Sei sulla pagina 1di 18

PARTE SECONDA

LA LEGGE PENALE

LEGGE PENALE E STATO DI DIRITTO

I DIVERSI ASPETTI DEL PRINCIPIO DI LEGALITA’


Negli ordinamenti giuridici moderni, la funzione di garanzia della legge, in materia penale, si riassume nel
c.d. principio di legalità dei reati e delle pene: sia il fatto costituente reato, sia la corrispondente
sanzione devono essere previsti dalla legge.
Nell’ordinamento italiano, il principio di legalità è formulato nel modo più esplicito dalla legge ordinaria ed
è presidiato costituzionalmente. L’art. 1 c.p. vigente dispone: “Nessuno può essere punito per un fatto che
non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite ”; il
successivo art. 2 co. 1 c.p., a sua volta, precisa: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la
legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”. L’espresso divieto di applicazione analogica delle
norme penali è contenuto nell’art. 14 delle c.d. Preleggi: “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a
regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati ”. Il principio di
legalità è poi assunto al rango di precetto costituzionale, per il tramite dell’art. 25 co. 2 Cost.: “Nessuno può
essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. L’art. 25 co.
3 Cost. costituzionalizza, a sua volta, il principio di legalità nella materia delle misure di sicurezza: “Nessuno
può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”.
La portata del principio di legalità, nell’ordinamento vigente, viene generalmente articolata nella
enunciazione di quattro regole fondamentali, che sono: a) la c.d. riserva di legge; b) la regola della
tassatività e determinatezza della fattispecie penale; c) il divieto di interpretazione analogica;
d) l’irretroattività della legge penale.

