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Le competenze giudiziarie

Come la Corte di giustizia ha dichiarato nella sentenza del 23 aprile 1986, Les Verts c. Parlamento: “La
Comunità economica europea [oggi l'Unione europea] è una comunità di diritto nel senso che né gli Stati che
ne fanno parte, né le sue istituzioni sono sottratti al controllo della conformità dei loro atti alla carta
costituzionale di base costituita dal Trattato».
Ai sensi dell'art.19, par. 1, 1° comma, TUE, il sistema giudiziario dell'Unione prende, complessivamente, la
denominazione di Corte di giustizia dell'Unione europea, articolata, peraltro, in Corte di giustizia, Tribunale e
tribunali specializzati.
Art.19, par. 1, 1° comma, TUE
La Corte di giustizia dell'Unione europea comprende la Corte di giustizia, il Tribunale e i tribunali specializzati.
Assicura il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati.

Tali organi non escludono affatto il contributo dei giudici nazionali i quali, in conformità del principio di leale
cooperazione sono tenuti nello svolgimento delle proprie funzioni, a garantire l'esecuzione degli obblighi
derivanti dai Trattati.
Nei confronti di detti giudici l'art. 267 TFUE istituisce un originale strumento di cooperazione con la Corte di
giustizia, consistente nella competenza pregiudiziale (o di rinvio) di quest'ultima.
Va sottolineato che, anteriormente al Trattato di Lisbona, la distinzione della costruzione europea nei tre
pilastri si rifletteva anche sulla competenza della Corte di giustizia che, piena riguardo al primo pilastro, quello
comunitario, era pressoché esclusa, invece, nella PESC e subiva varie limitazioni nel terzo pilastro.
L'eliminazione dei pilastri e l'unificazione delle diverse competenze nel quadro unitario dell'Unione europea,
effettuate dal Trattato di Lisbona, non hanno determinato, tuttavia, un’estensione delle competenze giudiziarie
all'intero campo di azione dell'Unione.
Tali competenze si applicano anche alle materie rientranti nella cooperazione di polizia e giudiziaria penale,
ma ai sensi dell’art.276 TFUE:
Nell'esercizio delle attribuzioni relative alle disposizioni dei capi 4 e 5 della parte terza, titolo V concernenti lo spazio di
libertà, sicurezza e giustizia, la Corte di giustizia dell'Unione europea non è competente a esaminare la validità o la
proporzionalità di operazioni condotte dalla polizia o da altri servizi incaricati dell'applicazione della legge di uno Stato
membro o l'esercizio delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell'ordine pubblico e la
salvaguardia della sicurezza interna.

La citata disposizione sottrae al sindacato della Corte di Giustizia dell’Unione europea una sfera di materie
attinenti a interessi essenziali di ciascuno Stato membro e riservate alla sua competenza esclusiva.
Per quanto riguarda la politica estera e di sicurezza comune, la regola resta l'incompetenza della Corte di
giustizia dell'Unione europea, sicché una materia pur così sensibile è sottratta ad ogni controllo giudiziario, a
conferma ulteriore dell'impronta essenzialmente intergovernativa che tuttora la caratterizza.
Peraltro, la competenza della Corte di Giustizia è prevista in due ipotesi.
Art.275 TFUE
La Corte di giustizia dell'Unione europea non è competente per quanto riguarda le disposizioni relative alla politica
estera e di sicurezza comune, né per quanto riguarda gli atti adottati in base a dette disposizioni.
Tuttavia, la Corte è competente a controllare il rispetto dell'articolo 40 del trattato sull'Unione europea e a pronunciarsi
sui ricorsi, proposti secondo le condizioni di cui all'articolo 263, quarto comma del presente trattato, riguardanti il
controllo della legittimità delle decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche
adottate dal Consiglio in base al titolo V, capo 2 del trattato sull'Unione europea.

Le due eccezioni contemplate al secondo comma dell’articolo:


1. La prima (art.40 TUE) riguarda il controllo sul rispetto, da parte delle istituzioni dell’Unione, delle
competenze “generali” dell’Unione e può condurre all’annullamento di un atto emanato ai sensi delle
disposizioni sulla PESC in una materia nella quale si sarebbe dovuto adottare un atto in forza delle
disposizioni generali dei Trattati.
2. La seconda si riferisce agli atti in materia di PESC che stabiliscono misure restrittive (per esempio il
congelamento di beni, risorse economiche, depositi bancari) a carico di privati. Essi sono soggetti al
controllo di legittimità che la Corte di Giustizia dell’Unione esercita, in via generale, sugli atti
dell’Unione e che, in presenza dei motivi di illegittimità può condurre al loro annullamento.
Si noti che la Corte di Giustizia ha affermato che le disposizioni dei Trattati che limitano le sue competenze in
materia di PESC, costituendo delle deroghe alla regola della competenza generale conferita dall’art. 19 TUE
alla stessa Corte per assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati, devono
essere interpretate restrittivamente.

Il riparto di competenze tra la Corte di Giustizia e il Tribunale


La Corte di giustizia e il Tribunale non si pongono su un piano gerarchico. Le loro competenze sono fissate in
base alle norme dei Trattati, integrate da quelle dello Statuto della Corte di giustizia dell'Unione europea
(contenuta nel Protocollo n.3).
Alla luce di tali norme:
 Alcune competenze sono attribuite al Tribunale e le sue sentenze possono essere oggetto di ricorso
alla Corte di giustizia;
 altre competenze sono riservate alla Corte di giustizia; per esse, quindi, non sussiste un doppio grado
di giurisdizione.
Ai sensi dell'art. 256, par.1, 1 comma, TFUE il Tribunale è competente in primo grado per:
 l'annullamento degli atti dell'Unione,
 il ricorso in carenza,
 l’azione di risarcimento danni contro l'Unione,
 le controversie tra l'Unione e i suoi agenti,
 la competenza attribuita in virtù di una clausola compromissoria.
La ripartizione di competenze tra Tribunale e Corte di giustizia si basa solo in parte sull'oggetto del ricorso; per
il resto, in materia di annullamento e in carenza essa si fonda su elementi soggettivi e, più precisamente, sulla
circostanza che il ricorrente sia una persona fisica o giuridica (nel qual caso è sempre competente il
Tribunale), oppure un'istituzione (con conseguente competenza esclusiva della Corte) o uno Stato membro (i
cui ricorsi rientrano, di regola nella competenza della Corte ma anche nella competenza del Tribunale se i
ricorsi sono diretti contro la Commissione o contro il Consiglio).
Le altre competenze giudiziarie non menzionate dall'art. 256 TFUE ricadono nella competenza della Corte di
giustizia (che si pronuncia quindi in un unico grado di giudizio). Di estrema importanza è la procedura
d'infrazione contro Stati membri, per violazione degli obblighi derivanti dai Trattati, che può essere messa in
moto dalla Commissione o da uno Stato membro.
Al fine di salvaguardare l'unità e la coerenza del diritto dell'Unione è prevista la possibilità di un rinvio della
causa alla Corte da parte del Tribunale e di un riesame (in via eccezionale) delle decisioni in materia del
Tribunale ad opera della Corte.
Peraltro, l'art. 256, par. 3, comma 1 rappresenta una disposizione abilitante demanda allo Statuto della Corte
la determinazione dei casi in cui il Tribunale potrebbe avere una competenza a titolo pregiudiziale. Sinora una
siffatta determinazione non vi è stata, per cui, in concreto, la competenza in parola è tuttora riservata alla
Corte di giustizia.
Alla Corte spetta poi la competenza consultiva in merito alla compatibilità di un accordo previsto dell'Unione
con i Trattati. Per precisare il quadro, alcune competenze sono talvolta previste anche da atti di diritto derivato.
Va notato che, in base al Protocollo del 1965 sui privilegi (oggi Protocollo n. 7), l'Unione non gode di immunità
dalla giurisdizione degli Stati membri. Pertanto, è consentito esperire contro di essa un'azione dinanzi al
giudice nazionale per inadempimento contrattuale (si pensi al pagamento del canone di un edificio locato a
un'istituzione o organo dell'Unione). Per procedere, invece, ad esecuzione forzata contro l'Unione occorre
l'autorizzazione della Corte di giustizia.

La “litispendenza” tra la Corte di Giustizia e il Tribunale e l’impugnazione delle sentenze di tale Tribunale
Poiché il Tribunale e la Corte di giustizia hanno entrambi competenza e questa si ripartisce solo in considerazione
del ricorrente, è possibile che si pongano casi di “litispendenza”, nel senso che lo stesso caso può essere
sottoposto da diversi ricorrenti ad ambedue i giudici o che ad entrambi sia sottoposto lo stesso problema
interpretativo o di validità di un atto. Si tratta, in queste ipotesi, di stabilire in quale modo coordinare i due
processi, per garantire l’unità del diritto dell’Unione e la buona amministrazione della giustizia ed evitare
contraddizioni di sentenze. In secondo luogo, occorre esaminare le condizioni e gli effetti di un’impugnazione
dinanzi alla Corte delle sentenze del Tribunale.
Art. 54, comma 3 Statuto della Corte
Quando la Corte e il Tribunale sono investiti di cause che abbiano lo stesso oggetto, sollevino lo stesso
problema di interpretazione, o mettano in questione la validità dello stesso atto…

In tali casi possono darsi tre soluzioni:


1. il Tribunale, ascoltate le parti, può sospendere il procedimento sino alla pronuncia della Corte; Il
doppio grado di Giurisdizione è garantito ma resta il fatto che il Tribunale si sentirà comunque
vincolato dalla pronuncia della Corte;
2. Quando si tratta di ricorsi di annullamento, può decidere di declinare la sua competenza affinché la
Corte statuisca sui ricorsi; è così favorita una decisione celere ma con sacrificio del doppio grado di
giurisdizione;
3. la Corte sospende il procedimento proseguendo, invece, quello dinnanzi al Tribunale; è garantito il
doppio grado di giurisdizione ma i tempi della giustizia sono destinati a rallentare.
Infine, l'art. 54, 4 comma, stabilisce che, quando uno Stato membro ed un'istituzione dell'Unione impugnino lo
stesso atto, il Tribunale declina la propria competenza a favore della Corte. Ai sensi dell'art. 256 TFUE,
l'impugnazione delle sentenze del Tribunale è limitata ai soli motivi di diritto. L'impugnazione non comporta un
riesame del caso da parte della Corte di giustizia, ma solo la valutazione di eventuali vizi giuridici nella
sentenza del Tribunale. Il procedimento può avvicinarsi a quello in cassazione dell'ordinamento italiano
piuttosto che a quello di appello. Inoltre, il ricorrente non può sollevare dinanzi alla Corte motivi nuovi, rispetto
al procedimento di primo grado, tali da ampliare la portata della controversia decisa dal Tribunale. Alla Corte è
precluso qualsiasi riesame delle questioni di fatto, il cui accertamento e la cui valutazione spettano
esclusivamente al Tribunale. Dalla giurisprudenza della Corte può però ricavarsi un'eccezione a tale principio
quando l'accertamento dei fatti o la valutazione delle prove risultino palesemente erronei, in particolare nel
caso di "snaturamento dei fatti". Se l'eventuale vizio di diritto risulti ininfluente ai fini del dispositivo della
sentenza del Tribunale il ricorso è respinto.
Le decisioni del Tribunale possono essere impugnate nel termine di due mesi a decorrere dalla loro notifica.
Legittimata all'impugnazione è qualsiasi parte che sia rimasta parzialmente o totalmente soccombente.
L'impugnazione può essere presentata anche dagli Stati membri e dalle istituzioni dell’Unione, pur se non
siano affatto intervenuti nel giudizio di primo grado. Tale legittimazione è fondata, quindi, su un interesse
oggettivo al rispetto della legalità.
Se l'impugnazione è accolta, la Corte annulla la decisione del Tribunale.
Essa può rinviare la causa al Tribunale affinché decida, in conformità della decisione resa dalla Corte sui punti
di diritto; o, qualora i fatti siano stati sufficientemente accertati nel giudizio di primo grado, la Corte può
trattenere la causa e decidere nel merito.
Nello Statuto della Corte è previsto inoltre, rispetto alle sentenze di primo grado passate in giudicato (perché
non impugnate entro due mesi o perché confermate dalla Corte) e per quelle della Corte (non impugnabili), il
rimedio straordinario della revocazione. Esso è esperibile solo in seguito alla scoperta di un fatto avente
un'influenza decisiva e che, prima della pronunzia della sentenza, era ignoto alla Corte e alla parte che
domanda la revocazione. Lo stesso Statuto conferisce, inoltre, alla Corte la competenza ad interpretare le
sentenze europee.

