È possibile altresì l’impugnazione avverso le sentenze che dispongono misure di sicurezza: infatti contro
le sentenze di condanna o di proscioglimento è data impugnazione anche per ciò che concerne le misure
di sicurezza.
La sentenza può essere impugnata integralmente oppure parzialmente (ossia per uno o più capi della
sentenza, che sono quelle statuizioni all’interno della sentenza che rappresentano un episodio). Può essere
impugnata per capi, per punti o globalmente.
L’art. 581 disciplina la forma dell’impugnazione. Questa si propone con atto scritto nel quale sono indicati
il provvedimento impugnato, la data del medesimo, il giudice che lo ha emesso, e sono enunciati:
a) I capi o i punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione;
b) Le richieste;
c) I motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono
ogni richiesta.
L’atto di impugnazione è presentato personalmente ovvero a mezzo di incaricato nella cancelleria del
giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Il pubblico ufficiale addetto vi appone l’indicazione
del giorno in cui riceve l’atto e della persona che lo presenta, lo sottoscrive, lo unisce agli atti del
procedimento e rilascia, se richiesto, attestazione della ricezione.
Il termine ordinario è di 15 giorni nel caso in cui un provvedimento sia stato emesso in camera di consiglio
ovvero nel caso in cui la motivazione sia stata contestuale alla sentenza stessa.
Da quando decorrono?
- 15 giorni per i provvedimenti emessi in seguito a procedimento in camera di consiglio, con decorrenza
dalla notifica dell’avviso di deposito del provvedimento;
- 15 giorni quando la motivazione è redatta insieme al dispositivo, con decorrenza dalla lettura del
provvedimento in udienza per le part presenti o da considerarsi presenti al momento della lettura;
- 30 giorni quando la motivazione è depositata non oltre il 15esimo giorno da quello della pronuncia,
con decorrenza dalla scadenza stabilita dalla legge;
- 45 giorni quando la motivazione è depositata in un termine più ampio di 15 giorni e non eccedente i
90 da indicarsi nel dispositivo e nella sentenza. Il termine decorre dalla scadenza stabilita dalla legge
o determinata dal giudice nel dispositivo.

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I termini previsti sono stabiliti a pena di decadenza.


Quando la decorrenza è diversa per l’imputato e per il suo difensore, opera per entrambi il termine che
scade per ultimo.
Fino a 15 giorni prima dell’udienza possono essere presentati nella cancelleria del giudice
dell’impugnazione motivi nuovi nel numero di copie necessarie per tutte le parti. L’inammissibilità
dell’impugnazione si estende ai motivi nuovi.
Se sono sforati i termini presunti, si dovrà impegnare l’ufficiale giudiziario a notificare l’avviso
all’imputato.
Il tema della tassatività deve essere raccorda con l’aspirazione alla conservazione dei mezzi di
impugnazione: l’art. 568 comma 5 prevede che l’impugnazione sia ammissibile indipendentemente dalla
qualificazione ad essa data dalla parte che l’ha proposta e che se l’impugnazione è proposta ad un giudice
incompetente, questi trasmette gli atti al giudice competente. La ratio è di attribuire comunque efficacia al
mezzo di impugnazione erroneamente proposto. In questo caso opera la conversione del mezzo di
impugnazione. Infatti nel caso in cui un provvedimento giurisdizionale sia impugnato dalla parte
interessata con un mezzo di gravame diverso da quello previsto e proposto avanti a un giudice
incompetente, questo si deve limitare a prendere atto della volontà di impugnare proveniente dal soggetto
e trasmettere gli atti al giudice: sarà poi quest’ultimo a procedere all’esatta qualificazione del mezzo di
gravame, deliberandone l’ammissione e la fondatezza.
La conversione ai sensi dell’art. 568 comma 5 è richiamata anche nell’art. 580: allora se contro la stessa
sentenza sono proposti diversi mezzi di impugnazione, qualora sussista la connessione, il ricorso per
cassazione si converte nell’appello.
Quanto all’estensione, nel caso di concorso di più persone in uno stesso reato, l’impugnazione proposta
da uno degli imputati, purché non fondata su motivi esclusivamente personali, giova anche agli altri
imputati. Nel caso di riunione di procedimenti per reati diversi, l’impugnazione proposta da un imputato
giova a tutti gli altri imputati soltanto se i motivi riguardano violazioni della legge processuale e non sono
esclusivamente personali. L’impugnazione proposta dall’imputato giova anche al responsabile civile e alla
persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. L’impugnazione proposta dal responsabile civile o
dalla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria giova all’imputato anche agli effetti penali,
purché non sia fondata su motivi esclusivamente personali.
Dal momento della pronuncia, durante i termini per impugnare e fino all’esito del giudizio di
impugnazione, l’esecuzione del provvedimento impugnato è sospesa, salvo che la legge disponga
altrimenti.
Il pubblico ministero presso il giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato può rinunciare
alla impugnazione da lui proposta fino all’apertura del dibattimento. Successivamente la dichiarazione
di rinuncia può essere effettuata prima dell’inizio della discussione dal pubblico ministero presso il
giudice della impugnazione, anche se l’impugnazione stessa è stata proposta da altro pubblico ministero.
L’impugnazione è inammissibile (art. 591) per: difetto di legittimazione; mancanza di interesse; inoppugnabilità
del provvedimento; mancato rispetto delle norme relative alla forma, alla presentazione, alla spedizione ed ai termini
dell’impugnazione; quando vi è rinuncia all’impugnazione.
Il giudice dell’impugnazione, anche di ufficio, dichiara con ordinanza l’inammissibilità e dispone
l’esecuzione del provvedimento impugnato.
Quanto all’effetto devolutivo, l’impugnazione comporta la devoluzione della cognizione ad un giudice
diverso da quello che ha pronunciato il provvedimento. Per comprendere a quali parti si applica l’effetto
devolutivo bisogna considerare che la sentenza di componga di capi e di punti.
- I capi sono le singole imputazioni e in caso di unica imputazione vi sarà un solo capo;

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- I punti sono i temi generali che devono essere affrontati dal giudice per la decisione (es. accertamento
sul fatto storico, sussistenza di cause di giustificazione, circostanze aggravanti o attenuanti,
determinazione della pena).
Sulla base dell’interesse e della finalità perseguita con la proposizione dell’impugnazione, il soggetto
impugnante deve enunciare, a pena di inammissibilità, i capi o i punti della decisione ai quali si riferisce
l’imputazione, le richieste ed i motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi
di fatto che sorreggono la richiesta. Ma è anche possibile impugnare tutti i capi e i punti della sentenza.
In particolare, però, nel ricorso per cassazione vi è un limite devolutivo in quanto è possibile proporre tale
mezzo di impugnazione solo per i motivi di cui all’art. 606; mentre nel riesame delle ordinanze che
dispongono misure cautelari, il gravame sarà puro a devoluzione integrale.

La giurisprudenza europea, con la sentenza del 2011 Dan contro Moldavia, ha enucleato recentemente una
regola di giudizio ad excludendum per la quale il giudice dell’appello non può riformare una sentenza di
assoluzione senza aver previamente disposto la rinnovazione della prova orale disponibile, in pienezza
del contraddittorio e con il metodo dell’oralità, nel rispetto del principio di immediatezza.

Appello

L’appello è il mezzo di gravame che offre la possibilità di contestare la decisione emessa dal giudice di
primo grado, eventualmente provocando l’instaurazione di una nuova fase finalizzata a far riesaminare la
questione da un collegio diversamente formato, composto da magistrati di grado più elevato, piò numeri,
più esperti e più anziani del primo.
Con la costituzionalizzazione del giusto processo, l’esaltazione del diritto alla prova contraria ha
comportato un vero e proprio nuovo giudizio o novum iudicium, nel senso che si è avuto modo di dare vita
ad una fase di giudizio non circoscritta ad assicurare una integrazione probatoria, bensì una fase deputata
all’esercizio, o al recupero, del diritto alla prova, in modo tale da supplire ad ogni possibile errore
giudiziario e alzare l’egida della giustizia nei confronti di un più equo processo.
In ogni modo, l’appello trova concreta attuazione come esercizio del diritto al doppio grado di
giurisdizione di merito sancito dai protocolli sovrannazionali. È altresì un mezzo di impugnazione
parzialmente devolutivo, essendo limitata la cognizione del giudice di secondo grado ai motivi di
doglianza che non sono tassativamente indicati dalla legge e che possono investire ogni capo e punto della
sentenza da riesaminare.
I poteri del giudice d’appello sono ampi quanto quelli del giudice di primo grado, tuttavia deve basarsi
per la decisione sui verbali e sui documenti acquisiti del giudizio del tribunale, essendo ancora considerata
eccezionale la rinnovazione del dibattimento: ecco perché questo procedimento è essenzialmente cartolare.
In generale, i poteri del giudice possono essere così riassunti: Il giudice d’appello può: rilevare il difetto
di giurisdizione, l’incompetenza per materia, l’inutilizzabilità delle prove, le nullità assolute o quelle a
regime intermedio, la violazione del divieto di ne bis in idem.
La competenza del giudice è determinata dall’art. 596: infatti sull’appello proposto contro le sentenze
pronunciate dal tribunale decide la corte di appello; mentre sull’appello proposto contro le sentenze della
corte di assise decide la corte di assise di appello. Inoltre sull’appello contro le sentenze pronunciate dal
giudice per le indagini preliminari, decidono, rispettivamente, la corte di appello e la corte di assise di
appello, a seconda che si tratti di reato di competenza del tribunale o della corte di assise.

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Casi di appello (art. 593)


Di norma l’imputato e il pubblico ministero possono appellare contro le sentenze di condanna. Vi sono
però delle eccezioni: infatti sono inappellabili le sentenze per le quali è stata applicata la sola pena
dell’ammenda come pena originaria e le misure di sicurezza quando non sia stata proposta impugnazione
contro i punti della sentenza relativi agli effetti penali.
L’imputato e il pubblico ministero possono appellare contro le sentenze di proscioglimento se la nuova
prova, sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di primo grado, è decisiva. Qualora il giudice, in via
preliminare, non disponga la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale dichiara con ordinanza
l’inammissibilità dell’appello. Entro 45 giorni dalla notifica del provvedimento le parti possono proporre
ricorso per cassazione anche contro la sentenza di primo grado.
Nel 2006 la legge Pecorella, in attuazione dei principi della Costituzione e delle convenzioni internazionali,
aveva escluso, tramite la disposizione dell’art. 593 comma 2, il potere di appello contro le sentenze di
proscioglimento a meno che non fosse stato dedotta una nuova prova decisiva ai fini della valutazione
finale del giudice: la ragione era posta sul fatto che comportava maggiori garanzie alla tutela dell’imputato
prosciolto in primo grado. Ma la corte costituzionale, con una vasta serie di pronunce, si è mosse nella
direzione contraria, spinta dall’orientamento per cui l’iniziativa del pubblico ministero nell’impugnare il
proscioglimento è posta sul fatto di verificare possibili errori giudiziali commessi dal primo giudice nel
negare la responsabilità dell’imputato, assicurando la così la corretta applicazione della legge penale nel
caso concreto: negare il giudizio di appello in caso di proscioglimento eliminerebbe il senso stesso di
questo giudizio.

Appello e procedimenti speciali


Con riferimento al giudizio abbreviato, l’imputato non può proporre appello contro le sentenze di
proscioglimento e il pubblico ministero non può proporlo contro quelle di condanna, ma ha tale potere
quando il giudice modifica il titolo del reato.
Nell’applicazione di pena su richiesta, la sentenza è inappellabile in quanto implica la rinuncia alla facoltà
di contestare l’accusa. Il pubblico ministero può impugnare la sentenza emessa dal giudice qualora non
aveva prestato consenso al dibattimento. In virtù del principio di conservazione dell’impugnazione,
l’appello proposto contro una sentenza di patteggiamento deve essere considerata come un ricorso per
cassazione e il giudice deve trasmettere a questa gli atti.

Appello incidentale
Se una parte ha presentato appello principale, e le altre parti che erano legittimate ad appellare non si
siano avvalse di tale possibilità, queste possono proporre appello incidentale entro 15 giorni dalla
comunicazione o notificazione.
Lo scopo è quello di, in favore di tutte le parti processuali, consentire l’integrazione del contraddittorio
nel giudizio d’appello, proponendogli una tesi alternativa a quella denunciata principalmente.
L’appello incidentale segue le sorti dell’appello principale, perdendo efficacia in caso di inammissibilità o
di rinuncia a quest’ultimo. Presupposto è che la parte sia legittimata a proporlo e non l’abbia fatto
precedentemente.
L’appello incidentale proposto dal pubblico ministero deroga al divieto di reformatio in pejus che opera
unicamente quando ad appellare è il solo l’imputato: ciò significa che l’appello incidentale ha gli stessi
effetti dell’appello principale ma potrebbe comportare effetti più gravi rispetto a quelli della sentenza
impugnata. Questi effetti tuttavia non si applicano al coimputato che non ha partecipato al giudizio di
secondo grado.

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Cognizione del giudice d’appello


Per l’effetto devolutivo dell’impugnazione, la proposizione dell’appello implica l’attribuzione, al giudice
di secondo grado, della cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si
riferiscono i motivi proposti: si tratta del principio tantum devolutum quantum appellatum.
Ma vi sono delle eccezioni. Infatti il giudice d’appello, nell’accertare la correttezza dell’operato del giudice
di primo grado, può (1) analizzare i punti della decisione che, non impugnati, si trovano in rapporto di
pregiudizialità, inscindibilità e connessione con quelli appellati.
In via eccezionale è altresì consentita al giudice (2) la decisione su profili implicitamente contenuti nella
domanda o sopravvenuti, non oggetto della decisione impugnata.
La regola dell’effetto devolutivo trova temperamenti anche alla stregua del comma 5 dell’art. 597, per il
quale con la sentenza di secondo grado (3) possono essere applicate: la sospensione condizionale della
pena, la non menzione della condanna nel certificato del casellario, circostanze attenuanti.
Inoltre la cassazione afferma che il giudice d’appello può comunque (4) riconsiderare anche i punti della
sentenza che non abbiano formato oggetto di una specifica critica.
Infine può (5) decidere su questioni rilevabili d’ufficio quali il difetto di giurisdizione, l’incompetenza per
materia, la nullità, il ne bis in idem, le cause di non punibilità, le questioni di legittimità costituzionale e
l’errore di persona.
Strettamente legati ai poteri di cognizione, i poteri decisori del giudice d’appello assumono una diversa
configurabilità, a seconda che l’appello sia proposto anche dal pubblico ministero oppure dal solo
imputato.
Quando appellante è il pubblico ministero: a) se l’appello riguarda una sentenza di condanna, il giudice
può, entro i limiti della competenza del giudice di primo grado, dare al fatto una definizione giuridica più
grave, mutare la specie o aumentare la quantità della pena, revocare benefici, applicare, quando occorre, misure di
sicurezza e adottare ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge; b) se l’appello riguarda
una sentenza di proscioglimento, il giudice può pronunciare condanna ed emettere i provvedimenti indicati
nella lettera a), ovvero prosciogliere per una causa diversa da quella enunciata nella sentenza appellata; c) se
conferma la sentenza di primo grado, il giudice può applicare, modificare o escludere, nei casi determinati
dalla legge, le pene accessorie e le misure di sicurezza.
Quando appellante è il solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più grave per specie o quantità,
applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di
quella enunciata nella sentenza appellata né revocare benefici. In questo caso il giudice, nel momento della
decisione, è vincolato al divieto di reformatio in pejus, che sta alla base del favor rei: principio informatore
che può comportare eccezioni ai fondamentali principi su cui è fondata la materia penale.
Il divieto agisce anche in relazione ai singoli elementi della pena oppure solo al risultato complessivo?
Non viola il divieto di reformatio in peius il giudice di appello che, pur escludendo una circostanza
aggravante o riconoscendo una ulteriore circostanza attenuante in accoglimento dei motivi proposti
dall’imputato, confermi la pena inflitta in primo grado, ribadendo il giudizio di equivalenza tra le
circostanze, purché quest’ultimo sia accompagnato da adeguata motivazione (Cassazione, Sezioni Unite
2013).

Rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale


Tale istituto permette di recuperare materiali conoscitivi ulteriori, integrando la situazione probatoria già
assunta, ponendosi però come strumento di extrema ratio rispetto alla conservazione degli atti.

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Quando una parte, nell’atto di appello o nei motivi nuovi presentati entro 15 giorni prima dell’udienza, ha chiesto
la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado o l’assunzione di nuove prove, il
giudice se ritiene – discrezionalmente – di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, dispone la
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
L’istituto, oltre a operare a seguito di richiesta di parte, è attivato anche d’ufficio: dunque la rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale è disposta di ufficio se il giudice la ritiene assolutamente necessaria. Esso si
configura come atto dovuto a fronte delle incertezze che hanno caratterizzato il giudizio precedente e della
mancata possibilità per la parte di avvalersi di prove a discarico.
Se le nuove prove sono sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice dispone la
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei limiti previsti dall’articolo 495 comma 1: ciò vuol dire che
la rinnovazione deve essere disposta dal giudice di secondo grado rispettando i parametri validi per
l’ammissione dei mezzi di prova del giudizio di primo grado (la rinnovazione allora sarà sempre disposta
salvo che le prove siano vietate o manifestamente superflue o irrilevanti).
Per prove nuove si intendono non solo quelle sopravvenute ma anche quelle non acquisite nel precedente
giudizio, ovvero acquisite, ma non valutate neanche implicitamente, purché non si tratti di prove dichiarate
inammissibili o ritenute superflue dal giudice.
La rinnovazione dibattimentale deve invece essere imprescindibilmente ordinata ogni volta che deve
essere provata, al di là di ogni ragionevole dubbio (non dimenticando che i parametri della colpevolezza
destinati a far scattare la sentenza di condanna in primo grado devono essere rispettati anche in grado di
appello), l’attendibilità della prova orale e qualora sia riformata in pejus una sentenza assolutoria. Se non si opera
così, si incorre nella violazione dei principi coronati dall’art. 6 della C.e.d.u. in particolare il diritto di
difesa.
Infatti in ragione della giurisprudenza europea e delle recenti sentenze – in particolare Dan contro
Moldavia del 2011 – si è imposto un limite ai poteri dei giudici di appello e un nuovo metodo di
elaborazione dei materiali decisori: il giudice dell’appello non può riformare una sentenza di assoluzione
senza aver previamente disposto la rinnovazione della prova orale, in pienezza del contraddittorio e con
il metodo dell’oralità, e nel rispetto del principio di immediatezza: la responsabilità deve essere provata al
di là di ogni ragionevole dubbio in un nuovo giudizio, in contraddittorio, connotato da oralità, ogni volta che
in primo giudizio l’imputato era stato assolto o prosciolto e in appello risulterebbe una sua responsabilità,
trasmigrando i requisiti valutativi previsti per la decisione in primo grado.
In altre parole – secondo quanto afferma la cassazione a Sezioni Unite con una sentenza del 2014 in linea
con la giurisprudenza europea – al fine di ritenere ammissibile una decisione di grado superiore che
riformi in negativo (in pejus) la sentenza assolutoria di primo grado poi impugnata, è necessario, qualora
risulti una valutazione diversa del fatto, un nuovo esame dei testi in sede di giudizio di appello: infatti in
materia di prova testimoniale, il giudice d’appello che effettua una diversa valutazione, rispetto a quanto
ritenuto nel giudizio di primo grado, non può limitarsi ad una differente lettura o interpretazione degli
atti del processo, avendo l’obbligo di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria e alla riescussione dei
testimoni.
Sulla base di quanto si è potuto vedere, l’istituto della rinnovazione dibattimentale è caratterizzata da due
connotati: facoltatività di applicazione in capo al giudice in base alla possibilità o meno di decidere sugli
elementi raccolti e valutati in primo grado e obbligatorietà (o imprescindibilità) della rinnovazione in caso
di valutazione dell’attendibilità della prova orale.
Infine, in attesa di un intervento legislativo, spetta proprio alla giurisprudenza nazionale, sui presupposti
dell’art. 117 comma 1 Cost. nella parte in cui vede la conformazione della legislazione interna agli obblighi
internazionali, il compito di vigilare sulla corretta applicazione dei principi.

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Quanto invece alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio abbreviato, questa risulta
essere confermata dalla giurisprudenza: l’imputato può richiedere in appella la rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale. In ogni modo il giudice è tenuto, in caso di assoluta necessità, all’esercizio
di questo potere d’ufficio.
Tale orientamento è basato sulle premesse che riguardano all’appello e cioè come strumento che non pone
in essere solo l’occasione di attuare il diritto alla prova dell’imputato, ma anche lo strumento per rimediare
agli errori procedurali da cui è affetta la sentenza appellata: in questo senso allora risultano fugati tutti
quei dubbi riguardanti una possibile applicazione, che erano fissati sulla natura del rito abbreviato, ossia
come una volontaria compressione all’esercizio del diritto alla prova nel giudizio di primo grado. Ecco che
la rinuncia meditata alla prova non può precludere l’assunzione di tutti quei dati conoscitivi emergenti
nel corso della celebrazione della sentenza.

Quanto ancora all’integrazione probatoria nell’appello cautelare, il silenzio della legge ha portato a 3
orientamenti differenti che sono poi stati condotti ad una sentenza dirimente della cassazione. Infatti la
cassazione a Sezioni Unite ha ammesso l’ingresso delle nuove prove nell’appello cautelare, sostenendo
che in caso di impugnazione del p.m. contro l’ordinanza di rigetto della richiesta di un provvedimento
cautelare personale, è possibile acquisire nell’udienza camerale elementi probatori nuovi, sia preesistenti
che sopravvenuti, purché non dedotti o non scoperti in precedenza e a condizione che siano attinenti allo
stesso fatto contestato con la richiesta cautelare.

