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PARTE SESTA

LE SANZIONI

PREMESSA
Il vigente ordinamento penale organizza la risposta statuale ai fenomeni di devianza criminale secondo tre
linee di intervento, che si articolano rispettivamente nella comminatoria delle pene, delle misure di sicurezza e
delle misure di prevenzione.
Misure di sicurezza e misure di prevenzione condividono con la pena l’effetto di aggressione alla sfera della
libertà individuale e della integrità patrimoniale del soggetto colpito; al pari di quella, sono oggi applicate
mediante procedimenti di carattere giurisdizionale, di rigorosa competenza del giudice penale; si dirigono
contro atteggiamenti, situazioni, comportamenti individuali, giudicati incompatibili con l’ordinamento di vita
della comunità.

SEZIONE PRIMA

LE PENE

PENE PRINCIPALI
Il c.p. vigente distingue le pene in principali e accessorie. Le pene principali sono inflitte dal giudice con la
sentenza di condanna, quelle accessorie “conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa”.
Le pene principali possono essere detentive o pecuniarie. Sono pene detentive l'ergastolo, la
reclusione e l'arresto, sono pene pecuniarie la multa e l'ammenda. L'ergastolo, la reclusione e la multa sono
le pene previste per i delitti mentre l'arresto e l'ammenda sono le pene previste per le contravvenzioni.
Le pene detentive brevi possono essere sostituite dalle sanzioni sostitutive delle pene previste e
disciplinate dalla legge n. 689 del 1981 nonchè, in fase d'esecuzione della pena, dalle misure alternative
alla detenzione.
Il catalogo delle pene principali, contenuto nell’art. 17 c.p., originariamente, si apriva con la menzione della
pena di morte, che, abolita dal codice Zanardelli, era stata reintrodotta nel c.p. del 1930, in coerenza con le
scelte politico-criminali ispirate a una strategia di estrema prevenzione mediante intimidazione. Con l’art. 1
d.lgs.lgt. 224/1944, la pena di morte venne nuovamente soppressa per i delitti preveduti dal c.p., stabilendosi,
nel contempo, che nei casi per cui essa era prevista, si applicasse, in suo luogo, la pena dell’ergastolo. Con l’art.
1 co. 1 e 3 d.lgs. 21/1948, la pena di morte venne eliminata anche dalle leggi penali speciali, diverse da quelle
militari di guerra, nelle quali restava in vigore: ciò in attuazione dell’art. 27 co. 3 Cost. che, nel ripudiare in
modo generalizzato, il ricorso alla pena di morte, aveva tuttavia fatti salvi i casi in cui essa era prevista nelle
leggi militari di guerra; anche questa residua ipotesi di ammissibilità della pena di morte è stata infine
eliminata, a seguito della legge 589/1994.
Nell’insieme, l’impianto sanzionatorio del c.p. appare fondato essenzialmente sulla pena detentiva che –
talvolta congiunta, talaltra (raramente) in alternativa con la pena pecuniaria – costituisce, almeno per i delitti
dolosi, praticamente la regola.

LE SINGOLE PENE PRINCIPALI


1) Le pene detentive sono: l’ergastolo, la reclusione e l’arresto.
a) L’ergastolo è la pena detentiva perpetua stabilita per i delitti, in quanto destinata a durare
tendenzialmente per la vita residua del condannato. La pena dell’ergastolo è scontata in uno degli stabilimenti
a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno (art. 22 c.p.). Il condannato all’ergastolo
può essere ammesso al lavoro all’aperto.
Per la sua dubbia compatibilità con il principio rieducativo, la costituzionalità della pena dell’ergastolo è
stata ripetutamente contestata; anche se una risalente sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato “non
fondata” la relativa eccezione di legittimità, sulla base di una concezione “polifunzionale” della pena, che
valorizza, fra gli scopi della sanzione penale, accanto all’obiettivo della rieducazione del condannato, “la
prevenzione generale, la difesa sociale e la neutralizzazione a tempo indeterminato di determinati
delinquenti”. Quest’orientamento è, tuttavia, confermato anche dalla sentenza costituzionale che ha sancito
l’inapplicabilità dell’ergastolo ai minori degli anni 18. Sta di fatto che, a seguito di varie modifiche legislative
intervenute in materia, risultano comunque ridimensionate le riserve di ordine costituzionale sull’ergastolo. Il
condannato all’ergastolo, infatti, attualmente è ammesso a godere della liberazione condizionale, dopo che
abbia scontato 26 anni di pena, nonché della liberazione anticipata e del regime di semilibertà, dopo aver
scontato 20 anni di pena. Cionondimeno, persistono tendenze abolizioniste; in tempi relativi recenti (1981), è
stato indetto sull’argomento, nel nostro paese, anche un referendum popolare, che si è tuttavia concluso con
diniego della proposta di abolizione dell’ergastolo.
b) La reclusione è la pena detentiva temporanea stabilita per i delitti. La sua durata può estendersi da
quindici giorni a ventiquattro anni (art. 23 c.p.); questo limite può essere elevato fino a trenta anni per effetto
di circostanze aggravanti o di concorso di reati. La pena della reclusione viene scontata in uno degli
stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno. Il condannato alla reclusione,
che ha scontato almeno un anno della pena, può essere ammesso al lavoro all’aperto.
c) L’arresto è la pena detentiva temporanea stabilita per le contravvenzioni. La sua durata può estendersi
da cinque giorni a tre anni; questo limite può essere elevato fino a cinque anni per effetto di circostanze
aggravanti e fino a sei per effetto di concorso di reati. Le regole che presiedono alla esecuzione della pena
dell’arresto sono analoghe a quelle stabilite per la reclusione. Un aspetto particolare dell’attuale disciplina
dell’arresto è costituito dal fatto che questa pena può sempre essere scontata in regime di semilibertà.
2) Una delle novità più significative che hanno accompagnato l’introduzione della competenza penale del
giudice di pace è rappresentata dalla previsione di pene “non detentive”, limitative della libertà
personale, secondo un indirizzo teso a realizzare obiettivi di decarcerizzazione.
L’art. 52 d.lgs. 274/2000, prevede, infatti, con la clausola di carattere generale, che agli autori di reati
appartenenti alla competenza del giudice di pace, originariamente puniti con una sanzione diversa dalla sola
pena pecuniaria, possa essere applicata, in alternativa alla pena pecuniaria (multa o ammenda), la pena della
permanenza domiciliare o quella del lavoro di pubblica utilità, che arricchiscono dunque il catalogo delle pene
principali elencate all’art. 17 c.p.
La pena della permanenza domiciliare non può essere inferiore a sei giorni, né superiore a
quarantacinque e consiste nell’obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di privata
dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e domenica”.
La pena del lavoro di pubblica utilità “non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi e
consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le
regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato”. Essa,
conformemente al divieto di lavoro forzato o obbligatorio contenuto nelle convenzioni internazionali, può
essere irrogata soltanto se l’imputato ne fa richiesta.
3)Le pene pecuniarie consistono nel pagamento allo Stato di una somma di denaro e possono avere
carattere fisso o proporzionale (art. 27 c.p.). Si dicono fisse quando sono determinate, a livello edittale, in
limiti prestabiliti fra un minimo e un massimo. Si dicono proporzionali, quando la loro entità è
commisurata a un dato variabile (ad esempio il valore di una cosa, come l’oggetto del reato, il valore del suo
profitto, etc.) e risulta dalla sua moltiplicazione per un coefficiente stabilito. Le pene proporzionali “non hanno
limite massimo”. Pene pecuniarie sono la multa e l’ammenda.
a) La multa è la pena pecuniaria prevista per i delitti. Essa “consiste nel pagamento allo Stato di una
somma non inferiore a €50, né superiore a €50.000” (art. 24 co. 1 c.p.). La pena della multa, oltre ad essere
comminata dalla singola norma incriminatrice, può essere aggiunta dal giudice, se la legge dispone per il
delitto la sola pena della reclusione, quando si tratti di fatti “determinati da motivi di lucro” (art. 24 co. 2 c.p.).
b) L’ammenda è la pena pecuniaria prevista per le contravvenzioni. Essa consiste nel pagamento allo
Stato di una somma non inferiore a €20 e non superiore a €10.000 (art. 26 c.p.).
La disciplina concernente l’applicazione e l’esecuzione delle pene pecuniarie è stata significativamente
innovata dalla legge 689/1981 (“Modifiche al sistema penale”) che ha stabilito in via generale il principio
secondo cui, nell’irrogazione delle pene pecuniarie, il giudice debba in ogni caso tener conto delle condizioni
economiche del reo (art. 133-bis co. 1 c.p.) e, in particolare, che possa aumentarle sino al triplo del massimo
previsto per legge, ovvero diminuirle fino a un terzo, “quando, per le condizioni economiche del reo, ritenga
che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa (art. 133-bis co.
2 c.p.).
La pena pecuniaria, non eseguita per insolvibilità del condannato, è soggetta a conversione. Nell’originaria
disciplina del c.p., la sanzione di conversione era costituita, per la multa, dalla reclusione e, per la pena
dell’ammenda, dalla corrispondente pena detentiva dell’arresto. Dopo che la Corte costituzionale aveva
dichiarato costituzionalmente illegittimo tale meccanismo di traslazione della pena, dai beni alla persona del
condannato, il legislatore, sempre nell’ambito della legge 689/1981, introdusse, quali nuove sanzioni di
conversione, la libertà controllata e il lavoro sostitutivo.

I CRITERI DI DETERMINAZIONE DELLA PENA E DI QUELLA PECUNIARIA.


Nell’ambito dei limiti edittalmente stabiliti, il giudice perviene alla determinazione finale della pena da
infliggere in concreto, attraverso l’esercizio di un potere che, per definizione legislativa è “discrezionale”. Egli
si orienta, cioè, sia nella scelta della specie di pena – quando la legge consente questa alternativa – sia nella
fissazione della quantità della pena, tra i limiti minimo e massimo, senza altro vincolo che quello di “tener
conto” di taluni elementi di giudizio, indicati dalla legge.
In via generale, i criteri principali cui il Giudice deve attenersi nell'opera di determinazione della pena
applicabile al caso di specie sono contenuti nell'art. 133 cp, 1° e 2° comma. Essi comprendono sia la gravità del
fatto, sia la capacità a delinquere.
La gravità del reato è desunta:
a) “Dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità di
azione”, tali indici esprimono l’insieme dei dati a cui si commisura il disvalore di azione del fatto, considerato
nel suo versante oggettivo;
b) “Dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato”;
c) “Dalla intensità del dolo o dal grado della colpa”, l’una si definisce in funzione della forma che il dolo
assume, e si può, di regola, considerare progressivamente decrescente, dal dolo intenzionale alle diverse specie
del dolo indiretto, il grado della colpa, a sua volta, risulterà, in termini oggettivi, dalla misura di divergenza fra
la condotta effettivamente tenuta e quella corrispondente all’obbligo di diligenza e in termini soggettivi, dal
livello di esigibilità della condotta rispettosa dell’obbligo di diligenza..
La capacità a delinquere è desunta:
a) Dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;
b) Dai precedenti penali e giudiziari, e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedente al reato;
c) Dalla condotta contemporanea e susseguente al reato;
d) Dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
Nella determinazione della pena, il Giudice non deve necessariamente prendere in considerazione tutti i
criteri indicati all'art. 133 cp essendo sufficiente che individui quello ritenuto prevalente. Inoltre, dovendo
individuare la pena principale base all'interno di una cornice edittale, la motivazione dovrà essere
particolarmente esaustiva soltanto laddove il giudice intenda discostarsi considerevolmente dal minimo
edittale. Per la concreta opera di determinazione della pena, il Giudice deve determinare la pena base, sulla
pena base applica gli aumenti e le diminuzioni derivanti dall'applicazione delle circostanze del reato, sulla
risultante s'applica l'eventuale aumento derivante dalla recidiva e, sulla pena così aumentata, l'eventuale
aumento derivante dal concorso formale o dalla continuazione dei reati. Sulla pena così complessivamente
ottenuta si applica l'eventuale aumento della pena pecuniaria derivante dall'art. 133 bis del c.p.
Nella quantificazione della pena pecuniaria, il giudice deve tener conto, oltre che dei criteri indicati nell’art.
133 c.p., “anche delle condizioni economiche del reo”. Questa integrazione dei criteri di commisurazione della
pena, introdotta dalla legge 689/1981, tende a perseguire l’eguaglianza di fatto fra i condannati, tenuto conto
che un uguale ammontare di pena pecuniaria colpisce in modo diseguale soggetti che abbiano differenti
disponibilità economiche.
L’enunciazione di questo criterio (aggiuntivo, rispetto a quelli contenuti nell’art. 133 c.p.) è integrata da
una ulteriore disposizione, contenuta nel capoverso dell’art. 133-bis, che faculta il giudice ad aumentare o
diminuire la pena fino al triplo di quella stabilita dalla legge, “quando, per le condizioni economiche del reo,
ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa”. In
virtù di quest’ultima disposizione il giudice può dunque oltrepassare, verso l’alto o verso il basso, gli stessi
limiti edittali, in considerazione delle condizioni economiche del condannato.
Il principio costituzionale, per cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, si riverbera
essenzialmente sull’art. 133 co. 2 c.p., imponendo una rilettura degli indici collegati al parametro della
“capacità a delinquere” che privilegi gli scopi di prevenzione speciale in chiave, appunto, di recupero e di
risocializzazione. Ciò significa che quel giudizio dovrà essere utilizzato, nella scelta e nel dosaggio della pena,
essenzialmente in funzione del reinserimento sociale del condannato.
La lettura costituzionalmente orientata dei criteri di commisurazione della pena, dal canto suo, impone di
assegnare alla misura della colpevolezza l’ufficio di fissare una sorta di “tetto”, non superabile, nell’irrogazione
della pena; alle finalità di recupero sociale, l’efficacia di indurre a determinare la pena in una misura inferiore
al limite segnato dalla colpevolezza, ogniqualvolta l’inflizione di una pena meno elevata appaia conforme allo
scopo di facilitare il processo di risocializzazione del condannato, o, quanto meno, di scongiurare la (ulteriore)
desocializzazione.

