Sei sulla pagina 1di 170

Diritto Civile 1

1. Approfondimento in materia di interpretazione della legge e analogia


1.1 > L’interpretazione letterale della legge

Alla base di ogni corso di diritto vi è la conoscenza delle regole che disciplinano il modo in cui
deve essere interpretata la legge.
Il legislatore ha fornito una norma riguardo: l'art. 12 delle disposizioni preliminari al codice
civile, che, in quanto norma di legge, deve essere anch’essa interpretata.

Interpretare una legge significa ricostruirne il significato. Interpretare, più generalmente, è


un'attività che si svolge comunemente, (es. ricostruire il significato di qualcosa che ci viene detto, una
locuzione verbale, di una parola, di una frase, di un romanzo etc.)
La legge, intesa in senso formale, è certamente una norma scritta.
Nel nostro ordinamento, seppure in minor numero, vi sono anche fonti non scritte, le cd. consuetudini, per le quali non si può
parlare di interpretazione quanto di ricostruzione il contenuto. Quando si parla, invece, di norme scritte esse vanno
interpretate, come va interpretato ogni messaggio.
Il significato di interpretazione è quindi molto ampio, come ampio è il novero dei soggetti chiamati a
interpretare. A volte si cade nell'equivoco di considerare come interprete solo il giudice nel campo
del diritto, che è certamente un interprete importante per quanto riguarda il caso concreto che va a
decidere. Non è però solo il giudice a dover interpretare: tutti dobbiamo interpretare, perché tutti
dobbiamo osservare la legge, e per osservarla non si può fare a meno che interpretarla.

L'interpretazione può essere, in base al soggetto che la effettua:


• dottrinale: qualora venga effettuata da un individuo erudito nell'ambito del diritto;
• giudiziale: qualora sia frutto del lavoro interpretativo di un magistrato;
• autentica: quando deriva dallo stesso organo che ha emanato la legge. In questo caso è
effettuata del legislatore con apposita legge di interpretazione, successiva all'atto normativo
verso il quale si applica l'interpretazione autentica. Questo è l'unico caso in cui una legge può
essere considerata retroattiva (quindi la norma va interpretata in base alla legge di
interpretazione fin dalla sua emanazione).

Art. 12 delle preleggi: “comma 1, nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che
quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla
intenzione del legislatore; comma 2, se una controversia non può essere decisa con una precisa
disposizione si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe, se il caso
rimane ancora dubbio si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.”
(il comma 2 viene chiamato interpretazione analogica della norma, ma, in realtà, è più corretto chiamarla creazione della
norma, non è ricostruzione del significato di una norma, a cui è dedicato il primo comma dell'articolo 12 in analisi).

Al comma I il legislatore esprime come deve essere interpretata la legge. In primo luogo si deve dare
peso al significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, quindi il significato
letterale della legge.
Per capire il significato letterale, quando si hanno dei dubbi riguardo le varie accezioni di un
determinato vocabolo è necessario l'utilizzo di un vocabolario. Esso ci permette di comprendere
esattamente la portata di quella parola, perché a seconda del settore disciplinato li stessa parola può
avere significati diversi. (Es: se l'ambito di cui si discute è quello zoologico, la parola tasso avrà un
determinato significato; diverso significato avrà quella stessa parola in tema di obbligazioni pecuniarie.)
Pertanto bisogna analizzare il contesto di riferimento (letterario, militare, giornalistico,
ingegneristico, biologico); in mancanza, si guarda all’accezione comune.
Il legislatore però, nell'art. 12 in analisi, ci dice di non fermarci alla mera “parola” ma di analizzare
anche il modo in cui esse sono connesse. Quindi, la ricostruzione letterale non deve aver riguardo a

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 2

una mera sequenza di parole, perché la connessione è una costruzione complessiva che deriva
dalla formulazione della regola di legge. La connessione, insieme al contesto di riferimento, permette
di dare anche un'accezione specifica alle parole stesse e comunque un senso particolare
all'interpretazione già dal punto di vista letterale.
Quando si tratta di connettere le parole e di comprenderne il significato, più il legislatore è
specifico e più semplice sarà il compito dell'interprete.
Esistono, perciò, vari livelli di complessità nella formulazione della regola di diritto. Ci può essere un
maggiore o un minore livello di specificazione del precetto e quindi, pertanto si può avere una
pluralità di significati legati alla connessione tra le parole in base alla maggiore o minore
specificazione o all’aggiunta di termini specializzanti in più.

Esempio dei vari livelli di complessità nella formulazione delle regole:


1) Prima di andar via si deve chiudere.
2) Prima di andar via si deve chiudere il rubinetto.
3) Prima di andar via per le vacanze si deve chiudere il rubinetto.
4) Prima di andar via per le vacanze si deve chiudere il rubinetto della caldaia.
5) Prima di andar via per le vacanze si deve chiudere il rubinetto del gas della caldaia.

L'esempio sopra riportato ci fa riflettere sul fatto che per dare una corretta interpretazione
dell'enunciato letterale della norma bisogna individuare l’oggetto concreto del precetto stesso.
Maggiore è la specificazione, maggiore è la possibilità di evitare di andare a ricercare più termini
all'esterno del contesto, e così si trova nell’interpretazione delle parole e nella loro connessione il
significato da attribuire al precetto.
Più è specifica la frase, più specializzante è il termine o i termini utilizzati, più facile sarà l'attività
dell'interprete nel trarre la regola, tenendo sempre conto del contesto normativo, da cui non si
può prescindere.
Si dovrà, perciò, analizzare la singola frase nel complesso di tutte le altre frasi, e anche nel
complesso di tutte le altre singole norme che riguardano quella materia. Ciò può diventare
complicato, perché, mancando a volte una specificazione puntuale da parte del legislatore, che non
utilizza dei termini utili a chiarire subito il significato di un precetto, l'interprete è costretto ad
andare a cercare l'elemento di chiusura di quel precetto all'esterno.
Questo connubio tra parole e contesto significa che il senso che si deve dare al precetto si
ricostruisce nella mente dell'interprete. Meno opzioni interpretative si aprono all'interprete,
più certa è l'applicazione della legge. Difatti, se la norma è scritta in maniera tale da dare adito a
più possibilità interpretative, l'interprete dovrà utilizzare più strumenti interpretativi, lasciando
spazio alla discrezione (o, ad esempio, alle “interpretazioni costituzionalmente orientate”). Ciò si
trasforma in un problema di certezza del diritto, problema che dovrebbe essere risolto - almeno in
sede giudiziale - dalla Corte di Cassazione.

Nel nostro ordinamento, l'interpretazione giudiziale non è vincolante, come negli ordinamenti di
common law (pertanto, se il giudice statuisce qualcosa, la sua interpretazione non deve essere
necessariamente seguita come se fosse un precetto di legge.) Nel nostro ordinamento c'è un organo,
la Corte di Cassazione, che, secondo l'art. 65 dell'ordinamento giudiziario deve assicurare, la cd.
nomofilachia, cioè l’uniforme interpretazione della legge.
La Corte di Cassazione, tuttavia, fino a una modifica risalente al 2006 sul c.p.c. spesso contraddiceva
sé stessa, cosa che avviene ancora, ma è stata limitata in qualche modo. Prima di questo intervento
normativo capitava molto frequentemente di trovare sentenze di Cassazione - anche nello stesso
anno - aventi 2 o 3 orientamenti diversi sullo stesso problema, anche in contrasto a orientamenti
espressi dalle Sezioni Unite. Nel 2006, è intervenuta una riforma che ha modificato l'articolo 374 del
codice di procedura civile, statuendo un principio di superiorità delle sezioni unite della Corte di

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 3

Cassazione con riguardo all'interpretazione delle norme rispetto al principio di diritto espresso
in relazione ad un determinato specifico problema o a un determinato conflitto di interessi da
risolvere.
L'art. 374 del codice di procedura civile stabilisce che se una delle sezioni semplici della Corte di
Cassazione non condivide un principio espresso dalle sezioni unite, non può decidere in maniera
contrastante rispetto a quanto già deciso sullo stesso problema dalle sezioni unite, ma deve rimettere la
decisione proprio alle sezioni unite, con ordinanza motivata. (Tendenzialmente le sezioni unite
riconfermano il proprio orientamento.)
La Corte di Cassazione ha quindi questo nuovo vincolo, anche se non si può parlare di un vincolo
al precedente giudiziale come nei paesi di common law.
Nonostante ciò, nella prassi, spesso capita che in alcuni casi si cerchi di “andare oltre”, probabilmente
con l'intenzione di ottenere una certezza del diritto. Ad esempio, la sentenza n. 642/2015 delle sezioni
unite, stabilisce che il giudice deve tenere in considerazione l'interpretazione della legge fornita dalla
suprema Corte di Cassazione e se ne può discostare solamente se ci sono valide ragioni per farlo. Questo
sembra “spingere oltre” l'articolo 374 poc'anzi menzionato, in cui sono solo le Sezioni Unite a poter
dettare un principio che vincola le altre corti (per altro, non sono previste sanzioni giuridiche).
È anche vero, tuttavia, che il precedente giurisprudenziale ha una certa vincolatività: cosa può
fare un giudice di merito che deve trattare un caso che è stato ormai deciso dalla Corte di Cassazione
(magari a sezioni unite), trovandosi già una sentenza, che ha già argomentato tutto su quel caso e ha
già deciso? Analizzerà le possibilità di discostarsi da quell'orientamento, con il rischio, poi, che il
giudice di secondo grado modifichi e riformuli la sua sentenza, traducendo il suo lavoro in un nulla di
fatto? O con l'ulteriore rischio che qualora il giudice di secondo grado dovesse anche confermare la
pronuncia del giudice di primo grado, si arrivi successivamente in cassazione e questa riconfermi il
proprio orientamento? Alla luce di ciò il giudice di primo grado spesso ritiene che tanto valga
conformarsi direttamente all'orientamento della Corte di Cassazione, qualora ritenga che quel caso
rientri nel prototipo dei casi decisi dalla Corte di Cassazione in un certo senso.
C’è pure da dire che gli orientamenti nuovi nascono anche grazie ai giudici, supportati dagli
avvocati che sostengono determinate argomentazioni, che riescono a fare cambiare orientamento,
specificando le ragioni del dissenso rispetto ad esempio ad un orientamento consolidato della stessa
corte di cassazione. Lo sviluppo, il miglioramento, l'affinamento nell'interpretazione della legge si ha
proprio grazie al giudice che, cosciente che in Italia non esiste una forza vincolante del precedente, si
discosta dalla Corte di Cassazione. In qualche caso la sua a sentenza andrà riformata, in altri casi
potrebbe andare avanti e addirittura convincere la stessa Corte di Cassazione a cambiare
orientamento.
Secondo una recente sentenza del 2012 della Corte di Cassazione, le regole per l'interpretazione della legge
dovrebbero essere utilizzate anche per l'interpretazione delle sentenze. In realtà, per l'interpretazione delle
sentenze sarebbe più opportuno vedere gli atti del processo, ciò che complessivamente è avvenuto durante il
procedimento e quindi dare peso a questi elementi piuttosto che a criteri che riguardano in generale
l'interpretazione della legge.

Il problema dell'interpretazione normativa, quindi, coinvolge l'ambito della certezza del


diritto e dell'applicazione certa di una norma. Da un lato, c'è la necessità di applicazione certa nella
norma, dall'altro ci sono le esigenze dell’affinamento del diritto e dell'evoluzione dell'applicazione
della legge. Cambiando la società e i contesti di riferimento, una norma potrebbe avere diverse
applicazioni nel tempo oppure in relazione ai nuovi ragionamenti, o ancora in relazione a particolari
sfaccettature. Con riguardo a quanto appena detto, è importante precisare come la formulazione
della legge deve essere sistematica, quindi inserita un contesto di parole, di frasi, di normative;
certamente, allo stesso tempo, non si può prescindere dalla contestualizzazione temporale: quindi,
per ricostruire il significato della legge si deve utilizzare il vocabolario del tempo in cui è stata
formulata.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 4

Ad esempio, prima dell'arrivo di Internet (anni ‘50), c'è stato un precetto legislativo che utilizzava il sintagma “mezzi di
comunicazione”. In quella norma sicuramente il legislatore non poteva aver usato il termine “mezzi di comunicazione”
riferendosi, ad esempio, anche a Internet: quindi non potremmo, anche interpretando quella norma oggi, ritenerla
applicabile a Internet, in quanto quella norma è stata indirizzata a i mezzi di comunicazione degli anni ‘50. Se vogliamo
applicare una regola degli anni ‘50 che parla di mezzi di comunicazione attuali, non potremmo pensare in via diretta ad
applicarla anche ai mezzi di comunicazione informatici, perché in quel modo si andrebbe oltre il significato della legge, ma
anche oltre l'intenzione del legislatore. Un'eccezione potrebbe farsi qualora si valutasse la possibilità di applicare la norma
anacronistica utilizzando l'analogia, ma non in via diretta, e a patto che ve ne siano i presupposti (v. in seguito).

1.2 > L’interpretazione della legge secondo le intenzioni del legislatore

Oltre alla necessità di dar peso al significato letterale, il legislatore stesso, all'art. 12 delle preleggi, dà
peso a un altro criterio: l'intenzione del legislatore.

Quindi, per interpretare un testo di legge i criteri di cui tener conto sono:
1) il significato delle parole secondo la connessione di esse;
2) l'intenzione del legislatore.

Come si fa a sapere qual è l'intenzione del legislatore, cos'è l'intenzione del legislatore e cosa
permette in campo interpretativo? Nell'ambito dell'interpretazione il legislatore chiede
all'interprete di attribuire un senso. La locuzione “intenzione del legislatore” va, pertanto,
scomposta: il termine intenzione richiama i moventi soggettivi di una persona (es. che intenzioni
hai?). Con riguardo al legislatore, però, non si può ritenere che il termine intenzione sia un termine
riferito a uno stato soggettivo delle persone: intanto, perché sappiamo col termine legislatore si
indica l'organo che detiene la funzione legislativa. Organo che è senz'altro composto da persone, ma,
riferendoci al legislatore, non è possibile cogliere un'intenzione soggettiva. E’ chiaro che si deve
scegliere, tra i significati della parola in tensione, al significato che deve portare ad
un'interpretazione tendenzialmente votata ad una certezza del diritto. Se si desse rilievo alle
intenzioni soggettive degli individui che formulano una determinata disposizione di legge,
certamente il requisito della certezza verrebbe a mancare, perché svariate potrebbero essere le
intenzioni soggettive dei singoli parlamentari o dei singoli ministri. Ciò significa che, per dare
certezza alla stessa norma sull'interpretazione e circoscrivere le interpretazioni a qualcosa che abbia
dei parametri certi di riferimento, il termine intenzione non può riferirsi alle intenzioni soggettive
ma deve essere un qualcosa di oggettivo. L'intenzione del legislatore deve essere intesa quindi
come la voluntas legis, ciò che oggettivamente si trae come spinta che ha portato a quella
determinata legge. Quindi, è secondo dei parametri oggettivi che si deve ricercare quali siano state
le spinte che hanno portato ad una determinata legge, oggettivate nella legge stessa. Cosa si può
riscontrare di oggettivo, scartate le intenzioni soggettive? In alcuni casi, si fa riferimento ai lavori
preparatori di una determinata legge o alle relazioni illustrative che accompagnano determinate
leggi. Questi possono essere certo di aiuto, ma debbono essere considerati solamente un supporto,
mai un contrasto.
Quando ciò che si ricava oggettivamente come intenzione del legislatore dal contesto delle norme di
legge scritte stride con ciò che si trova nei lavori preparatori o nelle relazioni illustrative, deve essere
data sempre prevalenza al testo normativo. Solo quello è, infatti, il testo ufficiale al quale fare
riferimento, è quello il testo la cui ignoranza non scusa, quello è il testo pubblicato come legge e che
in quanto tale vincola i soggetti.
(Esempio: La recente riforma del 2010 del codice di procedura civile ha condotto all’inserimento della mediazione civile
commerciale. Qui il legislatore ha previsto la regola per cui l’avvocato che assume un mandato ha l’obbligo di informare il
proprio assistito in merito alla possibilità di utilizzare tale nuovo strumento di risoluzione della lite, o al caso in cui sia
obbligatorio avvalersi preventivamente della mediazione. In mancanza di tale informazione, il contratto è annullabile. A
nulla serve che nella relazione illustrativa alla riforma ci si riferisca alla scelta della sanzione della nullità, perché il testo di
legge parla, invece, di annullabilità. Il testo normativo è talmente chiaro che l’eventuale riferimento interpretativo al lavoro
preparatorio stride troppo, quindi non può servire a dare un significato diverso a ciò che la legge chiarisce espressamente.)

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 5

Si usa fare riferimento, a tal proposito, alla ratio, cioè alla ragione che ha portato all'emanazione
di una determinata norma, ma che si deve desumere dal testo stesso, e quindi non si tratta di
qualcosa che si colloca temporalmente e logicamente solamente prima dell’emanazione del testo di
legge, come si potrebbe credere. La ragione che porta alla legge dovrebbe essere la partenza dei
lavori che poi portano alla fine all'emanazione della legge stessa. Tuttavia, a un'analisi più attenta, se
così fosse dovremmo dare peso maggiore ai lavori preparatori e alle relazioni illustrative, che invece
sono soccombenti in caso di palese contrasto col testo normativo, perché è fondamentale l'esigenza
che l'interprete deve avere già nella legge tutti i parametri per poter cogliere il significato
della stessa. Perché è la legge - il testo vincolante - ciò di cui il soggetto deve conoscere il contenuto
e non dei lavori preparatori o delle relazioni illustrative.
Alla luce di ciò, è opportuno ripetere che la ratio non si colloca in un momento precedente
all'emanazione del testo di legge, anche se riguarda la ricostruzione di un momento che
consideriamo logicamente e cronologicamente precedente, ma viene ricostruita sulla base del
testo di legge. Quindi, la ratio si ricava dalla lettura della norma, in un momento successivo
rispetto al testo di legge, sia cronologicamente che logicamente, ma si fa risalire ad un momento
precedente all'emanazione del testo di legge. La ratio si colloca nella legge e da essa si ricava, ma ci fa
considerare quella legge come risultato di spinte.

L'intenzione del legislatore serve per affinare l'interpretazione: l'interpretazione letterale,


infatti, può portare alcune a delle incoerenze dello stesso legislatore o a delle imprecisioni, oppure
alla mancanza di specificazione (es. il termine può essere più o meno ampio, le frasi possono essere
più o meno di ampio tenore.) È allora necessario utilizzare l'intenzione del legislatore, intesa come
ratio del contesto normativo. Il contesto normativo, a livello letterale, serve per comprendere il
senso letterale delle parole, stante la loro connessione e contestualmente anche la connessione delle
frasi. Il contesto normativo serve per capire quali sono le regole che il legislatore ha inteso dare,
serve per ricostruire la ratio della legge, l'intenzione del legislatore, e quindi, la ricostruzione
dell'intenzione sottesa alle singole norme è necessaria per avere poi una lettura sistematica dei testi
di legge. Considerato che, spesso a determinati significati letterali si possono attribuire più accezioni,
il contesto normativo di riferimento, la ratio e l’intenzione del legislatore, ci permettono di scegliere
tra i diversi significati letterali.
L'intenzione del legislatore serve anche per la cosiddetta interpretazione estensiva (su quella
restrittiva non è importante far troppa leva, perché in fondo non è un'interpretazione correttiva).
L'interpretazione correttiva - che corregge il tiro, appunto - è l'interpretazione estensiva: un
vocabolo, infatti, potrebbe avere un significato particolarmente circoscritto, e il legislatore potrebbe
aver usato quel vocabolo in maniera sbagliata, cioè in maniera non appropriata rispetto al contesto
di riferimento e potrebbe aver usato per errore nell'esprimersi, e non perché ha inteso magari
disciplinare un contesto più ristretto. Quindi, nella sua intenzione, il legislatore voleva,
presumibilmente, disciplinare qualcosa di più ampia portata, ma nella sua espressione letterale si è
riferito a qualcosa di più circoscritto.

Un esempio di interpretazione estensiva basata sull'intenzione del legislatore.


Esempio, il termine “tasso”: la legge 108/1996 ha rimodellato la disciplina relativa alle sanzioni contro
la pratica di interessi usurari. Questa legge si è riferita all'usura in senso ampio: non solo usura intesa
come scambio di denaro contro interessi usurari (usura pecuniaria), ma si è riferita, specificamente,
anche a scambio di prestazioni che manifesti uno squilibrio tra le stesse (usura reale), e quindi al
palesarsi di un qualsiasi squilibrio. Qualora tale squilibrio dovesse dipendere dalle condizioni di
difficoltà economico-finanziarie del soggetto vittima di tale squilibrio, si ha usura. Nello stesso testo
legislativo, il legislatore parla di usura pecuniaria e usura reale; in questa parte del testo normativo
utilizza una parola che però si riferisce solo all'usura pecuniaria: la parola tasso, riferita al tasso medio
di interessi. Qui il legislatore ha usato un termine sbagliato, perché intendeva riferirsi anche allo

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 6

scambio di prestazioni diverse dal denaro, e quindi all’usura reale e non solo pecuniaria. Quindi, inserire
la parola “tasso” nel criterio di riferimento per valutare lo squilibrio non economico è sbagliato, perché
la norma si riferisce anche allo scambio di prestazioni iniquo. Pertanto, la parola “tasso” deve essere
intesa in modo diverso, perché l'intenzione del legislatore era un'altra, cioè quella di riferirsi anche alle
prestazioni inique di beni differenti dal denaro. Per tali prestazioni inique diverse dal denaro non si può
ovviamente utilizzare come parametro di riferimento il tasso medio praticato per operazioni similari.
Allora la portata della parola deve essere estesa, perché era intenzione del legislatore quella di riferirsi
anche alle prestazioni diverse da quella dello scambio di denaro e quindi la parola deve essere qui
interpretata estensivamente come corrispettivo. Con ciò non si va oltre la legge, in quanto vi è una
lacuna nella legge da colmare con l'analogia, ma perché il legislatore ha semplicemente sbagliato ad
esprimersi.

Se il legislatore non ha invece intenzione di disciplinare quel “qualcosa in più” e dal testo normativo
non ci sono parametri di riferimento, allora, per estendere la portata della norma si deve valutare se
è applicabile l'analogia, ovvero se vi sono i presupposti per la creazione di una nuova norma che non
è quella che il legislatore ha inteso emanare. Infatti, con l'interpretazione estensiva la norma che
si ricava è quella che il legislatore ha inteso dare alla norma. Invece, con l'analogia si
costruisce una norma nuova, perché il legislatore non ha disciplinato quella fattispecie, e allora si
ricostruisce una nuova norma per supplire alla mancanza del legislatore.

Con l'interpretazione restrittiva, invece, si dà un significato più ristretto ad una determinata


parola che in astratto avrebbe più significati a livello letterale. Non si cambia il significato del
vocabolo, ma semplicemente, nel novero delle accezioni di una parola, si sceglie uno solo di questi.
L'esempio può essere l'articolo 2043 del codice civile che parla genericamente di danno. In astratto, il
danno potrebbe essere di qualunque tipo, ma andando ad analizzare il contesto storico-normativo, il
contesto sistematico, le altre norme di riferimento, e in particolare l'articolo 2059 del codice civile che
detta una disciplina specifica (eccezionale) per i danni non patrimoniali, e, infine, ricostruendo tutto il
sistema, ci si rende conto che l'articolo 2043 del codice civile riguarda solo i danni patrimoniali.
Dall'intenzione del legislatore, si coglie che la parola “danno” (anche negli altri articoli inerenti il
risarcimento del danno per inadempimento come l’art. 1218), è utilizzata in senso restrittivo, perché
quando si è inteso fare riferimento al danno non patrimoniale, il legislatore ha espressamente indicato
che si tratta del danno non patrimoniale, quando ho parlato di danno in generale ha invece inteso
parlare esclusivamente di danno patrimoniale.

1.3 > L’analogia

Si cade spesso nell'errore di considerare l'analogia alla stregua di un’interpretazione (cd.


Interpretazione analogica). In realtà l'analogia è un'operazione del tutto diversa: mentre
l'interpretazione serve a ricostruire il significato di uno scritto, l'analogia serve a colmare un
vuoto di disciplina. Quando il legislatore non ha predisposto una disciplina per una determinata
fattispecie – poiché che non è possibile nel nostro ordinamento che non sia rintracciabile una regola
per ogni tipo di fattispecie – esiste appunto l’analogia, un criterio di chiusura del nostro
ordinamento, che permette di colmare le lacune di disciplina dell'ordinamento stesso, tramite
un'attività di ricostruzione, creazione, di una disciplina ad hoc. Ciò deve avvenire sulla base di
determinati parametri e con determinati presupposti. L’analogia è prevista dal comma II dell’art. 12
delle preleggi (vedi sopra).
I requisiti sono tre:
1. Assenza di norma;
2. Norma che regola un caso simile o materia analoga;
3. Non deve trattarsi di norma penale né eccezionale.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 7

Primo requisito è che la controversia non deve poter essere decisa che con una precisa disposizione,
quindi presupposto iniziale è l'assenza di una precisa disposizione. Il legislatore non deve aver
avuto l'intenzione di dettare una regola per quel determinato caso, né espressamente né
implicitamente (se avesse sbagliato ad esprimersi, supplirebbe l’interpretazione estensiva).
In alcuni casi il legislatore non dice niente su una determinata fattispecie:
ad esempio, prendendo una norma in tema di atti che devono essere posti per iscritto, l'articolo 1350 cc., che
quale elenca appunto quali atti devono essere fatti per iscritto, con atto pubblico o scrittura privata. Vengono
indicati 13 numeri in cui sono indicati gli atti per i quali è necessaria la forma scritta sotto pena di nullità. Si nota
che, ad esempio, tra questi atti ci sono i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili, mentre non si
dice nulla riguardo i contratti che trasferiscono la proprietà di beni mobili: significa che il legislatore non ha
disciplinato la fattispecie o che ha inteso disciplinarla comunque pur non scrivendo nulla? Dal contesto
normativo ed all'analisi storica della norma (quindi dalla ratio) ci rendiamo conto di qual è stata l'intenzione del
legislatore con riguardo a tale norma: era una norma che vedeva una preferenza per la proprietà immobiliare. Il
sopravvento che ha avuto negli anni successivi la proprietà mobiliare - si pensi specialmente a titoli e ad azioni -
non era stato preso in considerazione dal legislatore del 1942, il quale ha inteso dare preminenza alla proprietà
immobiliare, per antichi retaggi derivati dal codice previgente.
Questo significa che il legislatore sapeva bene dell'importanza di determinati atti riguardanti beni immobili, ma
ha previsto una forma scritta solo per i beni immobili. Ma allora, in caso di acquisto di un diamante prezioso, il
cui valore è superiore anche di un bene immobile, è necessaria o meno la forma scritta? Si può applicare la norma
di cui all'articolo 1350 cc., per analogia, per l’importanza dell’atto? Bisogna rispondere negativamente a queste
due domande, perché il legislatore, non dicendo nulla in questo caso, non ha manifestato un vuoto di disciplina
ma, consapevolmente, ha voluto disciplinare negativamente la fattispecie della vendita di beni mobili,
“disciplinando senza dire” che la vendita dei beni mobili può essere fatta in qualsiasi forma.
In questo caso il silenzio del legislatore non costituisce la mancanza di una norma ma al contrario il tacere
legislativo è esso stesso parte della norma, desumibile dalla volontà del legislatore stesso. È quindi
importantissimo analizzare una norma per comprendere se la stessa possa essere estesa analogicamente, perché,
dall'analisi della norma stessa si deve desumere se effettivamente la disciplina manca o esiste. Nel non scrivere, il
legislatore ha comunque disciplinato.
L’esempio dimostra che, preliminarmente, bisogna comprendere se la mancanza di scritto è
mancanza di norma. Solo quando la mancanza di un testo specifico su una determinata fattispecie è
chiaramente mancanza di norma, si potrà dire acquisito il primo requisito affinché si possa andare a
far operare l'analogia, che diversamente viene preclusa.

Il secondo requisito ci dice che si deve andare a ricercare una norma che regoli un caso simile o
una materia analoga, intendendo che si deve rintracciare un conflitto di interessi dello stesso
tipo di quello che è oggetto della fattispecie per cui manca la precisa disposizione normativa.
Quindi, va scoperto qual è il conflitto di interessi alla base della fattispecie di cui abbiamo necessità di
trovare la disciplina e, mancando una disciplina da parte del legislatore (sia implicita che esplicita), si
deve trovare una norma che regola un conflitto di interessi dello stesso tipo.
Esempio, riguardo i segni distintivi dell'impresa: in giurisprudenza vengono applicati per analogia i criteri
relativi all'originalità, alla capacità distintiva del marchio, alla novità del marchio; criteri dettati e tratti proprio
con riguardo ai marchi, anche ad altri segni distintivi per esempio alla ditta e alla denominazione sociale di
un'impresa. Si utilizzano quindi i principi utilizzati dalla legge sui marchi, anche se non disciplina i segni
distintivi dell’impresa, trattandosi di caso simile o materia analoga.
L'analisi della norma è importantissima e lo spazio che si dà all’analogia ha anche un rilievo di
ordine sistematico. Come si vedrà, analizzando ad esempio le norme concernenti l'integrazione dei
contratti, più ampio e lo spazio che si dà all’analogia, più piccoli saranno gli spazi che vengono
dati ad altre clausole generali di integrazione dei contratti.
Quindi, conoscere bene l'ambito di applicazione delle norme è importante, proprio perché dare
spazio all’analogia comporta una aderenza all'ordinamento comunque maggiore, rispetto a
quella che si ha quando si fa leva su criteri diversi, come la buona fede o i criteri di equità.
Si fa riferimento in particolare all'art. 1374 c.c., secondo cui il contratto obbliga le parti non solo a
quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge
La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 8

o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità. “In mancanza di legge” significa che il contratto obbliga a
ciò che è disposto dalla legge sia direttamente che indirettamente, e quindi dando spazio all'analogia.
Seguendo questa via, si riduce l'ambito di applicazione degli usi e dell'equità, come anche lo spazio
riservato alla buona fede di cui all’art. 1375 cc.
È chiaro però che sia preferibile un'integrazione del contratto che segua i criteri dettati dal
legislatore, prima di quelli tratti dalle parti o da qualche regola diversa rispetto a quelle dettate dal
legislatore. Quindi la preminenza della legge è da tenere in considerazione in maniera
sistematica, in modo da applicare la legge, anche quando non vi sia una disposizione di legge ma si
possa comunque desumere dalla legge un'applicazione analogica, per disciplinare la fattispecie
concreta.
Quindi, il campo d'azione che si riserva l'analogia presenta varie vie di sbocco, una di queste
fondamentale è in tema di integrazione dei contratti, tema in cui spesso, purtroppo, si fa operare la
buona fede o l'equità per la mancata conoscenza della legge (perché trovare una norma che regola un
caso simile o una materia analoga significa conoscere quella norma.) Il difetto di conoscenza delle
norme è spesso, purtroppo, alla base della voglia di applicare principi generali diversi, ad
esempio la “voglia” di alcuni interpreti di sfociare sempre nella costituzione o nelle clausole generali
quali l'equità, la buona fede. In realtà, sfociare nell'equità, nella buona fede, nelle clausole generali,
consente, nel caso di interpretazione giudiziale, al giudice uno spazio di discrezionalità maggiore
rispetto a quello che si avrebbe se si seguisse la legge. L'ordine previsto dalla normativa
sembrerebbe un ordine che dà prevalenza alla legge. Ciò significa che per una attività
interpretativa quanto più possibile precisa, è necessario conoscere il maggior numero possibile di
norme. E’ ovvio che conoscere tutte le norme del nostro ordinamento non sembra cosa possibile
(soprattutto col proliferare recente), e ciò rende ancora più difficile che si palesi una certezza del
diritto. Quando si tratta di analogia, se non si conoscono le norme dell'ordinamento è impossibile
applicarla, e di conseguenza si utilizzano in maniera indiscriminata criteri che sarebbero sussidiari
rispetto all’analogia.

Terzo requisito dell’analogia è un requisito di carattere negativo, previsto dall'art. 14 delle


preleggi e che richiama un principio costituzionale, sancito anche dal codice penale: Le leggi penali e
quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse
considerati.
Con riguardo alla legge penale, in particolar modo riguardo l'afflizione di una pena, già nella
Costituzione è previsto il principio di legalità, il quale si specifica nel principio di tassatività delle
fattispecie, di necessaria determinatezza della fattispecie penale. Ogni soggetto deve essere in grado
di sapere in anticipo se la sua condotta è passibile di punizione penale e deve saperlo in modo certo.
Perciò non si può ricostruire per analogia una norma penale. La pena deve essere indicata in
relazione a comportamenti esattamente specificati una norma entrata in vigore prima del fatto
commesso. Se una norma prevede una pena, quindi, non è applicabile per analogia.
Anche nel codice civile ci sono norme che prevedono delle pene, delle sanzioni private pseudo
penalistiche, per esempio il secondo comma dell'art. 1815 del codice civile, che nel sanzionare la
clausola che prevede gli interessi usurari, prevede che tale clausola sia nulla e non siano previsti
interessi, neanche quelli legali. Questa previsione sanzionatoria ha comportato una sanzione appunto
pseudo penalistica nell'ambito del codice civile, una sanzione che quindi non può essere estesa
analogicamente, come tutte le norme che prevedono una pena.
Altro requisito negativo è che non si deve trattare di norma eccezionale: anche in questo caso è
importante capire, per definire la norma eccezionale, quale fosse l'intenzione del legislatore. A
livello tautologico si deve andare a comprendere quando il legislatore ha voluto escludere, in effetti,
un'applicazione analogica (perché la legge che fa eccezione a regole generali, non si applica, come
previsto dal secondo comma dell'art. 14 delle preleggi.)

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 9

Quindi, la ricostruzione dell'intenzione del legislatore non serve tanto a capire se quella è una legge
contingente, che riguarda una particolare fattispecie, un solo soggetto, che deroga determinati
principi generali, ma si deve andare a scoprire se nell'intenzione del legislatore c'era l'idea di
non far applicare quella norma oltre i casi considerati.
Quindi si tratta di un'analisi tautologica: di conseguenza, è eccezionale quella norma che il legislatore
stesso ha inteso applicare solamente a quei casi specificamente indicati dalla norma stessa. Questo,
può avvenire in alcune ipotesi, in cui il legislatore, ad esempio, tassativamente indica un elenco di
divieti ad esempio. Ciò che conta è ricostruire l’intenzione del legislatore, facendo sì che quella
norma venga applicata solo a determinati casi. E’ un’analisi non facile che si ricollega spesso
all’analisi dei principi generali e soprattutto alle cdd. norme in deroga ai principi generali (che spesso
è più una intenzione della dottrina che non una volontà del legislatore). La ricerca deve mirare allo
scopo finale del legislatore, che ha voluto disciplinare specifiche fattispecie.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 10

2. La responsabilità civile. Il danno risarcibile. Il nesso causale.


Diritti fondamentali e responsabilità civile.
2.1 > La responsabilità civile // Il danno risarcibile

La responsabilità contrattuale ed extracontrattuale


La responsabilità extracontrattuale è quella responsabilità personale che deriva dal compimento di
un illecito civile. Essa è sancita in via generale dall’artt. 2043 cc., il quale prevede che:
“qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha
commesso il fatto a risarcire il danno”.
La responsabilità extracontrattuale è detta anche responsabilità aquiliana, derivante dalla Lex
aquilia de damno, risalente al III sec a.C.; con tale lex fu sancita la responsabilità per danno ingiusto
arrecato con dolo o colpa. Questa legge aveva caratteri che richiamano la moderna responsabilità, ma
ci ha tramandato il principio per cui la responsabilità nasce dalla violazione del dovere di
rispettare i beni altrui, personali e patrimoniali > alterum non laedere.
La responsabilità extracontrattuale va nettamente distinta dalla responsabilità contrattuale, che
designa invece la responsabilità da inadempimento dell’obbligazione, cioè da inadempimento di
un obbligo specifico nei confronti di un determinato soggetto (il creditore). C’è quindi un rapporto
obbligatorio che non è stato seguito. La fonte precipua da cui nasce obbligazione è il contratto, ma
non è l’unica fonte, ci sono anche forme non contrattuali: si pensi alle obbligazioni tributarie.
Le due responsabilità sono accomunate da un dato importante: si tratta sempre di una reazione a
un atto o fatto antigiuridico - da un lato illecito, dall’altro l’inadempimento.
Pur tenendo conto di questo dato fondamentale e comune, bisogna dire che sono anche
differenziate sul piano della disciplina.
E’ diverso il criterio dell’imputazione:
• la responsabilità extracontrattuale è di massima fondata sul criterio della colpa;
• la responsabilità contrattuale invece, deriva dal fatto obiettivo della mancata o inesatta
esecuzione della prestazione, fino al limite della impossibilità art. 1218 cc. Tuttavia, anche
la responsabilità contrattuale, riposa, in ultima analisi, sul criterio della colpa; perché
l’impossibilità di cui parla l’art. 1218, è un impedimento che non può essere superato con
la normale diligenza, quindi c’è sempre una colpa carico del del debitore.
Vi sono comunque sicure note di differenziazione tra le due discipline,
! in merito alla capacità di intendere e di volere:
• La responsabilità extracontrattuale richiede la capacità di intendere e di volere del
soggetto;
• La responsabilità contrattuale non presuppone la capacità di intendere e di volere del
debitore, che risponde per l’inadempimento anche in assenza di questa capacità.
! in merito alla prevedibilità dei danni:
• Nella responsabilità extracontrattuale il danneggiante è tenuto a risarcire tutti i danni
arrecati, prevedibili e non;
• Nella responsabilità contrattuale il debitore è tenuto a risarcire i danni prevedibili e non
quelli imprevedibili, salvo che l'inadempimento sia dovuto a dolo.
! sul piano probatorio:
• Nella responsabilità extracontrattuale, il danneggiato ha l'onere di provare la colpa o il dolo
dell'autore dell'illecito;
• Nella responsabilità contrattuale, il creditore non ha l'onere di provare la colpa del debitore.
! in merito al termine di prescrizione:
• il diritto al risarcimento da danno extracontrattuale si prescrive di regola in cinque anni.
• il diritto al risarcimento da danno contrattuale si prescrive nel termine ordinario di dieci anni.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 11

Il rimedio del risarcimento del danno è comune alle due responsabilità, ma, se parliamo di
responsabilità contrattuale, troviamo rimedi specifici - ad esempio la risoluzione del contratto - che
non si ritrovano nell'ambito della responsabilità extracontrattuale.
La responsabilità contrattuale si riscontra anche nei contratti di massa: vendita dei beni di consumo
nei grandi magazzini, vendita mediante distributori automatici, fornitura di servizi pubblici. Si tratta
pur sempre di rapporti che si costituiscono mediante accordi, difatti, anche se qui la manifestazione
di volontà dei soggetti è tacita.
E’ possibile, tuttavia, che si concretizzi responsabilità contrattuale anche in mancanza di un
contratto, nei casi in cui vi sia quello che viene definito un rilevante contatto sociale, cioè una
forma di “incontro” tra i soggetti, tra i quali non interviene un accordo, ma un fatto che per legge è
idoneo a dare luogo ad un rapporto che viene regolato come rapporto obbligatorio. Si tratta dei
cosiddetti rapporti contrattuali di fatto.
La giurisprudenza ha riscontrato uno di questi rapporti contrattuali di fatto nel contatto sociale che
ha luogo quando il paziente incontra il personale di una struttura medica. Pur in assenza di un
contratto, tuttavia, nasce un rapporto obbligatorio – perché il personale medico è obbligato a curare
diligentemente il paziente – pertanto ne deriva che la mancata o inesatta esecuzione della
prestazione sanitaria va considerata inadempimento.
Le due responsabilità, infine, possono concorrere: è cioè possibile che la fattispecie
dell'inadempimento si accompagni a quella dell'illecito. Il caso tipico è quello della vendita di
prodotti difettosi, dove il venditore incorre in responsabilità contrattuale, perché il rapporto
obbligatorio non è stato eseguito come avrebbe dovuto, ma se il vizio della merce comprata è tale da
arrecare lesioni alla persona o ai beni del compratore, in questo caso scatta anche la responsabilità
extracontrattuale.

Nozione di danno
L’articolo 2043 cc. identifica l'illecito come il fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno
ingiusto; si rende quindi necessario anzitutto soffermarsi sul significato di danno. Una prima
nozione di danno è quella di evento lesivo, cioè il risultato materiale in cui si concretizza la
lesione di un interesse giuridicamente apprezzabile.
Ai fini della responsabilità extracontrattuale, il danno è un presupposto necessario: non ci può
essere responsabilità se non c'è un fatto che ha provocato o che sia diretto a provocare un danno.
Un’altra nozione di danno è l'effetto economico negativo che consegue all'evento lesivo. La
distruzione di un'autovettura è sicuramente un evento lesivo, ma quali conseguenze negative
economiche scaturiscono da questo evento lesivo? È questo il momento nel quale bisogna
determinare l'entità economica del danno risarcibile. In caso di lesione dell'integrità psico-fisica
di un soggetto, quali sono le conseguenze economiche negative? Tali conseguenze economiche
negative attengono alla perdita economica o al mancato guadagno economico del soggetto. A
prescindere dalle conseguenze economiche negative, il danno deve essere comunque risarcito.
Rileva allora come danno non patrimoniale, che non ha riguardo alle conseguenze economiche
dell'evento, ma al pregiudizio in sé che la persona subisce.

Il danno emergente e il lucro cessante


Il danno è, come detto, conseguenza economica negativa. Essa dà luogo a due specie di danno: il
danno emergente e il lucro cessante, come disposto dall'articolo 1223 cc. (dettata in tema di
responsabilità contrattuale ma applicabile anche in tema di responsabilità extracontrattuale.)
1. Il danno emergente è la perdita subita dal danneggiato, e designa, quindi, la diminuzione
della sfera patrimoniale del danneggiato conseguente all'illecito. Nel campo extracontrattuale il
danno emergente si specifica anzitutto nella perdita o diminuzione del valore economico dei
beni distrutti o danneggiati. In caso di incendio di un immobile, il danno emergente è rappresentato

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 12

dal valore di mercato dell’immobile stesso (sul presupposto che la vittima fosse il proprietario, se ad
esempio fosse un usufruttuario, in tal caso sarebbero danneggiati sia il nudo proprietario che
l’usufruttuario). Ci sono poi le spese, voce sempre ricorrente nell'illecito, ad esempio quelle che il
danneggiato sostiene per riparare o sostituire il bene lesionato o distrutto. E’ ben possibile che lo
stesso danneggiato provveda a riparare in natura o a sostituire il bene leso, e questo può
corrispondere addirittura ad un dovere di correttezza dello stesso danneggiato. Le spese devono
essere congrue e utili, per come si presentano idonee a una normale valutazione per la riparazione.
Se si tratta di spese derivanti da cure mediche dovranno essere risarcite integralmente, perché il
bene dell'integrità psico-fisica è tale che qualunque cura effettuata dà luogo al risarcimento del
danno con riguardo al costo della cura stessa, pur valendo sempre i limiti della proporzionalità e
della ragionevolezza.
2. Il lucro cessante è il guadagno patrimoniale netto che viene meno al danneggiato a causa
dell'illecito. Non si tratta, quindi, di una ricchezza che viene sottratta al danneggiato, ma di una
ricchezza che il danneggiato non può più conseguire. Si tratta allora di un danno futuro, rispetto
al quale deve esserci la ragionevole certezza circa l’accadimento. Le ipotesi ricorrenti sono:
• Mancata utilizzazione del bene: ad esempio, l’occupazione illecita di un fondo riduce la
produzione dei frutti del medesimo. Se si tratta di totale perdita del bene, non si guarda più alla
perdita dei frutti ma al valore del bene in quanto cosa fruttifera: nell’esempio del fondo, se
viene distrutto completamente, bisognerà quantificare il valore di mercato di quel fondo, che
terrà conto anche del carattere fruttifero dello stesso. Rientra in questa ipotesi anche
l’inutilizzazione di uno strumento di lavoro o azienda: in tal caso occorrerà vedere quale
sarebbe stato guadagno netto che il danneggiato avrebbe realizzato se il bene non gli fosse
stato distrutto, danneggiato o sottratto. Lo stesso dicasi per i diritti immateriali, come il
brevetto o il diritto d'autore. Bisogna tener conto del profitto che presumibilmente
ragionevolmente il danneggiato avrebbe tratto dalla utilizzazione di quel diritto;
• Mancata realizzazione di specifici rapporti contrattuali: il bene distrutto si valuta secondo
il valore di mercato, ma è possibile che fosse anche oggetto di uno specifico rapporto
contrattuale (promessa di vendita con contratto preliminare). Il bene non potrà essere più
venduto, quindi la perdita è quel profitto che il soggetto avrebbe tratto dalla vendita: profitto
che, in ipotesi, potrebbe essere superiore al valore di mercato del bene stesso. Il danneggiante
dovrà risarcire non il valore di mercato, bensì quel profitto netto che il danneggiato avrebbe
ragionevolmente realizzato in virtù della precisa destinazione contrattuale del bene.
• Perdita o diminuzione della capacità di lavoro: si tratta di un danno patrimoniale e non
biologico. Si deve tenere conto del venir meno - totale o parziale – del guadagno che la
vittima avrebbe tratto dall'esercizio dell'attività lavorativa, impedita a causa della lesione
subita illecitamente. Per determinare questo danno occorre tener conto, anzitutto,
dell'invalidità, che può essere permanente o temporanea. Se è temporanea, il danno è
facilmente determinabile, perché si tratta di accertare quali guadagni il danneggiato avrebbe
realizzato in quell'arco di tempo. Se invece l'invalidità è permanente, le cose si complicano:
bisogna in primis determinare l'incidenza percentuale dell'invalidità sulla capacità
lavorativa (per i lavoratori subordinati la quantificazione è più agevole, avvalendosi la
giurisprudenza in quest'ambito delle tabelle di invalidità valevoli sugli infortuni sul lavoro,
che tengono conto del guadagno attuale e di quello futuro prevedibile.) Qualora il danneggiato
non svolgesse alcuna attività lavorativa, bisognerà tener conto della probabile carriera del
danneggiato, tenendo conto delle circostanze concrete del fatto e della situazione in cui si
trova il danneggiato (ad esempio, il danneggiato seguiva già un corso di specializzazione
professionale: sarà facile prevedere il completamento di quel corso e una successiva occupazione
retribuita specifica per quella specializzazione.) Si dovrà, allora, calcolare l'incidenza
dell'invalidità sul quantum del guadagno medio: se l'illecito ha causato un'invalidità del
100%, vorrà dire che il soggetto ha perduto completamente il guadagno che avrebbe

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 13

realizzato se non fosse stato vittima dell’illecito. Va poi aggiunto che, trattandosi di danno
futuro, la capitalizzazione della perdita in una somma pagata attualmente, comporta il
vantaggio del godimento anticipato di ciò che il danneggiato avrebbe conseguito nel futuro,
quindi la determinazione del danno risarcibile dovrà tenere conto del vantaggio
dell’anticipato godimento del capitale.
• Perdita di prestazioni alimentari e assistenziali, voce che rileva quando, ad esempio, viene
uccisa una persona che provvedeva al mantenimento dei figli. Questi ultimi avranno anche
diritto al risarcimento del danno rappresentato dal fatto che il genitore non può più
provvedere al loro mantenimento;
• Perdita della reputazione professionale. Ad esempio, il soggetto attivo ha immesso delle
sostanze inquinanti nei prodotti che il soggetto passivo è poi andato a vendere: quest’ultimo
subisce una perdita in termini di lesione alla propria reputazione professionale, poiché il
pubblico non acquisterà più i suoi prodotti o comunque lo farà in maniera ridotta.

La determinazione del danno risarcibile e il principio del danno effettivo


Il danno risarcibile è determinato, in via primaria, dal principio di causalità (vedi illecito che
“causa” un danno ex art. 2043). Ci sono però altre regole che concorrono a delimitare l'area del
danno risarcibile: la regola della causa sopravvenuta ipotetica; del concorso di colpa; del dovere del
danneggiato di evitare il danno; della compensazione del lucro col danno; della prevedibilità del
danno.
Alla base di tali regole sta un principio fondamentale: il principio del danno effettivo, secondo il
quale l'obbligo del risarcimento deve adeguarsi al danno effettivamente subito dal
danneggiato, il quale non deve ricevere né più né meno di quanto necessario rimuovere gli
effetti negativi dell'illecito. Pertanto, non sono ammessi i cosiddetti danni punitivi, in quanto nel
nostro ordinamento il risarcimento del danno non ha una funzione afflittiva, ma una funzione di
rimedio diretto a ristabilire la situazione anteriore al compimento dell'illecito, in termini
economici. Inoltre, non è ammesso che mediante contratto vengano sancite delle pene, che
possono essere stabilite soltanto dalla legge nell’ambito del diritto penale. Si potrebbe obiettare che
esiste la clausola penale, la quale può essere anche apposta con riguardo a rapporti
extracontrattuali. Essa prevede che, in relazione ad una situazione dalla quale possono scaturire
danni, è pensabile che venga stabilita anteriormente l'entità del danno da risarcire: tale clausola
penale, tuttavia, è una liquidazione convenzionale del danno, anche se anticipata e anche se
forfettaria, e non si tratta di una pena che viene inflitta al danneggiante.

Il nesso di causalità
L'articolo 2043, come ricordato, parla dell'illecito che causa un danno ingiusto. Questo riferimento è
importante, in quanto significa che deve esserci un nesso di causalità tra il fatto e il danno, cioè
una relazione che identifica l'uno (il danno) come conseguenza dell'altro (l’illecito).
Questo nesso di causalità, con riguardo alle conseguenze economiche negative, è sottolineato
dall'articolo 1223 cc., che prevede la risarcibilità di tutti danni che sono conseguenza immediata
e diretta dell'inadempimento. Tale norma si applica anche alla responsabilità
extracontrattuale, grazie al richiamo fatto dall'articolo 2056 cc.

Varie le teorie sul nesso di causalità:


1. Teoria della condizione necessaria (condicio sine qua non): si tratta della teoria che identifica
la causa in tutti quegli antecedenti, prossimi e lontani, senza i quali un dato effetto non si verifica.
Contrasta senz'altro col principio legislativo dell'immediatezza: deve trattarsi di una
conseguenza immediata, il che, quindi, esclude le cause remote. Il limite è che, secondo questa
teoria, la responsabilità di tutti i fatti lesivi dovrebbe risalire addirittura ad Adamo ed Eva;

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 14

2. Teoria dello scopo della norma: secondo tale teoria, bisogna accertare qual è lo scopo
protettivo della norma e radicare il danno nella violazione del bene protetto. Anche questa teoria
però appare poco soddisfacente, perché in realtà il danno può propagarsi al di là di quello che
era lo scopo protetto dalla norma violata. Il caso tipico è quello della violazione di norme che
regolano la circolazione automobilistica, dalla cui violazione può conseguire un danno alla
persona (es. investimento di una vettura passando col rosso e ferimento dei passeggeri). Tuttavia, se
è vero che possiamo parlare di uno scopo protetto dalla norma (e cioè tutelare coloro che si
avvalgono della circolazione stradale), si deve anche ammettere che il danno risarcibile sia quello
che, ad esempio, fosse provocato dalla vettura che, ribaltandosi, è andato a sbattere contro un
muro, lesionandolo. E’ vero che il proprietario di quel muro avrà diritto al risarcimento del
danno, ma non si può certo dire che lo scopo della norma violata (attinente la circolazione
stradale) fosse quella di tutelare i proprietari dei muri lungo i percorsi stradali;
3. Teoria dell'adeguatezza, per la quale occorre verificare se un evento sia normalmente
adeguato a produrre il danno. Questa teoria è assimilabile a quella che è correntemente
applicata dalla nostra giurisprudenza (regolarità causale). Secondo tale teoria, il danno è
conseguenza del fatto quando ne costituisce un effetto normale. È normale, ad esempio, che
una lesione all'integrità psicofisica di un soggetto possa dar luogo a complicazioni: tali
complicazioni si ritiene rientrino nella sfera delle normali conseguenze di quella causa lesiva. In
realtà, però, la giurisprudenza non si attiene sempre a questo criterio, perché anche conseguenze
che non sono normali, possono comunque dover essere risarcite, e qui ci soccorre la teoria
successiva;
4. Teoria del rischio specifico, che ravvisa il nesso causale quando il danno è la realizzazione di
un rischio specifico creato da quel fatto. Occorre quindi vedere se, a seguito di un evento, si è
creata una rilevante probabilità di verificarsi del danno. Se, ad esempio, un soggetto ha una
malattia contagiosa, non è detto che dal contatto fisico debba necessariamente conseguire il
contagio. Se, però, lo stesso soggetto, incurante della malattia contagia un'altra persona, si dovrà
dire che la malattia contratta da quella persona è una conseguenza del comportamento del
soggetto malato, perché quel fatto ha determinato una maggiore probabilità del verificarsi del
danno (che poi si è verificato effettivamente.) Anche il fatto del terzo può realizzare il rischio
specifico: caso esemplare è quello dell'appaltatore che, nel restaurare un edificio, appresta
all'esterno delle strutture necessarie per eseguire i lavori. Queste strutture, lasciate incustodite
possono essere utilizzate da ladri, i quali si introducono negli appartamenti. In questo caso il furto
può ricondursi come conseguenza alla negligente custodia di quelle strutture, che, lasciate
incustodite, hanno creato il rischio specifico del furto.

Interruzione del nesso di causalità


Il nesso di causalità può essere interrotto dal fatto di un terzo o dal fatto dello stesso
danneggiato. Questi fatti interrompono il nesso di causalità quando si pongono come cause
assorbenti del danno, quando cioè sono idonee a produrre il danno indipendentemente dalla causa
originaria.
Qui la giurisprudenza adotta il principio di causalità efficiente, sancito dalla norma penalistica di
cui all'art. 41, c.p., secondo cui le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando
sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. Occorre, in questo caso, verificare se ci sia
un fatto sopravvenuto tale che il danno debba ricondursi, interamente, come conseguenza a quel
fatto successivo: ad esempio, un tale che avvelena le vivande che un altro soggetto era destinato a
consumare, riuscendo ad avvelenarlo. Se, al tempo stesso, un altro soggetto uccide il soggetto
avvelenato con colpo di revolver, si ha sicuramente un fatto che assorbe il fatto precedente: la morte
dovrà pertanto imputarsi, ovviamente, alla ferita provocata dal revolver.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 15

Può darsi che il fatto posto in essere dallo stesso danneggiato, anziché escludere del tutto le
conseguenze economiche negative del primo evento, valga a diminuire il risarcimento del danno: è
questo il caso del concorso di colpa (vedi infra).

La causa successiva ipotetica


Tra le regole che concorrono alla determinazione del danno risarcibile, va segnalata quella che è
espresso dal principio della causa successiva ipotetica, in base al quale il danno risarcibile deve
essere diminuito nella misura in cui altre cause, non imputabili, avrebbero ugualmente
arrecato il danno già prodotto dall'illecito. Caso tipico di causa successiva ipotetica si ha quando il
danneggiante distrugge un bene che doveva essere depositato in un magazzino, il quale,
successivamente, è distrutto da un incendio. Pertanto, quel bene sarebbe comunque perito a causa
dell'incendio: tale principio è espresso dall'art. 1221 cc., che consente al debitore di provare che la
cosa sarebbe egualmente perita presso il creditore. Tale principio suscita non poche perplessità,
in quanto si fa riferimento ad un danno che nella realtà non si è verificato. In relazione all’esempio, i
beni erano state già distrutti dall'illecito del danneggiante, ma si fa l'ipotesi secondo cui sarebbero
comunque perite, seppure per una causa successiva soltanto ipotetica. Il principio, in ogni caso, trova
giustificazione nella considerazione che comunque occorre che l'entità del risarcimento sia il più
possibile adeguata al danno che effettivamente il danneggiato subisce. Incidono, quindi, tutti i fatti
che diminuiscono o aumentano il danno fino al momento della sua liquidazione: se quindi, ad
esempio, un soggetto lamenta un danno arrecatogli a seguito di un ferimento, questo potrà pretendere
il risarcimento del danno che via via si è aggravato, fino al momento della sentenza o della liquidazione.
Si giustifica, così, che la legge tenga conto, fino al momento della liquidazione del danno, di
quell'evento che sta a significare che il danno economico subito dal danneggiato non è quello che va
determinato con esclusivo riferimento all'illecito originario. Perché, comunque, quel fatto realmente
accaduto avrebbe inciso sull'entità economica di quel pregiudizio scaturente dall'illecito. Diventa, si
potrebbe dire, un modo per speculare da parte del danneggiato. Il danneggiato comunque avrebbe
perduto quel bene, in quanto destinato a quel magazzino che poi si è incendiato, allora cerca - ma ciò
non è consentito dalla legge - di ottenere un risarcimento che non corrisponde all'entità effettiva del
danno subito. Bisogna, di conseguenza, escludere l'applicazione del principio quando invece il fatto
successivo è imputabile allo stesso danneggiante o ad un terzo: sempre con riguardo all'esempio del
magazzino incendiato, se l'incendio è stato causato da un piromane, allora la preventiva distruzione
della merce è rilevante in termini di risarcimento del danno. Ciò perché, benché sia probabile che la
merce sia egualmente perita presso il magazzino a seguito dell'incendio provocato dal piromane, ma il
danneggiato avrebbe potuto chiedere il risarcimento del danno al piromane. Quindi, in conclusione, non
si può dire che la distruzione della merce a causa del primo illecito non abbia arrecato, in termini
effettivi, un danno al danneggiato (la merce sarebbe comunque perita ma il danneggiato sarebbe stato
risarcito).

Il concorso di colpa del danneggiato


Il concorso di colpa del danneggiato è un altro dei fattori che incidono sull'entità del danno
risarcibile. Il principio è espresso dall'art. 1227 primo co., cc., “se il fatto colposo del danneggiato ha
concorso a produrre il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle
conseguenze che ne sono derivate.”.
Questo principio si basa sulla seguente considerazione: il risarcimento del danno non è dovuto per
quella parte di danno che è stata causata dallo stesso danneggiato, o dalle persone di cui il
danneggiato risponde.
Fondamento di questo principio è quindi l'esigenza che il danneggiante non sia tenuto a risarcire il
danno che non ha prodotto, e neppure per quella parte del danno che non è ascrivibile, in termini di
causalità, al suo operato. Secondo l'art. 1227, nel determinare la diminuzione del risarcimento
bisogna tener conto della gravità della colpa e dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 16

Quando si parla di gravità della colpa, si deve fare riferimento a un criterio obiettivo: la colpa è
l'inosservanza del modello di comportamento diligente. La gravità della colpa fa quindi riferimento
alla maggior misura dell'inosservanza di questa diligenza, ed è, quindi, un criterio obiettivo.
Questo criterio obiettivo ci consente di comprendere che la gravità della colpa prescinde dalla
capacità del danneggiato di intendere e di volere. In termini semplici, secondo l'interpretazione
largamente seguita dalla giurisprudenza, il principio del concorso di colpa del danneggiato trova
applicazione anche quando costui sia un incapace.
Questa interpretazione non è pacifica: una parte della dottrina ritiene che sia inammissibile che
non si tenga conto delle esigenze di tutela dell'incapace (cioè il danneggiato). Per quanto questo
argomento appaia solido, non sembra che l'esigenza di tutela della persona incapace possa giungere
al punto da far gravare sul danneggiante le conseguenze della negligenza obiettiva dell'incapace. Caso
classico di concorso di colpa del danneggiato incapace è quello del bambino che attraversa di corsa la
strada, così che l'automobilista non faccia in tempo a evitarlo. Supponendo che l'automobilista abbia
una parte di colpa, occorre tener conto del fatto che comunque a cagionare l'evento ha concorso anche
l'operato del bambino. In questo caso, in applicazione dell'interpretazione che è seguita dalla
giurisprudenza, non può farsi gravare sull'automobilista l'intero danno che, almeno in parte, è stato
causato dalla vittima stessa, per quanto incapace di intendere e volere.
Bisogna anche tener conto del fatto che il concorso di colpa sicuramente non si applica quando il
danneggiante aveva il dovere di sorvegliare il danneggiato, proprio in ragione della sua
incapacità e quando, comunque, il danneggiante non ha usato le cautele normalmente adeguate in
relazione al prevedibile fatto dell'incapace. Un caso giurisprudenziale è quello del paziente ricoverato
in una clinica, in quanto affetto da turbe mentali, che si getta dal balcone ferendosi gravemente. In
questo caso specifico, la responsabilità della clinica è stata dichiarata piena e totale, perché il personale
della clinica non solo è stato negligente nel sorvegliare il paziente, ma non ho usato quelle particolari
cautele che avrebbero impedito al danneggiato di procurarsi le ferite cadendo dalla finestra. Altro caso:
un bambino che, uscendo da scuola e avendo preso la bicicletta, si era avviato verso casa rimanendo
investito da un automobilista. Il conducente si era difeso dicendo che aveva investito il bambino perché
questi aveva sbandato, tagliandogli la strada. I giudici di primo e secondo grado dettero ragione
all'automobilista, ma la Cassazione gli dette torto. Difatti, pur essendo stato accertato che il bambino
aveva concorso, anzi, aveva determinato interamente l'evento lesivo (tagliando la strada),
l'automobilista, con riguardo a un bambino che, evidentemente era tale, avrebbe dovuto usare una
particolare cautela, perché era prevedibile che un bambino in bicicletta compie dei movimenti
azzardati. Pertanto la Cassazione ritenne che, in questo caso, l'automobilista avrebbe dovuto risarcire
per intero il danno arrecato al bambino.

Il dovere del danneggiato di evitare il danno


Parlando del concorso di colpa del danneggiato, abbiamo letto il primo comma dell'art. 1227 del cc., e
abbiamo tralasciato il secondo comma, che enuncia un principio diverso rispetto a quello che
abbiamo appena finito di analizzare: si tratta del principio secondo il quale “il risarcimento non è
dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza”.
Si tratta di un altro principio perché il primo comma riguarda l'esonero che attiene a quella parte di
danno che è stata causata dallo stesso danneggiato; il secondo principio, del comma 2, fa invece
riferimento al dovere del danneggiato di evitare il danno che è stato causato interamente dal
danneggiante.
Il danneggiato, in applicazione di questo principio, non può pretendere il risarcimento del danno che
egli avrebbe dovuto evitare usando una normale diligenza. Chiariamo la differenza fra i due principi.
Supponiamo che un terzo causi un incendio, che tuttavia si verifica grazie al contributo causale dello
stesso danneggiato, il quale aveva ammassato, nei locali, del materiale infiammabile, che non avrebbe
dovuto essere in quel posto. In questo caso si potrà dire che metà del danno è stato causato dal terzo,
l'altra metà dallo stesso proprietario del locale.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 17

Altro esempio: il danno è interamente causato dal terzo, il quale ha appiccato fuoco al locale. In questo
caso non c'è un concorso di colpa del proprietario danneggiato ma, quando quest’ultimo si accorga
dell'inizio dell'incendio e resti inerte senza chiamare i vigili del fuoco, attivare gli estintori etc., in questo
caso si applica il secondo comma dell’art. 1227. Difatti, benché sia vero che non è stato il proprietario
danneggiato a causare l'incendio, quest’ultimo non ha fatto niente per evitare che tale incendio non si
propagasse, non attivandosi in modo adeguato a tali casi.
Il principio generale su cui si basa il comma in analisi è il principio di correttezza. Tale principio
impone a ciascuno di salvaguardare l'utilità altrui nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile
sacrificio. Significa che il danneggiato deve attivarsi diligentemente per evitare il danno, cioè in modo
adeguato, ma non fino al punto di sacrificare rilevanti interessi, personali e patrimoniali.
A differenza di quanto si è detto per il concorso di colpa, qui rileva l'incapacità di intendere o di
volere del soggetto: infatti, il secondo principio è basato sulla correttezza, ma non può esserci una
valutazione di violazione di correttezza in capo alla persona che non è capace di intendere o di
volere. Se il danneggiato è un incapace, pertanto, non gli si farà carico del mancato intervento volto a
mitigare il danno.