Il giudizio d’appello
Il giudizio può essere svolto in dibattimento ovvero in camera di consiglio.
L’art. 599 disciplina i casi in cui l’udienza di secondo grado si deve svolgere in camera di consiglio secondo
le forme previste dall’art. 127. Tale procedura si affianca a quella ordinaria, che si svolge in udienza
pubblica, con correlativa configurabilità di due distinte tipologie procedimentali: una ordinaria,
caratterizzata dall’udienza dibattimentale, ed una destinata a svolgersi in udienza camerale.
In particolare: l’udienza camerale è prevista quando vi è stato (1) appello proposto contro le sentenze
emesse a seguito di giudizio abbreviato; ovvero quando l’impugnazione abbia ad (2) oggetto la specie o la
misura della penale, anche con riferimento al giudizio di comparazione fra circostanze, o l’applicabilità
delle circostanze attenuanti generiche, di sanzioni sostitutive, della sospensione condizionale della pena o
della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale; ovvero quando è previsto per
(3) l’impugnazione della parte civile, che ne faccia espressa richiesta, avente ad oggetto le statuizioni della
sentenza che abbia omesso di pronunciarsi o abbia rigettato la domanda di esecuzione provvisoria delle
disposizioni civili; ovvero quando la (4) partecipazione di accusa e difesa non sarebbe necessaria, salvo
quando occorra procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, ma se questi non sono presenti
quando è disposta la rinnovazione, il giudice fissa una nuova udienza e dispone che copia del
provvedimento sia comunicata al pubblico ministero e notificata ai difensori; ovvero la (5) la celebrazione
dell’appello in tema di misure di prevenzione, di estradizione e di riparazione per l’ingiusta detenzione.
Al contrario, fatta eccezione per i casi appena visti, il giudizio di appello si svolge nelle forme dell’udienza
dibattimentale pubblica con le disposizioni relative al giudizio di primo grado, in quanto applicabili.
Nell’udienza, il presidente o il consigliere da lui delegato fa la relazione della causa, necessariamente
preceduta dai controlli sulla regolare costituzione delle parti. Ad esse segue, ove non vi sia spazio per la
rinnovazione dell’istruttoria, la discussione: può essere data lettura, anche di ufficio, di atti del giudizio

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di primo grado nonché, entro i limiti previsti dagli articoli 511 e seguenti, di atti compiuti nelle fasi
antecedenti.
Una volta terminata la discussione, il giudice procede alla deliberazione, cui segue la redazione e la
pubblicazione della sentenza.

Il giudice di appello pronuncia sentenza con la quale conferma o riforma la sentenza appellata con
l’obbligo di rendere adeguata motivazione anche nel caso di conferma della stessa, data l’impossibilità di
limitarsi a una motivazione che si rifaccia per relationem alla sentenza di primo grado.
In sostanza, ogni passaggio argomentativo deve risultare giustificato affinché risultino delimitati i confini
del libero convincimento del giudice, con riguardo alle ragioni poste a fondamento del giudizio di
valutazione delle prove legittimamente acquisite e individua quale base della sua decisione.
La sentenza deve contenere la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è
fondata.
Il giudice deve assolvere l’obbligo di motivazione quando confuta gli argomenti che hanno costituito
l’ossatura dello schema difensivo dell’imputato: non può ritenersi congrua la motivazione che si limiti a
richiamare le considerazioni dell’appellante sui singoli punti e capi della sentenza di primo grado. In
questo caso infatti verrebbe meno il dovere di motivazione, che invece è l’unico strumento tramite il quale
le parti possono esercitare il loro diritto al controllo effettuato da un giudice superiore sui passaggi logici
seguiti dal primo giudice.
Le sentenze del giudice di appello sull’azione civile sono immediatamente esecutive anche si impugnate
per cassazione.

Decisione del giudice d’appello sulle questioni di nullità


«Fuori dei casi previsti dall’articolo 604», il giudice di appello pronuncia sentenza con la quale conferma o
riforma la sentenza appellata: si nota come di norma il giudice d’appello debba confermare o riformare la
sentenza appellata. Tuttavia, in ipotesi eccezionali, disciplinate appunto dall’art 604, il giudice può
annullare la sentenza e rimettere gli atti al giudice di primo grado.
In primo luogo, quando vi è stata condanna per un atto diverso o applicazione di una circostanza aggravante per
la quale la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o di una circostanza aggravante
ad effetto speciale, sempre che non vengano ritenute prevalenti o equivalenti circostanze attenuanti.
In secondo luogo, quando sono state ritenute prevalenti o equivalenti circostanze attenuanti o sono state applicate
circostanze aggravanti diverse da quelle previste dal comma 1, il giudice di appello esclude le circostanze
aggravanti, effettua, se occorre, un nuovo giudizio di comparazione e ridetermina la pena.
In terzo luogo, quando vi è stata condanna per un reato concorrente o per un fatto nuovo, il giudice di appello
dichiara nullo il relativo capo della sentenza ed elimina la pena corrispondente, disponendo che del
provvedimento sia data notizia al pubblico ministero per le sue determinazioni.
In quarto luogo, nei casi in cui si sia proceduto in assenza dell’imputato, se vi è la prova che si sarebbe dovuto
provvedere ai sensi dell’articolo 420-ter o dell’articolo 420-quater, il giudice di appello dichiara la nullità della
sentenza e dispone il rinvio degli atti al giudice di primo grado. Il giudice di appello annulla altresì la
sentenza e dispone la restituzione degli atti al giudice di primo grado qualora l’imputato provi che
l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo di primo
grado. Si applica l’articolo 489, comma 2.
In quinto luogo, il giudice di appello, se accerta una nullità assoluta o nullità di ordine generale a regime
intermedio da cui sia derivata la nullità del provvedimento che dispone il giudizio o della sentenza di primo
grado, la dichiara con sentenza e rinvia gli atti al giudice che procedeva quando si è verificata la nullità.

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Se si tratta di altre nullità che non sono state sanate, il giudice di appello può ordinare la rinnovazione
degli atti nulli o anche, dichiarata la nullità, decidere nel merito, qualora riconosca che l’atto non fornisce
elementi necessari al giudizio.
Infine, quando il giudice di primo grado ha dichiarato che il reato è estinto o che l’azione non poteva essere iniziata
o proseguita, se il giudice di secondo grado riscontra l’erroneità della dichiarazione dispone la rinnovazione
dibattimentale e decide nel merito.

Cassazione

La corretta applicazione delle leggi che regolano l’andamento dei processi ha comportato sempre la tutela
di coloro che potevano avere subito conseguenze pregiudizievoli da un’inosservanza della legge
processuale: un controllo a tutto campo sul procedimento probatorio e sulla motivazione appare
irrinunciabile.
Il giudizio di cassazione è caratterizzato dall’aver ad oggetto solamente questioni di diritto, formulate
tassativamente nell’art. 606, ancorché ci sono eccezioni come i casi in cui la cassazione ha poteri di
accertamento di merito diretti: conflitti di competenza, rimessione, estradizione.
La corte di cassazione dunque è l’organo supremo di giustizia che deve assicurare l’esatta osservanza della
legge, eliminando gli errori di interpretazione della medesima, e garantire il rispetto dei limiti delle diverse
giurisdizioni, regolando i conflitti di competenza e attribuzione.
Sono sempre soggetti a ricorso per cassazione i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà
personale e le sentenze (art. 111 comma 7 Cost.).
I soggetti legittimati a ricorrere per cassazione sono l’imputato (contro le sentenze di condanna,
proscioglimento, sentenza inappellabile di non luogo a procedere, pagamento delle spese processuali), il
procuratore generale presso la corte d’appello (contro le sentenze pronunciate in quella sede), il procuratore della
repubblica presso il tribunale (contro le sentenza della corte d’assise, del tribunale o del giudice delle indagini
preliminari), la parte civile (contro le sentenze di proscioglimento) e la persona offesa contro la sentenza di non
luogo a procedere nei casi di nullità degli atti introduttivi).
Quanto ai requisiti oggettivi per impugnare, le sentenze impugnabili sono le sentenze pronunciate in grado
di appello e quelle inappellabili, quelle di condanna o di proscioglimento; le sentenze di patteggiamento nella parte
relativa alla condanna alla rifusione delle spese di parte civile (in particolare circa la somma liquidata e la
correttezza della motivazione); i provvedimenti abnormi; ricorso per saltum.
Il ricorso attribuisce alla corte di cassazione la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi
proposti. La corte decide altresì le questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del processo e quelle
che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello.
Il ricorso per cassazione può essere proposto per i seguenti motivi:
1. Esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi
ovvero non consentita ai pubblici poteri (eccesso di potere).
Si ha eccesso di potere quando la condotta del giudice abbia superato la soglie del legalmente consentito,
esercitando potestà spettanti a organi legislativi o appropriandosi di funzioni per le quali la competenza
spetta ad organi amministrativi. Il vizio in esame può essere così esemplificato: il giudice che crea per
analogia una norma penale incriminatrice e condanna l’imputato per un fatto non previsto dalla legge
come reato;
2. Inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener
conto nell’applicazione della legge penale (erronea applicazione della legge penale sostanziale).

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Censura l’error in iudicando. Attraverso questo motivo di censura è possibile riesaminare criticamente l’operato
del giudice che, nel conferire una qualificazione giuridica a un fatto, si discosto dalla fattispecie tipizzata
applicandola o interpretandola erroneamente in violazione del principio di legalità: la ratio è quella di
garantire il conseguimento della giusta decisione sotto il profilo della sua fedeltà alle risultanze probatorie
e della conformità del ragionamento decisorio al criterio di valutazione legale, completa e razionale della
prova, che è speculare alla regola di giudizio per cui la colpevolezza sia accertata e provata al di là di ogni
ragionevole dubbio. È necessario che il ricorrente abbia un interesse concreto e che la ricostruzione
compiuta dal giudice di merito non sia controversa altrimenti si tratterebbe di un terzo giudizio di merito.
3. Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità
o di decadenza.
È il ricorso per mancata o erronea applicazione di norme processuali (error in procedendo). Per quanto
riguarda l’inutilizzabilità, le Sezioni Unite hanno stabilito che la sentenza vada annullata qualora la prova
acquisita illegittimamente (e quindi inutilizzabile) sia stata determinante nel processo (error causalis).
4. Mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso
dell’istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall’articolo 495, comma 2;
La ratio è di garantire il raggiungimento della decisione giusta in relazione alle risultanze probatorie. Per
quanto riguarda la prova, questa è decisiva quando è idonea a superare contrasti e dubbi emergenti
dall’acquisito quadro probatorio oppure atta di per se a modificare la valutazione complessiva dei fatti e
quindi modificare la decisione del giudice di merito.
5. Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo
del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di
gravame (vizio di motivazione).
La decisione garantisce l’effettività del controllo di legalità della decisione. Per mancanza di motivazione non
si intende la mancanza grafica (sanzionata dalla nullità della sentenza), ma l’inesistenza di un discorso
giustificativo a supporto della decisione del giudice, di singoli punti decisivi, della scelta del materiale
probatorio o delle risposte alle specifiche doglianze espresse dall’appellante. L’illogicità manifesta si ha ogni
volta che il giudice di merito, nell’esame delle prove e nel descrivere in sentenza l’iter logico seguito, si
esprime con una motivazione incoerente, incompiuta, monca, parziale. La contraddittorietà della
motivazione, introdotta solo nel 2006, si ha quando vi è un contrasto tra il ragionamento che ha portato il
giudice alla decisione e il contenuto degli atti processuali. La ratio è di esaltare la regola della necessaria
fedeltà della decisione agli atti di causa.
Da qualche anno si parla di travisamento della prova come aspetto peculiare della contraddittorietà,
derivante dalla errata percezione delle risultanze probatorie: mancata corrispondenza tra il contenuto
dell’atto probatorio esistente nel processo e la risultanza richiamata in sentenza.
Quanto al ricorso per saltum, è disciplinato dall’art. 569 ed è denominato anche ricorso immediato per
cassazione: esperibile direttamente dalla parte che, intenzionata a rinunciare ad un grado di giudizio,
voglia denunciare direttamente in cassazione un vizio di legittimità di un provvedimento giurisdizionale.
Presuppone il consenso di tutti a rinunciare all’appello e chiedere subito il sindacato del giudice di
legittimità. Quando non vi è accordo tra le parti, ove una di esse proponga appello, il ricorso proposto ex
art. 569 si converte in appello.
Ci sono tuttavia alcune limitazioni: non si applica nei casi previsti dall’articolo 606 comma 1 lettere d) ed
e), cioè quando si tratta di mancata assunzione di una prova decisiva ovvero di vizio di motivazione. E se
comunque dovesse essere proposto, la conseguenza sarebbe quella della conversione in appello.

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Una volta presentato ricorso per cassazione in seguito ai motivi delineati dall’art. 606, il presidente della
corte di cassazione, se rileva una causa di inammissibilità dei ricorsi, li assegna ad apposita sezione.
Nel 2001 è stata istituita una settima sezione «filtro», a competenza funzionale esclusiva, al fine di
dispensare dall’enorme mole di lavoro le esistenti sezioni dai ricorsi manifestamente inammissibili: il
presidente della settima sezione allora fissa la data per la decisione in camera di consiglio non partecipata
e la cancelleria dà comunicazione del deposito degli atti e della data d’udienza al procuratore generale e
ai difensori almeno 30 giorni prima mediante avviso contenente l’enunciazione della specifica causa
d’inammissibilità rilevata.
Il ricorso è altresì inammissibile – come lo si desume dal comma 3 dell’art. 606 – se è proposto per motivi
diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente infondati ovvero, fuori dei casi previsti dagli
articoli 569 e 609 comma 2, per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello.
Le ragioni di inammissibilità sono collegate ai limiti di accesso al regime d’impugnazione davanti alla
Suprema Corte secondo lo schema degli artt. 606 comma 1 e 3, 609 comma 1 e 613 comma 1; ma altresì
dalle causa d’inammissibilità generale stabilite all’art. 591.

Il presidente, su richiesta del procuratore generale, dei difensori delle parti o anche di ufficio, assegna il
ricorso alle Sezioni Unite quando le questioni proposte sono di speciale importanza o quando occorre
dirimere contrasti insorti tra le decisioni delle singole sezioni. Anche la sezione semplice se rileva che la
questione di diritto sottoposta al suo esame ha dato luogo, o può dar luogo, a un contrasto
giurisprudenziale, su richiesta delle parti o di ufficio, può con ordinanza rimettere il ricorso alle Sezioni
Unite.

Una volta terminati gli atti preliminari, giunge l’ora dell’udienza in cassazione.
Esigenze di celerità, di garanzia e di deflazione, l’udienza può essere di due tipi: in camera di consiglio o
pubblica.
Al procedimenti in camera di consiglio, disciplinato dall’art. 611, la Corte giudica sui motivi, sulle richieste
del procuratore generale, sulle memorie di difesa. Fino a 15 giorni prima dell’udienza (solo cartolare) è
possibile presentare nuovi motivi e fino a 5 giorni prima, memorie di replica.
Il procedimento è in camera di consiglio quando si deve decidere: (1) sull’ammissibilità del ricorso; (2) sui
ricorsi contro provvedimenti non emessi nel dibattimento (eccetto la sentenza del rito abbreviato); (3) in
caso di impugnazione della sentenza emessa prima delle dichiarazione di apertura del dibattimento; (4)
di quella di applicazione della pena su richiesta delle parti, non emessa nel dibattimento; (5) di quella di
patteggiamento (a seguito dell’istanza presentata dall’imputato all’udienza di convalida dell’arresto); (6)
sulle richieste di ricusazione; (7) sull’applicazione di misure di prevenzione o richieste di riparazione per
ingiusta detenzione; sui provvedimenti emessi in sede di esecuzione.
Il contraddittorio è cartolare e non è prevista la comparizione delle parti, in deroga a quanto previsto
dall’art. 127.
Negli altri casi l’udienza è pubblica. L’imputato e le parti private non sono citati e compaiono per mezzo
dei loro difensori. Qualora un imputato non abbia un difensore di fiducia (ma un avvocato d’ufficio), gli
avvisi dati al difensore devono essere notificati anche all’imputato.
Nell’udienza pubblica si verifica la corretta costituzione delle parti. Successivamente il relatore procede
alla relazione della causa. Seguono le conclusioni del procuratore generale, la discussione nell’ordine dei
difensori della parte civile, del responsabile civile, dell’imputato.
Nel dibattimento non sono ammesse repliche, salvo che la questione non sia dedotta per la prima volta nel
corso della discussione.

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Terminata la discussione, la corte delibera la sentenza in camera di consiglio.


Il dispositivo deve essere sottoscritto dal presidente del collegio e letto pubblicamente in udienza subito
dopo la deliberazione. La motivazione viene redatta osservando le disposizioni concernenti la sentenza di
primo grado in quanto compatibili, e la sentenza deve essere depositata in cancelleria non oltre il 30esimo
giorno dalla deliberazione.

Epiloghi del ricorso in cassazione


In ogni modo il ricorso per cassazione può concludersi con sentenza di inammissibilità, di rigetto, di
annullamento (con o senza rinvio) o con rettifica degli errori.
Per quanto riguarda l’inammissibilità, questa può essere deliberata dall’apposita sezione filtro o a seguito
dell’esame del ricorso da parte della sezione alla quale è stato assegnato. L’inammissibilità può essere
dichiarata in ogni stato e grado del giudizio anche per manifesta infondatezza dei motivi. Qualora il ricorso
abbia questo esito, il ricorrente sarà condannato al pagamento delle spese processuali, salvo che
l’inammissibilità non dipenda da sua colpa.
Il rigetto si ha quando il ricorso è infondato in tutte le sue parti e non si accolga alcuno dei motivi proposti.
Anche in questo caso il ricorrente è condannato al pagamento delle spese processuali.
La rettificazione degli errori deve avere per oggetto uno dei vizi contemplati dall’art. 606. La rettifica non
produce effetti rescindenti, la sentenza rimane efficace; tuttavia viene emendata da vizi e carenze. La ratio
di questa disposizione è l’applicazione del principio di ragionevole durata del processo.
Ai sensi dell’art 619 comma 3 – differenziandosi notevolmente dalla correzione che lasci intatto il
dispositivo o che lo emendi sotto aspetto inessenziali – la cassazione provvede, senza pronunciare
annullamento, quando deve applicare disposizioni di legge più favorevoli all’imputato, anche se
sopravvenute. L’applicazione della legge più favorevole non deve richiedere nuovi accertamenti di fatto
(applicazione dello ius superveniens).

Annullamento, con o senza rinvio


Quanto invece ai casi di annullamento, ai sensi degli artt. 620 e 621, la Corte di cassazione può annullare
la sentenza impugnata senza rinvio. Ciò vuol dire che il giudice del merito non necessita di un nuovo
esame della fattispecie.
Oltre che nei casi particolarmente previsti dalla legge, la corte pronuncia sentenza di annullamento senza
rinvio:
a) Se il fatto non è previsto dalla legge come reato, se il reato è estinto o se l’azione penale non doveva
essere iniziata o proseguita;
b) Se il reato non appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, la corte dispone che gli atti siano
trasmessi all’autorità competente, che essa designa;
c) Se il provvedimento impugnato contiene disposizioni che eccedono i poteri della giurisdizione,
limitatamente alle medesime;
d) Se la decisione impugnata consiste in un provvedimento non consentito dalla legge;
e) Se la sentenza è nulla a norma e nei limiti dell’articolo 522 in relazione a un reato concorrente, la corte
dispone che del provvedimento sia data notizia al pubblico ministero per le sue determinazioni;
f) Se la sentenza è nulla a norma e nei limiti dell’articolo 522 in relazione a un fatto nuovo, la corte
dispone che del provvedimento sia data notizia al pubblico ministero per le sue determinazioni;
g) Se la condanna è stata pronunciata per errore di persona;
h) Se vi è contraddizione fra la sentenza o l’ordinanza impugnata e un’altra anteriore concernente la
stessa persona e il medesimo oggetto, pronunciata dallo stesso o da un altro giudice penale, ordina

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l’esecuzione della prima sentenza o ordinanza, ma, se si tratta di una sentenza di condanna, ordina
l’esecuzione della sentenza che ha inflitto la condanna meno grave;
i) Se la sentenza impugnata ha deciso in secondo grado su materia per la quale non è ammesso l’appello,
ritiene il giudizio qualificando l’impugnazione come ricorso;
j) In ogni altro caso in cui la corte ritiene superfluo il rinvio ovvero può essa medesima procedere alla
determinazione della pena o dare i provvedimenti necessari, procede alla determinazione della pena
o dà i provvedimenti che occorrono.
Ci sono due diverse tipologie di decisione: decisione ad effetto rescindente (che annullano la sentenza) e
ad effetto rescissorio (ossia con sostituzione della decisione della corte a quella annullata). Secondo la
lunga lista di casi in cui non vi è il rinvio, solo le lettere b, c, d hanno un carattere rescindente puro, perché
alle restanti, dopo il giudizio rescindente corrisponde il contestuale rescissorio.

L’art 622 consente alla cassazione di annullare solo i capi della sentenza che riguardano l’azione civile,
fermi restano gli effetti penali. Quando accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di
proscioglimento dell’imputato, rinvia quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di
appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile.
Accogliendo il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento, la cassazione elimina gli
effetti preclusivi del giudicato penale sul successivo giudizio civile.

Se la corte accoglie i motivi di ricorso, fuori dai casi di cui agli artt. 620 e 622, annulla il provvedimento
impugnato e rinvia la causa al giudice del merito fissando un principio di diritto vincolante per
quest’ultimo.
a) Se è annullata un’ordinanza, la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice che
l’ha pronunciata, il quale provvede uniformandosi alla sentenza di annullamento: tale giudice ha
dunque l’obbligo di uniformarsi alla decisione;
b) Se è annullata una sentenza di condanna nei casi di nullità della sentenza appellata e di rinvio al
giudice di primo grado, la Corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice di primo
grado;
c) Se è annullata la sentenza di una corte di assise di appello o di una corte di appello ovvero di una
corte di assise o di un tribunale in composizione collegiale, il giudizio è rinviato rispettivamente a
un’altra sezione della stessa corte o dello stesso tribunale o, in mancanza, alla corte o al tribunale più
vicini;
d) Se è annullata la sentenza di un tribunale monocratico o di un giudice per le indagini preliminari,
la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al medesimo tribunale; tuttavia, il giudice
deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata.
Nel giudizio di rinvio deve trovare applicazione l’art. 34 che detta la disciplina della compatibilità-
incompatibilità del giudice che abbia compiuto atti nello stesso procedimento: si riprende allora quel
concetto della «forza della prevenzione» delineata come quella naturale tendenza a mantenere un giudizio
già espresso o un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali dello stesso procedimento. In tal
senso si garantisce che sia un organo giudicante terzo ed imparziale a ridecidere nel merito questioni
affrontate illegittimamente da un precedente giudice.
L’annullamento con rinvio può avere ad oggetto l’intero provvedimento impugnato o solo una parte di
esso con correlativa distinzione tra annullamento totale ed annullamento parziale: dunque in caso di
annullamento parziale, il giudizio sarà rinnovato solo con riferimento alle disposizioni della sentenza
annullate, mentre le altre assumeranno valore di decisione passata in giudicato. Comunque anche sui

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singoli punti possono formarsi preclusioni processuali che impediscono di riesaminare la questione
decisa dal giudice nella fase rescindente.