LE PENE ACCESSORIE
Il c.p. vigente distingue le pene in principali e accessorie. Le pene principali sono inflitte dal giudice con la
sentenza di condanna, quelle accessorie “conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa”.
In via generale, le pene accessorie, corrispondono a misure interdittive o sospensive dell’esercizio di diritti,
potestà, uffici, o a misure incapacitanti. La funzione delle pene accessorie è ovviamente configurata in dottrina
secondo prospettive influenzate dai diversi punti di vista sugli scopi della sanzione penale.
La sola caratteristica comune a tutte le pene accessorie è la loro complementarietà rispetto alla pena
principale. Le pene accessorie possono essere perpetue o temporanee. In questo secondo caso, la loro durata,
quando non è stabilita espressamente dalla legge, corrisponde alla durata della pena principale.
Da notare che, secondo l’opinione prevalente della dottrina, il catalogo delle pene accessorie contenuto
nell’art. 19 c.p. non può essere considerato come una elencazione tassativa; e, di fatto, le leggi speciali
contemplano non pochi casi di pene accessorie non ricomprese nell’art. 19 c.p.
Le pene accessorie previste per i delitti sono: a) L’interdizione dai pubblici uffici; b) L’interdizione da
una professione o da un’arte; c) L’interdizione legale; d) L’interdizione dagli uffici direttivi delle persone
giuridiche e delle imprese; e) L’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione; f) L’estinzione del
rapporto di impiego o di lavoro; g) La decadenza o la sospensione della responsabilità genitoriale.
a) L’interdizione dai pubblici uffici priva il condannato dal diritto di elettorato, attivo e passivo, e di
ogni altro diritto politico; di ogni altro pubblico ufficio e di ogni incarico, non obbligatorio, di pubblico
servizio; di gradi, titoli, e dignità accademiche, decorazioni e, in genere, diritti onorifici e della capacità di
assumerli.
L’interdizione dai pubblici uffici può essere perpetua o temporanea. Quella perpetua consegue di diritto
alla condanna all’ergastolo o alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni, e alla dichiarazione di
abitualità o professionalità nel delitto e di tendenza a delinquere. L’interdizione temporanea ha una durata
non inferiore a un anno e non superiore a cinque. Essa consegue alla condanna alla reclusione per un tempo
non inferiore a tre anni (in questo caso ha la durata di cinque anni) e alla condanna per delitti commessi con
l’abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione o al pubblico servizio, sempre che
non si tratti di condanna per delitto colposo.
b) L’interdizione da una professione o da un’arte priva il condannato della capacità di esercitare,
durante l’interdizione, una professione, arte, industria, o un commercio o mestiere, per cu è richiesto uno
speciale permesso, o una speciale abilitazione, autorizzazione o licenza dell’Autorità, e ne comporta la
decadenza. Non può avere durata inferiore a un mese, né superiore a cinque anni, salvi i casi espressamente
stabiliti dalla legge. Consegue alle condanne per delitti commessi con abuso di una professione, arte, mestiere,
etc. o con violazione dei relativi dovere.
c) L’interdizione legale priva il condannato della capacità di agire. Consegue alle condanne all’ergastolo
e alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni, sempre che non si tratti di condanna per delitto
colposo. L’interdizione legale produce anche la sospensione, per la durata della pena, dell’esercizio della
responsabilità genitoriale, salvo che il giudice disponga altrimenti.
d) L’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese
priva il condannato della capacità di esercitare, durante l’interdizione, l’ufficio di amministratore, sindaco,
liquidatore e direttore generale, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica
dell’imprenditore. Consegue “ad ogni condanna alla reclusione non inferiore a sei mesi per delitti commessi
con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti all’ufficio”. In mancanza di espressa determinazione
normativa, la durata dell’interdizione è pari a quella della pena principale. L’interdizione dagli uffici direttivi
non si applica nel caso di condanna per delitto colposo alla reclusione inferiore a tre anni e nel caso di
inflizione della sola pecuniaria.
e) L’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione comporta il divieto di concludere
contratti con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio.
Consegue alla commissione dei delitti contro la P.A. e non può avere durata inferiore a un anno né superiore a
tre anni.
f) L’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego comporta l’estinzione del rapporto di lavoro o di
impiego per il dipendente di amministrazioni o enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione
pubblica. Consegue alla condanna alla reclusione non inferiore a tre anni per i delitti contro la P.A.
g) La decadenza o la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale comporta la
sospensione dall’esercizio di essa per un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta, la privazione di
ogni diritto che al genitore spetti sui beni del figlio in forza della potestà, nonché l’incapacità di esercitare,
durante la sospensione, qualsiasi diritto che al genitore spetti sui beni del figlio. Consegue alla condanna
all’ergastolo e alla condanna per una serie di reati, quali l’incesto, i delitti contro lo stato di famiglia le
mutilazioni genitali femminili, i delitti contro la personalità individuale, tra i quali la riduzione in schiavitù, la
pornografia minorile e la prostituzione minorile, i delitti contro la libertà sessuale.
La sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale può essere disposta anche nel caso di
condanna alla reclusione non inferiore a cinque anni (art. 32 co. 3 c.p.).
Le pene accessorie previste per le contravvenzioni sono: a) la sospensione dall’esercizio di una
professione o da un’arte; b) la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.
a) La sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte. Consegue ad ogni condanna per
contravvenzione, commessa con abuso della professione, arte, etc., ovvero con violazione dei relativi doveri,
quando la pena principale inflitta non è inferiore a un anno di arresto; la sospensione non può essere di durata
inferiore a tre mesi, né superiore a tre anni.
b) La sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese ha contenuto
identico a quello della corrispondente misura interdittiva. Consegue ad ogni condanna all’arresto per
contravvenzioni commesse con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti all’ufficio; non può avere
durata inferiore a quindici giorni o superiore a due anni.
Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza di
condanna. Consegue alla condanna nei casi stabiliti dalla legge. Questa pena accessoria è disposta in
sentenza e consiste nella pubblicazione della sentenza di condanna nel sito internet del Ministero della
Giustizia; la pubblicazione è eseguita d’ufficio, ma a spese del condannato. La sentenza di condanna
all’ergastolo, oltre che pubblicata nei modi anzidetti, sia anche pubblicata mediante affissione nel Comune ove
è stata pronunziata, in quello ove il delitto fu commesso ed in quello ove il condannato aveva l’ultima
residenza.

LE PENE SOSTITUTIVE
La legge 689/81 prevede che il giudice, nell’atto in cui emette una sentenza di condanna, possa irrogare
una sanzione sostitutiva, in luogo della pena detentiva breve (reclusione, arresto) comminata per il reato.
L’applicabilità delle sanzioni sostitutive è circoscritta dalla misura della pena determinata, in concreto, dal
giudice. Nella originaria previsione della legge 689/1981, per essere sostituibile, la pena irrogata non doveva
superare i sei mesi di reclusione. Questo limite è stato notevolmente ampliato. Secondo la normativa vigente,
il giudice, quando ritiene di dovere determinare la pena detentiva entro il limite di sei mesi, può sostituirla con
una qualsiasi delle sanzioni sostitutive; quando si tratti di una pena superiore a sei mesi ma non superiore a
un anno, può sostituirla con la semidetenzione o con la libertà controllata; mentre, quando ritenga di irrogare
una pena superiore a un anno e non superiore a due anni, ha a disposizione la sola misura della
semidetenzione. Questi limiti di dilatano fino al triplo nelle ipotesi di reato continuato e di concorso di reati.
Nelle ipotesi in cui ha facoltà di determinare il tipo di sanzione sostitutiva da applicare, il giudice, dovrà
scegliere “quella più idonea al reinserimento sociale del condannato”.
Per quanto riguarda invece le esclusioni soggettive, le sanzioni sostitutive non possono essere applicate
a coloro che siano stati già condannati, con una o più sentenze, complessivamente ad una pena superiore ai
due anni di reclusione ed abbiano commesso il reato nei cinque anni dalla condanna precedente; inoltre, se la
pena detentiva è stata irrogata per un fatto commesso nell’ultimo decennio, essa non può essere sostituita: a) a
coloro che siano stati condannati due volte per reati della stessa indole; b) a coloro nei cui riguardi una pena
sostitutiva precedentemente inflitta sia stata convertita in pena detentiva ovvero sia stato revocato il regime di
semilibertà; c) infine a chi abbia commesso il reato durante il tempo in cui era sottoposto alla misura di
sicurezza della libertà vigilata o alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale.
Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi sono: la semidetenzione, la libertà controllata e la
pena pecuniaria.
1)La semidetenzione, sanzione con cui il giudice può sostituire le pene detentive superiori ad un
anno e non superiori a due anni, comporta l’obbligo di trascorrere almeno dieci ore al giorno negli istituti
di pena e una serie di limitazioni.
2)La libertà controllata, sanzione con cui il giudice può sostituire le pene detentive superiori a sei
mesi ma non superiori a un anno, comporta: il divieto di allontanarsi dal comune di residenza, se non
previa autorizzazione per i soli motivi di studio, lavoro, famiglia o salute; l’obbligo di presentarsi almeno una
volta al giorno negli uffici di pubblica sicurezza o presso il comando dell’Arma dei Carabinieri territorialmente
competente; nonché le ulteriori limitazioni previste per la semidetenzione con riguardo alle armi ed esplosivi,
all’espatrio, etc.
3)La pena pecuniaria può sostituire le pene detentive non superiori a sei mesi. La legge 134/2003 ha
profondamente innovato il meccanismo per la determinazione della pena sostitutiva da applicare, adottando
per la prima volta nel nostro ordinamento il modello dei tassi giornalieri: nell’operare la sostituzione, il
giudice, tenendo conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare,
determina l’entità della quota giornaliera compresa tra un minimo di €250 ed un massimo di €2500, che
viene poi moltiplicata per il numero dei giorni di pena detentiva da sostituire.
Un giorno di detenzione equivale invece, rispettivamente, a un giorno di semidetenzione e a due giorni di
libertà controllata. Il giudice, cioè, nel sostituire la pena detentiva, irrogherà la semidetenzione per una durata
uguale a quella della reclusione o dell’arresto, preventivamente determinata; la libertà controllata per un
tempo doppio, rispetto alla durata della corrispondente pena detentiva sostitutiva.
L’inosservanza delle prescrizioni imposte al condannato ha come conseguenza la conversione della
restante parte di pena sostitutiva nella pena detentiva sostituita.
Lo stesso effetto produce la revoca della pena sostitutiva, che ha luogo in due casi: a) quando
sopraggiunge una delle condanne, per fatti commessi anteriormente alla sostituzione della pena, che
avrebbero impedito l’applicazione della pena sostitutiva; b) la condanna a una pena detentiva, per un fatto
commesso successivamente alla irrogazione della pena sostitutiva.
Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi si applicano sia di ufficio che su istanza dell’imputato.
L’originaria disciplina di questa seconda ipotesi, comunemente definita “patteggiamento”, era contenuta
negli artt. 77 ss. legge 689/1981, e limitava l’operatività dell’istituto ai casi in cui il giudice riteneva di poter
irrogare le sanzioni sostitutive della libertà controllata o della pena pecuniaria; in questi casi, al
“patteggiamento” conseguiva l’estinzione del reato. Gli artt. 77, 78, 79 e 80 della legge 689/1981 sono stati
però espressamente abrogati dall’art. 234 delle disposizioni di attuazione e coordinamento del nuovo c.p.p.;
restando in tal modo l’originaria disciplina del “patteggiamento” assorbita nell’istituto della “applicazione
della pena su richiesta delle parti”, corrispondente a uno degli speciali riti previsti dal c.p.p.
Il potere di disporre la sostituzione incontra tuttavia un limite nell’art. 58 co. 2 legge 689/1981, il quale
dispone che il giudice non può disporre la sostituzione “quando presume che le prescrizioni non saranno
adempiute dal condannato”. L’art. 58 co. 3 legge 689/1981 richiede, infine, che il giudice indichi
specificamente i motivi che giustificano la scelta del tipo di pena irrogata.

LA COMMISURAZIONE DELLA PENA NEI PROCEDIMENTI SPECIALI


Gli artt. 438 ss., 444 ss., 459 ss. c.p.p. prevedono particolari riduzioni di pena, come conseguenza della
instaurazione di riti differenziati: giudizio abbreviato, applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d.
patteggiamento), giudizio per decreto. Queste diminuzioni di pena – di un terzo per il giudizio abbreviato, fino
a un terzo nel patteggiamento, sino alla metà nel giudizio per decreto – non conseguono a determinate
circostanze del reato, e neppure a una condotta del reo, susseguente ad esso, univocamente interpretabile
come ravvedimento; ma soltanto alla scelta (o all’accettazione) in sede processuale del ricorso a un
procedimento semplificato e più celere. La loro previsione, pertanto, essendo diretta unicamente
all’incentivazione dei predetti riti differenziati, obbedisce a una caratteristica esigenza di prevenzione
generale. Si conviene, tuttavia, sulla legittimità di questi strumenti, in quanto l’effetto che essi determinano
sulla misura della pena applicabile si risolve esclusivamente a favore del reo.
L’ESECUZIONE DELLE PENE

Salva l’efficacia di cause che ne escludano o ne sospendano l’esecuzione, alla inflizione giudiziale della pena
segue, di regola, la sua esecuzione.