Casi tipici di interventi del danneggiato volti a evitare il danno


Parlando del dovere del danneggiato di evitare il danno, si è fatto l'esempio della casa incendiata da
un piromane, ma è possibile tentare di tracciare un quadro di alcuni casi tipici di doveroso
intervento del danneggiato:
1. Rimpiazzo della prestazione o del bene: ad esempio, un terzo ha distrutto il foraggio destinato
ad alimentare il bestiame del danneggiato, ma a causa della mancanza di foraggio, muoiono gli
animali del danneggiato stesso. Dovrà pertanto essere risarcito anche il danno rappresentato, oltre
che dal valore del foraggio, dal valore delle bestie che sono morte. Qui il danneggiante potrebbe
replicare che benché sia vero che ha distrutto il foraggio e le bestie siano morte per quel motivo, il
danneggiato; anziché aspettare la morte degli animali avrebbe dovuto prontamente rimpiazzare il
foraggio che mancava. Questo stando a quanto previsto dall’art. 1227 c.c., comma secondo, che
stabilisce che il danneggiato deve provvedere a rimpiazzare sia i beni che i servizi quando ciò è
necessario per evitare l'aggravarsi del danno;
2. Riparazioni: ad esempio, se un soggetto ha danneggiato una vettura, certamente il proprietario
non è tenuto a farla riparare, è piuttosto il danneggiante a dover risarcire il danno (in questo caso
in forma specifica). Tutto questo non esclude, tuttavia, che non entri in rilievo l'esigenza di un
intervento dello stesso danneggiato: non è quindi escluso che lo stesso danneggiato debba
intervenire per effettuare egli stesso le necessarie riparazioni. Supponiamo che il danno a questa
vettura sia minimo e facilmente riparabile, ma che senza quella riparazione la vettura non sia in
grado di circolare. Supponiamo il danneggiato attenda per mesi il risarcimento del danno e che
nell’attesa, e a causa del mancato godimento del bene, il quantum del risarcimento aumenti, fino a
salire a cifre esorbitanti: in questo caso il danneggiante potrà eccepire che il danno era talmente
piccola entità che il danneggiato poteva provvedervi, evitando che la cifra risarcibile lievitasse.
Trattandosi di una spesa modesta, il danneggiato avrebbe potuto evitare di lasciare la vettura
inutilizzata a lungo, e quindi, non si possono far gravare le conseguenze pregiudizievoli sul
danneggiante.
3. Azioni legali: il danneggiato è tenuto, in virtù del principio dell’art. 1227 comma II, a procedere
in via legale nei confronti del danneggiante o di terzi? La domanda si pone perché ci si chiede se
possa farsi gravare sul danneggiante il maggior danno derivato dal protrarsi nel tempo del
mancato risarcimento del danno. Se si agisce dopo che sono passati, ad esempio, quattro anni dal
verificarsi del danno - il danno extra contrattuale si prescrive di regola in cinque anni - nel quale
la lesione può anche essersi aggravata, il danneggiante potrebbe eccepire dicendo che il
danneggiato avrebbe potuto agire prima. In questo caso, l'ordinamento giuridico dà ragione al
danneggiato, perché agire in via legale comporta sempre un sacrificio apprezzabile, in termini di

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 18

costi, di incertezze, di impegno di tempo. Il danneggiato non è tenuto a far valere


tempestivamente il suo diritto nei confronti del danneggiante al fine di evitare l'aggravarsi del
danno derivante dal protrarsi del mancato risarcimento. L'obbligo del risarcimento scaturisce
legalmente dall'illecito, e la sua esecuzione non dipende dall'impulso del danneggiato. L'inerzia
del danneggiato è giustificata perché allo stesso non si può chiedere di andare dall'avvocato e di
iniziare una causa per ottenere ciò che il danneggiante era per legge tenuto a fare;
4. Avviso del danno, caso tipico di doveroso intervento del danneggiato: cioè, avvisare il
danneggiante ignaro del danno verificato, o che lo stesso si stia propagando. Tornando
all'esempio dell'incendio, considerando che l'evento potrebbe essere stato causato da un terzo, che
avendo eseguito dei lavori aveva colposamente lasciato acceso un fornello per poi allontanarsi dal
luogo dove poi si è prodotto l’incendio. In questo caso, il terzo ha causato un danno, ma non ne era
consapevole. La primissima cosa che deve fare il danneggiato in un caso del genere è quella di
avvertire il danneggiante del pericolo. Se il danneggiante, infatti, fosse ancora in grado di fermare
quell'incendio, ben potrebbe allora difendersi dicendo: è vero che io ho appiccato l'incendio, è vero
che l'incendio si è poi propagato fino a distruggere tutto il locale, ma quando l'incendio era appena
agli inizi non sono stato avvertito, quindi mi è stato impedito di bloccarlo ed evitare che si
propagasse;
5. Cure mediche: il danneggiato non è tenuto a sottoporsi a cure mediche per evitare il danno.
L’art. 32 Cost., co. 2, difatti, stabilisce che “nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario se non per disposizioni di legge”, e quindi i trattamenti sanitari sono rimessi
alla piena libertà dell'individuo. E’ l’interessato, quindi, decidere se sottoporsi a meno a
trattamenti sanitari pur se necessari, fatta eccezione per i casi nei quali interviene la legge (casi
eccezionali, in cui è a repentaglio la salute collettiva di solito). Esempio: un soggetto viene ferito
con una lama e la ferita appare nell'immediato curabile, ma capace di cagionare con ragionevole
certezza un danno più significativo alla salute dell'individuo (infezione o morte). Supponiamo che la
ferita degeneri, portando un grave pregiudizio al danneggiato. Deve il danneggiante rispondere
anche per queste conseguenze, che il danneggiato avrebbe potuto evitare sottoponendosi al
trattamento sanitario? La risposta che deve darsi - in base al menzionato art. 32 Cost. – è che non
può farsi carico al danneggiato di non avere provveduto a curarsi, perché la cura è oggetto di un
principio costituzionale di libertà.
Infine, non si pone in termini di contrasto col diritto di libertà della persona l’orientamento
giurisprudenziale per cui, in presenza di infermità agevolmente curabili, si procede alla riduzione
del risarcimento in via equitativa, non in considerazione del dovere del danneggiato di curarsi,
ma in ragione delle probabilità che tale soggetto si sottoporrà alle cure necessarie.

La compensazione col lucro del danno


Si tratta di un principio di lontanissima memoria, risalente al diritto romano. La compensazione del
lucro col danno esprime il principio in base al quale la determinazione del danno risarcibile deve
tener conto anche degli effetti vantaggiosi che il fatto illecito ha recato al danneggiato.
Questo principio tiene conto dei vantaggi che possono derivare direttamente dall'illecito e che
devono essere conteggiati per stabilire l'entità del risarcimento dovuto. Il principio non è previsto da
specifica norma. Si ritiene, tuttavia, che pur in mancanza di espressa disposizione di legge, questo
principio sia operante nel nostro ordinamento sulla base di un altro principio: quello secondo cui in
ogni caso il risarcimento del danno per quanto possibile deve avere ad oggetto il danno che
effettivamente il danneggiato ha subito. Questo onde evitare speculazioni ed arricchimenti da parte
del danneggiato.
Ora, se il fatto illecito ha prodotto degli effetti vantaggiosi, si deve tenerne conto perché è la
conseguenza dell'illecito va valutata nella sua globalità (principio richiamato ma scarsamente
applicato dalla giurisprudenza, in quanto si tratta di conseguenze che non sono direttamente
derivate dall'illecito). Esempi: se un soggetto è vittima di un'aggressione, che ne provoca il ricovero in

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 19

ospedale e alcune persone compassionevoli fanno al danneggiato delle offerte in denaro, è chiaro che
non potrà il danneggiante sostenere che l'aggressione ha portato a un guadagno, perché quegli atti
benevoli non sono conseguenza diretta dell'illecito; difatti le erogazioni benevole, sono sì collegati
all’illecito, ma non sono una conseguenza diretta. Allo stesso modo, un danneggiato investito, cade in un
fosso nel quale trova un biglietto vincente della lotteria: anche in questo caso il premio si porrà al di
fuori del computo del risarcimento del danno. Si può parlare di compensazione del lucro col danno
solamente quando l'effetto è veramente diretta conseguenza dell'illecito: ad esempio, si pensi a
un tale che danneggia un dipinto, ma questo danneggiamento porta alla scoperta di una parte
sottostante della tela in cui è stato eseguito un dipinto di grandissimo valore. In questo caso, al
danneggiato si potrà ragionevolmente obiettare che, se è vero che quel illecito ha lesionato il quadro, è
anche vero che l’illecito si è poi rivelato un evento fortunato, consentendo di mettere in luce la parte
celata di quel quadro, dal valore maggiore.
Quindi questo principio, benché non espressamente previsto, va riconosciuto come operante nel
nostro ordinamento, ma da applicarsi con buona cautela, rappresentata dalla rigorosa richiesta del
presupposto che si tratti di un effetto promanante dall’illecito in via diretta.

Il momento rilevante per la determinazione del danno


Il momento rilevante per la determinazione del danno è quello in cui il danno viene accertato e,
quindi, il momento della sentenza - o il momento in cui il danneggiato e il danneggiante di comune
accordo determinano l'entità del danno risarcibile. Tutto ciò che avviene fino al momento della
sentenza è rilevante solo se incide sull'entità del danno risarcibile. Nell'esempio della ferita,
supponendo che questa venga curata e che nonostante ciò vada ad aggravarsi, si terrà conto dello stato
della vittima al momento della sentenza, non al momento in cui la ferita è stata inferta. Va detto,
inoltre, che qualora la ferita dovesse guarire completamente al tempo della sentenza, si dovrà tener
conto anche della guarigione.
Questa regola trova conferma nell’art. 345 codice di procedura civile, che stabilisce che “nel giudizio
di appello, il danneggiato può chiedere il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza di primo
grado” (ovviamente se si tratta di danni riferibili all’illecito). Non si ha, allora, bisogno di iniziare una
nuova causa, ma è quella causa stessa che prosegue e pertanto si richiede al giudice di tener conto
delle variazioni che ci sono state, che possono consistere in un aggravamento del danno, di cui il
giudice d'appello dovrà tenere conto. Ad esempio, bisognerà tener conto dell’aggravarsi della ferita nel
tempo intercorrente fra il primo grado e l’appello.
Il principio subisce una deroga con riguardo ai danni futuri: se, infatti, il danneggiato chiede i
danni futuri – che, con ragionevole certezza, si produrranno nel futuro come conseguenza dell'illecito
- allora il momento rilevante ai fini della determinazione del danno riguarda il tempo del loro
probabile accadimento. Un esempio tipico di danni futuri è costituito dalla perdita delle prestazioni di
sostentamento che i sopravvissuti ricevevano dalla vittima di un incidente mortale: qui il danno
lamentato è la mancata percezione di tali contributi per un tempo futuro.
Occorre, come detto, una ragionevole certezza (la certezza assoluta non è umanamente possibile e
questo incide sulla determinazione del danno risarcibile, la quale deve procedere in via equitativa,
tenendo conto della minore o maggiore probabilità di verificarsi del danno.) Determinato
l'ammontare del danno, bisogna operare una detrazione, in ragione del vantaggio che il danneggiato
riceve, in quanto percepisce anticipatamente il capitale di una somma che avrebbe percepito in
futuro.
Rispetto ai danni futuri bisogna distinguere l'ipotesi della perdita di un'occasione favorevole,
anzidetta “perdita di chance”. Qui non si parla appropriatamente di danno futuro, perché la vittima
riceve un danno immediato (costituito appunto dalla perdita della chance), che, però, va valutato in
termini di probabilità. Esempio comune è rappresentato da chi venga illegittimamente escluso dal
partecipare a un concorso o gara pubblici: la perdita immediata è rappresentata da una perdita di
un’occasione favorevole che non è ovviamente una certezza. Si può, però, ragionevolmente accertare

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 20

quali probabilità aveva la vittima di conseguire un risultato positivo. Il risarcimento del danno verrà
quindi conto di queste probabilità, ovviamente sempre in via equitativa.

La prova del danno


L'onere della prova del danno incombe sul danneggiato, trovando applicazione la regola generale
sancita dall’art. 2697 codice civile: “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento.”
I fatti che ne costituiscono il fondamento, e la cui prova è a carico del danneggiato, sono:
1. l'evento lesivo subito;
2. gli effetti economici negativi che ne sono conseguiti (quindi, la perdita economica subita e,
eventualmente, il mancato guadagno.)
Il danneggiato può chiedere che la sia accertata in giudizio, mediante una consulenza tecnica, l'entità
delle lesioni subite e l’entità degli effetti economici negativi che ne sono conseguiti.
Inoltre, concorrono alla determinazione del danno anche fatti notori che non devono essere
approvati dal danneggiato, ad esempio la svalutazione monetaria, che incide negativamente sul
danno, ma la cui prova non è a carico del danneggiato.
Talvolta la legge prevede forme di presunzione del danno, esonerando il danneggiato dalla relativa
prova. Il caso più comune e ricorrente è quello degli interessi moratori: ci dice infatti l’art. 1224 cc.,
che “nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di denaro, sono dovuti dal giorno della mora
gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver
sofferto alcun danno. Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli
interessi moratori sono dovuti nella stessa misura. Al creditore che dimostra di aver subito un danno
maggiore spetta l'ulteriore risarcimento, questo non è dovuto se è stata convenuta la misura degli
interessi moratori.” Questa è chiaramente una presunzione legale del danno subito dal creditore
pecuniario a seguito di un ritardo: il creditore pecuniario non ha quindi bisogno di provare l'entità
del danno subito a causa del ritardo, perché si presume che tale danno corrisponda agli interessi
legali previsti dalla legge. Se il danno fosse superiore, allora si dovrà fare riferimento alla regola
generale secondo la quale il danneggiato deve provare il danno sofferto.

La valutazione equitativa del danno


Non è sempre facile assolvere all’onere della prova, che spetta al danneggiato, e la legge tiene conto
della difficoltà in cui può incorrere il danneggiato, prevedendo la possibilità di una valutazione
equitativa del danno. Tale valutazione equitativa è prevista all’art., 1226 cc.: “se il danno non può
essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa”. Per
valutazione equitativa si intende che il danno deve essere determinato mediante il prudente
contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno. Ciò significa che nel
determinare l'ammontare del danno bisogna tener conto dei fattori di probabile incidenza positiva e
negativa.
Supponiamo che sia stata distrutta la valigia di un viaggiatore: poiché è improbabile che il viaggiatore
avesse un elenco analitico degli oggetti contenuti nella sua valigia, il danno dovrà essere valutato in via
equitativa. Bisognerà tener conto di quello che probabilmente quella valigia conteneva, secondo criteri
di normalità; al di fuori di questi normali fattori di incidenza sul danno bisognerà dare una prova
specifica (ad esempio, la valigia distrutta conteneva un diamante prezioso: bisognerà provarlo).
Bisogna escludere che si possa parlare di valutazione equitativa con riguardo ad altri fattori, ad
esempio le condizioni economiche della vittima o di colui che ha arrecato il danno (se la vittima è un
nullatenente non gli si potrà accordare un risarcimento maggiore).
Questo tipo di equità non va confusa con l'equità intesa quale “principio di giusto con temperamento
degli interessi delle parti litiganti”, cioè come principio di composizione della lite. Sappiamo che le
controversie devono essere risolte applicando il diritto positivo, ma la stessa legge consente che la

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 21

controversia sia risolta in base ad equità, quando le parti chiedono il giudizio secondo equità, che, in
questo caso, significa prudente contemperamento degli interessi delle parti litiganti.
Ulteriore significato di equità è quello che la vede quale principio di integrazione del contratto: art.
1374 cc., “il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo è espresso, ma anche a tutte le
conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi o l'equità.” Qui equità sta
a significare principio di giusto contemperamento degli interessi delle parti. Nel contratto di
prestazione d’opera, ad esempio, le parti determinano un corrispettivo. Se le parti non lo determinano o
non c’è accordo fra loro, si potrebbero applicare le tariffe professionali o gli usi, che, tuttavia,
potrebbero non esserci. In questo caso il giudice determinerà un ammontare che sia equo,
contemperando gli interessi delle parti.
Presupposto della valutazione equitativa è l'impossibilità per il danneggiato di offrire la prova
del preciso ammontare del danno. La giurisprudenza ammette che anche la grave difficoltà di
prova dia ingresso al giudizio equitativo. Deve però sempre trattarsi di impossibilità o difficoltà di
prova sull'ammontare, non sull'esistenza del danno. L'incertezza sull'esistenza del danno esclude,
infatti, il diritto al risarcimento.

Il danno non patrimoniale


Il danno non patrimoniale è precisamente la lesione di beni non economici che, secondo la
coscienza sociale, non ammettono una valutazione economica. Si pensi alla fedeltà coniugale,
bene non suscettibile di valutazione economica, non essendoci un “mercato della fedeltà”: la lesione
di tale bene costituisce un danno non patrimoniale.
La previsione normativa – importante e discussa - è quella dell’art. 2059 cc., “il danno non
patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge.” Abbiamo quindi una norma
che ammette la risarcibilità del danno non patrimoniale, ma limitatamente ai casi in cui è
specificamente prevista la risarcibilità di questi danni.
Tra le norme che prevedono la risarcibilità dei danni non patrimoniali va menzionato l’art. 185 c.p.,
che prevede che l'autore del reato debba risarcire alla vittima i danni patrimoniali e anche quelli non
patrimoniali. Quindi è dato ingresso al risarcimento dei danni non patrimoniali, in tutti i casi
derivanti da reato. Sulla base del menzionato art. 185 c.p., una larga fascia di fatti illeciti da’ luogo a
risarcimento del danno non patrimoniale: ad esempio si pensi al caso di omicidio volontario. Resta
fuori, tuttavia, una grande fascia di fatti illeciti che, non costituendo fattispecie di reato, non danno
luogo a risarcimento del danno.
Il principio dell’irrisarcibilità dei danni non patrimoniali si ispira alla tradizionale concezione del
diritto privato come ordinamento costituito a tutela di interessi economici. Gli interessi non
economici – secondo questa concezione – sono di massima giuridicamente irrilevanti, e la loro
risarcibilità richiede quindi un controllo normativo volto ad evitare che il diritto di risarcimento
diventi occasione di abusi a carico del danneggiante.
Occorre dire che questa concezione, che mette al centro del diritto privato i rapporti patrimoniali, è
stata ormai superata dalla concezione che pone al centro del diritto privato la persona e i suoi valori.
Questo spostamento dell'asse centrale del nostro diritto dall'economia alla persona si è riflessa
anche sull'articolo 2059, e sia la dottrina che la giurisprudenza hanno dovuto riconoscere che non è
pensabile precludere il risarcimento del danno non patrimoniale quando si tratti della lesione di
diritti della personalità e dei diritti fondamentali dell'uomo.
Questa consapevolezza si è fatta viva, in primo luogo, con riguardo alle lesioni dell'integrità psico -
fisica, il cd. danno biologico.
Se, ad esempio, il danneggiante arreca una lesione all'integrità psicofisica di un altro soggetto,
comportando la perdita di un arto, secondo l'art. 2059 il danneggiato può chiedere sia il risarcimento
del danno patrimoniale (consistente ad esempio nelle spese subite per la cura dell'arto), sia il
mancato guadagno (derivante dal fatto che non si possa più svolgere il proprio lavoro per il quale era
necessario avere tutte due le braccia). Non si può andare oltre nel risarcimento: quindi, nell'ipotesi in

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 22

cui il danneggiato non abbia come conseguenza dell’illecito un danno patrimoniale provabile,
secondo l'art. 2059 sarebbe precluso qualsiasi risarcimento (il danno patrimoniale nell’esempio di
cui sopra potrà essere richiesto da un pianista, ma non da un professore universitario).
Per ovviare a questa aberrazione, la giurisprudenza, a seguito di un preciso segnale della Corte
Costituzionale, ha ammesso che il danno biologico costituisce un danno risarcibile di per sé, a
prescindere da ogni conseguenza economica negativa (quindi a prescindere dal danno patrimoniale).
Se c'è danno patrimoniale, sarà risarcito, ma il danno biologico deve essere risarcito come tale, anche
in assenza di danno patrimoniale.
Ammessa la risarcibilità del danno biologico - in base alla considerazione che il diritto all'integrità
psicofisica, essendo un diritto fondamentale della persona costituzionalmente garantito, reclama una
tutela giuridica che, altrimenti, verrebbe meno sul piano privatistico - si è poi giunti a riconoscere
che questo fondamento vale non solo per il danno biologico, ma anche per la lesione degli altri diritti
fondamentali della persona.
Sul danno non patrimoniale possono pertanto tenersi fermi i seguenti punti:
1. La nozione di danno non patrimoniale non si limita a quella di sofferenza morale. In
generale il danno non patrimoniale è il pregiudizio arrecato a interessi non economici aventi
rilevanza sociale. Questo significa che anche un incapace può essere vittima di un illecito che gli
arrechi un danno non patrimoniale: non gli si potrà negare il risarcimento del danno in
considerazione del fatto che non è in grado di percepire sofferenza morale. Lo stesso vale per le
persone giuridiche che hanno diritto al risarcimento del danno non patrimoniale perché sono
comunque titolari di diritti che tutelano interessi non patrimoniali e la cui lesione quindi va
risarcita;
2. I danni non patrimoniali sono di massima irrisarcibili se non ricorre una fattispecie penale;
3. Nell'ambito dei danni non patrimoniali si colloca, con suo autonomo rilievo, il danno biologico,
quale lesione dell'integrità psicofisica e della salute della persona;
4. La risarcibilità del danno biologico trova ragione non tanto nella materialità della lesione,
quanto nell'importanza socio-giuridica degli interessi lesi, elevati a valori costituzionali;
5. La risarcibilità del danno dev'essere egualmente riconosciuta in tutte le ipotesi di lesioni di
diritti fondamentali dell'uomo.

Il risarcimento del danno non patrimoniale


Un'opinione abbastanza diffusa ritiene che il danno non patrimoniale sia risarcibile in funzione
punitiva. Il danneggiante, vale a dire, è tenuto al risarcimento del danno non patrimoniale come una
forma di punizione. Quest'opinione va senz'altro scartata, innanzitutto per una ragione lessicale: la
nostra legge parla di risarcimento, che di per sé non ha una funzione punitiva. Nel campo del diritto
privato più in generale non ci sono punizioni. È il diritto penale che punisce. Il risarcimento ha la sola
funzione di reintegrazione del danno arrecato. Certamente, trattandosi di interessi non suscettibili di
valutazione economica, il risarcimento del danno non patrimoniale non si potrà determinare
secondo l'idea del risarcimento per equivalente. Ciò che si riceve nell'ambito del risarcimento del
danno non patrimoniale non è una somma equivalente in termini economici al danno subito, è
piuttosto una sorta di indennizzo che, secondo la coscienza sociale, compensa la lesione subita.
Conseguentemente risultano inapplicabili i criteri di quantificazione del danno patrimoniale. Il
danno non patrimoniale dev'essere determinato in via equitativa, ma tale determinazione non
deve tenere conto dei fattori di probabile incidenza sull'entità del danno economico. Piuttosto,
occorre fare riferimento agli elementi che determinano la maggiore o minore gravità personale
del danno. Tra questi rileva anche il carattere doloso del fatto, come intenzione di arrecare il danno,
in quanto esso accresce l'intensità della lesione subita dalla vittima, e quindi il danno sofferto. La
gravità del fatto si riverbera, infatti, sulla gravità della lesione. E’ più grave, infatti, il danno subito da
aggressione volontaria rispetto a un’aggressione colposa.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 23

Stabilita la gravità della lesione, il giudice dovrà tener conto di quello che socialmente viene ritenuto
adeguato. Per quanto possibile, dovrà procedere prudentemente, trovando la giusta misura che non
irrida alla vittima e non diventi neanche un pretesto di arricchimento della stessa.

Il danno biologico
Tra i danni che pregiudicano interessi fondamentali dell'uomo (fra cui la salute), un rilievo
particolare merita il danno biologico, ossia il danno rappresentato dalle lesioni dell'integrità
psicofisica e della salute a prescindere dagli effetti economici negativi.
In termini di danno biologico rilevano pertanto invalidità, menomazioni, deturpazioni, impotenze
sessuali, malattie nervose, insonnia, sofferenze fisiche, alterazioni mentali e qualsiasi altra lesione -
invalidante o meno – della realtà corporale e mentale della persona, senza riguardo alle conseguenze
economiche. Danno alla salute, in particolare, è anche il danno psichico, distinto rispetto alla
sofferenza morale (o patema d'animo).
La determinazione del danno risarcibile deve tener conto della gravità della lesione e il risarcimento
deve essere adeguato a questa gravità. Tale adeguatezza deve tener conto di ciò che si considera
socialmente adeguato.
La possibilità di notevoli differenze di misura nella determinazione di questo danno rende necessaria
la ricerca, per quanto possibile, dei parametri obiettivi. Tale esigenza si è avvertita, ad esempio, in
un campo purtroppo tristemente ricco di danni alla persona, cioè le assicurazioni contro i danni
derivanti dalla circolazione stradale. La l. 57/2001 ha introdotto difatti dei parametri per la
valutazione del danno non patrimoniale; si sono formate, così, delle “tabelle” presso i vari tribunali,
che tendono a uniformare i criteri – riferiti principalmente all’entità della lesione - di determinazione
del danno biologico.

Il danno esistenziale
Una nuova figura di danno che si è andata affermando anche in giurisprudenza è quella del cd. danno
esistenziale, che ha dato luogo a notevoli perplessità, e che ormai ha ottenuto un riconoscimento
giurisprudenziale, anche tramite le sezioni unite della Cassazione.
Il danno esistenziale è il deterioramento della qualità della vita del soggetto. La rilevanza di
questo danno muove dall’esigenza di non lasciare priva di tutela la vittima di fatti illeciti che non
integrano fattispecie di reato, che non danno luogo a perdite economiche, che non costituiscono
danno biologico e che, tuttavia, ledono interessi meritevoli di tutela.
Secondo l'orientamento che si è andato definendo, a seguito di una precisa indicazione della Corte di
Cassazione, bisogna dire che questo danno esistenziale deve comunque avere un carattere di
obiettività, deve incidere realmente sulle condizioni e sulle scelte di vita dell'individuo.
Un precedente specifico di danno esistenziale è quello del danno subito dal minore per la mancata
assistenza morale da parte del genitore: il padre che per anni aveva trascurato il figlio, si è visto
condannato al risarcimento del danno morale subito dal figlio. In questo caso il danno rientra nella
nozione appena delineata, come altro esempio di danno esistenziale è quello derivante da mobbing.
La precisazione che arriva dalla Corte di Cassazione fa chiarezza su un punto: non può
assolutamente parlarsi di danno esistenziale, come danno rilevante per il diritto, quando ci si trovi
semplicemente in presenza di stati d'animo consistenti in dispiaceri della persona a seguito di un
qualunque fatto. E’ stato, ad esempio, da un giudice di pace, riconosciuto il riconoscimento da danno
esistenziale alla padrona di un gatto travolto da un autocarro: il giudice qui ha tenuto conto del
dispiacere subito.
Ci dev'essere, specifica tuttavia la Cassazione, un’obiettiva incidenza sulle condizioni di vita della
persona e deve trattarsi di un'incidenza derivante dalla violazione di diritti fondamentali della
persona stessa. Da scartare, ad esempio, il risarcimento per un punteggio di laurea inferiore a quello
spettante per media. Un buon criterio può essere quello dell’alterazione di un progetto di vita.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 24

Secondo la giurisprudenza qui va applicata la regola generale dell'onere della prova:


quest'alterazione della qualità della vita va dimostrata, anche se, sempre secondo la medesima
giurisprudenza, il giudice può ricorrere a prove presuntive.

Il risarcimento in forma specifica e diritti della personalità


Con riguardo al danno non patrimoniale, si è parlato finora di risarcimento del danno per
equivalente, cioè la corresponsione di una somma in denaro valente a reintegrare il valore perduto e
non conseguito dalla vittima dell'illecito. La legge prevede, tuttavia, anche il risarcimento in forma
specifica: ex art. 2058 c.c., “il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora
sia, in tutto o in parte, possibile”.
Questo risarcimento in forma specifica consiste nella diretta rimozione della lesione e delle sue
conseguenze.
Ad esempio, la rottura di una vetrina da parte di un passante, stando al risarcimento del danno per
equivalente, corrisponderà alla corresponsione della somma determinata, in relazione al valore di
mercato della vetrina rotta e al costo della manodopera. Nel risarcimento in forma specifica, invece, il
danneggiante dovrà fare quanto necessario per sostituire il vetro rotto con un vetro nuovo.
Si tratta sempre di un rimedio risarcitorio, perché consente di reintegrare la lesione subita dal
danneggiato. Si può anzi dire che è un rimedio idealmente prioritario rispetto a quello per
equivalente, consentendo la piena, effettiva, totale reintegrazione del danno subito (infatti, in altri
ordinamenti viene indicato come una forma primaria di risarcimento del danno). Nel nostro
ordinamento, invece, tale risarcimento mantiene una posizione di secondo grado. Ciò risulta già dal
testo della norma sopra detta: “il danneggiato può chiedere…”, da cui si desume quindi che “normale”
è il risarcimento per equivalente, mentre quelle in forma specifica ha carattere eccezionale.
Comunque sia, questo risarcimento è ammesso in via generale, con il limite rappresentato dal fatto
che questo risarcimento sia effettivamente possibile, in tutto o in parte. La stessa norma aggiunge,
tuttavia, che il giudice disponga che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione
in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per il debitore: oltre l’impossibilità, questo è uno
dei limiti in cui incorre. Il costo può essere, infatti, largamente sproporzionato rispetto all'entità
economica del danno e al vantaggio concretamente apportato al danneggiato.
Dal tenore della norma si desume che la scelta tra risarcimento per equivalente e in forma specifica
spetta al danneggiato e non al danneggiante. Va detto che, in applicazione del principio generale di
buona fede, sarebbe ingiustificato il rifiuto da parte del danneggiato al risarcimento in forma
specifica, quando questo risarcimento valga a rimuovere totalmente la lesione subita.
Qualche ulteriore considerazione su risarcimento in forma specifica nel campo dei diritti della
personalità: il risarcimento in forma specifica è difatti possibile – teoricamente - con riguardo al
danno biologico. Una lesione all'integrità psicofisica è suscettibile di essere curata: non si
conoscono, tuttavia, precedenti di vittime che abbiano chiesto un risarcimento in forma specifica con
riguardo a danni biologici. Una forma di risarcimento in forma specifica si ravvisa, invece, nella
pubblicazione della sentenza di condanna, quando si tratti di fatti lesivi dell'identità personale o
dell’onorabilità della persona. Rendere di pubblica ragione, mediante pubblicazione ad esempio sui
giornali, vale in qualche modo a restituire alla vittima, di fronte all'ambiente sociale, la sua identità ed
eventualmente anche la sua onorabilità.

2.2 > Il c.d. nesso causale

Introduzione al tema del cd. rapporto di causalità


Il tema coinvolge l'intero ambito della responsabilità civile, sia per inadempimento di
un'obbligazione che per fatto illecito.
La responsabilità civile, infatti, sembra ruotare attorno a un problema, nelle sentenze dei giudici ed
anche in svariate opere di dottrina: l’accertamento del cd. nesso di causalità. Esso riguarda la

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 25

responsabilità, ad esempio, dei professionisti, del personale della scuola, o ancora della
responsabilità per un sinistro stradale.
Tutti i tipi di responsabilità sono strettamente legati all'accertamento del nesso causale (almeno
così appare in giurisprudenza, anche se pare che la stessa si sia accorta della falsità insita nelle
argomentazioni che danno unicamente rilievo al nesso causale).
Cos'è il nesso di causalità? Dall’analisi dei testi più risalenti in tema di responsabilità civile - fino agli
anni ‘80 - ci si rende conto che non si dava alla causalità un rilievo centrale. L'accertamento del nesso
di causalità non aveva l'importanza che riveste adesso nel panorama della giurisprudenza e della
dottrina. Dagli anni ‘90 in poi, e ancor più nei testi di questo secolo, viene riservato uno spazio
sempre più corposo nei testi sulla responsabilità civile al problema relativo all'accertamento del
nesso di causalità. Come se, nonostante le norme non siano cambiate - il codice civile attualmente in
vigore è del 1942 - si richieda qualcosa di diverso nell’accertamento della responsabilità.

Bisogna ritenere che, nel caso di inadempimento contrattuale, sia poco opportuno parlare di nesso
di causalità, perché qui sorge un obbligo in relazione a due persone (un debitore e un creditore).
L’analisi si esaurisce andando a ricostruire l’oggetto dell’obbligazione, cioè andando a interpretare
esattamente il contenuto del rapporto obbligatorio, ossia che cosa i due soggetti hanno inteso
pattuire. Vale a dire, cosa la legge ha inteso stabilire a carico del debitore e a favore del creditore,
quando l'obbligazione nasce per legge; oppure, quando l'obbligazione nasce da contratto, cosa i due
soggetti hanno inteso pattuire tra di loro per far sorgere l'obbligazione. Se un debitore, pertanto, non
adempie a una determinata obbligazione è già inadempiente ex se, e incorre in responsabilità. Qui
l’azione che rileva è l’inadempimento.
Quindi è sbagliato, a priori, in materia di responsabilità civile per inadempimento dell'obbligazione,
parlare di accertamento della causalità con riguardo all'azione, al comportamento rilevante. Ciò che
conta è capire il contenuto esatto dell'obbligazione, e se il debitore contravviene a quanto previsto
come oggetto dell'obbligazione è già inesorabilmente inadempiente e di conseguenza sorge la
responsabilità.
Altro discorso riguarda, invece, la quantificazione eventuale del risarcimento del danno: in tal
caso si parla di causalità e ci sono delle regole specifiche, dettate, nel caso di responsabilità
contrattuale degli artt. 1223, 1225, 1226, 1227, che prevedono qual è il danno che dovrà essere
risarcito in caso di responsabilità contrattuale. Si ritiene che queste regole siano regole di causalità,
cioè che stabiliscano quale sia il limite entro cui calcolare il danno risarcibile. In realtà anche in
questo caso non sussiste un problema vero e proprio, perché si tratta semplicemente di interpretare
le norme di legge e di applicare il frutto di tale interpretazione.

Il problema sussiste anche nell'ambito della responsabilità extracontrattuale, per la quale,


riguardo la quantificazione del risarcimento, esistono delle norme specifiche - come l'art. 2056 cc.
che rinvia ad alcune norme dello stesso codice (artt. 1223-1226-1227) per la quantificazione del
danno risarcibile, salva la mitigazione legata ad equità, che permette al giudice di valutare le
circostanze del caso. Anche per la quantificazione del danno risarcibile per responsabilità
extracontrattuale da fatto illecito, il problema di causalità giuridica è relativo, perché il vero
problema è, in realtà, la quantificazione del danno risarcibile. Anche in questo caso si tratta
semplicemente di andare ad analizzare quali siano le norme, ricavarne il significato e applicarlo, in
altri termini si tratta un problema di applicazione di norme giuridiche.

Il vero problema si pone, allora, con riguardo all'accertamento della causalità, non nella
quantificazione del danno risarcibile da responsabilità extracontrattuale. Rileva la causalità che dà
origine alla responsabilità extracontrattuale, quale elemento costitutivo della fattispecie, come
causalità nel comportamento che porta all'obbligo di risarcire il danno in via extracontrattuale. In

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 26

particolare, quindi, ci si focalizza sul nesso tra il comportamento posto in essere dal soggetto e il
danno che comporta il sorgere della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.
In verità, le teorie inerenti la causalità si trovano spesso esposte dalla giurisprudenza e dottrina
anche in materia di responsabilità contrattuale. In questi casi vi è già, come visto, la figura
dell'inadempimento è la sola a cui bisogna guardare per comprendere se un soggetto entra o meno in
responsabilità. I problemi relativi all'accertamento del nesso causale, in quest’ambito, non possono
essere analizzati come problemi autonomi ma devono essere analizzati come problemi relativi alla
delimitazione del preciso contenuto dell'azione, cioè l’inadempimento. Nella responsabilità
extracontrattuale il vero problema riguarda cosa sia la causalità, come elemento autonomo
che porta far sorgere un illecito civile.

La norma di partenza è l’art. 2043 c.c., tramite cui esordisce la parte di codice che riguarda la
responsabilità da fatto illecito: “qualunque atto doloso o colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto,
obbliga l'autore del fatto a risarcire il danno”. La prima parte della norma parla di un atto doloso o
colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto. La locuzione “cagioni ad altri” significa che il
comportamento deve provocare un danno.
Quando un comportamento cagiona un danno? Questo è il centro del problema della causalità
nella responsabilità extracontrattuale. Anche le altre norme, che pongono responsabilità speciali
dettate dal codice civile, riguardano sempre il cagionare un danno, pertanto, anche per esse serve
capire cosa significhi e quando si deve ritenere che vi sia stato questo danno.
Si pone innanzitutto un'indagine di carattere scientifico: quando si parla di causalità, si pensa ai
rapporti di causa-effetto, si vuole cioè capire cosa vuol dire nel nostro codice che un fatto doloso o
colposo cagioni ad altri un danno ingiusto. Per capire il significato del verbo cagionare si deve andare
a scavare all'interno del nostro vocabolario: il verbo “cagionare” ci rimanda ai rapporti causa -
effetto. Si può dire che una condotta cagiona qualcosa se si instaura una cosiddetta catena causale
che porta a un qualcosa, nella fattispecie a quel danno ingiusto.

Per l’analisi della causalità, è opportuno capire cosa si intenda per causalità nelle scienze
naturalistiche: in realtà, andando a verificare gli studi filosofici sui rapporti di causa-effetto, si
scopre che nessuna certezza si può avere in ordine a tali rapporti. Questo perché tutto può
dipendere dalla particolare posizione dell'osservatore, si pensi, ad esempio, a un aereo che si
avvicina a una montagna: dipende dalla posizione dell'osservatore stabilire quando l'aereo ha
superato un determinato punto di una montagna o meno. Perché l'osservatore, posto in una
posizione piuttosto che un'altra, potrà avere una visione diversa del momento in cui l'aereo ha
superato determinati punti della montagna. Quindi la posizione dell'osservatore con riguardo ad
una soggettiva interpretazione dei rapporti di causa effetto è importante. Altro elemento è la
conoscenza: ad esempio, se non sono conosciuti gli effetti di un determinato mangime che si dà agli
animali, eventuali alterazioni sula cute di questi animali, prima che si conoscono gli effetti di questo
mangime, potrebbero essere ricondotti a qualcosa; successivamente, se con gli studi si scopre che
quel determinato mangime può portare a determinati effetti sulla cute, gli effetti si ricollegano al
mangime di cui sopra. È tutto soggettivo, in quanto essendo tutto rapportato all'uomo non può
esserci oggettività, tutto è rapportato alla misura nella quale l'uomo riesce ad accertare un rapporto
di causalità, e questa imperfezione insita nell'essere umano, e questo rappresenta sicuramente un
deficit, a causa della relatività che contraddistingue il punto di osservazione dell’uomo (v. Russell o
Heidenberg). Quindi, secondo le scienze naturalistiche, si può dire che non esistono dei rapporti di
causa-effetto assoluti, ma delle possibili cause di probabili effetti.
E’ pacifico, tuttavia, che in alcuni casi qualche certezza sia stata scoperta: se mettiamo ad esempio la
biglia su un piano obliquo, la biglia scivolerà lungo il piano fino a raggiungere una base d'appoggio
orizzontale. Ora, se abbiamo delle conoscenze è giusto, quanto, meno partire da un dato: quello per
cui, quando si parla di cause ed effetti naturalistici, alcune ipotesi possono essere certe. Come

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 27

nell’esempio della biglia, se inserita in un tubo, questa prende velocità, scendendo, e colpisce un
vetro, rompendolo. L'aver messo in moto la biglia ha condotto causalmente alla rottura del vetro e
quindi abbiamo una certezza. Pertanto, partendo dall’incertezza che domina le teorie naturalistiche,
si ammettono comunque alcune razionali certezze. Queste certezze naturalistiche muovono da un
principio di causalità, che è legato a una concatenazione causale che comporta sempre modificazioni
della realtà.
Alle modificazioni della realtà, possiamo legare, quindi, un postulato di causalità: si deve ritenere
tendenzialmente causale quell’antecedente in mancanza del quale non si sarebbe verificato
l'evento. L’antecedente dell’inserimento della biglia nel tubo è antecedente alla rottura del vetro.
Questo permette di conoscere e analizzare le modificazioni della realtà, che in alcuni casi sono
rette da alcune regole proprie delle scienze naturalistiche: quando ciò accade, certamente se ne deve
tenere conto. Si tratta della prima causalità, forse si può anche dire dell'unica vera causalità che si
può riscontrare: i veri rapporti di causa-effetto. Questo tipo di rapporti si definiscono naturalistico-
materiali, quindi un rapporto tra modificazioni della realtà.
Tornando all'art. 2043 cc., se c'è una modificazione della realtà riconducibile alla condotta
umana (individuo che soffiando in una cerbottana nella quale è contenuta una biglia verso una
macchina e ne rompe il vetro), l'evento è rapportabile causalmente alla modificazione della realtà
provocata. Più profondo è il livello in cui si deve scendere per arrivare a responsabilità
extracontrattuale, trattandosi di cagionare danno, meno è sufficiente una mera modificazione della
realtà.

Il danno è un pregiudizio economico: quindi, l'altro rapporto da andare ad analizzare, per studiare i
nessi tra condotta e danno, è il rapporto di rilievo naturalistico-economico tra la modificazione
della realtà e la causa azione di un danno (se rompo un vetro di una macchina, avrò creato un
pregiudizio al proprietario). Si dovrà, ovviamente, accertare che vi sia un pregiudizio proprietario, si
deve cioè arrivare alla causazione di un pregiudizio economico. Se ci si trova all’interno di uno
sfascio, e un'automobile sta per essere demolita, e un attimo prima l'individuo rompe il vetro di
quella macchina che sta per essere demolita, si è creata una modificazione della realtà ma non si è
creato alcun pregiudizio economico a nessuno. Questo permette di comprendere come il creare un
pregiudizio economico sia qualcosa di diverso e da accertare necessariamente.

Il c.d. rapporto di causalità e l’analisi dei rapporti rilevanti


Come già detto, se esistono postulati naturalistici che ci permettono di individuare con razionale
certezza una catena causale di modificazione della realtà, certamente dobbiamo dare rilievo a tali
modificazioni (esempio della cerbottana contro automobile).
Si è già detto che per la responsabilità civile non è sufficiente creare una modificazione della realtà,
ma si deve anche creare un danno, dal momento che elemento fondante della responsabilità ex art.
2043 c.c. è il pregiudizio economico.
Il danno richiesto dal nostro ordinamento giuridico è un danno che ha un'accezione particolare: si
parla di danno ingiusto, che deve essere cagionato con dolo o colpa. Ci sono, pertanto, cioè degli
elementi ulteriori, oltre a quello della modificazione della realtà.
Ciò significa che è deve esserci un nesso tra il comportamento e ciò che si causa col
comportamento. In totale, la causalità risulta da una relazione che passa da uno stadio di mera
modificazione della realtà (stadio naturalistico), a uno stadio economico (naturalistico-
economico perché alla modificazione della realtà si unisce il pregiudizio) e anche meramente
giuridico, in quanto l'azione deve essere compiuta con dolo o con colpa. Se non dovessero sussistere
i requisiti di dolo o di colpa, mancherebbe una relazione giuridica e vi sarebbe esclusivamente la
relazione naturalistica (la modificazione della realtà); vi sarebbe anche il danno, ma non ci sarebbe
una relazione giuridica che permetta di far incorrere il soggetto in responsabilità. Un individuo, ad
esempio, a seguito di una percossa pone un altro soggetto nelle condizioni di creare un danno, facendo

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 28

in modo che quest’ultimo soffi dentro una cerbottana da cui parte una biglia che rompe il vetro di
un'automobile.

In alcuni casi non si riesce a conoscere esattamente le leggi che regolano le modificazioni della
realtà su un determinato fatto: ad esempio, un determinato agente patogeno messo in circolazione
di cui non si conoscono le possibili cause. Oppure il caso in cui non si riesca a risalire ad una
particolare modificazione della realtà che ha innescato un processo causale: si pensi al caso di più
soggetti che lanciano delle pietre, ma non si riesce a risalire a quale soggetto abbia lanciato la pietra
che ha rotto il vetro dell'automobile.
In questi casi il rapporto che viene in considerazione è certamente di carattere economico
perché il pregiudizio si palesa, si ha anche una relazione di carattere giuridico se si riesce a fondare
una responsabilità usando le norme giuridiche (quindi si riesce a trovare un dolo o una colpa di
qualche soggetto) ma non si riesce ad accertare il nesso di causalità naturalistico con esattezza.
In casi di questo genere si deve utilizzare qualcos'altro, in quanto anche in casi di questo genere, non
è esclusa a priori la possibilità di accordare un risarcimento.
Con riguardo alle relazioni che si instaurano, ce n'è una di carattere esclusivamente economico-
giuridico, da tenere in considerazione, quella che riguarda il rapporto che si instaura tra il fatto
illecito e i danni conseguenti, oppure il rapporto che si instaura tra una determinata condotta che
non modifica la realtà ed il risarcimento del danno.
Abbiamo detto che, a volte, non è facile risalire al nesso naturalistico o accertare le concause
naturalistiche che hanno portato alla modificazione della realtà. In alcuni casi, tuttavia, è possibile
che sia dovuto egualmente un risarcimento. In tali casi la relazione non è naturalmente naturalistica,
ma è una relazione tra condotta e risarcimento di carattere meramente economico-giuridico.

Come di carattere esclusivamente economico-giuridico è ogni rapporto con la quantificazione del


danno conseguente: viene posto in essere un fatto illecito, sorge la responsabilità extracontrattuale,
si devono quantificare i danni risarcibili. Tali danni si quantificano sulla base di alcune norme
specifiche: l’art. 2056 cc. dice quali sono queste norme, rinviando agli artt. 1223, 1226 e 1227.
Queste sono le regole giuridiche risarcitorie, che permettono la quantificazione e sono di
carattere giuridico, prescindendo dal fatto che ormai vi sia un danno cagionato e che sia sorta una
responsabilità. La modificazione della realtà e la causalità naturalistica non riguardano più il
rapporto tra il danno e il danno da risarcire.

Si è detto del rilievo centrale che viene dato al rapporto di causalità. La causalità viene quasi fondata
sull'accertamento del cosiddetto nesso di causalità: bisogna allora distinguere tutti gli elementi
dell'illecito e vedere quale di questi elementi incardina questa fantomatica causalità.
Per fare un ragionamento di questo genere occorre conoscere le scienze naturalistiche, quando ci
possono aiutare; in altri casi, però, è impossibile conoscere esattamente tutti i rapporti di causa-
effetto (vedi esempio sull’agente patogeno). Dalla logica della responsabilità civile, tuttavia, deriva
che, nel nostro ordinamento ci sia sempre la necessità di giungere a un risarcimento, e quindi nulla ci
deve interessare della causalità. Per soddisfare tale necessità, vanno valorizzati altri elementi: in
primo luogo vengono in rilievo i criteri di rimproverabilità soggettiva dei comportamenti, che
possono essere più o meno severi, se si passa dal diritto penale (disvalore della condotta di un
soggetto che compie reati), alla responsabilità oggettiva (aver posto in essere un comportamento cui
segue un illecito, ad esempio il vizio di costruzione di autovettura per il conducente), alla
responsabilità aggravata (criteri meno severi che nella responsabilità oggettiva. Ad esempio, i
genitori rispondono dell’illecito del figlio minore se non provano di aver posto in essere tutto il
possibile per evitare il danno > in questi casi è invertito l’onere della prova), per colpa provata dal
danneggiato (criterio meno severo di rimproverabilità, ed è la norma generale quando non si rientra

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 29

in casi di responsabilità speciale). La responsabilità si può basare solo su criteri di responsabilità


soggettiva, qualora non si riesca a dimostrare un nesso di causalità di tipo naturalistico.

E allora, se è vero che viene dato rilievo al nesso di causalità in dottrina e giurisprudenza, esso va
considerato come elemento autonomo, o si sovrappone a volte agli altri criteri di imputazione
della responsabilità (oggettiva, in via aggravata, colpa, dolo)? Se l'elemento-nesso di causalità è un
elemento che riusciamo identificare come autonomo, allora si può parlare di causalità. Se, tuttavia,
questo elemento è evanescente, e a volte si sovrappone con gli altri elementi al punto da non
distinguere agevolmente i contorni, tanto che alcune volte si parla di causalità ma sembra che si parli
di colpa, allora significa che un’autonomia questo elemento non ce l’ha e più propriamente si
dovrebbe parlare di altro. Se la causalità non ha un rilievo autonomo, solo in quanto causalità
naturalistica (modificazione della realtà), parlare di causalità potrebbe essere fuorviante, come
invece fanno tantissime sentenze e tantissimi testi, in quanto potrebbe diventare evanescente il
limite, il confine, la sovrapposizione con altri elementi dell'illecito. Tutto questo è da tenere in
primaria considerazione. La causalità rileva solo se si riesce a distinguere come elemento autonomo
dell’illecito.

Bisogna qui rilevare che, tendenzialmente, opera in dottrina e giurisprudenza una distinzione tra cd.
causalità materiale e cd. causalità giuridica: per causalità materiale va inteso il rapporto tra il
comportamento e l'evento dannoso; per causalità giuridica, invece, si deve intendere il rapporto tra
l'evento dannoso e le conseguenze risarcibili. Questa è una distinzione fuorviante, perché anche
quando manca la possibilità di conoscere il rapporto causa-effetto naturalistico, è ovvio che ci si deve
rifare necessariamente a relazioni economico-giuridiche. Si usa certamente il concetto di danno, che
è un concetto economico e in assenza del quale non c'è possibilità di responsabilità civile; si valutano,
tuttavia, altri elementi dell'illecito: ad esempio i criteri di rimproverabilità soggettiva, un
qualcos'altro che prende il posto della causalità naturalistica. Se si valuta questo “qualcos'altro”
significa che si sta facendo un'operazione non più naturalistica, non più di causalità, non più
materiale, bensì giuridica. Operazione necessaria, se si vuole instaurare ugualmente una relazione
per fini risarcitori, che si ritiene di dover perseguire per rispondere alle esigenze del nostro
ordinamento giuridico.
Si dovrebbe, più giustamente, parlare sempre di causalità rilevante per il diritto, perché in ogni
caso, anche la causalità veramente materiale - quella naturalistica, non porta mai a un evento
dannoso rilevante per il diritto, se non si accerta che vi sia l'ingiustizia del danno, che il fatto sia
doloso o colposo e quindi se non si accerta la sussistenza dei parametri giuridici. Quindi, si ripete, che
la causalità è sempre da considerare causalità giuridica.
Il nesso di cui ci si occuperà sarà questo nesso iniziale, come elemento costitutivo che fa sorgere la
responsabilità e si andrà via via a sviscerare le teorie su questo fantomatico nesso causale e si
analizzerà se tali teorie saranno davvero di causalità, o se non valorizzino, più che altro, altri
elementi dell'illecito, che tutto sono - tranne che causalità allo stato puro.

Il c.d. rapporto di causalità: danno fattispecie e danno risarcibile


Il problema della distinzione tra vari tipi di causalità all'interno dalla fattispecie dell'illecito è dovuto
al fatto che nell’art. 2043 c.c. la parola “danno” compare due volte: si tratta di due momenti
concettualmente distinti anche dal punto di vista giuridico > “qualunque fatto doloso o colposo che
cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
La prima volta la parola “danno” compare quale elemento costitutivo della fattispecie dell’illecito
(che è una fattispecie dannosa, la quale si concretizza quando un fatto doloso o colposo che cagiona
ad altri un danno, senza danno non si ha illecito).

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 30

Questa è la fattispecie che fa sorgere un illecito e quindi fa sorgere il diritto al risarcimento, che è
disciplinato dalla parte successiva. E’ il “danno fattispecie”, imprescindibile perché vi sia illecito.

Il “danno da risarcire”, invece, è quello indicato nella seconda parte della norma. Per risarcire il
danno intervengono varie norme: l'art. 2056 cc. rinvia ad alcune norme dettate in tema di
responsabilità contrattuale, dicendo che esse sono applicabili anche per la quantificazione del
danno da fatto illecito, ma non tutte. Il risarcimento dovuto al danneggiato, infatti, si deve
determinare secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., e quindi alcune delle
fattispecie previste nella responsabilità contrattuale.
Non sono richiamate, infatti, le disposizioni di cui all'art. 1225, che limita, in caso di inadempimento,
il risarcimento ai soli danni prevedibili nel momento in cui è sorta l'obbligazione, salvo in caso di
dolo. L'articolo di cui sopra non è contemplato nell'ambito del risarcimento da illecito in quanto nella
responsabilità da inadempimento si presuppone che le parti si conoscano, essendoci un principio di
correttezza e degli oneri reciproci che li legano. C’è quindi l’onere, fra soggetti che sono posti in
relazione da un'obbligazione sorta tra di loro, di “tirare fuori “i propri interessi e di rendere
partecipe l'altra parte di eventuali risarcimenti particolari Nella responsabilità extracontrattuale è
più probabile che le parti non si conoscano, si pensi al danno cagionato da un incidente stradale o al
danno cagionato da un alunno a un altro alunno (in tal caso il genitore sarà tenuto a risarcire tutti i
danni, anche quelli imprevedibili). Il mancato richiamo all’art. 1225 significa che non si vuole
limitare la risarcibilità del danno extracontrattuale al danno prevedibile ma anche i danni
imprevedibili. Questo perché, le parti, in questo tipo di responsabilità, per definizione non si
conoscono precedentemente e si “incontrano col danno” e non hanno precedenti oneri reciproci.
Esiste una mitigazione ex art. 2056, secondo comma: la previsione prevede che il lucro cessante
(mancato guadagno) sia valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso.
Questo per evitare che i mancati guadagni possano essere esagerati: ad esempio, il caso di un alunno
che causa un danno, e quindi i genitori dovranno rispondere del danno cagionato. Ipotizziamo che
l’alunno distrugga la penna di un altro alunno, che sarebbe stata venduta il giorno successivo a un
prezzo elevatissimo. Si tratta di una circostanza particolare: il giudice in questo caso può valutare, nella
quantificazione del danno che il soggetto (i genitori) non otterrà, il lucro cessante e mitigare quella che
sarebbe realmente la quantificazione del danno da mancato guadagno, liquidando una somma
inferiore, valutando con equo apprezzamento delle circostanze del caso. Quali sono le circostanze del
caso? Certamente, in primo luogo, l'eventuale colpa del soggetto che ha agito o l'eventuale colpa del
soggetto che deve rispondere: supponiamo che il caso sia avvenuto quasi fortuitamente, con colpa
lieve. Se è un minore capace di intendere e di volere - che quindi ha anche una sua responsabilità in
proprio, perché con la capacità di intendere e di volere si risponde anche personalmente oltre ai
soggetti che hanno la vigilanza ex art. 2048 c.c. – e che ha voluto volontariamente distruggere una
penna: il giudice valuterà la circostanza e, considerando il fatto doloso, potrebbe accordare per
intero il risarcimento per mancato guadagno.
Le circostanze del caso riguardano anche il soggetto che deve rispondere: ad esempio l'insegnante
si è assentato un attimo per andare a prendere un farmaco. In un caso di questo genere si valuta con
minor disvalore l'insegnante, che si è allontanato per una ragione importante e il giudice potrà tener
conto di ciò nell'accordare il risarcimento. Si pensi, invece, a un insegnante che svogliatamente stia in
classe e legga un giornale senza badare a ciò che accade all'interno della classe. Questo
comporterebbe un maggior disvalore per l'insegnante, e il giudice potrebbe valutare questa
circostanza stabilendo che la quantificazione del lucro cessante avvenga per intero - senza utilizzare
alcuna mitigazione, in quanto l'equo apprezzamento delle circostanze del caso in questa situazione la
scuola dovrà rispondere per intero.

Vediamo ora, invece, le norme che si devono applicare: gli artt. 1223, 1226 e 1227, dettati in
tema di inadempimento delle obbligazioni.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 31

Sono tutte norme che permettono innanzitutto di fare una distinzione tra il danno effettivamente
verificatosi e il danno da risarcire: un danno che esiste (danno an) e un danno da quantificare a
livello giuridico (danno quantum). Il danno ontologicamente realizzato può non coincidere con il
danno effettivamente da risarcire: ciò perché, se si realizzano determinati danni, non per questo
devono essere sempre risarciti, proprio in virtù di queste norme, che quantificano e limitano il livello
del risarcimento.
In particolare l'art. 1223 c.c. > “il risarcimento del danno per l’inadempimento (> fatto illecito nella
resp. extracontr.) o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato
guadagno, in quanto siano conseguenza immediata e diretta” Le conseguenze mediate e indirette
non sono ritenute da risarcire; è difficile analizzare bene questa norma, ma l'attività di
interpretazione del giudice andrà a comprendere fino a che punto si può arrivare. Tendenzialmente il
giudice utilizza dei criteri di razionalità, per valutare quali siano i danni da conseguenza immediata
e diretta. Questo ci fa capire come già in questa norma vi sia una differenza fra il danno
effettivamente verificatosi è quello che si risarcisce: si risarcirà solo il danno che è conseguenza
immediata e diretta del fatto illecito.
Anche l’art. 1226 c.c. (“se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal
giudice con valutazione equitativa.”) ci dà delle indicazioni riguardo l’esistenza di un danno
effettivamente verificatosi e risarcire perché, nel caso in cui il danno non possa essere provato nel
suo preciso ammontare, esso viene liquidato dal giudice con equità, secondo una sua valutazione.
E ancora, l'art. 1227 cc., sul concorso del fatto colposo del danneggiato: “se il fatto colposo del
creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e
l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore
avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.”

Un articolo che viene peculiarmente in rilievo, in tema di causalità, è l'art. 1223: in alcuni testi si
evince, difatti, che il principio del risarcimento delle conseguenze immediate e dirette sarebbe un
principio da applicare in generale a tutta la causalità, anche a quella che non riguarda la
quantificazione del danno risarcibile ma che riguarda la relazione tra il comportamento e l’evento
dannoso. La norma in questione è dedicata all’inadempimento e non al fatto l’illecito: a differenza
dell’illecito, la fattispecie che fa sorgere la responsabilità contrattuale è meramente l’inadempimento,
a prescindere dal fatto che da questo consegua un danno. Per inadempimento si intende la
divergenza tra l’oggetto dell’obbligazione e quello che effettivamente si realizza successivamente.
L’inadempimento, pertanto, già di per sé comporta responsabilità e se il debitore non dimostra
che è dovuto a cause a lui non imputabili, è tenuto al risarcimento del danno. L’inadempimento è una
realtà prettamente giuridica (e non entità prettamente economica, come il danno) che deve essere
valutata sulla base di due momenti: il primo, consistente nell’effettiva interpretazione
dell’obbligazione (es. contratto) e il secondo consistente nell’effettiva qualificazione di ciò che è
avvenuto successivamente. Se i due momenti divergono (ciò che è stato pattuito nel contratto non
viene successivamente eseguito), tale divergenza è inadempimento.
L’aver rinviato, con l’art. 2056 all’art. 1223, anche per la quantificazione del danno risarcibile in
via extracontrattuale, pone la necessità di sovrapporre, cioè di sostituire a quello che l’art. 1223
chiama “inadempimento”, con il fatto illecito.
Cosa si deve sostituire, nel richiamo dell’art. 2056 all’art. 1223, alla parola “inadempimento” per
quantificare il danno? “Fatto illecito” in senso proprio, oppure, “fatto doloso o colposo”? Se è vero
che l’inadempimento è un’entità giuridica che riguarda il comportamento di una parte, è più corretto
sostituire con la definizione di illecito che integra il comportamento, e quindi “fatto doloso o
colposo”. Operando questa sostituzione, si fa sì che la perdita subita contempli anche il “danno
fattispecie”, che permette di far sorgere la responsabilità per fatto illecito. Perciò tale norma è
applicabile anche al rapporto di causalità che fa sorgere responsabilità fra il fatto doloso o colposo e
il danno.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 32

Il fatto che la perdita subita debba essere risarcita solo quando conseguenza “immediata e diretta”
del fatto doloso o colposo, fa ritenere che questo rapporto è da considerare esistente quando c’è
l’immediatezza. Si utilizza, infatti, il principio di immediatezza come criterio da applicare per sapere
se vi è una relazione giuridicamente rilevante tra il fatto doloso o colposo e il danno ingiusto.
Se invece alla parola “inadempimento” si sostituisse la parola “fatto illecito” (che comprende anche il
danno), l’art. 1223 riguarderebbe solo ciò che deriva come conseguenza immediata e diretta,
non più dal fatto doloso o colposo, ma da tutto il fatto illecito. Quindi riguarderebbe solo le
conseguenze dannose risarcibili. E’ per questa ragione che molti ritengono che il danno da risarcire
sia il cd. “danno conseguenza” e non il “danno evento”: sarebbero, quindi, risarcibili solo le
conseguenze del danno e non il danno in sé. L’interpretazione non convince: infatti, se si ragiona nel
modo corretto, il “danno evento” rientra già nel danno da risarcire in quanto perdita subita.

Il c.d. rapporto di causalità nel diritto penale


In quasi tutte le sentenze che si occupano di causalità, e in parte della dottrina, si fa riferimento a due
norme del codice penale, gli artt. 40 e 41, dedicate alla ricerca della causalità e che vengono
considerate norme sulle quali si baserebbe la ricerca del nesso di causalità anche nel diritto civile.
Si tratta di due norme dettate in materia di accertamento della causalità, ma che hanno due
peculiarità: la prima è che in nessun altro ordinamento del mondo esistono norme sulla causalità
nei codici penali (quindi si utilizzerebbero norme fuori dalle codificazioni del diritto penale). Sono
quindi norme eccezionali del nostro ordinamento, e si vorrebbe utilizzarle non per limitarne l’uso
al diritto penale, ma addirittura per estenderne l’uso al diritto civile.
La seconda peculiarità è che si tratta di norme che, a detta di autorevoli dottrina penalistica, sono
perfettamente inutili, in quanto, a prescindere dall’applicazione di tali norme, la causalità nel diritto
penale deve essere rinvenuta sulla base dei principi dello stesso diritto penale (prevenzione,
personalità, ratio normativa penalistica, etc.), non certo sulla base di criteri di causalità.
Si tratta di norme che, tra l’altro, permettono applicazioni sia in un senso che nel senso opposto e che
in alcuni casi vengono del tutto disapplicate, anche dagli stessi giudici penali.