Il giudizio di rinvio
Quando la corte di cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio enuncia il principio di diritto, che
vale per il giudice del rinvio come la legge di quel processo in prosecuzione: Il giudice di rinvio si uniforma
alla sentenza della corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa (art.
627 comma 3). Si tratta di un vincolo che incide sulla (1) qualificazione giuridica del fatto, (2) sulla valutazione
dello stesso così come accertato in sentenza e sui (3) criteri di utilizzazione ed integrazione probatoria e sulla (4)
acquisizione di nuovi elementi probatori.
La caratterizzazione del giudizio di rinvio è la regressione del procedimento alla fase nella quale si è
verificata l’invalidità rilevata dalla corte di cassazione.
Nel giudizio di rinvio non è ammessa discussione sulla competenza attribuita con la sentenza di
annullamento, salvo che non emergano fatti nuovi o circostanze che non possano modificarla. Non
possono inoltre rilevarsi nullità, anche assolute, o inammissibilità, verificatesi nei precedenti giudizi o nel
corso delle indagini preliminari.
In tale giudizio trovano operatività i principi generali applicabili in materia di impugnazione: il divieto di
reformatio in pejus. Nel caso di impugnazione del solo imputato, il divieto in parola si estende al giudizio
di rinvio ed agli ulteriori giudizi di rinvio attraverso la comparazione tra decisioni, necessaria ai fini
dell’individuazione del trattamento meno deteriorante per l’imputato, prendendo in considerazione anche
quella di primo grado, restando immodificabile l’esito per lui più favorevole tra quelli intervenuti a seguito
della sua impugnazione. Divieto che si traduce nel non aggravare il trattamento sanzionatorio.
Trova poi operatività anche l’effetto estensivo dell’impugnazione: se taluno degli imputati, condannati
con la sentenza annullata, non aveva proposto ricorso, l’annullamento pronunciato rispetto al ricorrente
giova anche al non ricorrente, salvo che il motivo dell’annullamento sia esclusivamente personale.
L’imputato che può giovarsi di tale effetto estensivo deve essere citato e ha facoltà di intervenire nel
giudizio di rinvio.
La sentenza del giudice di rinvio può essere impugnata con ricorso per cassazione se pronunciata in grado
di appello e col mezzo previsto dalla legge se pronunciata in primo grado. In ogni caso la sentenza del
giudice di rinvio può essere impugnata soltanto per motivi non riguardanti i punti già decisi dalla corte
di cassazione ovvero per inosservanza della disposizione dell’articolo 627 comma 3 che deve vedere il
giudice di rinvio a uniformarsi alla sentenza della corte di cassazione.

L’annullamento con rinvio implica dunque la regressione del procedimento alla fase nella quale è stata
rilevata l’invalidità e il giudice ha gli stessi poteri di acquisizione e valutazione della prova propri del
giudice del merito che ha deciso nella fase al quale il processo è stato riportato a seguito dell’annullamento.
Lo stesso è detto per le parti.
Qualora le parti ne facciano richiesta, il giudice d’appello deve concedere la rinnovazione dell’istruttoria
dibattimentale.
Qualora venga annullata con rinvio una sentenza per vizio di motivazione o mancata assunzione di una
prova decisiva, la valutazione del giudice di rinvio deve essere compiuta rianalizzando il materiale
probatorio e acquisendo la prova decisiva.
Il giudice di rinvio deve motivare la propria decisione, che deve rispondere a quanto enunciato nella
sentenza di annullamento, ma non richiamarla solamente.

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Quando la cassazione annulla una sentenza per vizio di motivazione, indicando i punti specifici di carenza
o contraddittorietà, il giudice di rinvio deve compiere tutti gli atti istruttori necessari alla sua decisione e
darne giustificazione nella sentenza.

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CAPITOLO IX – IL GIUDICATO

Il giudicato segna l’esaurimento della funzione giurisdizionale in ordine ad uno specifico caso
giudiziario costituendo un vero e proprio traguardo del processo. È considerato come condizione di
certezza e stabilità del decisum.
L’irrevocabilità è una qualità che assume la sentenza in seguito all’esaurimento delle forme di tutela in via
ordinaria: l’art. 648 afferma che la connotazione della irrevocabilità è data alle sentenze pronunciate in
giudizio contro le quali non è ammessa l’impugnazione diversa dalla revisione. Ma deve essere ampliata,
accogliendo anche i mezzi straordinari di impugnazione. Allora una sentenza sarà irrevocabile –
ampliando dunque il testo della norma – qualora non possono essere più esperiti, oltre la revisione, anche
il ricorso straordinario per cassazione (art. 625 bis) e la rescissione del giudicato (art. 625 ter).
L’irrevocabilità della sentenza è propria anche quando i mezzi esperibili non siano stati utilizzati.
Dunque, un provvedimento è irrevocabile quando:
1. La sentenza non è impugnata nei termini previsti;
2. L’impugnazione è dichiarata inammissibile e l’ordinanza che dichiara l’inammissibilità non è stata
impugnata;
3. Il ricorso in cassazione è dichiarato inammissibile o rigettato o vi è stato annullamento senza rinvio.
Restano estranei al concetto di giudicato il provvedimento di archiviazione e la sentenza di non luogo a
procedere. L’archiviazione infatti non impedisce la riapertura delle indagini e la sentenza di non luogo a
procedere è suscettibile di revoca.
Il giudicato non è più intangibile e l’immutabilità non costituisce più un carattere essenziale: infatti la
pronuncia che riceve l’impronta del giudicato può essere ancora oggetto di una verifica ex post e dunque
non sia mostra più nella sua veste di cristallizzazione di una pronuncia. Questo valore relativo, e non più
assoluto, del giudicato è dato dalla presenza dei mezzi straordinari d’impugnazione ma anche dalle
variazioni nei contenuti e negli effetti che il giudicato può incontrare nella fase esecutiva.
Gli effetti del giudicato si manifestano in tre direzioni: (1) l’esecutività che si pone come naturale e tipica al
giudicato; (2) il divieto di ne bis in idem, che è il valore preclusivo del giudicato rispetto a ulteriori
procedimenti penale nei confronti della stessa persona per il medesimo fatto; (3) gli effetti del giudicato
nei giudizi civili, amministrativi e disciplinari (effetti extrapenale).
In particolare, quanto all’esecutività (art. 650), si rivolve nella idoneità del provvedimento di essere messo
in esecuzione anche coattivamente, e di costituire titolo esecutivo. Salvo che sia diversamente disposto, le
sentenze e i decreti penali hanno forza esecutiva quando sono divenuti irrevocabili.
Irrevocabilità ed esecutività di regola coincidono ma vi possono essere delle eccezioni: un’esecutività
disgiunta si riscontra a proposito delle disposizioni civili della sentenza: la condanna alle restituzioni o al
risarcimento del danno può essere immediatamente esecutiva, come la condanna al pagamento della
provvisionale.
Quanto al divieto di ne bis in idem, che è il divieto di un nuovo giudizio per il medesimo fatto nei confronti
della stessa persona, l’art. 649 offre una garanzia di tipo soggettivo in quanto l’imputato prosciolto o
condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a
procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo,
per il grado o per le circostanze. Per «titolo» si rende irrilevante una diversa qualificazione giuridica, ossia
il mutamento del nomen iuris attribuito al fatto: chi sia stato assolto dall’accusa di rapina non può essere
successivamente imputato, per la stessa vicenda, di furto aggravato; per «grado» del fatto invece si intende
il diverso apprezzamento inerente alla minore o maggiore gravità del reato: non incide la progressione da

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reato tentato a reato consumato; quanto invece per «circostanze», non legittima un nuovo processo se il
reato da semplice risulti circostanziato.
L’art. 649 termina con la clausola «salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345». Sono dunque
due deroghe all’operatività del principio, l’una indica un errore alla base della decisione (si può procedere
a processo contro una persona che era stata erroneamente dichiarata deceduta), l’altra rappresenta una
condizione che, in origine assente ed impeditiva del giudizio di merito (querela, richiesta, istanza ecc.), ora
è legittimamente procedibile nei confronti della stessa persona.
Se, nonostante il divieto, venisse iniziato un nuovo procedimento penale, il giudice sarebbe tenuto a
pronunciare in ogni stato e grado del processo una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere,
enunciandone la causa nel dispositivo. Nelle indagini preliminari invece si dovrà disporre archiviazione
da parte del p.m.

Il giudicato, in una versione di efficacia preclusiva endoprocessuale, è previsto anche in relazione ai


provvedimenti de libertate (giudicato cautelare) e di conseguenza la giurisprudenza ha riconosciuto che il
principio dell’intangibilità del giudicato debba estendersi anche ai provvedimenti definitivi in materia di
libertà personale. Ma in ogni caso, anche in materia di giudicato cautelare, il valore è relativo e cede a
elementi sopravvenuti o preesistenti non valutati dal giudice. Anche alla misura cautelare si applica il
principio del ne bis in idem. Questo limite opera solamente per le questioni esplicitamente o implicitamente
dedotte.

L’efficacia extrapenale nel giudizio civile o amministrativo di danno è suddivisa in tre disposizioni: l’art.
651, relativo alle sentenze di condanna; l’art. 651 bis, riguardante la sentenza di proscioglimento per particolare
tenuità del fatto; l’art. 652, concernente la sentenza di assoluzione.
La sentenza di condanna: la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a
dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità
penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le
restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che
sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale.
La sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto: la sentenza penale irrevocabile di
proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di
giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione
che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del
danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia
intervenuto nel processo penale.
Le sentenze di assoluzione: la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a
dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato
non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una
facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso
dal danneggiato o nell’interesse dello stesso, sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in
condizione di costituirsi parte civile, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede
civile.

La sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato altresì nel giudizio per
responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non
sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso.

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Quanto all’efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione in altri giudizi civili o
amministrativi, Nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito
o che sia intervenuto nel processo penale, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione
pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando
in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende
dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati
siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla
prova della posizione soggettiva controversa.

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CAPITOLO X – I MEZZI STRAORDINARI DI IMPUGNAZIONE

Come si sa il giudicato è l’esaurimento della funzione giurisdizionale in ordine ad uno specifico caso
giudiziario che costituisce il «traguardo» dell’itinerario cognitivo definito da una sentenza contrassegnata
dall’irrevocabilità e certezza, certezza che però – proprio per la presenza dei mezzi straordinaria dei mezzi
di impugnazione – è minata nelle sue fondamenta. Di esso infatti si parla infatti in termini relativi vista la
possibilità del giudicato di cedere di fronte ad esigenze di giustizia sostanziale o di tutela dei principi di
giusto processo.
Ecco dunque che le impugnazioni straordinarie sono strumenti che consentono di emendare sentenze
divenute irrevocabili, facendo venire meno gli effetti del giudicato a fronte di esigenze di giustizia. Gli
strumenti sono così delineabili: revisione, ricorso straordinario per cassazione per errore materiale o di
fatto e il ricorso per cassazione per rescissione del giudicato.
Da non confondere con i mezzi straordinari di impugnazione è il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo
alla quale spetta il sindacato sulla osservanza dei diritti della convenzione C.e.d.u. da parte dei giudici
nazionali: può essere dunque adita dal soggetto che ritenga essere pregiudicato nei suoi diritti dalla
sentenza resa nel processo penale interno, con ricorso esperibile dopo l’esaurimento dei rimedi ordinari
interni e quindi solo a seguito della irrevocabilità della sentenza ovvero del suo passaggio in giudicato.
Ma vi è un problema: l’esecuzione della pronuncia che ha accertato la trasgressione. In mancanza di uno
specifico strumento che consenta di superare il vincolo del giudicato, la revisione e il ricorso straordinario
per errore materiale o di fatto sono stati oggetto di applicazione estendendo il loro ambito di intervento in
attuazione alle sentenze della Corte Edu. In particolare, nella revisione si è individuato lo strumento
idoneo a colmare il vuoto normativo in attesa dell’intervento, introducendo un ulteriore caso di
rinnovazione del processo; analogamente con il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto il quale,
con una serie di pronunce della corte di cassazione, permette la riapertura del procedimento, dopo aver
rilevato una violazione dei diritti tutelati dalla convenzione, indicando la misura interna per porre rimedio
alla violazione contestata.
Non si esclude però che anche l’istituto della rescissione del giudicato si possa prestare come strumento
idoneo ad attuare gli effetti delle sentenze della Corte Edu, anche se comunque vi è qualche riserva.

Revisione

La revisione si pone a tutela delle esigenze di giustizia sostanziale che devono prevalere rispetto
all’accertamento consacrato dal giudicato quando sia necessario correggere l’errore giudiziario nei
confronti di pronunce di condanna irrevocabili.
L’art. 629 definisce i contorni dell’istituto affermando che la revisione è ammessa in ogni tempo a favore
dei condannati, nei casi determinati dalla legge: la revisione delle sentenze di condanna o delle sentenze
emesse a seguito di applicazione della pena concordata tra le parti o dei decreti penali di condanna,
divenuti irrevocabili, anche se la pena è già stata eseguita o è estinta.
La natura straordinaria del mezzo di impugnazione ne caratterizza l’oggetto e le modalità di esperimento
che può avvenire senza limiti temporali e anche a fronte dell’estinzione della pena o della sua avvenuta
esecuzione.
I casi definiti dall’art. 630 e determinato i casi idonei a qualificare l’erroneità della decisione e le
conseguenti ingiustizie.
1) se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi
con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale
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(inconciliabilità tra sentenze irrevocabili). Tra le sentenze deve emergere una differente realtà fattuale
ovvero una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui le due pronunce si fondano, non essendo
sufficiente il mero contrasto tra le sue sentenze, né la semplice contraddittorietà logica tra le valutazioni
effettuate nelle sue decisioni;
2) se la sentenza o il decreto penale di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del
condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata,
che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali sullo stato di famiglia o di cittadinanza (art. 3) ovvero
questioni civili o amministrative di particolare complessità (pregiudiziale civile o amministrativa);
3) se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate,
dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’articolo 631 (nuove prove). Per nuove
prove si fa riferimento non solo a quelle sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna e quelle
scoperte successivamente ad essa, ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio ovvero quelle
acquisite ma non valutate purché non si tratti sempre di prove inammissibili, superflue. Questo principio
trova un limite nel patteggiamento, ed è applicabile solo per le prove sopravvenute in quanto per le prove
preesistenti l’imputato aveva declinato la valutazione volontariamente;
4) se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità di atti o in giudizio o di
un altro fatto previsto dalla legge come reato (condanna pronunciata in conseguenza di un fatto
costitutivo di reato). In questo caso la sentenza che accerta la falsità o il fatto costituente reato deve essere
irrevocabile porsi come presupposto causale della condanna di cui si chiede la revisione;
5) sentenza definitiva della Corte dei diritti dell’uomo che accerta la violazione di un diritto della
C.e.d.u. l’intervento della corte costituzionale ha promosso l’apertura del rimedio straordinario ad un
nuovo caso: infatti è stato dichiarato illegittimamente costituzionale l’art. 630 nella parte in cui non
prevede uno strumento per la riapertura del processo – revisione europea – al fine di confermarsi alla
sentenza della corte Edu, in seguito al procedimento Dorigo.
Questa nuova fattispecie di revisione è applicabile solo qualora sia intervenuta una sentenza definiva della
corte Edu sulla vicenda e che il condannato abbia esperito il ricorso, con il ricorrente in qualità di parte, e
che da questo si sia accertato la violazione del diritto tutelato dalla convenzione. Ma vi sono ulteriori limiti:
la corte costituzionale ha fornito indicazioni in base alle quali la corte d’appello dovrà procedere ad un
vaglio di compatibilità tra la nuova fattispecie e le norme del codice, escludendo la applicabilità di quelle
inconciliabili con l’obiettivo perseguito che consiste nel consentire al condannato di riappropriarsi delle
condizioni nelle quali si sarebbe trovato se ne suo processo la violazione del diritto non si fosse verificata.

Quanto al procedimento di revisione, avviato su iniziativa del condannato o del prossimo congiunto o
dell’erede in caso di morte del condannato ovvero da parte del procuratore generale presso la corte
d’appello nella cui circoscrizione fu pronunciata la condanna, il giudizio di revisione si svolge davanti alla
corte d’appello, individuata secondo i criteri dell’art. 11, cioè in un luogo diverso da quello in cui si è svolto
il giudizio divenuto irrevocabile.
Una prima fase di delibazione dell’ammissibilità della richiesta, preceduta dal parere del procuratore
generale, finalizzata a verificare la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi relativi al provvedimento
impugnato e allo specifico caso di revisione richiamato, alla legittimazione, alla forma della richiesta e alla
presenza degli elementi che, se accertati, sano tali da dimostrare che il condannato deve essere prosciolto.
Se non viene dichiarata con ordinanza la inammissibilità, inizia la fase introduttiva del giudizio di
revisione tramite l’emissione da parte del presidente della corte d’appello di un decreto con il quale
dispone la citazione delle parti seguendo le disposizioni previste in sede di appello. La corte d’appello

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può in qualunque momento disporre la sospensione dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza
e applicare, se necessario, una misura coercitiva.
La pronuncia della sentenza finale è sottoposta alle regole del giudizio ordinario. In caso di accoglimento
della richiesta di revisione la corte d’appello revoca la sentenza di condanna o di patteggiamento o il
decreto penale di condanna e pronuncia il proscioglimento, enunciandone la causa nel dispositivo. Alla
sentenza conseguono i necessari provvedimenti mirati alla restitutio integrum anche sul piano pecuniario
e patrimoniale.

L’errore incorso nel giudizio di merito e riconosciuto in sede di revisione comporta il diritto del prosciolto
ad una riparazione, sancito sul piano costituzionale (art. 24 comma 4 Cost.). In caso di proscioglimento si
ha diritto ad una riparazione commisurata alla durata della pena o dell’internamento e alle conseguenze
personali e familiari derivanti dalla condanna.
L’azione può essere esperita dai soggetti legittimati entro 2 anni dalla pronuncia di proscioglimento
davanti alla corte d’appello che l’ha emessa.
Si avranno interventi ripristinatori come le restituzione delle somme pagate in esecuzione della condanna
e delle cose oggetto di confisca, e interventi risarcitori, volti a monetizzare i pregiudizi subiti dalla vittima
dell’errore giudiziario.
Vi saranno anche iniziative di natura riparatoria: pubblicazione della sentenza di accoglimento della
revisione (per ripristinare la reputazione del prosciolto), la riparazione tramite il pagamento di una somma
di denaro ovvero, tenuto conto delle condizioni dell’avente diritto e della natura del danno, mediante la
costituzione di una rendita vitalizia.

Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto

L’art. 625 bis disciplina il principio per cui è ammessa, a favore del condannato, la richiesta per la
correzione dell’errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla corte di
cassazione: implicitamente fa in modo che resisti quel principio di inoppugnabilità di tutti i provvedimenti
della cassazione in materia penale, espresso nel codice previgente.
È mezzo speciale finalizzata alla correzione degli errori materiali o fattuali commessi dal giudice di del
diritto, ancorché la presenza dell’art. 130 che disciplina la correzione degli errori materiali.
Per errore materiale s’intende un vizio espressivo determinato dalla mancanza di corrispondenza tra la
volontà del giudice che emette il provvedimento e la sua esternazione grafica; mentre con errore di fatto
ci si riferisce ad un errore di percezione che influenza la formazione della volontà del giudice.
Sul piano degli effetti, la correzione dell’errore materiale riveste una funzione riparatoria, in quanto diretta a
rettificare o integrare il documento senza incidere sulla volontà del giudice; mentre l’eliminazione dell’errore
di fatto, che modifica la decisione, comporta il controllo degli atti del procedimento dal momento che, in
assenza dell’errore, la decisione sarebbe stata diversa.

Quanto al procedimento, l’istanza che dà avvio al procedimento deve essere presentata dal procuratore
generale o dal condannato entro 180 giorni dal deposito del provvedimento: il termine però è valido solo
per la correzione dell’errore di fatto in quanto la cassazione può, in ogni momento, correggere d’ufficio
l’errore materiale.
Il ricorso non ha efficacia sospensiva, che può essere disposta solo in caso di particolare gravità.
Inizia una prima fase dove vi è il controllo degli atti. Dopo il controllo di ammissibilità, se la corte non
dichiara l’inammissibilità del ricorso per mancanza dei presupposti o inosservanza del termine, si apre la

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seconda fase connotata da un procedimento in camera di consiglio che si svolge con contraddittorio orale
e non meramente cartolare.
La correzione avviene senza modalità particolari e può essere effettuata non necessariamente nelle due
fasi, rescindente e rescissoria, ma sostituendo la decisione viziata.

Il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto il quale, con una serie di pronunce della corte di
cassazione, permette la riapertura del procedimento, dopo aver rilevato una violazione dei diritti tutelati
dalla convenzione dei diritti dell’uomo, indicando la misura interna per porre rimedio alla violazione
contestata. Infatti in mancanza di uno strumento che vada a colmare la mancanza legislativa, si è fatto
riparo a strumenti già previsti all’interno del nostro ordinamento: il ricorso straordinario per cassazione è,
oltre alla revisione, uno dei rimedi per porre equilibrio e avvicinarsi a un processo giusto e superare la
certezza del giudicato.

Rescissione del giudicato

L’art. 625 ter afferma che il condannato o il sottoposto a misura di sicurezza con sentenza passata in
giudicato, nei cui confronti si sia proceduto in assenza per tutta la durata del processo, può chiedere la
rescissione del giudicato qualora provi che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata
conoscenza della celebrazione del processo.
Il ricorso è da esperire quale extrema ratio dal soggetto assente per tutta la durata del processo,
comportando per il medesimo la prova della non conoscenza della celebrazione del processo.
La richiesta è presentata, a pena di inammissibilità, personalmente dall’interessato o da un difensore
munito di procura speciale autenticata, entro 30 giorni dal momento dell’avvenuta conoscenza del
procedimento.