ESECUZIONE DELLE PENE DETENTIVE


L’ordinamento penitenziario (legge 354/1975; legge 663/1986) innovò profondamente la disciplina
dell’esecuzione della pena detentiva, inserendola nella prospettiva rieducativo-risocializzante, imposta
dalla Costituzione.
Il vigente ordinamento penitenziario configura diversi istituti che incidono sul carattere segregante
dell’istituzione penitenziaria, dal lavoro all’esterno, fino ai permessi premio. I permessi premio, ciascuno di
durata non superiore ai quindici giorni, possono essere concessi ai condannati che abbiano tenuto “regolare
condotta”, per non più di quarantacinque giorni all’anno complessivamente, per consentire ai detenuti “di
coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro”.
Fin dall’inizio dell’esecuzione, o nel corso di essa, il trattamento può assumere aspetti diversi rispetto
all’ordinario regime penitenziario: lo stesso regime di detenzione carceraria, può essere sostituito
dall’affidamento in prova al servizio sociale, ovvero modificarsi in detenzione domiciliare o nel regime di
semilibertà; o addirittura cessare prima della scadenza della pena inflitta dal giudice (liberazione anticipata,
liberazione condizionale).
A questa normativa fa, tuttavia, oggi da pendant quella contenuta negli artt. 4-bis, 14-bis ss. e dall’art. 41-
bis della stessa legge 354/1975, che stabiliscono particolari restrizioni al regime penitenziario ordinario e allo
stesso esercizio di taluni diritti dei detenuti.
In particolare, l’art. 4-bis legge 354/1975 prevede un divieto di concessione dei suddetti benefici
penitenziari, comprese le misure alternative diverse dalla liberazione condizionale, ai detenuti e internati per
reati di criminalità organizzata o terrorismo, nonché per altri gravi delitti, salvo che non si tratti di soggetti che
hanno assunto lo status di “collaboratori di giustizia” (i c.d. pentiti), ovvero risulti comunque accertata
l’attuale assenza di pericolosità o, infine, una loro utile collaborazione non sia, per varie ragioni, possibile.
L’art. 14-bis legge 354/1975 prevede invece la sottoposizione al regime di sorveglianza speciale per un
periodo non superiore a sei mesi, prorogabile anche più volte non più di tre mesi, a carico di quei detenuti che
compromettano la sicurezza o turbino l’ordine degli istituti, o impediscano con violenza o minaccia l’attività
degli altri detenuti o si avvalgano, nella vita penitenziaria, dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro
confronti.
L’art. 41-bis co. 2 legge 354/1975, infine, prevede la facoltà del Ministro della Giustizia, anche a
richiesta del Ministro dell’Interno, “quando ricorrono gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”, di
sospendere in tutti o in parte l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento
penitenziario “che possono porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza”, nei confronti dei
detenuti o internati per reati di mafia, terrorismo e per altri delitti di particolare gravità, indicati nel primo
periodo dell’art. 4-bis co. 1 legge 354/1975.
La legge 251/2005 ha infine modificato anche l’art. 58-quater co. 1 legge 354/1975, estendendo il
divieto di concessione dei benefici penitenziari a chiunque sia stato condannato per il delitto di evasione e non
più, come prima previsto, solo nel caso in cui quel reato fosse stato commesso da un condannato per uno dei
delitti previsti dall’art. 4-bis co. 1 legge 354/1975.
L’esecuzione della pena detentiva si volge sotto la vigilanza e il controllo del Magistrato di sorveglianza e
del Tribunale di sorveglianza, secondo le attribuzioni rispettivamente stabilite dagli artt. 69 e 70 legge
354/1975.
Nell'ambito dell'esecuzione della pena assumono particolare rilevanza le misure alternative alla
detenzione (art. 47 ss. legge 354/1975). A differenza delle sanzioni sostitutive esse costituiscono meramente
una possibile modalità di esecuzione (eventualmente in tutto o in parte extracarceraria) della pena detentiva e
sono, dunque, applicate non dal giudice della cognizione con la sentenza che definisce il processo, ma dalla
magistratura di sorveglianza.
Le misure alternative alla detenzione, previste dal vigente ordinamento penitenziario, sono: l’affidamento
in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la esecuzione della pena presso il domicilio, la
semilibertà, la liberazione anticipata.
a) L’affidamento in prova al servizio sociale può essere disposto nei confronti dei condannati a pena
detentiva non superiore a tre anni. Consiste nell’affidamento al servizio sociale fuori dell’istituto per un
periodo uguale a quello della pena da scontare, nei casi in cui, a seguito dell’osservazione della
personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, si può ritenere che il provvedimento
“contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati” (art.
47 legge 354/1975). L'affidamento in prova al servizio sociale può essere disposto senza procedere
all'osservazione in istituto quando il condannato, dopo la commissione del reato, ma basandosi sulla
valutazione del comportamento tenuto dal condannato, dopo la commissione del reato.
Il Tribunale di sorveglianza determina le prescrizioni a cui l’affidato deve sottostare. Il servizio sociale
controlla la condotta del soggetto e lo aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche
mettendosi in relazione con la sua famiglia e con gli altri suoi ambienti di vita (art. 49 co. 9 legge 354/1975).
L’esito positivo del periodo di prova “estingue la pena e ogni altro effetto penale della condanna”, ma non le
pene accessorie, né tantomeno le obbligazioni civili nascenti dal reato.
L’affidamento, per contro, è revocato, qualora il comportamento del soggetto, “contrario alla legge o alle
prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova”. La revoca si configurava
originariamente come revoca ex tunc, con la conseguenza che l’affidato doveva scontare per intero la pena
detentiva residua. Con la sent. 343/1987, la Corte costituzionale ha dichiarato la norma illegittima, nella parte
in cui, in caso di revoca, non consente al Tribunale di sorveglianza di determinare, sulla base delle limitazioni
patite dal condannato e del suo comportamento durante il periodo dell’affidamento, la residua pena detentiva
da espiare.
Forme particolari di affidamento sono previste per i soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave
insufficienza immunitaria e per i tossicodipendenti e gli alcoldipendenti.
Entrambe le ipotesi sono imperniate sulla richiesta di intraprendere o proseguire un’attività terapeutica da
parte dell’affidando, sulla base di un programma concordato con una struttura sanitaria, o, nel secondo caso,
anche una comunità terapeutica.
b) La detenzione domiciliare può essere disposta nei confronti dei condannati alla pena dell’arresto o a
quella della reclusione non superiore a quattro anni. Consiste nella possibilità di espiare la pena nella propria
abitazione o in altro luogo di privata dimora, ovvero in un luogo pubblico di cura o assistenza, quando
ricorrano le seguenti situazioni personali:
-Donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci;
-Padre, esercente la responsabilità genitoriale, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente,
quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole;
-Persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi
sanitari territoriali;
-Persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente;
-Persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia.
L’allontanamento non autorizzato dai luoghi in cui la pena deve essere espiata è considerata “evasione”
(art. 385 c.p.). La denuncia per tale reato comporta la sospensione del beneficio e la condanna ne determina la
revoca.
Con la c.d. legge Simeone (legge 165/1998) è stata poi introdotta una ulteriore figura generale, ma
sussidiaria, di detenzione domiciliare che è applicabile, indipendentemente dalle condizioni previste nell’art.
47-ter co. 1 legge 354/1975, a qualsiasi condannato (esclusi quelli per i reati di cui all’art. 4-bis legge 354/1975)
debba scontare una pena detentiva non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior
pena, quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale
misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati.
La legge 251/2005 ha introdotto infine una nuova forma di detenzione domiciliare, che sembra quasi
assumere i connotati di una nuova tipologia di pena autonoma piuttosto che di una misura alternativa. I
presupposti per l’applicazione di questa nuova misura, che consente di scontare in forma domiciliare la pena
della reclusione (ma non dell’arresto) qualunque sia la sua durata, ad esclusione dunque solo dell’ergastolo,
sono:
-Che il condannato abbia un’età superiore ai settant’anni;
-Che non sia stato condannato per uno dei delitti contro la personalità individuale (artt. 600-604 c.p.), per
i delitti di cui agli artt. 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p., ovvero per quelli previsti dall’art. 51 co. 3-bis
c.p.p. e dall’art. 4-bis legge 354/1975;
-Che non si tratti di persona dichiarata delinquente abituale, professionale o per tendenza, né sia mai stato
condannato con l’aggravante della recidiva (anche semplice e magari per una remotissima condanna).
c) L’esecuzione della pena detentiva presso il domicilio consente che la pena detentiva non
superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, venga eseguita presso
l’abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza.
d) La semilibertà può essere disposta nei confronti del condannato alla pena dell’arresto o a quella della
reclusione non superiore a sei mesi, anche prima dell’inizio dell’espiazione della pena, se “ha dimostrato la
propria volontà di reinserimento nella vita sociale” (art. 50 co. 6 legge 354/1975). Negli altri casi, la
semilibertà può essere concessa dopo l’espiazione di almeno metà della pena, e, in particolari ipotesi, dopo
l’espiazione di almeno due terzi della pena (ad esempio, per i soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva
prevista dall’art. 99 co. 4 c.p.). Il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla semilibertà dopo aver
scontato veni anni di pena.
La semilibertà consiste nella possibilità di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto di pena “per
partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale (art. 48 legge 354/1975).
Nei casi in cui potrebbe essere concesso l’affidamento in prova, può farsi luogo alla semilibertà dopo il
periodo di osservazione disposto per l’affidamento in prova, con esito non positivo a quel fine, ma suscettibile
di essere valutato favorevolmente ai fini della semilibertà. Il beneficio può essere revocato “quando il
soggetto non si appalesi idoneo al trattamento”. La stessa conseguenza può discendere a danno del
condannato che non rientri in istituto allo scadere di una licenza premio.
e) La liberazione anticipata non è, come le altre misure alternative, una modalità di esecuzione della
pena detentiva, ma una ipotesi di anticipata cessazione dell’esecuzione stessa. Essa è concessa al condannato a
pena detentiva “che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione e consiste nella detrazione di
quarantacinque giorni per ogni semestre di pena scontata. Alla detenzione penitenziaria sono equiparate, ai
fini del computo, la custodia cautelare sofferta e la detenzione domiciliare. Agli effetti del computo della
misura di pena che occorre avere espiato per essere ammessi ai benefici dei permessi premio, della semilibertà
e della liberazione condizionale, anche in favore dei condannati all'ergastolo, la parte di pena detratta si
considera come scontata. La condanna per un delitto non colposo, “commesso nel corso dell’esecuzione
successivamente alla concessione del beneficio, ne comporta la revoca” (art. 54 co. 3 legge 354/1975).

ESECUZIONE E CONVERSIONE DELLE PENE PECUNIARIE


La pena pecuniaria si esegue, di regola, mediante il versamento dell’importo corrispondente alla multa o
all’ammenda inflitta dal giudice con la sentenza di condanna.
In caso di insolvenza, l’esecuzione avviene in forma coatta. I problemi della pena pecuniaria sorgono,
naturalmente, quando l’esecuzione, anche coatta, non può aver luogo per insolvibilità del condannato.
L’art. 102 co. 1 legge 689/1981 stabilisce che le pene della multa o dell’ammenda, non eseguite per
insolvibilità del condannato, si convertono nella libertà controllata, ragguagliando €250 di pena pecuniaria a
un giorno di libertà controllata, fino a un massimo di sei mesi per l’ammenda, di un anno per la multa; tetto
che può elevarsi rispettivamente a nove mesi e a un anno e sei mesi, nelle ipotesi di cumulo derivante da
concorso di reati o di pene. La pena pecuniaria a richiesta del condannato può essere convertita anche in
lavoro sostitutivo; in tal caso il criterio di ragguaglio è di €25 per ciascun giorno di lavoro sostitutivo.
L’inosservanza delle prescrizioni relative alla libertà controllata o al lavoro sostitutivo determinano la
conversione della pena residua nella reclusione o nell’arresto, secondo il relativo criterio di ragguaglio.
La conversione delle pene pecuniaria inflitte dal giudice di pace e non eseguite per insolvibilità del
condannato è oggetto di espressa e specifica previsione da parte dell’art. 55 co. 4 d.lgs. 274/2000: se il
condannato ne fa richiesta la pena pecuniaria è convertita in lavoro sostitutivo; in caso contrario la
conversione avviene applicando la pena della permanenza domiciliare ragguagliata nella misura di €25 per
ogni giorno di permanenza. Nel caso in cui il condannato abbia violato l’obbligo del lavoro sostitutivo
conseguente alla conversione della pena pecuniaria, la parte di lavoro non eseguito si converte nell’obbligo di
permanenza domiciliare.
LE VICENDE DELLA PUNIBILITA’: ESTINZIONE DEL REATO, NON APPLICAZIONE,
SOSPENSIONE, MODIFICAZIONE ED ESTINZIONE DELLA PENA

PREMESSA
L’applicazione della pena in concreto – vale a dire la sua comminatoria giudiziale e la sua effettiva
esecuzione – costituisce la più importante conseguenza giuridica del reato. Considerata dal punto di vista degli
scopi della sanzione penale, la concreta inflizione della pena concorre alla funzione di prevenzione generale,
che si esprime soprattutto nella fase della comminatoria edittale della sanzione, in quanto ne riafferma la
validità e l’efficacia agli occhi dei consociati. È però del tutto naturale che sia l’assenza, in concreto, o il venir
meno, nel tempo, delle originarie esigenze di prevenzione generale, sia il prevalere di contrapposte esigenze di
carattere special preventivo, abbiano l’efficacia di escludere la stessa applicazione della pena, pur essendo
presenti tutti i requisiti per la sua applicabilità. Per le stesse ragioni, può farsi luogo alla sospensione della
pena, all’estinzione dell’efficacia della comminatoria giudiziale; o, infine, alla modificazione dell’entità della
pena o alla anticipata cessazione della sua esecuzione.

