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CAPITOLO IV – L’APPLICAZIONE E L’INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE Chiara Grillo

Paragrafo 23 “L’applicazione della legge”


Per applicazione della legge s’intende la concreta realizzazione di quanto è ordinato
dalle regole che compongono l’ordinamento giuridico. Se si tratta di norme di
organizzazione o di struttura, la loro applicazione consiste:
§ nella effettiva creazione degli organi previsti,
§ nel loro funzionamento.
Se si tratta di norme di condotta, la loro applicazione consiste:
§ nel non fare ciò che è proibito,
§ nel fare ciò che è doveroso.
In particolare il diritto privato regola l’agire degli individui nei rapporti tra loro. Tenere un
comportamento coerente con le regole poste dall’ordinamento, prestare ad esse
spontanea osservanza, è il primo modo di dare attuazione alle norme (es. rispettare la
proprietà altrui).
Qualora la tutela del diritto individuale, di fronte alla sua lesione da parte di un altro
soggetto, renda indispensabile il ricorso all’Autorità giurisdizionale, è il giudice ad
applicare la legge, pronunciando i provvedimenti (sentenza, ordinanza, decreto) previsti
dal diritto processuale al fine di dare tutela al diritto sostanziale della parte istante.

Paragrafo 24 “L’interpretazione della legge. Il precedente giurisprudenziale”