È pertanto anomalo che in alcune sentenze civili si legga che il fondamento della causalità si
rinviene nei sopra citati articoli del codice penale. È anomalo perché diritto civile e diritto penale
sono due ordinamenti retti da principi diversi: il diritto civile (soprattutto la responsabilità civile)
è retto da principi di contemperamento delle esigenze di tutela del danneggiante (che non dovrà
essere sanzionato in assenza di determinati presupposti) con le esigenze di tutela del danneggiato
(che, invece, in presenza deve ottenere il risarcimento di determinati presupposti). Nel nostro
ordinamento civilistico, le esigenze di tutela del danneggiante e del danneggiato si equivalgono, c’è
una sorta di uguaglianza e di parità nell’ordinamento civilistico, che è alla base di tutta la normativa
sul risarcimento → principio di uguaglianza.
Nel diritto penale la situazione è completamente diversa: all’esigenza di reprimere un reato
(prevenire e sanzionare), si oppone l’esigenza, primaria e insuperabile, della impossibilità di
punire un soggetto se non si ha la certezza che costui abbia commesso un determinato reato. Non si
può punire un soggetto se vi è un ragionevole dubbio o una certezza > in dubbio pro reo. E’ ovvio che
si può arrivare a privare qualcuno della libertà personale solo in casi accertati di sussistenza del fatto
di delitto. Questa regola è strettamente legata al principio di tassatività delle disposizioni
penalistiche, al principio secondo cui in diritto penale è vietata l’analogia, mentre in diritto civile vige
il principio contrario. La legge civile, infatti, può – e deve - essere estesa per analogia in caso di
lacune dell’ordinamento. La lacuna di diritto penale si risolve pro reo, in diritto civile il giudice è
obbligato a rispondere ai vuoti di disciplina, anche applicando l’analogia.
Per i motivi sopra riportati è facile comprendere che ritenere - in via così generalizzata-
l’applicazione di norme dettate per il diritto penale nel diritto civile possa essere senz’altro
criticabile in astratto.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 33

L’art. 40 c.p. dice che “nessuno può essere punito se l’evento dannoso o pericoloso da cui dipende
l’esistenza del reato, non è conseguenza di una sua azione o omissione”. Non c’era certo necessità che
tale principio fosse sancito dal legislatore, sarebbero stati sufficienti i principi del diritto penale o le
stesse norme di parte speciale del diritto penale.
Il secondo comma dell’art. 40 c.p. stabilisce, ancora, che “non impedire un evento che si ha l’obbligo
giuridico di impedire equivale a cagionarlo”. Questa norma appare più utile, sancendo che l’omissione
vale come azione, nel caso in cui il soggetto abbia l’obbligo giuridico di impedire l’evento.
L’art. 41 c.p. è norma, anch’essa, perfettamente inutile: “Il concorso di cause preesistenti, simultanee o
sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole non esclude il rapporto di
causalità tra l’azione od omissione e l’evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità
quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento”.
Con riguardo al primo comma dell’art. 40 e l’art. 41 (salviamo il secondo comma art. 40
sull’omissione) si può dire che si tratti di disposizioni totalmente inutili. Nel diritto penale, infatti, le
norme in analisi non sono applicate: si seguono piuttosto criteri probabilistici o statistici (un
settore che impegna molto i giudici civili e penali è quello della responsabilità medica, dove spesso è
capitato che gli orientamenti nel tempo siano cambiati, pur in vigenza delle stesse norme. Prima, negli
anni ’80 soprattutto, si riteneva che anche probabilità limitate di successo di un’azione non posta in
essere avrebbero potuto portare alla responsabilità. In seguito, la giurisprudenza è stata più favorevole
al medico e si è attenuta al principio di stretta legalità.)

Parlando dell’omissione dobbiamo chiederci in che misura un comportamento non tenuto sia
causale. Per parlare di causalità in senso proprio, come già detto, si deve trattare di modificazioni
naturalistiche della realtà o concatenazioni di cause ed effetti. Nell’omissione però ciò non avviene, il
non fare non provoca alcuna modificazione della realtà, che procede. Se dovessimo ritenere il non
fare omissivo al pari di un’azione (quindi, un “non fare causale”), si arriverebbe a un paradosso:
saremmo tutti sempre causa di tutto ciò che succede (ad esempio, un tamponamento che dovesse
avvenire a poche strade di distanza sarebbe anche colpa di chi legge adesso). Un’omissione può
rilevare solo in presenza di un obbligo giuridico precedente, quindi quale come inadempimento
di quell’obbligo giuridico. Infatti, si inquadra l’omissione nell’inadempimento (anche e soprattutto, ad
esempio, quella medica). Il non fare non è causale ma è inadempimento e già solo per questo porta
responsabilità, perché non si è rispettato il programma obbligatorio che andava rispettato.
Premesso ciò, con riguardo al diritto penale, quando si deve accertare la presenza di una
responsabilità nel caso di omissione si realizza un c.d. giudizio controfattuale. Secondo tale
giudizio, si opera un’eliminazione mentale del comportamento tenuto e la sostituzione di questo con
il comportamento doveroso. Trattandosi di un’operazione mentale, ovviamente, ci si allontana da
accertamenti reali, ma si tratta pur sempre di ragionamenti probabili. Sempre seguendo l’esempio
della responsabilità medica, se si verifica che, nonostante la condotta doverosa, il paziente
ugualmente avrebbe riportato certe lesioni, il medico non si considera responsabile per l’omissione.
In relazione ai citati orientamenti giurisprudenziali in tema, oggi, se l’azione omessa dal medico
avrebbe potuto evitare le lesioni con approssimazioni prossime alla certezza (tali da non consentire
un ragionevole dubbio), lo stesso è da considerare responsabile per omissione. Se invece le
possibilità di successo dell’intervento medico sono limitate, il medico non risponde per omissione,
come invece succedeva fino agli anni ’80. Questa linea evolutiva ci fa comprendere lo scarso
utilizzo degli artt. 40 e 41 in ambito penale, e della necessità della loro applicazione in ambito
civile. Ricordiamo, inoltre, che, non operando l’analogia nel sistema penale, sarebbe contraddittorio
farle entrare in fattispecie civilistiche, che già di suo godono dell’applicazione dell’analogia.

Il c.d. rapporto di causalità nei progetti normativi europei


I processi di armonizzazione del diritto europeo cercano di operare su larga scala e non riguardano
solo il diritto contrattuale europeo ma anche regole concernenti la materia extracontrattuale.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 34

In particolare, negli ultimi anni si è lavorato perché gli stati membri UE si integrino anche in materia
extracontrattuale, in quanto pare ovvio che regole comuni anche in questo ambito permettano di
garantire una uniforme circolazione e un mercato migliore.
Si fa riferimento, in particolare, ai Principals of European Law, o principi di diritto europeo. Questi
riguardano l’area della no conctractual layability racing out of damage caused to another, cioè i
problemi riguardanti la responsabilità extracontrattuale. A questi principi di diritto europeo hanno
lavorato degli eminenti studiosi, in particolare il working team of extracontractual obligations, che
opera all’interno dello study group on european civil code, un gruppo di studio sul progetto di
realizzazione un unico grande codice europeo.
I principi di diritto europeo dedicano uno specifico capo - il IV, di 3 articoli - proprio alla causation,
al rapporto di causa/effetto che riguarda la responsabilità extracontrattuale.

L’articolo 1 detta un criterio di ordine generale: il danno è legalmente sanzionabile se è


conseguenza della condotta del soggetto o se è derivato dalla fonte di pericolo di cui il soggetto è
responsabile. Questa norma è di fondamentale importanza, esprimendo una regola generale di
causalità e in quanto regola generale, ovviamente, è aperta ad una serie di interpretazioni. Se si dice
che c’è causalità quando il soggetto causa ad altri un danno legalmente sanzionabile, la presenza o
l’assenza di regole di questo genere, nulla cambierebbe riguardo la vera responsabilità
extracontrattuale. La forza di questa norma è maggiore, quindi, nella parte che riguarda il danno
“legalmente sanzionabile”: la parte di norma che si “aggrappa” ad un dato forte, cioè la legge. Quando
il danno è considerato legalmente sanzionabile si ha già una determinata forza, e probabilmente è
una forza “maggiore” rispetto a quella che si dovrà dare al vero rapporto di causa/effetto. Stando a
ciò, il piano dell’analisi della legge è da tenere in primaria considerazione in una norma di questo
genere. La parte della norma sulla causalità è parte che dovrà interessare più il giudice - che dovrà
basarsi su leggi di copertura - nella decisione inerente il caso concreto. È ovvio che l’interpretazione
minima da dare a questa norma, a livello causalistico, è quella naturalistica: se una condotta provoca
una modificazione della realtà che cagiona un danno legalmente sanzionabile, allora questa causalità
naturalistica deve essere necessariamente essere presa in considerazione come punto di partenza.
Una parte interessante è la parte II dell’art. 1, dove si dice che non deve essere considerata la
predisposizione personale della vittima, in relazione al tipo o all’entità del danno sofferto.
Si tratta di un’altra regola fondamentale che non sempre è stata presa in considerazione nel nostro
ordinamento. Si fa qui riferimento al principio di common law per cui il danneggiante deve risarcire
la vittima per come l’ha trovata: se un soggetto è, ad esempio, cardiopatico e a causa di un
tamponamento - anche lieve - muore per un infarto, possiamo addossare il costo della perdita della
vita (danno biologico) al soggetto responsabile del tamponamento? Già nel nostro ordinamento
interno esisterebbe una regola che esclude che ogni conseguenza non debba essere pagata, perché,
con riguardo all’illecito civile, i soggetti “si incontrano nel momento del danno” ed è in quel momento
che sorge l’obbligo risarcitorio. L’art. 2056 c.c., nel non richiamare l’art. 1225 (sulla prevedibilità del
danno), sembra allineato al principio per cui chi cagiona il danno deve prendere la vittima per come
si trova. Quindi se, la trova malata di cuore e la fa morire per cause che riguardano la salute, allora
dovrà risarcire anche questo danno grave, si deve quindi risarcire anche il danno imprevedibile.
Va detto che ci sono stati orientamenti diversi, secondo alcune pronunce della giurisprudenza: in
caso di soggetto passivo cardiopatico che perde la vita in caso di tamponamento, il soggetto attivo
non deve rispondere per l’infarto o per la morte. Questo perché il soggetto attivo non avrebbe, in
condizioni di normalità, cagionato quella conseguenza. Va valutato quindi, secondo
quest’orientamento nazionale, come “causale” ciò che normalmente accade in casi di quel genere. (ad
esempio una sentenza riguardo una malformazione già sussistente nel feto e una operazione chirurgica
di esito infausto sullo stesso, anche a causa della predisposizione stessa, che in questo caso, secondo i
giudici, ha escluso la causalità). In verità, in questi casi non si dovrebbe parlare di causalità ma di
responsabilità (del soggetto, in questo caso, che invade la sfera del danneggiato). La regola di

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 35

common law di cui sopra è una regola di civiltà che andrebbe applicata, anche in virtù del mancato
richiamo dell’art. 2056 all’art.1225.
La regola secondo cui il danneggiante deve risarcire la vittima per come l’ha trovata è la
specificazione di un più grande principio, secondo il quale non devono considerarsi rilevanti delle
concause precedenti all’illecito. Quindi anche le conseguenze imprevedibili, derivate dal fatto che
esistevano delle concause precedenti all’illecito, in caso di interferenza nella sfera del danneggiato da
parte del danneggiante - con dolo o colpa - devono essere risarcite dal danneggiante.

L’art. 2 sulla causation è dedicato alla cooperazione nella causazione del danno: la responsabilità
viene estesa a chi partecipa alla produzione dell’illecito, a chi istiga, a chi assiste materialmente.
Nel caso di partecipazione all’illecito, si ha una concausa posta in essere da ogni compartecipe, nella
misura in cui il termine “partecipazione” viene inteso come “contribuzione alla produzione
dell’evento”. Simile può considerarsi anche il caso dell’istigazione, l’istigatore è il soggetto che pone
in essere una concausa, anche a livello meramente materialistico: se spingo un soggetto a fare
qualcosa, effettivamente, ho posto in essere una concausa. Diverso, senza dubbio, è il caso di chi
assiste materialmente all’illecito: si ritiene, infatti, secondo l’articolo in analisi, che sia responsabile
anche chi meramente assiste senza fare nulla. La norma genera un dovere di attivarsi. Chi assiste a
un illecito deve attivarsi per evitarlo, non può essere considerato del tutto estraneo a questo se non
fa nulla per scongiurarlo (es. intervento materiale o chiamata dei soccorsi). Si sancisce un obbligo di
solidarietà e un dovere di civiltà; comunque è una fattispecie non facile da provare in giudizio.

L’art. 3 disciplina il concorso di altre cause nella produzione dell’evento: la norma in analisi
considera il caso in cui il danno possa essere stato causato da uno o più avvenimenti, in relazione ai
quali sono responsabili differenti persone. Quando viene accertato che il danno è stato
effettivamente causato da uno di tali avvenimenti, ma non viene accertato da quale dei vari
avvenimenti è stato causato, si presume che ogni persona responsabile di tali avvenimenti abbia
dato causa al danno stesso. Si è voluto dire che, se resta anonimo il soggetto che ha direttamente
cagionato il pregiudizio, ma è sicuro, che tra due o più soggetti - che agiscono in gruppo - il danno è
causato da uno di quei soggetti e non si può risalire al colpevole, il danneggiato deve essere
ugualmente risarcito e si presume che tutti siano responsabili. (es. più soggetti che lanciano pietre a
una vetrina, e una sola la danneggia). In questo modo si tutela l’esigenza primaria di risarcire il
danneggiato, nonostante in passato vi siano state delle remore in Italia ad applicare il principio.

Da questa panoramica europea sulla causation si traggono regole di responsabilità, non regole di
causalità vera e propria (benché gli articoli siano rubricati in un capo intitolato causation). In
realtà, è più corretto parlare di imputazione di responsabilità. Non si può affermare, difatti, che si
faccia rispondere un soggetto, che ha assistito all’illecito o che vi ha partecipato un gruppo, in nome
di regole di causalità, ma, più propriamente, ma di regole in tema di imputazione di responsabilità.

Il c.d. rapporto di causalità e il criterio della condicio sine qua non


Si entrerà nello specifico delle singole teorie che sono state proposte per cercare di spiegare la
causalità (fantomatica) all’interno del diritto.
Si è partiti dall’impostazione che la causalità è tale solo quando si hanno modificazioni della realtà
concatenate, e quando può essere riscontrata dal punto di vista naturalistico. Dal punto di vista
giuridico, non si può parlare, senza cautele, di causalità.
Le teorie proposte sono volte a dare un contenuto concreto all’elemento - causalità materiale.
Tali teorie non hanno fatto altro che riproporre la necessità di questo o quell’altro elemento di
imputazione soggettiva, e la rilevanza dell’elemento di imputazione soggettiva, più che del reale
rapporto di causa/effetto. Proprio per tale ragione, si torna ripetere che serve avere cautela, perché
vi sono vari elementi dell’illecito. Se si inizia ad effettuare sovrapposizioni e si inizia a chiamare

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 36

causalità qualcosa che riguarda invece l’imputazione dell’evento, si rischia di perdere la trama
dell’interpretazione e applicazione della legge. Quindi le teorie della causalità vanno analizzate in
senso critico, per vedere fino a che punto queste, da un lato, possano riguardare davvero il diritto e
non la causalità quale rapporto di causa/effetto semplicemente materiale; dall’altro, si deve evitare
ogni tipo di sovrapposizione con elementi dell’illecito che riguardano invece profili strettamente
giuridici (valutazione della colpa, valutazione dell’ingiustizia del danno, etc.), da rintracciare sulla
base dell’analisi del diritto e non sull’analisi del fatto. Un conto sono gli elementi che riguardano
l’accertamento di fatto (e la causalità è ricondotta dalla giurisprudenza all’interno di questi), un altro
conto sono gli elementi che riguardano l’applicazione di norme di diritto.

Se la causalità è un elemento del fatto non dovrebbe, almeno in astratto, sovrapporsi ad altri
elementi. Accade invece che si parli di causalità come un elemento del fatto - cosa che esclude un
riesame in Cassazione. Se, tuttavia, all’interno di tale valutazione sul fatto, essa si risolve in
valutazioni di diritto (dell’incidenza ad esempio della colpa, o sull’inadempimento o sull’ingiustizia
del danno), non si dovrà più dire che siamo sul piano fattuale e il sindacato della Corte di Cassazione
non è da escludere.
Tutte le teorie concernenti il nesso di causalità muovono dal presupposto che ci sia una necessità di
trovare una valenza giuridica della causalità. Partono da determinati presupposti: uno di questi è
che la responsabilità civile è diversa dalla responsabilità penale, per cui nella prima, vigono
regole più semplici per l’accertamento della responsabilità (e non della causalità, come spesso si
trova scritto). Per fare rispondere un soggetto, nel sistema penale, si deve arrivare a un punto tale
per cui si ha una ragionevole certezza che quel soggetto abbia commesso un determinato reato, al di
là di ogni ragionevole dubbio di innocenza (in dubbio pro reo), in ragioni di interessi primari di
tutela; nel diritto civile, invece, c’è una sostanziale parità dei soggetti da un punto di vista della loro
posizione nell’ordinamento giuridico. Ci sono un danneggiante ed un danneggiato e si tratta di
denaro, non di libertà personale. La tutela che l’ordinamento assicura alle due parti - danneggiante e
danneggiato - è la medesima. L’esigenza di non condannare un danneggiante incolpevole è pari
all’esigenza di risarcire un danneggiato vittima di illecito.
Per i motivi appena argomentati nel diritto penale si richiede una causalità individuale e
specifica. Nel diritto civile viene riconosciuta, in larga massima sufficiente, il riscontro di una
causalità generale, che permette l’applicazione della regola del c.d.“più probabile che non”.
Secondo un’applicazione ampia di questa regola, questa basta una causalità semplicemente astratta,
generale; si può condannare un soggetto al risarcimento perché è più probabile che abbia realmente
commesso quell’illecito, piuttosto che non. Secondo alcuni non sarebbe sufficiente una causalità
generale, servirebbe un qualcosa che entri più nello specifico anche nel diritto civile; altri
orientamenti propendono invece per una versione più ampia.

Il primo criterio è alla base di tutti gli altri, trattandosi, forse, dell’unico criterio veramente di
causalità. Si tratta infatti del criterio della cd. condicio sine qua non, che già conosciamo per le
scienze naturalistiche e vale per esse.
Secondo tale criterio è da considerare causale ogni antecedente senza del quale l’evento non si
sarebbe verificato. È necessario operare un procedimento mentale: si opera un accertamento e si
prendono determinati fattori che si ipotizza possano essere causali. Se, eliminando mentalmente un
determinato fattore da un insieme di avvenimenti, si conclude che, sulla base delle leggi
naturalistiche, l’evento non si sarebbe verificato, allora quel fattore è da considerare causale in
quanto condicio sine qua non. Condizione, appunto, in assenza della quale non si sarebbe verificato
l’evento. Si ricorda che le uniche leggi che possiamo prendere in considerazione sono quelle
naturalistiche, secondo le quali bisogna trovarsi in presenza di una modificazione della realtà.
Questa teoria comporta una necessaria equivalenza di tutte le cause, infatti è chiamata anche
teoria dell’equivalenza delle cause. Questo perché tutte le cause, senza le quali l’evento non si

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 37

sarebbe verificato, non possono essere distinte tra loro, una non può essere considerata più rilevante
di un’altra. Perché in ogni caso, tolta una sola di esse, l’evento non si sarebbe verificato.
La prima critica inerente la condicio sine qua non, è che in ogni caso, a livello causale, si devono
considerare equivalenti tutte le cause, anche se alcune sono socialmente accettabili (ad esempio, è
causale sia l’istigazione a rompere una vetrina con un mattone che la vendita di mattoni). Il corollario
di tale postulato è che le cause potrebbero essere anche molto remote e potrebbero comunque
considerarsi causali. Infatti, ad esempio, il soggetto che vende mattoni, lo fa in quel determinato
negozio, in quanto qualcuno gli dà in locazione quel locale; se quel qualcuno non avesse dato in
locazione quel locale, l’evento non si sarebbe verificato, e così via.
Il rischio è quello di andare a considerare cause troppo remote con questa teoria, si pensi addirittura
che si può ritenere causale anche il fatto del concepimento del soggetto che ha causato l’illecito.
La seconda critica è che possa essere dimostrata la causalità di un fattore solo se ci sono delle leggi
scientifiche che ci danno le massime di esperienza secondo cui un tipo di fattori provoca un
determinato tipo di eventi. In assenza di leggi scientifiche di copertura, quindi, nessun uso può
essere fatto della teoria della condicio sine qua non. (ad esempio, nel lancio di una pietra contro un
muro elastico e rottura di qualcos’altro con questa pietra tornando indietro: c’è una legge che permette
di considerare causale il lancio della pietra rispetto alla rottura del qualcosa che sta dietro il muro).
La terza critica è che quella in oggetto è una teoria inutilizzabile nei casi di omissione. Sarebbe
anzi assurdo l’utilizzo del criterio di causalità della condicio sine qua non con riguardo all’omissione
perché tutti saremmo sempre responsabili di tutto (ad esempio chi legge è responsabile per un
tamponamento che avviene per strada). L’omissione non può essere assolutamente considerata
rilevante da un punto di vista meramente causale; rileva solo qualora si sia in presenza di un dovere
specifico (e si avrebbe responsabilità per inadempimento). Senza un dovere precedente, l’omissione
non rileva da un punto di vista causale, ma al massimo come regola di responsabilità.

Sono state elaborate altre teorie per ovviare agli inconvenienti della teoria della condicio sine qua
non, come la teoria della causalità efficiente. Secondo questa, non vengono considerati causali gli
antecedenti se vi è un fattore sopravvenuto idoneo, già di per sé, a causare il danno.
Va chiarito che non si parla di causalità quando si espone una teoria di questo genere, perché, se un
antecedente è causale secondo la teoria della condicio sine qua non, a livello di materiale
concatenazione causale quell’antecedente deve essere considerato causale. Può esserci, invece, un
fattore sopravvenuto che si può considerare idoneo a causare il danno, al quale si dà rilevanza
non semplicemente causale, ma diversa. Pensando al precedente esempio, tra l’istigatore e il
venditore di mattoni. A livello causale si considerano entrambi, ma a livello efficiente alla produzione
del danno, si considera maggiore il fattore posto in essere da colui che istiga, e ancora maggiore il
fattore posto in essere da chi lancia il mattone.
Allontanandoci dalla teoria della condicio sine qua non, per attenuarne gli effetti da un punto di vista
di responsabilità, siamo al di fuori della causalità, perché la causalità non è un criterio di
responsabilità, essendo rilevanti a livello causale tutte le condotte (dal locatore al venditore, ai
genitori). È ovvio, infatti, escludere responsabilità alla rilevanza del fattore posto in essere da chi non
versa nella situazione che l’ordinamento invece intende sanzionare.
Chi istiga a “lanciare il mattone” può essere considerato in colpa, ed è di colpa dunque che si dovrà
parlare, rispetto alla produzione di quel danno. Chi ha venduto il mattone non può essere
considerato in colpa, perché sta facendo il suo lavoro. Se la colpa è intesa come divergenza oggettiva
rispetto allo standard di comportamento da tenere ordinariamente, come divergenza che porta a
quel danno, caratterizzata dalla possibilità che quella divergenza conduca a quel determinato danno,
nell’istigatore c’è questa colpa. Non solo, in chi lancia il mattone, può esserci anche c’è il dolo.
È su questo che si basano la responsabilità e l’individuazione delle cause (tutte uguali dal punto
di vista naturalistico). La rilevanza dell’una o dell’altra causa, ai fini della responsabilità, si basa sui

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 38

criteri di imputazione della responsabilità (dolo/colpa) o sui vari criteri che, nel caso di
responsabilità oggettiva, vengono enunciati dal nostro ordinamento (es. colpa aggravata/presunta).
Esclusa quindi la rilevanza dal punto di vista causale della teoria della causalità efficiente, si esclude
che abbiano rilevanza anche le distinzioni legate alla causalità efficiente. Chi teorizza la differenza fra
le varie condizioni (efficienti o meno), distingue da queste le condizioni remote rispetto all’evento.
Cioè, se viene riscontrato nella catena causale un elemento che toglie rilievo ad un altro antecedente,
questo antecedente è totalmente irrilevante, viene degradato al rango di mera occasione. La difficoltà
di distinguere l’efficienza delle cause esclude la valenza stessa della distinzione fra loro.

Il c.d. rapporto di causalità e il criterio di adeguatezza


Altre due teorie in tema sono la teoria della causalità adeguata e la teoria della cd. regolarità causale.
La teoria della causalità adeguata è una delle teorie che nascono per cercare di attenuare gli
effetti drastici e inesorabili collegati all’applicazione rigida del criterio della condicio sine qua non.
Secondo questa teoria, è causa quel fattore che - secondo un giudizio effettuato a priori - rientra tra
quel tipo di fattori idonei a produrre eventi dello stesso tipo di quello concretamente verificatosi.
Anzidetto, si deve trattare di un antecedente che rientra tra quel tipo di antecedenti, che secondo
l’id quod plerumque accidit (ciò che avviene normalmente), sono idonei a produrre quel
determinato tipo di eventi, tra cui rientra l’evento concretamente verificatosi.
Tale ragionamento si effettua su un rilievo statistico (il fattore idoneo a produrre gli eventi deve
rientrare tra quelli che, con alta percentuale, producono lo stesso tipo di eventi).
Nell’applicazione di questa teoria si pongono dei dubbi: si deve valutare sempre tutto a priori? E se il
soggetto agente ha delle competenze specifiche, che ci permettono di ipotizzare che tale soggetto
opererebbe diversamente, rispetto a un soggetto comune e privo di quelle particolari conoscenze?
Le specifiche conoscenze comporterebbero, in capo a quel soggetto, il sorgere di una responsabilità;
dovranno, quindi, rientrare ed essere considerate nel giudizio di adeguatezza. Dovrà considerarsi
causale, secondo tale criterio, un fattore posto in essere da un soggetto con determinate conoscenze,
quando tale fattore rientra in quell’insieme di fattori posti in essere da soggetti che hanno anch’essi
quel tipo di competenze che sono normalmente in grado di produrre quel tipo di eventi, in cui rientra
l’evento effettivamente concretizzatosi.
Il giudizio di prevedibilità (possibilità che si realizzi un determinato evento) implica che assumano
un rilievo preponderante le presunzioni: dire che un determinato antecedente rientra all’interno di
quegli antecedenti normalmente idonei a produrre quel tipo di evento dannoso, significa che si può
presumere (in assenza di un accertamento specifico) che quel determinato evento sia derivante da
quel determinato antecedente. Quando le presunzioni sono gravi, precise e concordanti, danno la
possibilità di essere utilizzate come mezzo di prova, se previsto dall’ordinamento. Nel giudizio
relativo al sorgere di una responsabilità extracontrattuale, le presunzioni hanno rilievo centrale
(diverso caso i di giudizi nei quali a rilevare sono prove documentali che hanno valore certamente
superiore o in giudizi in cui è escluso l’operare delle presunzioni, ad es., giudizi sulla simulazione dei
contratti, ex artt. 2722- 2724 c.c.).

La teoria in analisi incontra dei limiti nella misura in cui si scontra con dati di fatto legati alla
necessità della giurisprudenza di far rispondere anche per conseguenze statisticamente “anomale”:
ad esempio, la vittima di un incidente stradale che, a causa delle lesioni riportate, è sottoposta ad una
necessaria trasfusione di sangue e contrae un’epatite virale a causa della trasfusione stessa. Può, in
questo caso, chi ha provocato l’incidente essere ritenuto responsabile, rispetto al fatto che il soggetto
passivo abbia contratto l’epatite in seguita alla trasfusione? La corte di Cassazione ha risposto
affermativamente, sentenza n. 6023/2001. Tale sentenza fa capire che si ritiene responsabile il
soggetto anche per conseguenze che si possono considerare anomale (es. rispetto all’incidente).
Stessa volontà di privilegiare il risarcimento del danno è presente anche in altri casi. La
giurisprudenza, ad esempio, ha ammesso risarcimento per distorsione di una caviglia in seguito allo

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 39

spavento e alla reazione scomposta per lo scoppio di un pneumatico (1998), o anche il risarcimento
per il suicidio di un lavoratore depresso, successivo a un infortunio sul lavoro.
Il fatto di far rispondere anche per le conseguenze di cui sopra fa comprendere come l’adeguatezza
non possa mai essere considerata un criterio di responsabilità pieno. Indubbiamente anche
conseguenze idonee che non rientrino dell’id quod plerumque accidit, e quindi “anomale”, possono
essere considerate risarcibili.
Bisogna porre attenzione sul fatto che un conto è andare ad analizzare quali sono i presupposti
perché nasca il fatto illecito, altro conto è analizzare quali sono le conseguenze risarcibili. Nel caso di
illecito extracontrattuale, le conseguenze risarcibili possono anche essere imprevedibili, salva la
mitigazione prevista ex art. 2056 c.c. (valutazione equitativa del giudice sul mancato guadagno).
La giurisprudenza, tuttavia, fa male a indicare ipotesi come quelle esposte quali ipotesi che portano
al risarcimento secondo criteri causali. In realtà non si tratta assolutamente di applicazione di criteri
causali né di accertamento del fatto, ma di applicazione di regole di responsabilità di diritto.

Ricapitoliamo le critiche che sono state mosse alla teoria della causalità adeguata:
1. La discrezionalità del giudice, che deve stabilire quando una causa è normalmente idonea a
cagionare un determinato tipo di eventi, tra cui rientra l’evento dannoso effettivamente verificatosi.
Quindi è il giudice a scegliere quale grado di idoneità possa essere sufficiente per ritenere quel
fattore idoneo. La critica muove dal fatto che un criterio che viene considerato causale diventa un
criterio utilizzabile dal giudice secondo la discrezionalità di quest’ultimo;
2. Impossibilità di applicazione per i casi di illeciti caratterizzati da ricchezza di dettagli.
Come si può dire che un evento rientri tra quelli che normalmente sono cagionati da quel
determinato tipo di fattore antecedente? La ricchezza di dettagli esclude che si possa fare una
considerazione aprioristica per cui è possibile ritenere quel tipo di evento come un qualcosa che
rientri in un giudizio di normalità. Essendo quell’evento così specifico non si riesce ad inserirlo in
nessuna delle casistiche delle massime di esperienza. Quindi è impossibile utilizzare il criterio della
causalità adeguata se l’evento è così ricco di dettagli da rendere inutilizzabili regole aprioristiche;
3. Confusione con l’elemento della colpa (oggettiva), la critica più importante Quando si parla di
causa adeguata che è normalmente idonea a produrre un determinato tipo di eventi in cui rientra
quello effettivamente concretizzato, si parla di qualcosa che normalmente avviene, secondo le
scienze statistiche. Si tratta, quindi, di qualcosa di prevedibile: se un soggetto pone in essere un
antecedente che normalmente è in grado di produrre un determinato tipo di eventi, quel soggetto
può prevedere che da quel determinato fattore posto in essere scaturisca quel tipo di eventi e,
potendolo prevedere, quel soggetto è in colpa. Quindi questa adeguatezza si risolve in una
valutazione della prevedibilità di un determinato evento, ma non in quanto causa, ma in virtù di un
criterio che riguarda l’accertamento dell’elemento soggettivo necessario per ritenere responsabile il
soggetto (dal punto di vista normativo, e quindi giuridico, e non del fatto). Serve la colpa per ritenere
responsabile il soggetto: quindi è un criterio di prevedibilità della colpa e non di casualità.
La teoria dell’adeguatezza si risolve, pertanto, non in una teoria di causalità ma in un giudizio di
colpa; un giudizio di delimitazione dei fattori rilevanti, sulla base della loro connotazione in
relazione al connubio con l’elemento soggettivo necessario per l’illecito (la colpa, nel caso comune).
Non tutte le ipotesi di responsabilità sono, tuttavia, colpose: in alcuni casi, tali ipotesi, possono essere
di responsabilità oggettiva. In tali casi il criterio dell’adeguatezza è adeguato a quella causa che in
quel caso rientra nel criterio di imputazione del danno previsto dalla regola di responsabilità
oggettiva (ad esempio, il datore di lavoro che risponde degli illeciti dei propri dipendenti nell’esercizio
delle loro mansioni). In tali casi il criterio di adeguatezza riguarda il rientrare o meno della
commissione dell’illecito nell’ambito delle mansioni quali “occasioni necessarie” dell’illecito stesso;
pertanto si risolve anche stavolta in un criterio di imputazione della responsabilità.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 40

La teoria della regolarità causale serve (una volta già nata la responsabilità) per la
quantificazione del danno risarcibile, mentre la teoria dell’adeguatezza servirebbe
(nell’intenzione di chi l’ha teorizzata) per far sorgere una responsabilità.
Essa “urta” con l’art. 1223 c.c., secondo cui è risarcibile il danno che sia conseguenza immediata e
diretta dell’illecito. Per la giurisprudenza questa norma è superata, proprio sulla base della regolarità
causale: infatti anche i danni cd. mediati e indiretti sono risarcibili, se si ha una regolarità causale,
cioè quando i danni sono effetti normali dell’illecito. Così si è arrivati a risarcire danni riflessi: la
vittima di incidente stradale è il danneggiato, e i parenti della vittima hanno un danno riflesso, che,
secondo la giurisprudenza, è da risarcire in quanto effetto normale dell’illecito anche se non
conseguenza immediata e diretta dell’illecito. Bisogna ricordarsi, in merito, che l’art. 2056, nello
stabilire la quantificazione del danno extracontrattuale, non richiama l’art. 1225, dispone
implicitamente che l’autore del danno risponda anche dei danni non prevedibili. Allora è questa la
regola da osservare, senza il bisogno di riferirsi alla regolarità causale.
Si rileva che far pesare maggiormente i presupposti del danno come conseguenza immediata e
diretta restringe l’area del risarcibile, diversamente, far pesare maggiormente la regola di
risarcibilità anche dei danni imprevedibili comporta un’estensione dell’area del risarcibile:
l’equilibrio e l’armonizzazione vanno operati dalla giurisprudenza.

Il c.d. rapporto di causalità e i criteri dello scopo della norma violata e del rischio specifico
Il criterio dello scopo della norma violata che è stato preso dalla Germania, e che non si armonizza
benissimo al nostro sistema giuridico della responsabilità.
Secondo il criterio in analisi, l’apporto causale rileva quando il fatto dannoso verificatosi integra la
realizzazione del danno che la norma violata intendeva prevenire.
Quindi, se un soggetto viola una norma volta alla prevenzione di un danno, e si realizza il danno che
la norma intendeva prevenire, la condotta del soggetto è da considerare antecedente causale
rilevante. In questo modo, si dà alla responsabilità civile una funzione maggiormente preventiva,
dal momento che un soggetto rischia di incorrere in responsabilità, per il solo fatto di porre in essere
un determinato comportamento in contrasto con una norma giuridica, ove si verifichi poi il danno
che la norma intendeva prevenire. I soggetti – in via preventiva, quindi – non porrebbero in essere
tali comportamenti. Non rileverebbe più un effettivo dolo o un’effettiva colpa del soggetto riguardo
quel tipo di danno, ma sarebbe sufficiente l’oggettivo porsi del soggetto in contrasto con la norma
giuridica che intende prevenire il danno. Quindi la fase della responsabilità si oggettiverebbe molto
di più, l’imputazione della responsabilità avrebbe una connotazione molto più oggettiva e lo scopo di
prevenzione maggiormente raggiunto.
Applicando un criterio di questo genere assumono un ruolo rilevante le presunzioni. Questo perché
se la norma intende prevenire un certo tipo di danno, e il soggetto pone in essere una condotta in
contrasto con quella norma e successivamente il danno si verifica, possiamo dire che si può
presumere che quel tipo di condotta abbia portato al verificarsi di quel tipo di danno.
Gli esempi che si fanno, quando si vuole esporre nei testi di dottrina questa teoria, riguardano
sempre la violazione dolosa di una norma (es. lesioni personali) oppure una colpa specifica (es.
previsione di un limite di velocità derivato da una norma). È pertanto, in entrambi i casi, necessaria
una norma giuridica determinata che sia indirizzata alla prevenzione di quel tipo di danno.

Se serve sempre una norma di riferimento che contempli anche il danno, è difficile nel nostro
ordinamento trovare sempre tali norme (vedasi esempio di Tizio che evade e calpesta il Rolex caduto
a Caio; Caio non può invocare la violazione del divieto di evasione per ottenere il risarcimento,
perché le norme sull’evasione non servono a tutelare gli oggetti). Nell’ordinamento giuridico italiano,
tuttavia, le ipotesi di responsabilità sono molto aperte, c’è un’atipicità dell’illecito: c’è la possibilità
di incorrere in responsabilità per mera colpa generica; la responsabilità civile nasce non per
violazione di una specifica norma ma per violazione di un canone generale di diligenza, quindi per

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 41

una colpa generica. Nel nostro ordinamento non c’è una norma per tutti i casi in cui può esserci
responsabilità da illecito. Infatti, questo criterio risponde meglio ad altri ordinamenti in cui sono
tipizzate le ipotesi di responsabilità extracontrattuale (ad esempio quello tedesco); da noi si
potrebbe usare solo per i casi di responsabilità oggettiva.
Ciò che interessa rilevare riguardo il criterio dello scopo della norma violata è che, in primo luogo,
non si tratta di un criterio che può operare in via generale nell’ordinamento italiano, non operando
nella maggior parte dei casi. Inoltre, non è un criterio di causalità, perché, non ci permette di
sapere quando una causa conduce ad un determinato effetto, ma cerca semplicemente di spiegare
come nasce la responsabilità. Non pare ci sia necessità di un criterio del genere: è ovvio che se c’è una
norma questa avrà una sua ratio e se lo scopo della norma è proprio quello di prevenire determinati
danni, pare altrettanto ovvio che quel tipo di danno debba essere considerato ingiusto. Riguarda più
il fondamento e l’imputazione della responsabilità, più la colpa specifica che non la causalità.

L’altro criterio studiato nei testi che parlano di nesso di causalità è la c.d. teoria del rischio
specifico. Secondo tale teoria, un antecedente è causale rispetto al danno verificatosi, quando
quest’ultimo altro non è che la realizzazione del rischio specifico creato da quel tipo di antecedente.
In altre parole, se il danno è la concretizzazione del rischio che quell’antecedente ha posto in essere,
allora si ritiene che l’antecedente sia causale rispetto al danno. In Germania si specifica per legge che
non può sorgere responsabilità se il danno è uno di quelli che tipicamente si rischia di produrre
nel quotidiano vivere sociale (per esempio, un soggetto alla guida della propria autovettura provoca
l’innalzamento della gonna di una ragazza che poi si raffredda: ovviamente non può rispondere per
questo, perché è un rischio del quotidiano vivere sociale che normalmente si corre). Nell’ordinamento
italiano invece, si dovrà parlare di ciò che rientra o meno nella sfera del lecito.
L’antecedente, si dice, deve incrementare le oggettive probabilità di verificazione di un danno. Si
dovrà pertanto ricorrere alle scienze statistiche per capire se un tipo di antecedente possa
aumentare le oggettive probabilità di verificazione di un danno. È anche vero che la scienza, nel
momento in cui viene posta in essere una condotta, non permette di sapere se essa accresca o meno
il rischio di realizzazione di un determinato danno. E se ciò, poi, si comprendesse successivamente?
Si fa rispondere un soggetto (che magari non aveva nemmeno le nozioni scientifiche per valutare le
conseguenze dell’antecedente), per la scoperta scientifica successiva che quel tipo di condotta
accresce il rischio di concretizzazione di quel tipo di danno? Ovviamente, la risposta deve essere
negativa e ciò è un elemento di enorme debolezza della teoria del rischio specifico per cui, nel
nostro ordinamento non si può ipotizzare di applicarla.
Contravverrebbe, infatti, a ogni principio di giustizia sociale. Se fosse il rischio specifico a portare
alla responsabilità, allora porterebbe a responsabilità anche uno studio a posteriori che permetta -
con nuove conoscenze scientifiche - di affermare che quel tipo di antecedente posto in essere abbia
accresciuto il rischio di verificazione di quel tipo di danno.
Anche questo criterio riguarda l’imputazione della responsabilità e non la causalità vera e propria.
Esso consente di comprendere quali rischi possono essere creati legittimamente; se si va oltre si
rientra nella colpa o nel diverso criterio di imputazione della responsabilità.

Si può quindi riflettere sulla vera essenza dei c.d. “criteri di causalità”. In ogni caso, si è visto che
pur se gli studiosi seguono un criterio di causalità o un altro, i risultati raggiunti sono simili. Questo ci
induce a ragionare sul fatto che c’è un sostrato comune quanto all’accertamento della causalità. Tale
sostrato è che i così detti criteri di causalità, non sono veramente di causalità, ma si e si basano sui
canoni di imputazione della responsabilità, e fondamentalmente sulla colpa (divergenza fra lo
standard comportamentale da tenere e che viene tenuto dal soggetto).
L’unico criterio che si può ritenere realmente causale (perché riguardante le modificazioni della
realtà, la causalità naturalistica, etc) è quello della condicio sine qua non, l’unico scientifico.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 42

2.3 > Diritti fondamentali e responsabilità civile

Il diritto alla salute


In senso giuridico, la salute è da considerare come presupposto di ogni diritto, bene primario della
persona umana. Le norme si creano delle norme giuridiche per il soddisfacimento degli individui, ma
ogni facoltà di legge presuppongono i beni primari che sono la salute e la vita dell'individuo.
Quindi la tutela della salute deve considerarsi come un postulato, in quanto è data per certa senza
dover argomentare. Questo perché non avrebbe senso parlare di facoltà, di posizioni soggettive, di
diritto a favore di una determinata persona, se non si presuppone che venga tutelata quella persona,
in quanto in vita e in quanto soggetto che abbia bisogno che gli sia garantita la propria esistenza in
salute. Questo presupposto deve essere considerato alla base di ogni normativa che riguarda la
salute: la tutela della salute deve essere considerata un postulato.
Esiste un rapporto di biunivocità tra salute e vita, quindi un rapporto di necessaria incidenza
reciproca tra diritti a favore di un determinato soggetto e tutela della stessa salute.

Esaminiamo alcuni fondamenti normativi del diritto alla salute. Se è vero che ogni norma giuridica
deve essere considerata subordinata alla sussistenza della vita e della salute come presupposti
imprescindibili di qualsiasi argomentazione che riguardi i diritti di un soggetto, è anche vero che
alcune norme si sono dedicate alla salute.
Una norma centrale è quella dell’art. 32 della Costituzione, per quanto il diritto alla salute va
considerato ontologicamente esistente a prescindere dal dettato costituzionale > “La Repubblica
tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività e garantisce cure
gratuite agli indigenti; nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non
per disposizione di legge, la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della
persona umana”.
L’art. 32 riguarda più che altro i rapporti tra la Repubblica e i soggetti privati (rapporti alcune
volte di reciproca tensione, di libertà contro autorità): non è quindi una norma che riconosce un
diritto. Tale articolo, piuttosto che far sorgere un diritto alla tutela della salute, dispone qualcosa che
riguarda i rapporti tra lo Stato e singoli cittadini, imponendo determinate regole, escludendo che
possa essere violato il rispetto della persona umana e trattamenti sanitari obbligatori e prevedendo
cure gratuite agli indigenti.
Questa visione del diritto alla salute come postulato è una visione moderna. Infatti, la Costituzione è
del 1948, in cui non si aveva ancora il concetto di diritto alla salute come postulato giuridico.
Nell’Ottocento non si negava il diritto al salute e neanche quello alla sua tutela. Non c’era la visione
un diritto soggettivo alla salute, ma si considerava più un obiettivo politico di tutela della società e
dell’ordine pubblico (con prescrizioni autoritative volte al contrasto delle epidemie). Tale legame con
l’ordine pubblico rimase anche nel 1948, e si dovette attendere l’istituzione del Ministero della Salute
(prima la tutela della salute era demandata al Ministero dell’Interno).
Inizialmente si cercava di attuare la tutela della salute secondo un'ottica anglosassone di
assistenza generica e sociale, tant'è che la legge del 17 luglio 1890 n.6972, riguardava gli istituti di
assistenza e di beneficenza e li tutelava secondo una forma pubblicistica. Le istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficenza erano, infatti, quelle che avevano il compito di prestare assistenza ai poveri,
non riconoscendosi un diritto soggettivo alla salute.
Con l'evoluzione della società si è evoluto anche il concetto di salute, e anche la visione della tutela
della salute che lo Stato deve garantire, e all'obiettivo di tutela, che veniva realizzato nell'Ottocento
attraverso il contrasto delle epidemie, si è giunti ad un obiettivo di tutela della collettività che
andasse non tanto a contrastare un’epidemia già in atto, bensì a prevenirla.
Analizzando l'art. 32 della Costituzione, si nota che questo non fa altro che stabilire un rapporto
costituzionale tra lo Stato e il cittadino con riguardo alla tutela della salute: si tratta di una relazione
tra autorità pubblica e libera autodeterminazione del privato. L'autorità pubblica rivendica, da

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 43

sempre, un potere di decisione privilegiato in materia di salute e la separazione delle giurisdizioni


(civile e amministrativa) riflette questa differenza tra potere pubblico e libertà privata. Proprio per
questa ragione, la tutela della salute si è tanto potuta realizzare quanto ci si è potuti emancipare
dall'ambito ristretto del diritto amministrativo. Se la salute viene inquadrata in maniera stretta,
all'interno del procedimento amministrativo e della discrezionalità, infatti, la libertà del privato
assume un rilievo minore, di semplice contrasto verso l'autorità; se, invece, la salute viene vista come
un postulato di civiltà e come diritto soggettivo, la salute non viene più essere inquadrata
strettamente nelle maglie del diritto amministrativo, bensì entra nell'ambito del diritto privato in
senso stretto, quale obiettivo centrale della tutela degli interessi fondamentali dell'uomo, perciò
come centrale oggetto di diritto civile. Per arrivare a ciò è stata necessaria una lenta e progressiva
emancipazione della tutela della salute nell’ambito del provvedimento amministrativo.

Non a caso le evoluzioni che hanno portato a un rilievo evidente del diritto alla salute in ambito di
tutela giuridica si sono avute nell'ambito della giurisprudenza civilistica, che ha creato la categoria
del danno biologico, inteso come lesione dell’integrità psicofisica, meritevole di tutela a
prescindere da effetti economici negativi connessi.
Per meglio comprendere il danno biologico va analizzata la sentenza della Corte Costituzionale che
ha creato questa categoria di danno, sentenza n. 184 del 14 Luglio 1986. Negli anni ‘80 in ambito
risarcitorio sorgevano alcune esigenze:
1. Esigenza di tutelare tutte le vittime di lesioni fisiche allo stesso modo, un’esigenza di
uguaglianza sostanziale, cui ha voluto dare risposta la sentenza n.184. Non esistendo una
norma specifica che tutelasse la salute in via diretta e che disponesse un determinato
risarcimento per la semplice lesione del diritto alla salute, succedeva che, ad esempio in caso
di sinistro stradale, un soggetto disoccupato che veniva investito aveva diritto al solo
risarcimento delle spese mediche, considerando che le lesioni procurate a quel soggetto non
conducevano ad alcuna conseguenza patrimoniale particolare, perché quel soggetto non
produceva reddito. Invece, se veniva investito e lesionato allo stesso modo un soggetto che
percepiva un reddito, questo veniva risarcito maggiormente, oltre alle spese mediche, perché
a causa di quella lesione non aveva potuto percepire il suo solito reddito. Si notava quindi una
disparità di trattamento in merito al risarcimento, e si ritenne giusto, invece, risarcire allo
stesso modo tutti i soggetti vittime di determinate lesioni (considerando a parte le altre
eventuali voci di danno). Tale esigenza si manifestò all’interno di un giudizio di merito
inerente l’art. 2059, il quale prevede che il risarcimento del danno non patrimoniale sia
possibile solo nei casi in cui la legge in maniera specifica lo preveda. La legge lo prevedeva
solo in materia di reato: si notava, nell’ambito del giudizio, un’incongruenza tra l'esistenza
della norma appena descritta e l'effettiva esigenza sostanziale di giustizia sociale di risarcire
soggetti che, anche al di fuori di commissione di reati, abbiano subito un danno non
patrimoniale relativo alla lesione dell'integrità psicofisica;
2. Esigenza di salvare il disposto normativo dell’art. 2059 c.c. Questa ingiustizia sostanziale
del rigore dell'articolo 2059 fu superata dalla sentenza n.184, che non volle, tuttavia,
dichiarare incostituzionale l'articolo 2059 del codice civile, perché non c'erano nelle norme
della Costituzione dei forti indici che permettevano di dichiararne l’incostituzionalità. La
Corte Costituzionale si orientò verso l'analisi di un'altra norma, l'art. 2043 del codice civile,
riguardante il risarcimento dei danni in generale (“ogni fatto doloso o colposo che cagiona ad
altri un danno ingiusto obbliga l'autore del fatto al risarcimento del danno”).
3. Esigenza di superare l’assenza di reato. La Corte Costituzionale prese il precedente
dell’art. 2043 c.c., e cioè l’art. 1151 del codice civile del 1865, che riguardava tutti i tipi di
danno, patrimoniali e non patrimoniali. Fino agli anni ’30 tale norma era ritenuta operante
solo per i danni patrimoniali, in virtù del combinato disposto con altre norme in materia del
c.p. e del c.p.p. dell’epoca. Con l’entrata in vigore del codice Rocco (1930), l’art. 1151 del

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 44

codice 1865 venne considerata nuovamente una norma estesa a tutti i tipi di danno,
patrimoniali e non. Infatti, l’articolo 185 del codice Rocco parlava di danni patrimoniali e non
patrimoniali connessi al reato, quindi non si arrogava la competenza per tutti i danni non
patrimoniali e l'articolo 1151 non restava una norma residuale solo per i danni patrimoniali.
Questa ricostruzione storica, considerando che l'art. 1151 è l'antecedente storico dell'art.
2043, attualmente vigente in tema di responsabilità civile, ha permesso alla Corte
Costituzionale di stabilire che l'art. 2043 del codice civile, discendente dall’art. 1151,
comprende in sé tutti i danni, anche quindi il risarcimento dei danni non patrimoniali;
4. Esigenza di sopravvalutare l’art. 32 Costituzione. Questa forzatura interpretativa
condusse a cercare di inserire all'interno dell'art. 2043 anche il risarcimento del danno per il
diritto alla salute. La Corte collegò l’art. 32 Cost. all’art. 2043 c.c. (non c’era reato quindi non si
poteva collegare l’art. 2059), citando – anche a sproposito - una sentenza (n.88 del 1979) che
legava il risarcimento per lesione della salute all’art. 2059 c.c.

Sotto questa soluzione si celava un ragionamento, già proposto anche dalla dottrina: è vero che la
lesione al diritto alla salute può considerarsi lesione che rende applicabile l'art. 2043 in maniera
stretta, cioè come norma che risarcisce i danni patrimoniali. Questo perché quando viene tutelata la
salute di un individuo, secondo una percezione immediata, è facilmente comprensibile,
quell'individuo non perde il valore di scambio dei propri beni, ma perde sicuramente il valore
d'uso di quei beni. Valore d'uso che ha un valore patrimoniale: se si perde il valore d'uso dei beni si
perde un qualcosa in relazione a una indefinita serie di beni che attualmente ha in suo possesso o che
potrebbe avere in futuro (danno emergente futuro). Non sarebbe stata necessaria tutta la
ricostruzione storica operata, ma sarebbe bastato ricomprendere la lesione del diritto alla salute
nell’art. 2043, perché con tale lesione si causa un pregiudizio patrimoniale immediato.
Si può considerare, allora, che l'articolo 32 della Costituzione non sia una norma realmente utile a
livello precettivo, perché non è da questo che sorge il diritto del soggetto al risarcimento del danno.
Sancendo che la Repubblica tutela la salute, garantisce cure agli indigenti e stabilendo l'impossibilità
di trattamenti sanitari obbligatori, l’articolo in parola non può essere considerato norma
direttamente precettiva, ma va considerato piuttosto come norma programmatica (la natura non
precettiva è confermata dai ragionamenti di cui sopra della Corte Costituzionale: se fosse precettiva
la Corte vi si sarebbe riferita direttamente).

La salute è stata sempre vista in stretto legame con l'autorità. Tra salute e sanità pubblica si è
sempre creato un legame inscindibile, configurando come interesse legittimo – spesso - la posizione
del privato, e in alcuni casi ciò si evince in maniera netta: si pensi, ad esempio, al privato che chiede
l'autorizzazione al rimborso delle spese effettuate per delle cure sostenute all'estero, in virtù dei
migliori strumenti. Se quella del privato fosse una posizione di interesse soggettivo, il privato
avrebbe la possibilità di incidere direttamente, di fare ordinare, cioè, dal giudice, l'acquisizione di
determinati strumenti per la tutela della salute da parte delle strutture sanitarie. Se la struttura
pubblica invece decide di non dotarsi di determinati strumenti, necessari per la tutela della salute del
cittadino, la posizione del cittadino è sempre di interesse legittimo a che la pubblica amministrazione
operi nel rispetto delle posizioni dell'utente, con equilibrio e imparzialità.
Anche la Corte Costituzionale sembra orientata sul fatto che non esista realmente una posizione
di diritto soggettivo alla salute tutelabile in via diretta ex art. 32 della Costituzione. Questo si nota
nell’emblematica sentenza n. 127 del 16 marzo 1990, secondo la quale non viene dichiarata
costituzionalmente illegittima una normativa che prevede che, pur sussistendo una strumentazione
tecnologica che permette una migliore pulizia e tutela dell'ambiente, l'impresa non ha l'obbligo di
seguire i metodi e le tecniche di smaltimento di più elevato valore ambientale quando ciò comporti
un eccessivo aggravio di costi di produzione.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 45

Nei ragionamenti concernenti l'art. 32 si pone una relazione stretta tra diritto ed etica, a
prescindere da ogni norma giuridica e dallo stesso art. 32. La salute è qualcosa che si percepisce
all'interno della società, la cui evoluzione propone nuovi metodi e nuove frontiere della tutela della
salute a prescindere dalle norme. Questo si nota anche nelle nuove problematiche giuridiche che si
affacciano oggi nel panorama giuridico nazionale ed europeo: si pensi alle problematiche correlate
alla procreazione medicalmente assistita, al testamento biologico, all'eutanasia e al c.d. consenso
informato in senso tecnico (meglio dire informazione corretta per l'acquisizione di un consenso al
trattamento sanitario). Tutte le questioni giuridiche che riguardano questi temi - oggetto o meno di
normativa - sono problematiche che pongono un evanescente rapporto tra diritto ed etica, perché
alcune risposte non possono certo essere date dal diritto: si ricercano, quindi, secondo ragionamenti
para giuridici, legati più che altro al mondo dell'etica (alcuni casi di recente cronaca - come i casi di
Eluana Englaro o di Pier Giorgio Welby - ne sono la dimostrazione).

Il risarcimento del danno da perdita della vita


Il tema di cui in oggetto riguarda in modo generale la responsabilità civile e, in modo particolare
determinati campi della responsabilità civile: in particolare la responsabilità sanitaria, a cui spesso,
purtroppo, si riconnettono responsabilità per conseguenze letali; interessa anche il campo delle
assicurazioni, poiché spesso i danni di cui parleremo vengono risarciti proprio dalle assicurazioni.
Sul risarcimento del danno da perdita della vita diffusissime - e divergenti - sono le teorie che si
sono susseguite sia in dottrina che in giurisprudenza, che hanno cercato di analizzare i particolari
beni giuridici che vengono in questione nei casi concreti.
I presupposti dai quali bisogna muovere per l’analisi del diritto alla vita sono i seguenti:
1. Si tratta del primo di tutti i diritti, del presupposto di tutti i diritti. Non può quindi ritenersi
escluso dalle tutele previste, anche in sede risarcitoria; il diritto stesso esiste in virtù dell’esistenza
dell’individuo, e la tutela dell’individuo è centrale per il nostro ordinamento;
2. La tutela della vita si attua tutelando la salute;
3. Salute e vita sono intimamente legate: la massima compromissione della salute corrisponde
al venire meno della vita. La giurisprudenza intende, tuttavia, salute e vita come due beni diversi;
seppure in senso logico sono da considerare strettamente connessi, in senso giuridico vengono
considerati beni diversi. Ci si è, purtroppo, radicati nella convinzione che il danno c.d. biologico
(quale lesione dell’integrità psicofisica) riguardi la sola tutela della salute, mentre la tutela della
vita sarebbe qualcosa di diverso. Quindi, sono state create da giurisprudenza e applicate dalle
assicurazioni delle tabelle risarcitorie, in base all'invalidità che si causa in relazione ad un
determinato illecito o inadempimento che provoca un danno alla salute. Esse considerano
un’invalidità massima del 100%, quindi una lesione alla salute, ma non considerano la perdita della
vita. A nostro avviso, comunque, i beni in analisi debbono essere considerati strettamente
connessi, tanto che anche l’ordinamento prende in considerazione questo amplificarsi della tutela
fra perdita della salute e, nei casi più gravi, perdita della vita. Infatti, dal punto di vista penale vi sono
delle norme che fanno aumentare la pena in base al maggior danno alla salute che si attua nell’ipotesi
specifica (es. art. 581 c.p., sulle percosse e l’art.582 c.p. che prevede una maggior pena in caso di lesioni
personali. Se, tramite percosse o lesioni si arriva alla morte della vittima, la sanzione è ancora più grave
per il reo > art. 584 c.p. sull’omicidio preterintenzionale.) Si dovrebbe quindi necessariamente attuare
una necessaria proporzione, come nel diritto penale, nella commisurazione della reazione
civilistica ai pregiudizi che riguardano la salute e la vita della persona umana.

L’origine della problematica concernente la risarcibilità del danno alla vita è da collegare alle
nuove frontiere che sono state raggiunte nel campo della risarcibilità del danno non patrimoniale.
(ricordiamo che il danno biologico è considerato ex se, prescindendo dalle spese mediche o dal reddito
che non si è potuto guadagnare a causa della lesione alla salute etc. Dal punto di vista non
patrimoniale, si è ritenuto dalla metà degli anni ‘80 in poi, grazie ad una sentenza della corte

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 46

costituzionale, di considerare allo stesso modo, dal punto di vista non patrimoniale, tutte le lesioni del
bene salute; sia che capitino ad un soggetto che produce un reddito elevato, sia che capitino ad un
soggetto che non percepisce reddito alcuno.)
Dalla metà degli anni ‘80 in poi, si è avuta una valorizzazione nel campo del giuridico, da parte
della giurisprudenza, dei valori costituzionalmente tutelati della persona umana, piuttosto che
delle norme specifiche dettate in materia di risarcimento del danno.
Ciò si è avuto con un’evoluzione che è passata attraverso un’interpretazione costituzionalmente
orientata dell’art. 2059 cc., che riguarda la risarcibilità del danno non patrimoniale, e che prevede
che tale risarcimento andrebbe concesso solo nei casi in cui la legge espressamente lo preveda.
Tale interpretazione costituzionalmente orientata si è avuta nel passaggio di un’evoluzione che ha
incontrato delle tappe decisive, tra cui nel 2003, le sentenze 8827 e 8828 della Cassazione, poi
ribadite dalle sezioni unite nella sentenza 26.972 11 nov. 2008. Tali sentenze hanno disposto
preminenza assoluta dei valori della persona, con un riconoscimento giurisprudenziale di una
tutela risarcitoria di tutte le lesioni di interessi essenziali della persona tutelati a livello
costituzionale. Quindi, se viene leso un interesse fondamentale della persona umana, tutelato a
livello costituzionale, si ha un risarcimento del danno non patrimoniale, anche se la legge non lo
prevede: si tratta, in sostanza di un’abrogazione implicita. Ciò è avvenuto in ossequio a ideali di
giustizia, anche se giuridicamente l’argomentazione non regge in maniera forte.
L’art. 2059 è stato “interpretato costituzionalmente”, ma come si fa a interpretare costituzionalmente
l’articolo di una legge del 1942, tenendo conto che la Costituzione è del 1948 e che l’interpretazione
di cui stiamo parlando è della 2003? Più che interpretazione (è fuorviante parlarne), è più corretto
sostenere che si è voluto superare, abrogandolo, l’art. 2059 ammettendo la risarcibilità di un
danno a un diritto costituzionalmente tutelato.
Inoltre, nonostante questa “interpretazione” costituzionalmente orientata dica che i valori della
persona umana tutelati dalla Costituzione godono di un’intrinseca risarcibilità, in realtà la Corte
Costituzionale non ha mai tratto in via diretta dalle norme costituzionali una diretta precettività in
ambito risarcitorio. Semmai, quando ha cercato di ricostruire una tutela risarcitoria, ha sempre
collegato queste norme ad altre norme del sistema civilistico che prevedono un risarcimento. Difatti,
nella sent. 233/2003 esclude una precettività diretta delle disposizioni costituzionali nell’ambito
della risarcibilità del danno non patrimoniale.

Nell’evoluzione della risarcibilità del danno non patrimoniale, le citate sentenze della
Cassazione del 2003 sono comunque state una tappa utile ad arginare l’operato dei giudici di merito.
Dal momento che la Corte Costituzionale a metà degli anni 80 ha collegato ai valori della Costituzione
la risarcibilità del danno biologico, i giudici si sono sbizzarriti, cominciando a legare all’art. 2043 c.c.
tutte le norme della Costituzione iniziando a risarcire qualsiasi cosa (esempio: un taglio di capelli
venuto male, l’impossibilità di passare il Natale coi cari, etc.). La Cassazione ha voluto mettere un
argine, stabilendo che deve esserci lesione “almeno” di un diritto inviolabile della persona tutelato.
Era possibile per la Corte, tuttavia, operare su un piano argomentativo. Dal 1942 le cose sono
cambiate: in quell’anno l’art. 2059 faceva esclusivo riferimento alle ipotesi di risarcibilità del danno
non patrimoniale espressamente sancite per legge, e l’unica legge che prevedeva tale risarcimento
era il codice penale all’ art. 185 > nel caso di reato il colpevole è tenuto al risarcimento. L’art. 2059
era difatti considerato una norma eccezionale (anche in virtù del riferimento al penale), per le quali
è vietata l’analogia oltre il suo stretto ambito.
Negli anni, tuttavia, si sono moltiplicate le ipotesi di risarcibilità previste dalla legge del danno
non patrimoniale (1988 > danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie per ingiusta
privazione della libertà personale; 1996 e 2003 > trattamento dei dati personali; 1988 e 1998 >
divieto di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi; 2001 > violazione del
termine di durata ragionevole del processo; 2003 > divieto di discriminazione in ambito lavorativo;
2005 > sinistro con coinvolgimento di assicurazioni private; 2011 > violazione dei diritti del turista.)