CAUSE DI NON PUNIBILITA’ IN SENSO STRETTO


Le cause di non punibilità in senso stretto sono contrassegnate dalla estraneità rispetto alla struttura del
reato e consistono, per lo più, in fatti, situazioni e comportamenti successivi alla consumazione di un reato,
completo di tutti i suoi elementi costitutivi (condizioni estrinseche di non punibilità, esterne, cioè, alla
struttura del reato ed estranee al piano dell’offesa).

LA NON PUNIBILITA’ PER PARTICOLARE TENUITA’ DEL FATTO (art. 131-bis c.p.)
L’art. 131-bis c.p., introdotto dal d.lgs. 28/2015, consente al giudice di chiarare non punibile il fatto quando
la sua “speciale tenuità” non giustifichi l’attivazione dell’istanza punitiva penale.
Questa ipotesi viene configurata come una causa di non punibilità, evidenziando come la valutazione sulla
quale si fonda presupponga l’esistenza di un fatto dotato di tutti i requisiti che lo rendono astrattamente
punibile. Ciò significa dunque che il fatto presenta un contenuto realmente offensivo del bene giuridico
tutelato; tuttavia, l’intensità dell’offesa risulta così tenue da rendere sproporzionata la sanzione penale,
persino nella sua dimensione minima.
Si tratta quindi di uno strumento di depenalizzazione in concreto, che consente di adeguare la risposta
dell’ordinamento ai peculiari contenuti (minimamente) offensivi del fatto.
L’ambito applicativo dell’art. 131-bis c.p. è delimitato dalla pena edittale prevista per il reato: la non
punibilità per speciale tenuità del fatto può infatti riguardare esclusivamente i reati puniti con “la pena
detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero con la pena pecuniaria, sola o
congiunta alla predetta pena”. Nel caso di tentativo si farà riferimento alla pena per il delitto tentato. Per
espressa previsione legislativa non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge
prevede una pena di specie diversa e di quelle ad effetto speciale.
I requisiti del fatto, idonei a produrre l’esito di non punibilità sono: la particolare tenuità dell’offesa e
la non abitualità del comportamento.
Quanto al primo requisito esso viene accertato tenendo conto delle modalità della condotta e della esiguità
del danno e del pericolo. Nel secondo comma vengono poi elencate una serie di esclusioni dall’applicazione
dell’art. 131-bis c.p., in corrispondenza di fatti caratterizzati da un disvalore di azione e/o di evento ritenuto
sempre incompatibile con un giudizio di tenuità.
Quanto al requisito della non abitualità del comportamento, il comma terzo contiene una elencazione di
casi in cui il comportamento è da ritenersi “abituale” e cioè quando:
a) L’autore è stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza;
b) L’autore ha commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, è di
particolare tenuità;
c) Si tratta di reati che hanno ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

LE CAUSE GENERALI DI ESTINZIONE DEL REATO


Gli artt. 150-170 c.p. prevedono quali cause di estinzione del reato: la morte del reo prima della condanna;
la remissione della querela; l’amnistia; la prescrizione del reato; l’oblazione; la sospensione condizionale della
pena; sospensione del processo con messa alla prova; il perdono giudiziale.
Va precisato che, trattandosi di situazioni in ogni caso sopravvenute, rispetto alla commissione del reato,
ciò che viene meno, e dunque in certo modo si estingue, non è tanto il reato, quanto piuttosto la sua punibilità.
Si è sostenuto, anzi, da parte di alcuni, che le c.d. cause di estinzione del reato avrebbero una rilevanza
esclusivamente processuale, paralizzando l’esercizio dell’azione penale, e, con essa, il processo.
Peraltro, se da un lato le cause di estinzione del reato assumono comunque efficacia sostanziale, ai fini
dell’esclusione di un secondo giudizio, dall’altro lato l’effetto estintivo, sul piano giuridico penale, non è affatto
assoluto: il reato estinto continua, infatti, a produrre taluni effetti, in particolare, di esso si tiene conto ai fini
della dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato, l’estinzione del reato presupposto non comporta
anche l’estinzione del reato che lo presuppone, la causa estintiva di un reato che sia elemento costitutivo di un
reato complesso non si estende al reato complesso, infine, l’estinzione di taluno dei reati connessi non esclude
l’aggravamento di pena eventualmente derivante dalla connessione.
LE SINGOLE CAUSE DI ESTINZIONE DEL REATO
a) La morte del reo, che intervenga prima della sentenza di condanna definitiva, estingue il reato (art.
150 c.p.). il principio di personalità della responsabilità penale impedisce, ovviamente, qualsiasi trasmissione
di effetti di natura penale, derivanti dal reato. Si trasmettono agli eredi, viceversa, le obbligazioni civili
nascenti dal reato (restituzioni, risarcimento del danno); non, invece, l’obbligo di rimborsare all’erario le spese
per il mantenimento in carcere che, per esplicita disposizione di legge., “non si trasmette agli eredi del
condannato”.
b) L’amnistia è un atto legislativo di carattere generale, con il quale lo Stato rinunzia alla punizione di un
certo numero di reati commessi anteriormente al provvedimento.
L’amnistia è concessa “con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna
Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale”.
È la stessa legge che concede l’amnistia a stabilire il termine per la sua applicazione, fermo restando che in
ogni caso essa non può applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del relativo disegno di
legge.
L’amnistia si distingue in “propria” e “impropria”. L’amnistia si dice propria quando interviene prima
della condanna definitiva; in tal caso, “estingue il reato” e ogni altro effetto penale di esso. L’amnistia si dice
impropria quando interviene dopo una sentenza di condanna definitiva; in tal caso essa “fa cessare
l’esecuzione delle pene principali e accessorie e delle misure di sicurezza diverse dalla confisca, non, invece, gli
altri effetti penali della condanna. Ancorché disciplinata dal c.p. (art. 151 c.p.) nell’ambito delle cause di
estinzione del reato, l’amnistia impropria è in realtà una causa di estinzione della sola pena, proprio perché
presuppone che, pur essendo stato il reato commesso entro i termini di applicazione dell’amnistia, su di esso si
sia tuttavia formato un giudicato irrevocabile di condanna.
Nel concorso di reati, l’amnistia si applica ai singoli reati per i quali è stata concessa. Quanto al reato
continuato, le diverse violazioni che lo compongono riacquistano la loro autonomia, nel senso che l’amnistia si
applicherà solo a quelli che rientrano nell’amnistia per il titolo e per l’epoca della commissione (cd.
scioglimento del cumulo).
L’amnistia non si applica ai recidivi, né ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza ma è fatta salva
l’ipotesi che lo stesso provvedimento di amnistia disponga diversamente (art. 151 co. 5 c.p.). L’amnistia, sia
propria che impropria, non estingue le obbligazioni civili nascenti dal reato, salvo che si tratti della
obbligazione civile per la multa o per l’ammenda (art. 198 c.p.).
L’amnistia è sempre rinunciabile da parte del soggetto che dovrebbe beneficiarne, ma che abbia interesse a
una pronuncia che escluda la sua colpevolezza.
c) La prescrizione del reato ha come unico presupposto il decorso del tempo dal giorno in cui è stato
commesso il reato, o da un momento successivo, stabilito in casi particolari dalla legge.
Il fondamento della estinzione è costituito dall’affievolirsi delle esigenze di prevenzione, sia generale che
speciale, connesse con la incriminazione, e con l’inopportunità, correlativa, dell’esercizio della funzione
repressiva, a distanza di molto tempo dal fatto.
La legge 251/2005 ha eliminato il vecchio sistema di determinazione differenziata della prescrizione basato
sull’appartenenza del reato a “distinte fasce di gravità”, introducendo un criterio unico che assume come
riferimento la pena edittale fissata per legge, la cui durata massima coincide con il tempo necessario per la
prescrizione del reato, ma in ogni caso questo tempo non può essere inferiore a sei anni per i delitti e a quattro
anni per le contravvenzioni, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria.
Il quadro generale degli effetti che derivano dalla nuova disciplina, può essere, in linea di massima, così
schematizzato: per i reati con pena elevata (intorno ai dieci anni di reclusione) il termine di prescrizione, non
può superare il massimo della pena edittale (prima era di quindici anni); per i reati di media gravità, il termine
di prescrizione, non può superare i sei anni; per i reati di scarsa gravità, il termine di prescrizione, non può
essere inferiore a quattro anni (che in presenza di un atto interruttivo diventano cinque).
La legge prevede il raddoppio dei termini di prescrizione per una serie di reati, quali: reati contro
l’ambiente, maltrattamenti contro familiari e conviventi, i reati contro la personalità individuale, i reati a
sfondo sessuale, i reati colposi di ritenuta particolare gravità come i disastri colposi e l’omicidio colposo, se
commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale o di quelle sulla prevenzione degli infortuni
sul lavoro ovvero aggravato dalla morte di più persone o dalla morte e lesione di più persone, il reato di
omicidio stradale ecc..
La nuova disciplina della prescrizione, incrociandosi con quella della recidiva, determina un quadro di
ulteriore aggravamento della posizione del recidivo. Con la sola eccezione di quella semplice, infatti, tutte le
altre ipotesi di recidiva attualmente configurano circostanze aggravanti ad effetto speciale e come tali
contribuiscono a determinare, innalzandolo, il tempo necessario a prescrivere. Questo notevole aggravamento,
è del tutto irragionevole in quanto una particolare circostanza personale viene collegata ad un effetto, un più
lungo tempo di prescrizione, che dovrebbe trovare invece ragione, da un lato, nella capacità del reato in
ragione della sua gravità oggettiva di prolungare l’allarme sociale provocato e, dall’altro, nella capacità della
pena di produrre utili effetti di prevenzione generale positiva o integratrice. In entrambi i casi, dunque, nulla a
che vedere con la condizione di recidivo dell’autore del reato.
La prescrizione è sempre rinunciabile da parte del soggetto che dovrebbe beneficiarne, ma che abbia
interesse a una pronuncia che escluda la sua colpevolezza. I reati puniti con la pena dell’ergastolo sono
imprescrittibili.
Importanti novità hanno riguardato anche la disciplina della decorrenza, interruzione e sospensione del
corso della prescrizione. Quanto alla determinazione del dies a quo della decorrenza, esso decorre: per il
reato consumato, dal giorno della consumazione; per il delitto tentato, dal giorno in cui è cessata l’attività del
colpevole; per il reato permanente, dal giorno in cui è cessata la permanenza. Con la legge 215/2005 è stato
eliminato il riferimento, prima presente nell’art. 158 c.p., al reato continuato, per il quale il termine di
prescrizione decorreva dal giorno in cui cessa la continuazione e pertanto i singoli reati “in continuazione”
riacquistano autonomia quanto al termine prescrizionale, come in un comune concorso materiale.
Il decorso del termine di prescrizione può essere “sospeso” (art. 159 c.p.) o “interrotto” (art. 160 c.p.).
Gli effetti, rispettivamente, della sospensione e dell’interruzione sono diversi. La sospensione implica una
sorta di pausa nel corso della prescrizione, dimodoché questa riprende a decorrere, una volta cessata la causa
della sospensione, ferma restando la validità del periodo già trascorso, ai fini del computo finale, nel senso che
i due periodi – prima e dopo la sospensione – si sommano fra loro. La sospensione della prescrizione ha
luogo: in ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale o dei termini di custodia
cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge, oltre che nei casi di: a) autorizzazione a
procedere; b) deferimento della questione ad altro giudizio; c) sospensione del procedimento o del processo
penale per ragioni di impedimento delle parti o dei difensori ovvero su istanza dell’imputato o del suo
difensore; d) sospensione del processo per assenza dell’imputato ai sensi dell’art. 420-quater c.p.p.
L’interruzione della prescrizione toglie invece efficacia al tempo già trascorso prima dell’effetto
interruttivo; dimodoché il termine ricomincia a decorrere ex novo. Il corso della prescrizione è interrotto dal
compimento di alcuni atti qualificati di esercizio della pretesa punitiva che dimostrano l’attualità e la
persistenza dell’interesse pubblico alla repressione del fatto. Gli atti interruttivi della prescrizione sono
innanzitutto la sentenza di condanna e il decreto di condanna; inoltre una serie di atti dell’autorità giudiziaria,
fra cui l’ordinanza che applica le misure cautelari, la richiesta di rinvio a giudizio, il decreto di fissazione
dell’udienza preliminare, il decreto che dispone il giudizio, etc., appunto per il significato, che essi assumono,
di conferire attualità alla pretesa punitiva dello Stato.
d) L’oblazione è una causa di estinzione riservata alle contravvenzioni. Essa consiste nel pagamento di
una somma di denaro di entità proporzionale rispetto alla misura massima della pena edittale stabilita per la
contravvenzione, con effetto di estinzione di reato.
Il c.p. prevede, attualmente, due tipi di oblazione: oblazione comune e oblazione speciale. L’oblazione
comune (art. 162 c.p.), può aver luogo quando si tratti di una contravvenzione punibile con la sola pena
dell’ammenda, e a condizione che il contravventore presenti domanda di oblazione prima dell’apertura del
dibattimento ovvero prima del decreto di condanna e che adempia tempestivamente all’obbligo di pagamento
assunto. In questo caso l’entità della somma da pagare è pari a un terzo della pena massima stabilita dalla
legge; l’effetto estintivo consegue automaticamente al verificarsi delle suddette condizioni.
L’oblazione speciale (art. 162-bis c.p.) può aver luogo quando si tratti di una contravvenzione punibile
alternativamente con l’arresto o con l’ammenda. In questo caso, l’ammontare della somma da versare è pari
alla metà del massimo della pena edittale; ma, ciò che più conta, l’ammissione all’oblazione non è automatica.
Essa è infatti esclusa se è contestata la recidiva reiterata, ovvero se è ritenuta l’abitualità nelle contravvenzioni
ovvero la professionalità nel reato e quando permangono le conseguenze dannose del reato; inoltre, in ogni
altro caso in cui il giudice, “avuto riguardo alla gravità del fatto” (art. 162-bis co. 4 c.p.), ritenga di dover
respingere la domanda.
e) Remissione della querela estingue i reati, perseguibili a querela, per i quali la querela era stata
proposta. La remissione consiste nella manifestazione di una volontà contraria a quella manifestata con la
querela, che è una istanza di punizione. La remissione della querela può essere “processuale” ed
“extraprocessuale”, a seconda che si estrinsechi in un atto del processo ovvero al di fuori di esso: in questo
secondo caso, la remissione della querela può essere sia espressa, sia tacita; è tacita, quando consiste in
comportamenti incompatibili con la volontà di persistere nell’istanza di punizione. Per assumere efficacia
estintiva del reato, la remissione dev’essere accettata – espressamente o tacitamente – dal querelato, o meglio
non deve essere da questo ricusata. La remissione non può essere sottoposta o obblighi e condizioni e, per
spiegare effetto estintivo, deve intervenire prima della condanna definitiva, salvi i casi per i quali la legge
disponga altrimenti (art. 152 co. 3 c.p.).
La remissione della querela non è ammessa nei delitti contro la libertà sessuale, in rapporto ai quali la
querela proposta è dichiarata dalla legge irrevocabile (art. 609-septies co. 3 c.p.). Gli artt. 153 e 155 c.p.
disciplinano l’esercizio del diritto di remissione e della facoltà di accettare la remissione, quando si tratti di
minori o incapaci.
f) La sospensione condizionale della pena (artt. 163-168 c.p.) consiste nell’ordine, dato dal giudice
con la sentenza di condanna, che l’esecuzione della pena inflitta resti sospesa per cinque anni, se si tratta di
condanna per delitto, per due anni, se si tratta di condanna per contravvenzione, in quanto avuto riguardo alle
circostanze di cui all’art. 133 c.p., egli presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati;
l’effetto di estinzione del reato si verifica alla fine del periodo di sospensione, se non sopravvengono cause di
revoca della sospensione medesima, che comportano l’esecuzione della pena “sospesa”.
Per quanto concerne i limiti oggettivi entro cui il beneficio può essere concesso la legge prevede che
possono essere sospese condizionalmente le condanne alla pena della reclusione o dell’arresto in misura non
superiore a due anni, ovvero a pena pecuniaria che, sola congiunta a pena detentiva, sia equivalente a una
pena detentiva non superiore, nel complesso, a due anni. Questo limite è elevato a due anni e sei mesi per i
minori degli anni ventuno e per chi ha superato gli anni settanta (art. 163 co. 3 c.p.); a tre anni, per i minori
degli anni diciotto (art. 163 co. 2 c.p.).
Peraltro, la sospensione condizionale può essere concessa anche quando la pena nel complesso sia
superiore a due anni (ovvero due anni e sei mesi e tre anni), a condizione però che quel limite non sia superato
dalla pena detentiva inflitta. È dunque esclusivamente la misura di quest’ultima a decidere, sul piano
oggettivo, della concedibilità della sospensione.
Quanto ai limiti soggettivi di concedibilità della sospensione l’art. 164 co. 4 c.p., dopo aver stabilito che la
sospensione condizionale “non può essere concessa più di una volta”, precisa, tuttavia, che “il giudice,
nell’infliggere una nuova condanna, può disporre la sospensione condizionale, qualora la pena da infliggere,
cumulata con quella irrogata con la precedente condanna anche per delitto, non superi i due anni di
reclusione.
La sospensione condizionale della pena, peraltro, non può essere concessa al delinquente o contravventore
abituale o professionale.
La concessione della sospensione è comunque subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili
nascenti dal reato, nonché all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato”.
Ulteriore innovazione legislativa in materia di sospensione condizionale ha riguardato la portata del suo
effetto sospensivo, che era prima limitato alle pene principali, e che è stato esteso anche alle pene accessorie.
La sospensione condizionale rende anche inapplicabili le misure di sicurezza, esclusa la confisca; non incide,
viceversa, sugli altri effetti penali della condanna, né sulle obbligazioni civili, nascenti dal reato.
Se il periodo di sospensione (cinque o due anni) decorre interamente, senza che il condannato commetta
“un delitto, ovvero una contravvenzione della stessa indole”, il reato per il quale fu concessa la sospensione
condizionale della pena è estinto: l’estinzione inibisce l’esecuzione delle pene principali e accessorie, mentre
restano fermi gli altri effetti penali della condanna.
Quando, viceversa, entro il termine stabilito, il condannato commetta un delitto ovvero una
contravvenzione della stessa indole, per cui gli venga inflitta una pena detentiva, ovvero non adempia agli
obblighi impostigli, la sospensione è revocata di diritto.
Con la legge 145/2004 è stata infine introdotta una nuova figura di sospensione condizionale,
caratterizzata da diversi presupposti ed applicabile ai soli casi in cui la pena inflitta non sia superiore ad un
anno. La concessione della sospensione è in tal caso condizionata alla integrale riparazione del danno, che
deve avvenire “prima che sia stata pronunciata la sentenza di primo grado, mediante il risarcimento di esso e,
quando sia possibile, mediante le restituzioni, nonché qualora il colpevole, entro lo stesso termine si sia
adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del
reato da lui eliminabili”. Il periodo di sospensione è ridotto ad un solo anno, trascorso il quale, se non
interviene revoca, si produce l’effetto estintivo.
g) Il nostro ordinamento contiene due particolari ipotesi di estinzione del reato, riservate ai minori degli
anni diciotto: il perdono giudiziale e la sospensione del processo con messa alla prova.
Il giudice minorile, qualora presuma che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati, ha la facoltà
di non rinviare l’imputato a giudizio o, nel giudizio, di non pronunziare condanna – pur esistendone i
presupposti di merito – e applicare, invece, il perdono giudiziale, quando ritiene che si possa irrogare una
pena restrittiva della libertà personale non superiore ai due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore a
€ 1.549, anche se congiunta alla pena detentiva. La concessione del perdono giudiziale è causa di estinzione
del reato.
Il perdono giudiziale non può essere concesso ai minorenni che siano già stati condannati a pena detentiva
per delitto o che siano delinquenti o contravventori abituali o delinquenti professionali. Il perdono giudiziale
può essere applicato solo una volta. Tale limite, tuttavia, va escluso, quando si tratti di reati uniti dal vincolo
della continuazione a quelli per cui era stato concesso una prima volta il beneficio, o di reato commesso
anteriormente al primo perdono, se il cumulo della pena non superi i limiti di applicabilità del beneficio.
Altra speciale causa di estinzione dei reati commessi dai minori è la sospensione del processo con
messa alla prova. Il giudice dei minori può sospendere il processo per un periodo non superiore a tre anni –
quando trattasi di reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non interiore nel massimo
a dodici anni – per non più di un anno, negli altri casi, affidando nel contempo l’imputato ai servizi minorili
della giustizia, per lo svolgimento “delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno” ed
eventualmente dettando “prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la
conciliazione del minore con la persona offesa dal reato”. All’esito positivo della prova consegue la
dichiarazione giudiziale di estinzione del reato.

