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Pertanto, posto che la vaccinazione prevista dalla legge ha lo scopo di tutelare la salute
del soggetto sottoposto all’inoculazione, la libertà di autodeterminazione del singolo
individuo rileva solo se e nella misura in cui lo stato di salute del medesimo non abbia
incidenza, diretta o indiretta, nella sfera giuridica di soggetti terzi: in caso contrario,
l’interesse collettivo prevale, giustificando la compressione dell’autodeterminazione
individuale.
La Corte Costituzionale non ha mai ritenuto illegittimo questo reato e si è ritenuto che “la
materialita? della contravvenzione e? descritta tassativamente in tutti i suoi elementi costitutivi e si
pone in essere col rifiuto cosciente e volontario di osservare un provvedimento dato nelle forme
legali dall’autorita? competente per sussistenti ragioni di giustizia, sicurezza, ordine pubblico,
igiene” (sentenza n. 168 del 1971 Corte Costituzionale).
In breve: il silenzio della norma costituzionale non comporta divieto. Perciò deve ritenersi esistere
uno spazio vuoto di diritto costituzionale nel quale il legislatore può far uso del proprio potere
discrezionale nell’apprezzare ragioni che inducano a estendere la cerchia dei soggetti chiamati alla
prestazione del servizio militare. Il giudice rimettente dubita che tale estensione nei confronti
dell’apolide possa comportare violazione dell’art. 10, primo comma, della Costituzione, per il
tramite della violazione di una norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta: una
norma che escluderebbe i non-cittadini dal novero di coloro che possono essere chiamati a
prestare il servizio militare.
Tra i non-cittadini sono compresi gli stranieri e gli apolidi. Solo per i primi, tuttavia, può affermarsi
l’esistenza della norma internazionale anzidetta
Ma per coloro che si trovano in posizione di apolidìa, un conflitto di tal genere non è ipotizzabile
per definizione. È per questo che le norme internazionali, rimettendo la disciplina della condizione
giuridica degli apolidi alle legislazioni nazionali nel rispetto di una serie di diritti fondamentali (artt.
2 e 12 della Convenzione di New York del 28 settembre 1954, relativa allo status degli apolidi, cui è
stata data esecuzione in Italia con la legge 1 febbraio 1962, n. 306), non fanno menzione alcuna di
una loro pretesa estraneità all’obbligo di prestazione del servizio militare, cosicché nell’esperienza
del diritto di altri Paesi, pur aderenti a tale Convenzione, è possibile trovare norme similari a quelle
del nostro ordinamento, sottoposte al presente giudizio di costituzionalità.
D’altro canto deve rilevarsi, per apprezzare la non-irragionevolezza della scelta del legislatore di
estendere l’obbligo militare agli apolidi residenti in Italia, la circostanza che essi godono di
un’ampia tutela, in tutti i campi diversi da quello della partecipazione politica, come prescritto
dalla citata Convenzione di New York del 28 settembre 1954 e dall’abbondante legislazione
nazionale in materia di rapporti civili e sociali che li riguarda, alla stessa stregua dei cittadini
italiani: una legislazione – culminata nell’affermazione di principio della piena parità di trattamento
e della piena uguaglianza di diritti tra apolidi e cittadini italiani (artt. 1, comma 1, e 2, commi 1-5,
del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) – che induce a ritenerli parti di una comunità di diritti
la partecipazione alla quale ben può giustificare la sottoposizione a doveri funzionali alla sua
difesa. Tale comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio
della cittadinanza in senso stretto, accoglie e accomuna tutti coloro che, quasi come in una
seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri, secondo quanto risulta dall’art. 2 della
Costituzione là dove, parlando di diritti inviolabili dell’uomo e richiedendo l’adempimento dei
corrispettivi doveri di solidarietà, prescinde del tutto, per l’appunto, dal legame stretto di
cittadinanza. COSI COME SONO ESTESI I DIRITTI DI TUTELA , COSI SONO ESTESI ANCHE I DOVERI
DEI SUI ALL’ART 2 , DOVERI DI SOLIDARIETA’.
sentenza n. 186/2020 della Corte Costituzionale
La norma "incriminata" disponeva, infatti, che "Il permesso di soggiorno di cui al comma 1
(per richiesta asilo) non costituisce titolo per l'iscrizione anagrafica (c.d. decreto sicurezza).