LA RISERVA DI LEGGE IN MATERIA PENALE


La c.d. riserva di legge – il principio, cioè, secondo cui reati, pene e misure di sicurezza non possono avere
altra fonte che non sia la legge –è formulato nel modo più esplicito dalla legge ordinaria ed è presidiato
costituzionalmente. L’art. 1 c.p. vigente dispone: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia
espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”. Il principio di
riserva di legge è poi assunto al rango di precetto costituzionale, per il tramite dell’art. 25 co. 2 Cost.:
“Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.
Storicamente, il principio di legalità esprime essenzialmente esigenze di certezza, che richiedono leggi
scritte e stabili, emanate anteriormente alla commissione del reato e sottratte nella loro applicazione
all’arbitrio del potere esecutivo e di quello giudiziario. Il moderno principio della riserva di legge integra
queste istanze fondamentali con una ulteriore pretesa: che cioè ogni atto normativo, suscettibile di
determinare una restrizione dei diritti individuali di libertà, scaturisca in via esclusiva dalla volontà popolare,
per come essa si esprime attraverso la rappresentanza parlamentare, liberamente eletta. Si ritiene, cioè, che
solo i procedimenti di formazione delle leggi, costituzionalmente previsti, possano garantire un controllo
sufficiente dell’uso dello strumento penale, diretto soprattutto ad impedire che esso venga usato quale mezzo
di oppressione delle minoranze o di persecuzione di individui e gruppi ben determinati.
Ciò dovrebbe in certa misura garantire che alla coercizione penale si ricorra solo per la tutela di interessi
non contingenti, e di tale importanza da giustificare la compressione della libertà personale, che vi si connette.
Per tal via, la regola della riserva di legge in materia penale assume dunque un valore e un significato
sostanziale, quale strumento tendenzialmente idoneo a realizzare l’aspirazione ad un diritto penale inteso
quale extrema ratio: come un mezzo, cioè, al quale si ricorre solo quando il suo uso appare come
evidentemente e strettamente necessario.
In ordine alla riserva di legge sorgono tre questioni fondamentali. Una
prima questione concerne il significato tecnico giuridico che il termine legge assume nell’art. 25, comma 2°
Cost e conseguentemente nell’art. 1° c.p. si tratta più precisamente di stabilire: 1) se nella sua nozione
rientrino solo le leggi dello Stato o anche le leggi regionali; 2) se, nel riferirsi alla legge l’art. 25, comma 2°
Cost., intenda solo la legge in senso formale o anche le leggi delegate e i decreti legge.
Una seconda questione consiste nello stabilire se la riserva di legge debba intendersi in senso assoluto, per
cui solo la legge può stabilire le condotte punibili, o in senso relativo, per cui la legge può rimettere ad una
fonte subordinata la determinazione di una parte della norma incriminatrice (norme penali in bianco).
Una terza questione concerne l’individuazione dei limiti della riserva di legge (interventi della Corte
Costituzionale, diritto comunitario e diritto internazionale).
1) ESCLUSIONE DELLA POTESTA’ LEGISLATIVA DELLE REGIONI IN MATERIA PENALE
La questione dell’eventuale potestà legislativa delle Regioni in materia penale è ormai risolta in senso
negativo, alla stregua del testo riformato dell’art. 117 co. 2 Cost., il quale sancisce la legislazione esclusiva dello
Stato, fra l’altro, in materia di “ordinamento civile e penale”. I dubbi iniziali, suscitati anche da una pronuncia
della Corte Costituzionale che ritenne la Regione Sicilia competente ad emanare norme penali a tutela della
propria legge elettorale, nascevano dall’assenza di argomenti testuali che apparissero decisivi sia per escludere
la legge regionale dalla nozione di legge ex art. 25, comma 2° Cost., sia per negare l’attribuzione di potestà
legislativa penale alle Regioni nelle materie che l’art. 117 Cost., nella sua originaria formulazione attribuiva alla
loro competenza.
Un argomento di qualche rilievo in favore della tesi negativa si traeva, tuttavia, dal tenore dell’art. 120
Cost., che faceva divieto alle Regioni di adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera
circolazione delle persone e delle cose fra le Regioni e di limitare il diritto dei cittadini di esercitare in qualsiasi
parte del territorio nazionale la loro professione, impiego o lavoro. Da queste disposizioni si desumeva il
divieto per le Regioni di limitare con norme penali la libertà personale. Ma gli argomenti di maggior peso, per
la risoluzione della questione, già allora erano altri. È in primo luogo evidente l’inopportunità politico-
costituzionale dell’affidamento della potestà punitiva ad assemblee rappresentative di comunità inferiori a
quella statuale. Ma decisivo al riguardo è soprattutto il richiamo all’art. 3 Cost., in rapporto all’esigenza di
evitare che una diversa regolamentazione di carattere penale venga a contrastare con l’uniformità di
trattamento giuridico di tutti i cittadini.
L’esclusione della potestà legislativa in materia penale implica, naturalmente, non solo il divieto per le
Regioni di creare norme penali; ma altresì l’illegittimità costituzionale delle leggi regionali che suonino come
abrogative di norme penali statuali, o ne limitino l’ambito di applicazione. Una tale conclusione appare oggi
obbligata alla luce dell’attuale tenore dell’art. 117 Cost.
Un differente trattamento giuridico dello stesso comportamento da Regione a Regione è in realtà
ammissibile, solo a condizione che la stessa legge penale statuale abbia previsto tale diversificazione di
trattamento, demandando la relativa potestà alle singole legislazioni regionali. In tal caso, peraltro, la legge
regionale si configura come norma integrativa del precetto penale statuale; e risulta perciò assimilabile ad ogni
altra fonte subordinata, quanto ai limiti di ammissibilità del procedimento di integrazione fra legge e fonte
non legislativa.
2) LEGGI DELEGATE E DECRETI LEGGE
Leggi delegate e decreti legge, in quanto fonti normative alle quali, sia pure con particolari limitazioni, la
Costituzione riconosce efficacia pari alla legge ordinaria, sono ritenuti fonte legittima di produzione di norme
penali.
Sul piano sostanziale, sono state tuttavia avanzate delle riserve. Quanto alle leggi delegate, si è rilevato
che, rispetto ad esse, il potere legislativo si limita a formulare criteri direttivi più o meno dettagliati, ma la
concretizzazione del precetto è rimessa poi al potere esecutivo; il controllo del parlamento è, infatti,
precedente e non successivo alla formulazione del documento, mentre il controllo della Corte Cost. non può
ritenersi sufficiente, essendo rimessa alla discrezionalità del giudice a quo sollevare la questione di merito.
Quanto al decreto legge, le perplessità risulterebbero ancora maggiori, perché, da un lato, le esigenze di
ponderazione richieste dalla normazione penale sembrerebbero in contrasto con le ragioni di “necessità e
d’urgenza” che dovrebbero giustificare l’emissione dei decreti legge; dall’altro, almeno per tutto il periodo di
vigenza del decreto, prima della conversione in legge, è eluso, di fatto, il sindacato del Parlamento sulla
eventuale normazione penale.
In realtà sta di fatto che, quanto alle leggi delegate, il rigoroso rispetto di quanto stabilito nell’art. 76 Cost.
dovrebbe garantire il controllo del Parlamento sulla produzione di norme penali.
Per quanto attiene ai decreti legge, pieno e senza limiti è il controllo che le Camere esercitano dopo la loro
emanazione. Peraltro, i problemi connessi alla provvisoria vigenza del decreto legge, prima della sua
conversione, sono stati in realtà fortemente ridimensionati dalla sent. 51/1985 con cui la Corte costituzionale
ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, comma 6° c.p., nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso
previste le disposizioni contenute nel 2° e 4° comma dello stesso art. 2.
3) LEGGE E FONTI SUBORDINATE. IL PROBLEMA DELLE C.D. NORME PENALI “IN
BIANCO”
Nel nostro ordinamento risultano sempre più frequenti, anche sul piano del diritto penale, forme di etero-
integrazione normativa, attuata mediante il ricorso a fonti di diritto positivo non legislative, a cui viene
commesso, in definitiva, l’ufficio di conferire concretezza al precetto penale. Questo procedimento di
produzione normativa contiene il rischio di collisione sia con il principio della riserva di legge, che con il
principio di tassatività e determinatezza della norma penale, nella misura in cui mette in discussione il
requisito della predeterminazione legislativa della regola di condotta, penalmente sanzionata.
Il caso-limite è costituito dalla c.d. norma penale in bianco; espressione con cui si designa l’ipotesi di
una norma penale contrassegnata dalla scissione del binomio precetto-sanzione, nel senso che essa stabilisce
sì la sanzione, ma rimette interamente ad una fonte subordinata la determinazione del precetto.
Orbene, non vi è dubbio una norma del genere debba ritenersi incostituzionale, per il suo evidente
contrasto con l’art. 25 co. 2 Cost. Per stabilire, però, quando si è di fronte ad una vera e propria norma penale
“in bianco”, è necessario esaminare preliminarmente diversi modelli di rinvio a fonti secondarie, che si
riscontrano nella prassi legislativa.
a) una prima ipotesi è quella in cui la norma di legge rinvia per la determinazione o la maggiore
specificazione della condotta vietata ad una fonte secondaria preesistente e ben definita : in tal
caso il principio di legalità non soffre alcuna lesione, perché, in realtà, la legge predetermina interamente il
precetto, sia pure mediante il rinvio ad un testo normativo, di carattere non legislativo, di cui semplicemente
evita, per economia di formulazione, di recepire materialmente il contenuto.
b) Opposto sembra essere il caso del rinvio ad una fonte secondaria non ancora esistente, in
quanto determina senza dubbio una lesione del principio della riserva di legge. Diversamene stanno però le
cose quando la legge predetermina in via generale la condotta vietata, per esempio la detenzione di sostanze
stupefacenti, demandando però alla fonte secondaria di specificare, su un piano strettamente tecnico, i
presupposti per il suo verificarsi, di stabilire ad esempio quali siano le sostanze stupefacenti non consentite.
L’integrazione normativa può risultare ammissibile, a condizione però che la legge predetermini almeno i
criteri in base ai quali la fonte secondaria concorrerà alla specificazione del precetto.
c) In tutti gli altri casi in cui una fonte secondaria sia chiamata ad integrare, in via non
puramente tecnica, il contenuto di un precetto penale, la legittimità costituzionale del relativo atto
legislativo statuale dipende dalla misura della predeterminazione legislativa della regola di condotta
penalmente sanzionata.
Investita della questione di costituzionalità delle c.d. norme penali in bianco, la Corte Costituzionale ha
avuto modo di precisare che il principio di legalità non può ritenersi violato quando sia una legge dello Stato a
stabilire i caratteri, i presupposti, il contenuto e i limiti dell’atto o del provvedimento non legislativo che
concorre a determinare la condotta vietata. Il rinvio a una fonte non legislativa, in altre parole, non determina
ex se l’illegittimità costituzionale della relativa previsione; ma solo se, e in quanto, la predeterminazione
legislativa degli elementi del precetto non sia sufficientemente tassativa, così da rimettere alla fonte
subordinata la stessa determinazione della regola di condotta penalmente sanzionata.
4) LE FONTI COMUNITARIE DI DIRITTO PENALE
Il progressivo completamento del processo di unificazione europea ha reso via via più esteso ed in qualche
modo più complesso il problema dei rapporti tra la legge penale nazionale e la sempre crescente produzione
normativa di fonte comunitaria.
Certamente, allo stato, la legislazione comunitaria, quale che sia la tipologia degli atti normativi
considerati, non può costituire legittima fonte di produzione di incriminazioni penali sostanzialmente per due
ordini di motivi: da un lato, il principio di riserva di legge statale contenuto nell’art. 25 co. 2 Cost. non è
derogabile; dall’altro, manca una piena legittimazione democratica degli organi comunitari dotati di potestà
legislativa.
Nonostante all’Unione europea non sia dunque attribuita alcuna potestà punitiva diretta, tuttavia non può
negarsi che la crescente influenza delle fonti comunitarie abbia determinato una rilevante erosione del
principio di riserva di legge. Sono, infatti numerosi i modi in cui le fonti comunitarie non solo partecipano a
vario titolo alla definizione dei contenuti della legislazione penale degli Stati membri, ma ne condizionano
anche le scelte di politica criminale, attraverso le direttive.
Le norme del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) che si occupano della cooperazione
giudiziaria in materia penale confermano la natura solo indiretta della competenza penale dell’Unione in
questo settore, ma riconoscono in maniera esplicita la possibilità che tramite direttive, adottare secondo la
procedura legislativa ordinaria, vengano stabilite “norme minime relative alla definizione dei reati e delle
sanzioni”:
a) “In sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante
dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni.
b) “Allorché il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia
penale si rivela indispensabile per garantire l’attuazione efficace una politica dell’Unione in un settore che è
stato oggetto di misure di armonizzazione” (art. 83.2 TFUE).
Il legislatore europeo, dunque, pur non potendo emanare norme incriminatrici, è in grado di determinare
in misura significativa non solo i contenuti descrittivi, ma anche le scelte sanzionatorie, diventando così
protagonista della politica criminale degli ordinamenti nazionali.
Tra le norme del trattato che assumono rilevanza al fine di definire i termini del rapporto attuale tra
legislazione europea e diritto penale interno vi è indubbiamente anche l’art. 86 TFUE. Tale norma prefigura
infatti la istituzione di una Procura europea alla quale affidare il “compito di combattere i reati che ledono gli
interessi finanziari dell’Unione” definiti dallo stesso articolo.
Su di un piano più generale bisogna poi ricordare che i rapporti tra il diritto dell’Unione europea e il diritto
nazionale, nel caso in cui si verifichi una sovrapposizione tra i due livelli normativi, sono regolati in base al
principio del “primato” del primo sul secondo, in virtù del quale la norma comunitaria può limitare o
addirittura neutralizzare l’efficacia di una norma penale statale che contrasti con essa e questo vale anche per
le norme penali.
Infatti, in applicazione degli artt. 11 e 117 Cost., ove si verifichi un contrasto fra una norma comunitaria e
una norma interna, il giudice nazionale ha l’obbligo di interpretare la norma interna in modo conforme al
diritto europeo. Nel caso di dubbio circa il significato della norma europea il giudice potrà investire della
questione la Corte di Giustizia dell’UE. Se, però, un’interpretazione per così dire adeguatrice, che elimini
l’apparente conflitto tra le due norme, non è possibile, il giudice è obbligato a dare diretta applicazione alla
norma comunitaria, disapplicando nel caso di specie la normativa interna.
In proposito è stato opportunamente chiarito che il principio di prevalenza, naturalmente, opera a
condizione che la norma comunitaria sia sufficientemente precisa e la sua applicazione non richieda
l’intervento di ulteriori atti normativi comunitari o nazionali. Queste caratteristiche, tipiche dei Trattati e che i
Regolamenti, sono a volte riscontrabili anche nelle Direttive, che normalmente individuano i risultati da
perseguire attraverso l’emanazione di una legislazione nazionale ad hoc, ma possono presentare anche un
contenuto più analitico, sostanzialmente eliminando spazi di discrezionalità per il legislatore nazionale. In
quest’ultimo caso si è ritenuto che anche le Direttive potessero dar luogo a fenomeni di disapplicazione della
norma nazionale ad esse contraria, là dove il legislatore nazionale fosse stato inadempiente ai suoi obblighi,
mancando di dare attuazione alla Direttiva.
5) DIRITTO PENALE E FONTI CONVENZIONALI. LA CEDU
Obblighi a carico del legislatore ed anche del giudice possono altresì discendere inoltre da norme
internazionali di fonte pattizia. Particolare rilievo per il diritto penale assume da questo punto di vista la
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
Dopo che per lungo tempo la Corte costituzionale si era limitata ad utilizzare la CEDU e le altre fonti
convenzionali come semplici strumenti di interpretazione delle norme costituzionali, a seguito della modifica
dell’art. 117 Cost., che vincola il legislatore al rispetto, oltre che della Costituzione e dell’ordinamento
comunitario, anche degli obblighi internazionali, ha mutato orientamento. Nelle due sent. 348 e 349/2007
la Corte ha infatti riconosciuto l’avvenuto inserimento della CEDU nel sistema delle fonti del nostro
ordinamento, con un rango intermedio tra Costituzione e legge ordinaria, operando dunque come parametro
interposto nei giudizi di legittimità costituzionale.
Questo significa che, se le norme interne presentano un contrasto con la CEDU e salvo che non sia possibile
una interpretazione conforme alla CEDU, il giudice comune non potrà disapplicarle, ma dovrà sollevare una
questione di legittimità davanti alla Corte costituzionale. La Corte nel riservare a sé l’accertamento
dell’eventuale contrasto ha affermato che in ogni caso bisognerà verificare “se le stesse norme CEDU,
nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno
equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana (sent. 394/2007). In ogni caso, solo una
giurisprudenza consolidata della Corte EDU risulta vincolante per il giudice, mentre nessuno obbligo esiste in
tal senso a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento ormai divenuto definitivo.
6) CONSUETUDINE E DIRITTO PENALE
Fra i postulati elementari del principio di legalità va annoverata l’esclusione della consuetudine (intesa
quale fenomeno della ripetizione, generale uniforme e costante di un determinato comportamento, sorretta e
accompagnata dalla convinzione del suo valore come norma giuridica) dalle fonti del diritto penale.
Con l’esclusione della consuetudine dalle fonti del diritto penale non hanno niente a che vedere altri
fenomeni, talvolta impropriamente richiamati a proposito dei rapporti fra consuetudine e diritto penale.
Ci riferiamo innanzitutto ai casi in cui la legge fa espressamente rinvio a criteri di valutazione
morali, sociali, etc. – eventualmente, quindi, anche consuetudinari – nella definizione di un
comportamento vietato o dell’ambito di applicazione del precetto (es. art. 527 c.p. che punisce la condotta di
atti osceni, cioè quelli che, secondo il sentimento comune, offendono il pudore).
È evidente che, in questi casi, non è in alcun modo in questione una pretesa rilevanza della consuetudine
quale fonte di diritto penale. Si tratta, più semplicemente, della recezione, da parte della norma penale, di un
giudizio di valore extragiuridico, ad essa preesistente, che la norma integra nel comando o divieto penale, non
diversamente da qualsiasi altro dato della realtà fenomenica che concorra a definire il contenuto del precetto.
Solo in questo limitato senso è dato parlare di una funzione integratrice della consuetudine, che in ogni caso si
configurerebbe esclusivamente quale consuetudine secundum legem. Lo stesso discorso vale per quelle
ipotesi in cui la legge, nello stabilire determinate cause di non punibilità del fatto previsto
come reato, implicitamente evoca anche la consuetudine, quale fonte di diritto. Può essere questo
il caso dell’art. 51 co. 1 c.p., che stabilisce la non punibilità del fatto costituente reato, che sia compiuto
nell’esercizio di un diritto: poiché nell’ordinamento giuridico generale un diritto può avere la sua fonte anche
nella consuetudine. Ma si tratta di una regola che scaturisce dalla stessa norma giuridico-penale, nel punto in
cui definisce il suo ambito di applicazione e, dunque, la consuetudine non ha neppure in questo caso, una
funzione modificatrice o estensiva della norma penale.
Va tenuto, comunque, ben fermo che alla consuetudine non potrebbe mai riconoscersi l’effetto di estendere
il comando o il divieto penale oltre i casi e i tempi in esso considerati. Si deve, perciò, escludere, ad esempio,
che il precetto dell’art. 40 c.p., secondo cui “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire,
equivale a cagionarlo”, possa essere interpretato nel senso che anche un obbligo nascente da regole
consuetudinarie assuma rilevanza ai fini di questa regola dell’ordinamento.