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 47

Tali ipotesi hanno fatto perdere l’eccezionalità dell’art. 2059 e quindi si sarebbe potuto operare
nel seguente modo: ai sensi dell’art. 12 delle preleggi si sarebbe potuto eccepire che il risarcimento
del danno non patrimoniale non fosse più da considerare una legge eccezionale ma anzi, per alcune
ipotesi, qualcosa da poter applicare analogicamente anche ad altri casi. Sarebbe stata
un’operazione più complicata ma più corretta e più legata alla legge. La strada della
costituzionalità è stata scelta perché più facile e più discrezionale per i giudici tuttavia, se si
analizzano i principi costituzionali, da essi si può trarre, purtroppo, sia un principio che quello
opposto. Così, utilizzando la “copertura” della “interpretazione costituzionalmente orientata” dell’art.
2059 i giudici hanno “pilotato” il risarcimento del danno non patrimoniale.
Il distaccarsi dagli stretti dettami della legge e l’ingresso nei principi costituzionali, nonostante sia da
apprezzare per gli ideali di giustizia, ha comportato un inconveniente notevole: si sono perduti i
parametri di riferimento per la risarcibilità del danno non patrimoniale, dal momento che la
Costituzione non offre parametri ben precisi, ma solo principi.

Si nota, inoltre, che i giudici di Cassazione, nell’operare in tema di risarcimento del danno non
patrimoniale, hanno superato determinate categorie legislative del passato, che vedevano ferma
quella norma dell’art. 2059 secondo cui il danno non patrimoniale poteva essere risarcito solo nei
casi espressamente previsti dalla legge.
Con riguardo al risarcimento da perdita della vita, differentemente, i giudici si sono a volte
“fermati” di fronte a determinate qualificazioni risarcitorie e alla legittimazione relativa ai soggetti
aventi diritto al risarcimento del danno. I giudici si sono, in altre parole, arrestati di fronte
all’insuperabilità di determinati schemi giuridici (superabilissimi, in verità) mancando del coraggio
di innovazione che hanno avuto nel caso di risarcimento del danno non patrimoniale.
Partendo quindi da tale idea che i giudici abbiano “perso i parametri”, si nota che se tutti i danni sono
risarcibili, trattandosi di interessi della persona umana tutelati a livello costituzionale, è ovvio che in
tutti gli atti di causa, gli avvocati chiedano un risarcimento per tutto ciò che può essere connesso ad
un interesse della persona tutelato a livello costituzionale. I giudici allora, per evitare di ampliare
troppo i risarcimenti, si sono inventati determinate tecniche: su tutte, il divieto di duplicazione di
risarcimento, applicato poi in realtà solo per evitare di ampliare troppo le maglie della risarcibilità.
Difatti, concedere dei risarcimenti in maniera smisurata comporta anche degli effetti sociali, vedasi,
ad esempio, l’aumento esponenziale dei premi assicurativi auto negli anni ‘90, dovuti a risarcimenti
smisurati, in cui veniva risarcito tutto a tutti.
I giudici sono senz’altro a conoscenza dell’effetto sopra descritto, ma avendo “perso” i parametri di
riferimento – a parte i principi costituzionali – hanno dovuto inventare il già menzionato divieto di
duplicazione (soprattutto volendo mitigare gli effetti sociali di cui sopra).
Si è quindi teorizzato che si avrebbe duplicazione di risarcimento accordando al parente della
vittima sia il danno morale che il danno esistenziale da perdita del rapporto parentale, in quanto la
sofferenza patita nel momento dell’evento letale e quella che accompagna l’esistenza del parente,
riguarderebbero un unico, complessivo pregiudizio. In Cassazione, sent., 8574/2012, si è stabilito
che si debba attribuire al parente della vittima il diritto al risarcimento sia del danno morale per la
perdita del congiunto che del danno biologico per lo stato patologico connesso alla sofferenza
conseguente all’illecito, ma non del danno morale connesso a tale malattia.
Qualche dubbio al riguardo. Se si valuta come risarcibile al parente non solo il danno morale per la
perdita del congiunto, ma anche la lesione dell’integrità psicofisica (corrispondente alla patologia
riscontrata in capo allo stesso parente e conseguente all’evento letale che ha colpito il diretto
danneggiato) per chi chiede il risarcimento può sembrare legittima l’aspettativa di ottenere anche il
risarcimento del danno morale. Si tratta, infatti, anche in questo caso, di un interesse fondamentale
della persona umana che trova sicura tutela nella Costituzione.
Due sarebbero le alternative tra le quali i giudici potrebbero scegliere. In caso di perdita di ogni
parametro (e quindi di divieto di duplicazione), ciò porterebbe a non poter negare ai congiunti della

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 48

vittima (e a tutti coloro che risultano lesi dall’illecito) il risarcimento di ogni voce di danno alla
persona considerata astrattamente risarcibile dalla giurisprudenza, quando ciò rientri nei canoni
esegetici che fanno da presupposto alle nuove tendenze giurisprudenziali (vale a dire quando si tratti
di un interesse inviolabile della persona umana). Oppure, com’è meglio, si potrebbe scegliere di
seguire la legge, che tutela in primo luogo il danneggiato: chi perde la vita, cioè la vittima diretta
dell’illecito. Questo soggetto dovrebbe essere considerato il vero soggetto da risarcire, e quindi,
avendo incamerato questo soggetto un credito risarcitorio, con la propria morte lo trasmette ai
suoi eredi. Quindi dovrebbero essere attribuite agli eredi della vittima, per successione, le somme
spettanti a titolo di risarcimento dei danni e corrispondenti alle lesioni avvenute nei confronti del
diretto danneggiato e alla conseguenza letale.

La giurisprudenza ha creato delle categorie, per cercare di mettere ordine nel disordine normativo
creato col mero riferimento ai criteri costituzionale:
1. Danno biologico terminale: definendolo il più grave pregiudizio dell’integrità psicofisica;
2. Danno tanatologico: danno da morte immediata;
3. Danno catastrofale o peculiare atteggiarsi del danno morale, inteso come sofferenza connessa
alla consapevolezza delle condizioni critiche conseguenti all’illecito in capo al diretto danneggiato,
(in altri termini il danno del soggetto davanti alla consapevolezza dell’imminenza della morte.)
Questa categoria, che lega il risarcimento alla consapevolezza dell’imminenza della morte, “stride”
col particolare atteggiarsi che invece si aveva nell’interpretare la norma quando è nata, che
prescindeva dallo stato di consapevolezza. Nella tradizione, infatti, il risarcimento del danno morale
prescindeva dallo stato di coscienza e si tutelava comunque il soggetto (esempio, soggetto in coma in
seguito a uno sparo: nessuno avrebbe ipotizzato, né prima né ora, di non prevedere risarcimento).
Questa nuova categoria di danno catastrofale richiede, invece, questa consapevolezza.

Le categorie di cui sopra, tuttavia, non sono riuscite a mettere ordine, come invece si auspicava, e
non si sono trovati i punti di riferimento. Tant’è, che a un certo punto, nonostante le categorie, si
sono creati molti inconvenienti: in particolare si è detto che sia nel danno biologico terminale che nel
danno catastrofale, per avere i fini risarcitori, è necessario che la sofferenza abbia una durata, cioè,
raggiunga un livello tale da comportare una lesione. Affinché si possa concretizzare un danno
biologico terminale, il soggetto dovrebbe rimanere in vita per un tempo apprezzabile tale da far
configurare un’effettiva ripercussione delle lesioni sulla complessiva qualità della sua vita.
La giurisprudenza, riferendosi a “tempo apprezzabile” non ha specificato, tuttavia, alcuna
quantificazione o qualificazione di tale locuzione. Infatti, si è detto, con Cassazione, 25 febbraio 1997
n. 1074: “non si configurerebbe danno biologico nel caso in cui rispetto all’evento lesivo, la morte
sopravvenga a distanza di tempo talmente breve da rendere non apprezzabile l’incisione del bene
salute”. Quanto scritto appare una contraddizione in termini, ma anche in questo caso, in seguito alla
perdita dei parametri, si sono “pilotate” le limitazioni risarcitorie. La conferma arriva dal continuo
mutare, da parte della Cassazione, in varie sentenze, della quantificazione di questo tempo che
deve trascorrere perché venga inciso il bene salute (tre giorni, due giorni, quaranta ore, tredici
ore, cinque giorni, etc.)
La legge, invece, dà dei parametri e in questa sede verranno recepiti i parametri dati dalla stessa. Il
codice civile ci fa capire che l’illecito sorge nel momento della lesione e la lesione è sempre
antecedente alla morte. Nel momento della lesione si lede un bene giuridico ed è quello il momento
in cui deve sorgere l’obbligo risarcitorio: si veda, ad esempio, l’art. 1219 c.c., norma in tema di mora
del debitore, che prevede che non c’è bisogno di mettere in mora il debitore quando si tratta di fatto
illecito, perché in tal caso il debitore è automaticamente in mora. E inoltre, l’art. 2056 non rinvia
all’art. 1224, norma sulla costituzione in mora delle obbligazioni pecuniarie. Quanto sopra ci fa
capire che nelle obbligazioni da fatto illecito non c’è bisogno di alcuna costituzione in mora, perché il
debitore è in mora automaticamente e immediatamente nasce l’obbligazione risarcitoria.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 49

Tutti i danni derivanti dall’illecito, anche quelli da conseguenze imprevedibili, sono risarcibili e
l’illecito nasce con la distruzione del bene, quindi già con la lesione. Se poi dalla lesione consegue la
morte, anche questa dovrà essere risarcita.
Se esistesse una perfetta organizzazione della macchina processuale, tale da garantire con
assoluta rapidità il giudizio definitivo sul risarcimento del danno, si avrebbe come risultato che il
soggetto vittima della lesione sarebbe subito risarcito, a prescindere da quanto tempo passi.
Se, in altri termini, il giudizio terminasse prima che il soggetto destinatario del risarcimento soffra le
ulteriori conseguenze, esse potranno essere presunte in tema di prognosi, la quale dovrà essere
contemplata nel credito risarcitorio. Se il soggetto invece è già morto, tutto dovrà essere comunque
rapportato al momento della lesione, e si potrà allegare il fatto che il soggetto sia morto, dovendo il
risarcimento contemplare anche tale esito. Si tratta, comunque, di un diritto già entrato nel
patrimonio del diretto danneggiato e che non deve essere usucapito mediante il perdurare di una
determinata situazione. Ma ciò attiene al profilo istruttorio e non a quello risarcitorio: il riferimento
all’apprezzabile lasso di tempo che deve trascorrere contrasta coi principi del nostro ordinamento.

Altro problema è quello dei soggetti legittimati al risarcimento. Nonostante nel caso di risarcibilità
legata al danno non patrimoniale i giudici siano stati coraggiosi, con riguardo al danno tanatologico
i giudici non hanno mostrato il medesimo coraggio. Si è stabilito che, siccome con la perdita della vita
si perde la capacità giuridica, il diritto al risarcimento da perdita della vita non potrebbe essere
acquistato da nessuno, perché il soggetto che dovrebbe acquistarlo sarebbe già morto.
Ragionando in tal modo, si è dato, paradossalmente, più rilievo alla lesione alla salute, precedente
alla morte, piuttosto che alla perdita della vita. Se, però, facciamo i ragionamenti di cui sopra
questo non vale: perché se è vero che il credito risarcitorio nasce nel momento della lesione, questo
nasce in capo a quel soggetto, la morte sopraggiunge sicuramente (anche se solo di un secondo) dopo
la lesione stessa. Quindi, il credito risarcitorio nasce con la lesione e si deve dare un risarcimento
a quel soggetto, perché quel soggetto ha incamerato il risarcimento.
Avendo i giudici escluso, sulla base di ragionamenti a volte sterili, parte del riconoscimento del
risarcimento agli eredi, per aver escluso che la vittima abbia incamerato il diritto al risarcimento del
danno (avendo perso la capacità giuridica), gli stesso hanno deciso di ampliare le maglie del
risarcimento con riguardo agli altri congiunti per la lesione del rapporto parentale causato
dall’incidente. Si è detto: “gli stretti congiunti della vittima dell’illecito possono far valere il diritto al
risarcimento per lesione del rapporto parentale iure proprio, come un proprio diritto, e non iure
ereditario”. Anche qui, si è legato il risarcimento ai diritti costituzionalmente tutelati, cosa che ha
lasciato ai giudici ampi margini di discrezionalità su chi risarcire, riscontrando oscillazioni
applicative sulla precisa individuazione dei congiunti che avrebbero diritto al risarcimento come
diretti danneggiati (esempi: convivente no; coniuge separato sì; soggetto nato dopo la morte sì).
Ciò potrebbe indurre a presentare istanze risarcitorie assolutamente lontane dai canoni giuridici
in materia di responsabilità civile: quindi anche i parenti nati a distanza di molto tempo
potrebbero attivarsi per ottenere risarcimento, dicendo di non aver potuto godere del rapporto con
quel determinato parente morto tempo prima, ad esempio a causa di un incidente.
Ciò evidentemente urta con i sentimenti di giustizia e di logica argomentativa. Se i giudici, poi, hanno
mostrato coraggio a superare le categorie, dando addirittura al concepito la possibilità, una volta
nato, di chiedere il risarcimento del danno, dovrebbero capire che le categorie giuridiche (anche
quella della capacità), nascono come diritti, a tutela dell’uomo, e che quindi non possono essere
contro l’uomo stesso utilizzate. Dire che la perdita immediata della vita (danno tanatologico), non si
può risarcire in capo al diretto danneggiato, in quanto costui perde la capacità giuridica, significa
utilizzare la categoria della capacità giuridica contro la tutela del primo tra tutti i diritti che è quello
alla vita (oltre a non tener conto del fatto che la lesione è sempre antecedente alla morte).
Quindi qui si recepisce che, anche ritenendo immediata la perdita della vita, il soggetto, la cui vita è
tutelata dall’ordinamento deve considerarsi capace in senso giuridico, in ordine all’acquisto dei

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 50

diritti risarcitori che si connettono alla privazione della sua vita. In tal modo gli eredi acquistano, per
successione, anche il credito risarcitorio. (Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel 2000, ha
riconosciuto in capo ai parenti della vittima di un evento letale il diritto ad un risarcimento del danno
connesso alla perdita della vita del de cuius, anche in relazione a morte istantanea di quest’ultimo).

Per altro, l’idea che dopo la morte vi siano diritti che sopravvivono al defunto che ne era titolare,
non è affatto estranea anche dal nostro ordinamento giuridico: si pensi ai diritti d’autore. Non si può
ammettere che le categorie della soggettività e della capacità giuridica siano in grado di costituire
ostacoli insormontabili all’attribuzione dei diritti risarcitori, nel caso di eventi letali, in capo alla
vittima (in senso assoluto, il soggetto fondamentalmente e definitivamente danneggiato).
Dopo attente riflessioni e analisi dottrinali, i giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno scelto
finalmente di seguire la strada argomentativa qui prospettata. La Cassazione, 23 gennaio 2014
n.1361 - con una sentenza che va contro i suoi precedenti - ha statuito che per la perdita della vita
(primo fra tutti i diritti) deve essere necessariamente prescritto un risarcimento del danno che
vede come titolare il diretto danneggiato (cioè colui che perde la vita). Costui incamera quindi il
credito risarcitorio, che si trasmette agli eredi.

Il trattamento dei dati personali


Analizzeremo quali sono le regole previste per tutelare l'interesse del soggetto a che non vadano
divulgati in maniera ultronea e contraria al suo interesse i propri dati personali.
Per andare direttamente al nocciolo delle prescrizioni normative, possiamo notare che i dati
personali possono essere trattati solo nella misura in cui vi sia uno stretto rapporto di funzionalità
rispetto al fine perseguito.
Questo vale per tutti i tipi di dati personali da trattare, non solo in ambito sanitario; è necessario
che sia bene evidente e comunicato con trasparenza lo scopo del trattamento dei dati e in relazione a
questo scopo, i dati non possono essere trattati per scopi diversi e possono essere trattati solo
per il tempo necessario allo scopo specifico (si pensi ad esempio alla deontologia giornalistica).
La legge sul trattamento dei dati personali è stata necessaria: era prescritta dall'UE e nel 1996 è stato
emanato un codice, che poi è confluito all'interno di un testo unico, il d.lgs. n. 196 30/06/2003,
denominato codice in materia di protezione dei dati personali, detto codice della privacy.
All'interno di questa normativa è stato necessario positivizzare delle regole che potrebbero
considerarsi già di diritto naturale: si possono trattare dati personali altrui solo se c'è uno scopo
che interessa il soggetto i cui dati sono trattati e non per ragioni che riguardano interessi altrui o
diversi dall'interesse che lo stesso soggetto intende perseguire, oppure deve esserci una rilevanza
pubblica tale che se ne giustifichi l'utilizzo. Anche prima del 1996, comunque, si cercava di
ricostruire per analogia delle norme del codice civile una tutela della riservatezza, più in un’ottica di
tutela della proprietà, che è stata poi superata.

Le prescrizioni sul trattamento nel dlgs 196 sono molto esplicite: “i dati personali oggetto di
trattamento devono essere trattati in modo lecito e secondo correttezza”. Il canone della correttezza
è una clausola generale che concede un certo margine di discrezionalità al giudice che si trova ad
applicare una norma che faccia riferimento alla correttezza. Tendenzialmente la correttezza è
considerata come quell'obbligo di perseguire l'interesse altrui nei limiti di un apprezzabile sacrificio
del proprio interesse. Nel caso del trattamento dei dati personali, si può dire che tali dati devono
essere trattati in maniera tale da perseguire l'interesse del soggetto (i cui dati sono trattati), nei
limiti in cui ciò sia compatibile con un’apprezzabile limitazione di quelle che sono le prerogative o
di altri soggetti, o nei limiti in cui siano legate a interessi pubblici.
Ancora, questi dati devono essere “raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, e
utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini compatibili con tali scopi.”
C'è, così, uno stretto legame tra il trattamento dei dati personali e gli scopi da raggiungere.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 51

Sempre secondo il dettato normativo, i dati personali devono essere:


1. esatti - e se necessario aggiornati, (dati personali non veritieri non possono essere trattati, si
tratterebbe di illecito trattamento dei dati personali);
2. pertinenti;
3. completi;
4. non devono eccedere lo scopo perseguito per il quale sono stati raccolti, registrati o trattati;
5. conservati in una forma che consenta l'identificazione dell'interessato, solo per un periodo
di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o,
successivamente trattati. Si parla a riguardo di c.d. diritto all'oblio del soggetto, il quale ha diritto
che i suoi dati siano trattati unicamente per un determinato periodo, nel momento in cui è attuale
l'interesse al trattamento. Quando tale interesse non è più attuale, il trattamento non può proseguire
legittimamente.
Tutti questi principi si legano anche al principio della temporalità e dell'attualità del trattamento,
che può avvenire per il tempo strettamente necessario allo scopo.
Tornando a quanto disposto dalla legge, l'interessato deve avere una c.d. informativa, deve, cioè,
essere “previamente informato circa le finalità e le modalità di trattamento, la natura obbligatoria o
facoltativa del conferimento dei dati, le conseguenze di un eventuale rifiuto di rispondere, i soggetti ai
quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di
responsabili o incaricati e l'ambito di diffusione dei dati, i diritti dell’interessato e gli estremi
identificativi del titolare e del responsabile del trattamento.”

Quali sono i diritti dell'interessato di cui lo stesso deve essere informato previamente?
• Diritto di ottenere l'indicazione dell'origine dei dati personali: chi li fornisce, ad esempio,
se non fosse stato lui a fornirli direttamente. Ciò perché, soprattutto in ambito sanitario, si
compiono errori enormi per cui, in alcuni casi, in cui dati personali non dovrebbero circolare,
circolano ugualmente. (Esempio del soggetto che è impossibilitato per ragioni di infermità a
dare consenso per i dati personali e viene chiamato il primo parente, che può anche non essere
autorizzato dal soggetto a conoscere della situazione o addirittura a decidere del trattamento
sanitario. Ciò è superabile solo nel caso di stato di necessità, dove può anche decidere il medico);
• Diritto di conoscere le finalità e modalità del trattamento e la logica applicata in caso di
utilizzo di strumenti elettronici, perché proprio le moderne tecnologie di comunicazione
hanno comportato la pericolosità delle banche dati. E’ all'interno di questi archivi, infatti, che
disperdere i dati e farli arrivare ovunque è semplicissimo.
• Diritto di ottenere l’indicazione degli estremi identificativi del titolare e del responsabile
del trattamento e quelli dei soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati;
• Diritto che i dati vengano trattati in maniera pertinente rispetto allo scopo indicato: per
qualsiasi evenienza, l'interessato può intervenire per ottenere l'aggiornamento, la
rettificazione, ovvero quando vi ha interesse l'integrazione di dati.
• Il diritto, infine, alla cancellazione o la trasformazione in forma anonima o il blocco dei
dati che sono trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la
conservazione in relazione gli scopi. Si fa notare che nella violazione di legge sono
compresi i dati di cui non è necessaria la conservazione.

Con riguardo ai soggetti pubblici - si pensi alle strutture sanitarie - i dati personali devono essere
trattati solamente per lo svolgimento delle funzioni istituzionali, che coprono di rilevanza
pubblica l'interesse al trattamento.
In merito ai dati sensibili, tra cui in primo luogo i dati relativi alla salute nei casi di trattamenti
sanitari, sono tali quei dati personali idonei a rivelare determinate informazioni importanti e
personalissime, che specificamente sono:

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 52

1. i dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica. Si spera che questa parte della
norma cada in desuetudine, visto che nessuno può essere discriminato per queste ragioni e
non si comprende quale sia la ragione per cui un soggetto debba avere questo dato sensibile,
anche per prescrizione normativa;
2. le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere;
3. le opinioni politiche;
4. l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso,
filosofico, politico o sindacale;
5. i dati personali idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale: in questa sede si
intende recepire che i veri dati sensibili siano questi, specie quelli relativi allo stato di salute.
Essi sono quelli che veramente riguardano in maniera strettissima la condizione della vita del
soggetto, che deve essere nella stretta padronanza di quel soggetto: una condizione che
riguarda la salute è una condizione che riguarda il primo dei diritti, la vita.

I dati relativi ai trattamenti sanitari devono restare nella stretta padronanza del soggetto e il
trattamento, quando necessario, deve osservare determinate cautele, che la legge prevede per i dati
che chiama sensibili. Ciò per evitare qualsiasi tipo di ingerenza, di disturbo, di fastidio, di
divulgazione, di trattamento ulteriore rispetto a ciò che l'ordinamento stesso prevede. Salvo che non
intervengano interessi primari: ad esempio si deve salvare la vita del soggetto e questo non può
dare il consenso (stato di urgenza e necessità), oppure è lo stesso soggetto che dà il consenso al
trattamento dei propri dati ma per finalità specifiche di trattamento che devono avvenire con
modalità particolari, ancor più soggette a cautela.
Il trattamento di dati sensibili da parte di soggetti pubblici è consentito solo se autorizzato da
espressa disposizione di legge, nella quale sono specificati i tipi di dati che possono essere trattati,
le operazioni eseguibili e le finalità di rilevante interesse pubblico perseguite.
Con riguardo al trattamento sanitario, lo stesso codice in materia di protezione dei dati personali
indica la finalità in ambito sanitario e quindi la inserisce nelle disposizioni di legge, come
autorizzativa del trattamento dei dati sensibili.
Le finalità di interesse pubblico riguardano il settore dell'interesse che politicamente è
considerato generalizzato tra i soggetti (ad esempio l'interesse pubblico all'igiene, alla sicurezza
pubblica, i quali possono portare anche a trattamenti sanitari obbligatori; oppure interessi pubblici
riguardanti l'ambito scolastico, statistico, storico):
• Il trattamento può comprendere la diffusione dei dati solamente nei casi in cui ciò è
indispensabile per garantire la trasparenza delle attività in conformità alle leggi e per
finalità di vigilanza e di controllo sono conseguenti alle attività, fermo restando il divieto di
diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute. Quindi, anche quando c'è una finalità di
interesse pubblico il trattamento può essere effettuato per garantire la trasparenza delle
attività imperniate dell'interesse pubblico, permanendo sempre forte il divieto di diffusione
dei dati idonei a rivelare lo stato di salute;
• I soggetti pubblici devono conformare il trattamento dei dati sensibili e giudiziari secondo
modalità volte a prevenire le violazioni dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità
dell'interessato. Ciò perché tutti i dati sensibili sono strettamente legati alle libertà
fondamentali e alla dignità dell'individuo, soprattutto quelli legati alla salute;
• I soggetti pubblici possono trattare solamente dati sensibili e giudiziari indispensabili per
svolgere le attività istituzionali (la funzionalizzazione allo scopo c'è sempre, sia per soggetti
pubblici che per soggetti privati). Finalità che non possono essere adempiute caso per caso
mediante il trattamento di dati anonimi o dei dati personali di natura diversa. Quando si può,
si deve trattare il dato in forma anonima e preferendo sempre, ai dati sensibili, quelli di
natura diversa.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 53

Diritti di chi è sottoposto al trattamento dei dati personali


In relazione al trattamento dei dati personali effettuato da soggetti pubblici va ricordato che è
previsto l'obbligo di verifica periodica relativa alla esattezza e l'aggiornamento degli stessi dati
sensibili e giudiziari, nonché la loro pertinenza allo scopo istituzionale per il quale sono trattati.
I soggetti pubblici valutano specificamente il rapporto tra i dati e gli adempimenti, al fine di
assicurare che i dati sensibili e giudiziari siano indispensabili rispetto agli obblighi e compiti loro
attribuiti. Ci dev'essere un ufficio che si dedica a questi dati e deve essere valutata specificamente la
relazione tra gli adempimenti da compiere e i dati a disposizione. I dati che, a seguito di queste
verifiche, risultino eccedenti, non pertinenti o non indispensabili, non possono essere utilizzati.
Ciò significa che la loro conservazione e utilizzazione è illecita, salvo che per l'eventuale
conservazione a norma di legge dell'atto o del documento che li contiene.

I dati sensibili e giudiziari contenuti in elenchi, registri o banche dati, tenuti con l'ausilio di strumenti
elettronici, devono essere trattati con tecniche di cifratura o mediante l'utilizzazione di codici
identificativi o di altre soluzioni che, considerato il numero e la natura dei dati trattati, li rendono
temporaneamente non intelligibili anche a chi è autorizzato ad accedervi e permettono di identificare
gli interessati solo in caso di necessità. Tali soggetti, pertanto, benché autorizzati all'accesso in caso
di necessità, non potranno arrivare direttamente all’intero dato, ma arriveranno a una cifra
corrispondente al sistema di cifratura. L'identificazione dell'interessato deve quindi avvenire
solamente in caso di necessità.
I dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale devono essere conservati
separatamente da altri dati personali trattati per finalità che non richiedono il loro utilizzo. Quindi
c'è un trattamento separato che riguarda dati personali e dati di salute. Se, ad esempio,
nell'amministrazione di una determinata struttura sanitaria serve mandare una determinata
comunicazione a un determinato soggetto, di cui deve essere reperito, ad esempio, l'indirizzo e-mail o di
casa, questo dato non deve essere trattato insieme col dato relativo la salute. L’incaricato che dovrà
occuparsi delle spedizioni, dell'invio di moduli o dell'invio di informazioni all'indirizzo, non deve, solo
perché ha bisogno di conoscere l'indirizzo del soggetto, conoscere anche il suo stato di salute.
I dati relativi allo stato di salute e alla vita sessuale, inoltre, sono trattati con le modalità di cui sopra
(tecniche che rendono i dati inintelligibili), anche quando sono tenuti in elenchi, registri o
banche dati senza l'ausilio di strumenti elettronici. Quindi le tecniche di cifratura o l'utilizzazione
di codici identificativi o di altre soluzioni di criptazione devono predisporsi quando si tratta di dati
idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, anche se non trattati con modalità elettroniche.

La legge specifica che i dati idonei a rivelare lo stato di salute non possono essere diffusi. Su
questo si sono incardinati tantissimi procedimenti giudiziari presso i tribunali, perché in alcuni casi
sono stati diffusi in maniera semplicistica dati idonei a rivelare lo stato di salute, non solo dalle
amministrazioni sanitarie, ma a volte anche da altre (ad esempio a certificati che sono mandati dalle
Asl alla scuola presso cui lavora un docente, un errore di diffusione, una comunicazione fatta in assenza
di consenso dell'interessato su determinati dati per i quali era necessario proprio consenso).
Con riguardo ai dati sensibili, vi è una norma che prevede l'autorizzazione del Garante al
trattamento dei dati sensibili anche senza il consenso dell'interessato: quando ciò è necessario per
adempiere a specifici obblighi o compiti previsti dalla legge, da un regolamento, o dalla normativa
comunitaria per la gestione del rapporto di lavoro, ma anche in materia di igiene e sicurezza del
lavoro e della popolazione e di previdenza e assistenza, nei limiti previsti dalla autorizzazione.

Con riguardo al trattamento dei dati personali, è prevista una norma fortissima in materia di
responsabilità: “Chiunque cagiona danno ad altri, per effetto del trattamento di dati personali, è
tenuto al risarcimento anche del danno non patrimoniale, ai sensi dell'art.2050 cc.”.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 54

Si vanno, allora, a riprendere le nozioni della responsabilità civile e si analizza la norma di cui sopra:
il danno, ovviamente deve essere cagionato per effetto del trattamento illecito di dati personali,
perché questa è una norma di responsabilità civile che si incardina quindi all'interno della
responsabilità, che non può essere sempre inquadrata in un fatto illecito di natura extracontrattuale.
Difatti, nel caso di trattamento dei dati personali, ad esempio a seguito di un intervento medico, ci
troviamo nell'ambito di una responsabilità ormai considerata di tipo contrattuale, nascendo tra
medico e paziente delle obbligazioni e instaurandosi tra struttura sanitaria paziente un rapporto per
cui vi sono degli obblighi assimilabili a quelli di un contratto. Tuttavia le norme cui si è inteso fare
riferimento in questo caso si trovano nella parte del codice civile dedicata alla disciplina della
responsabilità extracontrattuale (che non nasce per l'inadempimento di una determinata
obbligazione, ma tra soggetti che non sono in contatto tra loro).
Del resto, il trattamento illecito dei dati personali può avvenire anche tra soggetti che non sono in
contatto, comportando anche un fatto illecito che non sia da inadempimento dell'obbligazione
(in tutti i casi in cui un soggetto tratta i dati sensibili di un altro, senza esservi tenuto).
Ecco perché il legislatore ha citato l’art. 2050 appartenente alla responsabilità
extracontrattuale; implicitamente, inoltre, ne ha citato un altro quando parla di risarcimento anche
del danno non patrimoniale. Il soggetto leso nell'ambito del trattamento dei dati sensibili può difatti
subire due tipi di danno: il primo è il danno economico, ad esempio Tizio non viene assunto da
un’azienda per la rivelazione della propria vita sessuale. Il secondo tipo di danno, a volte l'unico
danno che si subisce, è il danno non patrimoniale: nel caso di prima, ammettiamo che non ne
consegua la perdita di un’assunzione o che non vi sia correlazione tra lavoro e divulgazione dei
propri dati personali. Tizio però, subisce uno shock, che non ha bisogno di essere certificato. In
questi casi si tratta di un danno non valutabile economicamente. È chiaro che poi il giudice lo liquida
stabilendo la corresponsione di una somma di denaro, ma lo fa a titolo di risarcimento di un qualcosa
subita “in più” rispetto alla mera sfera patrimoniale. Si tratta di una gratificazione a fronte di un
pregiudizio di carattere non patrimoniale.

La norma a cui si fa riferimento quando si parla di danni non patrimoniali è l’art. 2059 c.c., che
nonostante l'evoluzione giurisprudenziale ne abbia estesa l'applicazione a tutti i casi in cui si tratti di
interessi fondamentali della persona, dice che il danno non patrimoniale nel nostro ordinamento è
risarcibile solo nei casi espressamente previsti per legge. Proprio perché era necessaria una
previsione di legge per risarcire quest'ulteriore voce di danno, il legislatore della legge sul
trattamento dei dati personali (del 1996 e anche quello del codice in materia di protezione dei dati
personali del 2003) ha previsto esplicitamente il risarcimento anche del danno non patrimoniale
richiamando all’art. 2050 c.c.: l'articolo concernente l'esercizio di attività pericolose.
Il trattamento dei dati personali è parificato a un’attività pericolosa: per il legislatore fabbricare
esplosivi e trattare dati personali sensibili sono comportamenti identici in termini di pericolosità.
Questo perché la sfera personale riguardante i dati intimi della persona non deve essere aggredita
dagli altri e il trattamento che altri ne faccia deve avvenire con tutte le cautele del caso, proprio come
deve avvenire la gestione di una fabbrica di esplosivi.
La norma in questione (art. 2050 c.c.) prevede che quando viene esercitata un'attività pericolosa,
non si applica la disciplina generale in materia di illecito civile (e quindi il danneggiato deve provare
davanti di aver ricevuto un determinato danno e la colpa del danneggiante), ma si applica
un’inversione dell'onere probatorio (è sufficiente che il danneggiato alleghi di aver subito un
danno riconducibile a quell’attività pericolosa). La colpa viene dal giudice presunta, perché al
danneggiante è posta in capo una responsabilità aggravata, e dovrà essere il danneggiante a poter
esonerarsi da responsabilità, provando di aver messo in atto tutte le misure idonee ad evitare il
danno (cosa che raramente il danneggiante riesce a fare, in base a quanto si trae dalla
giurisprudenza).

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 55

Le tutele attivabili dinnanzi al trattamento dei dati personali


Si tratterà dei rimedi in caso di trattamento dei dati personali in violazione della normativa, e
quindi della possibilità di rivolgersi al Garante per la tutela dei dati personali.
Il Garante è un’autorità indipendente - istituita dalla normativa in materia di protezione dei dati
personali - che ha la possibilità di effettuare controlli, irrogare sanzioni, dettare regole per il
trattamento di dati personali, così da garantire la protezione prevista dal legislatore.
L’interessato può rivolgersi al Garante quando sospetta che possa esservi una violazione in relazione
a un determinato trattamento. Sono previsti tre metodi di presentazione di istanza al Garante,
ovviamente nulla togliendo alla magistratura ordinaria, che può ovviamente intervenire anche sui
provvedimenti dello stesso garante.

I modi in cui l'interessato può rivolgersi al Garante sono i seguenti:


1. Reclamo circostanziato, cioè con l'indicazione dei fatti: si tratta del metodo più utilizzato, in
cui si indicano i fatti sui quali si fondano le pretese di violazione materia di trattamento dei
propri dati personali e l'indicazione delle norme che si assumono violate. Nel reclamo devono
essere indicate, inoltre, quali siano le misure richieste dal soggetto che lo propone. Non c'è
formalità nella presentazione del reclamo, volendo la legge garantire a tutti l'accesso al
Garante senza particolari formalità. Nel reclamo deve essere indicato il soggetto titolare del
trattamento, il responsabile indicato per legge e l’atto deve essere sottoscritto dall'interessato
o dall'associazione che lo rappresenta. Il reclamo deve contenere anche la documentazione
utile ai fini della valutazione da parte del garante (e un’eventuale procura, se viene conferita
la rappresentanza), nonché un recapito per le comunicazioni ) anche posta elettronica, telefax
o telefono);
2. Segnalazione per sollecitare un controllo da parte del garante. Nel caso del reclamo
circostanziato, l'interessato è a conoscenza dei fatti concreti, in altri casi può avere solo un
sospetto, e la misura della segnalazione per sollecitare un controllo è prevista apposta;
3. Ricorso per conseguire un'immediata inibitoria, e cioè la cessazione del trattamento
illecito. In alcuni casi è il rimedio più efficace nonché il più importante, perché il protrarsi
della violazione, quando si tratta di violazione dei dati personali, implica a volte un
esasperarsi del pregiudizio anche in maniera progressiva, che può diventare insopportabile
per il soggetto che subisce la lesione.

Il garante ha poteri istruttori, di controllo, di verifica, preventivi e successivi. Tale potere si articola in
varie fasi in base alla gravità della violazione e al suo ripetersi:
1. In caso, ad esempio, di comportamento recidivo del soggetto, che viola norme in materia di
trattamento dei dati personali, il garante può, anche prima della definizione del procedimento,
invitare il titolare del trattamento a effettuare il blocco spontaneamente, anche in
contraddittorio con l'interessato. Questa misura si inserisce nel quadro delle più moderne
misure volte a evitare delle sentenze perentorie contro un soggetto, in altri termini volte a far
sì che il soggetto si ravveda da sé.
2. Il garante può, inoltre, prescrivere al titolare determinate misure opportune o necessarie
per rendere il trattamento conforme alle disposizioni vigenti.
3. Qualora il titolare non dovesse adottare le misure suggerite, il Garante potrà disporre il
blocco del trattamento o vietare, in tutto o in parte, il trattamento che risulta illecito o non
cretto. Il Garante può vietare il trattamento anche quando vi è il concreto rischio del
verificarsi di un pregiudizio rilevante per uno o più interessati, in considerazione della natura
dei dati o delle modalità del trattamento o degli effetti che esso può determinare. Si ricorda, a
questo proposito, come nella norma sanzionatoria che prescrive il risarcimento dei danni a
carico del soggetto che tratta i dati personali in violazione della normativa si effettui il rinvio
all’art. 2050 c.c. che riguarda le attività pericolose.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 56

4. Il garante può vietare il trattamento di dati relativi a singoli soggetti o a categorie di


soggetti, in tutto o in parte, quando ciò si pone in contrasto con rilevanti interessi della
collettività.

In ambito sanitario sono previste delle norme specifiche. La normativa del codice in materia di
protezione dei dati personali deve “illuminare” tutto il resto e che quindi, avendo carattere
sovraordinato nella gerarchia delle fonti, va considerata più importante e prevalente in caso di
contrasto (ad esempio, nel caso di codici deontologici).
Sappiamo che, in relazione all'ambito sanitario, i dati personali che vengono in questione sono
particolarmente delicati ed importanti secondo il codice, perché parliamo di quei cosiddetti dati
sensibili che sono circondati da particolari cautele quando si tratta del loro trattamento. È infatti
intuitivo che in ambito sanitario vengono trattati primariamente i dati concernenti la salute del
soggetto.
Questi dati possono essere trattati in vario modo: la legge dice che essi, da parte dagli esercenti le
professioni sanitarie degli organismi sanitari pubblici, sono trattati con il consenso dell'interessato e
anche senza l'autorizzazione del Garante, quando si tratta di dati e operazioni che sono
indispensabili per perseguire una finalità di tutela della salute o dell'incolumità fisica
dell'interessato. Il c.d. consenso dell'interessato nel nostro ordinamento è strettamente legato
all'informativa: si parla infatti di consenso informato (in realtà è più opportuno dire che il soggetto
viene informato e non il consenso, e che a seguito dell'informazione del soggetto costui diventa
consapevole quindi, è forse più opportuno parlare di consenso consapevole).
La legge prescrive il consenso del diretto interessato quando si tratta di operazioni indispensabili per
una finalità di diretta tutela della salute o dell'incolumità fisica. Del resto, l'art. 32 Costituzione è
chiaro in tal senso: nel riconoscere il diritto la salute prescrive che nessuno può essere sottoposto al
trattamento sanitario senza il proprio consenso, a meno che non vi siano delle leggi particolari che
prevedono un trattamento sanitario obbligatorio. Il consenso deve essere dato a seguito di corretta,
regolare e lecita informativa.
Gli esercenti delle professioni sanitarie e di organismi sanitari pubblici possono anche trattare i dati
idonei a rivelare lo stato di salute anche senza il consenso dell'interessato, previa autorizzazione del
Garante, se si tratta meramente di attività amministrative correlate a quelle di prevenzione, diagnosi,
cura e riabilitazione, che riguarda un terzo o la collettività.
Con riguardo ai dati sanitari, sono previste anche delle modalità semplificate per l'informativa e il
consenso: la legge prevede, per esempio, che il medico di medicina generale o il pediatra di libera
scelta debbano informare l'interessato relativamente al trattamento dei dati personali e lo debbano
fare in forma chiara. Non si deve trattare, attenzione, di una semplice e generica chiarezza ma ci si
deve anche rapportare al soggetto dei cui dati si tratta: la legge, infatti, dice che l'informativa deve
essere data in forma tale da rendere agevolmente comprensibili gli elementi su cui si attua il
trattamento; il livello di comprensibilità deve essere quello ordinario secondo il senso comune.
L'informativa può essere fornita anche per il complessivo trattamento dei dati personali che è
necessario per le attività di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, svolte dal medico o dal
pediatra a tutela della salute o dell'incolumità fisica dell'interessato, su richiesta dello stesso o di cui
questo è informato in quanto si tratta di attività effettuata nel suo interesse (cioè è fornita “una volta
per tutte” per il totale dei trattamenti).
Gli organismi sanitari, pubblici e privati, si possono avvalere di tali modalità di unico consenso
quando devono essere effettuate una pluralità di prestazioni, anche se sono erogate anche da distinti
reparti e distinte unità dello stesso organismo o di più strutture ospedaliere e territoriali.
L'informativa deve essere fornita preferibilmente per iscritto, anche attraverso delle carte tascabili,
con eventuali allegati pieghevoli, includendo almeno gli elementi indicati dal Garante, eventualmente
integrandoli anche in forma orale per particolari caratteristiche del trattamento.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 57

L'informativa, se non è diversamente specificato dal medico o dal pediatra, riguarda anche il
trattamento dei dati correlato a quello effettuato dal medico di medicina generale o dal pediatra di
scelta libera, effettuato da un professionista o da un altro soggetto, parimenti individuabile, in base
alla prestazione richiesta che:
• potrebbe sostituire temporaneamente il medico o il pediatra;
• fornisce una prestazione specialistica su richiesta dei due soggetti di cui sopra;
• può trattare lecitamente i dati nell'ambito di un'attività professionale prestata in forma
associata;
• fornisce farmaci prescritti;
• comunica dati personali al medico o pediatra in conformità alla disciplina applicabile.

Esistono dei rischi particolari legati all'eventuale utilizzo delle moderne tecnologie informatiche e,
proprio per questa ragione, è prescritto che l'informativa deve evidenziare analiticamente
eventuali trattamenti di dati personali che presentano rischi specifici per i diritti e le libertà
fondamentali, nonché per la dignità dell’interessato. Ciò deve avvenire in caso di trattamenti
effettuati:
• per scopi scientifici, anche di ricerca scientifica e di sperimentazione clinica controllata di
medicinali, in conformità a leggi e regolamenti ponendo in particolare evidenza che, il
consenso, ove richiesto, è manifestato liberamente;
• nell’ambito della teleassistenza o della telemedicina;
• per fornire altri beni o servizi all'interessato attraverso una rete di comunicazione
elettronica.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 58

3. Il fatto illecito
3.1 > Il fatto illecito

Per capire cos'è il fatto illecito e comprendere la sua disciplina, possiamo dire anzitutto che il fatto
illecito è uno di quei fatti che dà origine a un'obbligazione quindi è fonte di obbligazione. Al primo
articolo del libro delle obbligazioni art.1173, il codice ci dice che tra le fonti delle obbligazioni, oltre
al contratto, vi è anche il fatto illecito oppure ogni altro atto conforme a produrre obbligazioni in
conformità dell'ordinamento giuridico.
In particolare il fatto illecito è fonte di obbligazione risarcitoria, che tendenzialmente avviene con il
pagamento di una somma di denaro, ma può anche avvenire in forma specifica, con la ricostituzione
effettiva del bene lesionato seguito del fatto illecito.
Quando si parla di fatto illecito si parla di un tipo di responsabilità civile: la responsabilità
extracontrattuale. Va ricordato che nel nostro ordinamento c'è una distinzione tra la responsabilità
contrattuale ed extracontrattuale, non perché il termine sia appropriato, perché in fondo non si
stratta di una responsabilità che fuori o dentro il contratto. Si utilizza il termine di responsabilità
contrattuale come quella che nasce con l'inadempimento di un'obbligazione; se non c'è
un'obbligazione precedente e nasce una responsabilità, questa è chiamata extracontrattuale.
Per quanto riguarda la prima, sarebbe più corretto utilizzare la locuzione responsabilità da
inadempimento delle obbligazioni, ex. artt. 1218 ss. del codice civile.
La seconda è una responsabilità da fatto illecito, quindi da fatto diverso dall'inadempimento di
un'obbligazione e trova la sua disciplina negli artt. 2043 ss. del codice civile.

Il fatto illecito è descritto dall'art. 2043 c.c., norma continuamente oggetto di interpretazione da
parte della nostra giurisprudenza, e la cui evoluzione interpretativa rappresenta quasi un unicum.
L’art. 2043 dice che “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga
colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Parliamo quindi di un fatto che cagiona un danno e dal quale scaturisce una obbligazione, quella di
risarcire il danno. La responsabilità nasce dall'illecito, cioè della creazione di questo danno, e perciò
si parla di responsabilità extracontrattuale.
La lettera dell’articolo ci fa comprendere come questo illecito sia composto di vari elementi.

Il nostro ordinamento ha scelto per il fatto illecito un elemento che ci fa comprendere come l'illecito
sia un illecito di danno. Non basta una condotta che va contro qualche norma: perché si abbia
responsabilità extracontrattuale deve esserci un danno.

Il fatto che debba esserci un danno fa comprendere come siano da respingere alcune tesi dottrinali
che vogliono far sorgere la responsabilità anche nel caso di mero pericolo di danno e che vogliono
dare ingresso a un'indiscriminata utilizzazione dell'azione inibitoria per la cessazione di un
pericolo di danno. Ad esempio c’è qualcosa può arrecare pericolo all'incolumità di un soggetto o quella
dei suoi beni, il soggetto in pericolo pur non avendo subito danni può fare un'azione inibitoria.
Qui si recepisce che tale azione inibitoria non potrà mai essere legata al fatto illecito. Vi sono dei casi
in cui l'ordinamento prevede la possibilità di esercitare delle azioni solamente quando si teme un
pericolo (ad esempio l’art.1172 c.c. sulla denunzia di danno temuto: “Il possessore che ha ragione di
temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti pericolo di un danno grave prossimo a una
cosa che forma oggetto del suo diritto, può denunciare il fatto all'autorità giudiziaria e ottenere,
secondo le circostanze, che si provveda per ovviare il pericolo. L'autorità giudiziaria, qualora ne sia il
caso dispone idonea garanzia per i danni eventuali”. Questa però è una norma di legge a parte, l'art.
1172 non è applicabile all'art. 2043).

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 59

Se vi sono delle norme che permettono un'azione nel caso di mero pericolo, esse saranno attivabili,
ma non si potrà dire - come vuole invece una certa dottrina - che dall’art. 2043 derivi il permesso in
maniera indiscriminata di fermare ogni pericolo in generale di danno, perché l’illecito, nel nostro
ordinamento, deve essere di danno e non di pericolo o di mera condotta. Le fattispecie che
permettono un’azione in caso di pericolo hanno una disciplina specifica, che deve essere
specificamente richiamata per attivarla e se vi sono gli specifici presupposti previsti dalla legge.
In via generale, per esempio, la nostra procedura civile, all’art. 700, prevede dei provvedimenti
d'urgenza quando vi sono dei pericoli, ma anche questa è una norma specifica che deve essere
utilizzata quando ricorrono gli specifici presupposti che la stessa indica: “chi ha fondato motivo di
temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo
sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, puo' chiedere con ricorso al giudice
i provvedimenti d'urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, piu' idonei ad
assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito.” Devono, quindi, esserci i requisiti di
fumus bonis iuris e periculum in mora: il giudice deve vedere che c'è una parvenza di ragione in capo
a questo soggetto e che ci sia il pericolo di un pregiudizio imminente e irreparabile, tale da non
permettere di attendere i tempi di un giudizio ordinario, decide di dare un provvedimento d'urgenza.
I presupposti sono quelli descritti e non potranno essere sicuramente ritrovati nell’art. 2043.

L’art. 2043 contempla gli elementi del fatto illecito:


1. “un fatto (doloso o colposo)”, deve esserci un fatto che deve essere un fatto umano: i fatti
umani volontari sono chiamati atti giuridici. Quando si parla di fatto illecito, sicuramente ci
riferiamo a fatti umani, perché la norma parla dell'autore del danno. Quindi anche se si parla
di fatto illecito, qualche volta si potrà trovare in dottrina e giurisprudenza la dicitura “atto
illecito”, proprio perché proprio trattandosi di fatti posti in essere dall'individuo sono
chiamati atti. Considerando che quando si parla di fatto illecito, si parla di dolo e di colpa, da
riferirsi all'azione di un soggetto, e si parla di un autore del fatto, i fatti rilevanti sono tutti fatti
umani, che vengono posti in essere necessariamente con una situazione soggettiva che li
accompagna. Questo legame alla volontà dell'uomo fa sì che spesso piuttosto che parlare di
fatto illecito si parli di atto, proprio perché la categoria degli atti giuridici è caratterizzata
dalla presenza della volontà umana. Per tali motivi si potrà indistintamente parlare di atto
illecito o fatto illecito;
2. Il dolo, che consiste nell’intenzionalità (non va confuso col dolo contrattuale che è un vizio del
consenso, in questo caso la legge parla di dolo ma si tratta di di un raggiro). Il dolo è, nel fatto
illecito, l'intenzione di compiere quel comportamento per realizzare il danno ingiusto. Il dolo
ha vari gradi: il dolo diretto, come intenzione netta e precisa di compiere un danno; dolo
eventuale, come accettazione del rischio che si possa verificare un danno (ad esempio, un
soggetto apre la finestra e lancia dei mattoni dal quinto piano, senza guardare chi c’è sotto. In
questo caso non si ha dolo diretto ma eventuale, perché non c'è l'intenzione di colpire una
persona un oggetto ma si accetta il rischio che ciò avvenga. Il comportamento è considerato
doloso, ma si tratta di un dolo meno grave rispetto a quello diretto). Il grado di dolo in capo a
un soggetto è rilevante perché il giudice può prenderne atto, in caso di azione di
responsabilità, per quantificare e modellare il risarcimento in maniera specifica su quel tipo di
comportamento. Si ha quindi la possibilità, in capo al giudice civile come al penale, di dare una
gradazione alla pena: tra condotta dolosa e condotta colposa è senz'altro più grave la prima
condotta, e il giudice dovrà sanzionare con un risarcimento più elevato il soggetto che ha
commesso il fatto con dolo. C'è una norma al riguardo, l’art. 2056 cc., che è proprio dettata in
tema di quantificazione del danno risarcibile. Si tratta di una norma che, nel primo comma,
fa rinvio alle norme sulla responsabilità contrattuale, e che, nel secondo comma, stabilisce
che il lucro cessante è valutato dal giudice con equo accertamento delle circostanze del
caso. Tale equo accertamento è stato interpretato nel senso che, se il comportamento della

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 60

persona che deve rispondere è un comportamento connotato da un alto grado di disvalore, il


lucro cessante deve essere risarcito nella sua interezza. Allo stesso tempo, un minimo di
discrezionalità permette al giudice di disporre un risarcimento meno severo, nei casi di dolo
eventuale o di colpa. (ad esempio, primo caso: Tizio distrugge l’auto d’epoca di Caio, con un
martello, di notte, aprendo il garage > dolo diretto. Secondo caso: Tizio getta qualcosa dalla
finestra e colpisce l’auto di Caio > dolo eventuale. Terzo caso: Tizio, camminando per strada
distrattamente, viene investito da Caio e l’auto viene distrutta > colpa. Tre casi diversi che
permettono al giudice di disporre diversamente in merito al lucro cessante. Nel primo caso, Caio
potrebbe eccepire di avere un acquirente, con contratto preliminare firmato, pronto a pagarla
profumatamente: il giudice può disporre, visto il dolo diretto, la condanna al risarcimento anche
del prezzo pattuito nel contratto preliminare. Nel secondo caso, il giudice può fare risarcire
parte del prezzo pattuito per la vendita, considerando il dolo eventuale. Nel terzo caso,
trattandosi di colpa, sarà difficile ottenere un risarcimento superiore al reale prezzo di mercato
della vettura, al massimo maggiorato.) La condotta del danneggiante è rilevante anche quando
si tratta di applicare l’art. 185 del codice penale, un'altra norma, in fondo, di responsabilità
civile. “Nel caso in cui vi sia un reato il soggetto che è responsabile di quel reato, deve risarcire
alla persona offesa i danni patrimoniali e non patrimoniali”. Si tratta di una norma molto dura,
che permette anche il risarcimento dei danni non patrimoniali proprio perché fa riferimento
a un caso di reato (potrebbe essere applicata nel primo degli esempi esposti sopra). Allo stato
attuale di separazione dei processi, l'accertamento che vi sia stato un reato può essere fatto
incidenter tantum anche da un giudice civile, il quale non potrà comminare alcun sanzione
penale, ma accertare che vi è stato un reato ai fini del risarcimento ex art. 185 c.p. e disporre
le sanzioni civilistiche;
3. La colpa, che consiste nella divergenza tra lo standard di comportamento che
ordinariamente un soggetto deve avere in una situazione e quello effettivamente tenuto. Più
concretamente si dice che la colpa è una negligenza, una distrazione, oppure un'imperizia
se posta in essere da un soggetto che aveva l'onere di avere una specifica perizia professionale
nel compiere quel determinato atto, un’incuria, una previdenza. Anche la colpa può avere
dei gradi: la colpa grave, una è divergenza piena rispetto allo standard di diligenza a cui ci si
doveva attenere (es. Tizio con il proprio autoveicolo assume una velocità tale da investire un
altro veicolo); colpa lieve, una divergenza minima rispetto allo standard di diligenza atteso
(es. Tizio, pur seguendo tutte le regole del codice della strada, non è attento al fatto che la suola
della propria scarpa precedentemente si era scollata e la suola cade nel momento in cui Tizio
deve frenare e l'inefficacia della frenata che ne consegue genera un incidente); colpa cosciente:
si tratta di una colpa che si avvicina molto al dolo eventuale. C'è una sottile linea di
demarcazione: la colpa cosciente è la previsione della possibilità di creare un danno in
astratto, ma la convinzione di non procurarlo (ad esempio, Tizio si affaccia la finestra con dei
sacchi pesanti e pericolosi, pieni di spazzatura e sotto la sua finestra del quinto piano vede un
cassonetto aperto. Accanto al cassonetto c'è parcheggiata un'auto d'epoca, Tizio, convinto della
sua infallibile mira lancia i sacchi con l'intento di centrare il cassonetto. Se dal lancio di quel
sacco Tizio colpisce la macchina, siamo in presenza di un fatto da colpa cosciente, in quanto non
ha accettato il rischio di colpirla ma è sicuro di non colpirla, quindi c'è una differenza col dolo
nel quale non si guarda cosa c'è sotto la finestra prima di lanciare i mattoni, come nell’esempio
del dolo eventuale.) Si rileva che in alcuni casi pratici è difficilissimo capire se si tratta di colpa
cosciente o dolo eventuale, e ciò rileva soprattutto nel diritto penale. Nel diritto civile, la
differenza sta nella modulazione prevista dall’ art. 2056 comma II, che permette di valutare il
lucro cessante con equo apprezzamento delle circostanze del caso: quanto più si avvicina una
colpa cosciente a un dolo eventuale, tanto più sarà simile il risarcimento che il giudice dovrà
disporre;

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 61

4. Il rapporto tra il fatto e il danno. Si dice che un elemento per la nascita della responsabilità
sarebbe la cosiddetta causalità, il nesso causale. Attualmente non si ritiene più così centrale
tale nesso di causalità come per tanti anni è successo (vedi sopra). Su come si dovrebbe
accertare questo rapporto, e sull’effettiva sussistenza tra comportamento e danno esistono
varie teorie, ma queste altro non fanno che parlare della colpa o del dolo: quindi i criteri di
imputazione della responsabilità e non tanto di causalità. Il riferimento alla causalità si basa
sul fatto che la norma recita “chi cagiona ad altri…”; pertanto, quando dobbiamo intendere che
un soggetto ha cagionato un danno? È certo che, quando le leggi fisiche ci fanno capire che
quel danno è stato cagionato da quel soggetto, nulla quaestio. Il problema sorge quando le
leggi naturali non che aiutano a stabilire se il comportamento del soggetto ha cagionato
effettivamente quel danno. Fatto sta che, come elemento del fatto illecito, in astratto si dice
che è necessario questo nesso di causalità, ma in questa sede va recepito che è importante
capire che quel soggetto abbia cagionato quel danno;
5. Il danno, che è un'entità di carattere economico, prima che giuridico. Si nota che potrebbe
anche non esserci, nonostante vi sia una modificazione della realtà. Ad esempio, c'è una
statua che è stata rinvenuta senza un braccio e Tizio, colposamente, va a sbattere contro la
statua, che perde un altro centimetro. La statua perde quel centimetro di braccio (c’è, quindi,
della modificazione della realtà), e a noi esteriormente sembra che sia avvenuto qualcosa, ma a
livello economico il valore di quella statua è rimasto inalterato. Siamo di fronte certamente a un
comportamento colposo, c'è stato certamente un deterioramento fisico della statua, ma essa non
ha perduto nulla del suo valore economico precedente e non si può definire danneggiata. Il
danno che in questa sede rileva è quello giuridicamente rilevante, che per essere risarcibile
deve essere un danno ingiusto. Secondo l'applicazione ampia che si deve dare all'art. 2043
c.c., si può dire che il danno ingiusto quando è contrario alle regole da applicare alla
società civile. Quindi il danno ingiusto lede degli interessi che sono da tutelare secondo il
nostro ordinamento giuridico. La legge specifica che bisogna risarcire il danno ingiusto perché
esistono anche danni giusti, si pensi in via generale ad un soggetto che effettua
un'espropriazione di un bene di un altro: se quell'altro è un suo debitore che non ha pagato, il
nostro ordinamento ritiene giusto andare con esecuzione su quei beni. Certo è che il debitore
esecutato soffre un danno, perché perde ad esempio l'immobile, ma è un danno che
l'ordinamento prevede come “giusto” per legge. Oppure, ad esempio, trascrizione nei registri
immobiliari due volte dello stesso immobile: è proprietario chi trascrive per primo pur se ha
acquistato dopo. Anche questo è un danno, ma è un danno “giusto”. C'è stata un'evoluzione del
concetto di ingiustizia, che vale la pena percorrere: originariamente si riteneva che fossero
ingiusti i soli danni che riguardavano i diritti assoluti, cioè che possono farsi valere nei
confronti di tutti (ad esempio il diritto di proprietà, al nome, all’immagine, etc.). Si è posto, poi,
il problema sui diritti relativi, sui quali si dice comunemente - ma erroneamente – che siano
ormai risarcibili per via extracontrattuale. I diritti relativi sono quelli che possono essere
azionati verso un soggetto, in particolare i diritti di credito. Leggendo bene l’art. 1259 c.c. si
desume però che il creditore non ha un suo diritto ad agire direttamente verso il terzo che ha
leso l’adempimento del debitore. Egli può, in caso, può subentrare nei diritti del debitore, ma
non ha un suo diritto autonomo. (Nonostante ciò, qualcuno dice che, sulla base della sentenza
della Cassazione sul famoso caso Meroni, ciò sarebbe cambiato. Ciò non viene recepito in
questa sede, in questa sede si preferisce ritenere che i diritti relativi ancora non sono
indiscriminatamente risarcibili). Si possono ipotizzare risarcimenti anche sul possessore e
sul detentore, anche se possesso e detenzione non sono diritti in una situazione di fatto ed è
da considerare quale primo danneggiato il proprietario e non il possessore. Secondo la
sentenza n. 500/1999 della Corte di Cassazione, si dice che sarebbe risarcibile anche la
lesione degli interessi legittimi (cioè quelle posizioni che si vantano nei confronti del buon
andamento della pubblica estrazione, all'annullamento di un atto amministrativo,

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 62

all'approvazione di una determinata istanza etc., e si distinguono tra interessi pretensivi,


quando si chiede qualcosa dalla pubblica amministrazione, e interessi oppositivi, quando non
si vuole qualcosa della pubblica amministrazione come nell’espropriazione). Per un vecchio
privilegio della p.a. si ritneneva che si poteva avere solo l’annullamento dell’atto e non il
risarcimento. Molti sostengono che la situazione sia cambiata con la sentenza del 1999. Si
ricorda però che, già dal 1998 in poi, i risarcimenti del danno legati a violazione di interessi
legittimi sono per legge disposti. Quindi, non siamo nell'ambito di applicazione dell’art. 2043,
ma nell'ambito di applicazione delle norme riguardanti la giurisdizione amministrativa. Si
discute molto anche del risarcimento in merito al caso di aspettativa o della perdita di
chance (in questo caso si ritiene che più che qualificarla come fonte di responsabilità ex se, la
fattispecie serva più per calcolare il danno risarcibile mediante parametri equitativi).

L’illecito civile (lezione di approfondimento: riepilogo generale sull’illecito)


Il primo elemento costitutivo della figura generale dell'illecito civile è il fatto: si tratta della
vicenda che cagiona il danno ingiusto.
Va subito precisato che il fatto non deve necessariamente consistere in un'azione umana. Il fatto
può essere anche una vicenda naturale: ad esempio un incendio, l'aggressione di un animale,
un'inondazione. Le vicende della natura possono ricondursi alla nozione del fatto quando abbiano
alla loro origine il fatto dell'uomo, positivo o negativo: quando, cioè, siano state poste in essere dal
fatto dell'uomo o sia mancato quel fatto dell'uomo che avrebbe dovuto impedire il verificarsi della
vicenda. Ad esempio, nel caso dell'inondazione, questa può essere causata dal fatto che qualcuno abbia
manomesso l'impianto di una diga; nel caso dell'aggressione di un animale, l'uomo doveva impedire che
l'animale aggredisse le persone, se di sua proprietà.
Nel campo della responsabilità civile si riscontrano ipotesi in cui non c'è nesso causale tra il fatto
dell'uomo e la vicenda che produce il danno, in quanto il soggetto può essere reputato responsabile
sulla base di altre relazioni giuridicamente rilevanti: come il datore di lavoro che è responsabile per
il danno causato dai suoi dipendenti, che non è però causalmente imputabile al datore di lavoro.
Il fatto può presentarsi in termini di istantaneità oppure in termini di permanenza, a seconda che
consista nella produzione istantanea di un danno o invece continui nel tempo causare un danno.
Tipico esempio di fatto permanente é l'immissione continuata nel tempo di sostanze nocive.

L’art. 2043 ci dice che l'illecito è il fatto doloso o colposo.


Il codice segnala l'elemento psicologico del dolo, che designa l'intenzionalità del fatto. I requisiti
specifici del dolo sono:
• volontarietà del fatto: deve trattarsi di un fatto che il soggetto ha volontariamente posto in
essere;
• consapevolezza delle conseguenze dannose derivanti dal fatto;
• consapevolezza dell'ingiustizia del danno.

È importante quando si parla del dolo, quale momento psicologico del fatto, tenere presente che
questa nozione va distinta da quella del dolo-vizio: il dolo di cui si parla nell’art. 2043 è un requisito
psicologico del fatto, mentre quando si parla di dolo-vizio, intendiamo riferirci a un vizio della
volontà contrattuale: il raggiro.

