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CORTE COSTITUZIONALE: Sentenza 24 febbraio 2017 n°

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- MASSIMA DELLA SENTENZA


“L’attrazione di una sanzione amministrativa nell’ambito della materia penale in virtù dei
menzionati criteri (Engel) trascina […] con sé tutte e soltanto le garanzie previste pertinenti
disposizioni della Convenzione, come elaborate dalla Corte di Strasburgo. Rimane, invece, nel
margine di apprezzamento di cui gode ciascuno Stato aderente la definizione dell’ambito di
applicazione delle ulteriori tutele predisposte dal diritto nazionale, in sé e per sé valevoli per i soli
precetti e le sole sanzioni che l’ordinamento interno considera espressione della potestà punitiva
dello Stato, secondo i propri criteri. Ciò, del resto, corrisponde alla natura della Convenzione
europea e del sistema di garanzie da essa approntato, volto a garantire una soglia minima di tutela
comune, in funzione sussidiaria rispetto alle garanzie assicurate dalle Costituzioni nazionali. Detto
diversamente, ciò che per la giurisprudenza europea ha natura “penale” deve essere assistito dalle
garanzie che la stessa ha elaborato per la “materia penale”; mentre solo ciò che è penale per
l’ordinamento nazionale beneficia degli ulteriori presidi rinvenibili nella legislazione interna”.

- MOTIVI DELLA SCELTA


La scelta è ricaduta su questa particolare sentenza poiché, a mio modesto parere, ritenuta
particolarmente esplicativa riguardo ai risvolti pratici della nozione di “sanzione amministrativa
sostanzialmente penale” elaborata dalla Corte di Strasburgo, soprattutto se confrontata con la
nozione di “materia penale” nel nostro ordinamento interno, permetterebbe di comprendere il
concreto funzionamento degli Engel criteria, i quali presentano comunque margini abbastanza
ampi di genericità nonostante le interpretazioni della stessa Corte. Queste criticità, purtroppo
fisiologiche in una materia che non può ammettere interpretazioni restrittive potrebbero condurre
anche ad assumere decisioni che si presentino sostanzialmente inique, come nel caso di cui si
tratterà di seguito (pensiero personale). Considerando poi che la tutela fissata dalla Convenzione
rappresenti uno standard minimo, non si comprende ragione per cui il principio Nulla poena sine
lege non si possa applicare estensivamente, nei suoi risvolti eliminatori, anche al caso in esame.
Risulta comunque interessante osservare le argomentazioni addotte dalla Corte Costituzionale,
che, seppur da me per gran parte non condivise, sono state spunto di riflessione riguardo la
cogente necessità di una comunicazione ancora maggiore tra la nostra Suprema Corte e la Corte
EDU, così da evitare interpretazioni interne non del tutto in linea con la ratio delle garanzie penali
sancite dalla CEDU e dalla relativa giurisprudenza.

- SINTESI DEI FATTI RILEVANTI


Il caso da cui trae origine questa sentenza della Corte Costituzionale, sollevato dal Tribunale di
Como, si incentra su una controversia in cui il ricorrente nel giudizio di opposizione a delle cartelle
di pagamento ex ART.615 cpc (a quo) riguardante una sanzione amministrativa di euro 177.000 ex
ART. 18bis comma 4 D.Lgs. 66/2003, inerente alla violazione della durata dell’orario di lavoro e i
riposi giornalieri e settimanali spettanti ai dipendenti. Prima di arrivare a questo giudizio, al
ricorrente, in qualità di datore di lavoro, venne inflitta la citata sanzione amministrativa. Però, a
seguito del passaggio in giudicato della sentenza conclusiva del giudizio di cognizione,
precisamente nel 2014, il suddetto 18bis venne dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla
Corte Costituzionale per eccesso di delega.
La pronuncia in questione prende in esame un dubbio di legittimità costituzionale insito
nell’ART.30 comma 4 della Legge 87/1953. Questa norma, nel nostro ordinamento, configura un
principio fondamentale della materia penale, perché statuisce che se è pronunciata sentenza
irrevocabile di condanna in forza di una norma penale dichiarata incostituzionale successivamente
al passaggio in giudicato di questa, devono cessare l’esecuzione e gli effetti penali da essa previsti.
Considerando poi la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e gli ARTT. 6-7 CEDU, la nozione di
“penale” si estenderebbe anche alle sanzioni amministrative di gravità penalistica. Quindi si chiede
alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale del suddetto ART.30, per contrasto con gli
ART.117 Cost. e ARTT.6-7 CEDU, nella parte in cui non prevede la rimozione degli effetti della
sentenza infliggente sanzioni amministrative considerate sostanzialmente penali (secondo i criteri
Engel) previste da una disposizione poi successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima.