IL PRINCIPIO DI “TASSATIVITA’ E DETERMINATEZZA” DELLA FATTISPECIE LEGALE


Perché il principio di legalità adempia a una reale funzione di garanzia, è necessario che la fattispecie legale
del reato sia delineata secondo criteri di tassatività e determinatezza che rendano possibile la riconduzione del
singolo, concreto fatto punibile al modello astratto, delineato dal legislatore (c.d. sussunzione).
Benché tassatività e determinatezza siano spesso utilizzati come sinonimi, in realtà, sul significato dei due
termini è possibile operare una distinzione concettuale: mentre la determinatezza designa infatti una
caratteristica attinente alla formulazione della fattispecie, la tassatività riguarda, invece, il momento
applicativo, avendo la funzione di impedire al giudice l’estensione dell’incriminazione oltre i casi da essa
espressamente previsti.
Il normale riferimento contestuale ai due termini appare, tuttavia, giustificato dalla stretta correlazione fra
i due aspetti. È evidente, infatti, che quanto più è determinata la descrizione legislativa di un reato, tanto più il
giudice risulterà vincolato dal contenuto del precetto e tanto più il messaggio legislativo sarà efficace.
Il principio di tassatività, che la dottrina italiana ricava dsall’art. 25 co. 2 Cost., esprime, a ben vedere,
una implicazione, in chiave garantistica, del canone di frammentarietà della legge penale: se è vero, infatti, che
il diritto penale reagisce solo a determinate e ben circoscritte modalità di aggressione di determinati beni
giuridici, ne consegue necessariamente che dalla norma penale debba emergere con sufficiente precisione sia
il bene che si vuole proteggere con la minaccia della sanzione, sia le specifiche modalità di aggressione, a cui è
riservata la risposta penale. È stato, del resto, giustamente osservato che la stessa pretesa di obbedienza della
norma risulta sminuita di efficacia, non appena il contenuto del comando risulta dubbio o difficilmente
riconoscibile.
Un’ulteriore implicazione della regola della tassatività è costituita dalla pretesa che il fatto vietato sia
realmente suscettibile di verificarsi nella realtà, così da essere riconoscibile nella sua tipicità. Questo principio
è stato posto dalla Corte Cost. a base della dichiarazione di illegittimità dell’art. 603 c.p. che incriminava il
delitto di plagio, descrivendolo come il fatto di chi sottopone una persona al proprio potere, in modo da
ridurla in totale stato di soggezione. Con una sentenza del 1981la Corte Cost., riscontrato che l’art. 603
prevedeva un’ipotesi non verificabile nella realtà, non essendo dimostrabile in base alle attuali conoscenza che
possano esistere esseri capaci di ottenere, con i soli mezzi psichici, l’annientamento totale di una persona,
concludeva nel senso dell’indeterminatezza della norma. Secondo il pensiero della Corte, dunque, il principio
di tassatività non solo richiede una descrizione intellegibile della fattispecie, ma risulta osservato solo
finantochè nelle norme penali vi sia riferimento a fatti realmente suscettibile di verificarsi nella realtà
Tassatività e determinatezza della fattispecie legale, in materia penale, sono assunte dalla Corte
costituzionale come requisiti di validità delle norme incriminatrici.
Uno degli aspetti più rilevanti sotto cui viene oggi considerato il canone costituzionale della
determinatezza è costituito dalla sua funzione di orientamento per la selezione delle tecniche più idonee per
una compiuta esplicazione del principio di legalità. La tecnica di redazione delle fattispecie penali,
infatti, un ruolo decisivo per la riconoscibilità del divieto legale e quindi per il concreto realizzarsi delle
esigenze sostanziali sottese al principio di legalità. È evidente, infatti, che quanto più è determinata la
descrizione legislativa di un reato, tanto più il giudice risulterà vincolato dal contenuto del precetto e tanto più
il messaggio legislativo sarà efficace.
Le tecniche di redazione delle fattispecie penali riguardano sia la struttura complessiva della norma
incriminatrice, sia i singoli elementi che la compongono. Sotto il primo profilo si distinguono tre tecniche di
redazione delle norme penali: normazione per clausole generali, normazione casistica e normazione sintetica.
È ormai pacifico che in diritto penale non possa farsi ricorso ad una normazione per clausole generali, giacchè
una normazione di questo tipo rimetterebbe sostanzialmente alla discrezionalità del giudice la determinazione
dell’ambito del punibile, violando così il principio di legalità. Una parte minoritaria della dottrina (Marinucci e
Dolcini) ha, quindi, proposto in alternativa alla normazione per clausole generali, quella casistica, la quale,
tuttavia, non sembra esente da critiche. Si è, infatti, osservato che l’adozione di una tale tecnica di normazione
oltre a presentare il rischio di incentivare una legislazione, di per sé, già ipertrofica, può favorire la
compresenza nella stessa norma di ipotesi eccessivamente disomogenee. Per le ragioni sinora espresse,
dovrebbe ritenersi preferibile una normazione sintetica che faccia riferimento ad elementi descrittivi che
abbiano capacità di sintesi. In tale prospettiva, la fattispecie incriminatrice, nel suo complesso, per essere
determinata deve descrivere chiaramente sia l’offesa al bene giuridico che si vuole prevenire con la minaccia
della sanzione sia le modalità di aggressione al bene.
Al riguardo assume rilievo la distinzione tra fattispecie a forma vincolata, che sono quelle in cui il
legislatore descrive in modo più o meno dettagliato quali sono le modalità di condotta rilevanti per il diritto
penale, e fattispecie a forma aperta, in cui il legislatore appare indifferente alle specifiche modalità del
comportamento, imperniando invece la previsione sul risultato dell’azione, in termini di lesione o messa in
pericolo del bene protetto.
Per quanto concerne, invece, i singoli elementi della fattispecie incriminatrice assume rilievo la distinzione
elementi descrittivi della fattispecie penale, quelli cioè che si concretano in una mera descrizione di
dati della realtà empirica, ed elementi c.d. normativi, quelli, cioè, che non descrivono direttamente un dato
della realtà sensibile, ma rinviano per la determinazione del loro contenuto ad una norma giuridica diversa da
quella incriminatrice o ad un giudizio normativo non giuridico.
Gli elementi normativi del primo tipo non pongono, in linea di massima, problemi di determinatezza,
essendo di regola individuabile con sufficiente certezza la norma giuridica alla quale rinviano (nel furto ad es.
l’altruità della cosa sottratta si desume dalle leggi civili in materia di proprietà e possesso).
Gli elementi normativi del secondo tipo, invece, presentano aspetti di maggiore problematicità, trattandosi
del rinvio a regole sociali, di costume ecc., per definizione assai più incerte e mutevoli rispetto alle norme
giuridiche. In tali casi, il grado di determinatezza dalla fattispecie dipende interamente dal grado di puntualità
e conoscibilità delle regole di giudizio richiamate.
Ciò premesso, non sembra opportuno contrapporre nettamente fra loro due opposte tipologie di
normazione, a seconda che la struttura della norma sia descrittiva, ovvero fondata, “sinteticamente”, sul rinvio
ad una fonte ad essa esterna. Non solo, infatti, salvi alcuni casi limite, la realtà della normazione penale è
contrassegnata da un intreccio di elementi descrittivi e di elementi normativi; ma c’è altresì da considerare
che, da un lato, a norme fondate, in apparenza, interamente su elementi descrittivi, può non corrispondere
affatto un tipo delittuoso sufficientemente determinato; e che, dall’altro, anche gli elementi normativi hanno
una funzione descrittiva a cui è assolutamente impossibile rinunciare. Si aggiunga che spesso elementi
tipicamente descrittivi presuppongono tuttavia momenti valutativi: si pensi al significato dei termini
“incendio”, “disastro” e simili, negli artt. 424 ss. c.p.
In omaggio al principio di determinatezza, il legislatore penale dovrebbe comunque rifuggire dal ricorso ad
elementi che siano destinati a restare del tutto indeterminati e dovrebbe ridurre al minimo l’uso di una
terminologia connotativa, carica cioè di elementi di valore ideologicamente non neutri e, in ogni caso,
dovrebbe designare nel modo più chiaro il bene che intende proteggere, dando anche qui la preferenza a
termini semplici e di univoco significato.