La procedura d’infrazione nei confronti degli Stati membri


Competenza esclusiva della Corte di giustizia è il controllo sul rispetto del diritto dell'Unione da parte degli
Stati membri. Essa può essere esercitata su iniziativa della Commissione oppure di uno Stato membro. La
procedura di infrazione presenta talune varianti a seconda che sia promossa dalla Commissione o da uno
Stato membro.
La Commissione presenta il ruolo di guardiano, di custode dei Trattati (art. 17, par. 1, TUE).
La Corte di giustizia ha più volte ribadito che la Commissione, pur avendo un potere di ufficio a tutela del diritto
UE, gode di un ampio potere discrezionale per quanto riguarda l'avvio della procedura di infrazione.
La discrezionalità della Commissione, tuttavia, è attenuata in alcune materie in specie relativamente alle
violazioni delle regole sulla concorrenza. Va pure ricordato che, in alcune specifiche ipotesi, il potere di iniziare
un procedimento contro uno Stato membro a causa di un suo impedimento degli obblighi derivanti dai Trattati
è attribuito a istituzioni o organi diversi dalla Commissione. È il caso, per esempio, della procedura
contemplata dall'art. 126 TFUE in materia di disavanzi pubblici eccessivi, nella quale il Consiglio può emanare
misure contro lo Stato inadempiente.
Quando alle infrazioni comportanti l’apertura del procedimento da parte della Commissione, esse
comprendono qualsiasi violazione di obblighi previsti dai Trattati, come da ogni altra norma rientrante nel
diritto dell’Unione, quali le disposizioni di atti di diritto derivato o di accordi conclusi dall’Unione, ivi compresi gli
accordi misti.
La condotta dello Stato può essere:
 Di carattere commissivo, come una prassi amministrativa o uno specifico atto contrari agli obblighi
previsti dal diritto dell'Unione.
 Di carattere omissivo, quale frequentemente, la mancata attuazione di una direttiva entro il termine
prescritto.
La condotta può essere tenuta da organi legislativi, amministrativi o giudiziari dello Stato, ma ai fini della
procedura di infrazione, lo Stato è responsabile anche dei comportamenti di altri enti pubblici, in particolare
degli enti locali, la cui attività è giuridicamente imposta dallo Stato.
L'infrazione può derivare anche dal fatto di individui. La condotta dei privati non è di per sé imputabile allo
Stato; ma quest'ultimo può incorrere in responsabilità per non avere adottato adeguate misure preventive e
repressive volte a contrastare la condotta di privati diretta a impedire l'esercizio di diritti derivanti dai Trattati.
In principio lo Stato "accusato" non può invocare, per giustificare il proprio inadempimento, motivi derivanti dal
proprio ordinamento, quali prassi, ripartizioni di competenza, eventi politici.

Le fasi di tale procedura


La procedura di infrazione promossa dalla Commissione si articola in due fasi:
1. Una fase precontenziosa (o amministrativa) in cui non viene coinvolta la Corte di giustizia; a
2. Un’eventuale fase contenziosa, che si svolge in un processo dinanzi alla Corte e si conclude con la
sua sentenza.
La fase precontenziosa inizia con l’invio di una lettera da parte della Commissione, detta di messa in mora o di
diffida allo Stato interessato con la quale la Commissione contesta allo Stato destinatario l’esistenza di una sua
violazione di un obbligo derivante dal diritto dell’Unione. In tale lettera essa indica gli elementi di fatto e gli elementi
di diritto in base ai quali reputa che sussista l’infrazione e le specifiche disposizioni violate dallo Stato.
Lo Stato ha il diritto di sottoporre delle osservazioni con le eventuali giustificazioni della propria condotta.
Il contenuto della lettera in parola, in principio, non è modificabile né da parte del successivo atto della fase
precontenziosa (il parere motivato), né dall’eventuale ricorso alla Corte. Ove quest’ultimo contenga degli
addebiti non contestati già nella lettera di messa in mora, il ricorso è dichiarato irricevibile dalla Corte.
Se le giustificazioni dello Stato risultano insufficienti (o se ometta di presentarle), la Commissione emette un
parere motivato, ossia un atto che precisa in maniera rigida e formale gli addebiti contestati, gli elementi di
fatto e di diritto implicanti l’infrazione, le norme violate e assegna allo Stato un termine entro il quale esso deve
conformarsi al parere. Circa il contenuto del parere la Corte ha dichiarato che esso è soggetto a un rigido
formalismo, superiore quello richiesti per la lettera di messa in mora.
L'art. 258 non stabilisce quale sia il termine entro il quale lo Stato debba conformarsi al parere, e neanche
quello per presentare le proprie osservazioni a seguito della lettera di diffida; ma la Corte ha affermato che
debba trattarsi di un tempo ragionevole, tenuto conto delle particolarità del caso in questione.
Esistono alcune specifiche ipotesi nelle quali non è contemplato lo svolgimento della fase precontenziosa e la
Commissione (o uno Stato membro) può adire direttamente la Corte di giustizia. A parte questi casi, solo dopo
la scadenza del termine fissato dalla Commissione, senza che lo Stato interessato si sia conformato al parere
motivato, la stessa Commissione può adire la Corte di Giustizia. Va sottolineato che la Commissione ha un
potere pienamente discrezionale in merito alla presentazione o meno del ricorso alla Corte di giustizia e alla
determinazione del momento in cui presentarlo.
La Corte, in attesa della sentenza, può emanare provvedimento provvisori con i quali può prescrivere allo
Stato convenuto la sospensione dell'applicazione di una data legge o di una certa prassi amministrativa.

I ricorsi promossi dagli Stati membri


Il ricorso per infrazione può anche essere promosso da uno Stato membro; nella prassi tale ipotesi è
estremamente rara. (art. 259, comma 1, TFUE)
Il ricorso dello Stato non richiede uno specifico interesse ad agire, se non l’interesse obiettivo al rispetto dei
Trattati.
Qualora uno stato membro ritenga che un altro abbia violato il Trattato, esso può rivolgersi alla sola Corte e
non ad altri procedimenti di regolamento delle controversie disponibili.
La pro
cedura d’infrazione promossa da uno Stato membro contempla anch’essa una fase precontenziosa con il
coinvolgimento della Commissione; essa è chiamata a emanare un parere motivato dopo che gli Stati, sia
quello ricorrente che quello accusato, siano stati messi nella condizione di presentare le proprie osservazioni
in contraddittorio.
Inoltre, qualora la Commissione non emetta il parere entro 3 mesi o affermi che la violazione non ci sia stata,
ciò non impedisce allo Stato ricorrente di presentare direttamente il ricordo alla Corte.

La sentenza della Corte e la sua esecuzione


Art.260 TFUE
1. Quando la Corte di giustizia dell'Unione europea riconosca che uno Stato membro ha mancato ad
uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù dei trattati, tale Stato è tenuto a prendere i
provvedimenti che l'esecuzione della sentenza della Corte comporta.
2. Se ritiene che lo Stato membro in questione non abbia preso le misure che l'esecuzione della
sentenza della Corte comporta‚ la Commissione, dopo aver posto tale Stato in condizione di
presentare osservazioni, può adire la Corte. Essa precisa l'importo della somma forfettaria o della
penalità, da versare da parte dello Stato membro in questione, che essa consideri adeguato alle
circostanze.
La Corte, qualora riconosca che lo Stato membro in questione non si è conformato alla sentenza da
essa pronunciata, può comminargli il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità.
Questa procedura lascia impregiudicate le disposizioni dell'articolo 259.
3. La Commissione, quando propone ricorso dinanzi alla Corte in virtù dell'articolo 258 reputando che lo
Stato membro interessato non abbia adempiuto all'obbligo di comunicare le misure di attuazione di
una direttiva adottata secondo una procedura legislativa, può, se lo ritiene opportuno, indicare
l'importo della somma forfettaria o della penalità da versare da parte di tale Stato che essa consideri
adeguato alle circostanze.
Se la Corte constata l'inadempimento, può comminare allo Stato membro in questione il pagamento di
una somma forfettaria o di una penalità entro i limiti dell'importo indicato dalla Commissione. Il
pagamento è esigibile alla data fissata dalla Corte nella sentenza.

Qualora la Corte, a seguito del processo, giudichi lo Stato convenuto responsabile degli addebiti contestatigli,
essa emana una sentenza dichiarativa dell’inadempimento, cioè di accertamento di tale inadempimento. Tale
sentenza è obbligatoria per lo Stato in questione il quale è tenuto a eseguirla adottando tutti i provvedimenti a
tal fine necessari. L'art. 260 TFUE non stabilisce alcun termine per l'adozione dei provvedimenti di
esecuzione; la Corte ha però statuito che essi debbano essere adottati al più presto. I provvedimenti da
adottare per eseguire la sentenza possono essere di varia natura a seconda dell’inadempimento accertato. Lo
Stato, per esempio, dovrà abrogare o modificare una legge o un atto amministrativo contrastanti con gli
obblighi comunitari, adottare una normativa di attuazione di tali obblighi o cessare una prassi amministrativa.
L'obbligo di esecuzione della sentenza grava su tutti gli organi dello Stato.
Qualora lo Stato non dia esecuzione alla sentenza resa nei suoi confronti, la Commissione può (art. 260 par.2
TFUE):
1. riaprire una procedura di infrazione per dichiarare che lo Stato ha violato l’obbligo di esecuzione della
prima sentenza
2. chiedere alla Corte di condannare lo Stato al pagamento di una sanzione monetaria da versare all'UE
Prima del Trattato di Maastricht del 1992 la Commissione poteva solo avviare un nuovo ricorso
d'infrazione da parte della Commissione diretto a far constatare la violazione dell'obbligo della
sentenza (procedimento di "doppia condanna").
Il nuovo par. 2 non chiarisce la distinzione tra somma forfettaria e penalità. La Commissione ha elaborato
alcune comunicazioni in base alle quali la determinazione della sanzione pecuniaria si fonda su tre criteri
fondamentali:
1. la gravità dell'infrazione;
2. la sua durata;
3. la necessità di assicurare l'effetto dissuasivo della stessa sanzione per evitare recidive, avendo quindi
riguardo alla capacità finanziaria dello Stato inadempiente.
Tenuto conto di ciò,
 la somma forfettaria consiste in una somma determinata quale sanzione della continuazione
dell’inadempimento tra la prima sentenza di accertamento della violazione e la seconda, in virtù
dell’art.260, per mancata esecuzione della prima;
 la penalità, invece, consiste in una somma da pagare per ogni giorno (o diverso periodo) di ritardo, a
partire dalla seconda sentenza; essa, in definitiva, è una penalità di mora il cui ammontare
complessivo non può essere determinato a priori, ma dipende dal ritardo dello Stato nell’esecuzione a
partire dalla seconda sentenza.
Benché l'art. 260, par. 2, contempli con una disgiuntiva le due sanzioni (l’importo della somma forfettaria o
della penalità), la Corte ha dichiarato che è possibile un'applicazione cumulativa delle stesse, poiché
avrebbero una distinta funzione:
 la penalità tendendo a spingere lo Stato a cessare al più presto dal suo inadempimento
 la somma forfettaria tende a sanzionare la mancata esecuzione, specie se protrattasi a lungo, della
sentenza.
In virtù dell’art.260, par.3, inserito nel Trattato di Lisbona, un procedimento analogo può essere instaurato
dalla Commissione, senza bisogno di una precedente sentenza dichiarativa della violazione, qualora ritenga
che uno Stato membro non abbia adempiuto all’obbligo di comunicare le misure di attuazione di una direttiva
ma solo se adottata con una procedura legislativa. In questo caso, peraltro, la norma dispone espressamente
che la condanna della Corte deve restare “entro i limiti dell’importo indicato dalla Commissione”. È la stessa
Corte che, nella sentenza, fissa la data alla quale il pagamento della somma forfettaria o della penalità è
esigibile. È possibile applicare congiuntamente sia il pagamento di una somma forfettaria che di una penalità.