Se il fatto è involontario, si parlerà di fatto colposo: l’elemento del dolo è difatti escluso che tutte le
volte in cui il soggetto compie un fatto convinto di non arrecare un danno ingiusto.
Il dolo non è un elemento essenziale del fatto: che può essere, stando sempre alle disposizioni
dell’art. 2043, anche colposo. Il dolo rispetto è, quindi, un elemento eccezionale rispetto alla
colpa, mentre è più comune che il fatto illecito sia qualificato dalla colpa.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 63

La colpa va intesa come l'inosservanza della diligenza dovuta. Rileva sia nella responsabilità
contrattuale che in quella extracontrattuale: nella seconda rileva quando integra l'inosservanza
della diligenza dovuta in generale nella vita di relazione, che in generale è dovuta a i consociati.
La colpa ha perduto l'antico significato di riprorevolezza della condotta, che la faceva indicare come
“l'altro” elemento psicologico del fatto illecito. La colpa non è un elemento psicologico ma un dato
qualificante obiettivo, e che quindi obiettivamente va accertato.
Il nostro ordinamento conosce anche dell'ipotesi di responsabilità oggettiva, che prescinde dalla
colpa ed al dolo: un esempio quello della responsabilità dei committenti per il danno arrecato dei
loro sottoposti. Qui si prescinde dalla colpa di colui che risponde (il committente), mentre sarà
rilevante l'elemento della colpa per il fatto compiuto da chi che è alle dipendenze del committente.
Va detto, comunque, che la regola generale dell'illecito è costituita dalla rilevanza centrale
dell'elemento della colpa. In termini generali il fatto illecito è un fatto doloso o colposo, mentre le
ipotesi di responsabilità oggettiva sono ipotesi eccezionali.
Quello della colpa è, quindi, un elemento centrale, risponendo all'esigenza di delimitare il precetto
alterum non laedere, un dovere che va però contenuto entro limiti di normalità e ragionevolezza.
Esaminando più da vicino la nozione di colpa, vari gli aspetti in cui essa si specifica:
1. incuria o negligenza in senso stretto: quindi mancanza dell’attenzione dovuta per
salvaguardare i beni altrui, di quella attenzione che normalmente è necessaria nella vita di
relazione. Ad esempio, distrattamente un soggetto urta un'altra persona facendole cadere il
cellulare, in questo caso si crea un danno da incuria. Un altro tipo di incuria può consistere
nella carenza della specifica attenzione richiesta nell'attività esercitata: un pilota di aereo deve
svolgere la propria attività con l'attenzione che è richiesta dal tipo di attività esercitata;
2. imprudenza: ovvero la mancata adozione delle misure normalmente idonee ad evitare il
danno. Ad esempio, il soggetto che mette un vaso di fiori sul davanzale senza accertarsi che tale
vaso sia ben fissato, qualora il vaso scivolando cada in testa al passante provoca un danno da
imprudenza. Anche in questo caso, in relazione all'attività esercitata, può essere richiesta una
particolare prudenza: il chirurgo ad esempio, dovrà usare tutti i mezzi adeguati, secondo la
tecnica chirurgica stessa, per evitare che la ferita provocata dal bisturi possa infettarsi;
3. imperizia: si tratta dell'inosservanza delle regole tecniche proprie di una determinata
attività, che ci dicono che cosa deve essere compiuto per rispettare il modello di diligente
esercizio di quell'attività. L'imperizia può derivare dall'ignoranza di colui che svolge quella
attività. Un chirurgo, ad esempio, non usa la perizia necessaria se non osserva le norme tecniche
della propria professione e compiono errore. Esiste anche imperizia se non si usano i mezzi che
la tecnica ritiene adeguati: quindi, nell’esempio, il chirurgo esegue l'intervento usando un
coltello da cucina anziché il bisturi;
4. illegalità: ovvero l’inosservanza di norme giuridiche che prevedono specifiche misure idonee
ad evitare o diminuire il pericolo di danni ingiusti. Ad esempio, un soggetto dà mandato a un
terzo di vendere la propria casa: il terzo è in colpa se esegue il mandato ignorando che per
vendere la casa occorre un atto scritto.

Esaminando i vari aspetti della colpa si è visto come si possa parlare come si possa parlare di una
colpa comune ed una colpa professionale. Tale distinzione è confermata dall'art. 1176 c.c., il quale
detta una norma che ha applicazione generale, benché si tratti di una norma riguardante
l'adempimento dell'obbligazione: occorre usare, nell'adempimento dell'obbligazione (quindi nella
vita di relazione), la diligenza del buon padre di famiglia, cioè la normale diligenza, in mancanza
della quale si ha colpa comune. Il secondo comma dell'art. 1776 c.c. aggiunge che “se si tratta di
obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo
alla natura dell'attività esercitata”. Sul piano della responsabilità extracontrattuale, quindi, chi
esercita un'attività professionale deve usare la diligenza che è richiesta in relazione alla natura
dell'attività esercitata: in questo caso si parla quindi di colpa professionale.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 64

La colpa può essere, ancora, lieve o grave, e questa distinzione riguarda il grado della diligenza
dovuta. La colpa lieve consiste nell’inosservanza della normale diligenza, mentre la colpa grave
consiste nell’inosservanza della diligenza minima.
Possiamo dire, in generale, in merito al tipo di colpa (comune o professionale), che rileva la normale
diligenza richiesta nella vita di relazione, oppure, trattandosi di attività professionale, della normale
diligenza richiesta relazione quell'attività.
In merito al grado di colpa, la regola generale è quella della responsabilità per colpa lieve, ma
eccezionalmente la legge prevede una limitazione della responsabilità extracontrattuale ai casi
di colpa grave: quando il soggetto non abbia osservato le regole elementari di prudenza e di perizia.
Tra questi casi eccezionali in cui la responsabilità è limitata alla colpa grave, va menzionato l’art.
2236 c.c.: “il professionista intellettuale risponde dei danni solamente in caso di dolo o di colpa grave,
se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”. Questa norma, che ha
portato a un vivace dibattito, è stata interpretata nel seguente modo: il professionista intellettuale
deve usare la normale diligenza che è richiesta dalla categoria alla quale appartiene. Se si tratta di
un professionista generico risponderà se non ha usato la diligenza che è propria, ad esempio, del
medico generico, e non gli si potrà invece imputare l'inosservanza di quella diligenza che è propria
della categoria superiore (gli specialisti). Ciò vuol dire che, di fronte ad attività che richiedono una
specializzazione e quindi presentano speciale difficoltà, il professionista generico può astenersi
dall’eseguirle. Non sempre questa è possibile, si pensi al caso di un incidente stradale, qualora ci
fosse una persona bisognosa di immediato soccorso medico e non c'è la possibilità di reperire in
tempi congrui uno specialista: potrà operare anche il medico generico, che non si potrà considerare
responsabile in colpa grave ma solo in colpa lieve.

Chi reclama il risarcimento del danno da fatto illecito deve fornirne la prova, in applicazione di una
norma generalissima, l’art. 2297 c.c.: “chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che
ne costituiscono il fondamento”.
Oltre al fatto, il danneggiato dovrà provare che il danno è stato commesso con colpa, essendo
quest’ultima un elemento costitutivo dell’illecito. Si rileva una differenza netta rispetto alla
responsabilità contrattuale, nella quale il creditore, se l'obbligazione non è stata eseguita, può valersi
della disciplina dell'inadempimento senza dover provare la colpa del debitore.
Quest'onere probatorio è molto importante, perché è sullo stesso che si gioca anche la misura della
tutela accordata al danneggiato. Non a caso, infatti, con riguardo alle varie ipotesi nelle quali si è via
via avvertita l'esigenza di una maggiore tutela del danneggiato, si è giunti, grazie alla giurisprudenza
e alla legge, a realizzare tale maggiore tutela, esonerando il danneggiato dall'onere di dover provare
la colpa del danneggiante.
Quando ci troviamo in presenza di responsabilità oggettiva, non c'è colpa da provare in quanto si
prescinde da quest'ultima. Quando, invece, non si tratta di responsabilità oggettiva la colpa va
provata, e tale prova può essere facilitata da presunzioni, che possono essere generalizzate. La
formula è quella per cui la colpa può essere presunta ogni qual volta il danno sarebbe stato
normalmente evitato da una condotta diligente.
Il criterio di cui sopra non può applicarsi alle attività professionali. Il fatto che l'evento non sia
positivo non vuol dire per ciò stesso che ci sia stata colpa nell'esecuzione di quell'attività: è possibile
infatti che una cura, ad esempio, non abbia un esito felice. La giurisprudenza, in ambito medico, ha
fatto un passo avanti molto importante stabilendo se si tratta di interventi medici o chirurgici
semplici, che non comportano un particolare rischio per la vita del paziente, la morte rappresenta un
risultato anomalo: il professionista dovrà spiegare come mai si sia verificato il decesso del paziente.
L’art. 2043, inoltre, fa riferimento al c.d. danno ingiusto.
Tradizionalmente si riteneva che questa qualifica facesse riferimento alla lesione arrecata ai diritti
assoluti, cioè la proprietà di alcuni diritti fondamentali della persona. Si è avuto però un progressivo
allargamento della nozione di danno ingiusto per opera della dottrina e della giurisprudenza, la

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 65

quale, in primis, riconobbe che anche i diritti di credito - per definizione non assoluti - fossero, se
lesi, suscettibili di dare luogo a un danno ingiusto.
Poi fu compiuto un altro passo: la riconosciuta risarcibilità della lesione di interessi legittimi,
attinenti alla regolarità dell'azione amministrativa. Fino al 1999, difatti, si riteneva che la violazione
dell'interesse legittimo non desse luogo al risarcimento del danno.

La sentenza del 1999, che segnò questa svolta molto importante in merito all’interesse legittimo,
ebbe poi a dire che non c'è bisogno, affinché si possa parlare di danno ingiusto, che ci sia lesione di
un diritto soggettivo, l'importante è che ci sia stata la lesione di un bene della vita, un interesse che
possa ritenersi giuridicamente tutelato. Effettivamente questa formula era già stata proposta della
dottrina: la formula di interessi giuridicamente tutelati nella vita di relazione.
Questa formula molto ampia esige una verifica: quali sono gli interessi giuridicamente tutelati nella
relazione? Sono, ovviamente, quegli interessi che costituiscono oggetto di tradizionali diritti
soggettivi, i diritti reali di godimento e non quelli di garanzia, entro certi limiti anche diritti di
credito, più le varie altre situazioni che di volta in volta vanno verificate.
Occorre quindi che si proceda sistematicamente per identificare i singoli interessi giuridicamente
tutelati nella vita di relazione, e quindi i singoli oggetti della tutela extracontrattuale.
In primo luogo, ovviamente, dobbiamo menzionare i diritti fondamentali della persona, che sono
non solamente diritti soggettivi ma diritti soggettivi di rango superiore, tutelando interessi essenziali
della persona e rientrando nell'ambito di quei diritti chiamati inviolabili dalla Costituzione. La tutela
dei diritti fondamentali della persona si è estesa e via via intensificata anche sul piano del diritto
privato (precedentemente erano tutelati solo nei confronti dello Stato). C'è stata una graduale
evoluzione in questo senso, che ha trovato un ostacolo di non facile superamento del principio
secondo il quale i danni non patrimoniali non sono risarcibili se non nei casi previsti dalla legge (art.
2059 c.c.). I diritti fondamentali della persona sono per definizione diritti non patrimoniali, quindi la
lesione di questi diritti si riteneva che di per sé non desse luogo al risarcimento del danno, salvo che
dalla loro lesione derivasse una conseguenza economica negativa e cioè un danno patrimoniale.
Questo ostacolo è stato superato dalla giurisprudenza in base ad una elementare considerazione: i
diritti fondamentali della persona sono diritti soggettivi di rango superiore, quindi sarebbe
assolutamente incoerente con tutto il sistema ordinamentale negare la risarcibilità del danno
consistente nella lesione di tali diritti.
Si è quindi pervenuti ad ammettere che il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di un
diritto fondamentale della persona è di per sé risarcibile. Si deve tenere presente che il
risarcimento del danno da lesione di un diritto fondamentale della persona pone spesso un problema
di conflitto con altri diritti che possono essere essi stessi fondamentali: ad esempio il diritto alla
riservatezza (ormai riconosciuto come un diritto della personalità), incontra un limite nell'opposto
diritto all'informazione, alla libertà di stampa, che pure è un diritto costituzionalmente tutelato. Si
pone quindi un problema che di volta in volta che va risolto non in via assoluta, dando la prevalenza
all'uno o all'altro di questi diritti ma mettendoli a confronto e ricercando la formula che valga a
salvaguardare ragionevolmente l'uno all'altro. Trovare il punto di mediazione non è sempre facile,
possono aiutare i precedenti.
Per quanto riguarda l’art.2059, come si è detto, ormai si ritiene che esso non impedisca il
risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti fondamentali della
persona. Questo vuol dire che se un soggetto subisce una lesione personale, questo è già di per sé un
danno e va risarcito a prescindere dalle conseguenze economiche che possono derivare da quella
lesione. A proposito dei diritti della personalità, una nota di novità si è avuta con il riconoscimento
del diritto della persona famosa al risarcimento del danno per lo sfruttamento pubblicitario del
suo nome o della sua immagine, riconosciuto anche a persone che non utilizzano il proprio nome a
scopi commerciali.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 66

Un altro oggetto di tutela extracontrattuale è la libertà negoziale: il diritto alla libera esplicazione
dell'autonomia privata. Questa libertà è tutelata contro quelle ingerenze dei terzi che integrano
responsabilità precontrattuale. Si pensi agli artt. 1337 e 1338 c.c.: il soggetto che recede
ingiustificatamente dalla trattativa, pur avendola condotta fino al punto di far ritenere
ragionevolmente che la trattativa si sarebbe conclusa positivamente, compie la violazione di un
preciso dovere. Tale dovere va riferito al precetto generale sulla responsabilità extracontrattuale
(nemimen ledere), perché questo soggetto ha arrecato un danno all'altra parte della trattativa.
Il danno arrecato da chi recede è quindi un danno ingiusto e la legge tutela anche contro le ingerenze
dei terzi: la libertà negoziale viene ancora più chiaramente violata quando il terzo usa ad esempio
violenza o dolo (in questo caso inteso come raggiro).
L'interesse, nella responsabilità precontrattuale, è negativo, cioè l ‘interesse a non essere coinvolto
in trattative inutili o a stipulare contratti che il soggetto non avrebbe stipulato senza gli elementi
distorsivi della violenza o del dolo. La libertà negoziale può essere violata anche dalla falsa
informazione.

Altro bene tutelato nella vita di relazione è il diritto all'ambiente.


Questo interesse è cresciuto di rilevanza di giorno in giorno di fronte ai terribili fenomeni di
inquinamento. La giurisprudenza era giunta a riconoscere la tutela anche civilistica di questo diritto
all'ambiente, considerandolo come un aspetto del diritto alla salute. Questo non è sempre vero, onde
il problema se l'ambiente sia comunque un bene tutelato, a prescindere dalla salute. Si è formato un
orientamento giurisprudenziale secondo cui l'ambiente non è un bene individuale, ma un bene
della collettività, e quindi deve essere tutelato sul piano pubblicistico e, sulla spinta di questa idea, si
è avuta nel 1986 l'emanazione di una famosa legge sulla tutela dell'ambiente (l. n. 349 8 luglio 1986).
Questa legge pone il principio secondo il quale la lesione dell'ambiente dà luogo a responsabilità
extracontrattuale, ma legittimato alla richiesta del risarcimento del danno è solo lo Stato. Il
cittadino può denunciare il fatto dannoso per l'ambiente ma non può pretendere il risarcimento del
danno da inquinamento.
Questa è un'affermazione eccessivamente rigida perché, se è vero che il cittadino è danneggiato in
quanto membro della collettività e non come singolo, è anche vero che l'inquinamento costituisce
una lesione del singolo membro della collettività, che, a prescindere dal risarcimento del danno,
potrebbe quantomeno promuovere il rimedio della inibitoria. Il danno sofferto dalla generalità degli
abitanti di una zona colpita deve, infatti, essere globalmente risarcito dallo Stato, e le pretese
risarcitorie dei singoli verrebbero a duplicare il danno risarcibile.
C'è da aggiungere che comunque i principi generali rimangono fermi, quindi è fuor di dubbio che, se
l'inquinamento che provoca un danno ambientale cagionasse anche un danno ingiusto
individuale, la parte danneggiata potrebbe chiedere il risarcimento del danno.

Un bene tutelato nella vita di relazione è sicuramente la proprietà: possiamo, anzi, dire che la
nozione di danno ingiusto sia costruita proprio attorno alla lesione del diritto di proprietà.
Occorre tenere presente però che sul bene possono gravare anche altri diritti di godimento, ad
esempi un usufrutto. Se viene distrutto un bene che è oggetto del diritto di usufrutto, chi ha diritto al
risarcimento del danno? La risposta in questo caso dovrà fare riferimento ai due titolari dei diritti
reali di godimento che sono il nudo proprietario e l'usufruttuario. Entrambi avranno diritto al
risarcimento del danno, ma ognuno per la quota di danno sofferto. Quindi l'usufruttuario potrà far
valere un diritto di risarcimento del danno in quanto abbia un diritto di usufrutto, ma anche in
quanto sia in grado di dimostrare l'entità del danno subito, che è variabile in relazione alla
presumibile durata dell'usufrutto stesso (un danno che è tanto minore quanto più anziano è
l'usufruttuario, in questi casi si usano delle tabelle).
Per i diritti di garanzia il discorso è diverso, perché il diritto di garanzia grava sì sul bene, ma in
funzione del soddisfacimento di un credito: il creditore che abbia in suo possesso un bene datogli in

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 67

pegno, qualora venisse distrutto, non subirebbe un danno. Sarebbe infatti di un bene che non gli
appartiene, ma subisce un danno di diminuzione di chance di soddisfacimento del credito; in ogni
caso il risarcimento del danno potrà essere reclamato dal proprietario del bene dato in pegno.
Lo stesso dicasi se si tratta di un bene gravato da un vincolo ipotecario: il creditore ipotecario non
ha diritto al risarcimento del danno, ma se è dovuta un'indennità da parte di un assicuratore, il
creditore ipotecario può far valere il suo diritto di prelazione su tale somma.

Analizziamo delle ipotesi di proprietà sostanziale (per quanto la definizione sia impropria):
l’acquirente con clausola di riservato dominio e il locatario finanziario. Questi soggetti non sono
proprietari dei beni che costituiscono oggetto del contratto di vendita o di leasing, ma ne subiscono
tutti i rischi perché la distruzione del bene fa venir meno l'obbligo di corrispondere le rate
convenute, quindi dovrebbe ritenersi che siano titolari del diritto di risarcimento del danno, perché è
nella loro sfera giuridica che incide direttamente il danno provocato dal terzo.
Con riguardo al possesso, sappiamo che non è un diritto ma una situazione di fatto. Può la lesione
di una situazione di fatto dar luogo al risarcimento del danno? In passato la risposta è stata negativa,
ma col tempo tale risposta è risultata, almeno in parte, inaccettabile. E’ vero che il possesso è una
situazione di fatto, ma è anche vero tale situazione è comunque tutelata, in qualche modo,
dall’ordinamento, intanto con le azioni possessorie. Sia pure nei limiti in cui la legge le prevede,
deve comunque dirsi che il possessore è tutelato nei confronti di tutti i terzi (come anche il detentore
qualificato). La tutela non dovrebbe ridursi esclusivamente al rimedio dell'azione reintegratoria o
manutentoria (in caso di spoglio o molestie). La giurisprudenza, infatti, si è orientata nel senso di
ammettere che anche la lesione del possesso possa dar luogo a risarcimento, trattandosi comunque
della lesione di un interesse tutelato giuridicamente nella vita di relazione e, quindi, nei confronti di
terzi, ma solamente in caso di aggressioni qualificate come spoglio o molestie.
Il possessore può pretendere, quindi, il risarcimento della lesione di un interesse che si sostanzia
nella disponibilità di fatto della cosa e non quello della piena proprietà.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 68

4. I soggetti dell’illecito civile


Il primo riferimento va ai soggetti tutelati, cioè i soggetti passivi dell’illecito.
L'ampia dizione dell’art. 2043 va sempre tenuta presente. Il riferimento a quel che “cagiona ad altri”
significa che qualsiasi soggetto portatore di un interesse tutelato nella vita di relazione ha
diritto al risarcimento del danno, è coperto quindi dall'area di responsabilità extracontrattuale.
Quindi, le persone fisiche, a prescindere da qualsiasi requisito (ad esempio la cittadinanza non ha
nessuna rilevanza). Qualche dubbio in passato si è avuto per il nascituro concepito: muovendo
dall'idea che il nascituro non abbia capacità giuridica fino al momento della nascita, si era escluso che
potesse vantare una propria tutela extracontrattuale. Si negava quindi che rientrasse nell'ambito dei
soggetti tutelati. E’ prevalsa, in seguito, anche in giurisprudenza, la convinzione che il nascituro,
benché non ancora nato, sia comunque già portatore di un interesse attuale all'integrità psicofisica e
che la lesione dell'integrità psico-fisica del nascituro sia un danno che subisce non tanto la madre ma
il nascituro stesso.
Soggetti tutelati sono anche gli enti giuridici, sia in quanto dotati di personalità giuridica, sia in
quanto non personificati, ma comunque dotati di soggettività giuridica. Ricordiamo che un ente
giuridico oggi gode della capacità giuridica anche se non è riconosciuto come persona giuridica.
Nell'ambito degli enti non personificati, se tali enti assumono obbligazioni, rispondono di queste le
persone che le hanno assunte; se invece si tratta di persone giuridiche, di tali obbligazioni
risponderà solamente il rappresentante legale della persona giuridica in questione. Sul piano della
tutela extracontrattuale non c'è quindi differenza tra enti giuridici: sono tutti egualmente tutelati in
quanto portatori di interessi tutelati nella vita di relazione.

Per capacità extracontrattuale s’intende, invece, l’idoneità ad essere soggetti attivi di


responsabilità civile. Diciamo che, analogamente a quanto osservato per i soggetti tutelati, anche per
quanto riguarda gli autori dell'illecito, la capacità extracontrattuale compete di massima a tutte le
persone fisiche e a tutti gli enti giuridici.
Per quanto riguarda le persone fisiche, tuttavia, occorre dire che una persona fisica è esonerata da
responsabilità se non è in grado di intendere o di volere.
Questo vale sia per coloro che non hanno capacità di intendere o di volere in ragione della loro età,
sia per coloro che sono privi di queste capacità in ragione di una malattia mentale o altre cause. A
differenza del codice penale, non è stabilita un'età al di sotto della quale la persona non è mai
responsabile. Il codice civile fa riferimento all'elemento sostanziale della capacità di intendere e
di volere, quindi anche un minore è responsabile sul piano extracontrattuale se commette un illecito
(qui occorre però tener presente che, accanto alla responsabilità del minore c'è quella di coloro che
sono preposti alla sua sorveglianza). La responsabilità dei genitori non esclude comunque che, in
linea di principio, anche il minore debba rispondere e questo vale anche per coloro che, al di là
dell'età, non abbiano per altre causa la capacità di intendere e di volere. Anche gli incapaci, in alcuni
casi, possono essere tenuti ad indennizzare la vittima quando questa non possa percepire il
risarcimento del danno (rinvio).

Con riguardo gli enti giuridici, va tenuto presente che questi possono essere pubblici o privati, e
anche gli enti pubblici rispondono per l'operato compiuto dei loro organi e dei loro dipendenti,
nell'esercizio delle relative funzioni. C’è una norma molto importante, l’art. 28 della Costituzione
secondo cui “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, sono direttamente responsabili,
secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti”. In tali casi la
responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.
Questa formula potrebbe far pensare che lo Stato, o comunque l'ente, abbiano responsabilità
indiretta. Va detto piuttosto che l'ente giuridico pubblico ha una responsabilità diretta per gli atti
compiuti dai suoi dipendenti. Il danneggiato può sicuramente rivolgersi direttamente

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 69

all'amministrazione pubblica e pretendere il risarcimento del danno. Occorre però, come dice
l’art.28, che ci sia, in primo luogo, il nesso di appartenenza del soggetto all'amministrazione pubblica
(quale funzionario o dipendente); in secondo luogo, l’Ente risponde qualora il fatto sia stato
compiuto dal dipendente nell'esercizio delle sue funzioni. Si parla anche di occasionalità
necessaria: la responsabilità dell'ente sussiste quando il dipendente abbia compiuto il fatto
“consentito” dalle funzioni che il dipendente ricopre (ad esempio, il cancelliere che intaschi il denaro
versato per l’amministrazione del Tribunale come cauzione, compie un illecito di cui risponde lo Stato).

Può darsi che più soggetti concorrano a cagionare il fatto illecito: supponiamo che ci sia stata
un’aggressione da parte di più persone che abbia determinato una lesione alla vittima. Tutti i soggetti
sono responsabili; in caso di azione comune, non bisogna identificare le singole partecipazioni dei
componenti del gruppo (non serve capire chi ha commesso quale parte del danno).
La disciplina dei rapporti interni ed esterni dei corresponsabili del danno extracontrattuale è retta
dai principi delle obbligazioni solidali. In applicazione di questi, nei rapporti esterni il danneggiato
può rivolgersi a uno qualsiasi dei responsabili per reclamare il pagamento dell'intero.
Il responsabile non potrà, inoltre, opporre al danneggiato le cause di liberazione personali ad altri
responsabili né può opporre le cause di esenzione di responsabilità personali ad altri coautori del
danno. Ad esempio, se nel gruppo vi era un incapace, non ha importanza: colui che è capace risponderà
per intero del danno e non potrà dire che nel gruppo c’era anche un incapace, per fare in modo che una
parte del danno non sia risarcibile. Il danno deve essere risarcito comunque per intero. Sul responsabile
viene in tal modo a gravare l'obbligo di risarcimento del danno anche per la quota causalmente
imputabile ad altro coautore del danno: ciò appare, tuttavia, coerente col fondamento della regola
della responsabilità solidale.
Nei rapporti interni (cioè fra coautori dell’illecito) le quote dei responsabili solidali si determinano
in ragione della gravità delle rispettive colpe e delle conseguenze che ne sono derivate. Se uno dei
coautori del fatto risarcisce integralmente il danno, giuste le disposizioni dell’art. 2055 co. 2, chi ha
risarcito il danno ha diritto di regresso contro ciascuno degli altri, secondo la misura della quota. La
gravità della colpa è data dall'entità della diligenza violata: tanto meno sono osservate le regole di
prudenza, di legalità e di perizia, tanto più grave è la colpa del soggetto. Il criterio di ripartizione
della responsabilità tra più persone è lo stesso criterio che attiene alla diminuzione del risarcimento
del danno in caso di concorso del fatto colposo del danneggiato, e la colpa è quindi da intendere come
obiettiva negligenza. L’accertazione dell’entità delle quote rimane comunque molto difficile: nel
dubbio, è comunque previsto che si ritengono uguali.
Il fondamento della responsabilità solidale va ricercato nello stesso fondamento generale
dell'istituto della responsabilità solidale e cioè, la funzione di rafforzamento della garanzia del
creditore. Si è voluto tutelare il danneggiato in maniera forte, evitandogli quel notevole aggravio
costituito dalla necessità di andare a inseguire tutti gli autori del fatto per ottenere da ciascuno la
propria quota di risarcimento.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 70

5. Le esimenti da responsabilità
Le esimenti di responsabilità sono le circostanze che escludono la responsabilità dell'autore del
fatto dannoso. Si distingue, al riguardo, tra le esimenti personali di responsabilità e esimenti
oggettive di responsabilità (o cause di esclusione dell'antigiuridicità).
Le esimenti personali non autorizzano il compimento del fatto dannoso, ma lo giustificano. Fanno
parte di queste esimenti l'incapacità, il caso fortuito, la forza maggiore e lo stato di necessità.
Questo vuol dire che la vittima non ha diritto al risarcimento del danno perché l'esimente esclude la
responsabilità dell'autore del fatto dannoso; tuttavia subisce comunque un danno e di questo la legge
ne tiene conto, prevedendo, a volte, il diritto della vittima di reclamare un indennizzo.
Le esimenti oggettive (cause di esclusione dell'antigiuridicità), rimuovono in radice il divieto di
legge e quindi, rendono lecito il fatto e non consentono al danneggiato alcun rimedio. Fanno parte di
queste esimenti: la legittima difesa, il consenso dell'avente diritto, l'adempimento di un dovere
legale, l'esercizio di un diritto, l'ordine superiore.
Analizziamo le esimenti personali.
1. Incapacità: il codice civile, all’art. 2046, stabilisce che: “non risponde delle conseguenze del
fatto dannoso chi non aveva la capacità di intendere o di volere al momento in cui l'ha
commesso, a meno che dallo stato d'incapacità derivi da sua colpa”. La riserva finale riguarda il
caso in cui il soggetto sia sì incapace ma si è procuratogli stesso quello stato di incapacità (ad
esempio lo stato di ubriachezza). Con riferimento alla citata nozione oggettiva di colpa, al
riguardo si intende che anche il fatto dannoso compiuto dall'incapace si presta ad essere
qualificato come colposo o meno. Ciò significa che l'incapacità non elimina un elemento
costitutivo dell'illecito. Il fatto dell'incapace può essere colposo e la legge prevede
quest'esimente di responsabilità a tutela dell'incapace. Questa norma ha ricevuto parecchie
critiche da parte della più recente dottrina, sostenendo che in questo modo non si tiene conto
dell'esigenza di tutela delle persone e dei beni. In questa sede si ritiene giusto che questa
norma sia stata conservata, perché risponde a una elementare esigenza avvertita dalla
coscienza sociale: la tutela dell'incapace. Il codice civile, a differenza di quello penale, non
prevede un'età al di sotto della quale il soggetto è per legge definito incapace; nel civile la
norma richiede che sia valutata, di caso in caso, la capacità di intendere e di volere del
soggetto. Quindi si può dire che anche un soggetto di 12 anni potrebbe essere responsabile in
quanto certamente dotato di capacità di intendere e di volere, e in via presuntiva questa
capacità può essere esclusa solo quando si tratta di persone ai primi stadi della vita. Posto
quindi che anche un minore può essere responsabile per i danni arrecati, occorre tenere
presente che la legge, a fronte di questa responsabilità, prevede la responsabilità di chi è
tenuto alla sorveglianza del minore: in primo luogo i genitori o i tutori, ma anche gli
insegnanti, al personale sanitario, etc.; questi rispondono per il danno arrecato dall'incapace
ed è in questo modo che la regola della non responsabilità dell'incapace salvaguarda
l'interesse del danneggiato. La legge va anche oltre, prevedendo che, quando il danneggiato
non ottiene il risarcimento da parte di coloro che erano tenuti alla sorveglianza dell'incapace,
il giudice può condannare l'incapace a corrispondere un'equa indennità. Cioè previsto
dall’art. 2047 comma II c.c.: “nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il
risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza, il giudice, in considerazione delle condizioni
economiche delle parti, può condannare l'autore del danno a un'equa indennità”;
2. Caso fortuito e forza maggiore: non hanno un significato diverso; con il caso fortuito si
tende a indicare il momento dell’imprevedibilità dell'evento: ad esempio, durante
l'esecuzione di un intervento chirurgico, manca la corrente elettrica e anche l'elettricità di
riserva dell'ospedale. Un caso del genere è sicuramente imprevedibile e quindi può rientrare
nell'ipotesi di caso fortuito. L'ipotesi di forza maggiore sottolinea l'aspetto della
irresistibilità: un'onda anomala, ad esempio, trascina una barca la quale va a sbattere contro

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 71

un'altra imbarcazione, distruggendola. Qui c'è una forza irresistibile alla quale il soggetto non
poteva opporsi. Comunque imprevedibilità e irresistibilità, sono sempre due aspetti della
medesima nozione, di evento imprevedibile e inevitabile alla stregua della diligenza dovuta;
3. Stato di necessità: si tratta di una situazione di fatto che costringe un soggetto a compiere
un fatto lesivo del diritto altrui, al fine di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno
grave alla persona. Il danno dev’essere non volontariamente causato o altrimenti
evitabile, ex art. 2045 c.c. Un esempio comune di stato di necessità è quello della persona che si
trova nel mezzo di un'alluvione, sta per essere travolto dalle acque e nel tentativo di salvarsi
entra di forza in un'abitazione, danneggiando la porta d'ingresso. L'autore del fatto necessitato
non è tenuto al risarcimento del danno ma è tenuto comunque a pagare un'indennità equamente
determinata dal giudice. Lo stato di necessità, infatti, è un'esimente di responsabilità ma è una
situazione particolarmente qualificata dal vantaggio che l'autore del fatto ne trae in termini
di salvezza. Va esaminata ora la questione sulla natura del fatto necessitato, cioè se sia un
fatto antigiuridico oppure un fatto lecito: la giurisprudenza tende a ravvisarvi
l'antigiuridicità e parla di responsabilità dell'autore del fatto, seppure attenuata. Ora, se
ammettiamo che il fatto necessitato sia antigiuridico, per lo stesso motivo, ad esempio,
autorizziamo il danneggiato a opporre la legittima difesa, che è, invece, uno strumento di
autotutela a fronte dell'aggressione altrui: ciò appare inammissibile (nell’esempio di prima, il
padrone della casa picchia con un bastone chi per salvarsi sta forzando la porta). Bisogna
piuttosto distinguere lo stato di necessità che comporta il sacrificio di un diritto della
personalità, dallo stato di necessità che comporta il sacrificio di un interesse economico.
La prima ipotesi è quella in cui lo stato di necessità vede due contrapposti interessi di pari
rango, che attengono ai diritti della personalità: la salvezza della persona da un lato può
comportare dall'altro il sacrificio di un altrui diritto della personalità; in questo caso,
l'ordinamento giuridico non può autorizzare il sacrificio di un altrui diritto della personalità,
pur potendo per giustificare il fatto dannoso (che rimane antigiuridico). Esempio classico è
quello del naufrago che sale su una zattera che non può portare più di una persona: pur di
salvarsi la vita, può gettare in mare chi si trovi già a bordo; c’è un esimente ma il fatto rimane
antigiuridico, e l’altro naufrago può avvalersi della legittima difesa, anche uccidendolo, per
salvarsi. La seconda fattispecie è quella che vede, da un lato, un diritto della personalità e
dall'altro un diritto di contenuto economico: in questo caso il danneggiato non può avvalersi
della legittima difesa. In entrambi i casi occorre, comunque, che sia corrisposto un equo
indennizzo al danneggiato, in base a una esigenza di equità sociale, che impone di tener conto
del vantaggio conseguito dal danneggiante, a spese altrui. I presupposti specifici dello stato
di necessità: a) pericolo attuale di danno grave alla persona. Deve essere minacciata
l'incolumità della persona, ma si ammette che possa avvalersi dello stato di necessità anche
chi sia minacciato della lesione di un diritto della personalità che non sia quello della lesione
dell'integrità psico-fisica. Il soggetto minacciato può essere lo stesso autore del fatto dannoso
ma può essere anche un terzo, nel caso di chi agisce per salvare altri dal pericolo grave la
persona (soccorso necessitato). L'indennizzo non è dovuto quando la persona soccorsa è lo
stesso danneggiato (ad esempio sfondo la porta di una casa per salvare dalle fiamme il
proprietario, chiuso dentro). Il pericolo può venire anche da un evento naturale, ma l’evento
deve essere imputabile a un responsabile (ad esempio, un soggetto aggredito da un cane
furioso, reagendo, lo uccide). La minaccia dev'essere reale - non ipotetica - e si ammette che il
soggetto è esentato da responsabilità quando la minaccia appaia tale, pur non essendo reale.
Infine, il pericolo deve essere non evitabile in altro modo, ossia scongiurato mediante
interventi che siano rispettosi degli interessi altrui e non può essere invocato quando il
pregiudizio sia stato causato proprio dall'autore del fatto dannoso (nell’esempio di sopra, chi
tenta di sfuggire all’alluvione è stato colui che l’ha provocato, rompendo una diga); b)
strumentalità del fatto dannoso, cioè questo deve essere diretto a scongiurare il pericolo. Se

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 72

vi è un errore scusabile, tuttavia, può ugualmente ritenersi applicabile lo stato di necessità (ad
esempio, rifugiarsi nella casa non serve a nulla perché la casa è al di sotto del livello delle
acque); c) proporzionalità del fatto dannoso: l'interesse salvaguardato non deve essere
sensibilmente inferiore per qualità e quantità l'interesse sacrificato (ad esempio, per evitare
un graffio si distrugge una casa: non c’è proporzione tra pericolo e interesse altrui sacrificato).

L'indennità che la legge prevede in favore del danneggiato, nelle fattispecie esposte, è rimessa
all'equo apprezzamento del giudice. Ciò significa che si dovrà tener conto di tutte le circostanze
rilevanti per determinare un'indennità che sia obiettivamente giustificata: le situazioni economiche
delle parti, dalla gravità del pericolo evitato, dell'apprezzabilità morale dell'autore del fatto, etc.
42.48
Analizziamo adesso le esimenti oggettive, o cause di esclusione dell’antigiuridicità:
1. La legittima difesa: l’art. 2044 c.c. dice che “non è responsabile chi cagiona il danno per
legittima difesa di sé o di altri”. Anche il codice penale la prevede, stabilendo che “non è
punibile chi commette il fatto per esservi costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio
o altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata
all'offesa”. In questi casi, in quanto esimente oggettiva, viene esclusa l'antigiuridicità: chi
reprime l'aggressione altrui non compie un atto antigiuridico e non arreca un danno ingiusto.
Il fondamento della legittima difesa è una elementare esigenza sociale di autotutela privata,
quando l'aggredito non possa ricorrere alla giustizia né ai tutori dell'ordine pubblico (vim vi
repellere licet per i romani). I presupposti della legittima difesa sono i seguenti: a) pericolo
attuale e inevitabile di un danno ingiusto; l'aggressione deve essere volta ad arrecare un
danno ingiusto, cioè che l'aggredito o il terzo sia minacciato nella sua persona nei beni. Pur se
non c'è un'espressa menzione del codice a riguardo, la legittima difesa può essere posta in
essere anche contro l’aggressione a beni economici. Occorre poi il pericolo sia attuale,
presente, scaturente da un’aggressione in corso e non dalla previsione di una possibile futura
aggressione, e inoltre deve essere inevitabile (se ad esempio si può ricorrere alle forze
dell’ordine per scongiurarlo la legittima difesa non è legittimata); b) aggressione altrui, che è
l’aggressione antigiuridica proveniente da colui verso il quale la difesa viene esercitata; quindi
la legittima difesa deve essere esercitata nei confronti dell'aggressore e non verso altri.
Questa aggressione poi dev'essere reale: deve esserci effettivamente un'aggressione che
minaccia la persona o i suoi beni; se è solamente apparente, ricorre il caso della legittima
difesa putativa, in cui si ammette che l'errore scusabile del presunto aggredito valga ad
esonerare da responsabilità. Il fatto va qualificato comunque come antigiuridico, in quanto ne
esclude la colpa (un esempio dagli annali penali: un tizio entra in gioielleria con una maschera e
agitando una pistola minaccia il gioielliere, che reagisce colpendo a morte il rapinatore, che in
realtà era un amico che voleva fare uno scherzo. Si è esclusa la colpa dell’aggredito tratto in
errore); c) strumentalità e proporzionalità della difesa: strumentalità vuol dire che la
difesa deve essere volta a neutralizzare l'aggressione (ad esempio, Tizio insegue un
rapinatore in fuga, dopo averlo cacciato, al fine di ucciderlo: la reazione non è più legittima
difesa); la difesa, inoltre, deve essere proporzionale all'offesa (ad esempio, una semplice
minaccia di un pugno non giustificherebbe una reazione che porta all’uccisione). Un altro
problema che riguarda la legittima difesa riguarda la legittima difesa di chi abbia provocato
lo stato d'ira dell'aggressore: il caso è di colui che insulta e ingiuria un'altra persona, che,
provocata, reagisce tentando di ferire colui che l'ha insultato: questo a sua volta si difende
colpendo l'aggressore che egli stesso aveva provocato. Una situazione di questo genere è
valutata dalla giurisprudenza nei seguenti termini: colui che è stato provocato è tenuto al
risarcimento del danno, non esimendo la semplice provocazione da responsabilità per il
danno arrecato, ma la provocazione sarà valutabile come concorso di colpa del danneggiato.
Lo stesso principio si applica per il danno provocato dall’aggressore;

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 73

2. Il consenso dell'avente diritto, è l’atto mediante il quale un soggetto autorizza un fatto


lesivo del proprio diritto (ad esempio, si affida a un incaricato la distruzione di un auto). In
diritto penale la definizione è “l'atto di chi lede o mette in pericolo un diritto con il consenso
della persona che può validamente disporne”. Anche per il diritto civile il consenso dell'avente
diritto esclude la responsabilità, e quindi l'antigiuridicità del fatto. Questo perché,
l'autorizzazione dell’avente diritto rimuove il dovere che l'ordinamento giuridico sancisce a
carico di tutti i consociati di non ledere il diritto altrui, che quindi non è più tutelato.
Ovviamente il consenso deve essere prestato da chi è legittimato a disporre del diritto, e
deve quindi trattarsi di diritti disponibili. Il consenso dell'avente diritto rileva se e in quanto
sia prestato da persona capace: sia la capacità legale che quella naturale sono presupposti
essenziali per la rilevanza del consenso dell'avente diritto quale esimente di responsabilità. Il
consenso prestato da persona incapace, di conseguenza, è assolutamente nullo. In caso di
diritti della personalità, questi sono indisponibili: pertanto non si ammetterà come
esimente della responsabilità che un soggetto autorizzi un altro ad ucciderlo (vedi gli esempi
ricorrenti oggi di richiesta di eutanasia). Occorre però dire che i diritti della personalità, pur
essendo di massima indisponibili, possono entro, certi limiti, costituire oggetto di atti
dispositivi, o quando sia conforme a un superiore dovere di solidarietà umana. Questo
fondamento, ad esempio, si ritrova nelle leggi che autorizzano la persona a dare il proprio
consenso ad esempio ad atti di sperimentazione, purché questa non si presenti con un
altissimo grado di probabilità letale. Essa deve essere, quindi, ammessa proprio perché
risponde ad un superiore interesse di solidarietà umana. La coscienza sociale ammette anche
che il soggetto possa compiere atti pericolosi e suscettibili di ledere la sua integrità psico-
fisica, se ciò risponde a un costume giustificato sulla base del diritto della persona
all'espletamento di attività sportive (ad esempio, il pugilato; oppure nel calcio: in questo caso
delle lesioni da fallo sul campo rientrano negli atti pericolosi caratterizzanti l’attività sportiva.
Un giocatore colpito con una testata allo stomaco non durante l’azione di gioco non rientra in
questi casi e quindi rientra nella disciplina generale di illiceità);
3. L’esercizio di un diritto: causa tradizionale già conosciuta dai romani, per cui non arreca un
danno ingiusto chi esercita un suo diritto. L'esercizio del diritto esonera da responsabilità
perché l'attribuzione a quel soggetto di un diritto significa che l'ordinamento tutela un suo
interesse con prevalenza rispetto agli interessi altrui, attribuendogli una posizione di
vantaggio che può legittimamente esercitare (ad esempio, il creditore che espropria il
patrimonio del debitore inadempiente, munito di titolo esecutivo. Il debitore subisce un danno
conseguente all’esercizio del diritto del credito: siamo fuori da illiceità). Il titolare di un diritto,
comunque, non può abusarne: quello dell'abuso è una figura molto importante, perché ci
consente di spiegare come l'ordinamento predisponga la tutela dei diritti solo se il soggetto
abbia un interesse meritevole di essere tutelato; la meritevolezza di questo interesse viene
meno quando il titolare si serva del diritto al di là di quello che è giustificato dal proprio
interesse. I romani, che conoscevano il concetto di abuso e davano una grande importanza alla
proprietà privata, giungevano ad escludere la liceità del compimento di atti emulativi da
parte del proprietario, e oggi lo stesso è sanzionato dall’art. 833 c.c., dove si prevede che il
proprietario può godere della cosa, ma non col solo scopo di nuocere ad altri (ad esempio,
alzare un muro nella propria proprietà, elevandolo esageratamente, pur di infastidire il vicino);
4. L’ordine superiore: l’art. 51 del codice penale stabilisce che “chi adempie a un dovere imposto
da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità non è punibile”. Questa
esenzione di punibilità vale anche nel diritto civile come esenzione di responsabilità.
L'osservanza di un dovere legale o di un ordine della pubblica autorità (legittimamente
dotata di poteri di comando), non costituisce pertanto un illecito, essendo un fatto autorizzato
dall'ordinamento giuridico. L'esclusione dell'antigiuridicità presuppone, ovviamente, che la
condotta sia conforme al dovere legale, o all'ordine della pubblica autorità e che, quindi, il

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 74

soggetto abbia il dovere di compiere quel fatto. Colui che conforma il proprio operato alla
legge o all'ordine della pubblica autorità è esonerato da responsabilità, a prescindere
dall'entità della sanzione che l'ordinamento possa prevedere per l'inosservanza di quel
dovere (ad esempio, chi irrompe nella proprietà altrui su ordine dell’autorità militare). Il
discorso cambia in caso di ordine non legittimo, cioè se l'atto fuoriesce dalle competenze
dell'organo che ha impartito l'ordine: il compimento del fatto, in tal caso, non è giustificabile
come adempimento di un ordine superiore. L'esimente, semmai, potrebbe essere ricercata
nella forza maggiore: può darsi, in alcuni casi, che le circostanze siano tali che disobbedire a
un atto illegittimo della pubblica autorità possa comportare gravi sanzioni (ad esempio, pena
di morte per chi non esegue gli ordini, seppur palesemente illegittimi, dell’autorità). In questa
ipotesi può rientrare anche l’ordine impartito da autorità straniera (ad esempio, per salvare la
nave, si adempie l’ordine illegittimo dell’autorità straniera a consegnare il carico a un vettore
straniero in acque extraterritoriali: si rientra nella forza maggiore o nello stato di necessità.)

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 75

6. Le responsabilità speciali
6.1 > Le responsabilità speciali – Parte generale

Abbiamo visto che alla base della nozione di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 vi è la
colpa, da considerare quale elemento centrale della figura dell'illecito.
Tale elemento esclude che la responsabilità extracontrattuale possa essere vista come una risposta
al fatto di procurare un danno ad altri. Il principio di civiltà giuridica, già affermato dal diritto
romano, è che bisogna valutare il fatto che arreca ad altri un danno: occorre che questo non sia un
fatto meccanico, ma un fatto in cui siano ravvisabili gli estremi, appunto, del dolo o della colpa.
Ciò non esclude che la possibilità di casi di responsabilità oggettiva, in cui si prescinde totalmente
dall'elemento della colpa.
Questa ipotesi di responsabilità oggettiva si spiegano in relazione al fenomeno della massificazione
odierna dei danni, in quanto, a seguito degli enormi progressi dell'industria, siamo esposti ad una
serie di innumerevoli danni che anticamente non erano conosciuti. Di fronte a questa massificazione
dei danni, si è sentita dall'esigenza di rafforzare la tutela dei danneggiati, ammettendo nuovi casi di
responsabilità oggettiva e aggravando, in altri casi, la responsabilità dell'autore del danno.
I casi di responsabilità aggravata sono quelli in cui l'ordinamento pone a carico dell'autore del
danno la presunzione di responsabilità, consentendogli però la prova del caso fortuito.
Diversa nozione è quella di responsabilità oggettiva, in cui si prescinde totalmente dall'elemento
della colpa e, di conseguenza, l'autore del danno non può utilmente invocare il caso fortuito. Benché
si prescinda dall'elemento della colpa, siamo sempre nel tema dell'illecito, del danno ingiusto
arrecato in violazione del precetto generale del rispetto altrui. In questi casi l'ordinamento ritiene
prevalente l'esigenza di tutela dei terzi e quindi rende responsabile dell'autore del danno, anche se
abbia fatto tutto il possibile per evitarlo. Il danno arrecato, in questi casi, è un danno connesso
all'esercizio di un'attività o al possesso di una cosa che rende ragionevole far gravare il rischio dei
danni a terzi derivanti da quell'attività o da quel possesso, su chi esercita l'attività o sul possessore.

Esaminiamo i casi di responsabilità aggravata:


1. Responsabilità dei genitori: secondo il codice, i genitori sono responsabili per il danno
cagionato dal fatto illecito dei figli minori ex art. 2048 c.c. L’art. 2047, invece, riguarda la
responsabilità per il fatto degli incapaci, che grava su chi è tenuto alla loro sorveglianza. La
distinzione è importante: i genitori rispondono, infatti, del fatto dei figli minori, anche se
capaci di intendere e di volere; l’altro principio concerne gli incapaci affidati alla vigilanza
altrui, che risponderanno per il fatto dannoso. La responsabilità dei genitori è solidale: il
danneggiato può richiedere l'intero risarcimento del danno a ciascuno dei due. I genitori
rispondono a titolo di colpa presunta, in quanto ammessi a provare di non aver potuto
impedire il fatto (art. 2048, III comma). Per provare di non aver potuto impedire il fatto,
secondo la giurisprudenza, bisogna provare di avere sorvegliato adeguatamente il figlio.
Bisogna tenere conto peraltro che il figlio può aver raggiunto un sufficiente grado di maturità
e di autonomia, che rende il dovere di sorveglianza di contenuto diverso rispetto a quello che
concerne figli ancora in tenera età; quindi la sorveglianza deve essere esercitata in relazione
al grado di maturità del figlio. I genitori devono, per esempio, rendersi conto della condotta
del figlio, e capire se questa sia indirizzata verso attività illecite o penalmente vietate. Tale
dovere di sorveglianza viene sospeso quando i figli sono affidati agli insegnanti o quando
svolgono attività lavorativa presso un datore di lavoro, che saranno tenuti alla sorveglianza
del minore. La giurisprudenza in questi casi è piuttosto severa per quanto riguarda la prova
che consenta l'esenzione di responsabilità dei genitori e, infatti, non solo è richiesta la prova
dell'adeguata sorveglianza del minore, ma è richiesta anche la prova della buona
educazione del minore (si parte dall'idea che il minore abbia arrecato il danno in quanto non

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 76

abbia ricevuto una sufficiente educazione civica da parte dei genitori). Occorre distinguere la
responsabilità dei genitori da quella per il fatto dannoso degli incapaci, quest'ultima grava su
coloro che sono tenuti a sorveglianza degli incapaci stessi. I genitori rispondono per il fatto
dannoso commesso dei figli minori, anche se questi figli minori sono perfettamente in grado
di intendere e di volere;
2. Responsabilità a carico degli insegnanti: il comma II dell’art. 2048 dice che “i precettori e
coloro che insegnano un mestiere o un'arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto
illecito dei loro allievi e apprendisti, nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza”. Il riferimento
è agli insegnanti, pubblici e privati, incaricati di impartire al minore un insegnamento. Come
per i genitori, gli insegnanti rispondono per il fatto dei minori sotto la loro sorveglianza, ma
per una colpa propria, per avere cioè violato il dovere di vigilanza. Anche qui si è di fronte
a una colpa presunta, cioè la presunzione di negligente adempimento dell'obbligo di
sorveglianza degli allievi, superabile con la prova di aver esercitato la vigilanza mediante
l’adozione di tutte le misure necessarie e adeguate in relazione all’età e al grado di
maturazione dei giovani. (Ad esempio, uno studente di una scuola pubblica perdette la vista di
un occhio a causa del lancio di una penna da un compagno. Fu accertata la responsabilità
dell’insegnante, estesa anche al preside. I responsabili non furono in grado di provare di avere
adottato tutte le misure necessarie, anzi, fu dimostrato che la violazione del dovere di vigilanza
era palesa, in quanto l’insegnante si era allontanato dall’aula e aveva lasciato la sorveglianza
proprio all’autore del fatto). Bisogna considerare che l'obbligo di vigilanza è inteso a evitare
anche che il minore arrechi danno a sé stesso, non solo a terzi: in questi casi non vale il
concorso di colpa, perché, anche se il danneggiato ha concorso a produrre il danno che egli
stesso subito, il sorvegliante era tenuto ad evitare che il danneggiato si recasse danno;
3. Responsabilità per il fatto dannoso degli incapaci, ex art. 2047 c.c. Nel nostro ordinamento
l’incapace di intendere o di volere è esonerato da responsabilità per il danno arrecato a terzi.
Secondo la legge, in luogo dell'incapace risponde chi era tenuto alla sua sorveglianza, che
può esimersi da responsabilità solo se prova di non aver potuto impedire il fatto. I
presupposti di questa responsabilità sono: a) un fatto obbiettivamente illecito, compiuto
da persona incapace di intendere o di volere. Deve, cioè, trattarsi di un fatto di cui l'autore non
risponde solo in quanto incapace; se si tratta di un fatto che pur essendo dannoso non
costituisce causa di danno ingiusto, allora neppure il sorvegliante dovrà rispondere (ad
esempio, se un incapace è aggredito, potrà difendersi e l’eventuale danno arrecato all’aggressore
non è un illecito, perché c’è la legittima difesa); b) il sorvegliante deve provare di aver
adottato tutte le cautele normalmente appropriate in relazione allo stato e alle condizioni
dell'incapace. Qualora il danneggiato non ottenga risarcimento del danno dal sorvegliante, la
legge consente, comunque, che egli ottenga dal giudice, in considerazione delle condizioni
economiche delle parti, un equo indennizzo a carico dell’incapace (art. 2047, c. II);
4. Responsabilità per l'esercizio di attività pericolose, prevista dall’art. 2050 c.c.: “chiunque
cagiona danno ad altri nello svolgimento di un'attività pericolosa, per sua natura o per la
natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento se non prova di aver adottato tutte le
misure idonee ad evitare il danno”. Le attività pericolose sono quelle, come individuato dalla
norma, per loro stessa natura o per la caratteristica dei mezzi adoperati comportano la
rilevante possibilità del verificarsi di un danno, in quanto dotate di una spiccata potenzialità
offensiva. I casi qualificati dalla giurisprudenza come attività pericolose sono: attività edilizie,
produzione e distribuzione di gas in bombole, produzione di farmaci, la caccia, lo sci. La
responsabilità grava, in questi casi, su coloro che svolgono e su coloro che gestiscono l'attività
pericolosa. Gli utenti che eseguono un'attività pericolosa gestita da altri, sono responsabili nei
confronti di terzi e degli altri utenti, ma se essi stessi sono danneggiati, la regola della
responsabilità presunta si applica anche a loro favore. Ad esempio, lo sciatore che partecipa ad
una gara, organizzata da un ente, partecipa ad un'attività pericolosa, nell'esercizio della quale

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 77

può arrecare danno a terzi: in quel caso egli risponderà secondo la regola della responsabilità
aggravata. Se lo sciatore, a sua volta, rimanesse vittima di un fatto dannoso, (uscendo di pista,
andando a sbattere contro un albero e ferendosi), ci sarà una responsabilità aggravata nei
confronti dell'ente gestore, che dovrà provare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare
il danno. Ovviamente tale responsabilità grava sia sui privati che sugli enti pubblici;
5. Responsabilità da cose in custodia, ex art 2051 c.c.: “ciascuno è responsabile del danno
cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”. Questa è una
responsabilità che grava sul custode: colui che ha in custodia il bene, come possessore o
detentore. La cosa non deve essere intrinsecamente pericolosa, ma importa che abbia una
una idoneità al nocumento, cioè idoneità a produrre lesioni a persone o cose per una sua
naturale forza dinamica o per l'effetto di concause umane o naturali. Il caso più comune di
responsabilità da cosa in custodia è quello del cittadino che mette il piede in una buca che si
trova nella pubblica strada: in questo caso risponde la pubblica amministrazione, tenuta alla
manutenzione della strada, per non aver adottato tutte le misure idonee a evitare quel danno.
Oppure, ad esempio, un grande magazzino ha di recente risarcito il danno per una frattura alla
gamba ad un soggetto a seguito di una scivolata su un pavimento cosparso di acqua saponata,
senza indicazioni. Anche in questa ipotesi è ammessa una prova liberatoria, consistente nel
caso fortuito: cioè la prova che il danno si è verificato per un evento non prevedibile e non
superabile con la diligenza normalmente adeguata in relazione alla natura della cosa;
6. Danno arrecato da animali, ex art. 2052 c.c.: “il proprietario di un animale o chi se ne serve
per il tempo in cui lo ha in uso è responsabile dei danni cagionati dall'animale, sia che fosse sotto
la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”. E’ un caso
appartenente alla tradizione, anzi, che costituiva, in passato, una delle principali ipotesi di
responsabilità extracontrattuale. Si tratta di una responsabilità di cui difficilmente potrà
essere esonerato il proprietario o il custode dell'animale: non potrà essere invocata, infatti, la
natura mansueta dell'animale; inoltre, la prova liberatoria costituita dal caso fortuito sarà
molto difficile da dimostrare. E non varrà neppure addurre che la fuga dell’animale, perché,
se l'animale è fuggito, c'è da presumere una negligenza del proprietario o del custode. L’unico
modo, in concreto, per poter essere esonerati da responsabilità è quello di dimostrare che il
danno arrecato dall'animale è avvenuto in circostanze che depongono per il concorso di
colpa del danneggiato: ad esempio, il cane aggredisce un soggetto che l'aveva provocato con
un bastone. Il concorso di colpa attiene, quindi, a un elemento che incide sul nesso di
causalità, cioè il danno non deriva esclusivamente dal danneggiante, ma deriva dal fatto del
danneggiato, in parte o del tutto.

Esaminiamo adesso le ipotesi di responsabilità oggettiva, iniziando dalla responsabilità dei


preponenti, che il codice chiama padroni e committenti, descrivendo il fatto dei domestici e dei
commessi all'art. 2049 c.c.: “i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto
illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. Adottando una
terminologia più adeguata ai nostri giorni, si può dire che la responsabilità è di coloro che
utilizzano il lavoro altrui e che sono detti genericamente proponenti, cioè i datori di lavoro. Anche
al di fuori delle ipotesi di rapporti di lavoro subordinato, vanno intesi tutti i casi in cui ci sia un
rapporto di dipendenza anche nei confronti di un ente non-profit, quindi a titolo gratuito ma pur
sempre alle dipendenze dell'ente (il volontariato, ad esempio).
I proponenti sono responsabili a prescindere completamente dalla colpa, e non può essere
invocato il caso fortuito. In precedenza si ravvisava nella responsabilità dei proponenti una
responsabilità per colpa, consistente nell'avere negligentemente scelto il proprio dipendente o nel
non averlo diligentemente sorvegliato (culpa in eligendo e in vigilando). Questi orientamenti sono
superati e non ha nessuna rilevanza l'elemento della colpa: il proponente risponde del fatto del
proprio dipendente solo per il fatto che questi abbia arrecato ad altri un danno ingiusto, trattandosi

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 78

di responsabilità oggettiva in senso stretto. Il fondamento è l'esigenza che chi dispone dell'attività
lavorativa altrui per i propri fini assuma le conseguenze dannose di tale attività. I presupposti sono:
a) il rapporto di preposizione, riscontrabile ogni qualvolta una persona incarichi un'altra del
compimento di un'opera o di un servizio sotto la sua direzione;
b) il fatto illecito del preposto: occorre che il preposto abbia arrecato un danno ingiusto con
dolo o colpa e che non ci siano elementi che escludano l'antigiuridicità del fatto. In sostanza,
se non si configura un fatto illecito del preposto non c'è responsabilità del proponente;
c) la connessione tra incombenze e danno arrecato: occorre che il danno sia arrecato dal
preposto nell'esercizio dell’attività di cui è stato incaricato (ad esempio operai che arrecano
un danno, eseguendo dei lavori e usando negligentemente gli strumenti di lavoro). La
giurisprudenza allarga questa nozione di connessione, ammettendo che sia sufficiente anche
la cosiddetta occasionalità necessaria: si ritiene che sia sufficiente che l'esercizio delle
incombenze esponga il terzo all'ingerenza dannosa del preposto. Ad esempio, un impiegato di
banca che si appropria dei valori del cliente commette un illecito che non è compiuto
nell'esercizio delle sue incombenze (certamente le sue incombenze non comprendono
l'appropriazione dei valori altrui). Tuttavia, secondo la giurisprudenza, qui ricorre un ipotesi di
occasionalità necessaria: il danneggiato è stato esposto al pericolo in quanto ha richiesto un
servizio da parte della banca e questo è sufficiente per rendere la banca responsabile
dell'operato del proprio dipendente.

Si esamineranno ora una serie di figure di responsabilità speciale, in cui concorrono elementi di
responsabilità oggettiva e di responsabilità aggravata.

Responsabilità del produttore: la giurisprudenza, già da tempo, si è mostrata sensibile all'esigenza


di una più intensa tutela del danneggiato a fronte di danni causati da prodotti difettosi. Per arrivare
a ciò si è operata un’inversione dell'onere probatorio, stabilendo che, nell'ipotesi di danni causati
da prodotti difettosi, debba essere il produttore a dare la prova della mancanza di colpa. A seguito
della direttiva comunitaria n. 374 del 1985, poi, si è avuta una svolta normativa al riguardo: tale
direttiva ha in fatto dettato disposizioni ben precise agli stati membri in tema di responsabilità del
produttore; a seguito di questa direttiva fu emanato in Italia il dpr n. 224/1988, che ha introdotto
una disciplina particolare per quanto riguarda la responsabilità del produttore. Questa disciplina è
poi transitata, con alcune modifiche, nel codice del consumo, agli artt. 114 ss. Essa ha segnato una
regola di netto favore per il danneggiato da prodotti difettosi, sancendo alcuni principi che vanno
ben tenuti fermi: a) il produttore è responsabile per i danni provocati da prodotti difettosi; b) si
sancisce la responsabilità del fornitore se il produttore non è individuato; c) è data una
definizione di prodotto difettoso in termini molto ampi: il prodotto deve ritenersi difettoso
qualora non presenti la sicurezza che è ragionevole attendersi in relazione alle circostanze. Il difetto
può riguardare sia la fabbricazione, sia la progettazione, ma anche l'informazione relativa al
prodotto; ne consegue che rappresenta un difetto del prodotto stesso la mancata indicazione al
consumatore delle necessarie istruzioni per l'uso. Il produttore ha la possibilità di liberarsi dalla
responsabilità? Per quanto riguarda il difetto di fabbricazione, il produttore non ha scampo:
qualunque sia stata la causa che ha dato luogo al difetto di fabbricazione (anche se estranea alla sfera
di competenza del produttore), non esonera il medesimo da responsabilità. Le uniche prove
liberatorie consentite per difetto di fabbricazione sono la messa in circolazione del prodotto da
parte da altri e il fatto che il prodotto non fosse difettoso al momento dell’immissione in
circolazione. Per quanto riguarda invece i difetti di progettazione, il produttore è ammesso a
provare che le conoscenze scientifiche e tecniche del momento non consentivano di considerare
il prodotto come difettoso. Questa esimente di responsabilità ha dato luogo a notevoli dubbi, che
muovevano dal terribile episodio mondiale di un medicinale che, preso dalle donne in stato di
gravidanza, arrecava gravissime menomazioni ai nascituri. La difesa della casa farmaceutica si era

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 79

basata sul fatto che non era possibile allo stato accertare e prevedere la pericolosità di quel farmaco.
In applicazione di quella esimente di responsabilità, ancora oggi, quella casa farmaceutica potrebbe
sostenere che, in base alle conoscenze scientifiche e tecniche del momento non era possibile
accertare gli effetti dannosi del prodotto. Di questa preoccupazione si è fatta carico la Germania, che,
nel dare attuazione alla direttiva sulla responsabilità del produttore, ha espressamente escluso che
questa esimente si possa applicare a prodotti ad uso farmaceutico. La responsabilità del produttore
comporta il diritto del danneggiato al risarcimento del danno arrecato alla sua integrità fisica e del
danno arrecato a beni diversi da quello difettoso e destinati ad uso privato. Si tenga presente che è
prevista una franchigia di € 387, che il diritto al risarcimento del danno deve essere fatto valere
entro tre anni e non può essere azionato si sono passati 10 anni dalla messa in circolazione del
prodotto. Si applica anche qui il principio del concorso di colpa del danneggiato, perché se è stato
l'uso maldestro del prodotto a provocare il danno, il produttore non è responsabile. Va qui però
ricordato che il produttore deve dare le istruzioni adeguate per l'uso del prodotto, quindi se l'uso
maldestro avviene perché il consumatore non è stato adeguatamente informato allora il principio del
concorso di colpa non è operante. Il produttore non è responsabile il produttore se il consumatore ha
volontariamente usato il bene pur conoscendone il difetto e il pericolo che ne derivava; va
ulteriormente detto che le clausole di limitazione preventiva della responsabilità del produttore
nei confronti del danneggiato sono nulle. La disciplina sulla responsabilità del produttore, in origine,
lasciava fuori, i prodotti dell'agricoltura, della caccia e della pesca, salvo che si trattasse di
prodotti sottoposti a procedimento di trasformazione: successivamente è stata estesa (vedi
differenza fra albicocche e marmellata di albicocche). Questa disciplina speciale non esclude
l'applicazione della disciplina generale, né di altre norme a tutela del consumatore: così,
mentre questa disciplina riguarda la responsabilità extracontrattuale, è ben possibile che il
consumatore si avvalga della disciplina che attiene alla responsabilità contrattuale laddove questa
disciplina risulti più favorevole. In conclusione, per quanto riguarda i difetti di fabbricazione siamo
in presenza di una responsabilità oggettiva in senso proprio, perché il produttore è sempre
responsabile, quale che sia la causa che determina il difetto di fabbricazione. Con riguardo ai difetti
di progettazione e di informazione, invece, si rientra nell'area della responsabilità per colpa. Se
c'è difetto di progettazione, il produttore può dimostrare che non era possibile accertare il difetto del
prodotto sulla base delle conoscenze tecnico scientifiche del momento; per i difetti di informazione, il
produttore che informa il consumatore sulle istruzioni necessarie per l'uso del prodotto, non è
responsabile per colpa.