LA SOSPENSIONE DEL PROCEDIMENTO CON MESSA ALLA PROVA


La sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato è disciplinata dagli artt. 168-bis ss. che ne
fissano le condizioni e i limiti per l’applicazione e ne definiscono gli effetti.
Sul piano oggettivo, l’ambito applicativo dell’istituto è limitato ai procedimenti per reati puniti con la sola
pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, nonché per i reati quali è
prevista la citazione diretta a giudizio.
Sul piano soggettivo, invece, oltre al limite della concedibilità per una sola volta, cause ostative alla
concessione del beneficio sono l’essere stato l’imputato già dichiarato delinquente o contravventore abituale,
professionale o per tendenza.
L’accoglimento della richiesta, che l’imputato può avanzare già nella fase delle indagini preliminari, è
subordinato ad una prognosi favorevole del giudice circa l’idoneità del programma di trattamento – che deve
essere presentato congiuntamente alla richiesta – a conseguire effetti special preventivi e dunque alla
previsione che l’imputato si asterrà dal commettere nuovi reati.
Il programma, concordato con l’ufficio di esecuzione penale esterna, deve prevedere condotte riparative,
volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il
risarcimento del danno dallo stesso cagionato e comporta altresì lo svolgimento di attività risocializzanti e
lavorative. L’imputato viene infatti affidato al servizio sociale ed è tenuto all’osservanza di prescrizioni relative
ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto
di frequentare determinati locali.
L’imputato è inoltre tenuto a prestare un’attività lavorativa non retribuita di pubblica utilità, affidata
tenendo conto anche delle sue specifiche professionalità ed attitudini lavorative.
La durata della sospensione e del corrispondente trattamento viene fissata dal giudice entro il limite
massimo di due anni, se relativa a reati puniti con la pena detentiva e di un anno per quelli puniti con la sola
pena pecuniaria. Al termine del periodo di sospensione, il giudice, se ritiene che la prova abbia avuto esito
positivo “dichiara con sentenza estinto il reato”; in caso di esito negativo dispone con ordinanza che il processo
riprenda il suo corso.
Il provvedimento di sospensione può essere revocato prima della scadenza del termine fissato, e dunque il
processo riprende il suo corso: a) in caso di grave o reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle
prescrizioni imposte, ovvero di rifiuto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità; b) in caso di commissione,
durante il periodo di prova, di un nuovo delitto non colposo ovvero di un reato della stessa indole rispetto a
quello per cui si procede.

L’ESTINZIONE DEL REATO A SEGUITO DI APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA


DELLE PARTI
La pena applicata dal giudice su richiesta delle parti, a norma dell’art. 444 c.p.p. (c.d. patteggiamento) non
solo esclude l’applicabilità di pene accessorie e misure di sicurezza (ad eccezione della confisca ex art. 240 co.
2 c.p.), ma produce, altresì, ove sia stata irrogata una pena detentiva non superiore a due anni soli o congiunti
a pena pecuniaria, l’estinzione del reato e di ogni altro effetto penale della condanna, se nei cinque anni da
essa – quando trattasi di delitto – nei due anni – quando si tratti di contravvenzione – il condannato non
commette altri delitti o contravvenzioni della medesima indole (art. 445 co. 2 c.p.p.).

LE FORME DI DEFINIZIONE ALTERNATIVA DEL PROCEDIMENTO DAVANTI AL GIUDICE DI


PACE
Gli artt. 34 e 35 d.lgs. 274/2000 contemplano due forme di definizione alternativa del procedimento
penale, mediante la previsione, rispettivamente, della esclusione della procedibilità nei casi di particolare
tenuità del fatto (art. 34 d.lgs. 274/2000) e di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie (art. 35
d.lgs. 274/2000).
La prima è esplicitamente configurata come causa di improcedibilità: la denominazione pare dunque
caratterizzare l’istituto in senso processuale; ma esso si fonda in realtà sull’applicazione di un criterio di tipo
sostanziale vale a dire la irrilevanza del fatto.
Gli indici dal quale inferire la “particolare tenuità del fatto” , sono sia di natura “oggettiva” (esiguità del
danno o del pericolo rispetto all’interesse tutelato) che “soggettiva” (occasionalità e grado della colpevolezza);
nel formulare questo giudizio peraltro il giudice deve tenere conto del pregiudizio che l’ulteriore corso del
procedimento può recare alle esigenze del lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad
indagini o dell’imputato.
La seconda ipotesi introduce invece una nuova causa di estinzione del reato, che il giudice di pace dichiara
con sentenza quando l’imputato dimostri di avere proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla
riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le
conseguenze dannose o pericolose del reato. Non si tratta tuttavia di un esito automatico della condotta
riparatoria, in quanto la pronuncia di estinzione del reato è subordinata ad una valutazione positiva del
giudice circa l’idoneità di dette condotte a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di
prevenzione.