Quanto al procedimento, segue le forme camerale di cui all’art. 611 con esclusione della partecipazione
delle parti e della pubblica udienza.
Se accoglie la richiesta dopo la verifica, la Corte di cassazione revoca la sentenza e dispone la trasmissione
degli atti al giudice di primo grado: in questo modo il giudizio viene consegnato al dibattimento, con
tutte le conseguenze in punto di riassunzione della qualità di imputato al soggetto condannato e in punto
di istruzione probatoria. Con la revoca della sentenza si ha un pieno ritorno al giudizio di merito, il che
significa l’azzeramento delle prova prima acquisite, anche se l’irripetibilità sopravvenuta degli atti generi
la possibilità di un recupero attraverso l’art. 512 sulla lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di
ripetizione
La revoca in casi di eccezionale gravità, può comportare la sospensione della esecuzione della sentenza.
Si dovrebbe ritenere che la richiesta presentata comporti la liberazione del soggetto condannato in vinculis,
anche se il richiamo alla eccezionale gravità può costituire un consistente limite.
In conclusione, non si esclude però che anche l’istituto della rescissione del giudicato si possa prestare
come strumento idoneo ad attuare gli effetti delle sentenze della Corte Edu, anche se comunque vi è
qualche riserva.
Si applica l’art. 489 comma 2 che prevede la situazione tipizzata dall’art. 420 bis comma 4 e così sarà
rimesso nei termini per le richieste di cui agli artt. 428 e 444.

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CAPITOLO XI – IL RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI


DELL’UOMO

I diritti fondamentali dell’individuo ricevono tutela in un sistema integrato di fonti interne e


sovrannazionali. L’art. 1 esordisce affermando che gli stati contraenti (le Alte parti) devono riconoscere i
diritti e le libertà sanciti nella convenzione. Si conseguenza se gli stati non adempiano a questi obblighi, i
cittadini che si sono visti privati dei loro diritti e libertà possono presentare, prima, ricorso avanti una
magistratura nazionale, dopo, se sono stati esperiti tutti i mezzi previsti – extrema ratio – presentare ricorso
innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Dunque le autorità nazionali rappresentano
la prima istanza di garanzia del sistema, mentre la corte europea solo l’ultima istanza (giudice ultimo).
Il ricorso deve esplicarsi in modo tale che il diritto a ricorrere non sia ostacolato da azioni od omissioni da
parte dello Stato convenuto che limita la possibilità di far valere la violazione dei diritti.
Quanto ai soggetti legittimati, la Corte può essere adita per ricorsi presentati da ogni persona fisica, ogni
organizzazione non governativa o gruppo di individui che pretenda di essere vittima di una violazione
da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli.
Le Alte Parti contraenti si impegnano a non impedire in alcun modo l’esercizio effettivo di questo diritto.
Ci deve essere una sorta di interesse ad agire.
Come detto precedentemente, una questione può essere rimessa alla Corte solo dopo l’esaurimento di
tutte le vie di ricorso interne, qual è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente
riconosciuti, ed entro un periodo di 4 mesi dalla data della decisione interna definitiva. È definita come
una condizione di ricevibilità del ricorso, che riassume il principio di sussidiarietà, volt a salvaguardare
i valori della sovranità statuale. In questo modo si mira ad offrire l’opportunità alle alte parti di prevenire
o correggere le violazioni della convenzione prima che siano sottoposte al vaglio della giustizia
sovrannazionale.
Le vie di ricorso interne devono essere: oggetto di previsione astratta, accessibili, efficaci e sufficienti. Per
accessibilità si intende come disponibilità dell’azione e richiede l’assenza di qualsiasi ostacolo giuridico o
politico oltre che un certo grado di immediatezza; per efficacia e sufficienza deve essere idoneo a porre
rimedio immediato alle violazioni subite dal ricorrente.
Il diritto di adire la corte di Strasburgo è assoluto e non è soggetto ad alcun ostacolo. Ai fini della
ricevibilità, è necessario che sia proposto entro un termine di 4 mesi (termine ridotto da 6 a 4 mesi dopo
l’entrata in vigore del protocollo 15 della C.e.d.u. in seguito all’ultima sottoscrizione) a partire dalla data
della decisione definitiva di un organo giudicante nazionale.
Tuttavia ci sono anche delle condizioni di non ricevibilità, ossia quando è anonimo, o è sostanzialmente
uguale ad un ricorso precedentemente esaminato dalla Corte o è già stato sottoposto ad un’altra istanza
internazionale di inchiesta o di composizione e non contiene fatti nuovi. La corte dichiara l’irricevibilità
qualora ritenga il ricorso incompatibile con le disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli, o
manifestamente infondato o abusivo; ovvero qualora il ricorrente non abbia subito alcun pregiudizio significativo,
a meno che il rispetto dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli non esiga
l’esame del merito del ricorso e purché ciò non comporti la reiezione di un ricorso che non sia stato
debitamente esaminato da un tribunale nazionale.
L’irricevibilità può essere rilevata in ogni momento.
Quanto all’istaurazione del contraddittorio dunque, se il ricorso è ritenuto ricevibile, la corte europea
effettua un primo accertamento dei fatti, procedendo alla comunicazione allo stato convenuto e

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determinando l’instaurazione del contraddittorio tra le parti e la possibilità di presentare contestazione


anche partecipando all’eventuale udienza.
Tutti i documenti e le osservazioni richieste dalla corte europea devono pervenire alla stessa entro il
termini indicato a mezzo posta: la mancata comunicazione di fatti importanti comporta una declaratoria
di irricevibilità.
La Corte esamina la causa con i rappresentanti delle parti e, nel caso in cui sia necessario, procede a
un’indagine, per la cui conduzione efficace le Alte Parti contraenti interessate forniranno tutte le
agevolazioni necessarie.
Sono previste altresì misure cautelari provvisorie che possono essere adottate per evitare situazioni
irreversibili che impediscano alla corte di procedere in condizioni favorevoli all’esame del ricorso e di
assicurare al ricorrente il godimento del diritto tutelato e violato.
In qualsiasi momento della procedura, la Corte può mettersi a disposizione delle parti interessate al fine
di giungere ad una composizione amichevole della causa che si ispiri al rispetto dei diritti dell’uomo
riconosciuti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli.
La decisione viene assunta a seguito dell’analisi della documentazione trasmessa dalle parti e solo
eccezionalmente si ha la celebrazione dell’udienza pubblica.
Al termine della procedura che ha ad oggetto l’analisi del ricorso e l’accertamento della violazione di
doglianza, la corte si pronuncia con la sua decisione. Nella sentenza deve essere indicata la condotta dello
stato convenuto indicando gli articoli della convezione o dei suoi protocolli aggiuntivi che ritiene diano
stati violati.
La sentenza diviene definitiva quando (1) le parti dichiarano che non richiederanno il rinvio del caso dinanzi
alla grande camera, ovvero quando (2) dopo 3 mesi successiva alla data della sentenza non è stato richiesto il rinvio
del caso alla grande camera, ovvero quando (3) il collegio respinge una richiesta di rinvio.
Nel dare attuazione alle decisioni è riconosciuto a ciascuna autorità nazionale un certo margine di
discrezionalità ed apprezzamento nell’individuazione della soluzione concreta più adatta a porre fine alla
violazione e per prevenirne altre future. Se la violazione risulta perpetrata in un processo poi
implementatosi con sentenza irrevocabile, lo stato deve garantire la riapertura dello stesso se la sentenza
continua ad avere ripercussioni sul ricorrente (come anni ancora da scontare in detenzione), e ciò anche se
sia stata disposta un’equa soddisfazione in termini economici.
Analizzando gli strumenti atti a rimediare alle violazioni accertate, il nostro ordinamento non prevede un
istituto ad hoc: in supplenza allora è possibile usufruire della revisione, ma anche il ricorso straordinario
per cassazione.
In caso di violazioni di natura legislativa, la corte può disporre che lo stato emani una legislazione che
tuteli i diritto convenzionali: ecco che può essere emessa una «sentenza pilota». Si tratta di una procedura
che si attiva quando la corte riceve un numero significativo di ricorsi che hanno ad oggetto la medesima
violazione e quando i fatti oggetto del ricorso rivelino l’esistenza di problemi del sistema nazionale
convenuto che potrebbero generare ulteriori ricorsi.
Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alla sentenza definitiva della Corte per le controversie
di cui sono parti: infatti gli stati devono rimediare immediatamente alla violazione dei diritti
convenzionali e il ricorrente può chiedere, dopo 1 anno dalla pronuncia, l’ottemperanza adendo il
Comitato dei Ministri che può disporre sia in merito al pagamento dell’indennizzo, che alla risoluzione di
eventuali problematiche interpretative della sentenza stessa.

Ci sono due ipotesi in cui adire alla Grande Camera, che è la più alta composizione del giudice di
Strasburgo: per rinvio o per rimessione.

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Entro il termine di 3 mesi dalla data in cui la sezione ha pronunciato la sentenza, le parti possono, in casi
eccezionali, chiedere il deferimento della causa alla sezione allargata (Grande Camera). Un collegio di 5
giudici della sezione allargata accoglie la richiesta se il caso solleva una questione grave relativa
all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, o una questione grave di
carattere generale. Se il collegio accoglie la richiesta, la sezione allargata si pronuncia sulla causa con
sentenza.
Rinvio. Quando il ricorso solleva gravi problemi di interpretazione o di applicazione della convenzione
e dei suoi protocolli, nonché importanti questioni di carattere generale, il ricorso può essere rimesso alla
Grande Camera: assume la principale funzione istituzionale di coordinare ed armonizzare la
giurisprudenza delle Camere, definendo il contenuto preciso e la portata dei diritti umani tutelati dalla
convenzione.
Rimessione. Se la causa pendente innanzi ad una sezione solleva una questione grave relativa
all’interpretazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, o se la soluzione di una questione può portare
ad una contraddizione rispetto ad una sentenza precedentemente emessa dalla Corte, la sezione in
qualsiasi momento precedente all’emissione della sua sentenza può trasferire la competenza alla sezione
allargata, a meno che una delle Parti non si opponga.
Se accoglie la richiesta, la Grande Camera assume una competenza piena, che investe tutte le questioni
sollevate con il ricorso.
La sentenza sostituisce quella emessa prima dal rinvio dalla camera competente.

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CAPITOLO XII – L’ESECUZIONE PENALE

Il giudicato chiude la fase cognitiva e apre la fase esecutiva. L’esecuzione è diretta sia ad attuare la
statuizione giudiziale e risolvere ogni questione inerente al titolo esecutivo, sia a garantire un controllo di
qualità del giudicato, a garanzia della perdurante legalità dei suoi contenuti.
Il pubblico ministero opera come protagonista dell’esecuzione (funzioni propulsive, proponenti e
partecipative), mentre il giudice come organo deputato a intervenire solo quando vi siano questioni da
risolvere (funzione eventuale ed episodica, essendo volto a decidere una specifica questione relativa al
titolo esecutivo).
La garanzia si esprime attraverso due modelli: un procedimento di carattere camerale, in cui è garantito
il previo esercizio del contraddittorio davanti al giudice dell’esecuzione (art. 666); un procedimento de
plano, caratterizzato da una decisione assunta inaudita altera parte, suscettibile di opposizione, con la
quale s’innesta la procedura in contraddittorio (art. 667 comma 4) e il diritto di difesa non è violato.
Procedimento camerale: è funzionale a risolvere questioni oggetto di specifica disciplina come il conflitto
pratico di giudicati, l’esistenza e la validità del titolo esecutivo, l’applicazione del concorso formale e della
continuazione, ecc.
Procedimento de plano, a contraddittorio eventuale e differito: è funzionale a risolvere ipotesi predefinite in
cui viene esplicitata tale modalità risolutiva. Ha carattere eccezionale e non è suscettibile di applicazione
analogica. Si profila in ragione dell’urgenza, nel caso di dubbio sull’identità fisica del detenuto, in ordine
a provvedimenti di amnistia e indulto, ecc. In tutti i casi il recupero del contraddittorio avviene su impulso
di parte con l’opposizione, che rimette in discussione la decisione resa dal giudice inaudita altera parte.

Il pubblico ministero è dunque il protagonista che cura d’ufficio l’esecuzione dei provvedimenti: l’ufficio
è individuato per relationem con riferimento al giudice dell’esecuzione.
Il suo ruolo è visibile in ordine a: propulsione, smistamento, de libertate, proponenti e partecipativi.
Propulsione: operazioni di computo del presofferto e di cumulo delle pene detentive, emissione dell’ordine di
esecuzione per l’esecuzione delle pene detentive.
Smistamento: esecuzione delle misure di sicurezza ordinate con sentenza, sanzioni sostitutive (che saranno
inoltrate al magistrato di sorveglianza), delle pene accessorie (che saranno invece notificate agli organi di
polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza), delle sanzioni conseguenti a violazioni amministrative (che infine
saranno trasmesse, per estratto della sentenza, all’autorità amministrativa competente).
De libertate: liberazione provvisoria del detenuto nei casi di errore di persona, indulto, amnistia e di grazia.
Proponenti e partecipativi: il pubblico ministero propone le sue richieste al giudice competente e interviene
in tutti i procedimenti di esecuzione.
In ogni modo spetta ad esso definire la posizione in executivis del condannato: quando deve essere eseguita
una sentenza di condanna a pena detentiva, il pubblico ministero emette ordine di esecuzione con il
quale, se il condannato non è detenuto, ne dispone la carcerazione. L’ordine di esecuzione contiene le (1)
generalità della persona nei cui confronti deve essere eseguito e quant’altro valga a identificarla, (2)
l’imputazione, (3) il dispositivo del provvedimento e (4) le disposizioni necessarie all’esecuzione. L’ordine
è notificato al difensore del condannato.
Il provvedimento deve essere notificato, a pena di nullità, al condannato e al suo difensore, i quali possono
contestare la legittimità dell’operato del p.m. chiedendo l’intervento del giudice dell’esecuzione.
Inoltre il pubblico ministero, nel determinare la pena detentiva da eseguire, computa il periodo di
custodia cautelare subita per lo stesso o per altro reato, anche se la custodia è ancora in corso. Allo stesso

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modo procede in caso di applicazione provvisoria di una misura di sicurezza detentiva, se questa non è
stata applicata definitivamente.
In caso di revoca o di esito negativo della messa alla prova, il pubblico ministero, nel determinare la pena
da eseguire, detrae un periodo corrispondente a quello della prova eseguita.
Quanto alla sospensione dell’esecuzione della pena, se la pena detentiva, anche se costituente residuo di
maggiore pena, non è superiore a 3 anni, non è superiore a 4 anni qualora i soggetti possano beneficiare
della detenzione domiciliare, non è superiore a 6 anni nei casi in cui il condannato può accedere
all’affidamento in prova terapeutico e la sospensione dell’esecuzione della pena, il pubblico ministero ne
sospende l’esecuzione.
(1) L’ordine di esecuzione e il (2) decreto di sospensione sono notificati al condannato e al difensore nominato
per la fase dell’esecuzione o, in difetto, al difensore che lo ha assistito nella fase del giudizio, con (3) l’avviso
che entro 30 giorni può essere presentata istanza, corredata dalle indicazioni e dalla documentazione
necessarie, volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione. L’avviso informa
altresì che, ove non sia presentata l’istanza o la stessa sia inammissibile, l’esecuzione della pena avrà corso
immediato.
Quando è provato o appare probabile che il condannato non abbia avuto effettiva conoscenza dell’avviso
di cui al comma 5, il pubblico ministero può assumere, anche presso il difensore, le opportune
informazioni, all’esito delle quali può disporre la rinnovazione della notifica.
Due preclusioni: una si carattere oggettivo e una di carattere soggettivo.
Quanto a quella oggettiva, la sospensione dell’esecuzione per la stessa condanna non può essere disposta
più di una volta, anche se il condannato ripropone nuova istanza sia in ordine a diversa misura alternativa,
sia in ordine alla medesima, diversamente motivata, sia in ordine alla sospensione dell’esecuzione della
pena: la ratio sottostà nel fatto di frenare ogni sorta di iperattività diretta a paralizzare l’esecuzione della
pena tramite istante a catena.
Quanto a quella soggettiva, nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’articolo 4-bis, nonché di cui
agli articoli 423-bis, 572, secondo comma, 612-bis, terzo comma, 624-bis del c.p.; altresì nei confronti di
coloro che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovano in stato di custodia cautelare in
carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva.
Quanto agli adempimenti relativi all’esecuzione della pena pecuniaria, una volta esperita la procedura
per recuperare la somma a titolo di pena pecuniaria, nel caso di impossibilità di esazione il pubblico
ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente per la conversione, il quale provvede
previo accertamento dell’effettiva insolvibilità del condannato e, se ne è il caso, della persona civilmente
obbligata per la pena pecuniaria.

Giurisdizione esecutiva

La giurisdizione esecutiva provvede su ogni questione che sorge riguardo al provvedimento irrevocabile
a alla sua esecuzione.
La competenza del giudice ha natura funzionale e perciò inderogabile: competente a conoscere
dell’esecuzione di un provvedimento è il giudice che lo ha deliberato. Subentra anche in questa fase l’art.
34 che però non prevede l’incompatibilità fra giudice di cognizione e giudice dell’esecuzione proprio per
l’identità espressa dall’art. 665, favorisce dunque una verifica giurisdizionale in sede esecutiva libera da
condizioni derivanti dalla precedente decisione di merito esulando la cd. forza della prevenzione.
Ci sono però delle deviazioni così delineabili: quando è stato proposto appello, se il provvedimento è stato
confermato o riformato soltanto in relazione alla pena, alle misure di sicurezza o alle disposizioni civili, è

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competente il giudice di primo grado; altrimenti è competente il giudice di appello. Quando vi è stato
ricorso per cassazione e questo è stato dichiarato inammissibile o rigettato ovvero quando la corte ha
annullato senza rinvio il provvedimento impugnato, è competente il giudice di primo grado, se il ricorso
fu proposto contro provvedimento inappellabile ovvero con ricorso immediato per cassazione, e il giudice
della corte d’appello negli altri casi. Quando è stato pronunciato l’annullamento con rinvio, è competente
il giudice di rinvio.
Se invece l’esecuzione concerne più provvedimenti emessi da giudici diversi, è competente il giudice che
ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo. Tuttavia, se i provvedimenti sono stati
emessi da giudici ordinari o giudici speciali, è competente in ogni caso il giudice ordinario.

Tipi di procedimento – camerale e cartolare

Come si è detto precedentemente si divide, a seconda dei casi, tra procedimenti in contraddittorio e
procedimento cartolare de plano (visto quando bisogna garantire esigenze di velocità ed economicità del
processo).
In primo luogo, il procedimento in contraddittorio.
Il procedimento di esecuzione è disciplinato dall’art 666. Può essere attivato a richiesta del pubblico
ministero, dell’interessato o del suo difensore. Una volta verificata l’ammissibilità della richiesta,
attraverso un «filtro» ad opera del giudice o del presidente del collegio, e sentito il p.m. Contro il
provvedimento negativo, cioè se la richiesta è apparsa manifestamente infondata per difetto delle
condizioni di legge, ovvero è costituita da una mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata
sui medesimi elementi. In ogni caso è previsto il ricorso per cassazione.
Se la richiesta è ammissibile il giudice o il presidente del collegio devono instaurare il contraddittorio
designando se necessario un avvocato d’ufficio, fissando al data dell’udienza e facendone dare avviso alle
parti e ai difensori almeno 10 giorni prima.
La delibazione preliminare sulla ammissibilità della richiesta risponde a chiare esigenze di deflazione ed
economia, mirando a scoraggiare intenti strumentali e dilatori, nonché ad assicurare stabilità al
provvedimento esecutivo, impedendo l’accesso all’udienza camerale di richiesta all’evidenza infondate o
frutto di reiterazione.
Una volta superato il vaglio d’ammissibilità della richiesta sarà fissata la data dell’udienza, con avviso alle
parti e ai difensori.
L’udienza si svolge con la partecipazione necessaria del difensore e del pubblico ministero. L’interessato
che ne fa richiesta è sentito personalmente; tuttavia, se è detenuto o internato in luogo posto fuori della
circoscrizione del giudice, è sentito prima del giorno dell’udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo,
salvo che il giudice ritenga di disporre la traduzione.
Le successive fasi consistono: verifica giudiziale della regolare costituzione delle parti; decisione delle questioni
preliminari; la relazione orale ad opera di un componente del collegio.
Per quanto riguarda le prove, il giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le
informazioni di cui abbia bisogno: l’assunzione probatoria non richiede particolari formalità, ma è
necessario rispettare il contraddittorio. L’art. 666 deve essere collegato con l’art. 185 disp. att. per il quale
il giudice, nell’assumere le prove, procede senza particolari formalità anche per quanto concerne la
citazione e l’esame dei testimoni e l’espletamento della perizia.
Chiusa la fase istruttoria, le parti presentano le proprie richieste, successivamente il procedimento passa
in decisione e si conclude con l’ordinanza che accoglie o rigetta l’istanza.
Unico mezzo di impugnazione è il ricorso per cassazione che non sospende l’esecuzione dell’ordinanza.

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Se più sentenze di condanna divenute irrevocabili sono state pronunciate contro la stessa persona per il
medesimo fatto, il giudice ordina l’esecuzione della sentenza con cui si pronunciò la condanna meno
grave, revocando le altre. Questo è il conflitto pratico di giudicati evitando la violazione del divieto del ne
bis in idem. L’art. 669 è improntato al criterio generale del favor rei.
Quando le pene principali sono uguali, si tiene conto della eventuale applicazione di pene accessorie o di
misure di sicurezza e degli altri effetti penali. Quando le condanne sono identiche, si esegue la sentenza
divenuta irrevocabile per prima.
Quando le pene irrogate sono diverse, l’interessato può indicare la sentenza che deve essere eseguita.