La responsabilità dello Stato per i danni derivanti da violazione degli obblighi previsti dal diritto
dell’Unione europea
La violazione di obblighi previsti dal diritto dell’Unione da parte di uno Stato può dare luogo anche ad
un’ulteriore conseguenza: a certe condizioni, tale violazione determina l’obbligo dello Stato inadempiente di
risarcire i danni che il singolo ha subito a causa della violazione.
La Corte di giustizia e Tribunale non hanno nessuna competenza; l’obbligo va fatto valere davanti ai giudici
nazionali. Va sottolineato che l'obbligo risarcitorio non è espressamente previsto da nessuna disposizione dei
Trattati, ma è una "creazione" giurisprudenziale della Corte di giustizia. Il caso in cui per la prima volta la Corte
ha enunciato l'obbligo di risarcimento è quello della sentenza Francovich e Bonifaci (1991). Esso traeva
origine dalla mancata attuazione, da parte dell’Italia, nel termine prescritto, di una direttiva del 1980 relativa
alla tutela dei lavoratori subordinati in caso d’insolvenza del datore di lavoro, la quale predisponeva un
meccanismo di garanzia, mediante l’istituzione di un fondo di solidarietà, dei crediti dei lavoratori.
L’inadempienza dell’Italia aveva privato i lavoratori subordinati del diritto di utilizzare tale garanzia, in caso di
insolvenza del datore, provocando loro un evidente danno. I pretori di Vicenza e di Bassano del Grappa, aditi
da alcuni lavoratori italiani in cause contro l’Italia, avevano chiesto, tra l’altro, alla Corte di Giustizia se i privati
potessero rivendicare nei confronti del Governo italiano il risarcimento di tale danno. La Corte, nella ricordata
sentenza, ha dato risposta positiva al quesito, dichiarando che: “Il principio della responsabilità dello Stato per
danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario [oggi dell’Unione] ad esso imputabili è inerente al
sistema del Trattato”
L’affermazione è motivata sulla base di due argomenti:
1. L’esigenza di assicurare la piena efficacia del diritto comunitario e dei diritti da esso scaturenti;
2. L’obbligo di cooperazione dello Stati, compresi i giudici nazionali, per garantire che siano state eliminate le
conseguenze della violazione del diritto dell’Unione riparando il danno derivante da tale violazione.
La Corte, in conformità con la propria giurisprudenza relativa alla procedura d’infrazione, anche in materia di
responsabilità risarcitoria, ha sempre imputato allo Stato membro, unitariamente considerato, la condotta di
tutti i suoi organi, legislativi, amministrativi e giudiziari, nonché di tutte le sue articolazioni interne, territoriali o
meno. In tale giurisprudenza, anzitutto è stato chiarito che, affinché sorga l’obbligo risarcitorio dello Stato, non
è necessario che la violazione sia stata precedentemente accertata dalla Corte di Giustizia. Il giudice interno,
pertanto, ben può egli stesso constatare la violazione e condannare il proprio governo al risarcimento dei
danni conseguenti. È stato altresì chiarito che l’obbligo in parola può derivare dalla violazione non solo di un
atto privo di effetti diretti, ma anche di una norma produttiva di tali effetti e quindi di diritti invocabili dinanzi al
giudice nazionale.
La Corte ha dichiarato che non tutte le violazioni danno luogo a un obbligo risarcitorio; occorrono tre condizioni
fondamentali:

1. la norma giuridica violata sia una norma che conferisce diritti ai singoli;
2. deve trattarsi di una violazione grave e manifesta;
3. deve sussistere un nesso di casualità diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno
subito dei soggetti lesi.
La disciplina non esaurisce la regolamentazione della responsabilità dello Stato membro per i danni causati ai
singoli per il suo inadempimento, ma va completata con quella nazionale, sia di carattere processuale, sia di
carattere sostanziale, nei limiti in cui la materia non sia già regolata a livello dell’Unione. Il diritto interno è in
ogni caso è subordinato al rispetto di due principi, derivanti dal diritto dell’Unione:
1. principio di equivalenza: la disciplina in materia di risarcimento non può essere meno favorevole al
danneggiato rispetto a quella che, nel diritto statale in questione, riguarda reclami analoghi di natura
interna;
2. principio di effettività: la legislazione nazionale deve essere tale da garantire l'effettivo esercizio del
diritto al risarcimento.
I principi di equivalenza e di effettività vengono in rilievo anche ai fini della determinazione del danno
risarcibile. Posto che vanno applicati i criteri fissati dal diritto nazionale, tali criteri non possono essere meno
favorevoli di quelli relativi a reclami analoghi di diritto interno e non possono rendere impossibile o
eccessivamente difficile il risarcimento.
La Corte ha affermato che il danno risarcibile comprende non solo quello emergente, ma anche il lucro
cessante.

La competenza sulla legittimità degli atti dell’Unione europea: gli atti impugnabili
Il controllo giudiziario sulla condotta delle istituzioni e degli organi dell’Unione europea si realizza principalmente
nella competenza di legittimità sugli atti dell’Unione, volta a verificare che tali atti siano immuni da vizi che ne
comportano l’invalidità. In proposito, sussiste la competenza sia del Tribunale che della Corte di Giustizia; a tali
giudici i soggetti legittimati possono sottoporre un ricorso per ottenere l’annullamento dell’atto.
Gli articoli 263-264 TFUE, che disciplinano tale competenza, fanno riferimento alla sola Corte di giustizia; ai
sensi dell'art. 254, comma 6, TFUE, di regola le disposizioni del Trattato relative alla Corte di giustizia sono
applicabili al Tribunale.
Il controllo di legittimità è, in questa competenza, diretto, poiché l'oggetto stesso del processo consiste
nell'impugnazione di un atto dell'Unione.
L’art. 263 TFUE stabilisce anzitutto quali siano gli atti impugnabili, atti suscettibili di annullamento, perché
ritenuti illegittimi dal ricorrente.
Art.263 TFUE
La Corte di giustizia dell'Unione europea esercita un controllo di legittimità sugli atti legislativi, sugli atti del
Consiglio, della Commissione e della Banca centrale europea che non siano raccomandazioni o pareri,
nonché sugli atti del Parlamento europeo e del Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei
confronti di terzi. Esercita inoltre un controllo di legittimità sugli atti degli organi o organismi dell'Unione
destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi.

L’impugnabilità presuppone che l’atto:


1. deve essere giuridicamente esistente (anche se è viziato)
2. deve essere imputabile all'UE e quindi alle sue istituzioni; il Trattato di Lisbona ha esteso il controllo
giudiziario di legittimità anche alle numerose agenzie istituite con atti di diritto derivato.
3. deve essere produttivo di effetti giuridici verso i terzi. Vanno esclusi pertanto le dichiarazioni o atti
analoghi aventi natura politica. Non sono impugnabili, di norma, anche gli atti emanati in materia di
PESC. La competenza di annullamento si estende agli accordi internazionali dell'Unione. Beninteso,
la Corte non ha il potere di annullare accordi internazionali non avendo competenze nei confronti della
controparte: essa può annullare esclusivamente la decisione dell'istituzione europea diretta a
concludere l'accordo. Nel caso di annullamento la sentenza non è ovviamente efficace verso la
controparte. Occorrerà, quindi, ricercare una soluzione amichevole con quest'ultima, eventualmente
rinegoziando un nuovo accordo.
4. L’atto deve essere legislativo, cioè adottato con una procedura legislativa, ordinaria o speciale, o
comunque sia produttivo di effetti giuridici obbligatori. È esclusa l’impugnabilità di raccomandazioni o
pareri. La Corte segue un'impostazione sostanzialistica, per la quale è irrilevante la denominazione o la
forma dell’atto, mentre è decisivo che esso produca obblighi o diritti. Sono quindi considerati atti
impugnabili, non solo direttive, decisioni e regolamenti, che sono atti tipici, ma anche numerosi atti
atipi come comunicazioni, codici di condotta, atti che potrebbero pregiudicare posizioni giuridiche, o
linee direttrice della Commissione. Non impugnabili sono atti meramente preparatori di atti definitivi né
gli atti meramente confermativi di atti precedenti. Ancora, l'impugnazione è esclusa anche per gli atti
dell'Unione che si limitano a prendere atto di provvedimenti nazionali, i quali costituiscono la reale
fonte di dati effetti giuridici.

La legittimazione all’impugnazione
Per quanto riguarda la legittimazione ad impugnare atti dell’Unione, l’art. 263 TFUE distingue:
1. ricorrenti privilegiati che impugnano un atto anche se non lo riguarda direttamente (senza bisogno di
allegare un interesse ad agire). I ricorrenti privilegiati sono: Stati membri; Parlamento europeo,
Commissione e Consiglio. Per quanto riguarda lo Stato, va precisato che la legittimazione spetta solo
allo Stato quale rappresentato dal suo governo, non anche ad altri enti pubblici, come enti locali, in
specie regioni. Ciò non esclude, tuttavia, la possibilità che le regioni impugnino atti dell'Unione nella
loro qualità di persone giuridiche.
2. ricorrenti non privilegiati che impugnano un atto solo se lede i propri interessi. Ricorrenti non
privilegiati sono: Corte dei conti; BCE; persone fisiche o giuridiche (quindi anche enti locali); Comitato
delle regioni. La legittimazione delle regioni è riconosciuta quando le loro competenze non possono
ritenersi assorbite da quelle dello Stato cui appartengono, ma presentano una propria autonomia.
I singoli possono agire solo per l'annullamento di atti pregiudizievoli per i loro interessi giuridicamente tutelati;
per esempio a causa di una decisione o di un atto che, quale che sia la denominazione, abbia comunque
carattere individuale.
Ciò che risulta decisivo ai fini dell’ammissibilità dei ricorsi dei singoli, è in definitiva, la duplice condizione, di un
effetto diretto ed individuale dell’atto sulla posizione giuridica del singolo.
 Prima condizione: l'atto produce un effetto diretto sulla posizione giuridica del singolo, nel senso che
deve sussistere un rapporto di causalità tra l'atto e il pregiudizio del singolo. In principio, quindi, tale
condizione è presente per i regolamenti, posto che essi siano direttamente applicabili all’interno degli
Stati membri e, di conseguenza, sono suscettibili di creare obblighi o ledere diritti per forza propria,
senza l’intervento di Stati o altri soggetti. Peraltro, nella misura in cui essi, eccezionalmente,
richiedano atti di esecuzione degli Stati, oppure nel caso di altri atti generali, quali direttive, va
verificato se l’effetto pregiudizievole per il singolo derivi dall’atto dell’Unione o da quello statale che vi
dia attuazione. Dalla giurisprudenza può desumersi che, se gli Stati (o i destinatari incaricati di
eseguire l’atto) conservano un margine di potere discrezionale nell’attuazione dell’atto dell’Unione,
l’esercizio di tale potere interrompe il nesso di causalità tra l’atto dell’Unione e il pregiudizio del
singolo, pregiudizio che dovrà considerarsi effetto della misura di attuazione. Se, invece, essi non
hanno alcun margine di discrezionalità nell’esecuzione dell’atto dell’Unione, il pregiudizio sarà effetto
diretto di tale atto che, quindi, sarà impugnabile dall’interessato.
 Seconda condizione: l'atto deve riguardare individualmente l'interessato. Sembra che sussista il
pregiudizio individuale solo quando l'atto sia applicabile al ricorrente in ragione di una sua specifica
qualità soggettiva, o per una situazione oggettiva in cui egli si trovi, che siano in grado di differenziarlo
da chiunque altro al quale l'atto sia pure applicabile. Si tratta di casi nei quali un regolamento menzioni
nominativamente alcune persone, come quello numerosi per la lotta al terrorismo o sia stato adottato
tenendo specificamente conto della situazione del ricorrente.
Con il Trattato di Lisbona, l'art. 263, 4 comma, TFUE, dichiara che qualsiasi persona fisica o giuridica, oltre
agli atti dei quali sia destinataria e a quelli che la riguardino direttamente e individualmente, può impugnare "gli
atti regolamentari che la riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura di esecuzione". Per tali
atti, dunque, viene meno il requisito consistente nel pregiudizio "individuale" del ricorrente, essendo sufficiente
il rapporto diretto fra l'atto dell'Unione e tale pregiudizio. Peraltro, tale norma non fornisce una definizione di
"atto regolamentare". A nostro parere, premesso che non vi è dubbio che debba essere un atto generale, l'atto
regolamentare non deve identificarsi con il regolamento, ma va inteso come atto non legislativo. Sembra che,
ove gli atti in questione comprendessero anche quelli legislativi, l'espressione più appropriata sarebbe stata
"atti generali".