LE CAUSE DI ESTINZIONE DELLA PENA


Le cause estintive della pena (artt. 171-181 c.p.) non hanno altro effetto se non, appunto, quello di impedire
o far cessare l’esecuzione della pena concretamente inflitta al reo. Esse presuppongono necessariamente
l’esistenza di una sentenza di condanna definitiva (la cui esecuzione resta paralizzata o modificata), lasciando
impregiudicata ogni altra conseguenza giuridica del reato per il quale la condanna è stata pronunciata.
Le cause di estinzione della pena previste dal c.p. sono: la morte del reo dopo la condanna; l’amnistia
impropria; la prescrizione della pena; l’indulto; la grazia; la liberazione condizionale; la riabilitazione; la non
menzione della condanna nei certificati del casellario giudiziale.
a) L’estinzione della pena a seguito della morte del reo, intervenuta dopo la condanna (art. 171 c.p.), pur
estinguendo ogni effetto della condanna, ivi comprese le obbligazioni civili per il pagamento delle multe o
delle ammende, non estingue però la confisca, né le obbligazioni civili nascenti dal reato.
b) L’amnistia si dice impropria quando interviene dopo una sentenza di condanna definitiva; in tal caso
essa “fa cessare l’esecuzione delle pene principali e accessorie e delle misure di sicurezza diverse dalla confisca,
non, invece, gli altri effetti penali della condanna. Ancorché disciplinata dal c.p. (art. 151 c.p.) nell’ambito delle
cause di estinzione del reato, l’amnistia impropria è in realtà una causa di estinzione della sola pena, proprio
perché presuppone che, pur essendo stato il reato commesso entro i termini di applicazione dell’amnistia, su
di esso si sia tuttavia formato un giudicato irrevocabile di condanna.
c) Il decorso del tempo, dopo che la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile, è causa estintiva delle
pene che, per qualsiasi motivo, non siano state, in tutto o in parte, eseguite. Il fondamento di tale causa di
estinzione della pena viene rinvenuto non tanto nel venir meno dell’interesse della collettività all’esecuzione,
quanto soprattutto nella scarsa plausibilità, da un punto di vista special preventivo, della esecuzione di una
pena a grande distanza di tempo dalla sua concreta inflizione.
La pena della reclusione si estingue con il decorso di un periodo di tempo pari al doppio della misura della
pena stessa. Il termine di prescrizione decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di
condanna, ovvero dalla data in cui il condannato si è sottratto volontariamente all’esecuzione della pena, già
iniziata. La pena della multa si estingue dopo dieci anni. L’estinzione non opera nel caso di recidivi aggravati o
reiterati, e dei delinquenti abituali, professionali o per tendenza, né nei riguardi di chi, durante il tempo
necessario al prescriversi della pena, abbia riportato una condanna alla reclusione per un delitto della stessa
indole. Le pene dell’arresto e dell’ammenda si prescrivono in cinque anni; il termine è raddoppiato nel caso
dei recidivi aggravati e dei delinquenti abituali, professionali e per tendenza.
d) Sia l’indulto che la grazia hanno l’effetto di condonare, in tutto o in parte, la pena inflitta, o di
commutarla di un’altra specie di pena, prevista dalla legge. Non estinguono le pene accessorie, salvo che il
relativo provvedimento non disponga diversamente, né gli effetti penali della condanna.
La differenza tra i due istituti sta innanzitutto nel fatto che l’indulto costituisce un provvedimento di
carattere generale, riferito a tutti i reati, salva l’esclusione (o la riduzione della misura della pena condonata)
per determinati reati ed è rimesso interamente alla potestà legislativa delle Camere, che lo deliberano a
maggioranza dei due terzi, in ogni suo articolo e nella votazione finale.
La grazia, invece, costituisce un provvedimento particolare – si potrebbe dire ad personam – in quanto si
riferisce all’esecuzione di una o più condanne a carico di uno stesso soggetto ed è rimesso al Presidente della
Repubblica.
Gli effetti della grazia non sono tuttavia normativamente predeterminati, dipendendo almeno in parte dalla
discrezionalità dell’organo competente a concederla; può estendersi alle pene accessorie e che può essere
sottoposta a condizioni, quali ad esempio il risarcimento del danno.
e) Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un
comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione
condizionale, se ha scontato almeno trenta mesi e comunque almeno metà della pena inflittagli, qualora il
rimante della pena non superi i cinque anni. Quando si tratti di recidivi reiterati o aggravati, la misura della
pena già scontata deve essere di almeno quattro anni. Il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla
liberazione condizionale dopo ventisei anni di pena. La concessione della liberazione condizionale è
subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, a meno che il condannato non
dimostri la sua impossibilità ad adempiere (art. 176 co. 4 c.p.).
Le condizioni generali per l’applicazione della liberazione condizionale sono dunque: a) che il condannato
abbia scontato una parte della pena e che la pena residua non superi i cinque anni; b) che abbia tenuto un
comportamento costituente sicuro indice di ravvedimento; c) che abbia adempiuto le obbligazioni civili
nascenti dal reato (o che si trovi nell’impossibilità di adempierle).
La concessione della liberazione condizionale – oggi di competenza del Tribunale di sorveglianza – ha
come effetti immediati la scarcerazione del condannato, la sospensione dell’eventuale misura di sicurezza
detentiva, l’applicazione della libertà vigilata assistita dal servizio sociale. Con il decorso del tempo della pena
residua, o di cinque anni, se trattasi di condannati all’ergastolo, la liberazione condizionale determina la
definitiva estinzione della pena e la revoca delle eventuali misure di sicurezza personali. La liberazione
condizionale è soggetta a revoca, se durante il periodo di libertà sotto condizione la persona liberata commette
un delitto o una contravvenzione della stessa indole, ovvero trasgredisce agli obblighi impostigli con la libertà
vigilata. A seguito della revoca, il condannato riprende a scontate la pena detentiva.
f) La riabilitazione “estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la
legge disponga altrimenti”. La riabilitazione può intervenire dopo il decorso di almeno tre anni (cinque nella
previsione originaria) dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o altrimenti si è estinta; il termine è
invece di almeno otto anni (dieci nella previsione originaria) per recidivi qualificati e di dieci per i delinquenti
abituali, professionali e per tendenza.
Ulteriori condizioni per la riabilitazione sono: a) che il condannato abbia dato prove effettive e costanti di
buona condotta; b) che non sia stato sottoposto a misure di sicurezza, tranne che si tratti della espulsione dello
straniero dallo Stato o di confisca, ovvero che il provvedimento sia stato revocato; c) che abbia adempiuto le
obbligazioni civili nascenti dal reato o che dimostri l’impossibilità di adempierle.
La riabilitazione è revocata di diritto, se il riabilitato commette entro sette (prima erano cinque) anni un
delitto non colposo, per il quale riporti una nuova condanna alla reclusione non inferiore a due anni (tre nella
previsione originaria).
g) La non menzione della condanna non è, in realtà, una causa di estinzione della pena, ma solo una
limitazione degli effetti della condanna penale. Essa consiste, infatti, in un provvedimento giudiziale, dato in
uno alla sentenza di condanna, con cui si stabilisce che della condanna stessa non si faccia menzione nei
certificati rilasciati dal casellario.
Il beneficio è rimesso alla valutazione discrezionale del giudice, avuto riguardo all’art. 133 c.p. Può essere
concesso per condanne che non superino una certa entità, sempre che si tratti della “prima condanna” subita
dal soggetto; a meno che non si tratti di reati anteriormente commessi, quando il cumulo delle pene non
superi i limiti stabiliti.
L’ordine di non menzione della condanna è revocato di diritto, se il condannato commette successivamente
un altro delitto. La revoca può intervenire senza limiti di tempo.
LE ALTRE CONSEGUENZE GIURIDICHE DEL REATO. IL TRATTAMENTO DELL’ILLECITO
DEPENALIZZATO

GLI EFFETTI PENALI DELLA CONDANNA


Si definiscono “effetti penali della condanna” le conseguenze giuridiche che derivano di diritto dalla
condanna medesima, diverse dalle pene, principali e accessorie, e dalle misure di sicurezza (art. 20 c.p.).
Gli effetti penali si concretano, in ogni caso, in limitazioni al godimento di particolari benefici o in aggravio
di posizioni soggettive del condannato.
Una enumerazione degli effetti penali della condanna è praticamente impossibile, poiché essi non
costituiscono un numerus clausus e sono previsti, oltre che le c.p., in molte leggi speciali. Si citano, di solito,
come classici esempi di effetti penali: l’impossibilità di ottenere la sospensione condizionale in conseguenza,
appunto, di una o più condanne precedenti; l’acquisizione della condizione di recidivo a seguito della
condanna da cui essa scaturisce; l’iscrizione della condanna nel casellario giudiziale; l’impossibilità a svolgere
determinate attività, ottenere determinate autorizzazioni o concessioni, o di partecipare a determinati
concorsi per effetto della condanna penale, etc.
Gli effetti penali vengono a cessare con la riabilitazione, mentre, di regola, non vengono meno per il
verificarsi delle altre cause estintive del reato e della pena.

LE CONSEGUENZE GIURIDICHE DEL FATTO COSTITUENTE REATO IN QUANTO ILLECITO


CIVILE
A norma dell’art. 185 c.p., ogni reato “obbliga alle restituzioni”, alla stregua delle leggi civili. Ogni reato
“che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale” obbliga inoltre al risarcimento il colpevole “e
le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”.
Le obbligazioni civili nascenti del reato non si estinguono per effetto della estinzione del reato o della pena.
Quanto all’ampiezza del danno risarcibile, derivante dal reato, esso abbraccia sia il danno patrimoniale
(tanto nella forma del danno emergente che in quella del c.d. lucro cessante), sia il danno non patrimoniale.
Danno non patrimoniale è il c.d. “danno morale”, che corrisponde alle sofferenze fisiche o psichiche subite
dalla persona offesa o dal terzo danneggiato. Nel danno non patrimoniale si fa rientrare anche il c.d. danno
biologico, corrispondente al danno alla vita di relazione, al danno estetico, etc. conseguenti al reato.
L’art. 186 c.p. aggiunge alle ordinarie misure riparatorie del danno civile una forma particolare di
riparazione, consistente nella pubblicazione della sentenza di condanna, a spese del colpevole, “qualora la
pubblicazione costituisca un mezzo per riparare il danno non patrimoniale cagionato dal reato”. La sanzione
prevista dall’art. 186 c.p. ha natura civilistica e non va confusa con la pena accessoria, di analogo contenuto, di
cui all’art. 36 c.p.
Una particolare ipotesi di risarcimento del danno non patrimoniale è prevista nell’art. 598 co. 2 c.p. Questa
disposizione, nel sancire la non punibilità delle offese contenute negli scritti e nei discorsi delle parti o dei loro
patrocinatori innanzi all’autorità giudiziaria o amministrativa, quando concernano l’oggetto del procedimento,
faculta, tuttavia, il giudice a disporre, oltre alla cancellazione della scrittura offensiva, anche l’assegnazione
alla persona offesa di una somma “a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale”.

LE OBBLIGAZIONI CIVILI DEL CONDANNATO VERSO LO STATO


A norma dell’art. 188 c.p., il condannato è tenuto a rimborsare all’erario dello Stato le spese per il suo
mantenimento negli istituti di pena, tuttavia, per una quota non superiore ai due terzi del costo reale (art. 5 co.
2 legge 354/1975). Di tale obbligazione il connato risponde con tutti i suoi beni mobili e immobili, presenti e
futuri, a norma delle leggi civili. L’obbligazione, però, non si trasmette agli eredi del condannato, né alla
persona civilmente responsabile per il fatto di lui.
Il debito verso lo Stato per le spese di mantenimento in carcere può essere rimesso a favore dei condannati
e internati che versino in condizioni economiche e disagiate e si siano distinti per regolare condotta (c.d.
remissione del debito: art. 50 legge 354/1975).

L’OBBLIGAZIONE CIVILE PER LA MULTA E PER L’AMMENDA


L’art. 196 c.p. stabilisce che, nei reati commessi da chi è soggetto all’altrui autorità, direzione o vigilanza,
quando il condannato risulti insolvibile, la persona rivestita dell’autorità o incaricata della direzione o
vigilanza è obbligata al pagamento di una somma pari all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitte al
colpevole “se si tratta di violazioni di disposizioni che essa era tenuta a far osservare e delle quali non debba
rispondere penalmente”. Nei riguardi della persona preposta, tuttavia, in caso di sua insolvibilità, non opera la
disciplina della conversione ex art. 136 c.p., che si applica, in questo caso, al condannato.
Quest’ultima previsione segnala in modo molto evidente il carattere di obbligazione puramente civile
dell’obbligo posto a carico del preposto.
Di analogo tenore sono le disposizioni dell’art. 197 c.p., che stabiliscono eguale traslazione dell’obbligazione
relativa al pagamento delle sanzioni pecuniarie, in caso di insolvibilità del condannato, a carico degli enti
forniti di personalità giuridica, diversi dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni, qualora la
condanna sia stata pronunziata “contro chi ne abbia la rappresentanza, o l’amministrazione, o sia con essi in
rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità
rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso nell’interesse della persona giuridica (art. 197 c.p.).

LE GARANZIE PER LE OBBLIGAZIONI CIVILI DEL CONDANNATO E DEL CIVILMENTE


OBBLIGATO
L’adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato è assistita da una serie di garanzie. La relativa
disciplina, originariamente contenuta negli artt. 189-194 c.p., è stata parzialmente trasferita nel c.p.p. (artt.
316-320 c.p.p.), ove si prevede la facoltà del pubblico ministero di chiedere, in ogni stato e grado del processo
di merito, il sequestro conservativo dei beni mobili e immobili dell’imputato o delle somme o cose a lui dovute,
quando vi sia “fondato motivo di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della
pena pecuniaria, delle spese di procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato” (art. 316 co. 1
c.p.p.). analoga facoltà è riconosciuta alla parte civile, a garanzia delle obbligazioni civili derivanti dal reato; in
ogni caso, il sequestro disposto a richiesta del pubblico ministero giova anche alla parte civile (art. 316 co. 2 e
3 c.p.p.). Per effetto del sequestro, i crediti a garanzia del quali il sequestro è disposto si considerano
privilegiati rispetto a ogni altro credito non privilegiato di data anteriore, e ai crediti sorti posteriormente,
salvo i privilegi stabiliti a garanzia del pagamento dei tributi (art. 316 co. 4 c.p.p.).
Gli artt. 192-195 c.p., tuttora in vigore, ad ulteriore garanzia delle obbligazioni civili nascenti dal reato,
sanciscono, in parziale deroga alle leggi civili in materia, l’inefficacia degli atti di disposizione a titolo gratuito,
compiuti dal colpevole dopo il reato. Per quanto concerne gli atti a titolo oneroso, se compiuti dopo il reato, si
presumono compiuti in frode; ma per la revoca dell’atto, è necessario che si provi la malafede dell’altro
contraente. Quanto agli atti compiuti prima del reato, ma nel limite di un anno – siano essi a titolo gratuito o a
titolo oneroso – per la revoca è sempre necessaria la prova che essi furono compiuti in frode; ma, se si tratta di
atti a titolo oneroso che eccedono “la semplice amministrazione ovvero la gestione dell’ordinario commercio”,
è necessaria anche la prova della malafede dell’altro contraente (art. 194 co. 2 c.p.). I diritti dei terzi sono
regolati dalle leggi civili ordinarie (art. 2901 c.p.).

