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Sentenza 5 del 2018 (ART 2 COST- ART 13 COST - ART 32 COST )

La giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di vaccinazione obbligatoria.

In tema di vaccinazioni obbligatorie, la Corte ha ritenuto non conforme alla Carta


fondamentale invocare una libertà di autodeterminazione – art. 13, Cost. – senza però
considerare il dovere di solidarietà – art. 2, Cost. – e la tutela della salute – art. 32,
Cost.: queste ultime due finalità vengono prima della libertà di scelta individuale.

Pertanto, posto che la vaccinazione prevista dalla legge ha lo scopo di tutelare la salute
del soggetto sottoposto all’inoculazione, la libertà di autodeterminazione del singolo
individuo rileva solo se e nella misura in cui lo stato di salute del medesimo non abbia
incidenza, diretta o indiretta, nella sfera giuridica di soggetti terzi: in caso contrario,
l’interesse collettivo prevale, giustificando la compressione dell’autodeterminazione
individuale.

La giurisprudenza costituzionale sui conflitti di competenza tra Stato e


regioni: la sentenza n. 37 del 2021. ART 117 COST (LESIONE DELLE
COMPETENZE STATALI) A scrivere una pagina apparentemente risolutiva a proposito delle
competenze statali e regionali nella gestione della pandemia è stata la Corte costituzionale, con la sentenza
n. 37 del 2021121. Si tratta della decisione relativa al caso Valle d’Aosta, ovvero al ricorso promosso dallo
Stato nei confronti della legge regionale 9 dicembre 2020, n. 11 (Misure di contenimento della diffusione
del virus SARS-COV-2 nelle attività sociali ed economiche della Regione autonoma Valle d’Aosta in relazione
allo stato d’emergenza) per aver invaso sfere di competenza statale. Una decisione, dunque, che
sembrerebbe aver definitivamente chiarito i contorni dei rispettivi ambiti competenziali ma che in realtà ha
suscitato non poche perplessità nel dibattito dottrinario. Prima di procedere ad un esame dei passaggi più
significativi della decisione, si anticipa che la soluzione adottata dalla Corte ha ricondotto sostanzialmente
quasi tutte le misure contenute nella legge regionale impugnata alla materia «profilassi internazionale» di
competenza esclusiva statale, facendone salve soltanto alcune a carattere organizzativo. Una posizione,
dunque, che non sembra dare adito ad equivoci, nonostante la vicenda pandemica abbia di fatto chiamato
in causa importanti segmenti competenziali di spettanza regionale. In realtà, ciò che della decisione sembra
essersi prestato a maggiore critica non è tanto il risultato cui la stessa è pervenuta, quanto l’impianto
argomentativo utilizzato. In altri termini, che la Corte avrebbe ridefinito il riparto competenziale a favore
dello Stato, questo rappresentava un risultato più che prevedibile, anche in linea con gli orientamenti
espressi dalla giustizia amministrativa, come si è già avuto modo sinteticamente di constatare. Ma,
soprattutto, una anticipazione dell’esito del giudizio nel merito lo si era già avuto con l’ordinanza n. 4 del
2021, con cui per la prima volta la Corte costituzionale ha disposto la sospensione cautelare di una legge
regionale122, nella quale già si anticipava che quella impugnata avrebbe dato luogo ad un meccanismo
autonomo ed alternativo di gestione dell’emergenza sanitaria, «cristallizzando con legge» una situazione
che la normativa statale consente alle Regioni di gestire «esclusivamente in via amministrativa», mentre la
pandemia in corso ha richiesto e richiede interventi rientranti nella materia della profilassi internazionale di
competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera q), Cost.