L’interpretazione è attività tipica del giurista, che deve confrontarsi con il testo normativo
per comprenderne il valore precettivo, ossia la regola affermata dall’enunciato
legislativo. Interpretare un testo, e in particolare un testo normativo, dunque, non vuol dire
«accertare» un significato univoco che il testo in sé già esprimerebbe, ma attribuire un
senso, decidere che cosa si ritiene che il testo effettivamente significhi e,
conseguentemente, come vadano risolti i conflitti che possono insorgere nella sua
applicazione.
L’attività di interpretazione non può mai esaurirsi nel mero esame dei dati testuali.
In primo luogo, infatti, il significato che viene a molti vocaboli contenuti nelle leggi viene
ricavato da elementi extra-testuali. E difatti lo stesso legislatore, come disposto nell’art.
12 Preleggi, dopo aver prescritto di attribuire alle parole il loro «significato proprio»,
impone di tener conto altresì della «intenzione del legislatore», cui l’interprete non può
risalire se non avvalendosi di elementi extra-testuali.
In secondo luogo, gli enunciati normativi si riferiscono a situazioni ipotetiche e definite in
via generale ed astratta: spetterà all’interprete, di fronte a singoli casi concreti, decidere se
considerarli inclusi nella disciplina dettata dalla singola norma, oppure no, ed a tal fine
l’interprete dovrà impiegare particolari tecniche di «estensione» o di «integrazione» delle
disposizioni della legge, attingendo a criteri di decisione extra-testuali o meta-testuali.
In terzo luogo, le formulazioni delle leggi appaiono non di rado in conflitto fra loro:
conflitti che si superano ricorrendo a criteri di gerarchia tra le fonti (ad es. le norme
costituzionali prevalgono su quelle ordinarie), a criteri cronologici (la norma posteriore
prevale su quella anteriore), a criteri di specialità (lex specialis derogat legi generali; lex
posterior generalis non derogat legi priori speciali).
In quarto luogo, di fronte a ciascun caso singolo difficilmente si può applicare un’unica
norma, ma occorre utilizzare un’ampia combinazione di disposizioni.
Sotto questo profilo assume un ruolo di grande importanza l’ancoraggio dell’attività
ermeneutica ai principi e ai valori fondamentali contenuti nella Costituzione, poiché,
come ha ribadito la Corte costituzionale in più occasioni, tra più significati possibili che si
possono attribuire a una norma deve essere preferito quello conforme alla Costituzione.
Ed anzi una norma può essere dichiarata incostituzionale soltanto quando non sia
possibile darne un’interpretazione conforme a Costituzione. Si parla a tal proposito di
interpretazione costituzionalmente orientata. Si è inoltre ormai consolidato nella
giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione l’orientamento
secondo cui i principi fondamentali della Costituzione non solo vincolano l’opera del
legislatore, ma «entrano direttamente nel contratto» e nei rapporti tra privati, i quali
sono dunque immediatamente vincolati dagli stessi.
Vi sono diversi tipi di interpretazione:
a) quella «dichiarativa», che consiste nell’ attribuzione a un documento legislativo del
senso più immediato e intuitivo; a questo proposito, il brocardo in claris non fit
interpretatio prescrive di attenersi, se la lettera della legge non è oscura, a
un’interpretazione di questo tipo;
b) quella «correttiva», che consiste nell’attribuzione ad una disposizione di un significato
diverso da quello che apparirebbe esserle «proprio», quindi diverso da quello letterale
e si ha nelle due forme di interpretazione «estensiva» e «restrittiva» (che può giungere
fino ad essere «abrogante»).
Talvolta nell’uso si contrappone alla «interpretazione della legge» alla «integrazione della
legge», per distinguere tra l’attribuzione di significato ad un determinato documento
normativo e l’individuazione di una regola che il documento normativo non
consentirebbe ad una sua lettura, ma che si ritiene possa egualmente esserne ricavata
con un più accurato esame.
Dal punto di vista dei soggetti che svolgono l’attività interpretativa si suole distinguere tra:
1. interpretazione giudiziale, quando si traduce in provvedimenti dotati di efficacia
vincolante, in quanto compiuta dai giudici dello Stato, solo nei confronti delle sole parti
del giudizio, che sono le uniche destinatarie del provvedimento del giudice
2. interpretazione dottrinale, che è costituita dagli apporti di studio dei cultori delle
materie giuridiche, i quali raccolgono il materiale utile all’interpretazione delle varie
disposizioni, ne illustrano i possibili significati, di sottolineano le conseguenze delle
varie soluzioni interpretative, con uno sforzo di grande importanza, in difetto del quale
quanti operano nella concreta esperienza quotidiana (giudici, avvocati ecc.) sarebbero
privati di un appoggio fondamentale nelle scelte che sono di continuo chiamati ad
effettuare con rapidità, e che escludono la possibilità di dedicarsi ad analisi spesso
ardue del materiale normativo.
3. interpretazione autentica, quella che proviene dallo stesso legislatore, che emana
talvolta apposite disposizioni per chiarire il significato di altre preesistenti; la norma
interpretativa quindi ha carattere vincolante ed efficacia retroattiva, poiché chiarisce
anche per il passato il valore da attribuire alla legge precedente, motivo per cui è
importante distinguerla da quella novativa che ha efficacia solo per i fatti compiuti
successivamente alla sua entrata in vigore; talora la natura interpretativa di una norma
è esplicitamente dichiarata, in altri casi deve essere dedotta; non incide, salva
contraria disposizione, sul giudicato formatosi sotto l’impero della legge precedente.
Una sentenza è idonea ad assumere anche valore di precedente nei confronti di altri casi
simili, in quanto l’interpretazione di una disposizione normativa e le argomentazioni logico-
giuridiche che ne costituiscono la motivazione possono essere assunte a modello da parte
di altri giudici a fini della soluzione di casi simili.
Con l’espressione giurisprudenza, si definisce l’orientamento applicativo espresso dalla
prassi dei giudici (es. la giurisprudenza della Corte di Cassazione è orientata ad
interpretare abitualmente una certa disposizione attribuendole un determinato significato).
Il valore di un precedente, nel nostro ordinamento, è però limitato alla persuasività del
criterio di decisione espresso dalla sentenza, poiché, di regola, non è attribuita ai prece-
denti giurisprudenziali forza vincolante ai fini della risoluzione di successivi casi
analoghi, come accade negli ordinamenti anglosassoni; pertanto ciascun giudice è libero
di adottare l’interpretazione che ritenga preferibile, anche eventualmente in contrasto con
pronunce della Corte di Cassazione.
Recenti leggi, nel tentativo di accrescere l’uniformità delle prassi interpretative e dunque la
prevedibilità delle decisioni (e quindi la certezza del diritto), hanno rafforzato il valore del
precedente. L’art. 360-bis c.p.c. prevede l’inammissibilità del ricorso alla Corte di
cassazione quando il provvedimento che si vuole impugnare (es.: una sentenza di un
organo giurisdizionale di grado inferiore, Corte d’appello o Tribunale) abbia deciso le
questioni di diritto in modo conforme al pregresso orientamento della Corte Suprema in
argomento, e i motivi di ricorso non offrano elementi per modificare quell’orientamento.
Ancora, nell’ambito del processo civile, è conferita una sorta di vincolatività alle sentenze
della Cassazione a sezioni unite; infatti, mentre i giudici di merito, in conformità ai principi
generali, restano liberi di emanare decisioni difformi, non così invece le sezioni semplici
della medesima Corte di Cassazione, in relazione alle quali l’art. 374, comma 3, c.p.c.
prevede che se «la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto
enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione
del ricorso». Si è già detto, infine, come siano dotate di vincolatività le sentenze
interpretative della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Del tutto peculiare è il ruolo attribuito alle sentenze emanate dalla Corte Europea dei
Diritti dell’uomo (che ha sede a Strasburgo), la cui vincolatività nei confronti dei giudici
nazionali è anche di tipo ermeneutico, nel senso che i giudici nazionali devono far
riferimento senz’altro alle norme della Cedu, così come intese dalla Corte Europea,
nell’applicare le norme dell’ordinamento italiano e di quello comunitario.