IL DIVIETO DI ANALOGIA
L’analogia è quel procedimento interpretativo che, in mancanza di una espressa statuizione legislativa,
deduce la disciplina di un caso non regolato dalla regola dettata per un caso simile (analogia legis) o dai
principi generali dell’ordinamento giuridico (analogia juris). L’analogia costituisce dunque un mezzo di
integrazione dell’ordinamento giuridico, inteso ad assicurarne la completezza e destinato a colmare eventuali
lacune del diritto positivo.
Questo particolare procedimento di produzione normativa non è ammesso nel diritto penale che, in tal
modo, salvaguarda il suo carattere di “frammentarietà”.
Il divieto dell’interpretazione analogica è previsto nell’art. 14 delle Disposizioni sulla legge in
generale, che stabilisce: “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si
applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. Né può esservi dubbio che, attraverso la formula dell’art.
25 co. 2 Cost., il profilo costituzionale del principio di legalità includa anche il divieto di analogia.
È invece pacificamente ammessa l'interpretazione estensiva. Ed invero, se la si intende come
creazione, o posizione, di una nuova norma, essa deve ritenersi egualmente non ammissibile nel diritto penale,
poiché, in realtà, fra interpretazione estensiva ed analogia non può essere affermata alcuna distinzione
qualitativa. Si tratta, infatti, pur sempre di estendere ad un caso non previsto la disciplina prevista per altri
casi e, dunque, si è di fronte ad un procedimento di applicazione analogica.
Tutt’altro discorso, naturalmente, è quello di una interpretazione che si estenda fino al limite delle
ipotesi interpretative consentite dal tenore letterale della norma e rimanga, perciò,
nell’ambito di una ricognizione del suo significato. Ad esempio, l’art. 625 c.p. prevede come ipotesi
aggravata di furto quella del fatto commesso sul bagaglio dei viaggiatori in ogni specie di veicoli, nelle stazioni,
negli scali o banchine. Ebbene appartiene all’ambito dell’interpretazione chiedersi se la qualifica di viaggiatori
competa anche ai componenti del personale di un autoveicolo in servizio di trasposto viaggiatori;
concreterebbe viceversa un procedimento analogico l’estensione dell’aggravante anche agli appartenenti al
personale in servizio presso le stazioni a cui in nessun modo può attribuirsi la qualità di viaggiatori.
Il divieto di analogia in materia penale ha come caratteristico destinatario il giudice; ma giustamente si
ritiene che da esso debba farsi derivare la illegittimità costituzionale di quelle disposizioni in cui il legislatore
si sia servito di enunciazioni di tipo casistico, accompagnandovi clausole “di chiusura” del tipo: “in casi simili”,
“in casi analoghi”, etc., quando dalla norma non sia desumibile il criterio di similitudine, alla cui stregua si
dovrebbero individuare i casi non espressamente menzionati.
Una questione di grande portata concerne, peraltro, la definizione dell’ambito corrispondente alla
nozione di “leggi penali” nell’art. 14 disp. prel. c.c.
È pacifico che il divieto di applicazione analogica concerna non solo le norme penali “incriminatrici”, quelle
cioè che prevedono la figura base del reato, ma anche quelle disposizioni che concorrono, in via generale, a
definire i presupposti della punibilità. Si discute, invece, se il divieto debba altresì ritenersi operante anche per
quanto concerne la c.d. analogia in bonam partem: vale a dire in relazione alle norme che prevedono
cause di non punibilità del fatto previsto come reato, o ipotesi di attenuazione della pena.
L’orientamento largamente prevalente in dottrina è nel senso dell’ammissibilià dell’analogia in bonam
partem in quanto le norme che tolgono “illiceità” al fatto penalmente sanzionato non sono norme penali, bensì
autonome norme non penale, aventi effetto sull’intero ordinamento giuridico; ne segue la loro possibile
estensione analogica, inibita alle sole norme penali in senso stretto, per le peculiari esigenze garantistiche che
ne presidiano l’applicazione.
Ciò non di meno si pongono limiti per l’ammissibilità della c.d. analogia in bonam partem. La norma di
favore sarà infatti suscettibile di estensione analogica se e in quanto sia espressione di un principio generale
dell’ordinamento o di una norma giuridica, ovunque localizzata nell’ordinamento, che si ponga anche in
contrasto con un comando o divieto penale, paralizzandone l’efficacia.
Non a caso, il divieto di analogia si ripropone immediatamente quando si tratti non di una norma
appartenente all’ordinamento giuridico generale, ma che sia espressione, invece, di uno specifico limite
interno allo stesso diritto penale. Si pensi alle cause di estinzione del reato o alle cause di esclusione della
punibilità.
Quanto alle circostanze attenuanti non vi è dubbio che, essendo le norme che le prevedono di esclusiva e
caratteristica pertinenza dell’ordinamento penale, si debba escludere la loro estensione analogica
Va, infine, precisato che il divieto di analogia non riguarda le norme del diritto processuale penale.