Responsabilità per danni da circolazione di veicoli. Il comma I dell’art. 2054 c.c. prevede che “il
conducente di un veicolo senza guida di rotaia è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o cose
dalla circolazione del veicolo, se non prova di fatto tutto il possibile per evitare il danno”. Chiariamo
intanto il concetto di veicoli: deve trattarsi di veicoli senza guida di rotaia, cioè veicoli di trasporto
terrestre a guida libera (automobili, carrozze, motociclette, filobus, etc). Per definire “circolazione
stradale” si deve tener conto dell'interpretazione che viene data correntemente dalla
giurisprudenza: qualsiasi utilizzazione della via pubblica, anche mediante la sosta del veicolo
(infatti, anche una vettura in sosta costituisce una forma di partecipazione alla circolazione stradale,
e può essere occasione di un pericolo d'urto con altri veicoli). Non si parla di circolazione quando il
veicolo non è in condizione di esplicare la propria potenzialità dannosa, ad esempio se trasportato da
altri veicoli. Responsabile è il conducente, cioè colui che aveva la guida del veicolo al momento del
verificarsi del danno. Avere la guida del veicolo significa averne i comandi di manovra, anche se
tali comandi non siano al momento esercitati (ad esempio, mancato freno a mano in pendenza). Il
conducente è ammesso a provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ma, stando al IV
comma dell’art. 2054, è anche responsabile per danni provocati da vizi di costruzione o da difetto
di manutenzione del veicolo. Qui abbiamo una responsabilità che è fondata, per un verso, su una
presunzione di colpa: se un soggetto arreca un danno con la sua vettura, si presume l’abbia

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 80

maldestramente usata ed è responsabile per colpa, anche se presunta. Il conducente è, per l’altro
verso, responsabile anche per responsabilità oggettiva, quando il danno deriva da vizio di
costruzione o da difetto di manutenzione (il danno arrecato dalla vettura, ad esempio, in quanto i
freni erano difettosi). Si potrebbe eccepire che il conducente non ha alcuna colpa su un difetto di
fabbrica, in effetti è vero, ma il testo della legge parla chiaramente di difetto di costruzione e quindi
dovrà essere ritenuto responsabile per colpa oggettiva anche il conducente.
Il II comma dell’art. 2054 stabilisce che: “in caso di scontro, fino a prova contraria, ciascuno dei
conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli”. Si riscontra una
singolare presunzione di responsabilità comune, dell'uno e dell'altro conducente, salva prova
contraria (ad esempio, in un incidente subiscono danno due vetture: in via presuntiva la colpa è di
entrambi i conducenti, perché ognuno ha concorso a produrre i danni all’altra parte, oltre i propri; si
applica, quindi, il concorso di colpa del danneggiato. Ovviamente, salvo prova contraria: una parte può
provare pertanto che il sinistro vada imputato al fatto doloso o colposo dell’altra). Oltre al conducente,
il codice civile amplia la sfera dei responsabili per danni da circolazione di veicoli, includendovi: il
proprietario della vettura, l'usufruttuario, l'acquirente con patto di riservato dominio, a cui
possiamo equiparare anche chi utilizza l'autovettura in base a un contratto di leasing. Questi
soggetti sono responsabili in solido col conducente, se non provano che la circolazione del veicolo
è avvenuta contro la loro volontà. Ciò significa che il danneggiato può rivolgersi, indifferentemente,
sia al proprietario che al conducente qualora questi sia una persona diversa. Si tratta sicuramente di
una responsabilità oggettiva, in quanto l'unica prova che concessa a questi soggetti è che l'uso della
vettura sia avvenuto contro la loro volontà. L’interpretazione giurisprudenziale è piuttosto ristretta:
non basta al proprietario, infatti, dimostrare che la vettura è stata utilizzata a sua insaputa, ma si
richiede la prova che il proprietario abbia specificamente vietato l'uso della vettura. Il proprietario e
gli altri soggetti ad esso equiparati non possono nemmeno invocare il vizio di costruzione né
tantomeno il difetto di manutenzione, perché, come il conducente, anche questi soggetti non sono
liberati in presenza di danni causati dal vizio di costruzione ed al difetto di manutenzione. La vettura,
in altri termini, è un bene potenzialmente dannoso di cui il proprietario si serve a proprio
vantaggio: ciò dà luogo alla responsabilità oggettiva. Sembra di ricorrere la massima secondo la
quale chi si giova di una cosa o di una persona, assume i rischi che possano derivare a terzi dall'uso
di quella cosa o dall'attività di quella persona. La vastità del fenomeno della circolazione
automobilistica e la gravità sociale dei pericoli che essa comporta hanno reso necessaria l'adozione
dell'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile sin dal 1969. Ciò perché, coinvolgendo
la responsabilità per danni da circolazione di veicoli più soggetti, non è detto che il danneggiato
possa ottenere da questi il risarcimento del danno. E’ possibile che tali soggetti siano insolventi o
meglio insolvibili, non offrendo una sufficiente garanzia patrimoniale per il danneggiato; inoltre, non
è sempre possibile l’identificazione del danneggiante o della vettura (può accadere che chi investe
persone o cose si dia alla fuga e non venga più reperito). In ragione di tutto ciò la legge prevede
l'istituto dell'assicurazione obbligatoria per evitare al danneggiato il rischio dell'insolvenza del
responsabile. Inoltre, per sopperire al rischio della mancata identificazione del responsabile, si è
previsto la costituzione di un fondo di solidarietà per le vittime della strada. Tuttavia, l'assicurazione
obbligatoria non sostituisce la tutela prevista dalla legge sulla responsabilità per danni da
circolazione di veicoli, ma integra questa tutela, restando quindi distinta e separata rispetto
all'istituto della responsabilità dettato dal codice civile.

La responsabilità per danni da rovina di edificio. Si tratta di una tradizionale figura di


responsabilità, risalente al diritto romano, in cui già si era avvertita l'esigenza di una particolare
tutela per coloro che venivano colpiti dai crolli delle costruzioni. Questa responsabilità è sancita
all’art. 2053 c.c.: “il proprietario di un edificio o di altra costruzione è responsabile dei danni cagionati
dalla loro rovina, salvo che provi che questa non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di
costruzione”. Primo presupposto di questa responsabilità è il danno derivante dalla rovina di una

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 81

costruzione: la nozione classica di rovina è quella di una disgregazione violenta di una costruzione
(ad esempio, crollo di un muro). La giurisprudenza ha ampliato estensivamente tale definizione fino
a ricomprendere anche guasti e malformazioni dell'edificio che causino danni a terzi (anche la
caduta di tegole rientra nella definizione). Secondo presupposto di questa responsabilità è che il
responsabile dev’essere proprietario dell'edificio, sia che si tratti di una persona fisica di un ente
giuridico. Ancora una volta la giurisprudenza ha ampliato l'applicazione di questa norma con
un'interpretazione estensiva, includendo tra i responsabili coloro che hanno sull'immobile un diritto
reale di godimento come l'usufrutto, l'uso o l'abitazione (l’affittuario non è titolare di un diritto
reale di godimento e quindi non rientra tra questi, ma può rispondere perché custode dell'edificio). Il
proprietario è esonerato da responsabilità se prova che la rovina non è dovuta a difetto di
manutenzione o a vizio di costruzione. Ciò vuol dire che il proprietario risponde a doppio
titolo, per responsabilità oggettiva e per responsabilità per colpa. Per quanto attiene al vizio di
costruzione non può dirsi che tale vizio andrebbe imputato al comportamento del proprietario, ma a
chi a suo tempo realizzò la costruzione. Non vi è luogo quindi per una valutazione in termini di
colpa del proprietario: se c'è un vizio da costruzione che cagiona un danno, il proprietario risponde
per tale danno, in base al segnalato principio secondo cui chi gode di un bene potenzialmente
dannoso è giusto che sopporti rischi dei danni che questo bene può recare a terzi. Per quanto
riguarda il difetto di manutenzione, invece, opera a pieno titolo il criterio della colpa. Rientra
infatti nella normale diligenza del proprietario controllare, vigilare, sullo stato del suo edificio e
intervenire quindi quando si creano delle situazioni di pericolo per i terzi.

La responsabilità del proprietario e dei titolari di altri diritti reali di godimento può accompagnarsi
alla responsabilità in via solidale di altri soggetti che abbiano colposamente o dolosamente
concorso a provocare la rovina dell'edificio. Il vizio di costruzione sarà normalmente imputabile a chi
ha eseguito la costruzione, che il più delle volte è un appaltatore; se questi esegue una costruzione
che presenta dei difetti, è contrattualmente responsabile nei confronti del committente. Si tratta di
una responsabilità particolarmente pesante, perché generalmente la responsabilità contrattuale per
inadempimento si prescrive in cinque anni, in questo caso invece l'appaltatore è responsabile se, nel
corso di dieci anni dal compimento dell'opera, la costruzione rovina in tutto o in parte. Questa
responsabilità è prevista nei confronti del committente, ma anche verso i suoi aventi causa (cioè
coloro ai quali il committente abbia alienato la proprietà della costruzione). Siamo quindi nel campo
della responsabilità contrattuale, che, però, la giurisprudenza allarga, estendendola anche a favore
dei terzi. Quindi, se la rovina dell'edificio trova causa in un vizio della costruzione, risponderà in ogni
caso il proprietario, ma accanto ad esso potrà rispondere anche l'appaltatore, per avere i
inesattamente eseguito l'opera. Questa responsabilità concorre con il custode. Ad esempio, se il
committente incarica l'appaltatore di eseguire delle opere di restauro di un immobile, è possibile che
nell'esecuzione dell'opera di restauro si determini il crollo di una parte dell'edificio. Qui sarà
responsabile, comunque, il proprietario, salvo che lo stesso dimostri che la rovina non è dovuta a difetto
di manutenzione o a vizio di costruzione: se ciò occorre, il danno andrà imputato in via esclusiva alla
negligente attività dell'appaltatore.

6.2 > La responsabilità scolastica – Parte speciale

Il danno cagionato dall’allievo a sé stesso


Analizziamo i profili di responsabilità scolastica e del docente. Ricordiamo che l’istituto scolastico
assume delle responsabilità nei confronti degli iscritti, che possono essere fatte valere a vario titolo.
L’Istituto adempie ai propri obblighi tramite una serie di soggetti, cioè il personale scolastico: la
responsabilità nell’ambito scolastico è strettamente collegata al rapporto che sussiste tra docente e
scuola. E’ per responsabilità dei docenti che la scuola a volte non adempie ai propri obblighi, ma,
spessissimo, la stessa risponde per i propri docenti e può rivalersi su essi.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 82

Nelle scuole pubbliche sono previste particolari tutele (i docenti rispondono solo per dolo o colpa
grave); nelle private, la scuola può sicuramente rivalersi sui docenti.
Considerato l’ampio settore della responsabilità della scuola verso gli allievi, bisogna distinguere, in
relazione al danno che riceve l’allievo:
" La responsabilità per il danno cagionato dall’allievo a sé stesso in una situazione in cui è sotto
la vigilanza della scuola;
" La responsabilità per il danno cagionato dall’allievo ad altri (vedi prossimo paragrafo).

Il danno cagionato dall’allievo a sé stesso si inquadra nella responsabilità da inadempimento di


obbligazione, perciò di tipo contrattuale: ciò perché, all’atto dell’iscrizione, sorgono delle
obbligazioni di istruzione e vigilanza a carico della scuola. Il danno collegato all’inadempimento delle
prestazioni che sono oggetto di tale prestazione è risarcibile ai sensi dell’art. 1218 c.c., rubricato
responsabilità del debitore. Esso stabilisce che: “il debitore che non esegue esattamente la
prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l'inadempimento o il ritardo è
stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
La norma stabilisce, in via generale, che se la norma ha assunto un obbligo, ove si cagioni un danno a
causa dell’inadempimento dell’obbligazione, il debitore dovrà provare che tale inadempimento o
ritardo non gli è imputabile.
Nel caso della scuola, questa dovrà provare di essere stata diligenza. Il dovere di diligenza è quindi
strettamente legato all’adempimento di obbligazione, ed è previsto dall’art. 1776: “Nell'adempiere
l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell'adempimento delle
obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo
alla natura dell'attività esercitata.”
Il secondo comma è particolarmente pregnante nel caso della scuola, trattandosi sicuramente di
“esercizio di un’attività personale”. Il docente (che adempie per conto della scuola), quindi, è tenuto a
una diligenza specifica, legata alla sua professionalità.

Quando un alunno cagiona un danno a sé stesso, si rientra nel campo del danno non patrimoniale
ex art. 2059, nello specifico all’integrità psico-fisica, la responsabilità dei quali prima si riconduceva
all’esistenza di una fattispecie di reato. Oggi basta che vi sia lesione di un interesse fondamentale
della persona umana tutelato dalla Costituzione. Quindi, se l'alunno, facendosi male, arreca a sé
stesso un danno non patrimoniale rilevante a livello costituzionale, la scuola, se considerata
responsabile, deve risarcire il danno.
L’art. 61, legge 11 luglio 1980, n. 312, disciplina la responsabilità patrimoniale del personale
direttivo, docente, educativo e non docente:
“La responsabilità patrimoniale del personale direttivo, docente, educativo e non docente della scuola
materna, elementare, secondaria ed artistica dello Stato e delle istituzioni educative statali per danni
arrecati direttamente all'Amministrazione in connessione a comportamenti degli alunni è limitata ai
soli casi di dolo o colpa grave nell'esercizio della vigilanza sugli alunni stessi.
La limitazione di cui al comma precedente si applica anche alla responsabilità del predetto personale
verso l'Amministrazione che risarcisca il terzo dei danni subiti per comportamenti degli alunni
sottoposti alla vigilanza. Salvo rivalsa nei casi di dolo o colpa grave, la Amministrazione si surroga al
personale medesimo nelle responsabilità civili derivanti da azioni giudiziarie promosse da terzi.”
Si tratta quindi di una norma che ha due funzioni: da un lato, limita la vera responsabilità
patrimoniale dei soggetti di cui al primo comma ai casi di dolo o colpa grave e, dall'altro lato, surroga
l'amministrazione al personale medesimo nella responsabilità civile derivante da azione giudiziaria.
Il personale non risponde, quindi, per colpa lieve: ad esempio, un docente riceve una telefonata,
importante e attesa dal proprio studio, e questo si allontana sulla porta dell’aula per rispondere. In quel
momento un alunno cagiona danno a sé stesso. Un esempio di colpa grave si ha in casi di avvisaglie di

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 83

danno e di mancato intervento del docente (il telefono è squillato mentre l’allievo si è arrampicato su un
armadio).

Casi giurisprudenziali concernenti il danno dell'alunno cagiona sé stesso:


1. Cassazione 3 marzo 2010, n. 5067
Tizio, allievo di un istituto pubblico di istruzione, subisce un infortunio cadendo a causa del fondo
sconnesso del campo, esterno all’edificio scolastico, utilizzato per la pratica sportiva nelle ore di
educazione fisica. Il caso denota che è possibile incorrere in responsabilità anche in strutture esterne
l’edificio, che devono essere idonee e non pericolose;
2. Cassazione 26 aprile 2010, n. 9906
Tizio, allievo di una scuola materna, viene lasciato solo in bagno dalla maestra. Tirata la cordicella
dello scarico, imprevedibilmente, si sgancia il perno che trattiene in alto la cordicella stessa e il
bambino, a causa dell’impatto, subisce una lesione grave;
3. Cassazione 15 febbraio 2011, n. 3680
Tizio, allievo di un istituto pubblico di istruzione, viene addentato alla mano da un cane incustodito e
senza museruola nel cortile antistante l’edificio scolastico, mentre si accingeva a uscire al termine delle
lezioni. Si ha responsabilità perché le strutture della scuola devono essere ben sorvegliate, tanto da
evitare qualsiasi danno all’allievo;
4. Cassazione 8 febbraio 2012, n. 1769
Tizio, allievo di un istituto pubblico di istruzione, mentre si trovava in gita scolastica, cade dalla
terrazza posta a livello del balcone della stanza (sita al secondo piano) dell’albergo scelto dalla scuola,
provocandosi gravissime lesioni. In particolare, una volta scavalcato il parapetto in muratura posto
all’estremità del balcone della sua stanza, Tizio si inoltra, in compagnia dell’amica, che le aveva fornito
uno «spinello» poco prima, nella contigua terrazza a livello, non protetta da alcun parapetto né
provvista di segnali di pericolo, su cui si trova un canale di scolo dello stesso colore della terrazza,
quindi non facilmente visibile. Inciampando sul canale di scolo, Tizio precipita da un’altezza di 12 metri.
Ricorre responsabilità della scuola per negligenza nell’onere di sorveglianza, nello specifico la scuola
doveva verificare prima gli ambienti pericolosi per gli allievi;
5. Cassazione 4 ottobre 2013, n. 22752
Tizio, allievo di una scuola elementare, scende dallo «scuolabus» direttamente nel cortile dell’istituto
scolastico, delimitato da un muretto che confina con il sottostante locale caldaia. Accidentalmente cade
da tale muretto, precipitando al livello del seminterrato e riportando varie lesioni. Anche questa è
responsabilità della scuola.

Si ribadisce quindi che, in tema di responsabilità civile (di cui all’art. 2048 ss. ) è ormai principio
pacificamente riconosciuto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (Sez. Un. 27 giugno 2002
n. 9346) quello per cui la responsabilità dell’istituto scolastica e dell’insegnante, nel caso di
danno cagionato dall’alunno a se stesso, è di natura contrattuale. Fra allievo ed istituto
scolastico - con l’accoglimento della domanda di iscrizione e con la conseguente ammissione dello
stesso alla scuola - si instaura, infatti, un vincolo negoziale, dal quale sorge, a carico dell’istituto,
l’obbligazione di vigilare sulla sua sicurezza e incolumità nel periodo in cui questi fruisce della
prestazione scolastica in tutte le sue espressioni (anche fuori dall’Istituto), anche al fine di evitare
che l’allievo procuri danno a se stesso.

Quanto al precettore, dipendente dell’istituto scolastico, tra insegnante ed allievo si instaura, per
contatto sociale, un rapporto giuridico (che quindi può dare luogo ad una responsabilità di tipo
contrattuale), nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di
istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, al fine di evitare che
l’allievo si procuri, da solo, un danno alla persona.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 84

La ricorrenza di un’ipotesi di responsabilità di tipo contrattuale comporta - in ordine all’onere


probatorio - che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei
confronti dell’istituto scolastico e dell’insegnante, l’attore dovrà soltanto provare, ai sensi dell’art.
1218 cc, che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto scolastico, mentre
sarà onere dei convenuti (quindi la scuola o gli insegnanti) dimostrare che l’evento dannoso è stato
determinato da causa agli stessi non imputabile.

Il danno cagionato dall’allievo agli altri


Verifichiamo i casi di responsabilità per il danno cagionato dall’allievo agli altri.
Una breve premessa: quando si iscrive un ragazzo a scuola, lo si fa perché la scuola adempia agli
obblighi di istruzione e anche di vigilanza, che contemplano la salvaguardia da aggressione da
altri. Se un alunno subisce un aggressione da un compagno, l’insegnante dovrebbe considerarsi
responsabile a causa dell’omissione dei doveri di vigilanza connessi all’iscrizione a scuola. Quindi, i
doveri di vigilanza contemplano anche il danno ricevuto da altri da parte dell’allievo. La
giurisprudenza tratta tale ipotesi come una responsabilità da fatto illecito, non facendola derivare da
un obbligo di sorveglianza che discende dal rapporto obbligatorio con la scuola, attivato con
l’iscrizione. Dovremmo distinguere le ipotesi in cui un alunno, scappando dalla scuola, cagioni un
danno a un terzo, fuori dalla scuola: qui sta cagionando un danno a un soggetto con cui la scuola
non ha alcun obbligo di vigilanza o salvaguardia, e risponderà l’insegnante per mancata vigilanza in
via extracontrattuale. Se invece il danno viene cagionato all’interno della scuola ai danni di un
altro allievo (che doveva avere garantita la salvaguardia), dovrebbe essere una responsabilità
contrattuale (per inadempimento degli obblighi di sorveglianza dell’alunno vittima), ma la
giurisprudenza la inquadra comunque nell’ambito della responsabilità extracontrattuale.

Andiamo a vedere quali sono le regole da applicare; anzitutto l’art. 2043, essendo una
responsabilità da fatto illecito. Ci sono, al riguardo, delle ipotesi di responsabilità indiretta, nelle
quali per un soggetto risponde un altro, e fra queste rientrano quelle inerenti i bambini. La regola
principale in merito è l’art. 2046, che parla di capacità di intendere e di volere: “non risponde delle
conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità di intendere o di volere al momento in cui lo ha
commesso, a meno che lo stato d'incapacità derivi da sua colpa”. Quindi, non risponde in proprio chi
non aveva capacità di intendere e di volere; con questa “capacità” si intende l’essere in grado di
manifestare i meccanismi volitivi in grado di manifestare scelte consapevoli. In sostanza, chi agisce
consapevolmente risponde, chi non agisce consapevolmente non risponde. In questo caso, ad
esempio nella scuola e trattandosi di bambini, c’è un soggetto tenuto alla sorveglianza, che risponde
del fatto dell’incapace e che avrebbe dovuto sorvegliare diligentemente. Lo dice, infatti l’art. 2047:
“in caso di danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere, il risarcimento è dovuto da chi
è tenuto alla sorveglianza dell'incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto”. Ad
esempio, un insegnante sta accompagnando un bambino della scuola materna in bagno ed entra
nell’istituto un ladro che aggredisce l’insegnante per derubarla. Il bambino, spaventato, scappa e va a
commettere un danno ingiusto: l’insegnante potrà ben provare di non aver potuto impedire il fatto.
In ogni caso, sono l’insegnante e la scuola a dover provare di non essere responsabili: ci troviamo
infatti di fronte a un caso di responsabilità aggravata, e a differenza di ciò che accade con l’art.
2043, è il soggetto a doversi esonerare e non il danneggiato a doverne provare la responsabilità.

L’art. 2047, al II comma, precisa che “nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il
risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza, il giudice, in considerazione delle condizioni economiche
delle parti, può condannare l'autore del danno ad un'equa indennità”. Pensiamo ad esempio, il caso di
un bambino danneggiante molto benestante e un bambino danneggiato estremamente povero: se il
danneggiato non può ricevere risarcimento dall’insegnante (per non responsabilità o per non
solvibilità), il giudice può condannare direttamente l’incapace che abbia un proprio patrimonio.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 85

L’art. 2048 c.c. è norma che segue la precedente e riguarda un altro tipo di minore: “Responsabilità
dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d'arte – Il padre e la madre, o il tutore sono
responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone
soggette alla tutela che abitano con essi. La stessa disposizione si applica all’affiliante. I precettori e
coloro che insegnano un mestiere o un'arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei
loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. Le persone indicate dai commi
precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non avere potuto impedire il fatto.”
La norma in questione parla di figli minori, ma lo fa riferendosi al fatto illecito; e il fatto illecito
comporta che ci sia una colpa, una responsabilità: si tratta quindi di figli minori (ma anche alcuni
figli maggiorenni possono andare a scuola) che sono già capaci di intendere e di volere e che
rispondono in proprio, ma potrebbero non avere un patrimonio. Questi si distinguono dai minori
incapaci di intendere e di volere, che sono sottoposti alla vigilanza dell’insegnante e della scuola, e
che in quell’ipotesi rispondono ex art. 2047c.c.
L’art. 2048 si collega all’art. 2046 e parla di soggetti capaci di intendere e di volere che possono
rispondere con il loro patrimonio; vi è però, sempre, una responsabilità concorrente di chi è tenuto
alla vigilanza.
Chi è tenuto alla vigilanza, tuttavia, può essere chiamato al risarcimento del danno per intero
secondo la regola prevista dall’art. 2055 per i casi di imputabilità a più soggetti: il danneggiato può
rivolgersi per l’intero a uno dei danneggianti per il risarcimento dell’intero ammontare, secondo le
norme della responsabilità solidale. Ricordiamo che il danno non patrimoniale all’allievo è
considerato ormai risarcibile in tutti i casi in cui si accerti la violazione di un interesse fondamentale
della persona umana tutelato costituzionalmente; quindi la scuola risponde anche in questo caso.

Ricordiamo le norme che riguardano la responsabilità dell'amministrazione, con l’art. 61 l.


11/07/1980 n. 312, disciplina della responsabilità patrimoniale del personale direttivo
docente, educativo e non docente:
Comma I: “la responsabilità patrimoniale del personale direttivo docente, educativo e non docente
della scuola materna, elementare, secondaria ed artistica dello Stato e delle istituzioni educative statali,
per danni arrecati direttamente all'amministrazione, in connessione a comportamenti degli alunni, è
limitata ai soli casi di dolo o colpa grave nell'esercizio della vigilanza sugli alunni stessi”.
Quindi, se gli alunni cagionano direttamente un danno all'amministrazione, la responsabilità del
docente si ha solo nei casi di dolo o colpa grave. Questa limitazione si ha anche quando la
responsabilità del docente si connette al fatto che l’amministrazione ha dovuto risarcire un terzo
per comportamenti degli allievi soggetti a vigilanza. L’amministrazione quindi può rivalersi
sull’insegnante in dolo o colpa grave, surrogandosi al docente in giudizio nelle cause civili (ma si
servirà del docente per dimostrare eventualmente di non dover incorrere in responsabilità.)
Ciò è sancito dal comma II dello stesso articolo: “La limitazione di cui al comma precedente si applica
anche alla responsabilità del predetto personale verso l'Amministrazione che risarcisca il terzo dei
danni subiti per comportamenti degli alunni sottoposti alla vigilanza. Salvo rivalsa nei casi di dolo o
colpa grave, la Amministrazione si surroga al personale medesimo nelle responsabilità civili derivanti
da azioni giudiziarie promosse da terzi.”

Analizziamo un caso reale. Sentenza Cassazione 15/05/2013 n. 11.751:


Tizia, allieva maggiorenne di un istituto pubblico di istruzione secondaria, decide di partecipare ad una
recita in costume medievale, che si deve tenere, durante le ore scolastiche, nell’Aula Magna.
Sempronio, anch’egli allievo maggiorenne che intende partecipare alla recita, per fare uno scherzo
appicca il fuoco al costume indossato dalla compagna di classe Caia. Tizia accorre in soccorso di Caia e
riesce a spegnere le fiamme prima che queste investano il corpo dell'amica, ma il costume di Tizia

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 86

durante tale intervento di aiuto prende fuoco in modo molto rapido e, a causa di tale episodio, la
ragazza soccorritrice riporta gravi ustioni con esiti deturpanti.
L’episodio, dovuto all'infiammabilità dei tessuti utilizzati per i costumi, si verifica nell’atrio della scuola,
ove alcuni dei compagni si sono temporaneamente spostati. L'infermeria dell'istituto risulta
eccezionalmente chiusa e mancano estintori nelle vicinanze. Inoltre, al momento del fatto, non è
presente il personale addetto alla sorveglianza dei locali scolastici.

Preventivamente, si deve verificare se è applicabile l’art. 2048 c.c. nei confronti dell’insegnante,
tenuto alla sorveglianza degli alunni al momento del fatto. La norma però deve considerarsi
applicabile solo agli allievi maggiorenni.
Il secondo comma, infatti, sancisce proprio la responsabilità degli insegnanti per i danni cagionati dai
loro allievi nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. E non fa espresso riferimento alla minore
età degli allievi, come invece avviene nel primo comma. La norma deve ritenersi applicabile
esclusivamente nel caso di minore età: verrebbe, altrimenti, a essere pregiudicato il principio di
uguaglianza (si favorirebbe ingiustamente un soggetto che, nonostante la capacità di agire,
risulterebbe garantito da altri solo perché ancora studente, frequentante un istituto scolastico o
perché hanno finito gli studi prima della maggiore età). Quindi non può rispondere la scuola o
l’insegnante per mancanza di sorveglianza.
Non sussistendo neanche la responsabilità dei genitori per culpa in educando, avendo ormai il
soggetto raggiunto la maggiore età, l’alunno risponde quindi certamente in proprio, ex art. 2043
c.c. (si tenga presente che, ad esempio, un soggetto maggiorenne, anche con l’opposizione di genitori e
insegnanti, può uscire ed entrare dall’edificio scolastico quando vuole).
Quali sono, allora, le responsabilità della scuola? Secondo la giurisprudenza maggioritaria, l’Istituto
scolastico, che opera tramite l’insegnante, è responsabile, in via contrattuale, nei confronti
dell’allievo per le lesioni da questo riportate durante le ore scolastiche.
Si afferma una responsabilità da “contatto sociale”, con natura contrattuale: in seguito alla
relazione che si instaura tra insegnante ed allievi sorge un vincolo giuridico dal quale nascono
obblighi di comportamento di diversa natura, diretti a garantire che siano tutelati i molteplici
interessi esposti a pericolo in connessione al contatto stesso. Con l’accoglimento della domanda di
iscrizione alla scuola si instaura certamente un rapporto di tipo contrattuale tra l’istituto
scolastico e l’allievo, da cui scaturisce l’obbligo per l’istituto e per i suoi dipendenti, non solo di
istruire ed educare gli studenti ma anche quello di proteggere e di vigilare sulla incolumità fisica e
sulla sicurezza degli stessi, sia per fatto proprio che per il fatto di terzi, da adempiere con la diligenza
richiesta dallo status professionale che viene in rilievo.
Gli obblighi di vigilanza si attenuano con la progressiva crescita dell’alunno. Quando questi
diventa maggiorenne cessa il potere-dovere di sorveglianza.
Pertanto, con riferimento al caso citato:
1. È certamente ravvisabile la responsabilità di Sempronio ai sensi dell’art. 2043 c.c.;
2. Si deve escludere la responsabilità dell’insegnante tenuto alla vigilanza (e alla protezione)
degli alunni nelle ore in cui si è verificato l’episodio dannoso: Tizia, Caia e Sempronio, tutti e
tre maggiorenni e quindi autonomi, si erano infatti legittimamente allontanati nell’atrio della
scuola. Non sussiste quindi una colpa dell’insegnante per fatto proprio, e in particolare per la
violazione degli obblighi di protezione nei confronti di Caia, avuto riguardo alla diligenza
normalmente richiesta dallo status professionale rivestito, tenuto conto del grado di
autonomia degli allievi: l’insegnante non era, infatti, tenuto a seguire gli stessi, ormai
maggiorenni, nell’atrio;
3. Sussiste una responsabilità di tipo contrattuale dell’Istituto scolastico (e non
dell’insegnante): i costumi di scena sono risultati di tessuto altamente infiammabile e,
nonostante ciò, si è constatata la mancanza di estintori e di ausiliari. Rileva quindi il difetto, da

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 87

parte dell’istituto scolastico, di quella diligenza ordinariamente richiesta, cui lo stesso era
tenuto ad uniformarsi.

La responsabilità in caso di gita scolastica – caso pratico


Si passerà, nei prossimi paragrafi, all’analisi di alcuni casi portati all'attenzione della Corte di
Cassazione. In tutti i casi si presterà attenzione alla massima fornita dalla Cassazione. Ricordiamo
che c'è un ufficio, all'interno da Corte di Cassazione, detto “ufficio del massimario”, che dà la massima
della sentenza: estrapola quello che dovrebbe essere il succo della sentenza. Quella massima diventa
un principio che, non solo viene costantemente riportato nei testi di dottrina, ma orienta i giudici
nell'applicazione di quei principi quando si trovano di fronte a casi dello stesso tipo.
Iniziamo con un caso che riguarda la responsabilità durante le gite scolastiche.

Fattispecie: Un istituto scolastico pubblico organizza una gita. Nel corso della gita, alcuni alunni
decidono di farsi scattare una fotografia mentre compiono un gesto estremamente pericoloso. In
particolare, si arrampicano per raggiungere la vetta di una costruzione utilizzando una catena
ancorata ad alcuni pilastri. Crolla un pilastro e un alunno riporta gravi lesioni.
L'alunno minorenne - nella specie un ragazzino di 13 anni - non ha la capacità di stare in giudizio se
non è rappresentato dai genitori, non avendo la capacità di agire. Quindi non ha legittimazione
processuale e dovrà essere rappresentato da entrambi i genitori, a norma dell’art. 2 del codice civile
(“la maggiore età è fissata al compimento del 18º anno. Con la maggiore età si acquista la capacità di
compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un'età diversa. Sono salve le leggi speciali che
stabiliscono un'età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro. In tal caso il minore è
abilitato all'esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro”) e dell’art. 75 c.p.c.
(“sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere.
Le persone che non hanno il libero esercizio dei diritti non possono stare in giudizio se non
rappresentate, assistite o autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità”).
I genitori del minore chiedono in giudizio il risarcimento dei danni, sia in proprio (quali genitori
lesi in via riflessa per il danno subito dal figlio), sia in rappresentanza del minore (per il
danneggiamento da lui subito), su cui esercitano la responsabilità genitoriale, nei confronti sia del
Ministero della pubblica istruzione (come soggetto a cui fanno capo l’Istituto e il relativo personale),
sia del proprietario della tenuta in cui si è verificato il danno (responsabile per danno cagionato da
cose in custodia ex art. 2051).
I genitori ricorrono perché hanno la responsabilità genitoriale. Dal 2012, con la riforma del diritto
della filiazione, intervenuta con l. 219/2012, il minore non è più soggetto alla potestà genitoriale
(prima della riforma del 1975 si chiamava patria potestà), si parla di responsabilità, in quanto si è
ritenuto che il rapporto tra genitore e minore sia più rispondente alla nostra realtà sociale se
inquadrato non più in termini di potestà, bensì in termini di responsabilità del genitore.
In primo grado, il Tribunale rigetta la domanda. I genitori propongono impugnazione e nel
frattempo il danneggiato diventa maggiorenne.
La Corte d’appello rigetta la domanda nei confronti del proprietario della tenuta (perché ritiene
che il fatto dei ragazzi che, imprevedibilmente, si sono arrampicati su quei pilastri per la foto integri
il caso fortuito descritto dall’art. 2051 e quindi esoneri il proprietario o il custode di quelle cose
pericolose), ma la accoglie nei confronti del Ministero, condannato a pagare circa 52.000 €.

Il Ministero ricorre per la cassazione della sentenza di fronte alla suprema Corte: con il primo
motivo di ricorso si lamenta per una pretesa violazione e falsa applicazione degli articoli 1218 e
2697 c.c.
Il primo articolo riguarda in via generale il risarcimento del danno nel caso di responsabilità da
inadempimento dell'obbligazione; il secondo (inutile) articolo sancisce una regola ovvia: “chi vuol
provare a far valere in giudizio un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, chi

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 88

eccepisce l'inefficacia di tali fatti, ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o l'istinto, deve provare i
fatti su cui l'accezione si fonda”.
L’art. 1218 è importante in questa sede, in quanto da questo articolo si desume un onere probatorio
forte che grava sul debitore, se si inquadra la responsabilità dell'insegnante, all'interno della
responsabilità contrattuale per inadempimento dell'obbligazione. Il creditore (l'alunno e in questo
caso i genitori) quindi deve provare semplicemente il titolo dell'obbligazione, cioè l’iscrizione a
quell'istituto scolastico. In questo caso sarà l’Istituto a dover dimostrare che il danno si è verificato
per una causa ad esso non imputabile.
Il Ministero specifica il ricorso nel seguente modo: la corte d'appello non avrebbe fatto corretta
applicazione delle citate norme, perché non ha inquadrato il tipo di prestazione di vigilanza che
potrebbe in concreto essere preteso nei confronti degli insegnanti .
Ai fini dell'esonero dalla responsabilità di cui all'articolo 2048 c.c., infatti, il comportamento
tenuto dal creditore danneggiato può integrare gli estremi del caso fortuito o della forza maggiore; il
che avviene quando il danneggiato "scelga autonomamente di porre in essere un comportamento
che, in maniera del tutto imprevedibile ed imprevedibile, e per questo eccezionale, metta a
repentaglio la propria incolumità fisica". Nel caso in esame, infatti – sostiene il Ministero - i docenti
avrebbero potuto salvaguardare l'incolumità del ragazzo solo usando delle misure di coercizione
fisica volto ad impedire qualsiasi movimento corporeo.
L’altro motivo di ricorso riguarda un vizio di motivazione (ritenuta insufficiente) circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio: il comportamento tenuto dagli alunni.
Secondo il Ministero, la motivazione sarebbe apodittica e priva di riscontri, perché la corte d'appello
avrebbe dovuto valutare se, in considerazione delle specifiche circostanze di tempo e di luogo, si
potesse immaginare l'uso improprio della cosa da parte dei ragazzi e solo in un momento successivo
verificare se i docenti potessero o meno impedirlo. Quindi, se non si poteva immaginare un uso
improprio da parte di ragazzi, nessuna colpa potrebbe essere ascritta all'istituto scolastico. E quindi,
il docente che non avrebbe potuto immaginare l’uso improprio da parte dei ragazzi di quei pilastri,
come avrebbe potuto impedirlo? Quindi, secondo il ricorrente, la motivazione della corte d'appello
sarebbe sorretta da considerazioni prive di riscontri. Perché non terrebbe presente il fatto che quel
comportamento così imprevedibile degli alunni era da considerare in maniera centrale, quindi da
esonerare da responsabilità l'istituto.

La Cassazione risponde che siamo di fronte a due distinti titoli di responsabilità quando si parla di
danno cagionato dagli allievi: uno sussiste quando il danno viene cagionato dall'allievo a sé stesso, l’
sussiste quando il danno viene cagionato dall'allievo ad altri.
L’art. 2048 c.c., citato dal Ministero, si inquadra nell'ambito della responsabilità extracontrattuale,
cioè per fatto illecito cagionato da un minore ad altri (perciò tale articolo è inquadrato nell'ambito
della responsabilità extracontrattuale, al di fuori di un rapporto). Mentre, quando il danno viene
cagionato a sé stesso è responsabile di chi deve stare attento a che quel danno non si realizzi, in
questo caso all'istituto scolastico, titolare di obbligazioni di salvaguardia.
La responsabilità dell'istituto scolastico e dell'insegnante, in questa fattispecie, non ha natura
extracontrattuale, bensì contrattuale. Quanto all'istituto scolastico - l'accoglimento della domanda
di iscrizione, con la conseguente ammissione dell'allievo alla scuola, determina l'instaurazione di un
vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell'istituto l'obbligazione di vigilare sulla sicurezza e
l'incolumità dell'allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue
espressioni. In relazione al danno che l'allievo abbia causato a sé l’art. 2048 non trova applicazione,
poiché non può ritenersi esistente, nel caso, un fatto illecito obiettivamente antigiuridico.
La responsabilità dell'istituto scolastico e dell'insegnante, nel caso del danno cagionato dall'allievo a
sé stesso, ha natura contrattuale e si applica quindi l'art. 1218, con il pesante onere probatorio a
carico del debitore già descritto. Nel caso di specie, come già detto, l'attore (i genitori) deve provare
che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto negoziale con la scuola (e nel

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 89

caso di specie così è stato, visto che si trattava di una gita scolastica), mentre sulla scuola grava
l'onere di dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da cause non imputabili né alla
scuola né all'insegnante.
Qualora, invece, si tratti di fatto illecito causato dall'allievo a terzi, valgono le regole del citato
articolo 2048 c.c., per cui, al fine di superare la presunzione di responsabilità che grava
sull'insegnante, non è sufficiente la sola dimostrazione di non essere stato in grado di effettuare un
intervento correttivo o repressivo dopo l'inizio della serie causale sfociante nella produzione del
danno, ma è necessario anche dimostrare di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure
disciplinari o organizzative idonee a evitare il sorgere di una situazione di pericolo. Quindi,
responsabilità pesante ambo i casi a carico della scuola.

In questa fattispecie, la responsabilità, secondo la Cassazione, sono di due tipi, perché da un lato c'è il
danno cagionato dall'allievo a sé stesso, per una sua intenzione di andare a salire sul pilastro e di
arrampicarsi ai pilastri, dall'altro lato c'è però anche l'applicazione dell’art. 2048, perché il danno,
quest'allievo, lo ha avuto cagionato anche a causa del comportamento degli altri: i suoi compagni
sono saliti sulla catena, e salendo tutti insieme, il peso di tutti ha comportato il danno.
Quindi, non è una responsabilità legata unicamente all’art. 1218, per danno cagionato dall'allievo a sé
stesso, perché il danno è stato cagionato in concorrenza, sia dall'allievo che ha subito il danno, sia
dagli altri compagni a questo allievo.

La Corte di Cassazione riporta, poi, quanto riscontrato dalla corte d'appello: l'incidente si è
verificato mentre la scolaresca si era fermata nei pressi della tenuta per fare alcune fotografie, in
quell'occasione, un gruppo di sei o sette ragazzi, tra i quali vi era il danneggiato, era salito su una
catena di ferro esistente tra due pilastri di mattoni, determinando in tal modo il distacco della catena
e il crollo di uno dei pilastri. Le modalità di questo fatto consentivano di ritenere provata la
sussistenza del caso fortuito solo in relazione alla posizione del proprietario della tenuta, il quale non
ha degli obblighi di vigilanza verso quegli alunni.
Il Ministero, invece, deve rispondere: è esclusa la sussistenza della prova liberatoria, in quanto non
sono stati forniti in giudizio degli elementi dai quali si poteva desumere l'imprevedibilità del fatto,
che avrebbero dimostrato la mancanza di colpa degli insegnanti, perché non era emerso che docenti
ed accompagnatori avessero adottato misure idonee a evitare il verificarsi di eventi dannosi.

Mancanza della prova richiesta. I giudici precisano che "naturale vivacità dei ragazzi di tredici anni"
faceva sì che l'uso improprio della catena non potesse considerarsi un evento imprevedibile per gli
insegnanti. La Suprema Corte afferma che appare evidentemente assurda l'idea, sostenuta nel primo
motivo di ricorso, che i docenti, allo scopo di impedire la prosecuzione dell'azione rivelatasi poi
dannosa, non avessero altra possibilità se non quella di esercitare una sorta di coercizione fisica sui
ragazzi. La sentenza rileva che si stava svolgendo una gita scolastica e che i ragazzi stavano facendo
alcune fotografie, contesto nel quale è evidente che sarebbe stato onere dei docenti attivarsi in modo
da fare sì che i ragazzi - in numero di sei o sette - scendessero dalla catena immediatamente, in modo
da evitare di creare un contesto potenzialmente pericoloso.
Per altro, la sollecitazione di una catena fino al punto di fare crollare il pilastro al quale essa era
attaccata "deve" essersi protratta per un minimo di tempo, nel quale una qualche iniziativa poteva
essere assunta. Ma nessuna prova liberatoria è stata fornita al riguardo.

La massima della sentenza: La responsabilità dell’istituto scolastico per i danni che l’allievo causa a
sé stesso ha natura contrattuale e, dunque, ai sensi dell’art. 1218 c.c., l’istituto ha l’onere di provare
che il danno sia stato determinato da causa non imputabile alla scuola o all’insegnante, per la cui
dimostrazione occorre che siano provate le misure adottate dai docenti per evitare il verificarsi di
eventi dannosi. Nel caso di specie, la suprema Corte ha riconosciuto la responsabilità del Ministero

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 90

per i danni subiti da un alunno nel corso di una gita scolastica, in cui, issatosi con altri compagni su di
una catena ancorata a dei pilastri per farsi fotografare, ne era precipitato per il crollo di un pilastro;
la corte, in base all’accertamento compiuto dal giudice di merito, ha evidenziando che i docenti
avrebbero potuto attivarsi per far scendere immediatamente gli alunni dalla catena, e che le modalità
del fatto, richiedendo di necessità un minimo di tempo per il crollo del pilastro, avrebbero consentito
l’assunzione di una qualche iniziativa.

La responsabilità per mancata ammissione dello studente – caso pratico


Il caso che si analizzerà riguarda la mancata ammissione del minore alla frequenza presso un
determinato istituto scolastico. La sentenza è Cassazione 17 Marzo 2014 n. 6150.

La fattispecie: Nell'estate 2001 i genitori hanno chiesto la preiscrizione del proprio figlio alla classe
prima elementare presso un circolo didattico ALFA, con assegnazione del minore a un determinato
plesso, sito nei pressi dell’abitazione del minore stesso; tuttavia, l'assegnazione a tale plesso è stata
negata. Così i genitori hanno chiesto il trasferimento a un Istituto comprensivo BETA. Il 18 settembre
2001 questo secondo istituto ha comunicato di non poter accogliere l'alunno, a causa del mancato
rilascio del nulla osta da parte della scuola di provenienza.
Rimaste senza esito varie richieste del nulla osta, i ricorrenti hanno chiesto e ottenuto
provvedimento d’urgenza ai sensi dell'articolo 700 del cod. proc. civ., che ha ingiunto alle due scuole
il perfezionamento dell'iscrizione all'Istituto comprensivo.

Il provvedimento d'urgenza citato è quello di cui all’art. 700 c.p.c.: “chi ha fondato motivo di temere
che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da
un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d'urgenza,
che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della
decisione sul merito”.
Si tratta di una norma che viene utilizzata nei casi in cui c'è urgenza di evitare un pregiudizio, perché
prolungandosi la situazione in questione, il pregiudizio può diventare eccessivo. In questi casi il
giudice verifica la presenza o meno del fumus boni iuris (apparenza che vi sia effettivamente un
diritto dalla parte che adisce) e un periculum in mora (il pericolo insito nel ritardo): si tratta dei due
elementi la cui sussistenza permette di richiedere ed ottenere un provvedimento di urgenza.

Il giudice, nel caso di specie, ingiunge allora alle due scuole il perfezionamento dell'iscrizione a
seguito della procedura descritta.
Benché la procedura d'urgenza acceleri i tempi del processo, nel caso di specie il bambino ha iniziato
a frequentare la prima elementare in ritardo, a gennaio 2002.
Nella causa di merito seguita al provvedimento ex articolo 700 cod. proc. civ., i genitori hanno chiesto
il risarcimento dei danni subiti dalla vicenda, in proprio e quali rappresentanti del minore.

In primo grado, il Tribunale ha accolto la domanda nei confronti del Circolo didattico ALFA (ha
considerato esonerato da ogni responsabilità l'Istituto comprensivo BETA, che non poteva iscrivere
l’allievo senza il nulla osta rilasciato dal Circolo Didattico ALFA), quantificando equitativamente (ex
art. 1226 c.c.) in euro 2.500,00 i danni morali subiti dalla madre, risultanti da apposita Consulenza
Tecnica d’Ufficio, esperita nel corso del giudizio, ed in euro 2.500,00 il danno esistenziale del minore.

La sentenza viene riformata dalla corte d'appello: essa esclude che la vicenda abbia comportato
qualche lesione del diritto del minore all'istruzione, perché questi è stato comunque iscritto scuola
nel 2002 e il percorso scolastico è stato parificato a quello degli altri studenti: non si può quindi dire
che subito un danno esistenziale per mancata istruzione. Quindi, per la corte d'appello, il danno del
minore non deve essere risarcito. La corte d'appello nega anche che sia derivato un pregiudizio ai

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 91

genitori del minore. Nessun danno morale viene quindi riconosciuto dalla corte d'appello alla
madre, a differenza di quanto era avvenuto in primo grado. Addirittura, i soggetti che avevano
chiesto il risarcimento del danno vengono condannati dalla corte d'appello a rifondere i 2/3 delle
spese del giudizio all'altra parte.

I genitori del minore ricorrono per la cassazione della sentenza alla suprema Corte.
La Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente la lesione del diritto del minore all'iscrizione alla
scuola, ma ha confermato il rigetto di tutte le domande risarcitorie, ritenendo che la Corte di
merito abbia congruamente motivato in ordine all'insussistenza di alcun danno risarcibile in favore
del minore e della madre; inoltre ha posto a carico degli odierni ricorrenti i 2/3 delle spese
dell'intero giudizio.

Si opta allora per un nuovo giudizio, che si può instaurare contro una sentenza della Corte di
Cassazione, anche quando la sentenza sia passata in giudicato. Si tratta del giudizio di revocazione:
tale giudizio nasce sulla base di alcune circostanze talmente importanti da far cadere addirittura una
sentenza passata in giudicato della Corte di Cassazione.

La revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione ai sensi dell'art. 391 bis e 395 cod. proc. civ.,
n. 4 può essere chiesta per errore di fatto: vanno dichiarate inammissibili tutte le altre censure
proposte dai ricorrenti nella parte in cui deducono violazioni di legge o di principi di diritto. E
proprio sulla base dell’errore di fatto viene richiesta la revocazione.
Quanto alle censure di vizio di motivazione, neanche esse integrano cause di revocazione della
sentenza, se non quando si traducano nell'omesso esame di uno specifico motivo di ricorso, o
nell'omessa o errata percezione - nel formulare la motivazione - di una circostanza di fatto rilevante
ai fini della decisione.
Sotto questo profilo il ricorso per revocazione appare fondato per quanto concerne i danni
lamentati dalla madre. Ricordiamo che, generalmente, i vizi di motivazione non integrano causa
per la revocazione. Per quanto riguarda tali danni, c'è, tuttavia, qualcosa che non va nella
motivazione talmente forte (cioè il vizio di motivazione), che diventa una omissione di un esame di
uno specifico motivo di ricorso o un'omessa o errata percezione di alcuni fatti rilevanti per la
decisione e quindi c'è un errore di fatto rilevante per la revocazione.

I ricorrenti avevano infatti specificamente dedotto, con il ricorso per cassazione respinto dalla
sentenza impugnata, che la sentenza di appello ha rigettato la domanda risarcitoria senza alcuna
motivazione, trascurando anche di prendere in esame le risultanze della CTU (consulenza tecnica
d’ufficio) esperita nel corso del giudizio di primo grado, da cui risulta che la madre è stata vittima -
per effetto degli ostacoli frapposti all'iscrizione a scuola del figlio - di uno stato di stress emotivo
rilevante quale danno non patrimoniale; tanto che sulla base di tali accertamenti il Tribunale le aveva
liquidato in risarcimento la somma di € 2.500,00.

I ricorrenti hanno denunciato il vizio di motivazione, con specifico riferimento al capo della
sentenza di appello che ha disatteso le risultanze della CTU, non curandosene e non dando rilievo al
danno da stress che era stata accertato.
Su questo punto, e su tutte le domande attinenti alla liquidazione dei danni, il ricorso era stato
respinto dalla Corte di cassazione con la seguente motivazione: "il giudice di merito tuttavia… ha
comunque in fatto escluso, con congrua motivazione, l'esistenza di un danno risarcibile tanto in capo al
minore, quanto in capo alla madre, cosicché la decisione appare corretta".

Per quanto concerne i danni reclamati in nome del minore, la motivazione della Corte di appello
è effettivamente congrua e argomentata, in quanto rileva che le parti non hanno offerto alcuna

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 92

dimostrazione del fatto che il minore non sia stato valutato dagli insegnanti, nel periodo di mancata
regolare iscrizione; che sia stato escluso da specifiche attività scolastiche complementari, quali gite e
spettacoli, che abbia riportato altre conseguenze pregiudizievoli dalla mancata copertura
assicurativa, e così via. Né i ricorrenti hanno prospettato alla Corte di cassazione la sussistenza di
specifiche risultanze probatorie in contrario, essendosi limitati nel ricorso a ribadire generiche voci
di danno, tutte prospettate in astratto e sul piano delle mere possibilità.
Per questa parte, pertanto, la Corte di cassazione non è incorsa in omissione alcuna ne' in alcun
errore di fatto, nell'affermare che la sentenza di appello è stata correttamente motivata.

Per quanto concerne, invece, i danni reclamati dalla madre sulla base delle risultanze delle
indagini peritali, la motivazione della Corte di appello è effettivamente insufficiente e apodittica,
poiché non menziona affatto gli accertamenti contenuti nella CTU.
L'omissione è stata più volte prospettata dai ricorrenti nel ricorso per cassazione che ha dato luogo
alla sentenza impugnata e la motivazione adottata dalla Corte di Cassazione per respingere tale
parte del motivo di ricorso risulta essere effettivamente incorsa in errore di fatto.
La Corte, infatti, ha ritenuto sufficiente e congrua la motivazione della sentenza di appello anch'essa
con motivazione apodittica e omettendo di prendere in esame uno specifico elemento di prova
rilevante ai fini della decisione.
Su questo punto il ricorso per revocazione appare fondato e deve essere accolto. Ne consegue
l'accoglimento del ricorso a suo tempo proposto contro la sentenza di appello, per questo specifico
aspetto. La motivazione della sentenza è insufficiente, nella parte in cui ha respinto la domanda della
madre di risarcimento dei danni, omettendo di prendere in esame le risultanze della CTU, e illogica,
nella parte in cui ha ritenuto che - data la mancanza di prova di alcun pregiudizio subito dal minore -
anche il danno della madre è da ritenere insussistente. Ciò perché si tratta di due danni diversi: è
vero che non è stato provato alcun danno al minore in merito al diritto all’istruzione, non può dirsi
che, non essendoci danno per il minore, non ce ne sia stato per la madre.

Elemento sufficiente a provocare le angosce del genitore è anche il mero timore dei danni che
potrebbero derivare al figlio (nella specie, un bimbo di sei anni, alla sua prima esperienza
scolastica), a fronte degli ostacoli frapposti dalla burocrazia alla sua educazione.
In secondo luogo e soprattutto, la mancata prova in termini giudizialmente ineccepibili dei danni
subiti dal minore non consente di escludere che un'oggettiva lesione dei diritti dello stesso vi
sia stata e che di tale lesione la madre abbia effettivamente sofferto. Infatti era stato già provato
che il minore aveva subito una lesione, ma non era tale da comportare un risarcimento del danno.
Si può dire che, a tale effetto, sia sufficiente la lesione subita dal minore a giustificare lo stress
subito dalla madre, pur in mancanza di prova specifica (la CTU) di danni specifici risarcibili in
favore del minore stesso. Quindi, il fatto che vi sia anche la CTU, non fa che confermare quanto detto.
Va ribadito che il comportamento del Circolo Didattico ALFA ha oggettivamente integrato un vero e
proprio sopruso in danno dei genitori del minore, poiché il nulla-osta al trasferimento è stato loro
negato senza alcuna giustificazione; tanto che la Corte di cassazione ha affermato, con la sentenza qui
impugnata, che la sentenza di appello deve essere corretta nella parte in cui ha escluso che vi sia
stata lesione del diritto del minore all'istruzione.
In sostanza, la sentenza d'appello era stata modificata ma solo in via di inquadramento
giuridico: mentre la corte d'appello aveva escluso qualsiasi lesione, la corte di Cassazione dice che la
lesione c'è stata ma non c'è stato il danno specifico carico del minore.
In sostanza è mancata la motivazione della sentenza della Corte di Cassazione e nella sentenza della
corte di appello, perché il totale diniego a tutte le vittime di ogni risarcimento dei danni avrebbe
richiesto una più ampia e specifica motivazione che nella specie è mancata. Del resto, non poteva
essere altrimenti, perché non si sarebbe potuto motivare contro una consulenza tecnica d'ufficio che

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 93

dice che lo stress è esistito; e, secondo la Cassazione, tale stress è, per la madre, da considerare
automatico, anche in assenza di lesione dei diritti del figlio.

La responsabilità in caso di recita scolastica – caso pratico


Il caso che si analizzerà in questo paragrafo riguarda la responsabilità durante le recite
organizzate dalla scuola. Anche in questo caso si prenderà in analisi una sentenza di cassazione che
crea un modello di responsabilità. Si tratta di Cassazione n. 11751 del 15 maggio 2013:

La fattispecie: Una studentessa maggiorenne, in orario di lezione, presso un Istituto Statale


d’istruzione superiore, partecipando all'annuale recita natalizia, indossa un costume da angelo.
Un compagno di scuola maggiorenne, per gioco, decide di appiccare fuoco con un accendino alle ali del
costume di altra compagna, anch’essa vestita da angelo.
Mentre la prima studentessa, qui citata, cerca di spegnere le fiamme – soccorrendo la compagna e
cercando di staccare le ali dal costume - il suo costume si incendia, e la ragazza riporta gravi ustioni
con esiti deturpanti.

I genitori della danneggiata (che diventa, intanto, maggiorenne nel corso del giudizio), chiedono così
la condanna in solido del M.I.U.R. e del ragazzo maggiorenne, autore dell’incendio alla prima
ragazza, al risarcimento danni (circa 500.000 €), per il danno della ragazza e per quello in proprio.
Il M.I.U.R., in sede di giudizio deduce, che ci sono dei fatti di interruzione del nesso di causalità fra
il comportamento ascrivibile al personale della scuola e quanto avvenuto:
- durante lo svolgimento dei vari spettacoli, mentre tutti gli altri alunni si trovano in aula
magna, nella quale si svolge la rappresentazione, un gruppo di essi esce e sosta nell'atrio e nel
pianerottolo esterno (gli studenti, fra cui alcuni maggiorenni, si sono allontanati dal posto
dove sarebbero stati sottoposti alla vigilanza della scuola);
- lì il ragazzo maggiorenne dà fuoco al costume della compagna, anch'essa maggiorenne,
prontamente soccorsa dagli ausiliari, nell’attesa dell’arrivo di un ambulanza (quindi si tratta
di soggetti nel pieno della propria responsabilità e che non devono essere sorvegliati;
inoltre la scuola ha comunque prestato intervento);
- la causa petendi (cioè il titolo) nei confronti dell’Istituto scolastico non è chiarita: se la
domanda viene proposta ex art. 2048 c.c., comma 2, deve considerarsi infondata, poiché si
tratta di danneggiante maggiorenne. Per tale soggetto sono infatti attenuati i doveri di
vigilanza degli insegnanti (si tenta di sfruttare un vulnus della difesa della danneggiata. Quindi
il risarcimento andrebbe chiesto a norma dell’art. 2043, ma in tal caso i soggetti non si
conoscono e non sussiste, quindi, alcun obbligo di vigilanza);
- peraltro, nell'atrio sono presenti gli ausiliari, per la vigilanza sugli allievi (nulla può essere
ascritto in termini di inadempimento dell’obbligo di vigilanza);
- il fatto doloso (e imprevedibile) del ragazzo interrompe ogni nesso di causalità (in realtà
si vuole dire che non può essere ascritta alcuna colpa alla scuola in virtù di tale
comportamento, che esclude quello di tutti gli altri).

Il ragazzo deduce, dal suo canto, che certamente comprende e ammette che tutto è scaturito dal
proprio comportamento. Tuttavia, si dice non colpevole perché il danno che viene patito dalla
ragazza danneggiata che lo chiama in causa non è legato alla sua colpa, in quanto costui ha appiccato
fuoco alle ali di un'altra compagna. Il danno è stato, invece, cagionato dall'intervento di soccorso
posto in essere dalla diretta danneggiata. Quindi mancherebbe il nesso causale, e di conseguenza
colpa del ragazzo; sarebbe colpa della stessa danneggiata che ha prestato soccorso all'altra
compagna, restandone deturpata.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 94

Primo grado di giudizio e appello:


• Il Tribunale respinge la domanda nei confronti del Ministero (sfruttando la debolezza formale
dell’impianto accusatorio) per carenza di responsabilità ex art. 2048 c.c., 2° co., essendo
l'autore dell'illecito maggiore di età. Adduce che, inoltre, l’attrice non ha indicato
tempestivamente dall'attrice dei profili di responsabilità ex art. 2043 c.c. causati da
carenze organizzative della scuola (prospettate soltanto in sede di memoria istruttoria - che
possono solo integrare la domanda ma non stravolgerla, ex art 183 c.p.c. - e poi in comparsa
conclusionale) né da inadempimento. Il Tribunale invece accoglie la domanda nei confronti
del ragazzo;
• La Corte di appello di Venezia respinge l'appello del ragazzo ma accoglie l'appello incidentale
della danneggiata, per i seguenti motivi:
1. l'intervento soccorritore a favore della compagna è da considerare assolutamente
prevedibile: nessuna interruzione del nesso causale può quindi ravvisarsi. Il compagno
avrebbe potuto prevedere che in seguito all’incendio anche altre ragazze avrebbero potuto
bruciarsi nel tentativo di soccorrere la compagna. Sempre secondo la corte d’appello,
quando i costumi sono di materiale altamente infiammabile, come nella specie, le fiamme
possono propagarsi anche senza alcun intervento di soccorso, e quindi la ragazza avrebbe
potuto danneggiarsi anche senza soccorrere la compagna);
2. la domanda della ragazza danneggiata è sufficientemente specifica per fondare la
responsabilità contrattuale dell'Istituto scolastico in base alle circostanze addotte: in
citazione si è infatti precisato che il sinistro avviene a scuola, durante l'orario delle lezioni,
in occasione della recita scolastica, causato dalle fiamme appiccate con un accendino da un
compagno di scuola, quindi i fatti possono costituire fondamento sia della responsabilità
contrattuale che extracontrattuale. In entrambi i casi è chiara l'imputazione all'Istituto
dell'inadempimento agli obblighi di vigilanza sulla sicurezza ed incolumità degli allievi,
per il tempo in cui fruiscono della prestazione scolastica, derivanti dal vincolo negoziale
che si costituisce all'atto dell'iscrizione. Ne scaturisce, quindi, l’onere dell'Istituto di
provare l'adempimento: viceversa, l'istruttoria ha permesso di accertare la mancanza di
estintori e la chiusura dell’infermeria (e quindi una responsabilità da inadempimento a
carico della scuola). Quindi si tratterebbe di responsabilità contrattuale ex art. 1218 e non
di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 o 2048 e nulla rileva che nella domanda
della ragazza danneggiata si sia fatto riferimento a questi ultimi due articoli e non all’art.
1218: è compito del giudice a dover trovare la norma da applicare.