Il controllo sull’esistenza e la validità del titolo esecutivo viene attivato su specifica richiesta di parte,
ma anche d’ufficio, e in via pregiudiziale, ogni volta che il giudice dell’esecuzione sia chiamato ad
intervenire per risolvere ogni altra questione: allora quando il giudice dell’esecuzione accerta che il
provvedimento manca o non è divenuto esecutivo, valutata anche nel merito l’osservanza delle garanzie
previste nel caso di irreperibilità del condannato, lo dichiara con ordinanza e sospende l’esecuzione,
disponendo, se occorre, la liberazione dell’interessato e la rinnovazione della notificazione non
validamente eseguita. In tal caso decorre nuovamente il termine per l’impugnazione.
Alcuni vizi possono essere così enucleati: casi della decisione emessa da un soggetto privo del potere
giurisdizionale o pronunciata in materia penale da un giudice civile o amministrativo; la sentenza di
condanna nei confronti dell’infraquattordicenne; la pronuncia emessa dal giudice in stato di coartazione
fisica o psichica.
Se il giudice dell’esecuzione rigetta la richiesta, il provvedimento resta ancora passibile di impugnazione
od opposizione: allora il giudice dell’esecuzione, dopo aver provveduto sulla richiesta dell’interessato,
trasmette gli atti al giudice di cognizione competente. La decisione del giudice dell’esecuzione non
pregiudica quella del giudice dell’impugnazione o dell’opposizione, il quale, se ritiene ammissibile il
gravame, sospende con ordinanza l’esecuzione che non sia già stata sospesa.

Nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa
persona, il condannato o il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione
della disciplina del concorso formale o del reato continuato, sempre che la stessa non sia stata esclusa
dal giudice della cognizione.

Particolarmente incisivo, in chiave risolutiva del giudicato, è l’intervento dell’esecuzione in materia di


abolitio criminis.
L’art 673 dispone che nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della
norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale
dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.
Allo stesso modo provvede quando è stata emessa sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere
per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità.
L’art 673 ha una portata ampia in quanto consente di chiedere al giudice dell’esecuzione la pronuncia più
favorevole con cui dichiara che il fatto non è previsto dalla legge come reato.
L’abolitio criminis può derivare da una declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma che individua
il fatto penalmente rilevante

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Vi è però un limiti all’applicazione di questa norma: non è considerato come abolitio criminis il mutamento
giurisprudenziale espresso dalla cassazione, anche a Sezioni Unite, che al fine di risolvere un contrasto
interpretativo, esclude la sussistenza del reato e afferma la mera illiceità amministrativa.
Qualora l’art 673 debba essere applicato, in presenza di abrogazione di una norma che colpisce solo alcune
imputazioni o solo alcuni dei reati unificati sotto il vincolo della continuazione, la Corte costituzionale
ritiene che il giudice dell’esecuzione deve determinare la pena residua. In presenza di una sentenza
plurima o complessa il giudice dovrà verificare se i capi e punti della sentenza potranno sopravvivere
all’intervento abrogante e poi rideterminare la pena residua.

La revoca di altri benefici come la sospensione condizionale della pena, la grazia o l’amnistia o l’indulto
condizionati e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale è disposta dal
giudice dell’esecuzione, qualora non sia stata disposta con la sentenza di condanna per altro reato.

In secondo luogo, il procedimento cartolare (de plano).


È caratterizzato da una decisione assunta inaudita altera parte, suscettibile di opposizione, con la quale
s’innesta la procedura in contraddittorio (art. 667 comma 4) e il diritto di difesa non è violato. In ogni modo
non si può prescindere dall’iniziativa di parte e cioè in ossequio al principio ne procedat iudex ex officio che
caratterizza la giurisdizione e a differenza del procedimento di sorveglianza dove l’iniziativa d’ufficio di
conforma alle peculiari funzioni della giurisprudenza penitenziaria.
La pronuncia del giudice è comunque con ordinanza motivata e viene comunicata al pubblico ministero e
notificata all’interessato, ma non al difensore potendosi ripercuotere sulla difesa tecnica dato che i termini
per l’opposizione sono molto stretti. È prevista – naturalmente – l’opposizione e sottostà al termine di 15
giorni dalla comunicazione o dalla notificazione dell’ordinanza: la richiesta va depositata in cancelleria
del giudice dell’esecuzione.
L’opposizione mira ad ottenere una decisione più meditata, frutto del dibattito dialettico, permettendo al
giudice di essere consapevole di ogni profilo. L’opposizione si svolgerà poi nelle forme dell’udienza
camerale ai sensi dell’art. 666, salvo che non venga dichiarata inammissibile.

Come detto all’inizio del capitolo, è funzionale a risolvere ipotesi predefinite in cui viene esplicitata una
modalità risolutiva caratterizzata dall’urgenza. Ha carattere eccezionale e non è suscettibile di
applicazione analogica. Si profila nei casi di dubbio sull’identità fisica del detenuto, persona condannata per
errore di nome, in ordine a provvedimenti di amnistia e indulto, nell’applicazione delle altre cause istintive e i
provvedimenti in materia di pene accessorie, di confisca e di restituzione delle cose sequestrate.
1. Nel caso in cui via un dubbio sulla identità fisica della persona detenuta, il giudice dell’esecuzione
deve provvedere all’interrogatorio della persona arrestata e compiere ogni accertamento utile per la sua
identificazione, anche attraverso la polizia giudiziaria.
2. Dall’errore di persona va distinto l’errore di nome che si riferisce non più all’identità fisica ma a quella
anagrafica. In questo caso il giudice dell’esecuzione provvede alla correzione nelle forme previste
dall’articolo 130 soltanto se la persona contro cui si doveva procedere è stata citata come imputato anche
sotto altro nome per il giudizio; invece se l’errore di persona abbia comportato la celebrazione del processo
nei confronti di una persona diversa da quella contro cui si sarebbe dovuto procedere, si dovrà procedere
a revisione, a norma dell’articolo 630 comma 1 lettera c), perché non si può procedere all’esecuzione di chi
sia rimasto estraneo. In ogni caso l’esecuzione contro la persona erroneamente condannata è sospesa.
3. Anche in questo caso dell’applicazione dell’amnistia o dell’indulto, il giudice dell’esecuzione procede
a norma dell’articolo 667 comma 4 (procedimento de plano).

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4. Quando accerta l’estinzione del reato o della pena, il giudice dell’esecuzione la dichiara anche di ufficio
adottando i provvedimenti conseguenti. È il caso sia delle cause di estinzione del reato (prescrizione,
dell’esito positivo della liberazione condizionale e dell’affidamento in prova), sia delle cause di estinzione
della pena (morte del reo dopo la condanna, prescrizione della pena, grazia).
Il giudice provvede in questi sensi anche all’applicazione, quando non lo abbia fatto il giudice di
cognizione, di una pena accessoria che consegua di diritto alla condanna e risulti predeterminata nella
specie e nella durata. In ultimo quando sorga una controversia sulle proprietà delle cose confiscate o
sequestrate è competente il giudice civile.

Esecuzione penitenziaria

La giurisdizione penitenziaria, o di sorveglianza, è competente riguardo alla pena, nella concreta


attuazione sotto il profilo rieducativo (art. 27 comma 3 Cost.), e alla misura di sicurezza, in rapporto alla
necessaria verifica della effettiva pericolosità sociale della persona.
È un sistema strutturalmente autonomo delineato nell’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975 n.
354).
La magistratura di sorveglianza si divide in un organo monocratico – il magistrato di sorveglianza – e da
un organo collegiale – il tribunale di sorveglianza.
La competenza per materia è disciplinata dalla legge 354/1975 e dall’art 677: la competenza a conoscere le
materie attribuite alla magistratura di sorveglianza appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza
che hanno giurisdizione sull’istituto di prevenzione o di pena in cui si trova l’interessato all’atto della
richiesta, della proposta o dell’inizio di ufficio del procedimento.
Quando l’interessato non è detenuto o internato, la competenza, se la legge non dispone diversamente,
appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza che ha giurisdizione sul luogo in cui l’interessato
ha la residenza o il domicilio. Se la competenza non può essere determinata secondo il criterio sopra
indicato, essa appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui fu pronunciata la
sentenza di condanna, di proscioglimento o di non luogo a procedere, e, nel caso di più sentenze di
condanna o di proscioglimento, al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui fu pronunciata
la sentenza divenuta irrevocabile per ultima.
Una volta radicatasi, la competenza sottostà al principio della perpetuatio iurisdictionis e pertanto
resisterà ad ogni mutamento di situazione.
Il magistrato di sorveglianza svolge sia funzioni amministrative di carattere ispettivo e consultivo, sia
funzioni giurisdizionali; mentre il tribunale di sorveglianza spettano solo funzioni giurisdizionali.
Quest’ultimo è inoltre competenza quale giudice di secondo grado a seguito di appello o reclamo.
Le funzioni di pubblico ministero sono esercitate, davanti al tribunale di sorveglianza, dal procuratore
generale presso la corte di appello e, davanti al magistrato di sorveglianza, dal procuratore della
Repubblica presso il tribunale della sede dell’ufficio di sorveglianza.

Quanto al procedimento di sorveglianza, si segue il procedimento delineato dall’art. 666 e dunque quello
camerale in contraddittorio. Tuttavia ci sono delle differenze.
In primo luogo, l’art. 678 consente l’iniziativa d’ufficio, in ragione del ruolo che assume l’organo
giurisdizionale di difesa dei diritti dei detenuti e di garante delle finalità rieducative della pena. Sono
inoltre ammessi il pubblico ministero, l’interessato e il difensore.

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In secondo luogo, con riguardo all’attività istruttoria, quando si procede nei confronti di persona
sottoposta a osservazione scientifica della personalità, il giudice acquisisce la relativa documentazione e
si avvale, se occorre, della consulenza dei tecnici del trattamento.
In terzo luogo, circa il momento deliberativo, vale il criterio per cui quando vi sia parità di voti, prevale il
criterio per cui prevale il voto del presidente.
Con la riforma del 2014 è ora previsto anche il procedimento de plano, formando una sorta di bipolarismo
anche nell’esecuzione penitenziaria.
Se il procedimento in contraddittorio è riservato tendenzialmente alle materie dove sono in gioco i diritti
fondamentali (come la libertà), quello cartolare segue l’esigenza della semplificazione e dell’economicità
del processo dunque risulterebbe applicato nei casi in cui la decisione comporti verifiche di carattere
documentale. Il comma 1 bis dell’art. 678 afferma che il magistrato di sorveglianza, nelle materie attinenti
alla rateizzazione e alla conversione delle pene pecuniarie, alla remissione del debito e alla esecuzione
della semidetenzione e della libertà controllata, ed il tribunale di sorveglianza, nelle materie relative alle
richieste di riabilitazione ed alla valutazione sull’esito dell’affidamento in prova al servizio sociale, anche
in casi particolari, procedono a norma dell’articolo 667 comma 4 per cui si prospetta una decisione del
tribunale inaudita altera parte. In caso di opposizione si procederebbe ai sensi dell’art. 666 ossia con
procedimento in contraddittorio.

Procedure particolari

Procedure e regole particolari sono previste in diverse disposizioni: misure di sicurezza, materia di
liberazione condizionale, di riabilitazione, di rinvio dell’esecuzione della pena, concessione della grazie.
Misura di sicurezza: quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata ordinata con sentenza,
o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero
o di ufficio, accerta se l’interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti
(come la modifica o la revoca), premessa, ove occorra, la dichiarazione di abitualità o professionalità nel
reato.
Provvede altresì, su richiesta del pubblico ministero, dell’interessato, del suo difensore o di ufficio, su ogni
questione relativa nonché sulla revoca della dichiarazione di tendenza a delinquere. Il magistrato di
sorveglianza sovraintende alla esecuzione delle misure di sicurezza personali.
Competente quale giudice di secondo grado è il tribunale di sorveglianza. L’appello non ha effetto
sospensivo.
La grazia: a domanda di grazia, diretta al presidente della Repubblica, è sottoscritta dal condannato o da
un suo prossimo congiunto o dal convivente o dal tutore o dal curatore ovvero da un avvocato o
procuratore legale ed è presentata al ministro di grazia e giustizia.
Se il condannato è detenuto o internato, la domanda può essere presentata al magistrato di sorveglianza,
il quale, acquisiti tutti gli elementi di giudizio utili e le osservazioni del procuratore generale presso la
corte di appello del distretto ove ha sede il giudice dell’esecuzione, la trasmette al ministro con il proprio
parere motivato. Se il condannato non è detenuto o internato, la domanda può essere presentata al predetto
procuratore generale, il quale, acquisite le opportune informazioni, la trasmette al ministro con le proprie
osservazioni.
La proposta di grazia è sottoscritta dal presidente del consiglio di disciplina ed è presentata al magistrato
di sorveglianza.

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La grazia può essere concessa anche in assenza di domanda o proposta. Emesso il decreto di grazia, il
pubblico ministero presso il giudice indicato nell’articolo 665 ne cura la esecuzione ordinando, quando è
il caso, la liberazione del condannato e adottando i provvedimenti conseguenti.
Liberazione condizionale: il tribunale di sorveglianza decide sulla concessione e sulla revoca della
liberazione condizionale. Se la liberazione non è concessa per difetto del requisito del ravvedimento, la
richiesta non può essere riproposta prima che siano decorsi sei mesi dal giorno in cui è divenuto
irrevocabile il provvedimento di rigetto.
Riabilitazione: tale procedimento deve prendere avvio con la richiesta dell’interessato e allora il tribunale
di sorveglianza decide sulla riabilitazione. Decide altresì sulla revoca, qualora essa non sia stata disposta
con la sentenza di condanna per altro reato.
Nella richiesta sono indicati gli elementi dai quali può desumersi la sussistenza delle condizioni previste
dall’articolo 179 c.p. ossia il decorso di un determinato termine dal giorno in cui la pena è stata eseguita o
si è estinta, altresì le prove effettive e costanti di buona condotta e infine l’assenza delle condizioni ostative.
Il tribunale acquisisce la documentazione necessaria.
Il rinvio dell’esecuzione della pena: il tribunale di sorveglianza provvede in ordine al differimento
dell’esecuzione delle pene detentive e delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà
controllata nei casi previsti dagli articoli 146 e 147 c.p. Il tribunale ordina, quando occorre, la liberazione
del detenuto e adotta gli altri provvedimenti conseguenti. Risultano esserci due tipi di rinvio: uno
obbligatorio (art. 146) e l’altro facoltativo (art. 147).
Quando vi è fondato motivo per ritenere che sussistono i presupposti perché il tribunale disponga il rinvio,
il magistrato di sorveglianza può ordinare il differimento dell’esecuzione o, se la protrazione della
detenzione può cagionare grave pregiudizio al condannato, la liberazione del detenuto. Il provvedimento
conserva effetto fino alla decisione del tribunale, al quale il magistrato di sorveglianza trasmette
immediatamente gli atti.

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I RAPPORTI CON LE AUTORITÁ STRANIERE

Spazio penale europeo e cooperazione giudiziaria internazionale

Le estradizioni, le rogatorie internazionali, gli effetti delle sentenze penali straniere, l’esecuzione all’estero
delle sentenze penali italiane e gli altri rapporti con le autorità straniere, relativi all’amministrazione della
giustizia in materia penale, sono disciplinati dalle norme della Convenzione europea di assistenza
giudiziaria in materia firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959 e dalle altre norme delle convenzioni
internazionali in vigore per lo Stato e dalle norme di diritto internazionale generale.
La cooperazione internazionale ha così dato vita ad uno spazio penale europeo all’interno del quale
l’interesse alla collaborazione prevale sull’interesse del singolo Stato. Sono stati creati vari istituiti come: il
Sistema di Informazione di Schengen (S.I.S), l’Eurojust, l’Europol (ufficio europeo di polizia) e la Rete
Giudiziaria Europea, tutti volti ad una semplificazione nell’ambito di cooperazione in ambito investigativo
e scambio di informazioni.
Il Sistema di Informazione di Schengen è un sistema automatizzato per la gestione e lo scambio di
informazioni tra i paesi aderenti alla convenzione: infatti su segnalazione delle parti, in esso sono inseriti
dati riguardanti persone ricercate per vari motivi. L’obiettivo è garantire l’ordine pubblico e la sicurezza
pubblica e di assicurare l’applicazione delle disposizioni sulla circolazione delle persone.
L’Eurojust è una unità di magistrati con la missione di contribuire ad un migliore coordinamento delle autorità
nazionali incaricate delle azioni penali: operano in ambito della criminalità transnazionale in particolare con
la criminalità organizzata.
L’Europol si occupa di intelligence in ambito criminale è ha la doppia funzione di offrire uno scambio di
informazioni e di concreto supporto alle indagini.
La Rete Giudiziaria Europea ha il compito di agevolare la cooperazione giudiziaria fra gli stati membri,
fornendo informazioni giuridiche e burocratiche di cui necessitino nella presentazione delle domande di
cooperazione.

Estradizione

L’estradizione è lo strumento per la consegna di un persona da parte dello Stato in cui questa si trova ad
altro Stato che deve invece giudicarla (estradizione cognitiva) o che intende dare esecuzione ad una
condanna già pronunciata (estradizione esecutiva).
Si divide altresì in estradizione attiva (o dall’estero) e in estradizione passiva (o per l’estero).

Estradizione per l’estero


È l’art. 697 che prende le redini dello strumento di cooperazione internazionale stabilendo che è la
consegna a uno Stato estero di una persona per l’esecuzione di una sentenza straniera di condanna a pena
detentiva o di altro provvedimento restrittivo della libertà personale può aver luogo soltanto mediante
estradizione. Una sorta di principio di legalità dell’estradizione.
La decisione compete al ministro della giustizia, ma è sempre vincolato a rispettare la decisione della
corte d’appello o della corte di cassazione che funge da garanzia giurisdizionale. Non vi sarebbe però una
violazione della garanzia giurisdizionale nel momento in cui il soggetto consenta all’estradizione.

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L’estradizione è consentita soltanto sulla base di una domanda alla quale sia allegata copia del
provvedimento restrittivo della libertà personale o della sentenza di condanna a pena detentiva che ha
dato luogo alla domanda stessa.
Alla domanda devono essere allegati: a) una relazione sui fatti addebitati alla persona della quale è
domandata l’estradizione, con l’indicazione del tempo e del luogo di commissione dei fatti stessi e della
loro qualificazione giuridica; b) il testo delle disposizioni di legge applicabili, con l’indicazione se per il
fatto per cui è domandata l’estradizione è prevista dalla legge dello Stato estero la pena di morte e, in tal
caso, quali assicurazioni lo Stato richiedente fornisce che tale pena non sarà inflitta o, se già inflitta, che
non sarà eseguita; c) i dati segnaletici e ogni altra possibile informazione atta a determinare l’identità e la
nazionalità della persona della quale è domandata l’estradizione.
Nel caso in cui ci fosse un concorso di più domande di estradizione, il ministro di grazia e giustizia ne
stabilisce l’ordine di precedenza. A tal fine egli tiene conto di tutte le circostanze del caso e in particolare
della data di ricezione delle domande, della gravità e del luogo di commissione del reato o dei reati, della
nazionalità e della residenza della persona richiesta e della possibilità di una riestradizione dallo Stato
richiedente a un altro Stato.

L’art. 699 recepisce un principio (di specialità) di diritto internazionale volto ad imprimere ai rapporti
internazionali la maggiore precisione di contenuto al fine di evitare malintesi: infatti la concessione
dell’estradizione, l’estensione dell’estradizione già concessa e la riestradizione sono sempre subordinate alla
condizione espressa che, per un fatto anteriore alla consegna diverso da quello per il quale l’estradizione
è stata concessa o estesa ovvero da quello per il quale la riestradizione è stata concessa, l’estradato non
venga sottoposto a restrizione della libertà personale in esecuzione di una pena o misura di sicurezza
né assoggettato ad altra misura restrittiva della libertà personale né consegnato ad altro Stato.
La clausola in esame però non ha effetto assoluto, ma vi sono delle limitazioni. Infatti tale disposizione
non si applica quando l’estradato, avendone avuta la possibilità, (1) non ha lasciato il territorio dello Stato al
quale è stato consegnato trascorsi 45 giorni dalla sua definitiva liberazione ovvero, avendolo lasciato, (2) vi ha
fatto volontariamente ritorno. È contemplata la «purgazione» dell’estradizione quale condizione risolutiva
degli effetti medesimi, stabilendo di conseguenza che gli effetti della clausola di specialità sono tuttavia
limitati. Si tratta del comma 2 dell’art. 669.
Il ministro può inoltre subordinare la concessione dell’estradizione ad altre condizioni che ritiene
opportune. Il ministro verifica altresì l’osservanza della condizione di specialità e delle altre condizioni
eventualmente apposte.
La previsione della specialità è considerata rientrante nella categoria delle norme consuetudinarie del
diritto internazionale generale: svolge una funzione di garanzia successiva, cioè ad estradizione avvenuta,
posta a salvaguardia degli obblighi che gli stati, con la richiesta di estradizione, in modo implicito ma
inequivocabile, si impegnano ad osservare.
La violazione di tale clausola comporta un illecito internazionale censurabile a livello di rapporti tra stati.