- ANALISI CRITICA ARGOMENTI PRESCELTI


Un primo argomento enunciato dal giudice a quo è la sospetta incostituzionalità del già citato
ART.30.4 Legge 87/53 (cessazione degli effetti della sentenza penale a seguito di declaratoria di
illegittimità costituzionale) nella parte in cui non estende questa garanzia alla materia delle
sanzioni amministrative “sostanzialmente penali”, per contrasto con gli ARTT. 117 Cost (norma
interposta, valida anche per l’ingresso nel nostro ordinamento delle norme CEDU) e 25 commi 2-3
(Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere
In questo modo si invocano gli Engel criteria a
sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge).
favore di un’ interpretazione dell’ART.30.4 che sostanzialmente equipari gli effetti dell’abrogazione
di una norma penale alla norma amministrativa a contenuto sanzionatorio-afflittivo, a ragione del
fatto che lo stesso articolo debba intendersi come espressione del principio di legalità. La necessità
di estendere queste garanzie discenderebbe anche dall’ART.3 Cost, che assicura la parità di
trattamento e il principio di ragionevolezza. Inoltre, si segnala che anche la Corte di Cassazione in
materia penale, in alcune ordinanze antecedenti, aveva lasciato intendere di aver adottato
un’interpretazione espansiva dell’ART.30.4, orientata verso l’applicazione di questa norma alle
sanzioni amministrative. La Corte, però, dichiara questa censura infondata perché, a suo dire,
sarebbe competenza del legislatore italiano scegliere le garanzie per le disposizioni a contenuto
penale nel diritto interno, e, soprattutto spetterebbe allo stesso legislatore selezionare le garanzie
da applicare in materia di sanzioni amministrative, e non alla Corte. Inoltre sottolinea la diversità
riscontrabile tra l’esecuzione delle sanzioni amministrative e l’esecuzione delle sanzioni penali :
sarebbero due esecuzioni che non ammettono comparazione tra loro, perché essenzialmente
diverse. Questa diversità assicurerebbe, peraltro, la ragionevolezza nella diversità di trattamento.
Ulteriore argomento è la ricostruzione, fatta ancora una volta dal giudice a quo, della nozione di
sanzione amministrativa “sostanzialmente penale” alla luce della giurisprudenza CEDU. Dal quadro
che emerge sarebbero qualificabili come “pene” quelle sanzioni che siano rivolte essenzialmente a
tutti i consociati, abbiano contenuto sanzionatorio-repressivo o comunque una gravità penalistica.
Quindi si dovrebbe concludere che con la declaratoria di illegittimità di una norma contenente
sanzioni di questo tipo si dovrebbe garantire la cessazione degli effetti della sentenza. La Corte
risponde, ancora una volta ritenendo infondata la questione, a causa del fatto che all’interno della
giurisprudenza CEDU non esisterebbe una disposizione analoga a quella richiesta in aggiunta
all’ART.30.4, anche perché l’ART.7 CEDU non fornirebbe alcuno spunto in questo senso, neppure
nella nota sentenza Scoppola vs Italia. Ma non solo, perché la Corte si spinge in un’analisi più vasta
delle garanzie dell’ART.7, affermando che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo non
sarebbe desumibile un principio che stabilisca la riapertura di una questione già assoggettata al
regime della res iudicata per l’applicazione alla fattispecie di una norma a regime sanzionatorio più
favorevole in caso di dichiarazione di illegittimità della norma che prevede la sanzione
amministrativa applicata alla medesima fattispecie, ma si limita a garantire l’applicazione della lex
posterior più favorevole solo dove non vi sia ancora stata una condanna in via definitiva. Se così
non fosse, a detta della Corte Costituzionale, si arriverebbe a mettere in dubbio il principio di
intangibilità del giudicato, ma ancora una volta non è possibile riscontrare alcun precedente CEDU
a riguardo.