Il termine di impugnazione
L’impugnazione degli atti dell’Unione è sottoposta al termine di due mesi dalla data di pubblicazione o di
notificazione, o in mancanza, due mesi dal giorno in cui il ricorrente ne ha avuto conoscenza.
Si tenga presente che, in realtà, il termine è prolungato, rispetto ai due mesi, poiché termini aggiuntivi sono
previsti dal Regolamento di procedura in ragione della distanza del ricorrente. Ai sensi dell'art. 45, comma 2,
dello Statuto della Corte, inoltre, la decadenza dal diritto di impugnazione non può essere eccepita ove il
ricorrente provi l'esistenza di un caso fortuito o di forza maggiore.
In mancanza di tali eventi, la scadenza del termine rende il ricorso irricevibile, assicura la definitività dell'atto e
produce l'impossibilità di contestarne la legittimità anche dinanzi ai giudici nazionali. La violazione del termine
di impugnazione è rilevata d'ufficio dal giudice, poiché costituisce un motivo di irricevibilità di ordine pubblico.
I motivi di impugnazione
I motivi di impugnazione, stabiliti nell’art 263, 2°comma, TFUE si identificano con in vizi dell’atto e ove esistenti
conducono al suo annullamento. Essi consistono nella:
1. incompetenza;
2. violazione delle forme sostanziali;
3. violazione dei Trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione
4. sviamento di potere.
Il controllo della Corte non si estende al merito, cioè al contenuto dell'atto e alla sua opportunità.
Dalla giurisprudenza sembra emergere che solo i vizi di incompetenza e di violazione delle forme sostanziali
sono di ordine pubblico e, pertanto, sono rilevabili d'ufficio dal giudice, anche se non invocati dal ricorrente,
mentre gli altri due (violazione dei Trattati e sviamento di potere) possono essere esaminati dal giudice solo su
domanda del ricorrente.
Per la violazione delle forme sostanziali la Corte ha affermato la sua rilevabilità d'ufficio, anche se tale
violazione non arrechi alcun danno alle parti.
L'incompetenza consiste nell'assenza del potere di emanare l'atto in questione. Essa può essere:
 assoluta, quando l'Unione sia priva del suddetto potere;
 relativa, quando riguardi, cioè la singola istituzione o organo. Essa può articolarsi nella incompetenza
per materia, con riferimento al tempo di emanazione (o di vigore) dell'atto, o con riguardo al luogo di
efficacia.
La violazione delle forme sostanziali consiste nella violazione delle regole giuridiche concernenti il
procedimento di adozione dell'atto (es. mancata consultazione di un’istituzione o un organo dell’Unione, se
obbligatoria). Il carattere “sostanziale” delle forme violate mette in luce che deve trattarsi di una violazione di
adeguata gravità, cioè che, mediante la forma, finisca per colpire principi sostanziali, quali la certezza del
diritto, il rapporto tra le varie istituzioni, l'equilibrio interistituzionale o gli stessi principi democratici.
L'ipotesi della violazione dei Trattati e di ogni regola di diritto relativa alla loro applicazione comprende
anzitutto le norme e i principi dei Trattati istitutivi (comprensivi della Carta dei diritti fondamentali), le altre fonti
del diritto dell'Unione ad essi assimilabili, quali i trattati di adesione, i principi generali UE, le norme di diritto
internazionale generale e gli accordi internazionali conclusi dall'Unione.
Riguardo al diritto internazionale generale di natura consuetudinaria la Corte di giustizia ha affermato che,
affinché un atto dell'Unione sia annullato per una violazione di questi, occorre che la violazione sia manifesta.
La contrarietà di un atto ad un accordo internazionale dell'Unione comporta la violazione dell'art. 216, par. 2,
TFUE e la conseguente invalidità dell'atto. La giurisprudenza tuttavia non ha assunto questo orientamento.
Essa, infatti, ha limitato l'invalidità degli atti in contrasto con accordi dell'Unione all'ipotesi in cui tali accordi
siano provvisti di effetti diretti, cioè abbiano quei caratteri di completezza, precisione e incondizionata
obbligatorietà in presenza dei quali i singoli possano invocarla in giudizio. La Corte ha quindi escluso tali
caratteri sia nel GATT che all'OMC astenendosi dall'annullare atti delle istituzioni che apparivano in contrasto
con tali accordi.
Lo sviamento di potere si configura quando, a differenza dell'incompetenza, l'organo ha il potere di emanare
l'atto, ma quest'ultimo è adottato per un fine diverso da quello in vista del quale il potere è stato attribuito. Una
variante di tale vizio è lo sviamento di procedura, che si presenta ove una certa procedura sia utilizzata per
uno scopo diverso da quello per il quale è stata istituita. Un esempio classico di sviamento di potere è dato dal
provvedimento con il quale l'Unione trasferisca un dipendente non per un interesse del servizio, ma per una
finalità sanzionatoria.
Alla Corte può essere attribuita anche una competenza di merito sugli atti dell'Unione.
Art. 261 TFUE
I regolamenti adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio in virtù delle disposizioni dei
Trattati possono attribuire alla Corte di giustizia dell’Unione europea una competenza giurisdizionale anche di
merito per quanto riguarda le sanzioni previste nei regolamenti stessi.

Tale competenza si estende all’esame del contenuto dell’atto e in particolare, al controllo circa l’opportunità e
l’ammontare delle sanzioni pecuniarie. La Corte può così annullare le sanzioni e modificarne l'importo. Si noti
che il riferimento alla Corte è comprensivo del Tribunale. In base alle regole di ripartizione di competenza tra i
due giudici normalmente il ricorso ricade, quindi, nella competenza del Tribunale.

La sentenza della Corte


Il ricorso per annullamento non ha effetti sospensivi sull'atto impugnato. Lo stesso TFUE attribuisce alla Corte
di giustizia il potere di sospendere la sua esecuzione (art. 278 TFUE). Alla luce dello Statuto della Corte e del
suo Regolamento di procedura, la sospensione dell'atto impugnato è disposta con ordinanza tenendo conto,
particolarmente, della presumibile fondatezza dei motivi di ricorso (il fumus boni iuris) e dei motivi di urgenza,
cioè di un rischio imminente di danno grave e irreparabile per il ricorrente ( periculum in mora).
La decisione che accerta l'esistenza del vizio nell'atto impugnato ha i caratteri del giudicato (ma, naturalmente,
la sentenza del Tribunale passa in giudicato solo quando sia decorso il termine di due mesi per l’eventuale
impugnazione dinanzi alla Corte di Giustizia). L'effetto di giudicato, nel caso di un atto di portata generale
quale un regolamento, si produce erga omnes, in quanto l’atto è dichiarato nullo e non avvenuto. Per gli atti
particolari l'effetto di annullamento è limitato allo specifico atto impugnato e alla persona del ricorrente e non
può estendersi a terzi estranei al processo. Pertanto, persone che si trovino in una situazione analoga al
ricorrente non hanno titolo ad ottenere dall’istituzione che ha emanato gli atti in questione un riesame o una
revoca degli atti emanati nei loro confronti. Da un lato, l’art.266 TFUE obbliga l’istituzione ad adottare i
provvedimenti necessari per la sola esecuzione della sentenza; dall’altro un riesame a favore di altre persone
sarebbe precluso dal carattere definitivo che acquista un atto non impugnato nel termine di due mesi.
Anche la sentenza che rigetta il ricorso ha effetto di giudicato; ma essendo quest'ultimo limitato ai punti di fatto
e di diritto decisi con la sentenza, non può escludersi che, per profili diversi, la legittimità dell'atto sia rimessa
in discussione in un altro procedimento.
L'annullamento può anche essere parziale; tale possibilità è subordinata alla circostanza che gli elementi
dell'atto impugnato siano separabili dal resto dell'atto e che l'annullamento parziale non determini una modifica
sostanziale del contenuto dell'atto; tale modifica, invero, andrebbe al di là della competenza della Corte,
poiché si risolverebbe in un intervento "legislativo". Nel caso in cui le disposizioni dell'atto non siano separabili
questo sarà impugnabile e annullabile in toto.
Quanto agli effetti temporali delle sentenze di annullamento, essi retroagiscono sino al momento dell'adozione
dell'atto.
Se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia dell'Unione europea dichiara nullo e non avvenuto l'atto impugnato.
L'efficacia ex tunc comporta che tutti gli effetti giuridici prodotti dall'atto devono ritenersi caducati.
Questo risultato, peraltro, può contrastare con esigenze di certezza del diritto e di tutela di affidamento che
soggetti vari possono avere nutrito circa la legittimità dell'atto.
A salvaguardia di tale esigenza proprio l'art. 264, comma 2, consente alla Corte di limitare nel tempo l'efficacia
dell'annullamento, facendo salvi gli effetti dell'atto annullato: “Tuttavia, la Corte, ove lo reputi necessario,
precisa gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi.”
In qualche caso la Corte ha disposto una ultrattività dell'atto annullato, procrastinando l'effetto
dell'annullamento al momento dell'adozione di un nuovo atto, in sostituzione di quello annullato.
Va sottolineato che, con la sua sentenza, la Corte determina l'annullamento dell'atto, ma non può
giuridicamente condannare le istituzioni interessate a tenere un particolare comportamento.
Si ricordi, infine, che la pur corretta esecuzione della sentenza non pregiudica il diritto del ricorrente al risarcimento
dei danni.

L’eccezione di invalidità
Il controllo giudiziario sulla legittimità della condotta delle istituzioni europee si manifesta ulteriormente
nell’eccezione di invalidità.
Art. 277 TFUE
Nell'eventualità di una controversia che metta in causa un atto di portata generale adottato da un'istituzione,
organo o organismo dell'Unione, ciascuna parte può, anche dopo lo spirare del termine previsto  all'articolo
263, sesto comma, valersi dei motivi previsti all'articolo 263, secondo comma, per invocare dinanzi alla Corte
di giustizia dell'Unione europea l'inapplicabilità dell'atto stesso.
Tale articolo amplia la tutela contro gli atti illegittimi, poiché consente di contestare un atto illegittimo anche
una volta che sia scaduto il termine per la sua impugnazione.
La tutela è particolarmente utile per i singoli, i quali, in principio, non sono legittimati a impugnare atti legislativi
di portata generale, come i regolamenti; grazie a questa disposizione essi possono impugnare una decisione
di cui siano destinatari che sia stata emanata in esecuzione di un regolamento illegittimo. Ipotesi tipica è
quella in cui si eccepisca l'invalidità di un regolamento in sede di impugnazione di una decisione diretta ad
eseguirlo.
Una situazione analoga può prospettarsi in caso d'impugnazione di un atto delegato o di un atto esecutivo,
facendo valere un vizio dell'atto legislativo contenente la delega o di quello da eseguire.
Un'altra ipotesi nella quale l'eccezione di invalidità appare invocabile è quella di una procedura d'infrazione
contro uno Stato membro per violazione di un atto generale, come un regolamento.
I vizi dell'atto sui quali può fondarsi l'eccezione sono esattamente gli stessi contemplati dall'art. 263, 2° comma
TFUE. Si noti che l'eccezione, se accolta dalla Corte, non implica l'annullamento dell'atto in questione, ma la
sua inapplicabilità nel processo in corso. Ciò determinerà, pertanto, l'annullamento della decisione fondata su
tale atto, o la dichiarazione dell'inesistenza dell'infrazione dello Stato che lo abbia violato.

Il ricorso in carenza
Il ricorso in carenza è previsto dall'art. 265 TFUE. In questo caso il ricorso (dinanzi alla Corte o al Tribunale) è
diretto a fare constatare una omissione da parte di una istituzione, organo o organismo dell'Unione
nell'adozione di un atto che questi hanno l'obbligo di emanare. Il ricorso è diretto, al pari di quello ex art. 263, a
sindacare la legittimità del comportamento delle istituzioni europee.
Il ricorso è proponibile solo nel caso di inerzia dell'istituzione, organo o organismo, non anche quando esso
emani un atto diverso da quello richiesto o rifiuti l'atto che gli era stato richiesto. Nell'ipotesi di atto diverso o di
rifiuto, l'atto è impugnabile solo con un ricorso di annullamento ai sensi dell'art. 263 TFUE.
La mancata emanazione dell'atto deve avvenire "in violazione dei Trattati"; l'obbligo può derivare anche dai
principi generali del diritto dell'Unione o da atti dell'Unione che creino un obbligo di agire per l'istituzione,
organo o organismo in questione. Il ricorso in carenza costituisce pure il mezzo appropriato per fare accertare
la mancata adozione, da parte di un’istituzione, dei provvedimenti che l’esecuzione di una sentenza comporta.
Non è invece ammissibile il ricorso in esame qualora l’istituzione, l’organo o organismo abbiano una
discrezionalità in merito all’emanazione o meno dell’atto.
Diverso appare il caso in cui l’istituzione, organo o organismo godano di discrezionalità circa il contenuto
dell’atto, pur essendo obbligati a emanarlo; l’inerzia è impugnabile, poiché il ricorso in carenza presuppone
solo l’obbligo di emanare l’atto.
Si ritiene impugnabile qualsiasi omissione delle istituzioni, organi o organismi rispetto a qualsiasi tipo di atto,
anche se non vincolante. A differenza dell'art. 263, l'art. 265 non pone alcuna limitazione sulla tipologia degli
atti la cui mancata adozione giustifica l'azione in carenza.
Riguardo ai soggetti legittimati a proporre il ricorso in oggetto, si ripresenta la distinzione tra ricorrenti
privilegiati e non privilegiati per l'azione di annullamento. Il riferimento alle istituzioni, però, conduce a
ricomprendere anche il Consiglio europeo, nonché la Corte dei Conti e la BCE, che possono quindi impugnare
atti solo per salvaguardare le proprie prerogative. La legittimazione a ricorrere delle persone fisiche e
giuridiche risulta limitata sia sotto un profilo:
 oggettivo: il ricorso è infatti escluso per raccomandazioni e pareri
 soggettivo: i singoli devono essere i destinatari dell'atto che l'istituzione, organo o organismo ha
omesso di adottare. L'ipotesi tipica è quella della mancata emanazione di una decisione nei confronti
del ricorrente.
La ricevibilità del ricorso, quale che sia il ricorrente, è subordinata al previo svolgimento di una fase
(precontenziosa o amministrativa) volta a far emergere con chiarezza l'inerzia dell'istituzione, organo o
organismo. Il primo atto di tale fase consiste nell’intimazione ad agire rivolta all’istituzione, organo o organismo
in questione (messa in mora). Tale intimidazione dovrebbe essere fatta entro un termine ragionevole dal
momento in cui appare evidente l’inerzia dell’istituzione, organo o organismo. Pur non essendo soggetta a
particolari requisiti, la richiesta deve indicare con chiarezza sufficiente l'atto di cui si chiede l'adozione e la
volontà di costringere l'istituzione, organo o organismo a prendere posizione. Ai fini della proponibilità del
ricorso occorre, inoltre, che nei due mesi successivi l'istituzione, organo o organismo richiesti non abbiano
preso posizione (altrimenti sarebbe proponibile un ricorso di annullamento). Secondo la Corte l'emanazione
tardiva va parificata alla presa di posizione e preclude la prosecuzione del giudizio in quanto il ricorso sarebbe
divenuto privo di oggetto.
Il ricorso può poi essere presentato entro un ulteriore termine di due mesi decorrenti dalla scadenza del primo
termine di due mesi.
Se la Corte constati l'illegittima omissione, non può condannare ad emanare l'atto richiesto; la sua sentenza è
di mero accertamento. Tuttavia, ai sensi dell'art.266 l’istituzione, organo o organismo sono tenuti ad eseguire
la sentenza prendendo, a tal fine, i necessari provvedimenti. Ciò non significa necessariamente che l'atto
debba soddisfare le pretese del ricorrente (l'illegittimità consiste nella mancata adozione dell'atto).