L’estradizione di un imputato o di un condannato all’estero non può essere concessa senza la decisione
favorevole della corte di appello, determinando quindi che tale istituto è subordinato alla garanzia
giurisdizionale. Tuttavia, non si fa luogo al giudizio della corte di appello quando l’imputato o il
condannato all’estero acconsente all’estradizione richiesta. Dunque l’omissione della garanzia
giurisdizionale è prevista quando l’estradando faccia espressa domanda di essere consegnato allo stato
interessato all’estradizione. Il consenso infatti rende superfluo il controllo giurisdizionale. La domanda

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deve essere formulata alla presenza del difensore o dal presidente della corte d’appello e dettagliatamente
verbalizzata.
È dunque ravvisabile un ostacolo all’estrinsecazione dei poteri del ministro della giustizia, il quale non è
legittimato a concedere l’estradizione se l’autorità giudiziaria non abbia riconosciuto la contemporanea
sussistenza di tutti i requisiti di legge.
La competenza a decidere appartiene, nell’ordine, alla corte di appello nel cui distretto l’imputato o il
condannato ha la residenza, la dimora o il domicilio nel momento in cui la domanda di estradizione
perviene al ministro di grazia e giustizia ovvero alla corte di appello che ha ordinato l’arresto provvisorio
previsto dall’articolo 715 o alla corte di appello il cui presidente ha provveduto alla convalida dell’arresto
previsto dall’articolo 716. Se la competenza non può essere determinata nei modi così indicati, è
competente la corte di appello di Roma.
Quando riceve da uno Stato estero una domanda di estradizione, il ministro di grazia e giustizia la
trasmette con i documenti che vi sono allegati al procuratore generale presso la corte di appello
competente a norma dell’articolo 701 comma 4, salvo che ritenga che essa vada respinta, apponendovi un
veto – senz’altro dopo aver valutato ragioni politiche.
Le attività probatorie del pubblico ministero sono descritte nell’art. 703: il procuratore generale, ricevuta
la domanda, dispone la (1) comparizione davanti a sé dell’interessato per provvedere alla sua identificazione e
per raccogliere l’eventuale consenso all’estradizione. L’interessato è avvisato che è assistito da un difensore di
ufficio, ma che può nominarne uno di fiducia. Il difensore ha diritto di assistere all’atto del cui compimento
gli è dato avviso almeno 24 ore prima. Inoltre il procuratore generale (2) richiede alle autorità straniere, per
mezzo del ministro di grazia e giustizia, la documentazione e le informazioni che ritiene necessarie.
Il procuratore generale, entro 3 mesi dalla data in cui la domanda di estradizione gli è pervenuta, presenta
alla corte di appello la requisitoria, ossia la volontà di procedere nei confronti dell’estradando. La requisitoria
è poi depositata nella cancelleria della corte di appello, unitamente agli atti e alle cose sequestrate. La
cancelleria cura la notificazione dell’avviso del deposito alla persona della quale è richiesta l’estradizione,
al suo difensore e all’eventuale rappresentante dello Stato richiedente, i quali, entro 10 giorni, hanno
facoltà di prendere visione e di estrarre copia della requisitoria e degli atti nonché di esaminare le cose
sequestrate e di presentare memorie.
Una volta ricevuta la richiesta di giudizio sull’estradizione, il presidente della corte d’appello fissa
l’udienza per la decisione: a condizione di reciprocità, lo Stato richiedente ha la facoltà di intervenire nel
procedimento davanti alla corte di appello e alla corte di cassazione facendosi rappresentare da un
avvocato abilitato al patrocinio davanti all’autorità giudiziaria italiana.
Una volta scaduto il termine di 15 giorni, il presidente della corte fissa l’udienza per la decisione, con
decreto da comunicarsi al procuratore generale e da notificarsi alla persona della quale è richiesta
l’estradizione, al suo difensore e all’eventuale rappresentante dello Stato richiedente, almeno 10 giorni
prima, a pena di nullità. Provvede inoltre a designare un difensore di ufficio alla persona che ne sia priva.
Fino a 5 giorni prima dell’udienza possono essere presentate memorie in cancelleria.
La corte decide con sentenza in camera di consiglio sull’esistenza delle condizioni per l’accoglimento
della domanda di estradizione, dopo aver assunto le informazioni e disposto gli accertamenti ritenuti
necessari e dopo aver sentito il pubblico ministero, il difensore e, se compaiono, la persona della quale è
richiesta l’estradizione e il rappresentante dello Stato richiedente. È tutelato il contraddittorio.
Si aprono due vie: o la decisione è positiva o negativa.
Quando la decisione è contraria all’estradizione, la corte revoca le misure cautelari applicate e dispone in
ordine alla restituzione delle cose sequestrate. La corte di appello pronuncia comunque sentenza contraria
all’estradizione: a) se, per il reato per il quale l’estradizione è stata domandata, la persona è stata o sarà

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sottoposta a un procedimento che non assicura il rispetto dei diritti fondamentali; b) se la sentenza per la
cui esecuzione è stata domandata l’estradizione contiene disposizioni contrarie ai principi fondamentali
dell’ordinamento giuridico dello Stato; c) se vi è motivo di ritenere che la persona verrà sottoposta agli
atti, alle pene o ai trattamenti indicati nell’articolo 698 comma 1, cioè: non può essere concessa
l’estradizione per un reato politico né quando vi è ragione di ritenere che l’imputato o il condannato verrà
sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di
lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali ovvero a pene o trattamenti crudeli,
disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della
persona.
Quando la decisione è favorevole all’estradizione, la corte, se vi è richiesta del ministro di grazia e
giustizia, dispone la custodia cautelare in carcere della persona da estradare che si trovi in libertà e
provvede al sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato, stabilendo quali documenti e cose
sequestrate possono essere consegnati allo Stato richiedente. È pronunciata sentenza favorevole
all’estradizione quando non esiste convenzione o questa non dispone diversamente; la corte di appello
pronuncia sentenza favorevole all’estradizione se sussistono gravi indizi di colpevolezza ovvero se esiste
una sentenza irrevocabile di condanna e se, per lo stesso fatto, nei confronti della persona della quale è
domandata l’estradizione, non è in corso procedimento penale né è stata pronunciata sentenza irrevocabile
nello Stato.

Quanto alle misure cautelari, sono gli artt. 714-719 che disciplinano la materia che descrivono i meccanismi
in basi ai quali è possibile applicare le misure di cautela personale o reale in funzione del procedimento
estradizionale. I poteri cautelari devono rimanere circoscritti nei limiti risultanti dalla disciplina ordinaria:
il riferimento è al pericolo di fuga dell’estradando.
La competenza appartiene alla corte d’appello, o nel corso del procedimento d’impugnazione, alla corte
di cassazione.
In ogni tempo la persona della quale è domandata l’estradizione può essere sottoposta, a richiesta del
ministro di grazia e giustizia, a misure coercitive. Parimenti, in ogni tempo, può essere disposto, a richiesta
del ministro di grazia e giustizia, il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato per il quale
è domandata l’estradizione. Le misure coercitive e il sequestro non possono comunque essere disposti se
vi sono ragioni per ritenere che non sussistono le condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione.
Le misure coercitive sono revocate se dall’inizio della loro esecuzione è trascorso 1 anno senza che la corte
di appello abbia pronunciato la sentenza favorevole all’estradizione ovvero, in caso di ricorso per
cassazione contro tale sentenza, 1 anno e 6 mesi senza che sia stato esaurito il procedimento davanti
all’autorità giudiziaria. A richiesta del procuratore generale, detti termini possono essere prorogati, anche
più volte, per un periodo complessivamente non superiore a 3 mesi, quando è necessario procedere ad
accertamenti di particolare complessità.
Su domanda dello Stato estero e a richiesta motivata del ministro di grazia e giustizia, la corte di appello
può disporre, in via provvisoria, una misura coercitiva prima che la domanda di estradizione sia
pervenuta (art. 715). La misura può essere disposta se: a) lo Stato estero ha dichiarato che nei confronti
della persona è stato emesso provvedimento restrittivo della libertà personale ovvero sentenza di
condanna a pena detentiva e che intende presentare domanda di estradizione; b) lo Stato estero ha fornito
la descrizione dei fatti, la specificazione del reato e gli elementi sufficienti per l’esatta identificazione della
persona; c) vi è pericolo di fuga.
La competenza a disporre la misura appartiene, nell’ordine, alla corte di appello nel cui distretto la persona
ha la residenza, la dimora o il domicilio ovvero alla corte di appello del distretto in cui risulta che la

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persona si trova. Se la competenza non può essere determinata nei modi così indicati, è competente la corte
di appello di Roma.
Il ministro di grazia e giustizia dà immediata comunicazione allo Stato estero dell’applicazione in via
provvisoria della misura coercitiva e dell’eventuale sequestro. Le misure cautelari sono revocate se entro
45 giorni dalla predetta comunicazione non sono pervenuti al ministero degli affari esteri o a quello di
grazia e giustizia la domanda di estradizione e i documenti previsti dall’articolo 700.
Nei casi di urgenza, la polizia giudiziaria (art. 716) può procedere all’arresto della persona nei confronti
della quale sia stata presentata domanda di arresto provvisorio se ricorrono le condizioni previste
dall’articolo 715 comma 2. Essa provvede altresì al sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al
reato.
L’autorità che ha proceduto all’arresto ne informa immediatamente il ministro di grazia e giustizia e al
più presto, e comunque non oltre 48 ore, pone l’arrestato a disposizione del presidente della corte di
appello nel cui distretto l’arresto è avvenuto, mediante la trasmissione del relativo verbale.
Quando non deve disporre la liberazione dell’arrestato, il presidente della corte di appello, entro 96 ore
dall’arresto, lo convalida con ordinanza disponendo l’applicazione di una misura coercitiva. Dei
provvedimenti dati informa immediatamente il ministro di grazia e giustizia. La misura coercitiva è
revocata se il ministro di grazia e giustizia non ne chiede il mantenimento entro 10 giorni dalla convalida.
Quando è stata applicata una misura coercitiva a norma degli articoli 714, 715 e 716, il presidente della
corte di appello, al più presto e comunque entro 5 giorni dalla esecuzione della misura ovvero dalla
convalida prevista dall’articolo 716, provvede, all’identificazione della persona e ne raccoglie l’eventuale
consenso all’estradizione facendone menzione nel verbale. Vi è l’audizione della persona sottoposta a
misura coercitiva.
La revoca e la sostituzione delle misure previste dagli articoli precedenti sono disposte in camera di
consiglio dalla corte di appello o, nel corso del procedimento davanti alla corte di cassazione, dalla corte
medesima. La revoca è sempre disposta se il ministro di grazia e giustizia ne fa richiesta.
Copia dei provvedimenti emessi dal presidente della corte di appello o dalla corte di appello a norma degli
articoli precedenti è comunicata e notificata, dopo la loro esecuzione, al procuratore generale presso la
corte di appello, alla persona interessata e al suo difensore, i quali possono proporre ricorso per cassazione
per violazione di legge.

Quanto alla decisione sull’estradizione passiva, la sentenza è ricorribile per cassazione e i legittimati al
ricorso sono l’estradando, il difensore, il pubblico ministero e il rappresentate dello stato estero. La corte
procede ad un tipico giudizio di secondo grado: pertanto può assumere le informazioni e compiere le
indagini che ritenga necessarie in relazione ai motivi di impugnazione ai fini della sua decisione. La corte
di cassazione inoltre delibera in camera di consiglio, con sentenza, dopo aver sentito le parti.
In ogni caso la sentenza contraria all’estradizione preclude la pronuncia di una successiva sentenza
favorevole a seguito di un’ulteriore domanda presentata per i medesimi fatti dallo stesso Stato, salvo che
la domanda sia fondata su elementi che non siano già stati valutati dall’autorità giudiziaria.

Quanto invece alle modalità esecutive alla fase successiva alla garanzia giurisdizionale, cioè in caso di
sentenza positiva all’estradizione da parte della corte d’appello, il ministro di grazia e giustizia decide in
merito all’estradizione (1) entro 45 giorni dalla ricezione del verbale che dà atto del consenso
all’estradizione ovvero (2) dalla notizia della scadenza del termine per l’impugnazione o dal (3) deposito
della sentenza della corte di cassazione.

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Scaduto tale termine senza che sia intervenuta la decisione del ministro, la persona della quale è stata
chiesta l’estradizione, se detenuta, è posta in libertà. La persona medesima è altresì posta in libertà in caso
di diniego dell’estradizione.
Il ministro di grazia e giustizia comunica senza indugio allo Stato richiedente la decisione e, se questa è
positiva, il luogo della consegna e la data a partire dalla quale sarà possibile procedervi, dando altresì
precise indicazioni circa le limitazioni alla libertà personale subite dall’estradando ai fini dell’estradizione.
Il termine per la consegna è di 15 giorni e, a domanda motivata dello Stato richiedente, può essere
prorogato di altri 20 giorni.
Il provvedimento di concessione dell’estradizione perde efficacia se, nel termine fissato, lo Stato
richiedente non provvede a prendere in consegna l’estradando; in tal caso quest’ultimo viene posto in
libertà.
L’esecuzione dell’estradizione è sospesa se l’estradando deve essere giudicato nel territorio dello Stato o
vi deve scontare una pena per reati commessi prima o dopo quello per il quale l’estradizione è stata
concessa. Tuttavia il ministro di grazia e giustizia, sentita l’autorità giudiziaria competente per il
procedimento in corso nello Stato o per l’esecuzione della pena, può procedere alla consegna temporanea
allo Stato richiedente della persona da estradare ivi imputata, concordandone termini e modalità.
Gli artt. 710 e 711 prevedono l’estradizione suppletiva e la riestradizione.
La prima. In caso di nuova domanda di estradizione, presentata dopo la consegna dell’estradato e avente
a oggetto un fatto anteriore alla consegna diverso da quello per il quale l’estradizione è già stata concessa,
si osservano, in quanto applicabili, tutte le disposizioni già analizzate. Alla domanda devono essere
allegate le dichiarazioni della persona interessata, rese davanti a un giudice dello Stato richiedente, in
ordine alla richiesta estensione dell’estradizione.
La seconda. Le disposizioni dell’articolo 710 si applicano anche nel caso in cui lo Stato al quale la persona
è stata consegnata domanda il consenso alla riestradizione della stessa persona verso un altro Stato. La
ratio è chiara: se lo stato fosse libero di riestradare la persona che gli è stata consegnata, attraverso questa
via sarebbe conseguito il risultato di farla punire da un terzo stato, non tenuto al rispetto della clausola di
specialità, per fatti magari non compresi nell’originaria domanda di estradizione.
In entrambi casi viene meno il principio di specialità.
L’art. 712 prevede il transito: il transito attraverso il territorio dello Stato di una persona estradata da uno
ad altro Stato è autorizzato, su domanda di quest’ultimo, dal ministro di grazia e giustizia, salvo che il
transito non comprometta la sovranità, la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato.
Il transito però non può essere autorizzato: a) se l’estradizione è stata concessa per fatti non previsti come
reati dalla legge italiana; b) se ricorre taluna delle ipotesi previste dall’articolo 698 comma 1 ovvero l’ipotesi
prevista dal comma 2 dello stesso articolo se lo Stato richiedente non dia assicurazione che la pena di morte
non sia inflitta o, se già inflitta, non sarà eseguita; c) se si tratta di un cittadino italiano e la sua estradizione
allo Stato che ha richiesto il transito non potrebbe essere concessa.

Estradizione attiva
Quando occorre chiedere ad uno stato estero l’estradizione di una persona, imputata o condannata in
Italia, si parla di estradizione attiva. È l’art. 720 che ne disciplina la sostanza: il ministro di grazia e
giustizia è competente a domandare a uno Stato estero l’estradizione di un imputato o di un condannato
nei cui confronti debba essere eseguito un provvedimento restrittivo della libertà personale. A tal fine il
procuratore generale presso la corte di appello nel cui distretto si procede o è stata pronunciata la sentenza
di condanna, al quale è da attribuirgli l’iniziativa, ne fa richiesta al ministro di grazia e giustizia,

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trasmettendogli gli atti e i documenti necessari. L’estradizione comunque può essere domandata di
propria iniziativa dal ministro di grazia e giustizia.
Dunque ogni potere di decisione e di attivazione è rimesso al ministro che è tenuto ad informare delle
proprie decisioni l’autorità giudiziaria procedente.
Una volta ritenuta l’opportunità dell’estradizione, il ministro ne formula richiesta al ministro degli esteri
oppure al rappresentante diplomatico in Italia dello stato straniero.
Il ministro di grazia e giustizia è competente a decidere in ordine all’accettazione delle condizioni
eventualmente poste dallo Stato estero per concedere l’estradizione, purché non contrastanti con i principi
fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano e di conseguenza l’autorità giudiziaria è vincolata al
rispetto delle condizioni accettate.
Il ministro di grazia e giustizia può disporre, al fine di estradizione, le ricerche all’estero dell’imputato o
del condannato e domandarne l’arresto provvisorio: applicazione di una sorta di misura cautelare per
evitarne il pericolo di fuga e di garantirne l’estradizione. La custodia cautelare all’estero in conseguenza
di una domanda di estradizione presentata dallo Stato è computata ai soli effetti della durata complessiva
stabilita dall’articolo 303 comma 4, ma la Corte costituzionale con sentenza 21 luglio 2004, n. 253 ha
dichiarato l’illegittimità del presente articolo nella parte in cui non prevede che la custodia cautelare
all’estero in conseguenza di una domanda di estradizione presentata dallo Stato sia computata anche agli
effetti della durata dei termini di fase previsti dall’art. 303, commi 1, 2 e 3, del codice di procedura penale.

È naturale che anche nel procedimento attivo di estradizione sia prevista la clausola di specialità (art. 721),
anche se ora è necessario cambiare punto di vista diversamente da quella prevista nell’art. 699 riguardo
l’estradizione passiva. Ecco allora che la persona estradata non può essere sottoposta a restrizione della
libertà personale in esecuzione di una pena o misura di sicurezza né assoggettata ad altra misura restrittiva
della libertà personale per un fatto anteriore alla consegna diverso da quello per il quale l’estradizione è
stata concessa, salvo che vi sia l’espresso consenso dello Stato estero o che l’estradato, avendone avuta la
possibilità, non abbia lasciato il territorio dello Stato trascorsi quarantacinque giorni dalla sua definitiva
liberazione ovvero che, dopo averlo lasciato, vi abbia fatto volontariamente ritorno. Consiste – come visto
precedentemente – in un livello di garanzia, al di sotto del quale è precluso avventurarsi, costituendo una
salvaguardia contro qualsiasi restrizione della libertà personale in esecuzione di una pena o misura di
sicurezza nonché contro ogni altra misura restrittiva della libertà personale. I provvedimenti emessi in
violazione di suddetta clausola comporterebbero a un risultato inesistente o abnorme.
Quanto le attività di acquisizione probatoria che si possono compiere nel procedimento principale
pendente, si rimanda a quanto si è detto in ambito di estradizione passiva.

Mandato d’arresto europeo

Incarna una procedura estradizionale semplificata, coerentemente al presupposto condiviso di una


piattaforma comune di valori, di cultura e di rispetto per i diritti della persona dello spazio comune
europeo. È previsto nella legislazione speciale interna, disciplinato da una procedura ad hoc. Il mandato
d’arresto europeo è una decisione giudiziaria emessa da uno Stato membro dell’Unione europea, di
seguito denominato «Stato membro di emissione», in vista dell’arresto e della consegna da parte di un
altro Stato membro, di seguito denominato «Stato membro di esecuzione», di una persona, al fine
dell’esercizio di azioni giudiziarie in materia penale o dell’esecuzione di una pena o di una misura di
sicurezza privative della libertà personale.
Sono previste altresì due tipi di procedura: una attiva e una passiva.

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La legge di riferimento è la L. 69 del 2005.

Mandato d’arresto europeo passivo


È fondato sui corollari della tempestività, dell’effettività e del reciproco affidamento tra ordinamenti che,
con l’estradizione, sono di difficile realizzazione.
Dunque si è dato adito ad una procedura semplificata, alla quale si dà avvio attraverso l’emissione di un
mandato d’arresto contenente alcuni requisiti che vanno dalle generalità del ricercato all’elenco delle
norme che si assumono violate.
Il mandato perviene al ministro della giustizia che lo trasmette al presidente della corte d’appello
competente. Quest’ultima è chiamata a verificare la ricorrenza dei presupposti fissati dalla legge per
pervenire alla decisione, spingendosi fino alla valutazione sulla sussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza.
La consegna di un imputato o di un condannato all’estero non può essere concessa senza la decisione
favorevole della corte di appello.
La competenza a dare esecuzione a un mandato d’arresto europeo appartiene, nell’ordine, alla corte di
appello nel cui distretto l’imputato o il condannato ha la residenza, la dimora o il domicilio nel momento
in cui il provvedimento è ricevuto dall’autorità giudiziaria. Se la competenza non può essere determinata
in questo senso, è competente la corte di appello di Roma.
Quando uno stesso fatto è oggetto di più mandati di arresto emessi contestualmente dall’autorità
giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea a carico di più persone e non è possibile determinare
la competenza, è competente la corte di appello del distretto in cui hanno la residenza, la dimora o il
domicilio il maggior numero delle persone ovvero, se anche in tale modo non è possibile determinare la
competenza, la corte di appello di Roma.
La consegna della persona arrestata allo stato richiedente è sempre subordinata alla mancanza delle
condizioni ostative delineate. E il giudice è tenuto ad esperire un vaglio concreto in ordine alla loro
sussistenza. Infatti la consegna è sempre subordinata alla condizione che, per un fatto anteriore alla stessa
e diverso da quello per il quale è stata concessa, la persona non venga sottoposta a un procedimento
penale, né privata della libertà personale in esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza, né
altrimenti assoggettata ad altra misura privativa della libertà personale (principio di specialità).
Sono comunque previde delle eccezioni e la clausola di specialità non si applica quando: a) il soggetto
consegnato, avendone avuta la possibilità, non ha lasciato il territorio dello Stato al quale è stato
consegnato decorsi quarantacinque giorni dalla sua definitiva liberazione ovvero, avendolo lasciato, vi ha
fatto volontariamente ritorno; b) il reato non è punibile con una pena o con una misura di sicurezza
privative della libertà personale; c) il procedimento penale non consente l’applicazione di una misura
restrittiva della libertà personale; d) la persona è soggetta a una pena o a una misura che non implica la
privazione della libertà, ivi inclusa una misura pecuniaria, anche se può limitare la sua libertà personale;
e) il ricercato ha acconsentito alla propria consegna, oltre a rinunciare al principio di specialità con le forme
di cui all’articolo 14; f) dopo essere stata consegnata, la persona ha espressamente rinunciato a beneficiare
del principio di specialità rispetto a particolari reati anteriori alla sua consegna.

Anche nel mandato d’arresto europeo è possibile l’applicazione di una misura cautelare coercitiva. Infatti
il presidente, compiuti gli adempimenti urgenti, riunisce la corte di appello che, sentito il procuratore
generale, procede, con ordinanza motivata, a pena di nullità, all’applicazione della misura coercitiva, se
ritenuta necessaria, tenendo conto in particolare dell’esigenza di garantire che la persona della quale è
richiesta la consegna non si sottragga alla stessa. Le misure coercitive non possono essere disposte se vi

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sono ragioni per ritenere che sussistono cause ostative alla consegna. Entro 5 giorni dall’applicazione della
misura, il magistrato procede a sentire la persona ristretta in presenza del difensore, informandola del
contenuto del mandato d’arresto e della possibilità di prestare il consenso alla consegna. Entro 20 giorni
deve essere fissare l’udienza in camera di consiglio e disposto il deposito del mandato d’arresto con le
allegazioni attinenti ai fatti addebitati, alle fonti di prova ed ai dati utili per la decisione sulla consegna.
Se entro 10 giorni dall’applicazione della misura non perviene il mandato d’arresto, il provvedimento
restrittivo perde efficacia.