- RAPPORTI CON GIURISPRUDENZA PRECEDENTE/SUCCESSIVA


Già in una precedente sentenza, la n°193 del 20 luglio 2016, la Corte Costituzionale aveva
affrontato una questione inerente al principio della retroattività della legge successiva più
favorevole, letta alla luce dell’interpretazione della giurisprudenza dell’ART.7 CEDU. In quel
contesto, il giudice remittente (ancora una volta del Tribunale di Como) aveva sollevato un dubbio
di legittimità costituzionale circa l’ART.1 Legge 689/1981 ( Nessuno può essere assoggettato a
sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione
della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i
tempi in esse considerati )nella parte in cui non prevede l’applicazione della lex posterior più
favorevole anche all’illecito amministrativo con sostanza penale secondo i parametri CEDU, per
violazione con gli ARTT.117 e 3 Cost. La Corte aveva risposto alle censure svolgendo, anche in
quell’occasione, un’analisi dei principi della giurisprudenza CEDU, ancora una volta con esito
negativo. Difatti nella sentenza affermava: “non si rinviene nel quadro delle garanzie apprestato dalla
CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, l'affermazione di un vincolo di matrice convenzionale
in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del
principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni
amministrative”. Inoltre rispetto alla censura proposta ex ART.3 rispondeva che non è previsto alcun
vincolo costituzionale che richieda, in materia di sanzioni amministrative, “ l'applicazione in ogni
caso della legge successiva più favorevole ”. Sarebbe infatti compito del legislatore, nel limite della
ragionevolezza, “modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore in base
alle materie oggetto di disciplina“. Per queste ragioni la Corte dichiarava infondata la questione, però
ammetteva la possibilità di applicare singole disposizioni successive più favorevoli in materia di
sanzioni amministrative se queste ultime, interpretate nel caso concreto, avessero presentato
caratteri coincidenti con quelli descritti dai criteri Engel, in quanto etichettate come
amministrative ma in sostanza “penali”. Successivamente, con la Sentenza 68/2017, pubblicata a
distanza di pochi mesi dalla pronuncia esaminata in questo documento, la Corte Costituzionale
affronta il tema analogo dell’applicazione retroattiva dell’istituto della “confisca per equivalente” a
proposito dell’illecito amministrativo “abuso di informazioni privilegiate”. La questione era stata
sollevata dalla Corte di Cassazione e si incentrava sull’ART.9 della Legge 62/2005, il quale aveva
sancito la depenalizzazione del delitto di “abuso di informazioni privilegiate”(introdotto con
l’ART.184 D.Lgs. 59/1998), tramutandolo in illecito amministrativo, oggi previsto nell’ART.187bis
T.U.F. Il citato ART.9, nel comma sesto, stabiliva che quanto dalla Legge 62/2005 stabilito, dovesse
applicarsi “anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della presente
legge che le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia stato definito. Per ogni
altro effetto si applica l’articolo 2 del codice penale”,
quindi anche retroattivamente, salvo il limite del
giudicato. La Cassazione, sollevando la questione, lamentava una possibile frizione con gli ARTT.
117 e 25.2 che sancivano il principio di irretroattività in peius della legge penale, come enunciato
anche dall’ART.7 CEDU altresì per le sanzioni amministrative a sostanza afflittiva. Si tenga presente
che la norma sulla fattispecie prevede una sanzione amministrativa pecuniaria fino a 15 milioni di
euro, più la confisca diretta, e, ove quest’ultima non sia possibile, la confisca per equivalente,
mentre la precedente norma penale sanzionava la commissione dell’illecito con reclusione fino ad
anni 2, fino a 600 milioni di lire di multa (circa 310.000 euro attuali) e la sola confisca diretta (ove
possibile) : senza dubbio, nonostante la depenalizzazione, l’inasprimento della sanzione è
evidente. La Corte Costituzionale però rigettava la questione, ancora una volta, per infondatezza,
asserendo che il legislatore, nonostante la fattispecie fosse stata depenalizzata, aveva comunque
inteso conservare la qualificazione di questa in termini di antigiuridicità “per mezzo della sanzione
amministrativa, considerando quest’ultima in sé più favorevole della precedente pena, benché connotata
dalla confisca di valore”. Rispondeva inoltre che, sulla base dell’interpretazione della Corte EDU
dell’ART.7 CEDU, ciò che questo articolo impedisce è l’applicazione retroattiva di una disciplina che
nel complesso figuri come peggiorativa rispetto a quella prevista al momento della commissione
dell’illecito. Se, invece, la nuova disciplina si presenti comunque nel complesso più vantaggiosa,
non sarebbe riscontrabile nessuna illegittimità costituzionale nella sua retroazione.