IRRETROATTIVITA’ E NON ULTRATTIVITA’ DELLE NORME PENALI INCRIMINATRICI


Il divieto di applicazione retroattiva delle norme penali incriminatrici costituisce una garanzia
fondamentale contro l’arbitrio del legislatore e del giudice e corrisponde ad una manifestazione elementare del
principio di legalità e delle connesse esigenze di certezza del diritto. Il principio di irretroattività, nel nostro
ordinamento, riguarda, in generale, la legge (art. 11 Preleggi: “La legge non dispone che per l’avvenure; essa
non ha effetto retroattivo”); ma solo per la materia penale la regola contenuta nell’art. 2 co. 1 c.p. (“Nessuno
può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiiva reato”) è
assurta al rango di principio costituzionale, attraverso l’art. 25 co. 2 Cost., a norma del quale nessuno può
essere punito se non in forza di una legge “che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.
Va segnalato che, a differenza di quanto sottolineato a proposito dell’analogia, il divieto di applicazione
retroattiva della legge penale concerne tutte le norme giuridiche, anche non penali, da cui potrebbe
dipendere la rilevanza penale sopravvenuta del fatto; ivi comprese le disposizioni contenute in una fonte
normativa subordinata che vengano ad integrare una norma penale “in bianco”. Se, ad esempio, un elenco di
sostanze nocive il cui uso sia vietato nella preparazione di alimenti venga aggiornato, con aggiunta di nuove
voci, la punibilità dell’uso delle sostanze originariamente non contemplate riguarderà soltanto i
comportamenti successivi all’entrata in vigore della norma integratrice di fonte subordinata.
Anche le modificazioni in malam partem delle norme di “parte generale”, da cui derivi la punibilità di
un fatto che in precedenza non sarebbe risultato punibile, soggiacciono, ovviamente, al divieto di applicazione
retroattiva.
Quanto all’altro termine di riferimento (il tempo in cui fu commesso il fatto) esso dev’essere stabilito,
avendo riguardo al tempo in cui si è realizzata nel mondo esterno la condotta che la norma sopravvenuta
qualifica come reato. Se, infatti, ci si riferisse all’evento si potrebbe incorrere proprio in un’applicazione della
legge penale in flagrante contrasto con il divieto di irretroattività. Ed invero, se l’evento si verifica ad una certa
distanza di tempo dal compimento dell’azione e la norma incriminatrice viene emanata nel periodo di tempo
intercorrente fra il compimento dell’azione, non ancora previsto come reato, e il verificarsi dell’evento, l’autore
verrebbe punito alla stregua di una norma da lui non conoscibile, perché non ancora esistente, al momento del
compimento dell’azione.
Naturalmente, al fine stabilire il tempo del “fatto commesso”, bisogna tener conto delle peculiarità
strutturali del fatto stesso e della corrispondente ipotesi di reato. Ad esempio, nel reato omissivo il tempus
commissi delicti coincide con l’ultimo momento utile in cui il soggetto doveva agire e non ha agito; nei reati
caratterizzati dal protrarsi della condotta esecutiva per un certo tempo, sarà rilevante solo quella parte della
condotta realizzata dopo l’entrata in vigore della norma.
Accanto alla regola della irretroattività della legge penale si pone il principio di non ultrattività della
norma penale: sia nel senso che essa non si applica ai fatti commessi dopo la sua abrogazione, e sia nel
senso, che i suoi effetti cessano anche rispetto ai fatti commessi durante la sua vigenza e per i quali sia
intervenuta una sentenza di condanna, passata in cosa giudicata.
Queste conseguenze della c.d. abolitio criminis sono disciplinate dall’art. 2. co. 2 c.p. che dispone:
“Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è
stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
È evidente che l’art. 2 co. 2 c.p. soddisfi le esigenze poste dal principio costituzionale di eguaglianza dei
cittadini davanti alla legge (art. 3 co. 1 Cost.), poiché evita la palese disparità di trattamento che, diversamente,
vi sarebbe fra coloro che scontano una condanna per aver commesso un fatto la cui realizzazione, dopo
l’abrogazione della legge incriminatrice, non è più oggetto di divieto penale. In ogni caso, anche a prescindere
dalla lesione del principio di uguaglianza, viene giustamente osservato che, se l’abrogazione di un illecito
penale costituisce il risultato di una valutazione di compatibilità fra la condotta in questione e l’interesse
collettivo, sarebbe quanto mai “irragionevole” continuare ad infliggere una punizione per un fatto ormai
tollerato dall’ordinamento giuridico.
Dopo aver sancito al co. 1 il divieto di retroattività delle nuove incriminazioni ad al co. 2 il principio di non
ultrattività delle norme penali in caso di abolitio criminis, l’art. 2 co. 4 c.p. dispone: “Se la legge del tempo
in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più
favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”. La legge, dunque, attribuisce alla
norma più favorevole al reo la capacità di operare sia retroattivamente, sia ultrattivamente, prevalendo sulla
diversa regolamentazione che risulterebbe meno favorevole.
L’opinione, già diffusa in dottrina, che il principio della retroattività della legge più favorevole
abbia rango costituzionale, nonostante la mancanza di una espressa previsione nella Carta fondamentale,
è stata fatta propria dalla Corte costituzionale in due importanti sentenze (393 e 394/2006): a giudizio della
Corte, infatti, la retroattività della lex mitior trova fondamento costituzionale nel principio di cui all’art. 3
Cost., in quanto: “il principio di eguaglianza impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento
sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo
l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice”. Allo stesso tempo,
però, la Corte ritiene che proprio tale fondamento operi anche come limite, per cui il principio della
retroattività della legge più favorevole è derogabile tutte le volte in cui ciò risulti giustificato dalla necessità di
tutelare interessi antagonistici dotati di pari rilevanza.
Perché si possa parlare di “successione” di leggi, ai fini dell’art. 2 co. 4 c.p., è necessario che un
determinato comportamento conservi inalterato il carattere di illecito penale, devono, cioè, potersi applicare
in astratto sia la legge precedente che la legge successiva. Se, infatti, la nuova legge “crea” una figura di reato
del tutto nuova, ovvero se, nell’abrogare una preesistente norma incriminatrice, non vi sostituisce alcun altro
precetto di contenuto analogo non v’è che da applicare le regole generali sulla irretroattività e non ultrattività
delle norme penali. Vi è, invece, successione di legge ex art. 2 co. 4 c.p., quando una legge sopravvenuta: a)
abroga una norma incriminatrice preesistente, sostituendola però con un’altra, avente lo stesso oggetto; b) pur
in assenza di esplicita abrogazione, disciplina una materia già regolata da una o più norme incriminatrici
preesistenti, modificandone, per questa via, l’originario ambito di applicazione; c) modifica una norma
preesistente innovando, in qualsiasi modo, alla disciplina in essa contenuta.
Non appaiono problematici i casi nei quali, restando inalterato il contenuto precettivo della
norma penale, la nuova legge si limita a modificare il regime sanzionatorio del reato o
determinati presupposti della punibilità. In tutti questi casi, non vi è dubbio che si tratti di una
successione di leggi penali, con il conseguente obbligo di individuare la norma “più favorevole”, da applicare al
reo, purchè non sia stata pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna (un nuovo e diverso termine di
prescrizione, la introduzione, ovvero la rimozione, di una condizione di punibilità, la sostituzione della
perseguibilità a querela con quella d’ufficio o viceversa)
Ad una particolare ipotesi di successione modificativa del trattamento sanzionatorio si riferisce il “nuovo”
art. 2 co. 3 c.p. inserito con la legge 85/2006. La nuova disciplina, derogando parzialmente al principio della
intangibilità del giudicato di cui all’art. 2 co. 2. c.p., prevede che “Se vi è stata condanna a pena detentiva e la
legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte
immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’art. 135”.
Più complessi sono i problemi inerenti alla successione di leggi penali, quando ad essere interessato
dall’innovazione legislativa è lo stesso precetto penale: in questi casi è spesso meno agevole stabilire se la
nuova legge effettivamente succeda alla precedente o se sia in presenza di una totale o parziale abolitio
criminis.
Scarsamente problematici sono i casi in cui la legge modificatrice “riformula” sì il precetto, da un
punto di vista linguistico-espressivo, ma non lascia alcun dubbio circa il fatto che la nuova
disposizione ricopra esattamente l’ambito di applicazione di quella previgente. Lo stesso dicasi
per le ipotesi in cui la legge modificatrice aggiunge allo schema tipico del reato altre ipotesi, o
modalità di condotta, prima non incriminate che, pertanto, risulteranno punibili solo se posti in essere
dopo l’entrata in vigore della nuova disposizione; o, all’inverso, restringa l’ambito della punibilità,
escludendo alcune condotte che ricadevano nella previsione della norma sostituita e che
pertanto da quel momento in poi non saranno più punibili.
Ben più problematiche sono le ipotesi in cui la vecchia e la nuova disposizione si presentano in un rapporto
tale che una di esse si possa definire come norma speciale, rispetto all’altra: nel senso che contenga, rispetto a
quella, uno o più elementi specializzanti della condotta incriminata. In tali casi, infatti, si applica l’art. 15 c.p.,
che stabilisce: “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa
materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale,
salvo che sia altrimenti stabilito”. In particolare:
1) Nel caso in cui si verifica il passaggio da una norma incriminatrice speciale ad una avente
rispetto a quest’ultima carattere generale (con il conseguente inquadramento delle ipotesi, già
regolate dalla norma speciale preesistente, nella norma generale) si realizza un fenomeno di
successione di leggi ex art. 2 co. 4 c.p. solo quando la disposizione preesistente sia stata abrogata (la
abrogazione della legge speciale, determina un’espansione della legge generale, pertanto non è una
vera e propria abrogazione, ma una successione di leggi) e dunque ai fatti commessi sotto il vigore
della vecchia legge, che risultino sicuramente punibili sia alla stregua di essa, sia alla stregua della
nuova disciplina, si applicherà la legge più favorevole. Se, invece, la disposizione preesistente non è
stata abrogata, per i fatti prima non rilevanti vigerà il divieto di applicazione retroattiva della nuova
disposizione, mentre per quelli già preveduti nella vecchia disposizione (divenuta “speciale”, dopo la
creazione delle nuove norme”) continuerà ad applicarsi la precedente incriminazione, restando
dunque escluso un fenomeno di successione di leggi penali.
2) Nel caso di passaggio da una norma incriminatrice generale ad una avente, rispetto a
quest’ultima, carattere speciale, si realizza un fenomeno di successione di leggi ex art. 2 co. 4 c.p.
a prescindere che la disposizione preesistente sia stata o meno abrogata, purchè però la condotta
risulti punibile alla stregua sia della legge precedente che di quella successiva. Qualora, invece, la
condotta non presenti l’elemento specializzante ad essa sarà applicabile solo la legge generale, per cui
se quest’ultima è stata abrogata vi sarà un fenomeno di abolitio criminis (quando il legislatore abroga
una legge generale, si verifica una successione di leggi rispetto a quei fatti che possono continuare ad
essere sussunti nella legge speciale, ed un’ipotesi di abolitio rispetto a quei fatti che non rientrano
nella norma speciale).
La tesi tradizionalmente prevalente nella giurisprudenza assumeva come punto di riferimento per
affermare o negare la continuità dell’illecito il fatto storico concreto: secondo questo indirizzo, un fenomeno
successorio ex art. 2. co. 4 c.p. si verificherebbe tutte le volte in cui le caratteristiche concrete del fatto
consentono di sussumerlo tanto nella precedente fattispecie astratta quanto nella successiva.
Più di recente, la giurisprudenza, allineandosi ai prevalenti orientamenti della dottrina, ha ricondotto il
problema al piano del rapporto tra norme, affrontando il fenomeno della successione di leggi dal punto di vista
dei “rapporti strutturali” tra le fattispecie. Per aversi successione ex art. 2 co. 4 c.p., è cioè necessario che gli
elementi rispettivamente costituitivi della struttura delle due fattispecie, quella precedente e quella successiva,
possano dirsi tra loro comunque omogenei, in modo che non si determini una discontinuità nella
incriminazione (se gli elementi sono fra loro incompatibili si ha abolitio criminis).