L’azione di responsabilità contro l’Unione europea


Un ulteriore controllo giudiziario sull’operato dell’Unione è istituito dall’art.268 TFUE in materia di responsabilità
extracontrattuale.
Art.268 TFUE
La Corte di giustizia dell'Unione europea è competente a conoscere delle controversie relative al
risarcimento dei danni di cui all'articolo 340, secondo e terzo comma.

La disciplina sostanziale applicabile va ricavata dai principi generali comuni degli Stati membri. Si tratta di
risarcire in sostanza per la responsabilità "aquiliana" dell'Unione, quale regolata dall'art. 2043 cod. civ. italiano.
Si contemplano due ipotesi:
1. la responsabilità dovuta alla condotta delle istituzioni dell’Unione
2. la responsabilità derivante dal comportamento dei suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni.
Riguardo alla prima ipotesi, va sottolineato che la giurisprudenza ha ben presto messo in luce l’autonomia del
ricorso contemplato dalle norme in esame rispetto al ricorso di annullamento. Tale autonomia rende
inapplicabili all’azione di risarcimento le più stringenti condizioni richieste dagli art.263 e 265 TFUE e consente
di esperire l’azione anche in caso di un atto non impugnato (o non impugnabile).
Si pone, peraltro, un problema ulteriore, relativo ai rapporti tra la competenza della Corte (esclusiva riguardo
alla responsabilità extracontrattuale dell’Unione) e quella dei giudici nazionali, la quale permane quando
l’azione risarcitoria riguardi danni derivanti da un illecito imputabile non già all’Unione ma agli Stati membri.
In linea teorica dovrebbe dirsi che:
 se il danno derivi da un'attività statale la quale sia meramente esecutiva dell'atto dell'Unione, nel
senso che lo Stato non abbia in materia alcun margine di discrezionalità, l'illecito è imputabile
all'Unione e quindi la domanda di risarcimento rientra nella competenza della Corte.
 se l'atto dell'Unione è legittimo, mentre illegittimi sono quelli statali di esecuzione, l'azione va
presentata ai giudici nazionali contro lo Stato in questione.
La Corte ha integrato la regola appena ricordata subordinando alla Corte stessa la ricevibilità del ricorso al
previo esaurimento dei rimedi giurisdizionali interni contro l'atto statale.
Alla luce di tale condizione del previo esaurimento dei ricorsi interni, il ricorso alla Corte assume un carattere
residuale, quando vi è anche un atto statale, rispetto all’azione dinanzi al giudice nazionale.
Affinché sorga la responsabilità dell'Unione è necessario che l'atto in questione sia imputabile alla stessa.
Sebbene l'articolo menzioni solo le istituzioni, la Corte ritiene esperibile il ricorso anche per atti compiuti dagli
altri organismi europei, come la Banca europea per gli investimenti e il Mediatore europeo.
La Corte ha pienamente equiparato la disciplina della responsabilità extracontrattuale dell'Unione a quella
degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione.
Non ogni atto (o omissione) illegittimo dell'Unione dà luogo ad un obbligo di risarcire i danni. La Corte richiede
che sussistano alcune condizioni:
 che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli;
 che si tratti di violazione sufficientemente qualificata (violazione manifesta e grave);
 che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell'obbligo e il danno subito dai soggetti lesi
 il danno deve essere reale e certo.
Il danno richiesto comprende quello morale, come nel caso di violazione della durata ragionevole del
processo dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione (in specie il Tribunale).
La Corte ha precisato che, dovendo il Tribunale decidere sul ricorso per risarcimento di danni derivanti
dal comportamento dello stesso Tribunale, quest’ultimo dovrà pronunciarsi in una composizione diversa
da quella che ha emesso la sentenza a seguito di un processo protrattosi oltre il tempo ragionevole.
La seconda ipotesi di responsabilità da illecito dell’Unione è quella conseguente a un illecito commesso dai
suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. Affinché sussista tale responsabilità sono, dunque, necessarie
due condizioni:
1. colui che abbia prodotto il danno deve essere un dipendente dell’Unione
2. egli deve avere agito nell’esercizio di un compito affidatogli dalla stessa Unione
Nella giurisprudenza era emersa la possibilità di configurare una responsabilità extracontrattuale dell'Unione
anche a seguito di una condotta lecita. Tuttavia, una sentenza del 2008 ha successivamente negato tale
possibilità.
Si sottolinea che, nella giurisprudenza, estremamente rare sono le sentenze che accolgono le domande di
risarcimento dei danni.
Art. 46 Statuto della Corte
Le azioni contro l'Unione in materia di responsabilità extracontrattuale si prescrivono in cinque anni a
decorrere dal momento in cui avviene il fatto che dà loro origine.

Il termine a quo dei cinque anni è interpretato, peraltro, con riferimento al momento della nascita del danno,
non dell'illecito.
Non rientrano nella competenza della Corte né la materia della responsabilità contrattuale dell'Unione, che
ricade nella competenza dei giudici nazionali, né le questioni, anche di responsabilità, tra l'Unione e i suoi
dipendenti, che ricadono, attualmente, nella competenza del Tribunale.

La competenza in via pregiudiziale e le sue funzioni


Una fondamentale competenza, tuttora riservata alla sola Corte di giustizia è quella pregiudiziale o di rinvio, prevista dall’art
267 TFUE.
Art. 267 TFUE
La Corte di giustizia dell'Unione europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale:
a) sull'interpretazione dei trattati;
b) sulla validità e l'interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi
dell'Unione.
Quando una questione del genere è sollevata dinanzi ad un organo giurisdizionale di uno degli Stati membri,
tale organo giurisdizionale può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su
questo punto, domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione.
Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale
nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo
giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte.
Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale
nazionale e riguardante una persona in stato di detenzione, la Corte statuisce il più rapidamente possibile.

Essa costituisce uno strumento di preziosa cooperazione tra il giudice nazionale e la Corte di Giustizia. Tale
competenza viene esercitata riguardo a una questione che sorga in un processo nazionale, relativa
all'interpretazione di una disposizione del diritto o atti dell'Unione o alla validità di un atto dell'Unione, la cui
soluzione sia necessaria affinché il giudice nazionale possa decidere la causa.
Nei casi in cui si ponga una questione, interpretativa o di validità, "pregiudiziale", determinante, cioè, ai fini
della sentenza del giudice interno, il giudice nazionale sospende il processo e rinvia all'esame della Corte di
giustizia la questione relativa al diritto dell'Unione.
La competenza in via pregiudiziale è quella in base alla quale la Corte di giustizia ha emanato non solo il
maggior numero di sentenze, ma anche quelle più significative. Su tale competenza la Corte ha emanato il
maggior numero di sentenze.
Il giudice nazionale è, in un certo senso, il giudice comune o "naturale" del diritto dell'Unione.
La competenza pregiudiziale risponde al duplice obiettivo:
1. da un lato di scongiurare il rischio che il carattere uniforme del diritto dell’Unione sia pregiudicato da
interpretazioni difformi dei giudici nazionali;
2. dall’altro di evitare che questi giudici applichino atti dell’Unione che presentano vizi implicanti la loro
illegittimità.
Se una questione pregiudiziale si pone dinanzi ad un giudice le cui sentenze siano impugnabili, tale giudice ha
la facoltà di rinviarla alla Corte di giustizia; se, invece, si pone davanti a un giudice di ultimo grado, questi è
tenuto a rivolgersi alla Corte.
Per quanto riguarda la competenza pregiudiziale interpretativa del diritto dell’Unione, può dirsi che,
tendenzialmente, essa è centralizzata nella Corte di Giustizia mentre l’applicazione di tale diritto è riservata al
giudice nazionale. Ciò non toglie peraltro, che anche il giudice nazionale, se non di ultimo grado ha il potere di
interpretare il diritto dell’Unione senza rivolgersi alla Corte e che, in ogni caso, spetta al giudice nazionale
accertare l’esistenza della questione, cioè del problema interpretativo, e la rilevanza della stessa al fine di
emanare la sua sentenza.
La Corte non decide la questione interpretativa in vacuo: l'applicazione al caso concreto, cioè, non le è
indifferente, tanto che i giudici nazionali devono inviare alla Corte tutti gli elementi occorrenti per illustrare i fatti
in causa.
La Corte di giustizia ha sottolineato che, qualora il giudice nazionale non fornisca alcun chiarimento sulla
rilevanza delle norme di cui chiede l'interpretazione ai fini della soluzione della controversia, la questione
sottoposta alla Corte è irricevibile e, quindi, la stessa Corte non è tenuta a fornire l'interpretazione di dette
norme.
La competenza della Corte di giustizia non è limitata all’interpretazione delle norme espressamente richiamate
dal giudice nazionale, ben potendo la Corte esaminare anche le altre disposizioni che possono riguardare il
problema sollevato da detto giudice e riformulare a tal fine la questione da lui proposta.
Nella giurisprudenza la competenza interpretativa della Corte è impiegata frequentemente per accertare, nella
sostanza, la compatibilità con il diritto dell'Unione della condotta di Stati membri. La condotta statale viene in
rilievo solo indirettamente, ma, nella sostanza, è essa l'oggetto reale della pronuncia della Corte di giustizia.
Per tale via, quindi, viene ad aggiungersi un ulteriore strumento di controllo (rispetto alla procedura
d’infrazione) sull’osservanza da parte degli Stati membri dei propri obblighi; strumento particolarmente
prezioso per i singoli, i quali, privi di una legittimazione a promuovere una procedura d’infrazione, possono
ottenere una pronuncia della Corte di Giustizia sollevando in un processo interno la questione, sotto il profilo
dell’interpretazione della disposizione europea che si presume violata. Si noti che la Corte evita di solito di
pronunciarsi sulla condotta dello Stato, dichiarando che una siffatta valutazione non rientra nella competenza
ex art.267 e provvedendo anche a riformulare il quesito posto dal giudice nazionale, ove questo richieda un
giudizio su una legge o su un atto statale. La Corte dichiara qual è la corretta interpretazione della
disposizione europea aggiungendo che questa osta o non osta alla legge o all’atto di uno Stato.
L’art.267 TFUE attribuisce alla Corte anche la competenza a decidere, su rinvio di un giudice nazionale, in
merito alla legittimità di un atto dell’Unione, direttamente applicabile (come un regolamento) o costituente la
base per l’emanazione di una legge interna di attuazione (come una direttiva) o di un atto amministrativo.
Solo la Corte ha la competenza a pronunciare l’invalidità dell’atto mentre il giudice nazionale ha solo il potere
di confermare la validità dell’atto respingendo gli addebiti di illegittimità.
La Corte riconosce al giudice nazionale il potere di emanare provvedimenti provvisori a tutela dei diritti delle
parti, ove sospetti l'invalidità di un atto dell'Unione. Tali provvedimenti possono consistere nella sospensione di
un atto amministrativo adottato in base a un atto dell'Unione o persino in un provvedimento cautelare che
sospenda l'applicazione dello stesso atto dell'Unione, quale un regolamento. Detta possibilità è sottoposta a
rigorose condizioni:
 occorre che il giudice abbia gravi dubbi sulla validità dell'atto,
 ricorrano gli estremi dell'urgenza in quanto incomba sul richiedente il rischio di un pregiudizio grave ed
irreparabile
 e il giudice tenga pienamente conto dell'interesse dell'Unione, verificando se l'atto non venga privato
di ogni pratica efficacia in mancanza di un'applicazione immediata.
Il rinvio pregiudiziale di legittimità arricchisce la tutela del singolo, in quanto gli consente di promuovere una
pronuncia rispetto ad atti che non lo riguardano direttamente e individualmente.
La Corte esclude che possano esserle sottoposte questioni di validità di atti che il singolo, parte nella causa
nazionale, avrebbe potuto impugnare ai sensi dell'art. 263, ma che non abbia impugnato nel termine di
decadenza di due mesi.
La Corte ha precisato che tale preclusione opera soltanto quando l’interessato sarebbe stato legittimato
“senza alcun dubbio” a proporre un ricorso di annullamento ai sensi dell’art.263 TFUE.
La Corte di Giustizia ha affermato che la propria competenza pregiudiziale di legittimità si estende agli atti
amanti nell’ambito della PESC, limitatamente, peraltro al rispetto dell’art.40 TUE.