SENTENZA N. 89 DEL 1996 (ART 3 COST ) Riguarda il giudizio di legittimità


costituzionale dell'art. 297, comma 3, del codice di procedura penale. Il GIP del Tribunale di
Milano fu chiamato a pronunciarsi su istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini
massimi di custodia cautelare, più precisamente per inefficacia sopravvenuta della misura
della custodia in carcere a seguito della entrata in vigore dell'art. 12 della legge 8 agosto
1995, n. 332. In detta sede ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione
di legittimità costituzionale dell'art. 297, comma 3, cod. proc. pen., nel testo sostituito ad
opera del citato art. 12 della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura
penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa).
Osserva il giudice a quo che la nuova disposizione, modificando radicalmente il consolidato
e risalente orientamento giurisprudenziale che poneva a base del fenomeno dei
provvedimenti custodiali "a catena" ipotesi di artificioso ritardo nella contestazione dei fatti,
non richiede più, per la retrodatazione degli effetti della custodia cautelare. La nuova
normativa, pertanto, parificherebbe in modo irragionevole situazioni assolutamente
eterogenee.
LA CORTE COSTITUZIONALE però dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 297, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata, in
riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il
Tribunale di Milano, poichè è la stessa Costituzione ad imporre la previsione di termini di
durata delle misure cautelari e a presupporre, quindi, l'inconferenza delle esigenze che
dovessero residuare al di là di un limite temporale certo e invalicabile.

(sentenza n. 168 del 1971 Corte Costituzionale). /ART 650-


RISERVA DI LEGGE IN MATERIA PENALE )
Come abbiamo più volte chiarito, l’art. 650 del codice penale è un vero e proprio reato, sia pure
non particolarmente grave, che prevede la sanzione dell’arresto fino a tre mesi o dell’ammenda
fino a 206 euro per chi non rispetta un provvedimento reso dall’Autorità.
Il contenuto dei provvedimenti non è descritto dalla stessa fattispecie che si limita a richiamare
generiche ragioni di giustizia, di sicurezza pubblica, di ordine pubblico o di igiene.

La Corte Costituzionale non ha mai ritenuto illegittimo questo reato e si è ritenuto che “la
materialita? della contravvenzione e? descritta tassativamente in tutti i suoi elementi costitutivi e si
pone in essere col rifiuto cosciente e volontario di osservare un provvedimento dato nelle forme
legali dall’autorita? competente per sussistenti ragioni di giustizia, sicurezza, ordine pubblico,
igiene” (sentenza n. 168 del 1971 Corte Costituzionale).

Sentenza CORTE COSTITUZIONALE 172/1999 (SERVIZIO


MILITARE /APOLIDE )
Il Tribunale militare di Torino dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, primo comma,
lettera c), del d.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237 (Leva e reclutamento obbligatorio nell’Esercito, nella
Marina e nell’Aeronautica) e dell’art. 16, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme
sulla cittadinanza), nella parte in cui prevedono l’assoggettamento alla leva militare degli apolidi
residenti nel territorio della Repubblica. Le norme denunciate violerebbero gli artt. 52, che riferisce
ai cittadini il dovere di difesa della Patria e il connesso obbligo del servizio militare, e 10 della
Costituzione, in relazione alla norma di diritto internazionale generale che esenterebbe dagli
obblighi militari coloro che non siano legati allo Stato dal rapporto di cittadinanza.

In breve: il silenzio della norma costituzionale non comporta divieto. Perciò deve ritenersi esistere
uno spazio vuoto di diritto costituzionale nel quale il legislatore può far uso del proprio potere
discrezionale nell’apprezzare ragioni che inducano a estendere la cerchia dei soggetti chiamati alla
prestazione del servizio militare. Il giudice rimettente dubita che tale estensione nei confronti
dell’apolide possa comportare violazione dell’art. 10, primo comma, della Costituzione, per il
tramite della violazione di una norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta: una
norma che escluderebbe i non-cittadini dal novero di coloro che possono essere chiamati a
prestare il servizio militare.

Il dubbio non ha ragion d’essere.

Tra i non-cittadini sono compresi gli stranieri e gli apolidi. Solo per i primi, tuttavia, può affermarsi
l’esistenza della norma internazionale anzidetta 

Ma per coloro che si trovano in posizione di apolidìa, un conflitto di tal genere non è ipotizzabile
per definizione. È per questo che le norme internazionali, rimettendo la disciplina della condizione
giuridica degli apolidi alle legislazioni nazionali nel rispetto di una serie di diritti fondamentali (artt.
2 e 12 della Convenzione di New York del 28 settembre 1954, relativa allo status degli apolidi, cui è
stata data esecuzione in Italia con la legge 1 febbraio 1962, n. 306), non fanno menzione alcuna di
una loro pretesa estraneità all’obbligo di prestazione del servizio militare, cosicché nell’esperienza
del diritto di altri Paesi, pur aderenti a tale Convenzione, è possibile trovare norme similari a quelle
del nostro ordinamento, sottoposte al presente giudizio di costituzionalità.