SUCCESSIONE MEDIATE DELLA FATTISPECIE INCRIMINATRICE


Le ipotesi di successione mediate si verificano quando ad essere modificata non è la norma incriminatrice,
ma la norma extrapenale da essa richiamata. In altri termini, le modifiche normative non incidono
direttamente sugli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, ma vi incidono in maniera soltanto
indiretta o mediata. Si pensi ad esempio alle ipotesi di modifica di norme che integrano il contenuto di una
norma penale o che disciplinano elementi normativi della fattispecie (le modificazioni “immediate” della
fattispecie incriminatrice sono contrassegnate da un intervento del legislatore che incide direttamente sulla
struttura del tipo di un determinato reato).
Anche rispetto ad esse tuttavia si pone il problema dell’applicabilità delle regole contenute nell’art. 2 c.p.,
dovendosi in primo luogo stabilire se ci troviamo di fronte ad un fenomeno di successione normativa oppure si
tratta di abolitio criminis nei casi in cui la legge extrapenale richiamata non preveda più, a seguito della sua
modifica, il fatto commesso come reato.
La soluzione del problema è controversa essendo registrabili sia in dottrina che in giurisprudenza
orientamenti diversificati.
Secondo un orientamento a lungo prevalente nella giurisprudenza ed anche nella dottrina, poiché la
modifica legislativa in questi casi non inciderebbe né sulla struttura della fattispecie, che rimane invariata, né
sul disvalore del fatto da essa preveduto, il fenomeno sarebbe comunque estraneo alla disciplina dell’art. 2 co.
2 c.p.
Più di recente si è fatta strada l’idea che la questione vada affrontata caso per caso, appunto per valutare se
la modifica intervenuta abbia o meno inciso sulla portata offensiva del fatto, determinando solo nel primo caso
un effetto abolitivo.
A parte la difficoltà di distinguere, non sembra facile sostenere la ragionevolezza di soluzioni che
consentirebbero la punizione di comportamenti che, se commessi dopo la modifica dell’elemento esterno alla
fattispecie, risulterebbero penalmente irrilevanti e, d’altra parte, si fa giustamente notare che nel caso in cui il
fenomeno modificativo si presentasse invertito e cioè la modifica legislativa determinasse la punibilità di fatti
che prima non rientravano nella fattispecie incriminatrice nessuno dubiterebbe dell’applicazione della regola
della irretroattività. Sembra dunque preferibile la tesi che estende anche alle ipotesi di modifiche mediate le
regole dell’art. 2 c.p.

SUCCESSIONE DI LEGGI ECCEZIONALI E TEMPORANEE


L’art. 2 co. 5 c.p. stabilisce: “Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le
disposizioni dei capoversi precedenti”.
Ha carattere di legge eccezionale, quella legge che è dettata con espresso e specifico riferimento a situazioni
del tutto particolari: stato di guerra, gravi calamità naturali, epidemie, etc. Sono leggi temporanee quelle leggi,
rispetto alla cui vigenza il legislatore ha appunto prefissato un termine di durata.