L’oggetto della competenza pregiudiziale e la natura giudiziaria dell’autorità nazionale di rinvio


Per quanto riguarda l'oggetto della competenza pregiudiziale occorre distinguere quella interpretativa dalla
competenza di legittimità.
La prima riguarda qualsiasi disposizione del diritto dell'Unione, cioè il suo intero ordinamento giuridico.
Riguardo gli accordi internazionali la Corte ha dichiarato che la propria competenza si estende agli accordi
misti, conclusi cioè sia dall’Unione europea che dagli Stati membri in virtù di una competenza ripartita. Quanto
agli atti dell'Unione, sono ricompresi anche quelli non vincolanti, come le raccomandazioni. Riguardo alle
proprie sentenze, la Corte ha sempre ammesso domande relative alla loro interpretazione, persino da parte
del giudice nazionale destinatario di una sentenza interpretativa ex art. 267.
Oggetto della competenza interpretativa non può essere, invece, una normativa nazionale, la quale non sia
diretta ad applicare una disposizione del diritto dell'Unione.
Peraltro, la Corte è solita ritenersi competente a interpretare norme dell’Unione anche se non queste devono
applicarsi alla causa principale, ma norme nazionali, le quali determinino il loro contenuto mediante un rinvio
alle predette norme dell’Unione o riproducendone il contenuto.
La Corte ha precisato che la propria competenza in situazioni puramente interne, sottoposte dal legislatore
nazionale al diritto dell’Unione per assicurare un loro trattamento identico a quelle disciplinate da quest’ultimo,
sussiste solo “quando le disposizioni del diritto dell’Unione in questione sono state rese applicabili dal diritto
nazionale a siffatte situazioni in modo diretto e incondizionato” e che, a tal fine, non è sufficiente un rinvio in
modo generico, ai principi dell’ordinamento dell’Unione. In questo caso il carattere puramente interno della
situazione comporta l’irricevibilità della questione da parte della Corte di Giustizia.
Più limitato è l'oggetto della competenza pregiudiziale di legittimità. Esso, come risulta dalla giurisprudenza
della Corte, concerne i soli atti dell'Unione suscettibili di essere impugnati ai sensi dell'art. 263 TFUE, quindi
solo quelli produttivi di effetti giuridici, non anche pareri e raccomandazioni.
La Corte ha richiamato la circostanza che il suo Statuto enumera tassativamente i mezzi d'impugnazione
straordinari esperibili nei confronti delle proprie sentenze. La competenza di legittimità, inoltre, riguarda i soli
atti dell'Unione, non anche il diritto primario, cioè le stesse disposizioni dei Trattati.

La natura giudiziaria dell’autorità nazionale di rinvio e le altre condizioni di ricevibilità della domanda
La ricevibilità delle questioni pregiudiziali, siano esse interpretative o di legittimità è subordinata alla natura di
organo giudiziario posseduta dall'autorità che opera il rinvio. La Corte ha chiarito che la nozione di organo
giudiziario va stabilita a livello di diritto dell'Unione e che essa è collegata alle funzioni che l'organo esercita
nell'ambito del processo nazionale.
La Corte, mentre ha escluso la qualità di organo giurisdizionale nei tribunali arbitrali, in un caso ha affermato
che può considerarsi tale la Corte di giustizia del Benelux, istituita con il Trattato di Bruxelles del 1965 tra il
Belgio, il Lussemburgo e l'Olanda e composta dai giudici delle Corti supreme di tali Stati. La motivazione
dell'ammissibilità di un rinvio da parte della Corte del Benelux risiede nella qualificazione di quest'ultima non
come tribunale internazionale, ma come giudice nazionale comune ai tre Stati parti, in ragione delle funzioni
da essa svolte.
Per quanto riguarda l'Italia, si è posto il problema se rientri nella nozione di giurisdizione nazionale la Corte
costituzionale. La stessa Corte in una ordinanza del 1995 aveva dato una soluzione negativa affermando che
"nella Corte Costituzionale non è ravvisabile quella giurisdizione nazionale alla quale fa riferimento l'art. 267
TFUE."
Successivamente la Corte ha mutato atteggiamento, limitatamente all'ipotesi in cui una questione relativa al
diritto dell'Unione europea si ponga in una causa nella quale la Corte costituzionale sia adita in via principale
(es. conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato e tra Stato e regioni o tra regioni).
Con sent. 102/2008, la Corte ha affermato che essa è legittimata a rinviare alla Corte di giustizia questioni
relative all'interpretazione del diritto dell'Unione. Essa ha osservato: “Questa Corte, pur nella sua peculiare
posizione di organo di garanzia costituzionale, ha natura di giudice e, in particolare, di giudice di unica
istanza.”
In questa pronuncia il ragionamento e la decisione della Corte Costituzionale si riferiscono alla sola ipotesi in
cui la stessa Corte sia adita in via principale, sia, quindi, il giudice della causa.
Se una questione concernente il diritto dell’Unione europea le fosse sottoposta da un giudice comune,
secondo la Corte costituzionale, era il giudice comune che doveva sottoporre anzitutto alla Corte di Giustizia la
questione attinente al diritto dell’Unione e solo dopo la pronuncia della Corte di Giustizia poteva sollevare
dinanzi alla Corte Costituzionale l’eventuale problema di incostituzionalità della legge. In altri termini,
sembrava sussistere una priorità logico-giuridica della “pregiudiziale comunitaria”.
Un primo ridimensionamento di tale posizione si è avuto con la sentenza del 30 marzo 2012, n.75. In essa la
Corte costituzionale ha ritenuto ammissibile una questione di costituzionalità sollevata da un giudice non di
ultima istanza rispetto ad un decreto legislativo di attuazione di una direttiva, senza che tale giudice dovesse
rivolgersi in via prioritaria alla Corte di Lussemburgo in merito alla compatibilità del decreto legislativo con la
direttiva. La Corte costituzionale ha sottolineato, invero, che un siffatto giudice ha la facoltà non l’obbligo di
operare il rinvio alla Corte di Giustizia e che, in ogni caso, tale rinvio presuppone che egli abbia un dubbio
sull’interpretazione del diritto dell’Unione. “il dubbio sulla compatibilità della norma nazionale rispetto al diritto
comunitario va risolto, infatti, eventualmente, con l’ausilio della Corte di giustizia, prima che sia sollevata la
questione di legittimità costituzionale, pena l’irrilevanza della questione stessa”
In tale sentenza, la Corte costituzionale non solo ha limitato all’ipotesi di un dubbio, cioè di una “questione” sul
diritto dell’Unione, il dovere del giudice comune di adire in via prioritaria la Corte di Giustizia, ben potendo
promuovere direttamente l’incidente di costituzionalità in assenza di dubbi; essa ha aperto anche uno spiraglio
sulla possibilità di rinviare essa stessa, pur nel ruolo di giudice delle leggi, una questione di diritto dell’Unione
alla Corte di Giustizia. Infatti, qualora la Corte Costituzionale abbia un dubbio interpretativo, cioè quando nel
giudizio di costituzionalità di una legge si presenti una questione interpretativa del diritto dell’Unione, essa
deve sottoporla in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Sui rapporti tra la competenza pregiudiziale della Corte di giustizia e quella dei giudici costituzionali,
nell’ipotesi in cui un giudice nazionale, investito di una controversia concernente il diritto dell’Unione, dubiti che
una norma nazionale sia contraria non solo a tale diritto, ma alla propria Costituzione, si è più volte
pronunciata anche la Corte di Giustizia. Essa ha affermato che l’art.267 TFUE osta a una normativa statale
che obblighi il giudice a rivolgersi in via prioritaria alla Corte costituzionale al fine dell’annullamento della
norma nazionale, qualora “il carattere prioritario di siffatto procedimento abbia l’effetto di impedire – tanto
prima della trasmissione di una questione di legittimità costituzionale all’organo giurisdizionale incaricato di
esercitare il controllo di costituzionalità delle leggi, quanto, eventualmente, dopo la decisione di siffatto organo
giurisdizionale su detta questione – a tutti gli altri organi giurisdizionali nazionali di esercitare la loro facoltà o di
adempiere il loro obbligo di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte.”
Non si pone, invece, un contrasto con il diritto dell’Unione ove i giudici nazionali restino liberi di sottoporre alla
Corte di giustizia, eventualmente anche al termine del procedimento di controllo della legittimità costituzionale,
qualsiasi questione pregiudiziale che essi ritengano necessaria.
Quando la Corte costituzionale sia legittimata al rinvio della Corte di giustizia, essa ha il dovere, non la mera
facoltà, di operare tale rinvio, trattandosi di un organo giurisdizionale "avverso le cui decisioni non possa
proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno".
I commi 2° e 3° dell’art.267 TFUE stabiliscono una facoltà oppure un obbligo di rinvio alla Corte di Giustizia a
seconda che il giudice nazionale sia un giudice le cui decisioni possano essere impugnate con un ricorso
giurisdizionale di diritto interno o, al contrario, si tratti di un giudice di ultima istanza (in Italia per esempio la
Corte di Cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte costituzionale). La ratio della diversa disciplina è
ravvisabile in ciò, che un eventuale errore di un giudice non di ultima istanza ben può essere riparato tramite
un successivo ricorso avverso la sua sentenza; al contrario, un errore relativo all’interpretazione del diritto
dell’Unione o alla validità di un suo atto commesso da un giudice di ultima istanza non è suscettibile di alcun
riforma e acquista la forza del giudicato; si aggiunga che le sentenze di giudici di ultima istanza sono dotate di
una maggiore autorevolezza e tendono a orientare la giurisprudenza del proprio Paese in senso conforme.
Per queste regioni, la competenza interpretativa e di validità non può essere lasciata a tali giudici, i quali
hanno l’obbligo di deferire la questione alla competenza (esclusiva) della Corte di giustizia.
Eccezione all'obbligo dei giudici di ultima istanza si ha qualora la questione sollevata sia materialmente
identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie, che sia già stata decisa in via
pregiudiziale.
Ulteriore eccezione si ha nel caso in cui la disposizione europea sia talmente chiara da non porre un problema
di interpretazione ("in claris non fit interpretatio"). Tali eccezioni all'obbligo di rinvio non escludono, tuttavia, la
facoltà dei giudici di ultimo grado di adire ugualmente la Corte di giustizia, se lo ritengono opportuno.
“Il rinvio pregiudiziale non è necessario quando il significato della norma comunitaria sia evidente, anche per
essere stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e si impone soltanto quando occorra risolvere
un dubbio interpretativo.”
Tali eccezioni all’obbligo di rinvio non escludono, tuttavia, la facoltà dei giudici di ultimo grado di adire
egualmente la Corte di Giustizia, se lo ritengano opportuno. Per quanto riguarda i giudici non di ultima istanza,
la facoltà di adire la Corte di Giustizia non può essere esclusa da una norma nazionale che imponga ad un
giudice di conformarsi alle valutazioni giuridiche formulate da un organo giudiziario di grado superiore.
Qualora un giudice non di ultima istanza si sia rivolto alla Corte di giustizia, egli deve conformarsi alla
sentenza della stessa Corte e deve discostarsi dalle valutazioni dell’organo giurisdizionale superiore, ove
ritenga alla luce della sentenza della Corte di Giustizia che tali valutazioni siano in contrasto con il diritto
dell’Unione.
La Corte di giustizia ha più volte sottolineato la necessità che la sua pronuncia sia utile per il giudice
nazionale, così contribuendo all’amministrazione della giustizia negli Stati membri. La Corte ha negato la
propria competenza quando il giudice nazionale non le abbia dato gli elementi di fatto o di diritto necessari per
fornire una soluzione utile oppure quando le questioni proposte siano puramente ipotetiche e non siano
concretamente collegate alla causa in corso.

Gli effetti della sentenza della Corte


La sentenza della Corte di giustizia emanata a seguito di rinvio pregiudiziale è sicuramente obbligatoria per il
giudice a quo, il quale è tenuto a decidere il caso in conformità dell’interpretazione fornita dalla Corte o della
sua sentenza sulla validità, quindi applicando l’atto dell’Unione, se giudicato legittimo, o al contrario,
prescindendo da tale atto per la decisione del caso, se dichiarato illegittimo . Come la Corte ha dichiarato, tale
sentenza ha effetti di giudicato per il giudice nazionale. È possibile che il giudice richiedente si rivolga
nuovamente alla Corte, per sottoporle una questione diversa o, al limite, nuovi elementi di valutazione.
Peraltro, l'efficacia delle sentenze della Corte di giustizia tende ad assumere una portata generalizzata nei
confronti dei giudici dei Paesi membri. Alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, i giudici nazionali
di ultima istanza non sono obbligati a rivolgersi alla Corte stessa quando la questione interpretativa sorta in un
processo nazionale sia identica o analoga ad altra già decisa dalla Corte, o possa risolversi alla luce di una
giurisprudenza costante della Corte. La Corte costituzionale italiana ha poi riconosciuto alle sentenze
interpretative della Corte di giustizia una efficacia sostanzialmente erga omnes, dichiarando la loro
"prevalenza" sul diritto nazionale incompatibile.
La Corte di giustizia ha escluso che la giurisprudenza in materia di interpretazione possa applicarsi alle
questioni di legittimità. La sentenza che dichiari l'invalidità dell'atto impone, infine, anche alle istituzioni
europee di uniformarvisi.
Ove la Corte abbia dichiarato, invece, legittimo l’atto in questione, l’efficacia della sentenza è limitata al giudice
richiedente che deve decidere la lite applicando tale atto, e ai motivi di invalidità sui quali la Corte si è
pronunciata. La questione di legittimità potrà quindi essere sollevata da altri giudici e per motivi differenti.
Riguardo all’efficacia nel tempo delle sentenze interpretative, in linea di principio, essa dovrebbe retroagire al
momento dell’entrata in vigore della disposizione oggetto di interpretazione e, quindi, dovrebbe applicarsi
anche a rapporti sorti anteriormente alla sentenza. Tuttavia, la Corte ammette che possa decidere di limitare
nel tempo gli effetti della sua sentenza. “Affinchè una tale limitazione possa essere disposta, è necessario che
siano soddisfatti due criteri, cioè la buona fede degli ambienti interessati e il rischio di gravi inconvenienti”. La
limitazione non può pregiudicare coloro che, prima della data della sua pronuncia, abbiano avviato azione
giurisdizionale ovvero proposto domanda equivalente. Anche la sentenza che dichiari in via pregiudiziale
l’invalidità di un atto ha, in principio, effetti retroattivi sin al momento di emanazione dell’atto, dato che la
declaratoria accerta la presenza di vizi genetici dell’atto, coevi alla sua adozione.