Il Ministero ricorre per la cassazione della sentenza, lamentando una pretesa violazione di norme
riguardanti il procedimento, cioè gli artt. 183 e 345 cod. proc. civ. Poiché il procedimento
giurisdizionale si svolge secondo un determinato iter previsto dal codice di procedura civile, in primo
grado ciò che conta è la domanda iniziale e in appello non possono essere presentate nuove
domande. Inoltre, in primo grado, le memorie istruttorie possono solo precisare la domanda
dell’atto di citazione ma non stravolgerla, a norma di quanto stabilito dall’art. 183 c.c.
Pare che le carenze organizzative, si rinvengano infatti solo nelle memorie istruttorie e non nell'atto
di citazione iniziale con cui ha avuto origine il processo di primo grado. Inoltre il Ministero lamenta
violazione del divieto dei nova in appello ex art. 345 c.p.c.: “Nel giudizio d’appello non possono
proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Possono
tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il
risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. Non possono proporsi nuove eccezioni, che non
siano rilevabili anche d’ufficio. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti
nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo
grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio.”

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 95

Quindi, non essendo stato - nell’atto di citazione originale - richiesto di far valere l’inadempimento
contrattuale, è impossibile farlo valere in appello.

Il Ministero lamenta, inoltre, che la Corte d’appello non si è attenuta al principio secondo il quale se è
proposta una domanda di risarcimento genericamente articolata deve esser qualificata come
domanda ex art. 2043 c.c.: quindi la pronuncia di domanda di responsabilità contrattuale è da
considerare extrapetita in violazione del principio di terzietà del giudice, ma anche in violazione
del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato.

Il giudizio della Suprema Corte: per quanto riguarda il giudizio di primo grado, ha fatto bene il
tribunale ha inquadrare la domanda nei confronti del ministero ex art. 2048, perché era una
domanda generica e quindi si doveva ritenerla una domanda di risarcimento di danno generico per
fatto illecito, e quindi infondata proprio perché l’art. 2048, riguarda il minore allievo della scuola e
qui, il fatto illecito è stato posto in essere da un maggiorenne.
Solo successivamente la domanda si è articolata sulle carenze organizzative, tra cui la violazione di
norme di prevenzione incendi per l'edilizia scolastica e, l‘inadempimento da parte degli insegnanti
dell'obbligo di vietare di fumare a scuola: il Tribunale legittimamente non ha esaminato questa
successiva articolazione della domanda, che soltanto con la memoria di replica (ultimo atto del
processo) l'attrice ha qualificato in termini di accertamento dell’inadempimento (e quindi di
responsabilità contrattuale). Questa domanda nuova inammissibile ha precluso al Ministero di
provare che gli estintori c'erano e che l'infermeria era aperta. Se questa domanda nuova fosse stata
fatta prima, il Ministero si sarebbe potuto difendere.

Tutto ciò, però, non vale per la sentenza di appello, perché tutte le circostanze di fatto contenute
nella citazione della danneggiata (è allieva di istituto pubblico di istruzione secondaria; si tratta di
recita natalizia annuale in costume da angelo, approvata dai docenti, da rappresentare durante
l'orario di lezione; si incendia un costume in tessuto altamente infiammabile; l’incendio alle ali è
appiccato da un compagno a una compagna vicina, immediatamente soccorsa dall'attrice) poste a
fondamento della decisione di appello, hanno agevolmente consentito al ministero consentito di
difendersi in grado di appello e quindi non si tratta di domande (o circostanze) nuove.
Quindi, la difesa del Ministero, in appello, non è stata compromessa.
Al giudice di primo grado ciò ha consentito di impostare e svolgere l'istruttoria ritenuta necessaria
per la decisione della controversia, da cui erano emerse la mancanza di estintori nell'aula magna ove
si svolgeva la recita o nei luoghi immediatamente adiacenti, la chiusura dell'infermeria e la mancanza
di pronto intervento degli ausiliari (tant'è che il primo soccorso alla compagna viene prestato dalla
danneggiata). Tutte queste circostanze, presenti nell'appello e anche nel giudizio di primo grado,
sono in ogni caso state tirate fuori dalla danneggiata. E’ dimostrato chiaramente che c'è una
responsabilità del Ministero, che a quel punto si sarebbe potuto difendere; pertanto per la
Cassazione è giusto che il ministero sia stato condannato.
Si desume il seguente principio dalla sentenza di Cassazione: «La domanda e l'accoglimento di
iscrizione alla frequentazione di una scuola - nella specie statale - fondano un vincolo giuridico tra
l'allievo e l'istituto, da cui scaturisce, a carico dei dipendenti di questo, appartenenti all'apparato
organizzativo dello Stato, accanto all'obbligo principale di istruire ed educare, quello accessorio di
proteggere e vigilare sull'incolumità fisica e sulla sicurezza degli allievi, sia per fatto proprio, adottando
tutte le precauzioni del caso, che di terzi, fornendo le relative indicazioni ed impartendo le conseguenti
prescrizioni, e da adempiere, per il tempo in cui gli allievi fruiscono della prestazione scolastica, con la
diligenza esigibile dallo status professionale rivestito, sulla cui competenza e conseguente prudenza
costoro hanno fatto affidamento, anche quali educatori e precettori del comportamento civile e della
solidarietà sociale, valori costituzionalmente protetti, e da inculcare senza il limite del raggiungimento
della maggiore età dell'allievo».

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 96

I suddetti obblighi accessori scaturenti dal contatto sociale fra insegnanti e allievi trovano positiva
disciplina nel R.D. 30 aprile 1924, n. 965, art. 39, (Ordinamento interno dei regi istituti di istruzione
media, di primo e secondo grado): "I Professori devono trovarsi nell'Istituto almeno cinque minuti
prima che cominci la propria lezione" e "assistere all'ingresso e all'uscita dei propri alunni”.
Tra l'altro, l’art. 61 della l. 312/1980, l’art. 61 della legge n. 312 del 1980 prevede che
l'Amministrazione si surroghi al personale direttivo, docente, educativo e non docente della
scuola non solo materna ed elementare, ma anche secondaria, nella responsabilità civile per i danni
arrecati in connessione a comportamenti degli alunni durante la loro permanenza a scuola.

Quindi correttamente, sulla base dei fatti rappresentati dall'attrice nell'atto di citazione, il giudice di
secondo grado ha qualificato la domanda della danneggiata come domanda di risarcimento per
responsabilità per inadempimento, a carico del Ministero e dei suoi dipendenti.
Il regime probatorio è quindi quello indicato dall'art. 1218 c.c., in quanto si è riscontrata la
violazione di un diritto alla protezione (che può esser garantito anche avvalendosi del personale
ausiliario, da aumentare a seconda delle circostanze concrete).
L'amministrazione non ha provato di aver adottato tutti i provvedimenti informativi,
organizzativi, anche di emergenza, e prescrittivi, anche disciplinari, e non ha impartito le relative
informazioni sia ai partecipanti alla recita, sia agli spettatori, atti a garantire la sicurezza della scuola,
anche nello svolgimento delle attività ricreative per impedire l'evento verificatosi. L’incendio non
può considerarsi imprevedibile stante la pericolosità del costume assai infiammabile indossato dagli
allievi. La Cassazione, pertanto, accetta quanto riportato dalla corte d'appello, rigetta il ricorso del
Ministero e lo condanna al pagamento di € 7000 a titolo di spese legali alla parte danneggiata.

La responsabilità scolastica in caso di violenza sessuale – caso pratico


Il caso che si analizzerà in questo paragrafo è recente ed è caratterizzato da un disvalore sociale
enorme: si tratta della responsabilità della scuola connessa a un episodio di violenza sessuale
avvenuto nei bagni della scuola stessa.

Fattispecie: L’istituto scolastico (nello specifico, una scuola con personale comunale) ospita degli
operai per l’effettuazione di lavori di manutenzione su incarico del Comune. Un operaio accede al
bagno riservato alle scolare, minorenni, e violenta una ragazzina. In sede penale, il criminale viene
condannato con sentenza che passa in giudicato.

In sede civile i genitori della minorenne (secondo il combinato disposto dell’art. 2 c.c. e dell’art. 75
c.p.c. sulla capacità di agire e stare in giudizio) chiedono in giudizio il risarcimento dei danni
(patrimoniali e non, in connessione con l’art. 185 c.p.) nei confronti del criminale, del Ministero della
pubblica istruzione e del Comune. In primo grado, il Tribunale accoglie la domanda nei confronti del
criminale e del Ministero, la rigetta nei confronti del Comune.
Il Ministero, in sede di impugnazione, intende far valere il difetto di legittimazione passiva: il
giudice avrebbe infatti ritenuto sussistente una responsabilità contrattuale nonostante sia stata
invocata una responsabilità extracontrattuale (su questa si basava la richiesta dei genitori).
I genitori hanno rischiato, quindi, di vedersi rigettata la domanda perché il loro legale ha invocato
delle norme che non erano quelle da invocare: è giusto parlare di fatto illecito nei confronti del
criminale, ma c'è già reato ex art. 185 c.p. che si può invocare per avere risarcimento dal criminale.
Invece, invocare l’art. 2048, per una fattispecie di questo genere è fuori luogo, in quanto
quest'articolo parla del fatto illecito commesso dal minore e quindi della responsabilità dei genitori o
dei precettori: nell’art. 2048 non si tratta di fatto illecito commesso dal minore ma di un minore
vittima del fatto illecito. Il legale dei genitori invoca anche l’art. 2049, perché, in questo caso vuole far
vincere la responsabilità del Comune (in virtù della sua posizione di datore di lavoro del criminale e

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 97

della relativa responsabilità.) Questo articolo è invece utilizzato bene ma non riguarda la
responsabilità scolastica. Sulla base di questi errori si fondano i motivi di ricorso del Ministero.

Tuttavia, spesso i giudici cercano di ovviare ai deficit di alcune domande formulate con qualche
errore di argomentazione da parte degli avvocati. La Corte di appello rigetta l’impugnazione,
affermando che il giudice di primo grado ha correttamente esercitato i propri poteri relativi alla
qualificazione della domanda, interpretando e qualificando come domanda contrattuale di
responsabilità quella proposta, ex artt. 2043, 2048 e 2049 cod. civ., facendo leva sull'obbligo di
vigilanza del Ministero. In sostanza, la domanda faceva riferimento alla normativa relativa alla
responsabilità extracontrattuale, ma il tribunale l’ha qualificata come domanda relativa alla
responsabilità contrattuale, perché faceva leva contemporaneamente sull’obbligo di vigilanza.

Il Ministero ricorre per cassazione della sentenza, deducendo violazione dell'art. 112 c.p.c.,
sull’ultrapetizione (per un principio di disponibilità dell'azione da parte di soggetti, il giudice non
può andare oltre quanto è stato richiesto). Il Ministero deduce che il giudice ha ritenuto corretta la
qualificazione quale «responsabilità contrattuale», nonostante rientri nel potere dispositivo della
parte proporre cumulativamente i due tipi di azione (la parte avrebbe potuto presentare la domanda
come responsabilità extracontrattuale e contrattuale, ma non l’ha fatto e il giudice è andato oltre il
petitum, qualificando autonomamente la domanda come responsabilità contrattuale).

La sentenza della Corte di Cassazione su questo punto dice che da oltre un decennio è principio
consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, che il titolo della responsabilità del Ministero
della pubblica istruzione, nel caso di alunni che subiscano danni durante il tempo in cui dovrebbero
esser sorvegliati dal personale della scuola, può essere duplice e fatto valere contemporaneamente:
- Se si vuol far valere l'adempimento dell'obbligo specificamente assunto dall'autore del danno,
quindi si vuol far valere l'inadempimento all'obbligo di sorveglianza, si ha una
responsabilità contrattuale;
- Se invece la domanda è fondata su un fatto illecito, cagionato da un soggetto che ha violato il
generale dovere di non ledere gli altri, allora la domanda è da qualificare come
extracontrattuale.
Questa giurisprudenza significa che nella scuola c'è sempre un obbligo di vigilanza, sia che si faccia
valere una responsabilità per un fatto illecito cagionato da un minorenne ad un altro minorenne, sia
che si faccia valere una responsabilità per un danno che si è cagionato da solo un minore o che un
minore ha ricevuto per cause altrui (come nel caso di specie). La responsabilità può essere vista
sempre in maniera duplice, in base a come viene impostata la domanda.

Quindi, lo stesso comportamento può essere fonte per il suo autore sia di una responsabilità da
inadempimento, sia di una responsabilità da fatto illecito, le conseguenze sono risentite in un bene
protetto, non solo dal dovere generale di non fare danno ad altri, ma dal diritto di credito, che
corrisponde ad una obbligazione specificamente assunta dalla controparte verso di lui. Quando una
tale situazione si verifica, il danneggiato può scegliere, sia di far valere una sola tra le due
responsabilità, sia di farle valere ambedue
Nonostante il principio enunciato dalla sentenza, si tratta comunque di responsabilità diverse. Il
rischio di un'impostazione di questo genere è che si confondono determinati piani, perché se c'è un
fatto illecito (e la domanda viene qualificata come per fatto illecito) sappiamo che la prescrizione ha
durata inferiore, la disciplina dell’onere della prova è diversa e diversa è quella dei danni risarcibili.
Ciò implica che si deve cercare di analizzare la fattispecie bene, per inquadrarla sotto uno degli
aspetti della responsabilità, e non contemporaneamente sotto due responsabilità: altrimenti
sarebbe assurdo che l'applicazione di una disciplina dipendesse solo dalla domanda proposta. È
ovvio, quindi, che fino a quando si è coperti da dovere di vigilanza, la responsabilità deve essere

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 98

considerata contrattuale. Se si va oltre quel dovere di vigilanza, allora residua lo spazio della
responsabilità extracontrattuale.

La motivazione della Cassazione continua in questo senso: è vero che il tribunale ha qualificato la
domanda come domanda di responsabilità contrattuale, nonostante la parte avesse invocato
l'applicazione degli artt. 2043, 2048 e 2049 cc, che riguardano la responsabilità extracontrattuale,
ma il giudice ha il potere-dovere di qualificare giuridicamente l'azione e di attribuire al rapporto
dedotto in giudizio un nomen juris diverso da quello indicato dalle parti, purché non sostituisca la
domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o basandosi su una realtà
fattuale non dedotta e allegata in giudizio.
L'interpretazione della domanda rientra nella valutazione del giudice di merito (principio del iura
novit curia) e non è censurabile in sede di legittimità ove motivata in modo sufficiente e non
contraddittorio. La Corte di merito, quindi, ha ritenuto corretta la qualificazione della domanda
come responsabilità contrattuale dell'amministrazione scolastica, perché l’azione era stata fondata
sull'inadempimento dell'obbligo di vigilanza che grava sulla scuola e non sulla violazione del dovere
generale di non fare danno ad altri (cioè la parte voleva intendere inadempimento già ab initio).
In particolare, gli elementi provati dall’attore e considerati dalla Corte d’Appello, erano:
- conclamato (con sentenza) il fatto della violenza sessuale, consumata da un operaio incaricato
dal Comune dei lavori di manutenzione - accedendo al bagno delle ragazzine (bagno
sprovvisto di chiavi per ragioni di sicurezza);
- assente qualunque forma di sorveglianza (non è stata difatti, provata dalla scuola);
- doverosa la sorveglianza (non provata) da parte dell'amministrazione della scuola al fine di
prevenire danni di qualsiasi genere agli alunni, che possono derivare da comportamenti di
terzi o degli stessi minori, dalla pericolosità delle cose (il tutto rapportato, a maggior ragione,
all’incapacità dei minori di valutare tutte le situazioni di pericolo);
- che l'assenza di sorveglianza ha agevolato l'azione criminosa, contribuendo al verificarsi
dell'evento, «pur considerando l'imprevedibilità dell'azione criminosa».

Secondo il Ministero, ancora, la Corte di merito avrebbe reso una motivazione insufficiente nel
momento in cui ha negato il difetto di legittimazione passiva del Ministero, cioè ha sbagliato a
escludere la responsabilità invocata a carico del Comune degli attori ex art. 2049; anzi, secondo il
Ministero, il Comune doveva essere l’unico soggetto chiamato in giudizio.
Inoltre il Ministero si lamenta perché la Corte di merito avrebbe contraddittoriamente ritenuto
imprevedibile la possibilità che un operaio potesse violentare una bambina e nello stesso avrebbe
invece considerato causale la mancata organizzazione della sorveglianza nei pressi dei bagni (cioè, se
la condotta dell’operaio è un fatto imprevedibile, anche una sorveglianza esclude la responsabilità
per mancata sorveglianza. Un soggetto che sorveglia non potrebbe essere considerato responsabile
per l’imprevedibile.)

La suprema Corte inquadra le questioni poste nel seguente modo: “L'accoglimento della domanda
di iscrizione, con la conseguente ammissione dell'allievo alla scuola, determina l'instaurazione di un
vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell'istituto l'obbligazione di vigilare sulla sicurezza e
l'incolumità dell'allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue
espressioni (anche al fine di evitare che l'allievo procuri danno a se stesso)” (massima ricorrente).
È applicabile, quindi, il regime probatorio desumibile dall'art. 1218 cod. civ., per cui l'attore deve
provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto. Il convenuto ha l'onere
di dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né
all'insegnante.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 99

Ancora, la Corte aggiunge che “al fine di adempiere l'obbligazione di vigilanza sulla sicurezza e
incolumità degli alunni, la predisposizione degli accorgimenti necessari, da parte della direzione
scolastica, non può non essere strettamente legata alle circostanze del caso concreto.”
Le circostanze da considerare sono molte. Tra le ordinarie esse riveste un ruolo centrale l'età
degli allievi, che impone una vigilanza crescente con la diminuzione dell'età anagrafica. Ma si devono
considerare anche circostanze di carattere eccezionale, come nella specie l'esistenza di lavori di
manutenzione dell'immobile, che implicano la prevedibilità di pericoli derivanti dalle cose (cantiere
aperto) e da persone estranee alla scuola e non conosciute dalla direzione didattica, ma autorizzate a
circolare liberamente per il compimento della loro attività.
La Cassazione perciò sostiene che non può assumere rilievo, contrariamente a quanto ipotizza il
Ministero, la circostanza che committente dei lavori di manutenzione fosse il Comune; e nemmeno
che il personale non docente, che opera nella scuola, sia legato al Comune dal rapporto di lavoro
dipendente. Una volta che l'appalto è affidato, spetta alla direzione didattica, responsabile
dell'organizzazione scolastica, predisporre una vigilanza più attenta.

In merito all’imprevedibilità, la Cassazione risponde che è vero che rientra nell'ambito dei
comportamenti patologici (in quanto tali eccezionali), il caso di un criminale che abusi sessualmente
di una minorenne (in tal senso va intesa l'imprevedibilità di cui parla la Corte di merito). Quindi si
rientra sicuramente nel campo dell’imprevedibile: tuttavia, è altrettanto vero è che la mancata
organizzazione della sorveglianza nei pressi dei bagni, che avrebbe dovuto essere predisposta più
accuratamente, in considerazione della presenza autorizzata di estranei nell'edificio, ha certamente
contribuito al verificarsi dell'evento. E, infine, l'amministrazione non ha adempiuto all'onere di
dimostrare di aver predisposto gli accorgimenti idonei ad evitare l'evento.

Massima della sentenza Cass. 29 maggio 2013 n. 13457, da tenere in conto in merito
all’organizzazione della vigilanza e della sorveglianza degli alunni a scuola: “L’accoglimento della
domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo a scuola, determina l’instaurazione
di un vincolo negoziale dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e
l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue
espressioni e, quindi, di predisporre gli accorgimenti necessari affinché nei locali scolastici non si
introducano persone o animali che possano arrecare danno agli alunni; ne consegue che, al fine di
adempiere tale obbligazione di vigilanza, la predisposizione degli accorgimenti necessari, da parte
della direzione scolastica, deve essere strettamente legata alle circostanze del caso concreto: da
quelle ordinarie, tra le quali l’età degli alunni, che impone una vigilanza crescente con la
diminuzione dell’età anagrafica; a quelle eccezionali tra le quali deve comprendersi l’esistenza di
lavori di manutenzione dell’immobile, che implicano la prevedibilità di pericoli derivanti dalle
cose (cantiere aperto) e da persone estranee alla scuola e non conosciute dalla direzione
didattica, ma autorizzate a circolare liberamente per il compimento della loro attività.”

La responsabilità per rumori scolastici – caso pratico


Si analizzerà una sentenza che ha fatto discutere, in quanto è una sentenza della Cassazione in veste
di giudice ordinario che porta a delle limitazioni in relazione all'uso della scuola che comportano una
necessità di adeguamento delle modalità di resa del servizio pubblico scolastico. Modalità di
prestazione scolastica che in realtà dovrebbero essere prerogativa dell’amministrazione scolastica,
non certo del potere giurisdizionale sulla base di richieste private. Il caso riguarda nello specifico
l'immissione di rumori scolastici.

Fattispecie: Un plesso scolastico, composto da una scuola elementare e una dell’infanzia, si insedia
in un quartiere residenziale. Nell’area di pertinenza scolastica vengono collocati dei giochi. Durante
l’utilizzazione dei giochi vengono emessi suoni che superano il livello massimo di decibel consentito

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 100

dalla normativa (sia la normativa sulle immissioni ex art. 844 c.c. che la normativa tecnica
determinata da decreti e regolamenti del governo). Al confine è situata una villetta, separata dalla
scuola mediante una rete e una siepe. Il proprietario desidera la cessazione delle immissioni sonore.

Il proprietario agisce nei confronti del Comune e nei confronti del Ministero dell’istruzione:
- Il Comune resiste affermando che il diritto del proprietario della villetta non può
considerarsi prioritario rispetto all’uso del plesso scolastico per le attività istituzionali;
- Il Ministero resiste affermando che l’uso «sonoro» si ha per sole tre ore al giorno e che
l’attività svolta rileva quale servizio pubblico. La valutazione dell'interesse pubblico, nel caso
di specie, spetta al Comune, al Ministero, all'amministrazione pubblica e certamente tiene
conto degli interessi privati dei vicini, ma nell'ottica del perseguimento dell'interesse
pubblico, porta a determinate scelte, che diventano inesorabili. Una volta che non sono
attaccati gli atti amministrativi, secondo i procedimenti amministrativi, davanti alla
giurisdizione amministrativa del caso, questi diventano inattaccabili.

Il Tribunale dispone una consulenza tecnica d'ufficio: da essa risulta che le immissioni superano
notevolmente il limite consentito. Così con sentenza ordina ai convenuti di non consentire il
gioco e la presenza di bambini in una limitata parte dell'area di pertinenza della scuola d'infanzia
e rigetta la domanda risarcitoria.
La Corte d'appello elide il limite spaziale posto dalla sentenza di primo grado, ma ordina al
Comune e al Ministero una limitazione temporale a un'ora e mezza al giorno dell'accesso al gioco e
della presenza dei bambini nell'intera area esterna, escluse le ore della prima mattina.
Il Comune ricorre per cassazione, affidandosi ad un unico, articolato motivo col quale contesta
l'affermata ricorrenza della giurisdizione del giudice ordinario. Il Ministero aderisce al ricorso.

La Corte d'appello ha affermato la propria giurisdizione perché, come stabilito dalla giurisprudenza
di legittimità, l'inosservanza da parte della pubblica amministrazione di regole tecniche (ovvero di
canoni di diligenza e prudenza) può essere denunciata innanzi al giudice ordinario sia quando si
richieda la condanna della pubblica amministrazione ad un facere sia quando si agisca per il
risarcimento del danno: la domanda non riguarda atti autoritativi dell'amministrazione, bensì
un'attività materiale, soggetta al rispetto del principio generale del neminem laedere.
Quindi, quando l’amministrazione pubblica con un atto materiale crea un danno ad altri, l’atto
soggiace (in quanto non è atto amministrativo) alla giurisdizione del giudice ordinario. Bisogna
tuttavia prestare attenzione, perché spesso l’atto materiale può discendere da un atto
amministrativo, e quindi riflettere una scelta dell’Amministrazione.

La Corte di merito, quindi, ha contemperato, in applicazione analogica dell'art. 844 cod. civ., il
diritto del privato al godimento pieno del suo immobile (tenendo in considerazione le esigenze di
riposo e di quiete, quindi di salvaguardia della salute) con le esigenze della scuola pubblica (nella
specie frequentata da 150 bambini): valori tutelati, in entrambi i casi, dalla nostra Costituzione.

Si è, quindi applicato in via analogica (e non in via diretta, perché parla di rapporti tra privati e non
tra privati e P.A.) il suddetto art. 844: “Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di
fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del
vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.
Nell'applicare questa norma l'autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con
le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso”.

Questa è una norma che riguarda i rapporti tra privati, ma non riguarda il rapporto con il diritto
pubblico e anzi, applicare l'analogia, probabilmente, col diritto pubblico sarebbe errato; anzi,

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 101

questa norma probabilmente ha voluto escludere un'applicazione verso un'eventuale esercizio di un


servizio pubblico rumoroso. I giudici della corte di appello, hanno però ritenuto che secondo questa
norma non sarebbe stata contemplata dal legislatore, neanche per escluderla, l'attività di servizio
pubblico rumorosa. Quindi ci sarebbe un vuoto sull’attività di servizio pubblico rumorosa che va
sanato con l’analogia (in realtà, il fatto stesso che il legislatore non abbia previsto una norma
dimostra che non voleva sanzionarlo). Oltre l’art. 844 cc., con riguardo all'immissione di rumori,
esistono dei regolamenti specifici che prevedono delle soglie massime. La giurisprudenza su
questo ha precisato che: salvo restando la possibilità del giudice di applicare l’art. 844 anche nel caso
in cui non si raggiungano quelle soglie massime (considerando intollerabili dei rumori che stanno
anche sotto di tali soglie) in ogni caso, quando si superano quelle soglie massime previste dalla legge
certamente si deve parlare di immissioni intollerabili e si può applicare l’art. 844, che prevede la
possibilità che il giudice ordini la cessazione delle immissioni.

Nel ricorso di cassazione il Comune sostiene che la Corte d'appello, ordinando al Comune ed al
Ministero di non consentire per più di un'ora e mezza al giorno l'uso per il gioco dei bambini
dell'area esterna di pertinenza della scuola, si sarebbe arrogata il potere di disciplinare l'uso del
patrimonio indisponibile del Comune, sostituendosi allo stesso nell'apprezzamento dell'interesse
pubblico e nel contemperamento di tale interesse con quello del privato, disciplinando, di fatto,
attività formative ed educative di esclusiva competenza dell'autorità amministrativa scolastica.
La Corte d'appello sarebbe approdata a una conclusione illogica, avendo espressamente riconosciuto
la rilevanza del gioco all'aria aperta per lo sviluppo psichico dei bambini della scuola materna ed
elementare e per le esigenze di prestazione del servizio pubblico scolastico.
Il Ministero aderisce e assume che siano state violate le regole su riparto della giurisdizione sul
presupposto di un’indimostrata parità dei diritti di godimento della proprietà con il superiore
interesse pubblicistico al normale svolgimento dell'attività didattica.

La sentenza della Cassazione, Sezioni Unite 06/09/2013 n. 20571, argomenta in questo modo:
«L'azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per conseguire l'eliminazione delle cause
di immissioni rientra tra le azioni negatorie, di natura reale a tutela della proprietà. Essa è volta a
far accertare in via definitiva l'illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle
modifiche strutturali del bene indispensabili per farle cessare. (…) Tra l’altro, l'azione inibitoria ex
art. 844 c.c., può essere esperita dal soggetto leso per conseguire la cessazione delle esalazioni
nocive alla salute, salvo il cumulo con l'azione per la responsabilità aquiliana prevista dall'art. 2043
c.c., nonché la domanda di risarcimento del danno in forma specifica ex art. 2058 c.c. (…) La
questione della lesione del diritto alla salute presuppone una domanda autonoma, ma con lo
stesso atto si possono proporre le distinte domande, dirette ad ottenere la tutela dei differenti diritti
soggettivi (proprietà e salute), che si assumono lesi. (…) Benché, dunque, la modalità principe della
tutela della salute garantita dall'art. 32 Cost., sia, in ambito civilistico, quella risarcitoria di cui agli
artt. 2043 e 2059 c.c., è non di meno possibile, in funzione della protezione di quell'interesse e
quando ne sussistano i presupposti, domandare anche la tutela inibitoria di cui all'art. 844 c.c.»

Come si arriva alla responsabilità della p.a. per le immissioni? Sempre secondo la Cassazione,
«L'attore ha chiesto che la cessazione delle immissioni intollerabili e il risarcimento del danno da
lesione della salute derivato dalle immissioni. La richiesta di tutela, in relazione al medesimo fatto
pregiudizievole, si deve considerare quale risarcitoria per il passato e inibitoria per il futuro.
Concerneva, inoltre, la tutela della salute in relazione a un attività materiale illecita, in quanto
consistente in immissioni eccedenti il limite della normale tollerabilità.
Si deve applicare quindi il seguente principio: l'inosservanza da parte della pubblica
amministrazione, nella gestione (e manutenzione) dei beni che a essa appartengono, delle regole
tecniche, ovvero dei canoni di diligenza e prudenza, può essere fatta valere dal privato dinanzi al

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 102

giudice ordinario non solo ove la domanda sia volta a conseguire la condanna al risarcimento del
danno patrimoniale, ma anche ove miri alla condanna della pubblica amministrazione a un facere (o
a un non facere), giacché la domanda non investe scelte e atti autoritativi dell'amministrazione,
ma attività soggetta al rispetto del principio del neminem laedere.»

Il limite tra un'attività materiale che lega il principio di neminem ledere e un'attività che sia legata in
qualche modo ad una scelta o ad un atto amministrativo, è però certamente sottile; per cui,
primario rilievo dovrebbe essere dato alla scelta amministrativa, impedendo che il giudice ordinario
possa sindacarla, in quanto giurisdizione del giudice amministrativo.
Inoltre, segue la Corte, non è stato mai indicato da alcuno l'atto amministrativo inciso
dall'emesso ordine di non fare. Tale atto, quindi, non ha costituito oggetto del giudizio.
In causa è stata fatta valere solo l'illiceità della condotta dell'ente pubblico, suscettibile di incidere
sulla salute e sui diritti patrimoniali del terzo.
E ancora «l'ordine inibitorio, lungi dal fissare le modalità di esercizio del servizio pubblico scolastico,
s'è limitato ad inibire l'occupazione per scopi ludici degli spazi esterni di pertinenza della scuola
nelle prime ore della mattina e oltre il tempo ritenuto compatibile col diritto del vicino».

Educazione fisica e responsabilità scolastica – caso pratico


Si tratterà di una sentenza relativa a un caso di infortunio durante la lezione di educazione fisica.

La fattispecie: I genitori, esercenti la responsabilità genitoriale sul figlio minore, convenivano,


davanti al tribunale, il Ministero della Pubblica Istruzione, la preside e l’insegnante di educazione
fisica, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti dal figlio, studente presso l'Istituto,
in conseguenza di un infortunio verificatosi durante lo svolgimento della lezione di educazione fisica
(gli allievi dell'istituto svolgevano l’attività sportiva scolastica su un campo esterno, non di proprietà
della scuola, privo delle attrezzature idonee a evitare danni, addirittura con il fondo «sconnesso»).
Il tribunale, esclusa la responsabilità diretta della preside e dell'insegnante, rigettava anche la
domanda proposta nei confronti del Ministero.
L'appello proposto dal ragazzo, divenuto nelle more maggiorenne, veniva accolto parzialmente dalla
corte d‘appello nei confronti del MIUR, ma rigettato nei confronti del preside e dell’insegnante.

Il danneggiato propone ricorso per cassazione (per far condannare anche preside e insegnante) e
denuncia i vizi della sentenza di appello, in particolare la violazione e falsa applicazione degli artt.
2059 c.c. e 185 c.p., in ragione della desunta responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c.
Le norme riguardano la risarcibilità del danno non patrimoniale, e specificamente:
Art. 2059 c.c. > “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge.”
Art. 185 codice penale > “Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale,
obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il
fatto di lui.”
Nel caso di specie, il ragazzo si doleva del fatto che non fosse stato considerato alcun danno
morale ex art. 2059 c.c., norma che ha avuto una particolare evoluzione dal 1942 a oggi e che va
interpretata, perché nel 1942 si riferiva esclusivamente ai reati, in virtù di quanto stabilito dall’art.
185 c.p.: secondo il ricorrente vi sarebbe un reato e ciò giustifica il risarcimento del danno morale. E
ciò nonostante l’assenza di giudicato penale: oggi infatti il giudice civile può condannare al
risarcimento per collegamento con l’art. 185 c.p. indipendentemente dall’accertamento del reato in
sede penale.

Con riferimento all’art. 2059 c.c. esso va interpretato, oggi, non soltanto come rinvio all’art. 185 c.p.,
come nel 1942. Nel tempo, numerose norme hanno previsto il risarcimento per la lesione di diritti
non patrimoniali (ad esempio, nel campo della stampa, nel trattamento dei dati personali, nel caso di

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 103

discriminazioni in ambito lavorativo e in ambito privato) e, conformemente a una sentita necessità di


tutela dei diritti non patrimoniali, si è pervenuti ad accordare sempre il risarcimento in caso di
lesione di tali diritti e a una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., che
dal 2008 (sentenza di San Martino) ricomprende non solo i casi di fatto illecito ma anche la
responsabilità contrattuale: difatti, anche nella materia della responsabilità contrattuale si può avere
il risarcimento dei danni non patrimoniali. Principio del necessario riconoscimento dei diritti
inviolabili della persona costituzionalmente garantiti, quindi della tutela costituita dal risarcimento:
la lesione che determina un danno non patrimoniale comporta in ogni caso l'obbligo di risarcimento.

In base a ciò, la Cassazione riconosce il diritto al risarcimento dei danni morali nella domanda del
ragazzo ricorrente. La tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, quindi, secondo la Cassazione e
diversamente da quanto stabilito nel caso di specie dalla corte d’appello, si può con l’esperimento
dell'azione di responsabilità contrattuale (Cass. S.U. 11 novembre 2008 n. 26972).
Costituisce, infatti, «contratto di protezione» quello tra l'allievo e l'istituto scolastico: trova la sua
fonte nel contatto sociale. Tra gli interessi non patrimoniali che deve realizzare, vi è la salvaguardia
dell'integrità fisica dell'allievo: è risarcibile il danno non patrimoniale da autolesione.

Secondo la suprema corte, tra l’allievo e l’istituto scolastico, in seguito all'accoglimento della
domanda di iscrizione e alla ammissione alla frequenza - si instaura un vincolo negoziale: a carico
dell'istituto sussiste l'obbligazione di vigilare sulla sicurezza e incolumità dell’allievo durante
l’adempimento della prestazione scolastica, e pertanto anche per evitare che l'allievo procuri un
danno a se stesso. Tra l’insegnante e l’allievo si instaura un contatto sociale, cioè un rapporto
giuridico che fa sorgere una responsabilità contrattuale ex art. 1773. L'insegnante assume lo
specifico obbligo di protezione e vigilanza: deve evitare che l'allievo si procuri un danno alla
persona.
Inquadrando la situazione nella responsabilità contrattuale nelle controversie per il risarcimento del
danno da autolesione nei confronti dell'istituto scolastico e dell'insegnante: l'attore deve provare
(art. 1218 cod. civ.) che il danno si è verificato nello svolgimento del rapporto; è onere del
convenuto dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa a lui non imputabile.

Con riguardo alla responsabilità degli insegnanti di scuole statali ricordiamo l’art. 61, 2° co., l. 11
luglio 1980, n. 312: sostituzione dell'Amministrazione, salvo rivalsa nei casi di dolo o colpa grave,
nelle responsabilità civili derivanti da azioni giudiziarie promosse da terzi. Gli insegnanti statali
non possono essere direttamente convenuti da terzi nelle azioni di risarcimento danni per
omissione di vigilanza. Quindi il ragazzo non può estendere la responsabilità al personale scolastico.
La legittimazione passiva dell'insegnante è esclusa sia nel caso di azione per danni arrecati da
un alunno ad altro alunno (art. 2048, 2° co., cod. civ.) sia nel caso di danni arrecati dall'allievo a
se stesso (responsabilità contrattuale).

Massima, Cassazione, 30 Marzo 2010 n. 5067: «Risulta perciò provata la violazione da parte
dell'amministrazione scolastica dello specifico obbligo di vigilare sulla sicurezza e l'incolumità
dell'allievo nel tempo in cui fruisce della prestazione scolastica, in tutte le sue espressioni, e l'infortunio
oggetto di causa è ricollegabile a tale violazione. Va esclusa la legittimazione passiva
dell'insegnante. Non sono configurabili ulteriori profili di responsabilità concorrenti. Non può essere
accolta la censura relativa a una concorrente responsabilità, diretta o per immedesimazione organica,
dell'insegnante e del preside. Merita, invece, di essere accolta la censura in ordine al mancato
riconoscimento del danno morale, da parte della Corte di merito.» Riconoscimento del danno morale
che dovrà essere effettuato, pertanto, con rinvio della sentenza, dalla Corte di merito.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 104

7. I rimedi extracontrattuali
I rimedi extracontrattuali sono quelli previsti dal nostro ordinamento contro l'illecito civile.
Rimedio primo e fondamentale è il risarcimento del danno.
Il nostro codice civile non dà una definizione di responsabilità extracontrattuale, ma detta una
norma, l’art. 2043, la quale sancisce che: “il fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno
ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Quindi, la responsabilità
extracontrattuale è vista proprio in termini di risarcimento del danno.

Gli artt. 1223, 1226 e 1227 cc. sono appositamente richiamati dall’art. 2056 in tema di
valutazione dei danni da illecito.
Abbiamo quindi, per quanto concerne l'illecito extracontrattuale, una norma che richiama alcune
basilari norme in tema di danno derivante da inadempimento dell'obbligazione.
Non sono però richiamate tutte le norme riguardanti l'inadempimento dell'obbligazione. In
particolare, non è richiamata la norma sul danno da ritardo del pagamento (concernente le
obbligazioni pecuniarie) e neppure la norma che limita il risarcimento del danno al danno
prevedibile, salvo che si tratti di inadempimento doloso, secondo l’art. 1226.
Ci si chiede a questo punto come mai per quanto riguarda il danno da illecito non vale quella
limitazione che invece è prevista per l'inadempimento. La risposta deve essere ricercata nella stessa
funzione dell'obbligazione, che è quella di soddisfare un particolare interesse del creditore.
È quindi ragionevole che il sacrificio richiesto al debitore inadempiente sia in qualche modo
proporzionato e relazionato al vantaggio che il debitore è tenuto a realizzare a favore del creditore.
Questa ragione non sussiste per quanto riguarda il danno extracontrattuale: chi viola il precetto del
neminem laedere risponde di tutte le conseguenze dannose che possono derivare da quest'illecito,
siano esse prevedibili, siano esse imprevedibili.

Le norme dettate espressamente per quanto riguarda la responsabilità extracontrattuale sono:


1. Art 2056 co. 2 cc.: “il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle
circostanze del caso”. Questa disposizione non ha niente di particolare, essendo una disposizione da
applicare anche in presenza del danno da inadempimento: in tutti i casi, infatti, il giudice deve tener
conto delle circostanze concrete che attengono al fatto dannoso, sia illecito, sia che si tratti di
inadempimento. Va tenuto presente che, secondo l’art. 1226, richiamato dall’art. 2056, se non è
determinabile, il risarcimento del danno è determinato con valutazione equitativa, che deve tener
conto di tutte le probabilità positive e negative che incidono sul possibile ammontare del danno;
2. Art. 2057 c.c. sui danni permanenti: “quando il danno alle persone ha carattere permanente, la
liquidazione può essere fatta dal giudice tenuto conto delle condizioni delle parti e della natura del
danno, sotto forma di una rendita vitalizia. In tal caso il giudice dispone le opportune cautele”.
Qui si fa l'esempio di un illecito che abbia arrecato lesioni permanenti alla vittima. In questo caso,
secondo il nostro codice, anziché risarcire il danno con una somma capitale, si può risarcire con una
rendita permanente, la quale consente al danneggiato di ricevere periodicamente la somma
ristoratrice del danno permanente. Quando il codice parla di “condizioni delle parti” intende che
può ritenersi rilevante lo stato di indigenza della vittima, che renderebbe probabile una rapida
dispersione del capitale, essendo invece opportuno che la vittima possa contare nel tempo
dell'apporto risarcitorio; per quanto concerne il danneggiante, il giudice dovrà tener conto della
possibilità di costui di provvedere al pagamento di una somma capitale.
Occorre poi stabilire le opportune cautele: cioè, nel condannare il danneggiante a versare una
somma periodica, il giudice deve imporre al medesimo di trovare una garanzia idonea che valga ad
assicurare il pagamento delle rate future del vitalizio e quindi ad esempio una fideiussione. Si tenga
presente che il richiamo del codice alla rendita vitalizia fa sì che le norme dettate dal codice in tale
senso si applichino anche quando si tratta di un risarcimento del danno, secondo gli artt. 1872 ss.;

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 105

3. Una norma dettata appositamente in tema di danni extracontrattuali, è quella che prevede il
risarcimento del danno in forma specifica. Anche questa è una norma che, per unanime
riconoscimento, trova applicazione anche con riguardo ai danni da inadempimento dell'obbligazione;
4. Art. 2059 cc. norma molto importante sul danno non patrimoniale: “il danno non patrimoniale
deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.
Questa norma è al centro di una vivacissima disputa dottrinale e giurisprudenziale, in quanto è
una norma che limita pesantemente la risarcibilità del danno non patrimoniale; tuttavia, a seguito di
una accorta interpretazione, sollecitata in primo luogo dalla Corte Costituzionale, è stata superata
per quanto riguarda i danni derivanti dalla violazione di diritti della personalità, in primo luogo il
diritto alla salute. (vedi in precedenza)

Il risarcimento del danno è rimedio primario predisposto dalla legge contro l'illecito, ma questo
rimedio presuppone che il danno sia stato arrecato ed è diretto appunto a rimuovere le conseguenze
derivanti dall'illecito, rimozione di che non sempre può attuarsi in maniera integrale, si pensi ad
esempio i danni arrecati alla persona, soprattutto in caso di lesioni permanenti.
È quindi evidente che l'ordinamento debba privilegiare la prevenzione dell'illecito: uno
strumento generale di prevenzione dell'illecito è costituito dalla inibitoria, cioè l'ordine giudiziale
impartito ad un soggetto di astenersi da un determinato comportamento illecito.
La giurisprudenza tende ad orientarsi verso una soluzione restrittiva, ritenendo applicabile il
rimedio della inibitoria solo nei casi espressamente previsti dalla legge.
In effetti, sono rari i casi nei quali si trova una espressa previsione della esperibilità della
inibitoria. Casi che sono anche contemplati nel nostro codice civile, emblematico al riguardo è il
disposto dell’art. 6 c.c., in tema di diritto al nome: “ogni persona ha diritto al nome che le è per legge
attribuito”. Il diritto in questione è riconosciuto come diritto della personalità, che tutela un interesse
della persona a essere identificato nel contesto sociale mediante una denominazione.
Questo diritto è tutelato contro le contestazioni, le usurpazioni (quando un soggetto usa in
proprio il nome di un'altra persona) e l'uso indebito del nome (quando il nome di una persona sia
usato per indicare un prodotto ad esempio).
Le violazioni di cui sopra trovano la prima tutela nella possibilità del danneggiato di chiedere
giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento del danno.
Anche per quanto riguarda il diritto all'immagine, la prima tutela è quella dell'inibitoria, sempre
che l'immagine riguardi situazioni che attengono alla funzione della persona e sempre che non si
tratti di situazioni nelle quali la legge preveda la possibilità che l'immagine sia divulgata: persone che
partecipano ad eventi pubblici, personaggi pubblici etc. Quindi l'immagine di una personalità politica
che tenga un comizio è pubblicabile, mentre non è pubblicabile, salvo consenso dell'interessato,
l'immagine della stessa personalità politica in un momento di intimità nella sua casa familiare.
L'inibitoria è prevista anche in altri casi, fuori dal c.c., a tutela del diritto d'autore o del brevetto.
La ritroviamo nel codice a proposito della concorrenza sleale, che consiste nell'utilizzare nomi o
distintivi che servono a confondere il pubblico, o anche nelle attività denigratorie dei prodotti altrui.
Secondo l’art. 2599, la sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e
dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti.
Quando si parla di inibitoria non possiamo non ricordare l'art. 28 Statuto dei Lavoratori,
riguardante la repressione della condotta antisindacale: stando a tale articolo, qualora il datore
di lavoro ponga in essere comportamenti antisindacali, il giudice suo ricorso delle rappresentanze
sindacali, ordina con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del
comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.
Si hanno poi tutta una serie di ipotesi tradizionali disciplinate dal codice civile e che consentono al
danneggiato di esperire lo strumento inibitorio. Il caso più ricorrente è quello delle immissioni (di
fumo, calore, rumori, scuotimenti e simili) che si propagano da un fondo all'altro.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 106

Rimane il problema riguardante il fatto che l'inibitoria possa essere comunque applicata anche
senza una specifica previsione di legge: ultimamente anche la giurisprudenza si è orientata nel
senso di ammettere l’esperibilità della inibitoria per quanto riguarda i diritti della personalità.
Questo perché i diritti della personalità sono posti a tutela di interessi fondamentali della persona ed
è quindi ingiustificato escludere quel rimedio, che sembra essere il più appropriato in quanto
preventivo, solo perché non ci sia una espressa previsione di legge.
Perché non dovrebbe essere consentito il rimedio dell'inibitoria anche in tutti gli altri casi in cui ci
sia un illecito extracontrattuale? L'argomento “a contrario” è insufficiente (cioè dire se il
legislatore ha previsto questo rimedio in determinati casi, vuol dire che negli altri casi il rimedio non
è spendibile) anche se poi è l'argomento che viene utilizzato dalla giurisprudenza: tuttavia la
previsione stessa del rimedio in più casi può confermare, al contrario, la funzionalità dell’inibitoria.
Esiste un altro argomento che è quello secondo il quale l'inibitoria si risolverebbe in una lesione
della libertà della persona: viene ordinato di non fare una determinata cosa, di seguire un
determinato comportamento. Un ordine, quindi, che colpisce, limita, sacrifica, la libertà della persona
e a fronte di un danno che non c’è, non potendosi dire che c'è stato un illecito consumato.
Si vuole prevenire ciò che non è ancora accaduto, ma se non è accaduto non è illecito, e se non c'è il
danno, come si può parlare di illecito? La risposta è che anche se non c'è il danno si può e si deve
parlare di illecito. Bisogna, infatti, distinguere chiaramente il fatto diretto alla produzione del
danno e il danno che è una conseguenza di quell'atto: il primo è già un illecito prima ancora che il
danno si sia verificato, ed è illecito proprio in quanto diretto la produzione del danno. Ciò è ancora
più chiaro nel penale: spedire per posta un pacco bomba è già reato.
Nel civile, il fatto idoneo alla produzione del danno ingiusto è già di per sé esso stesso illecito.
Se il giudice ordina di non tenere un certo comportamento non ha leso la libertà del destinatario del
provvedimento, perché ha solo concretizzato l'ordine che viene già dalla legge. L'idoneità a
produrre il danno si riscontra quando c'è già in atto la produzione del danno: si pensi ad una
fabbrica che immette sui fondi vicini sostanze nocive alla salute o alle colture, con le piantagioni
limitrofe già danneggiate. Qui non c'è dubbio che l’emissione di sostanze nocive è idonea a produrre
un danno ingiusto, e la prova è che il danno ingiusto è stato già prodotto e continua ad esserlo.
Anche se il primo danno non si fosse verificato, tuttavia, il fatto va inibito se causalmente idoneo a
produrre il danno. L'inibitoria presuppone un danno ingiusto, ma non come evento già prodotto, ma
come evento da impedire: serve a prevenire un fatto idoneo a causare un danno ingiusto.

I presupposti dell'inibitoria:
" non richiede un fatto doloso o colposo: opinione diffusa ma discutibile, perché la colpa, in
senso oggettivo, è un preciso connotato di antigiuridicità: se il comportamento non è
obiettivamente colposo non si vede come esso possa essere vietato (se la fabbrica, ad esempio,
immette sostanze nocive, tale immissione può essere vietata: se, però, le esalazioni rientrano nel
lecito esercizio dell’attività e siano stati adottati gli accorgimenti di legge, non c’è illecito);
" Discorso diverso deve essere fatto per la incapacità, in quanto esimente soggettiva della
responsabilità, che non elimina l’antigiuridicità del fatto, il quale può essere quindi inibito.

Vi sono ipotesi espressamente contemplate dalla legge di azione inibitoria da aggiungere a quelle
già segnalate, in quanto ipotesi che hanno raggiunto una particolare importanza.
Inibitoria a tutela dei consumatori: una direttiva comunitaria risalente al 1993 n. 13 ha emanato
in Italia la disciplina dei contratti del consumatore, successivamente nel codice del consumo emanato
con decreto legislativo 2005 n. 206, dopo una prima collocazione nel codice civile agli artt. 1469 bis
ss. Questa disciplina sancisce la nullità delle clausole vessatorie inserite nei contratti tra
professionista e consumatore, oltre a dare la definizione delle due parti.
Le clausole vessatorie, definite per legge, sono quelle che determinano a carico del consumatore un
significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti da un contratto.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 107

Una importante novità introdotta dalla disciplina del codice del consumo è rappresentata dalla
inibitoria, diretta a rimuovere l'uso delle condizioni generali di contratto che abbiano carattere
vessatorio. E’ un rimedio a carattere collettivo, non riguarda i singoli contratti posti in essere tra
imprenditore e consumatore, ma riguarda le clausole predisposte per una generalità di rapporti
contrattuali che, proprio per questo, assumono il carattere di condizioni generali del contratto. Se tali
condizioni generali contengono clausole vessatorie è possibile inibirne l'uso.
Questa possibilità si è realizzata attraverso l'esercizio di un'azione collettiva, cui sono legittimate
le associazioni di categoria dei consumatori e dei professionisti (ad esempio, un imprenditore
potrebbe avvantaggiarsi rispetto agli altri grazie all’inserimento di clausole vessatorie nelle cond.gen.).
L'inibitoria diretta ad inibire l'uso di condizioni generali di contratto vessatorie, rientra nella nozione
di inibitoria quale strumento di prevenzione dell'illecito. Questo perché è la predisposizione di
clausole vessatorie che costituisce un illecito; in altri termini, già la stessa previsione di questo
rimedio inibitorio significa che la legge vieta agli imprenditori di predisporre queste condizioni.
L'illecito è già consumato nella stessa predisposizione delle condizioni generali di contratto
vessatorie, prima ancora che queste trovino applicazione nei singoli contratti individuali.
Inoltre, si aggiunge che il codice del consumo prevede in termini generali l’esperibilità del
rimedio della inibitoria, all’art 139: “le associazioni dei consumatori e degli utenti inserite
nell'apposito elenco sono legittimate ad agire nelle ipotesi di violazione degli interessi collettivi dei
consumatori”, e all’art. 140 dove specifica che queste associazioni “possono agire a tutela degli
interessi collettivi dei consumatori e degli utenti richiedendo al tribunale, tra l'altro, di inibire gli atti e i
comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti”.
Quindi, quando vi è un comportamento lesivo dei diritti dei consumatori, possono intervenire le
associazioni di categoria per chiedere all'autorità giudiziaria di inibire il comportamento lesivo. Ad
esempio, un produttore immette sul mercato un prodotto etichettato in maniera da fornire una falsa
idea della composizione del prodotto stesso: qui le associazioni possono intervenire.

Per concludere, non si può non parlare dell'inibitoria prevista dal decreto legislativo 2003 n. 215,
in attuazione della direttiva n. 43/2000, per la parità di trattamento tra le persone,
indipendentemente dalla razza e dalla origine etnica.
Questa nuova disciplina sancisce la illiceità di qualsiasi pratica discriminatrice in ragione della
razza o della etnia delle persone. Tale comportamento discriminatorio dà luogo a risarcimento del
danno, patrimoniale e non patrimoniale e, inoltre prevede che il giudice ordini la cessazione del
comportamento discriminatorio e condanni alla rimozione degli effetti.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 108

8. Il pagamento d’indebito e l’azione generale di arricchimento


Il pagamento d’indebito
Il pagamento di indebito è l'esecuzione di una prestazione non dovuta.
La legge distingue tra indebito oggettivo e indebito soggettivo:
• oggettivo, quando viene eseguita una prestazione in base ad un titolo inesistente o inefficace
(art. 2033 c.c.), ad esempio un pagamento effettuato in ottemperanza ad un contratto che però è nullo;
• soggettivo, quando l'adempiente esegue un debito altrui nell'erronea credenza di essere egli il
debitore (art. 2036 cc.).

La regola generale è quella secondo cui chi riceve un pagamento non dovuto è tenuto a restituire il
pagamento. Quest'obbligo di restituzione discende dalla legge: ecco perché il pagamento di indebito
rientra tra le fattispecie idonee a produrre l'obbligazione in conformità dell'ordinamento giuridico.
Ciò ex art. 1173 c.c. sulle fonti delle obbligazioni: “le obbligazioni derivano da contratto, da fatto
illecito o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrre in conformità dell'ordinamento giuridico”.
Il pagamento di indebito non rientra nell'ambito dell'illecito, perché è vero che vi è la lesione di un
interesse giuridicamente protetto, ma questa lesione è causata dallo stesso danneggiato. Si prospetta
invece l'illecito quando questo pagamento sia ad esempio estorto con violenza o dolo.
Il pagamento d’indebito, specificamente previsto e disciplinato dalla legge, in realtà si presenta come
una figura specifica di arricchimento senza causa: chi riceve il pagamento non dovuto si
arricchisce indebitamente e da qui la reazione dell'ordinamento, che obbliga a restituire ciò che è
indebitamente ricevuto.

Con riguardo all'indebito oggettivo i presupposti sono i seguenti:


1. il pagamento: si tratta della dazione di denaro, ma più in generale esso comprende qualsiasi
conferimento di beni. Secondo l'interpretazione che appare più conforme al testo di legge,
invece, il pagamento d’indebito non concerne quelle prestazioni che consistono
semplicemente in un fare: rispetto a tali applicazioni trova invece applicazione la norma sulla
azione generale di arricchimento (esempio: se un professore esegue lezioni in virtù di un
contratto nullo, non si ha pagamento d’indebito);
2. la mancanza di titolo: ciò significa che la fonte di obbligazione in base alla quale la
prestazione era stata eseguita in realtà o non esiste (ad esempio pagamento di un'imposta non
prevista dalla legge) oppure titolo è nullo (ad esempio un contratto a cui manca un elemento
costitutivo). Il titolo potrebbe anche essere annullato (ad esempio vendita di un immobile
senza il consenso di uno dei due coniugi quando vi è comunione legale) o risolto (ad esempio
vendita di un immobile con contratto valido, ma il compratore ha pagato solamente un anticipo
e non l’intero prezzo. Il contratto si risolve a seguito di richiesta del venditore, quindi il
pagamento effettuato in anticipo risulta essere senza titolo) oppure il pagamento era stato già
eseguito (caso molto diffuso per quanto concerne il pagamento delle imposte);
3. non è richiesto l'errore dell'adempiente.

Con riguardo ai soggetti, va detto che il titolare del diritto di ripetizione (restituzione della
prestazione) è colui che ha eseguito la prestazione, o, più precisamente, colui al quale il
pagamento è stato imputato. Questa precisazione vale a chiarire che quando il pagamento è eseguito
dal rappresentante del debitore (ed è quindi imputato al debitore), è il debitore che è legittimato a
richiedere la restituzione del pagamento eseguito.
Se il pagamento è eseguito da un terzo, spontaneamente, il diritto di ripetere il pagamento
compete al soggetto terzo che spontaneamente ha eseguito il pagamento (ad esempio un padre che
paga un debito che crede essere esistente in capo al figlio).

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 109

Può darsi che il pagamento sia stato eseguito su incarico del debitore, senza però che chi adempie
si presenti come rappresentante del debitore. Trova allora applicazione la regola del mandato senza
rappresentanza di cui all’art. 1705 c.c.: “i terzi non hanno alcun rapporto col mandante e tuttavia il
mandante sostituendosi al mandatario, può esercitare i diritti di credito derivanti dall'esecuzione del
mandato, salvo che ciò possa pregiudicare i diritti attribuiti al mandatario dalle disposizioni degli
articoli che seguono”.
Pertanto, se il pagamento è indebito, è il mandatario che può pretendere la restituzione del
pagamento già effettuato ma, secondo la legge, è il mandante che si può sostituire al mandatario,
se e in quanto non venga pregiudicato il diritto del mandatario nei confronti del mandante. Esempio:
il mandante ha corrisposto al mandatario le somme necessarie per eseguire il pagamento, il pagamento
viene eseguito, ma è indebito. Il mandante, in questo caso si può sostituire al mandatario e reclamare da
colui che ha ricevuto il pagamento la restituzione dello stesso.
Ancora riguardo ai soggetti, va tenuta presente l'ipotesi di cui all’art. 1189 c.c., cioè il pagamento al
creditore apparente: c'è un titolo valido, chi adempie è realmente obbligato, ma il pagamento viene
eseguito non al creditore, ma a colui che appare creditore in base a circostanze univoche (ad esempio,
si presenta un terzo, sulla base di una documentazione fasulla, dalla quale risulta che egli è legittimato
a ricevere la prestazione). Se il pagamento è stato eseguito in buona fede, lo stesso pagamento è
liberatorio per il debitore. Tuttavia, secondo quanto stabilito dallo stesso art. 1189 c.c., chi ha
ricevuto il pagamento (accipiens) è tenuto alla restituzione verso il vero creditore, secondo le regole
stabilite per la ripetizione dell'indebito.
Un'altra ipotesi interessante è quella concernente la fideiussione: si tratta di un soggetto che
garantisce personalmente l'adempimento di un debito. Secondo la legge, se il fideiussore paga deve
avvertire tempestivamente il debitore principale dell’avvenuto pagamento, perché se non lo avverte
e il debitore principale esegue a sua volta il pagamento, il fideiussore non può pretendere dal
debitore principale il rimborso di quanto effettuato. Ne consegue, stando all’art. 1952 c.c., che è fatta
salva al fideiussore l'azione per la ripetizione contro il creditore.

Chi ha eseguito il pagamento indebito ha diritto alla ripetizione ma l'oggetto di questa prestazione è
correntemente una somma di denaro, cui si applica il principio nominalistico, secondo cui la
somma va restituita secondo l'importo nominale. Oltre alla somma pagata, però, vanno corrisposti
anche gli interessi, che vanno distinti a seconda che chi ha ricevuto il pagamento fosse in buona o in
mala fede (cioè, che ignorasse o meno che il pagamento fosse indebito): perché se è in buona fede,
gli interessi saranno dovuti dal giorno della domanda, mentre se è in mala fede, gli interessi saranno
dovuti dal giorno in cui il pagamento era stato eseguito.
Se si tratta di beni diversi dal denaro, opera la distinzione tra beni mobili e beni immobili. I primi
vengono restituiti mediante la consegna degli stessi; per gli immobili il discorso è più complesso. Se,
difatti, l'immobile è stato trasferito in proprietà al creditore (supposto tale), la restituzione
dell'immobile comporta che il ri-trasferimento debba risultare da un atto scritto suscettibile di
trascrizione. Quindi occorrerà o l'atto pubblico oppure ancora una scrittura privata autenticata.
Si va poi a distinguere il fatto che l’accipiens (ricezione) sia in buona o in malafede: qualora questa
fosse in mala fede, chi l'ha ricevuta indebitamente deve restituire anche i frutti del bene che ha
percepito o che avrebbe potuto percepire usando la diligenza comune, ex art. 1148 c.c.
L’art. 2040 c.c., riguardante le spese dei miglioramenti, richiama le norme in tema di possesso,
che trovano applicazione in tema di indebito. Secondo tali norme, colui che è tenuto a restituire i
frutti indebitamente percepiti ha diritto al rimborso delle spese; se sono straordinarie, il possessore -
anche in malafede - ha diritto al rimborso delle spese fatte per le eventuali riparazioni.

La cosa deve essere restituita: ma cosa accade quando la restituzione è impossibile? Ancora una volta
va posta la distinzione tra il pagamento ricevuto in buona fede e quello ricevuto in malafede; infatti,
se l’indebito possessore è in buona fede non risponde del deperimento della cosa, anche se dipende

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 110

da fatto proprio, se non nei limiti del suo arricchimento. In caso di malafede, invece, deve
corrisponderne il valore. Vedi l’art. 2037 cc.: “se la cosa è perita, anche per caso fortuito, chi l'ha
ricevuta in malafede è tenuto a corrisponderne il valore, se la cosa è soltanto deteriorata, colui che l’ha
data può chiederne l'equivalente oppure la restituzione e un'indennità per la diminuzione di valore”.
Si era fatta l'ipotesi della impossibilità della restituzione a causa della distruzione del bene, ma
l'impossibilità della restituzione può derivare anche dal fatto che l’accipiens nel frattempo abbia
alienato o donato a un terzo. Per l'ennesima volta va distinto il fatto di chi ha ricevuto la prestazione
fosse in buona o in mala fede: nel primo caso, se il soggetto ha venduto il bene, non deve restituirlo,
ma deve restituire il corrispettivo che ne ha conseguito. Se il prezzo deve ancora essere pagato, il
titolare del diritto alla restituzione può pretendere il pagamento del prezzo, subentrando nei diritti
del venditore. In caso di donazione invece - in buona fede - il terzo acquirente è obbligato nei limiti
del suo arricchimento, se l'alienazione è a titolo gratuito; se è in malafede, l’accipiens deve
corrispondere comunque il valore della cosa se non è in grado di restituirla nella sua identità.

Nell’indebito soggettivo, invece, il pagamento è eseguito da chi si crede erroneamente debitore,


come dice l’art. 2036 c.c.: “Chi ha pagato un debito altrui, credendosi debitore in base a un errore
scusabile, può ripetere ciò che ha pagato, sempre che il creditore non si sia privato in buona fede del
titolo o delle garanzie del credito.”
I presupposti specifici dell'indebito soggettivo sono:
1. l'esistenza del credito in campo a chi riceve la prestazione;
2. l'errore scusabile dell’adempiente, che crede erroneamente di essere tenuto al pagamento.
Il diritto alla restituzione, tuttavia, è impedito se il creditore in buona fede si sia privato del titolo o
delle garanzie del credito, cioè l‘accipiens ignora l'errore dell’adempiente, consistente nel fatto di
credersi debitore, mentre il debitore è un altro. Il creditore deve restituire a meno che non abbia, ad
esempio, estinto le garanzie: supponiamo che il credito fosse garantito da un pegno, il creditore
riceve il pagamento e restituisce il pegno al garante. Successivamente si presenta colui che ha
eseguito il pagamento dicendo di aver eseguito il pagamento, credendo erroneamente di essere
debitore, e quindi di voler restituito ciò che ha pagato. Il creditore qui potrà legittimamente rifiutarsi
di restituire ciò che ha ricevuto in pagamento in quanto sia privato della garanzia che assicurava al
pagamento di quel credito.
Per il contenuto della restituzione si applicano le regole già viste per l’indebito oggettivo.
Cosa succede se la ripetizione non è ammessa (perché ad esempio il creditore si è privato del
pegno)? In questo caso, secondo la legge, chi ha pagato subentra legalmente nel diritto di credito di
chi ha ricevuto la prestazione, art. 2036 c.c., ultimo comma. L’esempio è quello di chi ha pagato
convinto di essere debitore mentre il debitore era un altro: nel caso in cui la ripetizione non sia
ammessa in quanto il creditore si sia privato delle garanzie. In questo caso chi ha pagato diventa
creditore nella stessa posizione di colui che ha ricevuto la prestazione e diventa creditore nei
confronti del vero debitore. Questa è un'ipotesi di surrogazione legale nel credito altrui.