LEGGI DICHIARATE INCOSTITUZIONALI E DECRETI LEGGE NON CONVERTITI


Fino alla sent. cost. 51/1985 era fortemente controversa in dottrina la questione del trattamento da
riservare, nel quadro della disciplina della successione di leggi penali, alle norme penali contenute in un
decreto legge non convertito in legge dalle Camere, oppure convertito in legge, ma con emendamenti
eliminativi o modificativi di norme penali in esso contenute.
La difformità di opinioni aveva origine dall’evidente discrasia fra la disciplina costituzionale della materia e
la norma contenuta nell’art. 2 co. 6 c.p. Quest’ultima disposizione estendeva infatti la disciplina generale
della successione di leggi penali ai casi di “decadenza e di mancata ratifica di un decreto legge e nel caso di un
decreto legge convertito in legge con emendamenti”. L’art. 77 co. 3 Cost. dispone, però, che i decreti
“perdono efficacia sia dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro 60 giorni dalla loro pubblicazione”.
Con la citata sent. 51/1985, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il 6 co. dell’art. 2 c.p., “nella
parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste le disposizioni contenute nei commi 2 e 4 dello stesso
art. 2 c.p.”. facendo salvo il riferimento al 1° comma dell’art. 2, la sentenza ha, quindi, attribuito al d.l. non
convertito la sola efficacia ricollegabile alla regola della irretroattività della norma penale incriminatrice.
In altre parole, se con il decreto legge è abrogata una incriminazione preesistente, la sua “reviviscenza” a
seguito della caducazione del d.l. non potrà spiegare effetti rispetto alle condotte realizzate nel periodo di
provvisoria vigenza della norma contenuta nel decreto, che resteranno non punibili, in quanto non costituenti
reato “secondo la legge del tempo” in cui furono commesse (art. 2 co. 1 c.p.).
Ma né l’abolitio criminis, né la modificazione in senso più favorevole al reo potranno, invece, spiegare
effetto nei confronti delle condotte antecedenti all’emanazione del decreto, la cui qualificazione giuridica
resterà affidata alla legge previgente, o a quella posteriore al d.l. non convertito, se più favorevole.
Questioni in parte analoghe si riconnettono alla dichiarazione di incostituzionalità delle norme
penali. L’art. 136 Cost. stabilisce, infatti, che quando la Corte dichiara l’illegittimità cost. di una norma di
legge o di un altro atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione.
Tale disposizione veniva generalmente interpretata nel senso di ammettere un’efficacia ex nunc della
dichiarazione di incostituzionalità. Tuttavia, tale interpretazione dava luogo ad un gravissimo inconveniente,
poiché finiva per inibire l’efficacia dell’eccezione di illegittimità proprio nella controversia a proposito della
quale essa era stata sollevata, facendo così venir meno l’interesse ad adire la Corte costituzionale.
L’art. 30 l.cost. 87/1953 ha permesso di superare questo inconveniente, precisando il dettato dell’art.
136 Cost. nel senso che le norme dichiarate incostituzionali “non possono avere applicazione dal giorno
successivo alla pubblicazione della decisione”. Si è in tal modo ottenuto l’effetto di consentire alla
dichiarazione di incostituzionalità di spiegare effetti nel procedimento in cui la relativa questione era stata
sollevata.
Con specifico riferimento alla materia penale, lo stesso art. 30 l.cost. 87/1953, ha inoltre previsto:
“Quando, in applicazione della norma dichiarata incostituzionale, è stata pronunciata sentenza irrevocabile
di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali”; con ciò sancendo, in analogia alla previsione
dell’art. 2 co. 2 c.p., la retroattività delle pronunce della Corte costituzionale, abrogative di norme penali
incriminatrici.
Il divieto di “applicazione” delle norme dichiarate incostituzionali anche ai fatti e ai rapporti
originariamente da esse regolati, ha indotto la dottrina dominante a riconoscere che le disposizioni abrogate
perdano in realtà efficacia ex tunc: con la conseguenza, dunque, di escludere un rapporto di successione fra le
leggi dichiarate incostituzionali e le leggi eventualmente ad esse preesistenti.
Questa regola, naturalmente, trova il suo limite – come per i decreti legge non convertiti – nel doppio
principio di irretroattività e non ultrattività della legge penale “sfavorevole”, con la conseguenza che ai fatti
commessi durante la vigenza della norma, poi dichiarata incostituzionale, quest’ultima potrà applicarsi, se
dovesse risultare più favorevole, rispetto ad una disposizione previgente.
Un’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte costituzionale, in materia penale, va naturalmente
esclusa anche nell’ipotesi in cui la Corte abbia eventualmente a dichiarare anticostituzionale una norma di
legge che preveda una causa di esclusione della responsabilità penale.
L’EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE NELLO SPAZIO

Ai fini della determinazione dei limiti di applicabilità della legge penale nello spazio, si fa riferimento, altre
al principio di territorialità, al principio di difesa, diretto a rendere applicabile la legge dello Stato a cui
appartengono i beni aggrediti o il soggetto passivo del reato, il principio di universalità, diretto ad applicare la
legge nazionale a qualsiasi delitto, dovunque e da chiunque commesso e il principio di personalità, alla stregua
del quale si applicherebbe sempre la legge dello Stato di appartenenza del reo.
L’art. 3 c.p. stabilisce: “La legge italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel
territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. La
legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano all’estero, ma
limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale”.
Questa disposizione sembra dunque designare come criterio fondante per la determinazione dei limiti di
obbligatorietà della legge penale, il principio di territorialità, pur prevedendo la possibilità di deroghe più o
meno ampie. In particolare, l’art. 3 co. 1 c.p. definisce l’ambito di validità spaziale della legge penale,
identificandolo nel “territorio dello Stato”, alludendo però all’ammissibilità di “eccezioni”, che sostanzialmente
corrispondo alle ipotesi di immunità personali. L’art. 3 co. 2 c.p., dal suo canto, sembra dare un certo spazio al
c.d. principio di “universalità” della legge penale nazionale, poiché ne estende l’ambito di validità, oltre i
confini del territorio nazionale, limitatamente, ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto
internazionale”.
L’art. 4 co. 1 c.p. fornisce la nozione di cittadino italiano, ai fini della obbligatorietà della legge penale,
ricomprendendovi “gli appartenenti per origine o per elezione ai luoghi soggetti alla sovranità dello Stato e
gli apolidi residenti nel territorio dello Stato”. Quanto alla nozione di “territorio dello Stato”, ai sensi dell’art.
4, comma 2°, agli effetti penali è tale “il territorio della Repubblica e ogni altro luogo soggetto alla sovranità
dello Stato”
L’art. 6 c.p., dopo aver stabilito, al co. 1, che è punito secondo la legge italiana chiunque commette un
reato nel territorio dello Stato, precisa, al co. 2: “Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato,
quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato
l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione”.

I LIMITI DELLA PERSEGUIBILITA’ DEI REATI COMMESSI ALL’ESTERO


Il nostro ordinamento pur accogliendo il principio di territorialità come criterio fondante per la
determinazione dei limiti di obbligatorietà della legge penale prevede la possibilità di deroghe più o meno
ampie che concernono sostanzialmente la punibilità del cittadino o dello straniero per reati commessi in Italia
o all’estero.
a) Reati commessi all’estero incondizionatamente punibili. L’art. 7 c.p. sancisce l’applicabilità
della legge italiana ad alcune categorie di reati, ancorché commessi interamente in territorio estero, sia dal
cittadino che dallo straniero. Si tratta, in particolare: a) dei delitti contro la personalità dello Stato; b) dei
delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto; c) dei delitti di falsità in
monete aventi corso legale nello Stato e di falsità in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiane; d) dei
delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti
alle loro funzioni; e) di ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali
stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana.
b) Altri delitti non politici commessi all’estero. L’art. 9 c.p. disciplina l’ipotesi di delitti commessi
in territorio estero da un cittadino, a danno dello Stato italiano o di un cittadino italiano. Il fatto è punibile
secondo la legge italiana alle seguenti condizioni: a) che per esso la legge italiana preveda la pena
dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni; b) che il colpevole si trovi nel territorio
dello Stato; c) che vi sia, nei congrui casi, richiesta dal Ministro di grazia e giustizia, ovvero istanza o querela
della persona offesa.
Se però il delitto è stato commesso a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero, ovvero di uno
straniero, per la punibilità del fatto è sempre necessaria la richiesta del Ministro di grazia e giustizia; nonché,
sempre che si trovi nel territorio italiano, all’ulteriore condizione che “l’estradizione di lui non sia stata
conceduta, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto, o da quello
dello Stato a cui egli appartiene”.
L’art. 10 c.p. disciplina l’ipotesi di delitti commessi in territorio estero da uno straniero, a danno dello
Stato italiano o di un cittadino italiano. Il fatto è punibile secondo la legge italiana alle seguenti condizioni: a)
che per esso la legge italiana preveda la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a un
anno; b) che il colpevole si trovi nel territorio dello Stato; c) che vi sia, nei congrui casi, richiesta dal Ministro
di grazia e giustizia, ovvero istanza o querela della persona offesa.
Se però il delitto è stato commesso a danno di uno straniero o di uno Stato estero, per la punibilità del fatto
è sempre necessaria la richiesta del Ministro di grazia e giustizia; nonché, sempre che si trovi nel territorio
italiano, all’ulteriore condizione che “l’estradizione di lui non sia stata conceduta, ovvero non sia stata
accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto, o da quello dello Stato a cui egli
appartiene” (art. 10 co. 2 c.p.).
c) Delitti politici commessi all’estero. L’art. 8 c.p. regola l’applicabilità della legge penale italiana
all’ipotesi di delitti politici commessi all’estero da un cittadino o da uno straniero, non rientranti fra quelli
incondizionatamente punibili, elencati nel precedente art. 7 c.p. La punibilità è in ogni caso condizionata alla
richiesta del Ministro della giustizia; quando si tratti di delitto punibile a querela della persona offesa, oltre a
tale richiesta, occorre anche la querela dell’offeso.
La definizione di delitto politico è contenuta nello stesso art. 8. Il co. 3 c.p., infatti, stabilisce: “Agli effetti
della legge penale, è delitto politico ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un
diritto politico del cittadino. È altresì considerato diritto politico il delitto comune determinato, in tutto o in
parte, da motivi politici”.
Da essa si ricavano, tradizionalmente, due distinte categorie di delitti politici: delitto “oggettivamente
politico” e delitto “soggettivamente politico”. Delitto oggettivamente politico è quello che offende un interesse
politico dello Stato, nella sua nozione comprensiva di popolo, territorio, sovranità, forma di governo, etc;
nonché quello che offende un diritto politico del cittadino, inteso come diritto di partecipare alla formazione
della volontà dello Stato.
Delitto soggettivamente politico è invece il delitto comune che sia “determinato, in tutto o in parte, da
motivi politici”.
Una problematica alquanto complessa concerne infine i rapporti fra l’art. 8 co. 2 c.p. e le disposizioni
contenute negli artt. 10 ult. co. e 26 cpv. Cost., che rispettivamente escludono l’ammissibilità
dell’estradizione dello straniero e del cittadino “per reati politici”.
L’estradizione è un istituto del diritto internazionale, consistente nella consegna di un individuo, da parte
di uno Stato, ad un altro Stato, perché sia da questo giudicato (estradizione processuale) o sottoposto
all’esecuzione della pena, se già condannato (estradizione esecutiva).
L’art. 13 c.p. prevede che l’estradizione è regolata, oltre che dalla legge penale italiana, “dalle convenzioni e
dagli usi internazionali”. Lo stesso art. 13 co. 2 c.p. dispone il principio c.d. della doppia incriminazione:
dichiara, cioè, inammissibile l’estradizione, “se il fatto che forma oggetto della domanda di estradizione, non è
preveduto come reato dalla legge italiana e dalla legge straniera”.
L’art. 13 co. 4 c.p. stabilisce, infine: “Non è ammessa l’estradizione del cittadino, salvo che sia
espressamente consentita nelle convenzioni internazionali”. Una disposizione perfettamente analoga è
contenuta nell’art. 26 co. 1 Cost.: “L’estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove sia
espressamente prevista dalle convenzioni internazionali”. Fin qui la disciplina codicistica dell’estradizione. Ad
essa si è però sovrapposta quella costituzionale, che ai limiti preesistenti ha aggiunto il divieto di estradizione
per i reati politici. Ci si chiede allora se la nozione costituzionale di reato politico sia la stessa che di essa
fornisce l’art. 8, comma 3°.
La perfetta coincidenza delle due nozioni di reato politico – quella codificata e quella costituzionale –
inizialmente ritenuta pacifica, soprattutto in giurisprudenza, fu in seguito messa in discussione dalla dottrina.
Nella giurisprudenza e nella dottrina più recente, si va facendo strada l’opinione che i limiti del divieto di
estradizione non possano essere ricavati da una nozione tendenzialmente restrittiva del reato politico; ma alla
stregua, invece, di una interpretazione del divieto costituzionale, secondo lo scopo per il quale è stato posto; e
cioè la protezione dell’estradando contro il pericolo di essere sottoposto, nello Stato richiedente, ad un
processo discriminatorio o a persecuzioni politiche.
Va infine sottolineato che la Corte costituzionale, con la sent. 223/1996 ha dichiarato illegittimo l’art. 698
co. 2 c.p., che stabiliva la concedibilità dell’estradizione qualora, pur essendo prevista nello Stato estero
richiedente la pena di morte per il fatto per il quale l’estradizione è domandata, lo Stato medesimo desse
“assicurazioni, ritenute sufficienti sia dall’autorità giudiziaria sia dal Ministro di grazia e giustizia, che tale
pena non sarà inflitta o, se già inflitta, non sarà eseguita”. La Corte ha dichiarato esplicitamente che la formula
delle “sufficienti assicurazioni” non è costituzionalmente ammissibile in quanto il divieto contenuto nell’art.
27 co. 4 Cost. ed i valori ad esso sottostanti, primo fra tutti il bene essenziale della vita, impongono una
garanzia assoluta.
I LIMITI PERSONALI ALL’OBBLIGATORIETA’ DELLA LEGGE PENALE: LE “IMMUNITA”