Paragrafo 25 “Le regole dell’interpretazione”


Abbiamo già detto che l’indagine dell’interprete non può limitarsi alla lettera della legge.
Già i Romani sottolineavano che scire leges non est verba earum tenere sed vim ac
potestatem; e l’art. 12, comma 1, Preleggi espressamente impone di valutare non
soltanto il «significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» (c.d.
interpretazione letterale), ma anche la «intenzione del legislatore». Quest’ultimo concetto
rimanda non tanto ai concreti propositi (soggettivi) di un inesistente legislatore, bensì alla
funzione che la norma persegue come strumento di disciplina della vita associata, la c.d.
ratio legis (criterio di interpretazione teleologico). Si tratta quindi di indagare la finalità
obiettiva della norma (es.: tutelare determinati soggetti, disincentivare determinati
comportamenti).
A questo scopo si possono utilizzare anche elementi tratti dall’attività di elaborazione delle
leggi, i «lavori preparatori» (es. le discussioni delle assemblee legislative), i quali però
offrono soltanto indicazioni di massima, non decisive.
Soprattutto va detto che l’individuazione della ratio della legge aiuta a discernere tra i
plurimi possibili significati del testo, facendo preferire quello che appare più coerente con
la funzione della norma.
Vi sono peraltro numerosi altri criteri cui l’interprete si rivolge:
a) il criterio logico, attraverso l’argumentum a contrario (volto ad escludere dalla norma
quanto non vi appare espressamente compreso), l’argumentum a simili (volto ad
estendere la norma per comprendervi anche fenomeni simili a quelli risultanti dal
contenuto letterale della disposizione, assumendo tale somiglianza come determinante
per una identità di disciplina), l’argumentum a fortiori (volto ad estendere la norma in modo
da includervi fenomeni che a maggior ragione meritano il trattamento riservato a quello
risultante dal contenuto letterale della disposizione), l’argumentum ad absurdum (volto ad
escludere quell’ interpretazione che dia luogo ad una norma «assurda»);
b) il criterio storico, che comporta l’analisi delle motivazioni con cui un istituto è stato
introdotto in un sistema giuridico precedente (dal diritto romano fino alla legislazione
moderna), delle modifiche che esso ha via via subito, del modo con cui è stato interpretato
ed applicato;
c) il criterio sistematico, con il quale viene collocata nel quadro complessivo
dell’ordinamento, onde evitare contraddizioni e ripetizioni, istituire opportuni
coordinamenti; già Celso sosteneva che “È incivile, senza esaminare interamente una
legge, valutarne solo una piccola parte, o servirsi di questa per emettere giudizi”;
d) il criterio sociologico, che consiste nella conoscenza degli aspetti economico-
sociali dei rapporti regolati, la quale aiuta a pervenire ad un’ interpretazione congruente
con la realtà disciplinata;
e) il criterio equitativo, volto ad evitare interpretazioni che contrastino col senso di
giustizia della comunità, favorendo invece soluzioni equilibrate degli interessi
confliggenti.