D’altro canto deve rilevarsi, per apprezzare la non-irragionevolezza della scelta del legislatore di
estendere l’obbligo militare agli apolidi residenti in Italia, la circostanza che essi godono di
un’ampia tutela, in tutti i campi diversi da quello della partecipazione politica, come prescritto
dalla citata Convenzione di New York del 28 settembre 1954 e dall’abbondante legislazione
nazionale in materia di rapporti civili e sociali che li riguarda, alla stessa stregua dei cittadini
italiani: una legislazione – culminata nell’affermazione di principio della piena parità di trattamento
e della piena uguaglianza di diritti tra apolidi e cittadini italiani (artt. 1, comma 1, e 2, commi 1-5,
del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) – che induce a ritenerli parti di una comunità di diritti
la partecipazione alla quale ben può giustificare la sottoposizione a doveri funzionali alla sua
difesa. Tale comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio
della cittadinanza in senso stretto, accoglie e accomuna tutti coloro che, quasi come in una
seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri, secondo quanto risulta dall’art. 2 della
Costituzione là dove, parlando di diritti inviolabili dell’uomo e richiedendo l’adempimento dei
corrispettivi doveri di solidarietà, prescinde del tutto, per l’appunto, dal legame stretto di
cittadinanza. COSI COME SONO ESTESI I DIRITTI DI TUTELA , COSI SONO ESTESI ANCHE I DOVERI
DEI SUI ALL’ART 2 , DOVERI DI SOLIDARIETA’.
sentenza n. 186/2020 della Corte Costituzionale
La norma "incriminata" disponeva, infatti, che "Il permesso di soggiorno di cui al comma 1
(per richiesta asilo) non costituisce titolo per l'iscrizione anagrafica (c.d. decreto sicurezza).
L'"eliminazione" della suddetta norma, come accennato, sostanzialmente torna a consentire
l'iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo. Senza addentrarsi, in questo momento, nella
analisi di una pronuncia tanto corposa quanto articolata, merita attenzione quanto affermato
con forza granitica dalla Consulta, nel dichiarare l'incostituzionalità della norma censurata
per violazione dell'articolo 3 della Costituzione; le criticità sono evidenziate sotto due
distinti profili:
1) da un lato è stata sottolineata l'irrazionalità intrinseca della norma, poiché rendendo
problematica la stessa individuazione degli stranieri esclusi dalla registrazione anagrafica,
essa è incoerente con le finalità del decreto, che mira, almeno a parole, ad aumentare il
livello di sicurezza;
2) dall'altro lato, la norma determina una irragionevole disparità di trattamento, perché
negare l'iscrizione all'anagrafe a chi dimora abitualmente in Italia significa trattare in modo
differenziato e indubbiamente peggiorativo, senza una ragionevole giustificazione, una
particolare categoria di stranieri.

Corte Costituzionale n. 107/2018 (VIOLAZIONE ART 3


COST ISCRIZIONE ASILI NIDO /RESIDENZA
La legge regionale n. 6 del 2017 emanata dalla Regione Veneto, riguardante i requisiti utili al
fine di ottenere un titolo di precedenza per l’accesso all’asilo nido, è incostituzionale. Lo ha
stabilito la Corte Costituzionale con sentenza n. 107/2018 (relatore Daria de Pretis).
Il requisito previsto consisteva nella residenza ininterrotta – o attività lavorativa anche non
continuativa – di 15 anni nella regione. Tale attributo, però, è illegittimo per due motivi:
1. è in contrasto con il principio di uguaglianza, in quanto si va a introdurre un criterio
irragionevole per l’attribuzione del beneficio. Non esiste una correlazione diretta tra
residenza prolungata e bisogno/disagio;
2. è in contrasto con la funzione educativa a vantaggio dei bambini dell’asilo nido e
con quella socio-assistenziale a vantaggio dei genitori che non possono permettersi
un asilo nido privato.