È la corte d’appello che deve decidere con sentenza, in camera di consiglio, sull’esistenza delle
condizioni per l’accoglimento della richiesta di consegna, sentite le parti nel rispetto del contraddittorio;
qualora ritenga insufficienti ai fini del decidere la documentazione e le informazioni trasmesse dallo stato
membro di emissione, può richiedere allo stesso, direttamente o tramite il ministro, le informazioni
integrative occorrenti: queste devono essere prodotte entro il termine ordinatorio di 30 giorni (termine che
decorre dalla richiesta). Se non si ottengono entro tale termine, l’interessato avrebbe il diritto a essere
rimesso in libertà. La corte poi può disporre d’ufficio o su richiesta delle parti ogni ulteriore accertamento
che ritiene necessario alla fine della decisione.
Durante l’attesa per la decisione, possono essere posti in atto alcuni provvedimenti: infatti se il mandato
d’arresto europeo è stato emesso nel corso di un procedimento penale, il presidente della corte di appello,
su richiesta dell’autorità giudiziaria emittente e al fine di consentire le indagini urgenti dalla stessa
ritenute necessarie, autorizza l’interrogatorio della persona richiesta in consegna, ovvero ne dispone il
trasferimento temporaneo nello Stato membro di emissione.
Il presidente della Corte d’appello fissa con decreto l’udienza in camera di consiglio per la decisione entro
il termine e di 20 giorni dall’esecuzione della misura coercitiva eventualmente applicata e dispone il
deposito del mandato di arresto e della documentazione.
La Corte deve emettere la decisione entro il termine di 60 giorni dall’esecuzione della misura cautelare,
salvo casi di forza maggiore e informato lo Stato richiedente. Qualora non si rispettino questi limiti, il
soggetto è rimesso in libertà.
Vi sono dei presupposti per la consegna: si richiede la doppia punibilità (quindi che il fatto sia previsto
anche dalla legge italiana come reato) e che il fatto sia punito con una pena o misura di sicurezza privativa
della libertà la cui pena massima non sia inferiore a 12 mesi.
Quando procede a sentire la persona della quale è stata richiesta la consegna, il presidente della corte di
appello, o il magistrato da lui delegato, raccoglie l’eventuale consenso alla consegna, alla presenza del
difensore e, se necessario, dell’interprete. Del consenso e delle modalità con cui è stato prestato si dà atto
in apposito verbale. Il consenso è irrevocabile. La persona arrestata è preventivamente informata della
irrevocabilità del consenso e della rinuncia.
Nel caso che il consenso sia stato validamente espresso, la corte di appello provvede con ordinanza emessa
senza ritardo e, comunque, non oltre dieci giorni, alla decisione sulla richiesta di esecuzione, dopo avere
sentito il procuratore generale, il difensore e, se comparsa, la persona richiesta in consegna.

Contro i provvedimenti che decidono sulla consegna della persona interessata, il suo difensore e il
procuratore generale presso la corte di appello possono proporre ricorso per cassazione, anche per il
merito, entro dieci giorni dalla conoscenza legale dei provvedimenti.
Il ricorso sospende l’esecuzione della sentenza.
La Corte di cassazione decide con sentenza entro 15 giorni dalla ricezione degli atti nelle forme di cui
all’articolo 127 del codice di procedura penale. L’avviso alle parti deve essere notificato o comunicato

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almeno 5 giorni prima dell’udienza. La decisione è depositata a conclusione dell’udienza con la contestuale
motivazione. Qualora la redazione della motivazione non risulti possibile, la Corte di cassazione, data
comunque lettura del dispositivo, provvede al deposito della motivazione non oltre il quinto giorno dalla
pronuncia. Copia del provvedimento è immediatamente trasmessa, anche a mezzo telefax, al Ministro
della giustizia.
Quando la Corte di cassazione annulla con rinvio, gli atti vengono trasmessi al giudice di rinvio, il quale
decide entro 20 giorni dalla ricezione.

Quanto all’esecuzione, la persona richiesta in consegna deve essere consegnata allo Stato membro di
emissione entro 10 giorni dalla sentenza irrevocabile con cui è data esecuzione al mandato d’arresto
europeo ovvero dall’ordinanza di cui all’articolo 14, comma 4 (in caso di consenso validamente espresso),
nei modi e secondo le intese nel frattempo intercorse tramite il Ministro della giustizia.
All’atto della consegna, la corte d’appello deve trasmettere all’autorità richiedente le informazioni
occorrenti a consentire la deduzione del mandato d’arresto, anche ai fini della determinazione della durata
massima della custodia cautelare.

Mandato d’arresto attivo


Per ciò che concerne i profili della procedura attiva di consegna, il mandato di arresto europeo è trasmesso
al ministro della giustizia che provvede alla traduzione del testo nella lingua dello stato membro di
esecuzione e alla sua trasmissione all’autorità competente. Dell’emissione del mandato è data immediata
comunicazione al servizio per la cooperazione internazionale.
Il mandato d’arresto europeo è emesso: a) dal giudice che ha applicato la misura cautelare della custodia
in carcere o degli arresti domiciliari; b) dal pubblico ministero presso il giudice indicato all’articolo 665
del codice di procedura penale che ha emesso l’ordine di esecuzione della pena detentiva di cui
all’articolo 656 del medesimo codice, sempre che si tratti di pena di durata non inferiore a 1 anno e che
non operi la sospensione dell’esecuzione; c) dal pubblico ministero individuato ai sensi dell’articolo 658
del codice di procedura penale, per quanto attiene alla esecuzione di misure di sicurezza personali
detentive.
Il mandato d’arresto europeo contiene le informazioni seguenti, nella presentazione stabilita nel modello
di cui all’allegato annesso alla decisione quadro: a) identità e cittadinanza del ricercato; b) nome, indirizzo,
numero di telefono e di fax, indirizzo di posta elettronica dell’autorità giudiziaria emittente; c) indicazione
dell’esistenza dei provvedimenti indicati dall’articolo 28; d) natura e qualificazione giuridica del reato; e)
descrizione del fatto contestato, compresi l’epoca e il luogo di commissione, nonché, in caso di concorso
di persone, il grado di partecipazione del ricercato; f) pena inflitta, se vi è sentenza irrevocabile, ovvero,
negli altri casi, pena minima e massima stabilita dalla legge; g) per quanto possibile, le altre conseguenze
del reato.
L’art. 31 stabilisce il principio dell’accessorietà-dipendenza del mandato di arresto europeo rispetto al
provvedimento interno, infatti questo perde efficacia quando il provvedimento restrittivo sulla base del
quale è stato emesso, è stato revocato o annullato ovvero è divenuto inefficace. In tal il procuratore
generale presso la corte di appello ne dà immediata comunicazione al Ministro della giustizia ai fini della
conseguente comunicazione allo Stato membro di esecuzione.
L’art. 33 attua il principio generale della deducibilità del periodo di custodia cautelare scontato all’estero,
tenendo a mente anche la sentenza della corte costituzionale del 2004 per la quale sia computata anche agli

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effetti della durata dei termini di fase previsti dall’art. 303, commi 1, 2 e 3 e non solo quelli a sensi del
comma 4.
La consegna della persona ricercata è soggetta ai limiti del principio di specialità, con le eccezioni previste,
relativamente alla procedura passiva di consegna.

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Rogatorie

La collaborazione tra Stati è cresciuta – di recente – riguardo alla cooperazione internazionale alla lotta alla
criminalità. In tale ambito si colloca la rogatoria internazionale che ha lo scopo di trasmettere oggetti,
documenti e altri atti utili ad un procedimento penale in corso in un altro Stato.
Ci sono due tipi di rogatorie: quelle rivolte dal giudice italiano a quello straniero (attive o all’estero) e
del giudice straniero rivolte a quello nazionale (passive o dall’estero).

Le rogatorie passive o dall’estero


Condizione necessaria per l’espletamento della rogatoria passiva è la duplice valutazione di
ammissibilità affidata al ministro della giustizia e alla corte d’appello.
Il ministro di grazia e giustizia dispone che si dia corso alla rogatoria di un’autorità straniera per (a)
comunicazioni, (b) notificazioni e per (c) attività di acquisizione probatoria.
Ci sono invece casi in cui a tale provvedimento non si dà corso: il ministro allora non procede con rogatoria
quando (1) gli atti richiesti compromettano la sovranità, la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato – opera
così un filtro di carattere politico. Allo stesso modo, il ministro non dà corso alla rogatoria quando (2)
risulta evidente che gli atti richiesti sono espressamente vietati dalla legge o sono contrari ai principi fondamentali
dell’ordinamento giuridico italiano. Il ministro non dà altresì corso alla rogatoria quando vi sono (3) fondate
ragioni per ritenere che considerazioni relative alla razza, alla religione, al sesso, alla nazionalità, alla lingua, alle
opinioni politiche o alle condizioni personali o sociali possano influire negativamente sullo svolgimento o sull’esito
del processo e non risulta che l’imputato abbia liberamente espresso il suo consenso alla rogatoria. Il ministro ha
inoltre facoltà di non dare corso alla rogatoria quando (4) lo Stato richiedente non dia idonee garanzie di
reciprocità. La condizione di reciprocità è un istituto giuridico spesso utilizzato dal legislatore, per il quale
un determinato trattamento che uno Stato prevede a favore di un altro o dei suoi cittadini è subordinato
alla concessione del medesimo trattamento da parte dell’altro Stato in favore del primo e dei suoi cittadini.
Parte della dottrina ritiene che anche questa norma vada interpretata con una certa elasticità, non essendo
necessaria proprio una perfetta parità di trattamento tra i vari Stati, essendo sufficiente a tal fine che ci si
possa attendere una ragionevole collaborazione, ovvero un trattamento adeguato da parte dello Stato
straniero.
Altra condizione necessaria per l’espletamento dell’atto rogato è la valutazione di ammissibilità affidata
alla corte d’appello. È necessaria la valutazione da parte della Corte d’appello territorialmente competente.
Questa deve verificare che non vi siano contrasti con la legge, principi generali dell’ordinamento, ordine
pubblico, buon costume, regole del giusto processo o se possa pregiudicare un processo penale interno.
In caso di più atti la Cassazione deciderà quale Corte d’appello sarà competente in base al numero e
all’importanza degli atti da compiere. La Corte decide, con procedimento camerale, con ordinanza che si
ritiene inoppugnabile. È possibile comunque ricorrere in cassazione contro l’ordinanza in sede di
esecuzione.
L’esecuzione della rogatoria è inammissibile: a) se gli atti richiesti sono vietati dalla legge e sono contrari
a principi dell’ordinamento giuridico dello Stato; b) se il fatto per cui procede l’autorità straniera non è
previsto come reato dalla legge italiana e non risulta che l’imputato abbia liberamente espresso il suo
consenso alla rogatoria; c) se vi sono fondate ragioni per ritenere che considerazioni relative alla razza, alla
religione, al sesso, alla nazionalità, alla lingua, alle opinioni politiche o alle condizioni personali o sociali
possano influire sullo svolgimento o sull’esito del processo e non risulta che l’imputato abbia liberamente
espresso il suo consenso alla rogatoria.

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Assumono importanza anche i meccanismi procedimentali semplificati – cioè non assistiti da garanzie
giurisdizionali fermo restando gli usuali poteri di verifica e di veto che competono al ministero – dettati
dagli artt. 726, 726 bis e 726 ter.
Il primo riguarda citazione di testimoni a richiesta dell’autorità straniera: la citazione dei testimoni
residenti o dimoranti nel territorio dello Stato, richiesta da una autorità giudiziaria straniera, è trasmessa
al procuratore della Repubblica del luogo in cui deve essere eseguita, il quale provvede poi per la
notificazione.
Il secondo riguarda la notifica diretta all’interessato: quando le convenzioni o gli accordi internazionali
consentono la notificazione diretta all’interessato a mezzo posta e questa non viene utilizzata, anche la
richiesta dell’autorità giudiziaria straniera di notificazione all’imputato residente o dimorante nel
territorio dello Stato è trasmessa al procuratore della Repubblica del luogo in cui deve essere eseguita, che
provvede per la notificazione.
Il terzo – riferendosi alle rogatorie provenienti da autorità amministrativa straniera – prevede la rogatoria
proveniente da autorità amministrativa straniera: quando un accordo internazionale prevede che la
richiesta di assistenza giudiziaria in un procedimento concernente un reato sia presentata anche da
un’autorità amministrativa straniera, alla rogatoria provvede, su richiesta del procuratore della
Repubblica, il giudice per le indagini preliminari del luogo in cui devono essere eseguiti gli atti richiesti.
Quanto alle modalità esecutive, l’ordinanza che concede l’esecuzione (o exequatur) designa anche il
giudice delegato al compimento degli atti richiesti. Per il compimento degli atti richiesti si applicano le
norme di questo codice, salva l’osservanza delle forme espressamente richieste dall’autorità giudiziaria
straniera che non siano contrarie ai principi dell’ordinamento giuridico dello Stato.

Le rogatorie attive o all’estero


L’art. 727 individua gli ambiti oggettivi e soggettivi delle rogatorie attive con riferimento a comunicazioni,
notificazioni e attività di acquisizione probatoria, e a giudici e magistrati del pubblico ministero
nell’ambito delle rispettive attribuzione.
In ogni modo l’attività eseguibile all’estero risulta vincolata ai poteri dell’autorità giurisdizionale
straniera. Il presupposto costituisce la necessità di eseguire all’estero un atto processuale non eseguibile
in Italia, non essendo sufficiente l’opportunità di acquisire gli atti di un procedimento penale ivi celebrato.
I soggetti legittimati sono il pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari e il giudice per le
indagini preliminari investito dalla richiesta di incidente probatorio; inoltre il giudice dell’udienza
preliminare e il giudice del dibattimento; ma anche il giudice dell’esecuzione.
Il ministro dispone con decreto, entro 30 giorni dalla ricezione della rogatoria, che non si dia corso alla
stessa, qualora ritenga che possano essere compromessi la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato.
Quando la rogatoria non è stata inoltrata dal ministro – cioè nei casi di inerzia di questo – entro 30 giorni
dalla ricezione e non sia stato emesso il decreto, l’autorità giudiziaria può provvedere all’inoltro diretto
all’agente diplomatico o consolare italiano, informandone il ministro di grazia e giustizia.
Nei casi urgenti, dato la lentezza del mezzo, l’autorità giudiziaria può trasmettere la rogatoria tramite
diretto diplomatico-consolare dopo che copia di essa è stata ricevuta dal ministro di grazia e giustizia.
Il Ministro deve comunque effettuare una valutazione politica e potrà negare – entro 30 giorni – la
richiesta qualora vi sia un pericolo per la sicurezza o gli interessi dello Stato.
L’inosservanza delle disposizioni sulle rogatorie in ambito dell’acquisizione probatoria comporta
l’inutilizzabilità delle prove raccolte.

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Quanto alle modalità esecutive, alle rogatorie è data esecuzione nelle forme proprie dello stato richiesto,
individuando la regola del locus regit actum – l’applicazione della legge del luogo in cui l’atto è stato
redatto.
L’art. 728 dispone l’immunità e cioè, nei casi in cui la rogatoria ha ad oggetto la citazione di un testimone,
di un perito o di un imputato davanti all’autorità giudiziaria italiana, la persona citata, qualora compaia,
non può essere sottoposta a restrizione della libertà personale in esecuzione di una pena o di una misura
di sicurezza né assoggettata ad altre misure restrittive della libertà personale per fatti anteriori alla notifica
della citazione.
L’immunità prevista cessa qualora il testimone, il perito o l’imputato, avendone avuta la possibilità, non
ha lasciato il territorio dello Stato trascorsi 15 giorni dal momento in cui la sua presenza non è più richiesta
dall’autorità giudiziaria ovvero, avendolo lasciato, vi ha fatto volontariamente ritorno.
La violazione delle norme di cui all’articolo 696 comma 1, riguardanti l’acquisizione o la trasmissione di
documenti o di altri mezzi di prova a seguito di rogatoria all’estero comporta l’inutilizzabilità dei
documenti o dei mezzi di prova acquisiti o trasmessi. Qualora lo Stato estero abbia posto condizioni
all’utilizzabilità degli atti richiesti, l’autorità giudiziaria è vincolata al rispetto di tali condizioni.
La regola generale è che la prova raccolta all’estero segua la lex loci (Stato richiesto) per quanto riguarda
la forma di acquisizione, mentre si utilizza la lex fori (Stato richiedente) per quanto riguarda l’efficacia
dimostrativa. Fino a quando l’atto rimane all’interno dello stato richiesto, cioè per tutto il tempo della sua
formale acquisizione, viene regolato dalla legge del luogo, ma è la legge dello stato assistito a regolamento
successivamente il medesimo atto, nel momenti in cui lo stesso è chiamato a produrre effetti nel
procedimenti di destinazione. Delle piccole difformità procedimentali non comportano conseguenze,
tuttavia un atto prodotto con modalità che configgono con i principi e le tutele dell’ordinamento, come
per esempio le modalità di assunzione imposte a pena di inutilizzabilità, non potrebbe entrare a far parte
del materiale probatorio altrimenti si violerebbe sostanzialmente quella tutela offerta dall’ordinamento.
La prova assunta all’estero deve porsi in linea con il procedimento probatorio italiano: per tali ragioni è
previsto un diritto-dovere di interloquire con l’autorità straniera sulle modalità di assunzione dell’atto.
E con l’espressa previsione della inutilizzabilità degli atti assunti dall’autorità straniera in modi difforme
rispetto alle direttive impartite da quella richiedente.

Cooperazione giudiziaria internazionale nell’esecuzione

I rapporti giurisdizionali con autorità straniere riguardano anche la possibilità e le modalità per (1) rendere
esecutive nell’ordinamento interno le sentenza penali straniere e le misure cautelari reali ed per (2) rendere esecutive
all’estero le sentenze penali italiane e i provvedimenti di sequestro e di confisca.
Quanto al riconoscimento di sentenze straniere, l’art. 730 afferma che il Ministro di grazia e giustizia,
quando riceve una sentenza penale di condanna o di proscioglimento pronunciata all’estero nei confronti
di cittadini italiani o di stranieri o di apolidi residenti nello Stato ovvero di persone sottoposte a
procedimento penale nello Stato, trasmette senza ritardo al procuratore generale presso la corte di
appello, nel distretto della quale ha sede l’ufficio del casellario locale del luogo di nascita della persona cui
è riferito il provvedimento giudiziario straniero, o presso la Corte di appello di Roma, copia della
sentenza, unitamente alla traduzione in lingua italiana, con gli atti che vi siano allegati, e con le
informazioni e la documentazione del caso. Trasmette inoltre l’eventuale richiesta indicata nell’articolo 12
comma 2 del codice penale, cioè per stabilire la recidiva, o un altro effetto penale della condanna, ovvero
per dichiarare l’abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a delinquere; ovvero per applicare la
pena accessoria; ovvero per applicare una misura di sicurezza personale.

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La sentenza straniera risulta essere soltanto il presupposto per un ulteriore giudizio devoluto al giudice
italiano. E il riconoscimento è il presupposto perché la sentenza possa esplicare un qualsiasi effetto in
Italia.
Quanto al procedimento per il riconoscimento, è la ricezione del provvedimento da parte del Ministro
della giustizia che ne costituisce il presupposto. I modi di trasmissioni sono irrilevanti. Inoltre occorre
verificare che la sentenza sia stata pronunciata nei confronti di persone residenti o sottoposte a
procedimento penale in Italia, correlati ad azioni di impulso del procuratore generale come l’acquisizione
di documenti ed informazioni, traduzioni della sentenza, trasmissione del dossier risultante. È pure
compito del procuratore generale la valutazione circa l’opportunità di domandare il riconoscimento della
sentenza straniera per gli effetti indicati dall’art. 12 nn. 1, 2 e 3 del codice penale.
In linea di principio, il privato non è ammesso a chiedere il riconoscimento di una sentenza penale
straniera: infatti gli è attribuita in via di eccezione, qualora abbia interesse a far valere in giudizio nello
Stato le disposizioni penale di una sentenza straniera agli effetti civili. In ogni modo l’art. 732 afferma
che chi ha interesse a far valere in giudizio le disposizioni penali di una sentenza straniera per conseguire
le restituzioni o il risarcimento del danno o per altri effetti civili, può domandare il riconoscimento della
sentenza alla corte di appello nel distretto della quale ha sede l’ufficio del casellario locale del luogo di
nascita della persona cui è riferito il provvedimento giudiziario straniero, o alla Corte di appello di Roma.
Non è prevista nessuna indicazione specifica quanto ai tempi, forme o contenuti della richiesta: dunque
si può operare attraverso gli artt. 730 e 733. Dunque ferma la necessità di una domanda scritta, con la
precisazione degli atti per cui si chiede il riconoscimento, l’interessato deve rivolgersi all’autorità
amministrativa sollecitandone l’acquisizione, la traduzione e la trasmissione diretta alla corte d’appello per la
deliberazione.
Ricapitolando, oltre alle qualificazioni dell’atto giurisdizionale straniero della (1) nazionalità, (2) natura e
(3) oggetto, la sentenza straniera per poter essere riconosciuta deve avere i requisiti (4) dell’irrevocabilità
della sentenza alla stregua della legislazione straniera, (5) il fatto deve costituire reato anche in Italia, (6) il
condannato deve essere stato trattato con imparzialità, equità e giustizia, infine la (7) mancanza delle condizioni
ostative previste dall’art. 733.
La sentenza straniera non può essere riconosciuta (art. 733) per diverse cause, e cioè se: a) la sentenza non
è divenuta irrevocabile per le leggi dello Stato in cui è stata pronunciata; b) la sentenza contiene
disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato; c) la sentenza non
è stata pronunciata da un giudice indipendente e imparziale ovvero l’imputato non è stato citato a
comparire in giudizio davanti all’autorità straniera ovvero non gli è stato riconosciuto il diritto a essere
interrogato in una lingua a lui comprensibile e a essere assistito da un difensore; d) vi sono fondate ragioni
per ritenere che considerazioni relative alla razza, alla religione, al sesso, alla nazionalità, alla lingua, alle
opinioni politiche o alle condizioni personali o sociali abbiano influito sullo svolgimento o sull’esito del
processo; e) il fatto per il quale è stata pronunciata la sentenza non è previsto come reato dalla legge
italiana; f) per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona è stata pronunciata nello Stato sentenza
irrevocabile; g) per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona è in corso nello Stato procedimento
penale.
Si segue il procedimento camerale incidentale. La corte di appello delibera in ordine al riconoscimento,
osservate le forme previste dall’articolo 127, con sentenza, nella quale enuncia espressamente gli effetti
che ne conseguono. La decisione è poi notificata agli interessati e tutti sono legittimati a ricorrere in
cassazione: infatti la sentenza è soggetta a ricorso per cassazione da parte del procuratore generale presso
la corte di appello e dell’interessato, che però non ha effetto sospensivo – a meno che il giudice non
disponga diversamente con decreto motivato.