- RAPPORTI CON GIURISPRUDENZA EUROPEA


In tema di ART.7 CEDU la Corte di Strasburgo non ha mai avuto occasione di pronunciarsi
direttamente sulla possibile cessazione degli effetti della sentenza passata in giudicato ma non
ancora eseguita, infliggente sanzioni amministrative anche se in sostanza penali nel caso concreto
(come già segnalato). E’ però possibile un confronto con le argomentazioni risultanti dalla
giurisprudenza delle Sentenze Scoppola vs Italia (2009) e Gouarrè Patte vs Andorra (2016).
Questa prima nota pronuncia affronta i temi della successione delle leggi nel tempo e del Nulla
poena sine lege, enunciando principi garantisti del sistema penale. Come già osservato in questa
scheda, “materia penale” è da intendersi riferita anche alle sanzioni amministrative con contenuto
particolarmente punitivo-repressivo. La Corte EDU, innanzitutto, afferma che il principio di
irretroattività della legge penale sfavorevole imponga anche che, nell’ipotesi di legge penale
successiva sulla medesima fattispecie, più favorevole rispetto a quella in vigore al tempo della
commissione dell’illecito, il giudice sia tenuto a dare applicazione a questa, a garanzia del favor rei,
se emanata prima della condanna definitiva. La medesima Corte sottolinea però che essa stessa è
giunta a questa conclusione privilegiando un approccio dinamico ed evolutivo, che “renda le
garanzie concrete ed effettive, e non teoriche ed illusorie”. Questo particolare chiarimento della
Corte, se confrontato con le argomentazioni della nostra Corte Costituzionale nella Sent.43/17,
lascia il dubbio se, nelle interpretazioni di quest’ultima Corte non vi sia una garanzia solamente
teorica : difatti ha evitato una presa di posizione concreta (questo punto sarà poi affrontato
approfonditamente nelle “osservazioni conclusive”). Altro caso interessante da rilevare lo
troviamo nel caso Gouarrè Patte vs Andorra (2016): si tratta di un caso in cui un ginecologo
condannato per abusi sessuali a 5 anni di reclusione e alla pena accessoria dell’ interdizione
dall’esercizio della professione medica. La pena principale non fu eseguita perché intervenne un
provvedimento di grazia. Però, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, il nuovo codice
penale di Andorra ha previsto che la pena accessoria non potesse in concreto superare la durata di
quella principale. Ma non solo: il codice in questione menziona anche l’istituto della procedura di
revisione, anche d’ufficio, dove la legge a regime più favorevole sia entrata in vigore dopo il
passaggio in giudicato della sentenza, ma prima della cessazione dell’esecuzione della pena
detentiva da questa disposta. Al signor Patte non venne riconosciuta, in quanto non più sottoposto
a pena detentiva, ma solamente interdittiva, così si sollevò la questione dinnanzi alla Corte EDU. La
Corte EDU, investita della questione, qualificò la pena interdittiva rientrante nella nozione di
“sanzione penale” ex ART.6 CEDU e, affermando che lo stesso codice penale prevedeva la
revisione nei confronti di qualsiasi soggetto condannato definitivamente, dichiarò una violazione
dell’ART.7 CEDU. Però, questa pronuncia CEDU non confronta direttamente la questione della lex
posterior più favorevole con il principio di intangibilità del giudicato : si limita a supportare il
giudice interno nell’interpretazione di una legge nazionale. Quindi, sussistono ancora margini
evidenti di dubbio sul punto, che, probabilmente saranno chiariti solo quando la Corte giudicherà
direttamente casi in cui la sanzione sia qualificata come “amministrativa” nel nostro diritto
interno.

- OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
Sulla base di quanto precedentemente analizzato, è possibile una riflessione sul contenuto della
decisione adottata dalla Corte Costituzionale. Innanzitutto è evidente la volontà della Consulta di
non prendere posizioni nette sulla questione, deducibile dagli abili tecnicismi utilizzati al fine di
non dare una risposta secca ai quesiti, e dall’affermazione di una competenza del solo legislatore
in materia a pronunciarsi su una eventuale modifica dell’ART.30.4 Legge 87/53. Ciò è corretto, ma
non è raro che la nostra Corte sia intervenuta con una sentenza manipolativa additiva “a rime
obbligate” per integrare disposizioni essenziali non previste da norme di legge (come ad esempio
fece nella Sentenza 117/79): a mio modesto parere, avrebbe potuto benissimo intervenire con una
pronuncia di questo tipo. Una considerazione ulteriore va fatta, per quanto riguarda
l’interpretazione della Convenzione. Essa sancisce che il singolo giudice nazionale è egli stesso
garante dell’applicazione e interpretazione del diritto da essa stabilito, e suo compito è quello di
orientare l’interpretazione delle leggi nazionali in conformità di quanto previsto dalla CEDU stessa,
nonché dalla giurisprudenza derivante. In ordine a questa constatazione la Corte Costituzionale
sarebbe appunto legittimata ad intervenire sulla norma sin qui esaminata anche se la Corte di
Strasburgo non ha avuto ancora modo di intervenire, integrandola in questo modo della garanzia
mancante, così chiarendo un dubbio rilevante su cui permane il silenzio del legislatore.

Giannazzario Tenace - Matricola : 883202 - Anno accademico 2018/

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