Inoltre, spiega la Corte, «la configurazione della residenza protratta come titolo di precedenza,
anche rispetto alle famiglie economicamente deboli, si pone in frontale contrasto con la
vocazione sociale degli asili nido». Questi ultimi, infatti, sono un servizio che «risponde
direttamente alla finalità di uguaglianza sostanziale fissata dall’art. 3, secondo comma della
Costituzione, in quanto consente ai genitori (in particolare alle madri) privi di adeguati mezzi
economici di svolgere un’attività lavorativa».
Per quanto riguarda la funzione educativa, poi, i giudici osservano che è «ovviamente
irragionevole ritenere che i figli di genitori radicati in Veneto da lungo tempo presentino un
bisogno educativo maggiore degli altri».
L’ultimo appunto fatto, riguarda la libertà di circolazione garantita dai Trattati e dalla
giurisprudenza prodotta dalla Corte di giustizia europea riguardo il tema dei requisiti per
accedere a servizi e prestazioni sociali all’interno degli Stati membri. Si rimarca l’incoerenza
dello scopo perseguito dalla legge impugnata e il carattere a dir poco sproporzionato della
durata di residenza richiesta.

SENTENZA 432 DEL 2005 CORTE COSTITUZIONALE (DISCRIMINAZIONE


TRA CITTADINI ITALINI ED EXTRA COMUNITARI – BENEFICO ESENZIONE
BIGLIETTI TRASPORTO PUBBLICO PERSONE DISABILI )
In buona sostanza, la legge regionale ha discriminato tra cittadini italiani,
comunitari ed extracomunitari per quanto riguarda la possibilità di usare il
beneficio dell’esenzione totale del pagamento del biglietto sui servizi di
trasporto pubblico per gli invalidi al 100% ed, eventualmente, per i loro
accompagnatori.
La questione si pone negli stessi termini anche per le principali forme di
assistenza sociale previste dalla legge nazionale (assegno di invalidità civile,
assegno sociale, ecc.), che si basano unicamente sullo stato di bisogno.
Si tratta di prestazioni previste dalla legge in via generale, dalle quali però,
grazie alla legge finanziaria del 2001 – in pieno governo di centro sinistra –,
sono stati esclusi tutti quelli che non hanno la carta di soggiorno
(disciplinata all’art. 9 del T.U.sull’Immigrazione).

La Corte Costituzionale dichiara illegittima la norma della legge della


Lombardia, nella parte in cui esclude i cittadini extracomunitari dai benefici
sopra indicati. “Violazioni del principio di parità di trattamento” stabilito
dall’art. 3 della Costituzione.
Senza mezzi termini, la Corte Costituzionale, parla di discriminazione nei
confronti di cittadini extracomunitari in mancanza di una motivazione che
possa giustificare questa scelta discriminatoria, in base a ragioni di carattere
sostanziale.
Non vi sono ragioni per discriminare sotto questo profilo gli stranieri
rispetto agli italiani, posto che questa norma viene garantita per scopi
solidaristici ovvero per consentire a chi è in una condizione più debole di
attenuare il proprio disagio (in questo caso non pagare il biglietto dei mezzi
di trasporto) e questo disagio esiste tale e quale anche per chi è
invalido extracomunitario.
Non esiste nessuna ragione – sostiene la Corte – per trattare diversamente
questo disagio, solo perché porta una nazionalità diversa.