La competenza della Corte nelle controversie sottoposte in base a compromesso


L’art.273 TFUE prevede una competenza della Corte di giustizia di carattere facoltativo, nel senso che essa
non è istituita direttamente dai Trattati europei, ma è attribuita alla Corte di comune accordo dalle parti di una
controversia.
Articolo 273
La Corte di giustizia è competente a conoscere di qualsiasi controversia tra Stati membri in connessione con l'oggetto
dei trattati, quando tale controversia le venga sottoposta in virtù di un compromesso.

Le condizioni richieste dall’art.273 TFUE affinché possa essere istituita la competenza della Corte sono le
seguenti:
1. deve trattarsi di una controversia tra stati membri dell’Unione, con esclusione, quindi di controversie
delle quali siano parti anche Stati terzi o organizzazioni internazionali
2. la controversia presenti una connessione con l’oggetto dei Trattati
3. occorre che la controversia sia sottoposta alla Corte in base ad un compromesso. Questo è l’accordo
con il quale gli Stati parte di una controversia convengono di sottoporla alla decisione di un terzo,
assumendo preventivamente l’obbligo di vincolarsi al rispetto della sentenza da lui emanata. Il terzo
può essere un arbitro designato o costituito dalle parti stesse per lo svolgimento dello specifico
processo o un tribunale precostituito di carattere permanente, come la Corte di Giustizia.

I rapporti tra l’ordinamento dell’Unione europea e quello italiano


Il fondamento costituzionale del trasferimento di poteri sovrani all’Unione europea
I Trattati istitutivi delle Comunità europee comportano una sia pur parziale trasferimento dei poteri sovrani, in
particolare di competenze legislative e giudiziarie, dagli Stati membri alle istituzioni europee. Essi introducono
negli ordinamenti giuridici degli Stati membri delle fonti di diritto e istituiscono un sistema giurisdizionale.
Numerosi Stati membri hanno dato esecuzione ai Trattati con legge costituzionale o mediante l'emanazione di
norme costituzionali, per rendere compatibile con la propria costituzione il suddetto trasferimento di poteri,
fornendo ad esso un fondamento e una giustificazione costituzionale.
In Italia, l'autorizzazione alla ratifica e l'ordine di esecuzione dei Trattati istitutivi delle Comunità europee sono
stati dati con legge ordinaria, non costituzionale, essendo improbabile l'adozione di quest'ultima a causa di
una forte opposizione ostile, all'epoca, all'integrazione europea.
Di conseguenza, si è posta ben presto, dinanzi alla Corte Costituzionale italiana, la questione della legittimità
costituzionale di tali leggi.
La Corte, sin dalla sentenza del 7 marzo 1964 n.14 (Costa c. ENEL), ha dichiarato che le leggi di
autorizzazione alla ratifica e di esecuzione dei Trattati comunitari (come di quelli modificativi) trovano un
fondamento nell'art. 11 Cost. nella parte in cui dichiara:
“L'Italia [...] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo”

Benché nata, principalmente, per favorire la partecipazione dell'Italia all'Organizzazione delle Nazioni Unite,
tale disposizione è stata considerata idonea a consentire "limitazioni di sovranità" e, quindi, a permettere al
legislatore ordinario di effettuare tali limitazioni.

Il primato del diritto dell’Unione europea direttamente applicabile su quello italiano in caso d’incompatibilità
Si poneva un ulteriore problema concernente la prevalenza del diritto dell'Unione europea o, viceversa, di
quello interno nell'ipotesi di contrasto tra le norme dei due ordinamenti. Il problema riguardava le norme
europee direttamente applicabili; per le altre disposizioni dell'Unione, come quelle di una direttiva, in principio il
contrasto richiede un intervento del legislatore italiano, mentre, a causa del loro carattere non self executing,
incompleto, il giudice non può comunque dare la preferenza alle suddette disposizioni europee.
La posizione originaria della Corte costituzionale, espressa nella stessa sentenza Costa e. ENEL del 7 marzo
1964, era nel senso che, essendo stati resi esecutivi i Trattati europei con legge ordinaria, le disposizioni del
diritto europeo non avevano un'efficacia superiore a quella propria della legge ordinaria (applicazione del
principio lex posterior derogat priori).
Tale tesi incontrò un'immediata reazione della Corte di giustizia, la quale, pronunciandosi in via pregiudiziale
affermò il primato del diritto europeo (direttamente applicabile) sulle norme interne contrastanti e l'invalidità di
tali norme. Secondo la Corte di giustizia, infatti, a seguito dell'originario (volontario) trasferimento di sovranità
da parte degli Stati membri, il diritto dell'Unione si integra negli ordinamenti degli Stati membri in una posizione
gerarchicamente sovraordinata.
Sentenza Costa c. ENEL (CGUE): "A differenza dei comuni Trattati internazionali, il Trattato CEE ha istituito
un proprio ordinamento giuridico, integrato nell'ordinamento giuridico degli Stati membri. Se l'efficacia del
diritto comunitario variasse da uno Stato all'altro in funzione delle leggi interne posteriori, ciò metterebbe in
pericolo l'attuazione degli scopi del Trattato. La preminenza del diritto comunitario trova conferma nell'art. 288
TFUE, a norma del quale i regolamenti sono obbligatori e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati
membri. Il trasferimento, effettuato dagli Stati a favore dell’ordinamento giuridico comunitario, dei diritti e degli
obblighi corrispondenti alle disposizioni del Trattato implica quindi una limitazione definitiva dei loro diritto
sovrani, di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile col sistema della Comunità sarebbe del
tutto privo di efficacia.”
Il dissidio tra le due Corti (nel 1964) non poteva essere più netto: pari efficacia delle disposizioni europee e di
quelle interne, con conseguente applicazione della legge interna successiva, in caso d'incompatibilità,
secondo la Corte costituzionale; inefficacia della legge interna posteriore e primato del diritto europeo, con
applicazione di quest'ultimo, secondo la Corte di giustizia. Negli anni successivi la nostra Corte ha compiuto
una marcia di avvicinamento che ha condotto infine ad una composizione di tale dissidio.
Un primo passo è stato compiuto con la sentenza n.232 del 1975, Società e industrie chimiche dell'Italia
centrale. In essa si stabilisce l'emanazione di leggi successive incompatibili, o anche solo riproduttive rispetto
a regolamenti europei, comporta violazione indiretta dell'art. 11 Cost. Di conseguenza, il giudice, di fronte a
leggi incompatibili con regolamenti europei, è tenuto a sollevare la questione della loro legittimità
costituzionale; spetta, quindi, alla stessa Corte costituzionale pronunciarsi sulla questione, dichiarando
l'incostituzionalità di siffatte leggi.
La Corte di giustizia, peraltro, non approvò la posizione della Corte costituzionale, poiché essa implicava la
necessità di una pronuncia di quest'ultima affinché fosse eliminata la legge interna incompatibile e ciò
pregiudicava sia l'efficacia diretta del regolamento, sia la sua entrata in vigore simultanea in tutti gli Stati
membri.
Nella sentenza del 1978, Simmenthal, la Corte di giustizia ha affermato che:
"Il giudice nazionale […] ha l'obbligo di garantire la piena efficacia delle norme del diritto dell’Unione,
disapplicando all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante con la legislazione
nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o
mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale."
Tale soluzione, secondo la Corte di giustizia, discende dallo stesso concetto di applicabilità diretta.
La Corte di Giustizia ha costantemente ribadito che il giudice nazionale, nell’ipotesi di contrasto della propria
legislazione con il diritto dell’Unione deve disapplicare di propria iniziativa la suddetta legislazione, senza
attendere una rimozione della stessa mediante una pronuncia di un tribunale costituzionale.
La Corte costituzionale ha compiuto un'ulteriore e decisiva svolta con la celebre sentenza del 1988, Granital.
La Corte ribadisce una costruzione dualista dell'ordinamento dell'Unione europea e di quello nazionale, visti
come ordinamenti autonomi e distinti, sebbene coordinati. Dichiara che l'art. 11 Cost. implica non già
l'invalidità della legge statale successiva in contrasto con norme europee direttamente applicabili, ma la sua
disapplicazione da parte del giudice comune. Per tale via, pur rifiutando la tesi (della Corte di Lussemburgo) di
una preminenza gerarchica del diritto europeo su quello nazionale, che resta valido ed efficace, la Corte
costituzionale giunge praticamente al medesimo risultato di garantire il primato del diritto dell'Unione in
maniera automatica.

L’evoluzione della giurisprudenza europea e di quella costituzionale


Il primato del diritto dell’Unione è affermato dalla Corte di giustizia anche nei confronti di norme interne di
rango costituzionale. Sin da una sentenza del 1970 essa ha dichiarato: "Il fatto che siano menomati vuoi i diritti
fondamentali sanciti dalla Costituzione di uno Stato membro, vuoi i principi di una Costituzione nazionale, non
può sminuire la validità di un atto della Comunità né la sua efficacia nel territorio dello stesso Stato."
Inoltre, l'obbligo di assicurare il primato del diritto europeo fa capo non solo ai giudici, ma anche alla pubblica
amministrazione, comprese le autorità indipendenti, quale la nostra Autorità della concorrenza e del mercato.
La giurisprudenza costituzionale ha ampliato la categoria degli atti direttamente applicabili, uniformandosi ai
principi elaborati parallelamente dalla Corte di giustizia. Così, l'obbligo del giudice di non applicare le norme
statali è stato riconosciuto nei confronti di sentenze interpretative della Corte di giustizia, emanate in via
pregiudiziale o a seguito di una procedura di infrazione, ove riguardino norme europee direttamente
applicabili.
La prevalenza viene estesa anche alle direttive, purché provviste di effetti diretti, cioè se le loro disposizioni
appaiono incondizionate, chiare e sufficientemente precise.
La Corte Costituzionale ha dichiarato che è obbligo del legislatore “depurare” l’ordinamento nazionale da
norme incompatibili con il diritto dell’Unione per un’esigenza sia di certezza del diritto sia prevalenza del diritto
comunitario. Va sottolineata la modifica della Costituzione italiana attuata con legge costituzionale n. 3 del
2001, la quale ha inserito nell'art. 117 un primo comma così formulato:
"La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali".
Questa disposizione non ha modificato il quadro dei rapporti tra il diritto dell'Unione e quello italiano risultante
dalla giurisprudenza costituzionale, ma ha esplicitato e confermato il fondamento costituzionale della
limitazione di sovranità a favore dell'Unione europea, ricavato - forse al prezzo di qualche forzatura
interpretativa, dall'art. 11 Cost.
Ai sensi della sentenza n. 227 del 2010 tale limite alla funzione legislativa è "solo uno degli elementi rilevanti
del rapporto tra diritto interno e diritto UE. Restano infatti ben ferme tutte le conseguenze che derivano dalle
limitazioni di sovranità che solo l'art. 11 consente, sul piano sostanziale e sul piano processuale, per
l'amministrazione e i giudici". A cominciare dal "potere-dovere del giudice comune, e prima ancora
dell'amministrazione, di dare immediata applicazione alle norme comunitarie provviste di effetto diretto in
luogo di norme nazionali che siano con esse in contrasto insanabile in via interpretativa".