Paragrafo 26 “L’analogia”
È inevitabile che si presentino casi che nessuna norma di legge ha espressamente
previsto e regolato (le c.d. lacune dell’ordinamento).
Il problema delle lacune non può essere risolto da uno sforzo previsione casistica: anzi
una tecnica normativa esasperatamente analitica finisce per aggravare il rischio di
incontrare casi non contemplati, rispetto ai quali rimane incerta la disciplina da applicare
proprio perché il fenomeno materiale da regolare non rientra nella casistica predefinita.
Inoltre l’evoluzione scientifica, tecnica, sociale, economica crea di continuo situazioni
materiali nuove, che nessuna norma ha potuto prevedere.
Il giudice si trova, perciò, di frequente di fronte a fattispecie concrete che nessuna norma
prevede e disciplina.
Non può rifiutarsi di decidere, in quanto si renderebbe responsabile di denegata
giustizia, omettendo un atto del proprio ufficio.
Perciò l’art. 12, comma 2, delle Preleggi dispone che il giudice — quando non sia riuscito
a risolvere il caso su cui deve pronunciarsi, né applicando una norma che lo contempli
direttamente, né applicando una norma che pur non contemplandolo direttamente possa
essere interpretata estensivamente fino ad abbracciarlo — deve procedere applicando:
§ «per analogia» le «disposizioni che regolino casi simili o materie analoghe»
§ qualora il caso rimanga ancora dubbio, applicando «i princìpi generali
dell’ordinamento giuridico dello Stato».
Dunque il procedimento analogico consiste nell’applicare ad un caso non regolato (in
quanto per esso non si è trovata nessuna norma che lo contempli, neppure ricorrendo ad
una interpretazione estensiva della norma che regoli la fattispecie più simile a quella da
decidere) una norma non scritta desunta da una norma scritta, la quale, però, è dettata
per regolare un caso diverso, sebbene «simile» a quello da decidere. Di due entità può
dirsi che sono simili se hanno qualche elemento in comune; il che pone il problema di
comprendere che cosa debba intercorrere di comune tra le due fattispecie messe a
confronto, per consentirci di concludere che tra i due casi sussiste una «somiglianza» o
analogia tale da consentire di applicare alla seconda fattispecie la regola dettata dal
legislatore per la prima.
Quell’elemento in comune deve essere la ratio legis. Così, ad es., se una disposizione è
dettata per i «lavoratori dipendenti», ove la sua giustificazione vada rintracciata nella
circostanza che si applica a dei «dipendenti» non potrà invocarsene un’applicazione
analogica a lavoratori «autonomi»; ove, invece, la sua giustificazione vada rintracciata
nella circostanza che essa è stata dettata per dei «lavoratori», quale che sia il tipo di
contratto in forza del quale prestano la loro opera, ecco che si apre lo spazio per
un’applicazione analogica anche ad altri «lavoratori» sebbene autonomi.
Si spiega, dunque, il tradizionale insegnamento secondo cui l’analogia si fonda su
un’identità di ratio, ossia sul riconoscimento di una finalità della norma che ne giustifica
l’operare anche nel caso (simile, ma) non contemplato dalla legge.
L’art. 12 delle preleggi autorizza non solo il ricorso alla analogia legis, che il ricorso alla
analogia iuris, ossia ai « princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato ». In tal
caso il caso viene deciso ricavando una norma (non scritta) non già da specifiche
disposizioni che, pur dettate per differenti casi, vengono applicate a quello in esame,
bensì addirittura dai generali orientamenti del sistema legislativo.
Il ricorso all’analogia è sottoposto a limiti: l’analogia non è consentita né per «le leggi
penali», né per «quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi », come
stabilisce l’art. 14 delle Preleggi.
Il divieto si giustifica, in relazione alle norme penali, per il principio di stretta legalità che
caratterizza le norme incriminatrici: nullum crimen sine praevia lege penali (« nessuno può
essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
compiuto »: art. 25, comma 2, Cost.). Il divieto di applicazione analogica riguarda le sole
norme incriminatrici o, comunque, in malam partem, ossia volte a stabilire un trattamento
deteriore per il reo.
In relazione alle norme che abbiano carattere di eccezione, ossia di deroga, a precetti di
ordine generale (norme eccezionali), il divieto di analogia si giustifica con la necessità
logica di non ampliare le deroghe, privilegiando, di fronte ai casi non regolati, la disciplina
normale e non quella eccezionale.
Il divieto dell’analogia nell’applicazione delle leggi penali ed eccezionali non vale per
l’interpretazione estensiva, con la quale ci si limita ad adeguare la portata letterale della
norma all’effettiva volontà legislativa.
In effetti, tuttavia, la distinzione tra un’interpretazione estensiva di una norma eccezionale
(consentita) e un’applicazione per analogia (vietata) appare quanto mai ardua; così come
non è, in molti casi, agevole la stessa determinazione della natura eccezionale di una
norma, che la rende insuscettibile di interpretazione analogica.

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