SENTENZA N. 19 ANNO 1962 CORTE COSTITUZIONALE ( ART 656 CP ORDINE


PUBBLICO E ART 21) LA CORTE COSTITUZIONALE 
dichiara non fondata la questione proposta con l'ordinanza indicata in epigrafe, relativa alla
legittimità costituzionale dello art. 656 del Cod. pen., in riferimento agli artt. 21, 18 e 49 della
Costituzione.  
Occorre perciò concludere che anche la libertà di manifestazione del pensiero incontra un
limite nell'esigenza di prevenire o far cessare turbamenti dell'ordine pubblico.
E da escludere, quindi, che, in alcuna delle sue parti, contrasti con l'art. 21 della Costituzione il
precetto dell'art. 656 del Cod. pen., il quale prevede come reato la pubblicazione e la diffusione
di notizie, che, comunque alterando la verità, si rivelino idonee a turbare l'ordine pubblico. La
mancanza di contrasto é, poi, tanto più chiara, in quanto la valutazione circa l'idoneità alla
turbativa dell'ordine pubblico é rimessa al giudice, il quale - come é proprio di ogni valutazione
giudiziaria - la esegue secondo criteri obbiettivi e rigorosi, tenendo presente l'effettiva realtà del
momento.

Il richiamo che l'ordinanza di rimessione fa agli artt. 18 e 49 della Costituzione - i quali


garantiscono rispettivamente la libertà di associazione in generale e quella di associazione in
partiti politici in particolare - ha evidentemente carattere rafforzativo rispetto alla tesi, già
confutata, secondo la quale l'art. 656 del Cod. pen. contrasterebbe con la libertà di
manifestazione del pensiero.
E da escludere, quindi, che, in alcuna delle sue parti, contrasti con l'art. 21 della Costituzione il
precetto dell'art. 656 del Cod. pen., il quale prevede come reato la pubblicazione e la diffusione
di notizie, che, comunque alterando la verità, si rivelino idonee a turbare l'ordine pubblico. La
mancanza di contrasto é, poi, tanto più chiara, in quanto la valutazione circa l'idoneità alla
turbativa dell'ordine pubblico é rimessa al giudice, il quale - come é proprio di ogni valutazione
giudiziaria - la esegue secondo criteri obbiettivi e rigorosi, tenendo presente l'effettiva realtà del
momento.
é da rifiutare l'affermazione dell'Avvocatura dello Stato, secondo la quale il riconoscimento da
parte dell'art. 21 della Costituzione della libertà di manifestazione del pensiero, se importa, di
massima, l'esclusione di interventi preventivi dei pubblici poteri nei confronti di chi intenda
esprimere il proprio pensiero, non importa tuttavia in alcun caso un "esonero da responsabilità"
per il pensiero ormai manifestato. Nei limiti in cui opera - segnati dalla necessità di non incidere
nel campo degli altri diritti e interessi costituzionalmente garantiti -, il precetto dell'art. 21 non
può non comportare, infatti, l'impossibilità giuridica che il soggetto del pensiero manifestato
commetta alcun illecito penale.
Sentenza: n. 309 del 17 dicembre 2013 Materia: Difesa; tutela del lavoro
e coordinamento della finanza pubblica La norma in esame, a giudizio della Corte, non
disciplina il servizio civile volontario provinciale ma si riferisce esclusivamente alla diversa ipotesi del
servizio sociale volontario provinciale definito dall’art. 3, comma 1, lettera b), come «il servizio […] svolto da
persone adulte a partire dall’età di 29 anni, per una durata massima di 32 mesi, presso organizzazioni ed
enti di diritto pubblico e privato, grazie al quale i volontari e le volontarie conseguono i crediti e i benefici di
cui all’articolo 6, commi 1, 2, 5 e 6». Per tale motivo è irragionevole subordinare la possibilità di accedere al
servizio sociale volontario al possesso della cittadinanza italiana o di altro stato dell’Unione europea, in
quanto si tratta di prestazioni personali effettuate spontaneamente a favore di altri individui o della
collettività. Tali prestazioni rappresentano la più diretta realizzazione del principio di solidarietà sociale, per
il quale la persona è chiamata ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un’autorità, e la
partecipazione a tale forme di solidarietà deve essere ricompresa tra i valori fondanti dell’ordinamento
giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale
normativamente prefigurata dal Costituente. Ne consegue che deve essere riconosciuta anche agli stranieri
regolarmente soggiornanti nel territorio italiano la possibilità di partecipare al servizio sociale volontario,
quale espressione del principio solidaristico di cui si è detto. Inoltre dette ragioni valgono, in questo caso,
anche a rafforzare quelle esigenze di integrazione nella comunità e di pieno sviluppo della persona che
devono essere assicurate dalla legislazione in materia di trattamento dello straniero regolarmente
soggiornante nel territorio dello Stato. Infatti al legislatore è consentito dettare norme, non palesemente
irragionevoli, che regolino l’ingresso e la permanenza di extracomunitari in Italia, ma una volta che il diritto
a soggiornare non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri stabilendo nei loro confronti
particolari limitazioni né per il godimento dei diritti fondamentali della persona (sentenza n. 306 del 2008),
né nell’esercizio dei doveri di solidarietà previsti dalla Costituzione.