I “controlimiti” al diritto dell’Unione europea e le residue competenze della Corte Costituzionale


Come si è visto, nel caso di contrasto tra le norme nazionali e il diritto dell’Unione direttamente applicabile è compito del
giudice comune (nonché della pubblica amministrazione) disapplicare le suddette norme in base alla limitazione di
sovranità fondata sull'art. 11 Cost.
La questione di costituzionalità (fondata sulla violazione degli articoli 11 e 117, 1° comma, Cost.), che fosse
sottoposta alla Corte costituzionale, pertanto, sarebbe destinata (come di fatto avviene) ad essere dichiarata
inammissibile dalla stessa Corte costituzionale.
Ciò non significa, peraltro, che la limitazione di sovranità a favore dell'Unione con la conseguente prevalenza
delle norme europee e disapplicazione di quelle interne incompatibili, operi senza eccezioni; né che la Corte
costituzionale si sia "autoesclusa" completamente dal terreno dei rapporti tra diritto dell'Unione e nazionale.
Anzitutto va segnalato che la stessa Corte costituzionale, ha elaborato una teoria dei "controlimiti"; dei principi
nazionali, cioè, che vanno necessariamente salvaguardati e che, a loro volta, limitano la prevalenza del diritto
dell'Unione.
I controlimiti consistono nei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e nei diritti inalienabili
della persona umana.
Ove una disposizione o un atto dell'Unione violassero un siffatto principio o un diritto umano fondamentale, il
giudice comune deve sottoporre alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale della legge
italiana di esecuzione dei Trattati europei, in riferimento alle singole disposizioni o atti in conflitto con detti
principi o diritto fondamentali.
Vi è una seconda ipotesi nella quale la Corte costituzionale ha affermato una propria competenza esclusiva. È
il caso, che potremmo chiamare di "ribellione del legislatore", nel quale la legge ordinaria è deliberatamente
diretta a "impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato, in relazione al sistema o al nucleo
essenziale dei suoi principi", come quelli concernenti l'instaurazione di un mercato comune. In questa ipotesi
la Corte deve accertare, infatti, se il legislatore ordinario abbia ingiustificatamente rimosso un limite alla
sovranità statale, posto in adempimento dell'art. 11 Cost.
Negli anni '90 emerge una terza fattispecie nella quale il dissidio tra diritto interno e diritto dell'Unione Europea
va risolto dalla Corte costituzionale. Ci riferiamo alla competenza della stessa Corte a conoscere, in via
principale, dei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e di quelli tra lo Stato e le regioni, e tra le regioni. In
particolare, quando la legge (regionale o statale) impugnata rilevi un contrasto con il diritto dell'Unione,
esigenze di certezza e chiarezza normativa, da un lato, e di pieno e corretto adempimento degli obblighi
derivanti dal diritto dell’Unione, impongono una dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte
costituzionale, tenuto conto che non vi sarebbe alcun giudice comune competente a statuire sul conflitto e,
quindi, a disapplicare la legge in questione.
Vi è ancora un'ipotesi che si verifica quando le disposizioni dell'Unione non siano direttamente applicabili (si
pensi a una direttiva non self-executing), per cui, pur disapplicando le norme interne contrastanti, il giudice
ordinario non potrebbe ritrovare una disciplina europea sufficientemente completa per regolare il caso. Il
giudice comune può sollevare questione di legittimità costituzionale per asserita violazione dell'art. 11 e 117,
1° comma Cost.

L’adeguamento legislativo del diritto italiano al diritto dell’Unione europea. La “legge di delegazione europea” e
la “legge europea”
La prassi originariamente seguita dal nostro Stato per dare esecuzione agli atti europei è consistita,
principalmente, nell'adozione di leggi che delegavano il governo ad emanare una serie di decreti legislativi
volti a dare attuazione a un “pacchetto” di direttive indicate nella legge di delega.
Il ricorso allo strumento della delega al governo avveniva, di solito, sotto l'urgenza di eseguire direttive il cui
termine di attuazione era già scaduto o per porre rimedio alle sentenze della Corte di giustizia pronunciate nel
quadro della procedura d'infrazione.
Il sistema era giustamente criticato. Anzitutto esso non appariva pienamente conforme al dettato
costituzionale dell'art. 76 Cost.
Art. 76 Cost
L'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non con determinazione di principi
e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.
In realtà gli oggetti della delega erano estremamente diversificati, in rapporto all'oggetto delle direttive da
attuare, né emergevano propriamente dei criteri direttivi. Il ricorso ad una normativa di emergenza non
assicurava, in ogni caso, un tempestivo adempimento degli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione.
Una disciplina organica della materia è data dalla legge n. 86 del 1989 ("Norme generali sulla partecipazione
dell'Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari"), c.d.
legge La Pergola, che aveva un duplice oggetto:
1. regolare le forme di partecipazione del Parlamento e delle regioni alla formazione di atti comunitari
(cd. fase ascendente);
2. garantire l'adempimento degli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee;
Strumento centrale per garantire tale adempimento era la "legge comunitaria"; essa, da emanarsi
annualmente, conteneva "disposizioni per l'adempimento degli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia
alle Comunità europee".
La legge "La Pergola" era stata più volte modificata, anche per adeguarla all'evoluzione normativa dell'UE,
finché la legge non è stata abrogata e sostituita con legge n. 11 del 2005 (c.d legge Buttiglione). Quest'ultima,
rispettando lo schema generale, i principi ispiratori e gli strumenti di attuazione della legge La Pergola, ne
costituiva un opportuno e apprezzabile ammodernamento. Essa ha subito ulteriori modifiche fino ad arrivare
alla ulteriore abrogazione e sostituzione con legge n. 234 del 2012.
La tempestiva attuazione delle direttive e degli altri obblighi derivanti dal diritto dell'Unione è assicurata non più
da una legge comunitaria annuale, ma da due distinte leggi: la legge di delegazione europea e la legge
europea (anch'esse hanno cadenza annuale, ma nel caso di ulteriori esigenze di adempimento di obblighi
derivanti dal diritto dell’Unione, può essere emanata un’altra legge di delegazione europea riferibile al secondo
semestre dello stesso anno).
La legge di delegazione europea reca disposizioni per il conferimento al governo di delega legislativa volta
all'attuazione delle direttive, nonché per la modifica o l'abrogazione di disposizioni statali al fine di eseguire i
pareri motivati della Commissione o le sentenze di inadempimento della Corte di giustizia, emanate nel quadro
della procedura di infrazione ex art. 258 ss. TFUE.
Per quanto riguarda le direttive, di norma il Governo adotta i decreti legislativi di recepimento entro due mesi
anteriori al termine stabilito in ciascuna direttiva.
Il Governo può recepire in via regolamentare le direttive.
Va inoltre notato che l’autorizzazione del Governo ad attuare in via regolamentare è consentita anche in
materie già disciplinate con legge (delegificazione) ma non coperte da riserva assoluta di legge. Ciò si
giustifica osservando che è la stessa legge di delegazione europea, contenente l’autorizzazione all’attuazione
in via regolamentare, che incide sulla precedente legge (individuando espressamente le norme vigenti da
abrogare) aprendo, per così dire uno spazio delegificato per l’inserimento delle norme regolamentari.
La legge europea contiene le disposizioni modificative o abrogative di norme interne oggetto di procedure di
infrazione o di sentenze della Corte di giustizia, quelle necessarie per dare attuazione agli atti dell'Unione
europea ed ai Trattati internazionali conclusi dall'UE e quelle emanate nell'ambito del potere sostitutivo.
I contenuti della legge di delegazione europea e della legge europea non risultano nettamente distinti ma, al
contrario, appaiono in parte sovrapponibili. Nella misura in cui determinate disposizioni siano adottabili sia con
legge di delegazione che con legge europea, la scelta tra le due opzioni spetta in definitiva al Parlamento, alla
luce delle proprie valutazioni politiche e tecniche.
L’elaborazione della legge di delegazione europea e della legge europea prende l’avvio con a verifica, da
parte del Presidente del Consiglio o del Ministro per gli affari europei, con la collaborazione delle
amministrazioni interessate dello stato di conformità dell’ordinamento interno e degli indirizzi di politica del
Governo in relazione agli atti normativi e “di indirizzo” emanati dall’UE. All’esito di tale verifica il Presidente del
Consiglio o il Ministro per gli affari europei, di concerto con il Ministro per gli affari esteri e con gli altri ministri
interessati, entro il 28 febbraio di ogni anno presenta al Parlamento un disegno di legge recante il titolo:
“Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea”,
completato dall’indicazione “legge di delegazione europea” seguita dell’anno di riferimento. Gli stessi soggetti
presentano altresì al Parlamento un disegno di legge recante il titolo “Disposizioni per l’adempimento degli
obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea” completato dall’indicazione “legge europea”
seguita anch’essa dall’anno di riferimento.
La recente legge n. 234 del 2012 contempla espressamente la possibilità di adempiere obblighi derivanti dal
diritto dell'Unione mediante disposizioni diverse dalla legge di delegazione europea e dalla legge europea, in
specie qualora siano necessarie misure urgenti o in casi di particolare importanza politica, economica e
sociale.
Non è esclusa la possibilità di adottare al di fuori di queste due leggi le norme di attuazione degli obblighi
conseguenti a singoli atti dell'Unione. In tal caso lo strumento più utilizzato è il decreto-legge.
Di particolare importanza è poi la legge costituzionale n. 1 del 2012, che introduce il principio del pareggio di
bilancio nella Carta costituzionale, in esecuzione dell'obbligo stabilito nell'art. 3, par. 2, del Trattato di Bruxelles
del 2012 (Fiscal Compact).

Il ruolo delle regioni nell’attuazione del diritto dell’Unione europea


L'attuazione del diritto dell'Unione Europea comporta anche un delicato problema di riparto di competenze tra
lo Stato e le regioni (nonché le province autonome di Trento e di Bolzano). Frequentemente, le materie
oggetto di atti dell'Unione ricadono, a livello interno, nella competenza legislativa delle regioni e tale fenomeno
si è ovviamente intensificato con la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione la quale ha
ampliato notevolmente la sfera di competenza delle regioni. Occorre, pertanto, stabilire se, ed in quale misura,
alle regioni spetti anche la competenza, nelle suddette materie, a dare esecuzione agli obblighi europei ed,
eventualmente, in quale modo le competenze delle regioni vadano coordinate con quelle dello Stato.
In proposito sia la giurisprudenza costituzionale che la legislazione (costituzionale e ordinaria) hanno compiuto
un lungo cammino, che ha condotto da un originario assetto "statalista" e "centralista" del riparto di
competenze tra Stato e regioni ad un rapporto più equilibrato e rispettoso del ruolo che la Costituzione
riconosce alle regioni.
In questa materia vanno conciliati due principi fondamentali:
 il rispetto delle competenze delle regioni;
 la responsabilità dello Stato per l'attuazione degli obblighi derivanti dall’Unione, essendo lo Stati l'unico
interlocutore dell'Unione e l'unico responsabile.
In una prima fase, la preoccupazione di evitare una responsabilità dello Stato per il comportamento delle
regioni aveva condotto a concentrare nello Stato la competenza a dare attuazione agli obblighi comunitari.
Successivamente era stato riconosciuto un certo margine di competenza delle regioni in materia, prevedendo
dei meccanismi di intervento sostitutivo dello Stato nell'ipotesi di inadempimento delle regioni.
In senso più favorevole alle regioni, è intervenuta la legge costituzionale n. 3 del 2001. Essa, nel testo
novellato dell'art. 117, 5° comma, Cost., dichiara:
“Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle
decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari [oggi dell'Unione] e provvedono all'attuazione e
all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione Europea, nel rispetto delle norme di
procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di
inadempienza”
Prescindendo dalla partecipazione alla fase “ascendente” di formazione degli atti dell’Unione, è così
riconosciuta a livello costituzionale la competenza delle regioni (e delle province autonome) a dare attuazione,
nella fase “discendente” a tali atti; peraltro anche il potere sostitutivo dello Stato è garantito a livello
costituzionale, al fine di evitare che dall’eventuale inerzia delle regioni derivi la responsabilità dello Stato nei
confronti dell’Unione europea.
L'art. 117, 5° comma, Cost. va coordinato con il 3° comma, ai sensi del quale nelle materie di legislazione
concorrente la potestà legislativa delle regioni è subordinata ai principi fondamentali posti con legge statale.
Pertanto, mentre in materie di competenza esclusiva delle regioni queste sono sottoposte al solo potere
sostitutivo dello Stato in caso di loro inadempienza, in quelle di legislazione concorrente sussiste il limite dei
principi fondamentali contenuti nella legge statale.
Va ricordata, infine, un'ulteriore disposizione costituzionale sul potere sostitutivo dello Stato, posta nell'art.
120, 2° comma. In base a tale norma il governo può sostituirsi a organi delle regioni (come delle città
metropolitane, delle province e dei comuni) nel caso, tra l'altro, di mancato rispetto della normativa europea.
La materia trova oggi compiuta disciplina nella legge n. 234 del 2012, che riafferma che le regioni e le
province autonome, nelle materie di propria competenza, provvedono al recepimento delle direttive
dell'Unione.
Il contenuto della legge di delegazione europea prevede disposizioni che individuano i principi fondamentali
nel rispetto dei quali, nelle materie di competenza legislativa concorrente, le regioni e le province autonome
esercitano la propria competenza normativa per recepire o assicurare l'applicazione di atti dell'UE.
Per quanto riguarda il potere sostitutivo dello Stato nel caso di inerzia delle regioni e delle province autonome,
le necessarie disposizioni sono contenute nella legge europea.
Il potere sostitutivo dello Stato è anche cedevole, poiché la normativa è destinata a cedere il passo alla
legislazione regionale non appena sia venuta meno la ragione della sostituzione dello Stato.
Inoltre, allo Stato è attribuito un diritto di rivalsa per gli oneri finanziari conseguenti alla violazione di obblighi
derivanti dall'UE dagli enti locali.
Si noti che numerose regioni, prendendo a modello la legge comunitaria statale introdotto dalla legge “La
Pergola”, hanno previsto, nell'ambito delle proprie competenze, l'adozione di una "legge comunitaria
regionale". La disciplina di tale legge è contenuta, generalmente, sia negli statuti di tali regioni che in
specifiche leggi regionali.

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