LA RESPONSABILITA’ DA REATO DELLE PERSONE GIURIDICHE E DEGLI ENTI


COLLETTIVI
Negli ultimi decenni è andata crescendo, nel nostro paese come altrove, la discussione attorno alla
possibilità di introdurre vere e proprie forme di responsabilità penale a carico delle persone giuridiche. La
ragione risiede nella diffusa consapevolezza che, in particolare nell’ambito della criminalità economica,
l’illecito trova frequente origine in scelte e comportamenti che non sono riconducibili a singoli soggetti, ma
rappresentano piuttosto il frutto di precise scelte di politica d’impresa, difficilmente collocabili negli ordinari
schemi di responsabilità penale.
Nonostante fosse da tutti riconosciuta l’obiettiva esigenza politico-criminale di predisporre strumenti in
grado di far corrispondere soggetto (collettivo) responsabile dell’illecito e soggetto destinatario della sanzione,
si sottolineava, d’altra parte, la problematica configurabilità di una vera e propria responsabilità penale a
carico delle persone giuridiche, a causa della evidente difficoltà di adattare a queste ultime un modello di
responsabilità, quella penale appunto, costruito attorno al principio di personalità, con tutte le implicazioni
che da ciò derivano in ordine ai caratteri e, soprattutto, alla funzione della pena.
Ed in effetti la legge 300/2000, nel dare esecuzione a obblighi pattizi di carattere comunitario, ha
introdotto la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti collettivi per i reati commessi
dai loro organi o da loro sottoposti, poi compiutamente disciplinata con il d.lgs. 231/2000, e successive
modifiche.
Schematizzando al massimo, si può dire che il modello di responsabilità accolto ruota attorno ad un
peculiare paradigma di colpevolezza, rappresentato da un rimproverabile difetto di organizzazione (o di
attuazione di profili organizzativi), collegato all’obbligo di prevenire il concretizzarsi del rischio rappresentato
dalla commissione di illeciti penali commessi “nel suo interesse o a suo vantaggio”, da parte dei soggetti
rivestiti di poteri di rappresentanza, direzione e amministrazione dell’ente ovvero da persone legate all’ente da
un rapporto di subordinazione e dunque sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti collocati
in posizione apicale; la responsabilità dell’ente è esclusa se l’autore del reato ha agito “nell’interesse esclusivo
proprio o di terzi” (art. 5 d.lgs. 231/2001).
L’ente sarà dunque considerato responsabile quando il reato commesso se non è espressione per così dire
“diretta” della politica d’impresa, quantomeno dipende da una colpa di organizzazione, nel senso della
mancata adozione (o efficace attuazione) di protocolli di comportamento, strumenti di controllo, sistemi
disciplinare, etc. adeguati a prevenire lo specifico rischio-reato (art. 6 d.lgs. 231/2001).
Il legislatore descrive questo particolare modello di colpevolezza in forma negativa, attribuendo cioè valore
esimente alla prova da parte dell’ente di avere adottato, ed efficacemente applicato, un modello di
organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi (art. 7 d.lgs.
231/2001).
Che si tratti di una colpa propria dell’ente è dimostrato dalla previsione dell’autonomia della sua
responsabilità: l’ente infatti risponde anche se l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile,
nonché quando il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia (art. 8 d.lgs. 231/2001).
Nel corso degli anni il legislatore ha di molto ampliato l’area applicativa del d.lgs. 231/2001, e, pur
procedendo in modo un po’ disordinato ed occasionale e con innesti non sempre congrui, ha provveduto a
colmare alcune vistose lacune originarie, come, ad esempio, quelle relative ai reati societari, ai reati ambientali
ed all’area della sicurezza sul lavoro.
Per quel che riguarda infine le sanzioni (art. 9 d.lgs. 231/2001), accanto a quella pecuniaria, sono previste
talune sanzioni interdittive; la confisca (anche per “equivalente”) e la pubblicazione della sentenza di
condanna. Innovativo per il nostro ordinamento è il sistema commisurativo della pena pecuniaria, la cui
misura non viene determinata mediante la individuazione di limiti edittali fissi, bensì “per quote”: in base
all’art. 11 d.lgs. 231/2001, infatti, il numero delle quote viene determinato dal giudice (nei limiti fissati dalla
legge) “tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell’ente nonché dell’attività svolta
per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti”; mentre
l’importo della quota è fissato sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di
assicurare l’efficacia della sanzione.
SEZIONE SECONDA

MISURE DI SICUREZZA E MISURE DI PREVENZIONE

PREMESSA
Misure di sicurezza e misure di prevenzione, pur assolvendo a funzioni parzialmente assimilabili in quanto
entrambe dirette alla prevenzione dal pericolo della commissione di fatti di reato, si distinguono sotto il
profilo strutturale in quanto, mentre le misure di sicurezza presuppongono la commissione di un fatto di
reato o di un c.d. quasi reato, le misure di prevenzione prescindono da tale presupposto e sono applicate sulla
base di indizi di pericolosità contemplati da specifiche norme di legge.