L'"eliminazione" della suddetta norma, come accennato, sostanzialmente torna a consentire
l'iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo. Senza addentrarsi, in questo momento, nella
analisi di una pronuncia tanto corposa quanto articolata, merita attenzione quanto affermato
con forza granitica dalla Consulta, nel dichiarare l'incostituzionalità della norma censurata
per violazione dell'articolo 3 della Costituzione; le criticità sono evidenziate sotto due
distinti profili:
1) da un lato è stata sottolineata l'irrazionalità intrinseca della norma, poiché rendendo
problematica la stessa individuazione degli stranieri esclusi dalla registrazione anagrafica,
essa è incoerente con le finalità del decreto, che mira, almeno a parole, ad aumentare il
livello di sicurezza;
2) dall'altro lato, la norma determina una irragionevole disparità di trattamento, perché
negare l'iscrizione all'anagrafe a chi dimora abitualmente in Italia significa trattare in modo
differenziato e indubbiamente peggiorativo, senza una ragionevole giustificazione, una
particolare categoria di stranieri.
Inoltre, spiega la Corte, «la configurazione della residenza protratta come titolo di precedenza,
anche rispetto alle famiglie economicamente deboli, si pone in frontale contrasto con la
vocazione sociale degli asili nido». Questi ultimi, infatti, sono un servizio che «risponde
direttamente alla finalità di uguaglianza sostanziale fissata dall’art. 3, secondo comma della
Costituzione, in quanto consente ai genitori (in particolare alle madri) privi di adeguati mezzi
economici di svolgere un’attività lavorativa».
Per quanto riguarda la funzione educativa, poi, i giudici osservano che è «ovviamente
irragionevole ritenere che i figli di genitori radicati in Veneto da lungo tempo presentino un
bisogno educativo maggiore degli altri».
L’ultimo appunto fatto, riguarda la libertà di circolazione garantita dai Trattati e dalla
giurisprudenza prodotta dalla Corte di giustizia europea riguardo il tema dei requisiti per
accedere a servizi e prestazioni sociali all’interno degli Stati membri. Si rimarca l’incoerenza
dello scopo perseguito dalla legge impugnata e il carattere a dir poco sproporzionato della
durata di residenza richiesta.
Corte Costituzionale - sentenza n. 198/2021 Nessuna violazione Dpcm Conte dei Decreti
legge n. 6 e n. 19 del 2020
Tale decreto stabilisce, all’art. 1, comma 1, che, per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla
diffusione del virus, possono essere adottate una serie di misure elencate dal successivo comma 2 del
medesimo articolo, le quali misure, in ogni caso, dovranno rispettare i principi di adeguatezza e
proporzionalità al rischio effettivamente presente. L’elencazione delle misure adottabili, realizzata
nell’ambito delle disposizioni citate, implicherebbe la dovuta tipizzazione delle misure di contenimento, che
– tra l’altro – viene accompagnata da ulteriori garanzie, specie per quanto riguarda la responsabilità del
Governo nei confronti del Parlamento (assicurata tramite il dovere per il Presidente del Consiglio dei
ministri o per un Ministro da lui delegato di riferire ogni quindici giorni alle Camere sulle misure adottate) e
la certezza dei diritti dei cittadini (derivante dalla pubblicazione dei d.P.C.m. nella Gazzetta Ufficiale e la loro
comunicazione alle Camere entro il giorno successivo alla pubblicazione). Secondo la Corte, quindi, il d.l. n.
19 del 2020 non ha dato luogo a un conferimento di potestà legislativa al Presidente del Consiglio dei
ministri in violazione degli artt. 76 e 77 Cost., limitandosi ad autorizzarlo a dare esecuzione alle misure
tipiche previste.
Pacifico che i d.P.C.m. siano atti amministrativi, non può comunque sottacersi su
come permangono delle perplessità sull’utilizzo dello strumento del decreto-legge per
la incisione su diritti fondamentali – quali la libertà personale ex art. 13 Costituzione –
coperti da riserva di legge assoluta e sui quali, dunque, sarebbe auspicabile, almeno
per il futuro, l’utilizzo della legge ordinaria emanata dalle due Assemblee legislative in
ossequio al noto procedimento legislativo disegnato dalla Costituzione e dai
regolamenti parlamentari.