Corte Costituzionale, sentenza del 9 febbraio 2011 n. 40


Una decisione della Corte Costituzionale che segna il punto di riferimento per la normativa
e l’applicazione dell’accesso al welfare in Italia.
La Corte costituzionale ha affermato l’illlegittimità della normativa introdotta
nell’ordinamento regionale del FVG la legge regionale del Friuli Venezia-Giulia n. 24/2010
per contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza poiché mira ad
escludere dai benefici i cittadini non comunitari in base alla loro nazionalità, oltre che a
condizionare l’accesso dei cittadini comunitari e italiani in base all’anzianità di residenza.
In tal modo la legge regionale comprometterebbe la stessa finalità dell’attribuzione di
competenza alle regioni della materia dell’assistenza sociale e integrazione, introducendo
distinzioni arbitrarie proprio fra i soggetti bisognosi delle prestazioni.

Corte Costituzionale - sentenza n. 198/2021 Nessuna violazione Dpcm Conte dei Decreti
legge n. 6 e n. 19 del 2020

Il caso muove da un giudizio di opposizione a sanzione amministrativa di euro 400,00, irrogata


a E. I. per la violazione del divieto di uscire dalla propria abitazione e di spostarsi nel territorio
comunale, come sancito dal d.P.C.m. 22 marzo 2020. Più nello specifico, secondo il rimettente,
le disposizioni censurate violerebbero gli artt. 76, 77 e 78 Costituzione, per avere le medesime
delegato la funzione legislativa in materia di contenimento della pandemia da COVID-19
all’autorità di Governo per il suo esercizio tramite atti amministrativi, i cc.dd. decreti del
Presidente del Consiglio dei ministri.

Tale decreto stabilisce, all’art. 1, comma 1, che, per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla
diffusione del virus, possono essere adottate una serie di misure elencate dal successivo comma 2 del
medesimo articolo, le quali misure, in ogni caso, dovranno rispettare i principi di adeguatezza e
proporzionalità al rischio effettivamente presente. L’elencazione delle misure adottabili, realizzata
nell’ambito delle disposizioni citate, implicherebbe la dovuta tipizzazione delle misure di contenimento, che
– tra l’altro – viene accompagnata da ulteriori garanzie, specie per quanto riguarda la responsabilità del
Governo nei confronti del Parlamento (assicurata tramite il dovere per il Presidente del Consiglio dei
ministri o per un Ministro da lui delegato di riferire ogni quindici giorni alle Camere sulle misure adottate) e
la certezza dei diritti dei cittadini (derivante dalla pubblicazione dei d.P.C.m. nella Gazzetta Ufficiale e la loro
comunicazione alle Camere entro il giorno successivo alla pubblicazione). Secondo la Corte, quindi, il d.l. n.
19 del 2020 non ha dato luogo a un conferimento di potestà legislativa al Presidente del Consiglio dei
ministri in violazione degli artt. 76 e 77 Cost., limitandosi ad autorizzarlo a dare esecuzione alle misure
tipiche previste.

Pacifico che i d.P.C.m. siano atti amministrativi, non può comunque sottacersi su
come permangono delle perplessità sull’utilizzo dello strumento del decreto-legge per
la incisione su diritti fondamentali – quali la libertà personale ex art. 13 Costituzione –
coperti da riserva di legge assoluta e sui quali, dunque, sarebbe auspicabile, almeno
per il futuro, l’utilizzo della legge ordinaria emanata dalle due Assemblee legislative in
ossequio al noto procedimento legislativo disegnato dalla Costituzione e dai
regolamenti parlamentari.

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