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In ogni modo la decisione può essere di inammissibilità, quando difettino uno o più presupposti per il
riconoscimento, oppure di riconoscimento.

Il riconoscimento per l’esecuzione della pena è disposto in funzione dell’esecuzione in Italia della
sentenza straniera e l’aspetto più importante è costituito dalla determinazione della pena da eseguire in
concreto. Si distinguono due criteri fondamentali: l’adeguatezza e la proporzionalità. Per un verso rileva
la natura della pena irrogata all’estero, per altro verso quella prevista per il medesimo fatto dalla legge italiana. È
l’art. 735 che ne delinea le modalità: si converte la pena stabilita nella sentenza straniera in una delle pene
previste per lo stesso fatto dalla legge italiana. Tale pena, per quanto possibile, deve corrispondere per
natura a quella inflitta con la sentenza straniera. La quantità della pena è determinata, tenendo
eventualmente conto dei criteri di ragguaglio previsti dalla legge italiana, sulla base di quella fissata nella
sentenza straniera; tuttavia tale quantità non può eccedere il limite massimo previsto per lo stesso fatto
dalla legge italiana. Quando la quantità della pena non è stabilita nella sentenza straniera, la corte la
determina sulla base dei criteri indicati negli articoli 133, 133-bis e 133-ter del codice penale. In nessun caso
la pena così determinata può essere più grave di quella stabilita nella sentenza straniera.
Agli artt. 736, 737 e 737 bis sono previste misure cautelari personali e reali. Sono disciplinate sulla base
del modello previsto dalla disciplina ordinaria. Su richiesta del procuratore generale, la corte di appello
competente per il riconoscimento di una sentenza straniera ai fini dell’esecuzione di una pena restrittiva
della libertà personale, può disporre una misura coercitiva nei confronti del condannato che si trovi nel
territorio dello Stato. Di conseguenza la misura coercitiva è revocata se dall’inizio della sua esecuzione
sono trascorsi 6 mesi senza che la corte di appello abbia pronunciato sentenza di riconoscimento, ovvero,
in caso di ricorso per cassazione contro tale sentenza, 10 mesi senza che sia intervenuta sentenza
irrevocabile di riconoscimento.
Allo stesso modo provvede per il sequestro: su richiesta del procuratore generale, la corte di appello
competente per il riconoscimento di una sentenza straniera ai fini dell’esecuzione di una confisca può
ordinare il sequestro delle cose assoggettabili a confisca.
Il Ministro di grazia e giustizia dispone che si dia corso alla richiesta di un’autorità straniera di procedere
ad indagini su beni che possono divenire oggetto di una successiva richiesta di esecuzione di una confisca,
ovvero di procedere al loro sequestro.
L’organo dell’esecuzione è il procuratore generale.
L’art. 739 tutela il principio del ne bis in idem internazionale, principio che si sta affermandolo nei
rapporti tra gli Stati. Una sentenza della Corte Costituzionale del 1997 ha affermato che il ne bis in idem
non è ancora un principio di diritto internazionale generale, ma è comunque un principio tendenziale cui
si ispira l’ordinamento internazionale.

Quanto all’esecuzione all’estero di sentenze penali italiane, questa è disciplinata dagli artt. 742-746. Tale
disciplina ha lo scopo di evitare le sofferenze in cui incorrono i detenuti che sono costretti ad espiare la
pena lontano dallo Stato di origine. Questi detenuti sono spesso portati all’isolamento a causa della
difficoltà a comunicare, di accedere a libri, istruzione, televisione, nonché per le discriminazioni che
subiscono da parte degli altri detenuti.
Tra i requisiti: (1) Consenso del condannato, salvo che si trovi già all’estero e sia impossibile l’estradizione;
(2) Identità strutturale dell’esecuzione all’estero per il recupero dei condannati; (3) L’assenza dei
presupposti impeditivi al rispetto diritti umani.
L’art 746 descrive gli effetti del trasferimento. Le conseguenze – che sono ispirate al divieto del ne bis in
idem – prevedono che l’esecuzione penale sul territorio nazionale sia sospesa per tutta la durata

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dell’esecuzione all’estero e una volta espiata per la legislazione dello Stato straniero non potrà più essere
esecutiva in Italia.

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IL PROCEDIMENTO DI PREVENZIONE

La legislazione speciale ha rafforzato il corpo del diritto alla prevenzione, costituendo un vero e proprio
microsistema, configurandone un doppio binario differenziato dal macrosistema del diritto penale, con
la previsione di fattispecie non tipizzate e di mero sospetto – caratterizzate dalla pericolosità per la sicurezza
pubblica – sanzionate da vere e proprie pene del sospetto – come il foglio di via obbligatorio, avviso orale,
obblighi, divieti, ammonimenti e così via – in sostanza misure repressive, irrogate, senza le minime
garanzia, da una giurisdizione solo apparente, dal momento che la prova è assunta dalla polizia o dal
pubblico ministero senza contraddittorio, con un giudizio caratterizzato da scorciatoie probatorie, e che
tra indizi e presunzioni, ha la funzione di sostituire una prova insufficiente per condannare e confiscare.
Tutela in questo senso la sicurezza pubblica, ma si tratta di una sanzione senza colpa e senza processo.
La materia è disciplinata dal codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, introdotte dal d.lgs. del
2001, n. 159.

Le misure di prevenzione tipiche possono essere personali – avviso orale, foglio di via obbligatorio,
sorveglianza speciale di pubblica sicurezza eventualmente aggrava dal divieto od obbligo di soggiorno
del comune di residenza o dimora abituale – o patrimoniali – confisca ed eventuale misura cautelare del
sequestro.
Sono presenti anche misure di prevenzione atipiche perché non ricomprese nel c.l.a.m.p. (codice delle leggi
antimafia e delle misure di prevenzione). Esse sono il divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono le
manifestazioni sportive, gli obblighi e i divieti che il questore prescrive ai condannati, l’ammonimento,
l’espulsione dell’extracomunitario.
L’azione di prevenzione può essere esercitata anche indipendentemente dall’esercizio dell’azione
penale. Visibili così i caratteri dell’indipendenza e della discrezionalità per i quali il procedimento in
esame è considerato del tutto autonomo.
La discrezionalità urta con il principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Il questore, il procuratore nazionale antimafia, il procuratore della Repubblica presso il tribunale del
capoluogo di distretto ove dimora la persona e dal direttore della Direzione investigativa antimafia
possono disporre le misure di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e dell’obbligo
di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale (andando contro l’esclusività dell’azione penale
da parte del pubblico ministero). Questi sono i soggetti attivi.
Quanto a quelli passivi, sono le persone pericolose per la sicurezza pubblica. E sono indicati dall’art. 4
del c.l.a.m.p. i destinatari delle misure di prevenzione personali, mentre all’art. 16 quelle patrimoniali.

Fase istruttoria

La fase istruttoria inizia con le disposizione dell’art. 19 e successive: si divide tra indagini patrimoniali e
indagini personali.
La prima. I soggetti titolari dell’azione di prevenzione procedono, anche a mezzo della guardia di finanza
o della polizia giudiziaria, ad indagini sul tenore di vita, sulle disponibilità finanziarie e sul patrimonio
dei soggetti nei cui confronti possa essere proposta la misura di prevenzione della sorveglianza speciale
della pubblica sicurezza con o senza divieto od obbligo di soggiorno, nonché, avvalendosi della guardia
di finanza o della polizia giudiziaria, ad indagini sull’attività economica facente capo agli stessi soggetti
allo scopo anche di individuare le fonti di reddito. Le indagini sono altresì effettuate anche nei confronti

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del coniuge, dei figli e di coloro che nell’ultimo quinquennio hanno convissuto con questi, nonché nei
confronti delle persone fisiche o giuridiche, società, consorzi od associazioni, del cui patrimonio i soggetti
medesimi risultano poter disporre in tutto o in parte, direttamente o indirettamente.
Se per le indagini patrimoniali sono necessarie tutte queste serie di indagini, per quelle personali nessuna
disposizione è prevista. Di conseguenza sono tutte e sempre ammissibili senza alcuna indicazione di
modalità, tempi, soggetti ed oggetto. Manca comunque in entrambe qualsiasi garanzia difensiva: la polizia
e il pubblico ministero assumono la prova in segreto e senza contraddittorio. Nessuna informazione anche
sul diritto di difesa e dunque non sarà applicabile l’art. 415 bis.
Nei registri delle notizie di prevenzione vengono curate – immediatamente – le annotazioni nominative
delle persone fisiche e giuridiche nei confronti delle quali si sono disposti gli accertamenti personali o
patrimoniali.
È prevista anche l’archiviazione: infatti qualora al termine delle indagini il pubblico ministero ritenga di
aver raccolto elementi acquisiti non idonei a sostenere la proposta in giudizio, richiederà al tribunale
l’archiviazione della notitia periculi. Il presidente del collegio, sentito il pubblico ministero, può dichiarare
con decreto motivato, l’inammissibilità della richiesta quando la stessa appare manifestamente infondata
per difetto delle condizioni di legge ovvero costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata.

Udienza

Quanto al giudizio, nonostante manchi la garanzia dell’udienza preliminare, anche nel giudizio di
prevenzione è individuabile una fase degli atti preliminari all’udienza.
Il giudizio di prevenzione si svolge con una tipica udienza camerale ovvero con la garanzia della
pubblicità in seguito alla richiesta dell’interessato. Il tribunale provvede, con decreto motivato, entro 30
giorni dalla proposta (ma è un termine ordinatorio, con la conseguenza che i tempi medi di durata, per i
tre gradi di giudizio, non sono inferiori a diversi anni). Il presidente del collegio fissa la data dell’udienza
e ne fa dare avviso alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori. L’avviso è comunicato o notificato
almeno 10 giorni prima della data predetta. Se l’interessato è privo di difensore, l’avviso è dato a quello di
ufficio. Viene poi fatto l’accertamento della regolare costituzione delle parti, dichiarando le eventuali
nullità degli avvisi, delle notificazioni o comunicazione. Per assicurare l’effettiva conoscenza del
processo, si applicano analogicamente gli artt. 420 bis, 420 ter, 420 quater. L’imputato non ha un obbligo di
comparire ma solo un diritto di presenziare all’udienza: ove l’interessato non intervenga e occorre la sua
presenza per essere interrogato, il presidente del tribunale lo invita a comparire, disponendo se necessario
l’accompagnamento (coattivo) a mezzo della forza pubblica. Se l’interessato è detenuto o internato in
luogo posto fuori della circoscrizione del giudice e ne fa tempestiva richiesta, deve essere sentito prima
del giorno dell’udienza, dal magistrato di sorveglianza del luogo. Ove siano disponibili strumenti tecnici
idonei, il presidente del collegio può disporre che l’interessato sia sentito mediante collegamento
audiovisivo. L’udienza invece si svolge con la partecipazione necessaria del difensore e del pubblico
ministero, a pena di nullità assoluta.
Non essendo prevista la formazione del fascicolo per il giudizio di prevenzione, tutti i verbali delle
indagini confluiscono nel fascicolo a disposizione del giudice, in contrasto con il principio della
formazione della prova in contraddittorio.
È possibile anche la richiesta di prove ulteriori, rispetto a quelle già acquisite in segreto durante le
indagini, in applicazione analogica dell’art. 493.
In precedenza si è detto a riguardo del termine ordinatorio dei 30 giorni per la decisione. Ebbene: all’art.
24 è posto un limite per il provvedimento di sequestro che perde di conseguenza efficacia se il tribunale

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non deposita il decreto che pronuncia la confisca entro 1 anno e 6 mesi dalla data di immissione nel
possesso di beni da parte dell’amministratore giudiziario.
Diversamente da quanto è previsto nel processo ordinario, nel giudizio in esame è ammessa
l’utilizzabilità, ai fini della decisione, di ogni atto d’indagine – compiuto segretamente e unilateralmente
dagli uffici di polizia o dal pubblico ministero – ma ciò viola il principio del contraddittorio nella
formazione della prova: si deve comunque ritenere un’applicazione analogica delle disposizioni ordinarie
colmando la lacuna legislativa e quindi sarebbe viziato da inutilizzabilità. Altre disposizioni invece
violano i principi della terzietà e imparzialità del giudice, disponendo che il tribunale, ove necessario,
può procedere ad ulteriori indagini oltre quelle già compiute.
La decisione – come detto precedentemente – del tribunale è adottata con la forma del decreto motivato,
entro 30 giorni dalla ricezione della proposta. La decisione può essere di rigetto oppure di accoglimento
della proposta. Tale provvedimento ha contenuto decisorio, pur avendo forma di decreto, ed ha natura
sostanziale ed efficacia di sentenza, dal momento che conclude una fase ed è soggetto agli stessi mezzi di
impugnazione cui è soggetta una sentenza, per cui la sua motivazione deve presentare carattere di
completezza.

Le misure applicabili sono divise tra (1) misure personali e (2) patrimoniali.
1. Sono misure personali, applicate in esito ad un giudizio, la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza,
eventualmente aggravata dal divieto o dall’obbligo di soggiorno. Il provvedimento del tribunale stabilisce
la durata della misura di prevenzione che non può essere inferiore ad 1 anno né superiore a 5. Qualora la
misura applicata sia quella della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e si tratti di persona indiziata
di vivere con il provento di reati, il tribunale prescrive di darsi, entro un congruo termine, alla ricerca di
un lavoro, di fissare la propria dimora, di farla conoscere nel termine stesso all’autorità di pubblica
sicurezza e di non allontanarsene senza preventivo avviso all’autorità medesima. In ogni caso, prescrive
di vivere onestamente, di rispettare le leggi, e di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso
all’autorità locale di pubblica sicurezza; inoltre può imporre il divieto di soggiorno in uno o più Comuni,
o in una o più Province.
2. Sono misure di prevenzione patrimoniali la confisca, con l’eventuale misura cautelare del sequestro, la
cauzione, l’amministrazione dei beni personali del proposto e dei beni concessi ad attività economiche.
Sequestro. Il tribunale, anche d’ufficio, ordina con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali la
persona nei cui confronti è iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente,
quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero
quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite
o ne costituiscano il reimpiego. Il sequestro è revocato dal tribunale quando è respinta la proposta di
applicazione della misura di prevenzione o quando risulta che esso ha per oggetto beni di legittima
provenienza o dei quali l’indiziato non poteva disporre direttamente o indirettamente.
In caso d’urgenza è possibile disporlo preventivamente, cioè anticipatamente alla data di fissazione
dell’udienza: il sequestro eventualmente disposto perde efficacia se non convalidato dal tribunale entro 30
giorni dalla proposta.
Confisca. Il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è instaurato
il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona
fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato
al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché
dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. La revoca è disposta

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quando vengono meno i presupposti per l’applicazione della misura. Può essere chiesta anche grazie alla
scoperta di prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento, secondo l’art. 630.
L’amministrazione dei beni personali del proposto e dei beni concessi ad attività economiche. Il
tribunale può aggiungere ad una delle misure di prevenzione stabilite quella dell’amministrazione
giudiziaria dei beni personali, esclusi quelli destinati all’attività professionale o produttiva, quando
ricorrono sufficienti indizi che la libera disponibilità dei medesimi agevoli comunque la condotta, il
comportamento o l’attività socialmente pericolosa. Nel caso di beni concessi ad attività economiche,
invece, qualora ricorrono sufficienti indizi per ritenere che l’esercizio di determinate attività
economiche, comprese quelle imprenditoriali, sia direttamente o indirettamente sottoposto alle
condizioni di intimidazione, o che possa, comunque, agevolare l’attività delle persone nei confronti delle
quali è stata proposta o applicata una misura di prevenzione disporre ulteriori indagini e verifiche. In
seguito alle verifiche, potrà essere applicata l’amministrazione giudiziaria dei beni per un periodo non
superiore a 6 mesi e può essere rinnovata, per un periodo non superiore complessivamente a 12 mesi, a
richiesta dell’autorità proponente, del pubblico ministero o del giudice delegato, se permangono le
condizioni in base alle quali è stata applicata.

Impugnazioni

L’art. 10 afferma che il procuratore della Repubblica, il procuratore generale presso la corte di appello e
l’interessato hanno facoltà di proporre ricorso alla corte d’appello, anche per il merito. Il ricorso non ha
effetto sospensivo e deve essere proposto entro 10 giorni dalla comunicazione del provvedimento. La
corte d’appello provvede, con decreto motivato, entro 30 giorni dalla proposizione del ricorso. L’udienza
si svolge senza la presenza del pubblico. Il presidente dispone che il procedimento si svolga in pubblica
udienza quando l’interessato ne faccia richiesta.
Avverso il decreto della corte d’appello, è ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge, da parte
del pubblico ministero e dell’interessato, entro 10 giorni. La Corte di cassazione provvede, in camera di
consiglio, entro 30 giorni dal ricorso. Il ricorso non ha effetto sospensivo.
In sostanza vige anche qui il principio di tassatività delle impugnazioni ai sensi dell’art. 568, per cui si
esclude che possano essere impugnati provvedimenti diversi da quelli specificamente dichiarati
impugnabili. Inoltre per poter proporre ricorso è necessario avervi interesse: di conseguenza l’interessato
ha interesse ad impugnare solo i decreti di accoglimento.
L’effetto estensivo non può trovare cittadinanza nel processo di prevenzione in mancanza dei presupposti
essenziali dell’istituto. Nemmeno l’effetto sospensivo può trovare accoglienza. Invece è pacifica
l’operatività dell’effetto devolutivo: pertanto trova applicazione il principio tantum devolutum quantum
appellatum secondo cui l’impugnazione attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del
procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti.
È previsto anche il divieto di riformare in peius, così come l’ha riconosciuto la cassazione: la logica segue
l’esigenza garantistica di non dissuadere l’imputato dalla proposizione dell’impugnazione per timore
di un aggravamento del trattamento sanzionatorio irrogatogli in primo grado.
I provvedimenti con i quali il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati, la revoca del sequestro
ovvero la restituzione della cauzione o la liberazione delle garanzie o la confisca della cauzione o la
esecuzione sui beni costituiti in garanzia sono comunicati senza indugio al procuratore generale presso
la corte di appello, al procuratore della Repubblica e agli interessati.
I provvedimenti che dispongono la confisca dei beni sequestrati, la confisca della cauzione o l’esecuzione
sui beni costituiti in garanzia diventano esecutivi con la definitività delle relative pronunce. I

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provvedimenti del tribunale che dispongono la revoca del sequestro invece divengono esecutivi 10 giorni
dopo la comunicazione alle parti, salvo che il pubblico ministero ne chieda la sospensione alla corte di
appello. In tal caso, se la corte entro 10 giorni dalla sua presentazione non accoglie la richiesta, il
provvedimento diventa esecutivo; altrimenti la esecutività resta sospesa fino a quando nel procedimento
di prevenzione sia intervenuta pronuncia definitiva in ordine al sequestro. Il provvedimento che,
accogliendo la richiesta del pubblico ministero, sospende l’esecutività può essere in ogni momento
revocato dal giudice che procede.

In particolare, l’appello si svolge con l’osservanza delle disposizioni di cui all’art. 666: sarà il tribunale di
sorveglianza a decidere in merito. Il ricorso deve essere proposto entro 10 giorni dalla comunicazione del
provvedimento.
La corte d’appello provvede in camera di consiglio ovvero, su istanza dell’interessato, in udienza pubblica,
con la partecipazione del difensore e del p.m.
I poteri del giudice sono quelli del rito ordinario. Inoltre sussiste anche la rinnovazione dell’istruzione
probatoria.
La decisione – come detto prima – deve rispettare il divieto di reformatio in peius. Il decreto contenente la
decisione d’inammissibilità, conferma o riforma, deve essere depositato in cancelleria entro il termine di
30 giorni dalla proposizione del ricorso.
Avverso il decreto della corte d’appello è ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge da parte
del p.m., dell’interessato e del suo difensore, entro il termine di 10 giorni dalla comunicazione o
notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento. Il ricorso è deciso entro 30 giorni. Il ricorso è
previsto solo per violazione di legge, anche se si ritiene che il ricorso sia ammissibile per tutti i motivi
indicati nell’art. 606.

Esecuzione

Se il decreto non è impugnato diviene irrevocabile ed è assistito dal principio di intangibilità del giudicato,
anche se in verità una situazione di cosa giudica in senso proprio non è da affermarsi a priori, dal momento
che sulla base di nuovi elementi di pericolosità può instaurarsi un nuovo, diverso procedimento di
prevenzione, alla stregua di una nuova considerazione della situazione di fatto sotto entrambi i profili,
personale e patrimoniale. Quindi anche se è spirato il termine per impugnare o sono esauriti i gravami
diventa irrevocabilità, ma i suoi effetti risultano condizionati al permanere della pericolosità sociale del
proposto.
La irrevocabilità comporta la cessazione delle misure di prevenzione applicate in via provvisoria e degli
effetti derivanti da tale applicazione, mentre il decreto irrevocabile che applica la misura di prevenzione
diviene esecutivo.

Riabilitazione

Dopo 3 anni dalla cessazione della misura di prevenzione personale, l’interessato può chiedere la
riabilitazione. La riabilitazione è concessa, se il soggetto ha dato prova costante ed effettiva di buona
condotta, dalla corte di appello nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria che dispone l’applicazione
della misura di prevenzione o dell’ultima misura di prevenzione. La riabilitazione comporta la cessazione
di tutti gli effetti pregiudizievoli riconnessi allo stato di persona sottoposta a misure di prevenzione.

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