MISURE DI SICUREZZA
Il nostro ordinamento prevede e disciplina la possibilità di applicare come conseguenza della commissione
di un fatto previsto dalla legge come reato o quasi reato determinate misure di sicurezza per prevenire
l’ulteriore commissione di reati da parte del soggetto (funzione special preventiva).
Le misure di sicurezza sono previste e disciplinate dagli artt. 199 e ss c.p., nonchè dall'art. 25 Cost. che
estende espressamente alle misure di sicurezza il principio della riserva di legge.
Dispone l’art. 199 c.p.: “Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente
stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti”. Questa regola è costituzionalmente presidiata
dall’art. 25 co. 3 Cost., a norma del quale “nessuno può essere sottoposto a misura di sicurezza se non nei
casi previsti dalla legge”. Secondo quanto affermato anche dalla Corte costituzionale (sent. 157/1972), il
principio di legalità delle misure di sicurezza include l’esigenza della tassatività della relativa previsione
normativa, anche se, avendo come referente non la descrizione di un fatto, ma gli elementi di una fattispecie di
pericolosità, si presenta necessariamente più elastica e meno puntuale, rispetto alla corrispondente
prescrizione in materia di fatti costituenti reato.
In qualche misura controversa è l’applicabilità alle misure di sicurezza anche della regola della retroattività.
Nel silenzio della Costituzione, la disciplina applicabile è quella dell’art. 200 c.p., ove si dispone che le
misure di sicurezza “sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione” e non da quella
vigente al momento della commissione del fatto di reato. Da ciò non pare potersi derivare, tout court, la
retroattività delle misure di sicurezza. L’applicabilità di una misura di sicurezza, infatti, implica sempre e
comunque la commissione di un fatto preveduto dalla legge come reato (ovvero rilevante come “quasi-reato”:
art. 202 co. 2 c.p.). Di conseguenza, questa non può certo applicarsi per un fatto che, al tempo della sua
commissione, non costituiva reato o “quasi-reato”. È invece in qualche misura controverso se possa essere
applicata “retroattivamente” una misura di sicurezza introdotta dalla legge posteriormente alla commissione
del reato o del quasi-reato, per altro già previsti come tali al momento del fatto. Si sostiene che la garanzia
sottesa all’art. 25 Cost. deve indurre ad escludere non solo l’applicabilità di una misura di sicurezza per un
fatto che, al momento della commissione, non costituisce reato, o quasi reato, ma anche l’applicabilità di una
misura di sicurezza non prevista al tempo del fatto, o diversa da quella originariamente prevista.
L’art. 202 co. 1 c.p. stabilisce che le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone
socialmente pericolose, che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato. Non si richiede,
ovviamente, come necessaria la colpevolezza del soggetto essendo le misure di sicurezza, applicabili, in
determinati casi, anche ai non imputabili.
Il co. 2 dell’art 202 c.p. prevede, tuttavia, la possibilità che la legge penale determini altri casi “nei quali
a persone socialmente pericolose possono essere applicate misure di sicurezza per un fatto non preveduto
dalla legge come reato”. Le ipotesi presenti nel sistema sono il reato impossibile (art. 49 c.p.) e l’accordo
criminoso e l’istigazione a commettere un delitto, non seguiti dalla commissione del delitto (art. 115 c.p.).
Presupposti per l’applicazione delle misure di sicurezza è che il soggetto abbia commesso un fatto
preveduto dalla legge come reato o un “quasi reato” (artt. 49 e 115 c.p.) ed appaia socialmente pericoloso.
L’art. 203 co. 1 c.p., definisce come “socialmente pericolosa” la persona, anche se non imputabile o non
punibile, “quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reato”.
Nel sistema originario del c.p., si distingueva fra pericolosità da accertare in concreto, che costituiva la
regola, e pericolosità presunta dalla legge. Tale situazione è stata radicalmente innovata dall’art. 31 legge
663/1986, che, nell’abrogare l’art. 204 c.p., ha espressamente stabilito che tutte le misure di sicurezza
personali “sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente
pericolosa”.
Occorre tenere conto che l’art. 220 co. 2 c.p.p. esclude l’ammissibilità, nel processo, di perizie “per stabilire
l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e personalità dell’imputato e in
genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”.
Solo, dunque, nelle ipotesi di infermità o semi-infermità mentale, si apre la possibilità di un reale
accertamento della pericolosità; in tutti gli altri casi, essa dovrebbe essere desunta esclusivamente dagli atti e
dall’osservazione processuale, che non permettono, ovviamente, se non in via intuitiva, una prognosi
attendibile.
I destinatari delle misure di sicurezza si possono distinguere in tre categorie:
a) I delinquenti imputabili socialmente pericolosi;
b) I delinquenti c.d. semi-imputabili, socialmente pericolosi;
c) I soggetti non imputabili, socialmente pericolosi.
Alle prime due categorie di soggetti si applicano congiuntamente pena e misure di sicurezza; alla terza, la
sola misura di sicurezza.
L’abitualità nel reato (art. 103 c.p.) corrisponde alla situazione di chi, dopo essere stato condannato per
due delitti non colposi, riporti un’altra condanna per delitto non colposo, “se il giudice, tenuto conto della
specie e gravità dei reati, del tempo entro il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del
colpevole e delle altre circostanze indicate nel capoverso dell’art. 133 c.p., ritiene che il colpevole sia dedito al
delitto”.
La professionalità nel reato (art. 105 c.p.) corrisponde alla situazione di chi, trovandosi nelle
condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità nel reato, riporta condanna per un altro reato, “se il
giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati, del tempo entro il quale sono stati commessi, della
condotta e del genere di vita del colpevole e delle altre circostanze indicate nel capoverso dell’art. 133 c.p.,
ritiene che il colpevole viva abitualmente, anche in parte soltanto, dei proventi del reato”.
Quanto alla figura del delinquente per tendenza, essa, al contrario delle altre due tipologie della
pericolosità, prescinde del tutto dalla condizione di recidivo: può essere dichiarato delinquente per tendenza,
infatti, colui che commette un delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, quando la
commissione di tale delitto, “per sé e unitariamente alle circostanze indicate nell’art. 133 cpv. c.p., riveli una
speciale inclinazione al delitto, che trova la sua causa nell’indole particolarmente malvagia del colpevole” (art.
108 c.p.).
La dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere si estingue per effetto
della riabilitazione.
Le misure di sicurezza si applicano anche gli stranieri che si trovano nel territorio dello Stato;
l’applicazione delle misure di sicurezza allo straniero, per altro, non ne impedisce l’espulsione dal territorio
dello Stato. Le misure di sicurezza possono applicarsi anche per fatti commessi all’estero, quando si proceda, o
si rinnovi il giudizio, nello Stato (art. 201 c.p.).
Le misure di sicurezza sono applicate, di regola, con la sentenza di condanna o di proscioglimento (nel caso
di non imputabili). Talune misure di sicurezza possono essere applicate provvisoriamente, anche prima della
sentenza definitiva, naturalmente previo accertamento della pericolosità.
A parte queste ipotesi, l’esecuzione delle misure di sicurezza, quando la misura di sicurezza si
aggiunge a una pena, è sempre successiva all’esecuzione della pena.
L’esecuzione delle misure di sicurezza detentive ha luogo in istituti particolari, a ciò destinati, o in
speciali sezioni, annesse ad altri istituti.
La durata delle misure di sicurezza è predeterminata, all’atto dell’applicazione, solo nella misura minima.
Alla scadenza del termine minimo di durata, il giudice procede al riesame della pericolosità, che può condurre
alla revoca della misura, ovvero alla sua proroga per un nuovo periodo minimo di durata, al termine del quale
si procederà a un nuovo riesame; e così via fino a che il giudizio sulla pericolosità non risulti negativo (art. 208
c.p.). Ed invero, le misure di sicurezza non possono essere revocate se le persone ad esse sottoposte non hanno
cessato di essere pericolose. Tuttavia, “quando vi sia ragione di ritenere che il pericolo sia cessato”, il riesame
della pericolosità può essere compiuto anche prima della scadenza (art. 208 c.p.). In ogni casi, si prevede che
le misure detentive, “non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato
commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima
Se la persona sottoposta a misura di sicurezza si sottrae all’esecuzione della medesima, il periodo minimo
di durata della misura ricomincia a decorrere dall’inizio, a meno che non si tratti di ricovero in ospedale
psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia. Il fatto, tuttavia, non costituisce evasione.
Le misure di sicurezza si suddividono in personali e patrimoniali. Quelle personali si distinguono a loro
volta in detentive e non detentive.
Sono misure di sicurezza personali detentive: 1) la colonia agricola o casa di lavoro (artt. 216-218
cp); 2) la casa di cura e di custodia (artt. 219 -221 cp); 3) l'ospedale psichiatrico giudiziario (art 222 cp).
a) L’assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro è la misura di sicurezza destinata
ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza e a coloro che, essendo già stati sottoposti a misure di
sicurezza, commettono un nuovo delitto non colposo che costituisca ulteriore manifestazione dell’abitualità,
della professionalità o della tendenza a delinquere; vi sono assoggettate, inoltre, le persone, condannate o
prosciolte, negli altri casi indicati espressamente dalla legge (art. 216 c.p.). Ha la durata minima di un anno,
elevata a due per i delinquenti abituali, a tre per i delinquenti professionali, a quattro per i delinquenti per
tendenza (art. 217 c.p.).
b) Il ricovero in una casa di cura e custodia è la misura di sicurezza destinata ai condannati a una
pena diminuita per infermità psichica, per intossicazione cronica da alcool e da sostanze stupefacenti, ovvero
per sordomutismo, e agli ubriachi abituali. Ha durata minima variabile da sei mesi a cinque anni. Nei casi
meno gravi può essere sostituita con la libertà vigilata; non può concorrere con altre misure di sicurezza
detentive (artt. 219, 221 c.p.).
c) Il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario è la misura di sicurezza destinata ai soggetti
prosciolti per infermità psichica, per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, o per
sordomutismo, salvo ipotesi di lieve entità. La durata minima del ricovero non può essere inferiore a due anni;
il minimo è però di cinque anni, se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena della reclusione non
inferiore nel minimo a dieci anni; di dieci anni, se per il fatto commesso la pena prevista è l’ergastolo. Se la
persona ricoverata deve scontare una pena restrittiva della libertà personale, l’esecuzione di questa è differita
fino a che perdura il ricovero. Il ricovero in ospedale psichiatrico si applica anche a minori degli anni
quattordici e ai maggiori degli anni quattordici, minori dei diciotto, se ricorrono determinate condizioni.
La Corte Costituzionale è intervenuta in materia dichiarando l'incostituzionalità della norma nella parte in
cui non ha escluso la sua applicabilità ai minori di anni diciotto (sent. 324/1998) e nella parte in cui ha escluso
ogni margine di discrezionalità in ordine alla misura da applicare da parte del Giudice (sent. 253/2003).
d) Il riformatorio giudiziario è la misura di sicurezza speciale per i minori imputabili e non imputabili,
ritenuti pericolosi. È sempre applicata ai minori degli anni diciotto che siano stati dichiarati delinquenti
abituali, professionali o per tendenza. Al compimento del diciottesimo anno il soggetto è assegnato a una
colonia agricola o a una casa di lavoro. La misura non può avere una durata inferiore a un anno; il limite è
elevato a tre anni per i delitti puniti con l’ergastolo (artt. 223, 224 c.p.). Al di fuori di quest’ultima ipotesi, può
essere sostituita con la libertà vigilata.
Sono misure di sicurezza personali non detentive: 1) la libertà vigilata (artt. 228-232 cp); 2) il
divieto di soggiorno (art. 233 cp); 3) il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche (art.
234 cp); 4) l'espulsione dello straniero dalla Stato.
a) La libertà vigilata non può avere durata inferiore a un anno e consiste nell’affidamento del soggetto
all’autorità di pubblica sicurezza, con il corredo di una serie di prescrizioni e limitazioni imposte al
condannato al fine di “evitare le occasioni di nuovi reati” (art. 228 c.p.). La libertà vigilata può conseguire alla
condanna alla reclusione per un tempo superiore a un anno; quando si tratti di condanna alla reclusione per
non meno di dieci anni, la libertà vigilata non può avere durata inferiore a tre anni. Consegue, inoltre, alla
liberazione condizionale e ad altre ipotesi stabilite dalla legge: in particolare, è la misura di sicurezza
applicabile al “quasi-reato” (art. 229 n. 2 c.p.). È la misura di sicurezza applicabile in ogni altro caso in cui la
legge, nel prevedere l’applicabilità di una misura di sicurezza, non ne determina la specie (art. 215 co. 4 c.p.).
In caso di trasgressione agli obblighi imposti con la libertà vigilata, il giudice può aggiungere ad essa la
cauzione di buona condotta; ma, in rapporto alla gravità della trasgressione – o quando la cauzione imposta
non venga prestata –, si può far luogo all’assegnazione a una colonia agricola o casa di lavoro; ovvero, se si
tratta di minori, a un riformatorio giudiziario.
b) Il divieto di soggiorno in uno o più Comuni o in una o più Province è applicato ai colpevoli di
un delitto contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico, ovvero di un delitto commesso per
motivi politici, o “occasionato da particolari condizioni sociali o morali esistenti in un determinato luogo” (art.
233 co.1 c.p.). Non può avere durata inferiore a un anno; in caso di trasgressione, il termine minimo riprende a
decorrere dall’inizio; può inoltre essere disposta la libertà vigilata.
c) Il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche si aggiunge alla
condanna per ubriachezza abituale o per reati commessi in stato di ubriachezza, sempre che questa sia
abituale. In caso di trasgressione del divieto, può essere ordinata la libertà vigilata o la prestazione di una
cauzione di buona condotta.
d) Espulsione od allontanamento dello straniero dallo Stato si applica, oltre che nei casi
espressamente preveduti dalla legge, quando lo straniero sia condannato alla reclusione per un tempo
superiore ai due anni ovvero nel caso di condanna ad una pena restrittiva della libertà personale per taluno dei
delitti contro la personalità dello Stato.
Le misure di sicurezza patrimoniali sono: la cauzione di buona condotta e la confisca
a) La cauzione di buona condotta consiste nel deposito presso la Cassa delle ammende di una
determinata somma di denaro (o nella prestazione di una corrispondente garanzia ipotecaria o fideiussoria)
per un periodo da uno a cinque anni. Alla fine del periodo, la somma data in cauzione viene restituita (ovvero
la garanzia si estingue), se il soggetto non ha commesso alcun delitto, o contravvenzione punibile con l’arresto.
Se la cauzione imposta non viene versata, la misura è sostituita con la libertà vigilata (artt. 237-239 c.p.).
b) La confisca consiste nell’espropriazione e devoluzione, a favore dello Stato, “delle cose che servirono o
furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”. La confisca è una
misura facoltativa: sarà infatti il giudice a stabilire, nel caso concreto, se il provvedimento ablativo è
necessario al fine di impedire che la disponibilità, della cosa da parte del reo possa rappresentare un incentivo
alla commissione di nuovi reati. È invece obbligatoria la confisca delle cose che costituiscono “il prezzo del
reato”, dei beni e degli strumenti informatici o telematici che risultino essere stati in tutto o in parte utilizzati
per la commissione di una serie di reati informatici espressamente indicati nella norma; delle cose, la
fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stata
pronunciata condanna.
Negli ultimi anni il legislatore da un lato ha ampliato l’area delle ipotesi di confisca obbligatoria, ad
esempio ha reso obbligatoria la confisca per tutte le cose che servirono o furono destinate a commettere il
reato di associazione di tipo mafioso, dall’altro ha introdotto l’istituto della confisca c.d. per equivalente
(o di valore): essa consente, nell’ipotesi in cui non sia possibile confiscare i beni costituenti il profitto o il
prezzo del reato, di agire sui beni di cui il reo abbia la disponibilità per un valore corrispondente a quello del
suddetto profitto o prezzo. Questa misura, volta ad ampliare gli spazi applicativi della confisca, mutandone
però in parte anche i caratteri originari, non ha tuttavia portata generale.
Tra le molte ipotesi codicistiche possono ricordarsi: i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione (art. 322-ter c.p.); i delitti contro l’ambiente (art. 452-undecies c.p.); i delitti di truffa e frode
informatica (art. 640-quater c.p.); i delitti di riciclaggio, autoriciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di
provenienza illecita (art. 648-quater c.p.).
Quanto, invece, alla legislazione speciale, la confisca per equivalente è prevista, tra l’altro: per i reati
societari (art. 2641 c.c.); per i reati tributari (d.lgs. 74/2000); per i reati di abuso di informazioni privilegiate e
di manipolazione del mercato (art. 187 d.l. 58/1998).
Nella ricerca di nuovi e più efficaci strumenti di contrasto alla criminalità organizzata, il legislatore ha
inoltre introdotto una ulteriore figura di confisca c.d. allargata. Essa consente che, nel caso di condanna
per una serie di gravi delitti, si proceda alla confisca obbligatoria “del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui
il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica,
risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito”.

MISURE DI PREVENZIONE
Le misure di prevenzione sono state introdotte nel nostro sistema penale dalla legge 1423/1956 che ha
sottratto alla competenza esclusiva dell'autorità di polizia il compito di applicarle sottoponendo le medesime
al controllo dell'autorità giudiziaria, nonchè, in taluni casi, all'applicazione diretta da parte della stessa.
La legge 1423/1956 ha, successivamente, subito numerose modifiche. Tutta la materia delle misure di
prevenzione risulta oggi disciplinata in maniera organica dal d.lgs. 159/2011.
L’applicazione delle misure di prevenzione prescinde, in via di principio, dall’accertamento dell’effettiva
commissione di un reato, ma si ricollega ad una peculiare connotazione di pericolosità criminale, che
l’ordinamento desuma da una condotta di vita del soggetto colpito, tale da fondare un giudizio di rilevante
probabilità che egli abbia commesso, stia commettendo o possa commettere, in un prossimo futuro,
determinati reati.
Le misure di prevenzione possono applicarsi:
a) A coloro che “debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi”;
b) A coloro che “per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che
vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”;
c) A coloro che “per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti
alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la
sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”.
Le persone così individuate ricevono dal questore avviso orale dei sospetti a loro carico e l’invito a tenere
una condotta conforme alla legge; di ciò è redatto processo verbale al solo fine di dare all’avviso data certa.
Trascorsi non meno di sessanta giorni e non più di tre anni, se la persona avvisata non ha cambiato condotta e
risulta pericolosa per la sicurezza pubblica, il questore può avanzare al Tribunale motivata proposta per
l’applicazione nei suoi riguardi della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza. Questa viene
disposta dal Tribunale, che determina le prescrizioni a cui il proposto dovrà attenersi. La sorveglianza speciale
non può avere durata inferiore a un anno, né superiore a cinque anni. Alla sorveglianza speciale possono
aggiungersi il divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più province, quando le
circostanze del caso lo richiedono, e l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di abituale dimora.
L’inottemperanza degli obblighi imposti con il decreto che dispone la misura costituisce contravvenzione
punibile con l’arresto, quando concerna la sola sorveglianza speciale; delitto punito con la reclusione da uno a
cinque anni, se concerne la sorveglianza con obbligo o divieto di soggiorno.
È invece di esclusiva competenza del questore il rimpatrio con foglio di vita obbligatorio:
provvedimento che può essere adottato qualora le persone sospette si trovino fuori dei luoghi di residenza e
siano dall’autorità di pubblica sicurezza ritenute pericolose per la sicurezza pubblica. Il foglio di via obbliga i
soggetti a rientrare nel luogo di residenza, con divieto di ritornare nel comune da cui vengono allontanati,
senza preventiva autorizzazione, ovvero per un periodo non superiore a tre anni. La relativa contravvenzione,
è punita con l’arresto da uno a sei mesi.
Con la legge 575/1965 (“Disposizioni contro la mafia”), fu stabilita l’applicabilità delle misure di
sorveglianza speciale, dell’obbligo e del divieto di soggiorno, nei confronti dei soggetti “indiziati” di
appartenere ad associazioni mafiose.
La legge 646/1982 (più nota come legge Rognoni-La Torre) ne estese l’applicabilità “ai soggetti indiziati di
appartenere alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o
agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”.
La parte maggiormente innovativa della legge 646/1982 è tuttavia costituita dalla introduzione di misure di
carattere patrimoniale, che si affiancano a quelle personali, già previste, con l’obiettivo di combattere
l’accumulazione e lo sfruttamento degli ingenti capitali connessi con lo svolgimento delle attività illecite
proprie delle società mafiose e camorristiche.
Le misure patrimoniali previste sono il sequestro e la confisca. Il sequestro è disposto dal Tribunale
investito della proposta, quale provvedimento di natura provvisoria e cautelare, in base al sospetto che i beni
ricadenti nella disponibilità, diretta o indiretta, dell’”indiziato” siano il frutto di attività illecite o ne
costituiscano il reimpiego; la confisca viene disposta all’esito di un procedimento giurisdizionale ad hoc,
quando “la persona, nei cui confronti è instaurato il procedimento, non possa giustificare la legittima
provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la
disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul
reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne
costituiscano il reimpiego”.

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