L’art. 3 c.p. nello stabilire l’obbligatorietà della legge penale per tutti coloro che, cittadini o stranieri, si
trovino nel territorio dello Stato, fa espressamente salve “le eccezioni stabilite dal diritto interno o dal diritto
internazionale” definite immunità penale.
Le immunità penali derivanti dal diritto pubblico interno concernono: il Presidente della Repubblica; il
Presidente del Senato; i membri del Parlamento e quelli dei Consigli regionali, i giudici della Corte
costituzionale; i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura.
Il Presidente della Repubblica, a norma dell’art. 90 Cost., non è responsabile penalmente degli atti
compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione. È
controverso in dottrina se per la definizione di alto tradimento e attentato alla Costituzione si debba fare
senz’altro riferimento alle corrispondenti fattispecie dei c.p.m. (art. 77 c.p.m.p., artt. 48-58 c.p.m.g.) e dell’art.
283 c.p. o se occorra, invece, una legge penale di attuazione che delinei apposite fattispecie criminose.
Il Presidente del Senato, che esercita, in via di supplenza, nei casi di assenza o impedimento, la funzione
del Presidente della Repubblica, gode, per il periodo di supplenza, della stessa immunità.
I membri del Parlamento, a norma dell’art. 68 co. 1 Cost., non possono essere perseguiti per le opinioni
espresse e per i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Sussistono, tuttavia, alcune divergenze circa la
portata del concetto di “esercizio delle funzioni”: ci si chiede, ad esempio, se vi rientrino discorsi
pubblicamente fatti dal parlamentare al di fuori della Camera di appartenenza. Sulla questione si è a più
riprese pronunziata la Corte costituzionale che ha circoscritto la portata della prerogativa prevista dall’art. 68
co. 1 Cost., ritenendo applicabile l’immunità oltre che agli atti tipici del mandato parlamentare alle sole forme
di manifestazione del pensiero che presentino un nesso funzionale con l’attività parlamentare, nel senso che
nell’opinione espressa sia possibile riscontrare una “corrispondenza sostanziale di contenuti con l’atto
parlamentare, non essendo sufficiente tal riguardo la mera comunanza di tematiche” (sent. 11/2000); si pensi,
ad esempio, ad una conferenza stampa nel corso della quale si illustrino i contenuti di determinate iniziative
parlamentari.
Di una analoga immunità godono i consiglieri regionali (art. 122 co. 4 Cost.), i giudici della Corte
costituzionale (art. 3 l.cost. 1/1948) e i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura.
Quanto alle immunità che derivano dal diritto internazionale – fondate, cioè, su una consuetudine
internazionale riconosciuta dal diritto interno, ovvero su convenzioni internazionali – vanno ricordate:
a) l’immunità riconosciuta dal Trattato del Laterano al Sommo Pontefice, la cui persona è definita “sacra e
inviolabile”; trattasi di immunità assoluta che concerne il Pontefice non solo nella sua veste di Capo dello Stato
estero, ma anche nella sua posizione di Capo della cristianità;
b) l’immunità totale, derivante dal diritto internazionale generale, di cui godono altresì i Capi di Stati esteri
e i Reggenti, che si trovino in tempo di pace nel territorio italiano; l’immunità si estende ai familiari che li
accompagnano e al seguito;
c) l’immunità accordata agli organi di Stati esteri per i fatti commessi nell’esercizio delle funzioni (Conv.
Vienna 1961 e 1963);
d) l’immunità assoluta, comprendente l’esenzione da qualsiasi forma di arresto e detenzione, accordata agli
agenti diplomatici accreditati presso il nostro Stato (Conv. Vienna 1961), di cui beneficiano anche i familiari
con essi conviventi; forme di immunità funzionale sono riconosciute anche al personale amministrativo e
tecnico delle missioni e loro famiglie conviventi; il Trattato del Laterano attribuisce agli agenti diplomatici e
agli inviati dei Governi presso la Santa sede le stesse prerogative e immunità riconosciute agli agenti
diplomatici presso lo stato italiano;
e) l’immunità spettante ai consoli e agli agenti diplomatici, quando essa è stabilita dalle relative
convenzioni; da atti internazionali deriva anche l’immunità funzionale riconosciuta ai membri delle istituzioni
specializzate dell’ONU e ai rappresentanti delle Nazioni Unite;
f) l’immunità accordata ai giudici della Corte dell’Aja dall’art. 19 dello Statuto della Corte e quella, più
circoscritta, riconosciuta a favore dei giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo;
g) le immunità, analoghe a quelle riconosciute nei paesi di appartenenza, spettanti ai membri del
Parlamento europeo (Prot. Bruxelles 1965);
h) l’immunità di cui godono gli appartenenti a corpi e reparti di truppe straniere, che si trovano nel
territorio dello Stato, previa autorizzazione; nonché i membri e le persone al seguito delle forze armate della
NATO di stanza nel territorio italiano.
Sarà il caso di precisare che le prerogative e immunità sopraelencate non escludono che le persone a cui
favore esse sono riconosciute possano rispondere penalmente dei loro atti e comportamenti di fronte alle leggi
dello Stato di provenienza.

Potrebbero piacerti anche