Sia nel caso di indebito oggettivo che nel caso di indebito soggettivo può darsi che la prestazione sia
ricevuta da una persona legalmente incapace. In questo caso, chi ha ricevuto la prestazione
risponde solamente nei limiti in cui la prestazione è stata rivolta a suo vantaggio. Su questo
interviene l’art. 2039 c.c.: “l’incapace che ha ricevuto l'indebito, anche in malafede, non è tenuto che nei
limiti in cui ciò che ha ricevuto è stato rivolto a suo vantaggio”.
“Rivolto a suo vantaggio” significa che non si ha riguardo solo al dato economico della prestazione,
ma alla sua appropriata e ragionevole utilizzazione, tenuto conto dell'interesse e dell'autonomia di
vita dell'incapace. Quindi l’incapace che ha ricevuto una somma di danaro, in tanto sarà tenuto a
restituirla in quanto sia stata appropriatamente utilizzata (per acquistare mezzi di sostentamento);
se invece la somma di danaro non è stata utilizzata appropriatamente (ad esempio sperperata o
gettata dalla finestra), l’accipiens non è tenuto a restituirla. La norma di cui sopra trova una puntuale

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 111

corrispondenza nell’art. 1190 c.c.: “il pagamento fatto al creditore incapace di riceverlo non libera il
debitore se questi non prova che ciò che fu pagato è stato rivolto a vantaggio dell'incapace”.
Altro riscontro al riguardo si ha in tema di annullamento del contratto per incapacità della parte, ex
art. 1443 cc.: “se il contratto è annullato per incapacità di uno dei contraenti, questi non è tenuto a
restituire all'altro la prestazione ricevuta se non nei limiti in cui è stata rivolta a suo vantaggio”.
Quindi, si richiede non la restituzione della prestazione così come questa è stata eseguita, ma la
restituzione di ciò che è stato utilizzato a vantaggio dell'incapace.
In caso di pagamento di indebito ricevuto dalla pubblica amministrazione, anch’essa, come i
soggetti privati, è tenuta a restituire ciò che indebitamente ha percepito. Sono tenuti alla restituzione
dell'indebito anche gli impiegati pubblici che abbiano ricevuto somme di carattere retributivo o
pensionistico in misura superiore a quella loro spettante. In questo caso però c'è da dire che,
tradizionalmente, i giudici amministrativi sono stati sensibili all'esigenza di evitare un aggravio
eccessivo (derivante dall'obbligo della restituzione) tale da pregiudicare il dignitoso soddisfacimento
dei bisogni di vita del dipendente e della sua famiglia. C'è stato un momento storico nel quale,
addirittura, si riteneva che il dipendente o il pensionato, che avesse ricevuto una somma maggiorata,
non fosse tenuto a restituire l'eccedenza della prestazione rispetto a quella spettante.
Oggi si ammette, secondo un orientamento prevalente, che l’accipiens possa opporre che la
restituzione delle somme percepite gli impedirebbe di soddisfare i suoi essenziali bisogni di vita.
Questa posizione non è ammessa solo quando la pubblica amministrazione, nell'eseguire il
pagamento, avesse espressamente fatto riserva del diritto di ripetere l'eccedenza eventualmente
accertata, rispetto al debito effettivo e reale della stessa amministrazione nei confronti dell’accipiens.
Si ammette poi che l’accipiens non possa sollevare eccezioni qualora la pubblica amministrazione
(come normalmente accade), abbia provveduto a rateizzare la restituzione delle somme
indebitamente percepite dal dipendente o dal pensionato, in maniera tale che questa restituzione
non pregiudichi i bisogni di vita dell’accipiens e della sua famiglia.

L’azione generale di arricchimento


Il pagamento di indebito è una figura che rientra nel generale principio dell'ingiustificato
arricchimento, in relazione al quale il codice detta una norma di carattere generale: è sancito il
principio che chi si arricchisce senza una giusta causa a danno di un altro è obbligato, nei limiti
dell'arricchimento, a indennizzare chi ha subito la correlativa diminuzione patrimoniale.
Questo principio è sancito dall’art. 2041 c.c., inserito nel titolo dell'arricchimento senza causa.
Ci troviamo ancora una volta nell'ambito dei fatti che per forza di legge producono obbligazioni,
senza costituire contratti né fatti illeciti (i c.d. quasi contratti, come il pagamento d’indebito).
Questa azione generale di arricchimento sancisce un principio che trova specifica approvazione in
figure particolari: l’art. 935 c.c., ad esempio, in tema di opere fatte dal proprietario del suolo con
materiali altrui. Il proprietario del suolo deve pagare il valore dei materiali, perché si è arricchito
utilizzando quei materiali di proprietà altrui. Al di là di queste singole ipotesi abbiamo, comunque, la
previsione di questo principio generale (actio de in rem verso nel diritto romano).

I presupposti indicati dalla legge riguardanti l'azione generale di arricchimento sono:


1. l'arricchimento di un soggetto, che consiste in qualsiasi vantaggio suscettibile di una
valutazione economica. Questo vantaggio può consistere in un incremento patrimoniale, ma
anche in un mancato detrimento patrimoniale o nel risparmio di una spesa;
2. il correlativo impoverimento di un altro soggetto: occorre che in correlazione
all'arricchimento di cui sopra un altro soggetto risulti impoverito, cioè che abbia perduto un
bene, sia stato impedito dall'utilizzarlo o che abbia eseguito una prestazione senza essere
remunerato. Questo impoverimento è necessario, perché il diritto all'indennizzo è delimitato
entro l'impoverimento correlato all'arricchimento. Vale a dire che chi si è arricchito non deve
indennizzare l'impoverito se non nei limiti di questo impoverimento;

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 112

3. la mancanza di una giusta causa: questo è un presupposto fondamentale e caratterizzante


dell'azione. Va detto, tuttavia, che la dottrina incontra non poche difficoltà nel definire in
maniera chiara e lineare questo concetto di mancanza di giusta causa. Al di là delle opinioni
formulate, si può dire semplicemente che deve ravvisarsi la mancanza di giusta causa quando
l'impoverimento di un soggetto (correlato all’altrui arricchimento) non è remunerato e non
costituisce né liberalità né adempimento di una obbligazione naturale. Si pensi al pagamento
eseguito da un terzo, consapevole di pagare un debito altrui, che non sia stato incaricato dal
debitore e senza che ci sia un intento liberale. Supponiamo, ad esempio, che l'ufficiale
giudiziario che esegueunl pignoramento sia mosso a compassione e paghi il debito per il quale il
pignoramento era stato richiesto: nei confronti del debitore, questo è un pagamento senza
causa. Altro esempio è quello di un professionista che svolge una prestazione in base a un
contratto nullo. Contratto nullo, prestazione eseguita, il committente l’ha utilizzata: in questo
caso trova appropriata applicazione l'azione generale di arricchimento.

L'ingiustificato arricchimento comporta che l'arricchito è tenuto a un obbligo di indennizzo o a


un obbligo di restituzione.
L'obbligo di indennizzo consiste nell'obbligo di corrispondere una somma di denaro, determinata
in ragione dell'arricchimento conseguito, ma nei limiti dell'impoverimento altrui. Nell'esempio del
proprietario che costruisce con i materiali altrui, non ha importanza che la costituzione abbia un
grande valore, perché quello di cui occorre tener conto è l’impoverimento subito dal proprietario dei
materiali e pertanto si farà riferimento al valore di mercato degli stessi materiali.
Secondo la giurisprudenza bisogna tener conto del valore dell'arricchimento al tempo della sentenza.
La legge dice però che, se l'arricchimento ha come oggetto una cosa determinata, l'arricchito è
tenuto a restituirla in natura, se essa esiste ancora al tempo della domanda. L'esempio può essere
quello del mandato nullo, in esecuzione del quale il mandatario ha acquistato un bene impiegando i
fondi del mandante. Qui l'azione di arricchimento vuole che il bene, comprato con i soldi del mandante,
sia restituito allo stesso.
È tuttavia possibile che la restituzione sia impedita, perché il bene in questione è stato distrutto o
alienato: saranno allora da applicare in analogia i principi già esaminati in tema di pagamento
d’indebito, distinguendo ancora una volta tra buona fede e malafede dell'arricchito.

Un dato di particolare importanza è costituito dal carattere sussidiario dell'azione generale di


arricchimento. Carattere sussidiario significa che essa - come dice l’art. 2042 c.c. - non è proponibile
quando il danneggiato può esercitare un'altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito.
Si tratta quindi di un rimedio previsto in termini molto generali, ma che trova applicazione solo
quando non sia esperibile un rimedio specifico. Secondo l'interpretazione che viene data alla
sussidiarietà dell'azione, la stessa non è proponibile quando il rimedio specifico non sia più
proponibile per decadenza, prescrizione o altra causa.

Qualche cenno sull'azione generale di arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione.
Questa azione è certamente esperibile anche nei confronti dello Stato e degli enti pubblici; tuttavia,
secondo un costante e consolidato orientamento giurisprudenziale, ai fini dell’esperibilità dell’azione
nei confronti della pubblica amministrazione, occorre che questa abbia riconosciuto l'utilità
acquisita, considerando che tale riconoscimento può essere anche tacito.
Poniamo l’ipotesi di una prestazione di un professionista in base ad un contratto inefficace nei confronti
della pubblica amministrazione, perché posto in essere da un organo non competente ad impegnare la
pubblica amministrazione. Affinché il professionista venga indennizzato l'amministrazione deve
riconoscere l'utilità della sua prestazione, il che può avvenire in maniera espressa o tacita, cioè, ad
esempio, con la effettiva utilizzazione della prestazione effettuata dal professionista (ad esempio, il
progetto del professionista viene poi realizzato).

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 113

Va tuttavia detto che la dottrina contesta la fondatezza di questo orientamento giurisprudenziale


restrittivo, perché non si vede il motivo per cui la pubblica amministrazione possa arricchirsi senza
una giusta causa, quando non abbia riconosciuto l'utilità di una prestazione che obiettivamente
risulta accertabile o accertata. Si viene a creare così una situazione di indubbio privilegio della
pubblica amministrazione rispetto agli altri privati, che sono tenuti nei limiti dell'arricchimento e del
correlativo impoverimento senza bisogno che vi sia da parte dell'arricchito un riconoscimento della
utilità percepita.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 114

9. Differenze tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.


La responsabilità precontrattuale. Il contratto preliminare.
9.1 > Differenze tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale

La differenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale è rilevantissima.


Le due responsabilità sono disciplinate in due parti diverse del nostro codice civile: la
responsabilità contrattuale è disciplinata dagli articoli 1218 ss. del codice civile, mentre la
responsabilità extracontrattuale o da fatto illecito è disciplinata dagli articoli 2043 ss. del codice.
La disciplina della responsabilità extracontrattuale richiama in parte quella della contrattuale, ma le
fattispecie e le conseguenze sono piuttosto diverse. Nell'ambito scolastico, ad esempio, con riguardo
ai danni che si possono produrre agli allievi, le fattispecie sono trattate diversamente a seconda che
si tratti di un danno all’allievo da responsabilità contrattuale o da responsabilità extracontrattuale
(ad esempio uno stiramento di un allievo durante l’ora di educazione fisica è un danno cagionato
dall’allievo a sé stesso: in questo caso si rientra nell’ambito della responsabilità contrattuale, perché vi è
inadempimento di una specifica obbligazione di sorveglianza a carico della scuola. Diversamente, se
l’allievo subisce un pugno da un altro, è un danno cagionato da un allievo ad altri e si rientra nella
responsabilità extracontrattuale, facendo parte del generico principio del neminen laedere).
Quando si causa un danno ingiusto si risponderà secondo gli schemi e la disciplina della
responsabilità extracontrattuale per fatto illecito, quando si è inadempienti rispetto a
un’obbligazione la responsabilità sarà contrattuale (o da inadempimento dell'obbligazione).

Esaminiamo le differenze tra i due tipi di disciplina (art.1218 vs art.2043 del codice civile).
L'art. 2043 c.c. definisce la responsabilità extracontrattuale o da fatto illecito: “Qualunque fatto
doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a
risarcire il danno”. Si tratta quindi di una responsabilità che sorge con il danno ingiusto, è una
fattispecie di danno ed è meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico. Se viene cagionato un
danno ingiusto, il pregiudizio dell’interesse - meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico -
è ingiusto e nasce un illecito se questo danno è causato volontariamente o negligentemente da un
soggetto, con l'obbligo che l'autore del fatto debba risarcire il danno.
Del tutto diversa è l'impostazione dell'art. 1218 sulla responsabilità contrattuale o da
inadempimento delle obbligazioni, in quanto la fattispecie non è di danno ma giuridica. Secondo
l'art. 1218 non è necessario che si produca un danno, ma la responsabilità sorge prima, con
l'inadempimento (cioè la non esatta esecuzione della prestazione). Può ben sorgere l'obbligo di
risarcire il danno, ma questo è eventuale. Si pensi a un insegnante che esce da lezione sempre 15
minuti prima del turno, pur riuscendo a compiere tutto il suo lavoro; l’insegnante è comunque
inadempiente rispetto al suo contratto di lavoro, che prevede la sua presenza anche in quei 15 minuti.
La responsabilità sorge, quindi, a prescindere dall’effettuarsi di un danno.
L'articolo 1218 c.c. dice che “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al
risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da
impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

Già dalla dizione di questi due articoli si nota una prima differenza in termini probatori: nella
responsabilità extracontrattuale chi subisce il danno ha l'onere di provare i fatti costitutivi
della domanda giudiziale, quindi deve provare che c'è stato qualcuno che negligentemente o
dolosamente gli ha cagionato un danno ingiusto. Per quanto riguarda la responsabilità
contrattuale è tutto invertito, perché si ha un titolo, ex art. 1218, e – in caso di mancato rispetto del
programma contrattuale - è a carico del debitore la prova che l'inadempimento o il ritardo sia
stato determinato da una impossibilità di adempiere derivante da causa non imputabile.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 115

Altra differenza si rileva in termini di prescrizione. Nella responsabilità extracontrattuale,


proprio in virtù della mancanza di un titolo, la legge ha dato un termine di prescrizione breve: si
può richiedere il risarcimento del danno avvenuto da fatto illecito entro cinque anni. Questo perché
la ricostruzione dei fatti in giudizio, non esistendo un titolo, spesso dovrà essere fatta mediante
testimonianze ed è difficile ipotizzare che i testimoni ricordino qualcosa accaduto 8/10 anni prima.
Nella responsabilità contrattuale, essendoci il titolo, esiste una facilità di prova del diritto a quella
determinata prestazione, pertanto la prescrizione prevista è quella ordinaria, cioè 10 anni.

Ulteriori differenze si pongono in tema alla capacità dei soggetti.


Nel caso di responsabilità extracontrattuale risponde direttamente come responsabile per fatto
illecito chiunque abbia la capacità di intendere e di volere (ad esempio, l'allievo sedicenne di una
scuola che sia già capace di intendere e di volere). Anche l'interdetto potrebbe rispondere in via
extracontrattuale (ad esempio in un attimo di lucidità), bastando la capacità di intendere e di volere
che è la capacità naturale, cioè quella di comprendere le conseguenze delle proprie azioni.
La responsabilità contrattuale è legata, invece, alla possibilità di contrattare, di entrare in
obbligazioni e quindi alla capacità di agire (ad esempio il minorenne non potrà iscriversi da solo a
scuola). Per stringere un’obbligazione serve la capacità di agire che si acquisisce con la maggiore età.

Diverso è, nelle due responsabilità, anche il danno risarcibile.


Nella responsabilità extracontrattuale si applicano solo gli articoli 1223, 1226 e 1227, non si
applica l'articolo 1225 (per il rimando effettuato in merito dall’art. 2056). Nel caso di responsabilità
contrattuale valgono invece gli articoli 1223, 1225, 1226, 1227 del codice civile.
Quindi, in entrambi i casi, nella quantificazione rientra sempre il danno emergente e il lucro cessante
(art. 1223), ed è sempre possibile sia la valutazione equitativa da parte del giudice (art. 1226) che la
riduzione dell’ammontare del risarcimento per il concorso del creditore nel fatto colposo o per i
danni che il creditore/danneggiato avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza (art. 1227).
Nella responsabilità extracontrattuale non si applica, invece, l'art.1225, che parla della prevedibilità
del danno (non nei casi di dolo) e si applica solo nel caso di risarcimento da responsabilità
contrattuale. Ciò in virtù del mancato richiamo dell’art. 2056 al suddetto art. 1225.
Nella responsabilità contrattuale si risarciscono i soli danni prevedibili. E’ giusto che ci sia questa
differenza, perché, in questo caso, i due soggetti sono in contatto tra di loro – avendo contrattato - e
la legge vuole che “tirino fuori tutti gli interessi” (ad esempio viene taciuto, in sede di iscrizione a
scuola, che lo studente ha un’attività agonistica che è fonte di guadagno: in questo caso i danni in caso
di stiramento saranno dovuti come per qualsiasi altro soggetto. Ciò perché, non essendo stata informata
la scuola di tale situazione, essa risponde solo dei danni prevedibili).
Quando i soggetti, invece, “si incontrano con il danno” - responsabilità extracontrattuale - non si
può dire che sono risarcibili solo i danni prevedibili, perché non si ha un precedente rapporto
obbligatorio; quindi saranno risarcibili anche i danni non prevedibili. Perciò il mancato richiamo
dall’art. 2056 all’art. 1225: ricordiamo, tuttavia, che in caso di dolo i danni non prevedibili sono
dovuti anche in caso di responsabilità contrattuale. C'è però un temperamento previsto per la
responsabilità extracontrattuale: il mancato guadagno, secondo il comma secondo dell’art. 2056 c.c.,
viene valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso. Perché,
tendenzialmente, quando si parla di danni imprevedibili, spesso c’è mancato guadagno ed è quindi
giusto valutare tutte le circostanze del caso specifico.

Ultima differenza in termini di mora: essa è automatica nella responsabilità extracontrattuale, e


non automatica nella responsabilità contrattuale.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 116

9.2 > La responsabilità precontrattuale

La responsabilità precontrattuale – I
La responsabilità precontrattuale si aggiunge alle altre due ipotesi di responsabilità che
conosciamo. Sforzi da dottrina e giurisprudenza per cercare di inquadrare questa responsabilità
all'interno dell'uno o dell'altro settore. Ipotesi in questa sede non recepita, in quanto si tratta di una
responsabilità che deve trovare le sue regole di volta in volta, in relazione alla singola fattispecie
che si deve analizzare, senza un inquadramento aprioristico all'interno di una categoria diversa.
Del resto il codice civile ha scelto un termine, diverso appunto, dalla responsabilità extracontrattuale
e dalla responsabilità contrattuale.
La responsabilità precontrattuale riguarda la fase precedente la formazione del contratto, cioè le
trattative, in cui i soggetti cercano di trovare quell'accordo che successivamente diventerà contratto.
Proprio all'interno delle norme sull'accordo si trovano le norme che in generale vengono prese in
considerazione quando si tratta di responsabilità precontrattuale: artt. 1337 e 1338 c.c.

Art. 1337 c.c. > “ Trattative e responsabilità precontrattuale - Le parti, nello svolgimento delle
trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede.”
Notiamo come l’art. 1337 utilizzi il termine responsabilità precontrattuale, proprio perché la norma
vuole introdurre volutamente un nuovo termine: già a livello terminologico si dovrebbe dire che si
tratta di una responsabilità nuove diversa rispetto alle altre due responsabilità.
L’art.1337 stabilisce un obbligo di comportamento tra soggetti: la buona fede. Nella disposizione
si nota l'utilizzazione del termine parti: in realtà si può parlare di parti quando il contratto è già
concluso; in caso contrario, astrattamente non si dovrebbe parlare di parti, ma queste sono
classificazioni che lasciano il tempo che trovano. Se due soggetti sono già in contatto tra di loro,
secondo il legislatore, sono già da considerare parti, e quindi sono già in un rapporto reciproco. Per
“parti” si dovrà pertanto intendere “centro di interessi diversi”.
Si dice, poi, che nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, le parti devono
comportarsi secondo buona fede. Questa è una norma che si inserisce all'interno delle norme
dedicate all'accordo contrattuale, ed è proprio alla fase di formazione dell'accordo che fa riferimento
l'art. 1337, perciò è inserita è tra quegli articoli che riguardano la formazione dell'accordo.
Cos’è la buona fede? In generale per buona fede deve intendersi una fede oggettiva, un
comportamento leale, corretto (qualcuno la identifica infatti con la correttezza, comportamento
per cui un soggetto cerca anche di soddisfare l'interesse dell'altra parte nei limiti di un apprezzabile
sacrificio del proprio interesse). In altri termini, per buona fede si può intendere il significato di
lealtà, cioè comportarsi lealmente in modo da non ingenerare legittimi affidamenti poi resi vani.

Art. 1338 c.c. > “Conoscenza delle cause di invalidità - La parte che, conoscendo o dovendo conoscere
l'esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all'altra parte, è tenuta a
risarcire il danno da questa risentito per aver confidato, senza sua colpa nella validità del contratto.”
Questa è un'ipotesi specifica che riguarda i contratti che sono poi invalidi; la parte che dà origine
a tale invalidità - che la conosceva o avrebbe dovuto conoscerla in base a presunzioni di legge - se
lascia l’altra parte nella inconsapevolezza in merito a questa invalidità deve rispondere per il danno
che arreca all'altra parte. Ad esempio un soggetto dà origine a un contratto viziato da dolo, perché ha
posto in essere dei raggiri: l’altra parte avrebbe dovuto conoscere l'invalidità di quel contratto.
Questa norma, a differenza di quella precedente, dà una disciplina degli effetti – e non un obbligo di
comportamento come l’art. 1337- stabilendo che c’è un danno e che deve essere risarcito.

Il dovere di buona fede prevede un obbligo di comportamento, ma non prevede direttamente un


obbligo di risarcimento del danno. Quindi a quale norma ci si deve rifare per il risarcimento del

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 117

danno? Quando una fattispecie non è regolata con una specifica disciplina (ma è stabilita una regola,
cioè l’obbligo di buona fede), si deve, come sappiamo, fare ricorso all'analogia ex art. 12 preleggi.
L’analogia ci porterà o all’art. 1218 c.c. o all'art. 2043 c.c., non volendo significare però che la
responsabilità precontrattuale vada inquadrata in una delle due responsabilità descritte.
Perverremo allora a una norma che prevede un risarcimento del danno, perché sicuramente un
danno deve essere risarcito nel caso in cui il soggetto non si comporti secondo il canone di buona
fede e contravvenga a quanto previsto dall’art. 1337.
Con l'art. 1337 si vuole tutelare l'affidamento della parte nella prosecuzione delle trattative. Il
campo di operatività di questo articolo è ristretto, perché qualsiasi altra ipotesi di mancanza di
buona fede nello svolgimento delle trattative, o è già disciplinato dall'art. 1338 (è certo che il
soggetto non è buona fede se conosce una causa di invalidità del contratto e non ne ha dato notizia
all'altra parte) o è disciplinato da altre norme (ad esempio, stipula senza avere la procura: si ha
sicuramente una violazione degli obblighi di buona fede e si crea sicuramente un pregiudizio per la
parte che fa affidamento sulla parte con la quale è in trattative).
L’art. 1337 ha una sua portata autonoma solo per la tutela della parte nella prosecuzione delle
trattative. Il soggetto – sia chiaro - non può fare affidamento sulla conclusione del contratto, perché
anche fino all'ultimo minuto si può decidere di non stipularlo. Se nell'altra parte, tuttavia, si è creato
l'affidamento nella prosecuzione, interrompere le trattative senza una legittima ragione è causa di
responsabilità precontrattuale e quindi obbliga a risarcire il danno.

Presupposto principale è che non si sia già perfezionato il contratto. A volte, è labile il discrimine
tra il momento in cui il contratto non si è ancora perfezionato e il momento in cui invece si è
perfezionato: in alcuni casi, infatti, le parti prendono degli accordi su alcuni punti, anche per
iscritto, ma non intendono ancora vincolarsi sul contratto. Ad esempio, vendita di un immobile: ci si è
accordati già sui costi da sostenere per ciascuna parte, ma non ci si è ancora accordati sul prezzo. Non
si può ritenere che il contratto sia concluso, pur in presenza di una puntuazione.
La puntuazione è uno scritto che riporta il consenso parziale raggiunto su alcune clausole del
contratto, senza che le parti abbiano ancora deciso di vincolarsi sul contratto. La vincolatività dello
stesso resta subordinata al raggiungimento dell'accordo su tutte le clausole. Le parti non subiscono il
rischio del vincolo e si ha mera valenza probatoria.
Discrimine tra puntuazione e contratto concluso: in alcuni casi l'accordo sui punti essenziali
(nelle forme previste dalla legge), può portare le parti a obbligarsi, consapevolmente o meno (tranne
che l’accordo non sia subordinato alla definizione di punti secondari). Ad esempio, le parti per iscritto
trovano l'accordo su prezzo e oggetto di vendita: in quel caso difficilmente si può dire che il contratto
non è concluso, a meno che non sia detto esplicitamente che ancora non ci si intendeva vincolare. La
qualificazione di un contratto è un'opera rimessa a quella dell'interprete: se si porta quel foglio davanti
a un giudice, questi potrebbe ben dire che quello è un contratto già concluso, perché il prezzo e l’oggetto
sono già stato stabilito. Per il resto non definito, ci sono le norme suppletive, nel caso in cui le parti non
abbiano previsto nulla. Se le parti, quindi, prevedono gli elementi essenziali del contratto e su questi
trovano l'accordo, alle altre regole pensa – con le norme suppletive - il codice civile.
Quando si sono messi per iscritto i punti essenziali relativi all’accordo non si può facilmente
asserire che il contratto non sia concluso. La fattispecie raggiunta può essere già qualificata come
fattispecie contrattuale definitiva – in tal caso, le parti accettano e subiscono il rischio del vincolo.
Vedi ad esempio Cassazione n. 23.289/2006, sentenza in cui sembra che il giudice abbia inserito nel
quadro della responsabilità precontrattuale una responsabilità che in realtà non lo è. In questo caso,
in prossimità della messa in scena di un'opera artistica, il committente ha deciso di recedere dal
contratto, ma gli artisti avevano già predisposto per gli intervenuti accordi, tutto l'occorrente per la
messa in scena. Gli artisti devono essere pagati perché il contratto può considerarsi concluso: sembra
più corretto recepire che quella esposta sia una responsabilità contrattuale.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 118

In alcuni casi la differenza è tra una mera puntuazione e un contratto preliminare, risolvendosi
spesso la puntuazione in degli accordi che rimandano ad una successiva fase per l'accordo definitivo.
Il contratto preliminare è invece un contratto tramite cui le parti si obbligano a stipulare un contratto
definitivo.
Nella puntuazione le parti non si obbligano a stipulare un contratto definitivo: mettono semmai
nero su bianco quali sono i punti sui quali è già stato trovato un accordo. In alcuni casi scrivono
anche che si devono rivedere per la contrattazione definitiva in una determinata data, o rimandano a
un periodo entro quale si deve concludere la contrattazione definitiva. Quindi il discrimine diventa
sottile e, se per caso si raggiunge un accordo sui punti essenziali (sui secondari non serve accordo),
il contratto potrebbe essere considerato già un contratto preliminare a tutti gli effetti.
Il contratto preliminare è già un contratto, ne consegue che la responsabilità che ne deriva è una
responsabilità contrattuale. Questo implica che il risarcimento richiedibile è detto per interesse
positivo, trattandosi di una responsabilità che riguarda l'esecuzione di un contratto che non è stato
eseguito, e quindi il risarcimento deve essere rapportato a quella mancata esecuzione. Mentre, per la
responsabilità precontrattuale, il risarcimento non può essere rapportato all'effettiva conclusione
del contratto, perché nessuno prima del contratto può dare delle certezze in ordine alla conclusione
dello stesso, ma si deve semplicemente tutelare il legittimo affidamento dell'altra parte. Pertanto,
in caso di responsabilità precontrattuale, è un risarcimento per interesse negativo: cioè le spese
sostenute o il danno sofferto dal soggetto che confidava nella validità di un determinato contratto, o
nella prosecuzione delle trattative.
L’art. 2932 c.c., peraltro, prevede una esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre.
Esso permette al soggetto che è parte di un contratto preliminare, in caso di non adempimento
dell'altra parte, di richiedere al giudice una sentenza che tenga luogo del contratto non concluso: la
sentenza del giudice si sostituisce al contratto definitivo.

Il presupposto per ritenere un soggetto responsabile ex art. 1337, cioè per il caso di recesso
ingiustificato dalle trattative, è che le parti devono aver preso in considerazione gli elementi
essenziali del contratto, pertanto si deve essere in una fase in cui la trattativa ha raggiunto una
certa serietà. Ad esempio, nella vendita di un immobile se non si è mai parlato di prezzo o si è parlato
solo telefonicamente, non si può affermare di aver fatto legittimamente affidamento sulla prosecuzione
del contratto. L’immobile può essere venduto ad altri senza avviso, salvo che si sia stipulato un patto
occasionato dalla trattativa precontrattuale: ci si accorda affinché colui che vende l’immobile avvisi
l’altra parte prima di accettare una proposta concreta di acquisto da altro soggetto del mercato. E’
qualcosa di simile all’opzione e, in tal caso, il mancato avviso comporta responsabilità contrattuale
(non è assolutamente da configurare come patto di prelazione, difatti il soggetto avvisato potrebbe
essere tenuto ad acquistare l’immobile a un prezzo più elevato di quello offerto dal mercato).
Esistono vari tipi di patti precontrattuali che portano a responsabilità contrattuale per la chance
perduta di raggiungere la contrattazione:
1. il patto di riserbo, con cui le parti si obbligano a non divulgare informazioni sull’affare;
2. il patto di esclusiva, con cui la parte si obbliga a non svolgere trattative con altri soggetti;
3. il patto di rimborsare le spese connesse alle trattative;
Il dovere di comportarsi secondo buona fede può risultare anche da un apposito patto sulle
trattative, a cui può accedere una clausola penale per il recesso ingiustificato. In questo caso si dovrà
risarcire anche l'interesse positivo (oltre a quello negativo), perché c’è già un accordo fra i soggetti e
il danno si configura come perdita di chance di raggiungere la contrattazione.
L’art. 1337 deve essere visto come norma di bilanciamento di due opposti principi:
• quello della libertà negoziale, vista anche come libertà di non concludere alcun contratto;
• la tutela del ragionevole affidamento di chi confida nella prosecuzione delle trattative.
Il recesso dalle trattative, qualora non violi il ragionevole affidamento dell'altra parte, in linea
generale non deve essere motivato (può avvenire ad nutum). La motivazione del recesso potrebbe

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 119

però rendere più ragionevole l'affidamento dell'altra parte, soprattutto se sopraggiunge una causa di
recesso di sicuro rilievo economico e/o personale.
Ad esempio, le informazioni raccolte in merito alla insolvenza di una parte portano alla decisione di non
proseguire le trattative. In questa situazione, l’altra parte può eccepire qualcosa, ad esempio un caso di
omonimia. In ogni caso il recesso è motivato da insolvenza effettiva (non presunta o per confusione) è
pienamente legittimo e non comporta alcuna responsabilità precontrattuale. Il soggetto attualmente
insolvente non può legittimamente confidare nella prosecuzione delle trattative (essendo queste inutili
e anche potenzialmente dannose per l’altra parte).

La responsabilità precontrattuale – II
Ci occuperemo degli aspetti riguardanti il problema del risarcimento del danno connesso alla
responsabilità precontrattuale, nonché i limiti cui un soggetto può davvero considerarsi in
responsabilità precontrattuale.
Non si deve esagerare nel prospettare una responsabilità precontrattuale, perché il “gioco”
dell'autonomia negoziale consente un libero esplicarsi delle manifestazioni esteriori tra le parti, nel
limite in cui ciò non vada a pregiudicare l'altra parte, abusando della propria posizione e
contravvenendo ciò che l'altra parte legittimamente si deve poter attendere.
L’art. 1338 è una norma che prevede l’obbligo di risarcimento e si delimita al c.d. “danno negativo”.
Essa riguarda il caso in cui un soggetto che conosce, o avrebbe dovuto conoscere la causa di invalidità
di un contratto, e, se non ne dà notizia all'altra parte, diviene responsabile per il danno sofferto
dall'altra parte che ha confidato nella validità del contratto stesso.
Cosa si intende per interesse delimitato al danno negativo? Per interesse negativo si intendono le
spese che il soggetto ha effettuato per pervenire a quel determinato contratto, ovvero tutto ciò che
quel soggetto ha fatto per arrivare a quel contratto valido e anche nelle chance eventualmente
perdute (nei limiti in cui i due soggetti si potevano aspettare un determinato danno da un
determinato comportamento contrario alla norma. Salvo casi eccezionali, il danno non dovrebbe
quindi essere risarcito se imprevedibile).
Quando si parla di interesse negativo, lo si contrappone all’interesse positivo, che deve essere
risarcito nel caso in cui il contratto sia concluso: se il contratto è validamente perfezionato, la parte
è tenuta all'adempimento. Con l’art. 1338, invece, ci si ferma al momento della stipula: l'interesse
che si può risarcire è quello che considera semplicemente l'aver stipulato il contratto invalido.

Presupposto di applicazione della norma in analisi è che si sia perfezionato un contratto invalido.
Secondo alcuni questa norma è da applicarsi anche ai contratti inesistenti e a quelli inefficaci
benché validi. In realtà, in questa sede sembra più opportuno attenersi un'interpretazione
strettamente letterale del testo normativo, che parla appunto solo di invalidità.
L’analisi di queste fattispecie aiuterà a capire perché non possono rientrare in quelle ex art. 1338 c.c.
Nel caso di inesistenza del contratto (il contratto è inesistente quando non si è neanche raggiunta
la fase dell'accordo), le parti non sono vincolate e il contratto non esiste proprio: se non esiste siamo
ancora nella fase delle trattative, entro la quale la parte che avrebbe l'onere di informare l'altra in
merito ad un eventuale causa di invalidità, potrebbe ancora farlo.
Nel caso di inefficacia del contratto (situazione in cui versa un contratto perfettamente valido e
perfezionato, che però non produce effetti, e può avvenire per svariate ragioni: ad esempio perché si
è subordinata l'efficacia del contratto all'avverarsi di una condizione), questa non può essere
considerata alla stregua dell’invalidità e non si applica l’art.1338, perciò il contratto è valido. Se una
parte non informa l'altra del fatto che questo contratto avrà efficacia solo in seguito all'avveramento
di tale condizione, non può ritenersi responsabile, perché l'ignoranza della legge non scusa al
soggetto che la ignora. Questo perché l'operatività della condizione è un effetto di legge, e, se
viene apposta una condizione al contratto, questo contratto non ha efficacia fino a che non si verifica
detta condizione. Il soggetto che contrae non può ritenersi onerato di andare a spiegare all'altra

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 120

parte come funziona la legge, perché l'altra parte ha l'onere di conoscere la legge (se quindi, ad
esempio, si mette per iscritto una condizione senza la quale non possono prodursi gli effetti di un
contratto, l’altra parte ha l’onere di sapere che per legge questo non produrrà effetti).
Altra causa di inefficacia è quella del falsus procurator, che vende una cosa non propria o che
vende senza avere la procura, in nome e per conto di un soggetto che non gli ha dato la procura o
eccedendo i limiti della procura. In questo caso sussiste una responsabilità, ma è sbagliato inserirla
nell’ambito di applicazione dell’art. 1338. Infatti, seppur si può parlare di responsabilità che riguarda
la fase precontrattuale (avendo un soggetto fatto qualcosa per condurre un altro a stipulare un
contratto, manifestando con la volontà come se fosse in nome e per conto di un soggetto che in realtà
non gli aveva mai conferito il potere di rappresentarlo) si rientra comunque nella fase precedente
della formazione del contratto, ma non rientrante nell'articolo in analisi che parla di invalidità, bensì
nell’art. 1398 c.c., che altrimenti sarebbe un doppione. Esso stabilisce che “se il soggetto agisce
senza aver procura o eccedendo i limiti della procura, è responsabile del danno sofferto dall'altra parte
che senza sua colpa ha confidato nell’efficacia del contratto”. Il contratto stipulato dal soggetto non
legittimato, non è un contratto invalido, ma un contratto non efficace: ciò perché se successivamente
interviene la ratifica del soggetto legittimato, allora il contratto produrrà effetti (se fosse invalido ciò
non potrebbe avvenire).

La responsabilità precontrattuale porta ad un risarcimento per interesse negativo.


Questo risarcimento può essere modulato in relazione a determinati fattori: se c'è dolo (cioè la
parte intenzionalmente causa un pregiudizio in sede di trattativa), dobbiamo ritenere che la
responsabilità debba aggravarsi. Questo perché nel nostro sistema di responsabilità civile, in genere,
quando c’è il dolo la responsabilità è più grave, come si evince dall’art. 1225 c.c.: “salvo il caso di dolo,
il danno risarcibile è quello che era prevedibile nel momento in cui è sorta l'obbligazione” a cui non
rinvia l’art. 2056 c.c., secondo cui il risarcimento del danno extra contrattuale deve contemplare
anche i danni imprevedibili.
Ricordando che in questa sede si assume che l’art. 1337 vada applicato in via diretta al solo
recesso ingiustificato dalle trattative, vediamo alcuni esempi del fatto che se c’è dolo varia il tipo
di risarcimento:
1. si porta avanti la trattativa con un soggetto con l'intento iniziale (doloso) di non concludere
alcun contratto. In questo caso si applica l’art. 1337 e il dolo può giocare un ruolo nella
quantificazione del danno risarcibile: dobbiamo quindi ritenere che siano risarcibili anche
danni imprevedibili, perché si sta intenzionalmente prendendo in giro l'altra parte e si sta
ledendo la libertà negoziale dell'altra parte in maniera dolosa;
2. si conosce esattamente una causa di invalidità del contratto, ma si va avanti nella
contrattazione, senza avvisare l'altra parte che invece confida nella validità del negozio. Il
soggetto si rende conto perfettamente che l’altra parte ritiene che quell'anello che gli sta
vendendo è d’oro, perché lo ha sentito parlare con un parente. Se in realtà quell'anello non è
d’oro ed è stato messo semplicemente in vendita un anello, che potrebbe anche sembrare d'oro e
il soggetto lo sta acquistando credendo sia d’ora. Siamo qui di fronte a una causa di invalidità
del contratto, perché c'è un errore riconoscibile dall'altra parte. Il fatto che ci sia dolo nel
portare avanti la trattativa - sapendo bene che quel contratto è annullabile per errore –
comporta che si deve risarcire il danno risentito dall'altra parte che ha confidato senza sua
colpa nella validità del contratto. In questo caso si applica l’art. 1338 e, essendoci il dolo,
dovranno essere ritenuti anche in questo caso risarcibili i danni imprevedibili.

Nel risarcimento dobbiamo tenere anche presenti le norme che in generale presiedono al
risarcimento; sia per la responsabilità contrattuale che per quella extracontrattuale si applica l’art.
1227 cc., che attenua la responsabilità del soggetto nel caso di concorso di colpa del danneggiato:
la colpa del soggetto danneggiato dà luogo a un'attenuazione del risarcimento.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 121

Il problema che sorge è il seguente: l’art. 1337 dice semplicemente che le parti sono tenute a
comportarsi secondo buona fede e non disciplina l’eventuale risarcimento. Quindi, se c'è una colpa
anche dalla parte che viene danneggiata dalla malafede dell'altra, il concorso di colpa deve essere
tenuto in considerazione e il risarcimento attenuato di conseguenza ex art. 1227, I comma.
Pertanto, nel caso di applicazione dell'art. 1337 per il recesso ingiustificato dalle trattative, il
concorso di colpa può giocare qualche ruolo nell'attenuazione degli obblighi risarcitori.
Con riguardo all'articolo 1338, invece il ruolo del concorso di colpa deve essere ridimensionato
se non addirittura escluso. Tale articolo dice che il danno da risarcire deve essere quello per aver
confidato senza colpa nella validità del contratto: se c'è anche colpa del danneggiato (ad esempio non
ha verificato che l’anello fosse d’oro pur essendoci una targhetta) non si può ritenere letteralmente
applicabile l'articolo 1338. Esso infatti onera dal risarcimento del danno la parte, solo quando l'altra
ha confidato senza sua colpa nella validità del contratto.
In entrambe le fattispecie (ex artt. 1337 e 1338) la colpa nell'accrescimento del danno deve essere
sempre valutata secondo quanto previsto dall’art. 1227, II comma (accrescimento del danno). Esso
parla delle conseguenze dannose che conseguono rispetto alla produzione di un danno: se queste
conseguenze vengono accresciute o il danno si produce o accresce con colpa del danneggiato, il
risarcimento deve essere attenuato (ad esempio, confido nella validità di un contratto senza colpa ed
essendo certo sulla sua conclusione, chiamo un’agenzia per rivendere il bene oggetto del contratto.
Successivamente, nonostante mi sto rendendo conto che il contratto sarebbe stato invalido, proseguo
nel rapporto coi terzi: in questo caso sto accrescendo colposamente il danno).

Obblighi di informazione. Non bisogna esagerare nel ritenere sussistenti degli obblighi gravanti
sulle parti in sede precontrattuale, in quanto esiste nel nostro ordinamento un principio generale
di libertà negoziale.
Primo esempio: Tizio sa che esiste un progetto comunale che farà cessare l'edificabilità del suo terreno
e decide di metterlo in vendita senza avvisare la controparte, che poi acquista un terreno edificabile che
perde da lì a poco l’edificabilità. Un esempio di questo genere fa comprendere come nella
contrattazione ognuno si dovrebbe prendere il rischio delle azioni che compie: quindi, se vado a
contrattare sono io a dovermi informare. Nell’esempio, si deve escludere che un soggetto che vende
un bene attualmente edificabile possa considerarsi responsabile per non aver avvisato la controparte
che il terreno perderà la sua edificabilità: questa fattispecie per l'altra parte non configurerebbe un
errore rilevante per il diritto, ma solo un errore di previsione. Infatti, quando il contratto si conclude,
quel terreno è ancora edificabile. L'errore che rileva nel nostro ordinamento non è quello di
previsione ma quello che consiste in una divergenza tra ciò che viene stipulato e la rappresentazione
che si aveva di ciò (non c’è divergenza perché chi acquista ha la rappresentazione di una qualità che il
terreno in quel momento possiede). L'errore di previsione per il nostro ordinamento è
irrilevante: non si può annullare il contratto per errore di previsione, pertanto è perfettamente
valido. Non sussiste onere di informazione in capo a chi vende, ma un dovere di informazione in capo
a chi acquista.
Secondo numero: Tizio sa che esiste un progetto comunale che darà l'edificabilità al terreno di Caio,
che, ignaro di questo, lo vende come terreno agricolo. C'è responsabilità precontrattuale? Anche qui c'è
un errore di previsione da parte di Caio, ma Tizio è stato bravo a interessarsi riguardo il terreno; Caio
è stato più negligente riguardo la gestione dei propri beni, e non ha saputo informarsi bene prima di
vendere un bene che verosimilmente avrebbe acquistato valore in futuro.
Anche qui si deve ritenere che Tizio non abbia alcuna responsabilità precontrattuale. C'è sicuramente
un'omissione di informazione ma non può rilevare come dolo omissivo, perché non si può ritenere
che esista un obbligo preesistente ad informare l'altra parte.
In merito invece ai raggiri, diverso discorso va fatto se una parte tenta di ingannare l'altra: valutiamo
l'ipotesi di Tizio che scopre che un terreno perderà la sua edificabilità e riferisce a Caio che invece quel
terreno manterrà tale edificabilità, al fine di concludere l'affare. Ci troveremmo di fronte ad un

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 122

raggiro, perché certamente Tizio sta inducendo la controparte in un errore di previsione in modo
doloso. In questo caso il contratto è annullabile per dolo; non c’è tuttavia errore nel momento di
perfezionamento del contratto.
Anche se, ad esempio, il soggetto induce l’altra parte alla vendita dicendo che quel terreno non
diverrà mai edificabile (sapendo che invece il nuovo piano regolatore lo prevede), in questo caso è
manifesto il dolo, c’è un raggiro (quindi responsabilità contrattuale e annullabilità del contratto) e si
potrebbe configurare anche la fattispecie della truffa.

In generale il problema che dobbiamo affrontare riguarda la consapevolezza in ordine alla


convenienza economica dell'affare.
Non si è tenuti a dare, all'altra parte, notizie in merito alla convenienza o meno dell'affare. Nel gioco
della trattazione le due parti devono riuscire a equilibrarsi da sole, in base alle informazioni che
ciascuna di esse riesce a carpire sul mercato. Non si è tenuti a confidare all'altra parte le proprie
informazioni private in ordine alla convenienza dell’affare. Ad esempio, ho fatto una ricerca
geologica da cui si scopre che sotto il terreno che sto per acquistare c’è molto oro. Posso validamente
acquistare il terreno, evitando di assicurare all’altra parte che non sussiste alcun pregio immobile? Sì,
perché le mie ricerche devono premiare me e non l’altra parte, inconsapevole. Salvi gli obblighi
derivanti dalla legge (come avviene, ad esempio, per medici e intermediari finanziari), ciascuno
deve affrontare il rischio connesso al proprio livello di conoscenza e di informazione privata.
Infatti, la collaborazione che può rintracciarsi nelle norme sulla responsabilità precontrattuale non
può giungere al punto di escludere la competizione tra le parti nel libero gioco del mercato.

La responsabilità precontrattuale – III


Il dolo incidente è disciplinato dall’art. 1440 c.c.: “Se i raggiri non sono stati tali da determinare il
consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse; ma il
contraente in mala fede risponde dei danni”.
L’art. 1440 cc. è una di quelle norme che permette di considerare sussistente una responsabilità di
tipo precontrattuale e di dare rilievo a una responsabilità che riguarda la fase antecedente rispetto
alla conclusione del contratto, quando in realtà però il contratto è già concluso. L'articolo in
questione riguarda infatti un contratto concluso, il quale nel suo assetto resta tale, ma nonostante ciò
si ipotizza un qualche effetto dovuto alla fase antecedente.
L'articolo si inserisce all'interno della disciplina del cosiddetto dolo contrattuale.
Per dolo contrattuale si intende uno dei vizi del consenso, per cui una parte con dei raggiri induce
l'altra parte in errore (che si fa una rappresentazione del contratto divergente rispetto a quello che
effettivamente quel contratto è).
In alcuni casi il dolo porta una parte a concludere il contratto e si chiama dolo determinante; in altri
casi il dolo spinge la parte a concludere il contratto a condizioni diverse, e si chiama dolo incidente.
Ad esempio: a Tizio viene detto che una casa particolare, permette, quando il cielo è sereno, di guardare
l'orizzonte fino a una determinata collina. Questo convince Tizio a concludere il contratto, pagando un
prezzo maggiore per quella casa che avrebbe acquistato comunque, in virtù di questa particolare vista.
Qualora il panorama in questione non sia in realtà visibile da quella casa, che Tizio ha acquistato a
prezzo maggiore, si verifica l'ipotesi di raggiro. Anche se non è inserito nel contratto per iscritto, questo
risulta essere un errore sui motivi e da ciò ne consegue che può essere richiesto l'annullamento per dolo
e non per errore, in quanto l'errore non sarebbe essenziale.

Il dolo incidente è un dolo che comporta non già la decisione di stipulare il contratto, che sarebbe
stato stipulato ugualmente, ma a condizioni diverse (nell’esempio, un prezzo diverso).
In questo caso l’art. 1440 dice che il contratto è perfettamente valido e non annullabile, ma c'è una
responsabilità in capo a chi ha posto in essere quel raggiro. L’acquirente ha diritto al risarcimento
del danno, corrispondente alla spesa in più scaturita dalla promessa falsa del venditore.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 123

Il dolo incidente è un dolo che riguarda la fase antecedente alla stipula del contratto, ma che
presuppone un’avvenuta conclusione del contratto stesso.
Secondo una risalente giurisprudenza, la responsabilità da dolo incidente sarebbe contrattuale a tutti
gli effetti: per Cassazione, n. 2840 17 Luglio 1976, la responsabilità da dolo incidente rientrerebbe
sempre nell'ambito della responsabilità contrattuale, perché ormai il contratto è concluso e quello
che è stato detto prima rientra ormai nei rapporti tra due parti contrattuali già divenute tali.
Secondo la recente giurisprudenza, invece, Cassazione, n. 14.056 11 Giugno 2010, la responsabilità
da dolo incidente è invece una responsabilità precontrattuale, perché si dà rilievo ad una circostanza,
e cioè che il fatto da cui deriva responsabilità è avvenuto durante la fase precontrattuale.
Bisogna ammettere che ormai, nella giurisprudenziale attuale, la fattispecie viene inquadrata come
responsabilità precontrattuale, ma è solo un problema terminologico: gli effetti sono sempre quelli
del risarcimento del danno che il soggetto ha dovuto subire per essere stato vittima del raggiro e
quindi il contratto è concluso e si arriva a questa conseguenza.

Il problema centrale da affrontare è quello della disciplina applicabile.


Questo perché l'articolo 1337 e l'articolo 1338 non stabiliscono assolutamente la quantificazione del
danno risarcibile, non stabiliscono quali sono gli oneri probatori, non stabiliscono nemmeno quale
sia la prescrizione di questa responsabilità. Al di là dell’inserimento in una categoria o l’altra, è
importante trovare il modo di riequilibrare le varie situazioni in caso di dolo incidente.
Qual è la prescrizione da applicare in caso di dolo incidente? Per rispondere a questa domanda,
l'interprete, che non ha una regola di prescrizione, deve rifarsi all'analogia ex art. 12 preleggi.
Le norme sulla prescrizione, ad esempio, prevedono che nel caso in cui si abbia una responsabilità da
contratto o da inadempimento di una obbligazione, la prescrizione sia decennale, esistendo un titolo,
l’obbligazione, la cui esistenza di questo titolo permette alla parte di portare in giudizio lo stesso
titolo e quindi si sanziona l'inerzia di chi per 10 anni non prova di questo diritto. L'articolo 2946 c.c.,
per questi casi, prevede l'applicazione della prescrizione ordinaria di 10 anni.
Nel caso del dolo incidente non c'è un titolo che obbliga specificamente la parte a non raggirare
l'altra; c'è solamente un soggetto che compie una sorta di illecito verso l'altro soggetto, interferendo
sull'altrui libertà negoziale e raggirandolo. Si sta cercando di fare valere qualcosa che non potrà
essere provata in giudizio con un titolo, ma potrà essere provata solo mediante dei testimoni, ad
esempio, o mediante delle presunzioni.
Con i testimoni succede, però, che è difficile saggiarne l’attendibilità su fatti molto risalenti. Per
questo motivo, con riguardo ai fatti illeciti, per cui non c'è un titolo da poter esibire in giudizio come
prova, l'ordinamento ha stabilito una prescrizione più breve, cinque anni.
In caso di dolo incidente il raggiro operato dalla parte non potrà essere ricostruito con un titolo
precedente, e il soggetto in giudizio potrà far valere una responsabilità dell'altra parte solo mediante
testimonianze. La testimonianza rientra nella ratio non già dell'articolo 2946 c.c. ma dell'articolo
2947 c.c.: è giusto, quindi, applicare per analogia al dolo incidentale l'art. 2947, che prevede una
prescrizione quinquennale.
Se però, ad esempio, da un documento scritto a parte, prima della conclusione del contratto
risultasse un raggiro, il giudice potrebbe stabilire diversamente e applicare la prescrizione
decennale, non avendo la responsabilità contrattuale una sua disciplina propria.
Quali sono i danni risarcibili nel caso di responsabilità precontrattuale per dolo incidente? Vi
sono delle norme concernenti la “quantità” dei danni da risarcire, e soprattutto sul discrimine fra
danni prevedibili e non.
Per quanto concerne le responsabilità che sorgono da un titolo, l’articolo 1225 c.c. stabilisce la
risarcibilità dei danni prevedibili nel momento in cui è sorta l'obbligazione, salvo il caso di dolo.
Perché le parti, nel caso di responsabilità per inadempimento di un'obbligazione, si conoscono e sono
entrati già in contrattazione, e hanno l'onere - per l'applicazione generale di una correttezza che deve

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 124

esserci tra soggetti che stanno in un rapporto obbligatorio ex articolo 1175 c.c. - di tirare fuori i
rispettivi interessi e gli eventuali danni che potrebbero subire.
Si sostiene che nella responsabilità per dolo incidente il contratto tendenzialmente si sarebbe fatto lo
stesso e quindi la responsabilità, al massimo, è la tipica “differenza di prezzo” pagata in più.
In generale, quindi, si dovrebbero considerare risarcibili solo i danni prevedibili al momento in cui
è sorta l’obbligazione, come nella responsabilità contrattuale.
Questo ci fa capire come, in linea di principio, dobbiamo escludere che la responsabilità
precontrattuale debba essere inquadrata a pieno nelle altre due responsabilità: di volta in volta è più
corretto cercare la disciplina applicabile, secondo quella che è la fattispecie concreta.

La responsabilità precontrattuale – IV
Si analizzerà come siano inutili tutti quegli sforzi di necessaria sistemazione e categorizzazione della
responsabilità precontrattuale all'interno di uno schema preimpostato. Infatti è più semplice, diretto
e di conseguenza più giusto e razionale, adottare il metodo che cerca di volta in volta la soluzione
sulla base della tecnica dell’argomentazione per analogia.
Nell'affrontare l'argomento si devono necessariamente attraversare le argomentazioni che cercano
di inquadrarla necessariamente all'interno di uno schema - o come responsabilità contrattuale o
come responsabilità extracontrattuale - come se già non bastasse il fatto che il legislatore l'abbia già
classificata a sé stante.
Quello della natura della responsabilità precontrattuale è un falso problema.

Tanti argomenti sono stati spesi a favore della natura di responsabilità contrattuale:
1. si dice che sussiste un obbligo, nella responsabilità precontrattuale, di salvaguardia nei
confronti di un soggetto specifico, che è proprio delle responsabilità contrattuali. Infatti
l’art. 1337 parla di parti, e da ciò qualcuno desume che questo tipo di responsabilità sarebbe
di tipo contrattuale;
2. si parla poi di buona fede, e secondo tradizione la buona fede essa sorge e deve essere
rispettata all'interno di un rapporto contrattuale (vedi la locuzione “fidem praestare” del
diritto romano). Quindi, per tradizione, il fatto che l'articolo 1337 cc., parli di buona fede,
spingerebbe verso l’ambito della responsabilità contrattuale. Si tratta però di argomenti
abbastanza deboli e, nella loro genericità e astrattezza, impediscono che si abbia una vera
forza argomentativa, che deve coprire tutti i casi. Secondo tali argomentazioni la
responsabilità precontrattuale sarebbe da inquadrare all'interno della responsabilità
contrattuale e ne conseguirebbe la prescrizione decennale del diritto al risarcimento del
danno, un onere della prova a carico del soggetto che ha violato l'obbligo di buona fede, una
responsabilità per i soli danni prevedibili nel momento in cui è sorta l'obbligazione: tutte
caratteristiche che riguardano la responsabilità contrattuale. Ne conseguirebbe, inoltre, anche
la necessità della capacità di agire.
3. i soggetti sono determinati, come non sono invece nella responsabilità extracontrattuale;
4. Il termine “devono” usato dalle norme sulla responsabilità precontrattuale depone per
l’inquadramento nella responsabilità contrattuale;
5. Quando sorge un affidamento specifico verso un soggetto, si ha un obbligo contrattuale che
viene (qualificato in modo specifico rispetto generale dovere di non causare danni ad altri,
L'affidamento specifico si ha verso un determinato e specifico contenuto, per esempio con
riguardo all'articolo 1337, è quello di non recede ingiustificatamente dalle trattative. Quindi
se un soggetto può confidare in un legittimo affidamento, nei confronti del comportamento
di un altro soggetto, questo caratterizzerebbe la responsabilità come contrattuale perché
questo avviene nelle obbligazioni tra soggetti di cui uno al debitore e l'altro deve confidare
nell'adempimento della prestazione. Tutto ciò deporrebbe in favore della natura contrattuale.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 125

6. Se fosse responsabilità extracontrattuale non avrebbe senso di dettare le norme degli


articoli 1337 e 1338, perché già ci sarebbe la norma generale, l'articolo 2043. Non avrebbe
quindi senso specificare ulteriori ipotesi perché l’art. 2043 coprirebbe tutto, anche le ipotesi
di cui all'articolo 1337 e 1338;
7. Se fosse responsabilità extracontrattuale non si capirebbe perché il legislatore adotti la
locuzione responsabilità precontrattuale. Questo è un argomento non particolarmente
convincente, perché il legislatore ha usato la locuzione “precontrattuale” vuol dire piuttosto
che ha voluto inquadrare a sé questo tipo di responsabilità quindi neanche contrattuale;
8. C’è, poi, una tesi secondo la quale questo tipo di responsabilità nascerebbe da contatto
sociale ex art. 1173 c.c., cioè i fatti che possono produrre obbligazioni. Questa categoria è di
origine tedesca ed è nata per qualificare determinate obbligazioni che sorgono da un fatto (ad
esempio, medico che incontra un soggetto steso per terra ha bisogno di aiuto);
9. Secondo alcuni, e anche secondo la recente giurisprudenza della Cassazione, la responsabilità
precontrattuale nascerebbe da un fatto: cioè il fatto che i soggetti si pongono in trattative
tra di loro, che nascano delle obbligazioni e il trattamento sia quello del rapporto
obbligatorio e quindi la disciplina applicabile sia sempre quella di responsabilità
contrattuale. Per la responsabilità contrattuale deporrebbe, secondo i fautori della teoria in
analisi, anche un argomento storico: il riferimento è a Jhering, giurista dell’Ottocento che,
con le sue teorie sulla culpa in contrahendo, inquadrò questa responsabilità all'interno della
responsabilità contrattuale, come obbligo tra i due soggetti di rivelarsi le rispettive
informazioni che potessero servire per evitare di cadere nella nullità del contratto. La tesi di
Jhering traeva spunto anche al codice civile austriaco. Tali teorie devono tuttavia considerarsi
superate, riconducendo le fattispecie a una responsabilità scaturente da contratto nullo;
10. Qualche autore di inizio Novecento ha parlato di tacito accordo contrattuale a portare
avanti lealmente le trattative, e questo ha portato alla redazione dell’articolo 1337 c.c.

Argomenti a favore della natura di responsabilità extracontrattuale:


1. siccome il dovere di comportarsi secondo buona fede nella trattativa è nella fase di
formazione del contratto e generico, tutti i doveri generici sono comportamenti doverosi,
come quelli extracontrattuali. L'articolo 2043 del resto sarebbe l'esempio di un dovere
generico: non ledere ingiustamente la sfera giuridica altrui. Non per questo possiamo
qualificare come contrattuale la responsabilità, l'obbligo e generico, quindi è dello stesso tipo
di quelli che caratterizzano la responsabilità extracontrattuale;
2. la concreta vicinanza delle sfere giuridiche di soggetti non è qualcosa che caratterizza
quella extracontrattuale. Si pensi a due soggetti che fanno un incidente stradale. È vero che il
rapporto tra questi due soggetti sorge col danno, ma è anche vero che nel momento in cui un
soggetto si avvicina a un’automobile di un altro soggetto, il suo dovere generico di non ledere
la sfera giuridica altrui si rivolge a quel soggetto. Quindi il dovere generico di non fare danni
diventa specifico verso l'altro soggetto e se poi, il primo soggetto causa il sinistro stradale
nasce una responsabilità che è sì extracontrattuale, ma che nel momento in cui i soggetti si
sono avvicinati permetteva di individuare un po' di più la sfera dei soggetti nei confronti dei
quali si sarebbe dovuta prestare una maggior diligenza. Quindi quell'argomento che parla di
soggetti già specificati non basterebbe, secondo questa tesi, a delineare la natura contrattuale,
anzi sarebbe qualcosa che esiste anche nella responsabilità extracontrattuale;
3. manca l'individuazione di una specifica prestazione idonea a soddisfare l'interesse
dell'altra parte: nella responsabilità contrattuale non c'è una specifica prestazione, ma
semplicemente un obbligo di buona fede, di non recede registicamente dalle trattative, di non
creare danni all'altro in malafede;
4. non si può conciliare la natura contrattuale con la libertà negoziale, sussistente
durante le trattative, di non essere vincolati all'altra parte: secondo questo argomento,

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 126

non si potrebbe considerare sussistente una responsabilità contrattuale quando esiste una
libertà negoziale, che vale non solo in positivo come libertà di legarsi contrattualmente a chi si
voglia, ma anche in negativo come nel senso di libertà di non vincolarsi con nessuno;
5. se fosse responsabilità contrattuale, si avrebbe la presunzione di colpa, cioè di malafede
del convenuto in giudizio che ha effettuato il recesso ingiustificato dalle trattative (ciò
contrasta col principio per il quale si presume sempre la buona fede);
6. argomento storico: il precedente normativo della norma sulla responsabilità
precontrattuale, è stato considerato l'articolo 1151 del codice civile del 1865, che riguardava
la responsabilità extracontrattuale in generale. Il fatto storico secondo cui, non esistendo delle
norme specifiche, precedentemente questa responsabilità era inquadrata nella responsabilità
extracontrattuale per fatto illecito.

Qual è il vero metodo applicativo (che richiede studio e non sembra essere proseguito dei giudici, i
quali tendono ad inquadrare la responsabilità precontrattuale o nell'insieme della responsabilità
extracontrattuale o in quello di responsabilità contrattuale)?
C'è stato un argomento largamente maggioritario che inquadra la responsabilità precontrattuale
all'interno della responsabilità extracontrattuale, applicandone le rispettive regole e
successivamente ce n'è stato un altro che inquadra del cosiddetto contatto sociale.
La verità è però un'altra: si dovrebbe escludere un inquadramento assoluto della responsabilità
precontrattuale nell'uno o nell'altro ambito. La stessa rubrica della norma parla di responsabilità
precontrattuale e quindi di una responsabilità differente rispetto alle altre due: la disciplina non
può andarsi trovare sulla base di un inquadramento preconcettualmente costituito, ma si deve
trovare di volta in volta.
Questo perché, in ogni caso, l'interprete deve trovare la soluzione ad ogni caso e in caso di vuoto di
disciplina, può usare l’analogia.
Nel nostro caso siamo di fronte all'articolo 1337 c.c.: le parti devono comportarsi secondo buona
fede, ma non abbiamo la disciplina che riguarda l'eventuale risarcimento del danno (quale danno?
Prescrizione? Quantificazione? Capacità dei soggetti? Onere della prova?)
Alla soluzione si deve arrivare tramite l'uso dell'analogia e quindi di volta in volta per i singoli
problemi si deve andare a cercare la norma che regola un caso simile o una materia analoga.
Per la quantificazione del danno si dovrà scegliere fra l'articolo 1225 e l'articolo 2056, che sono
le due norme che riguardano la quantificazione del danno risarcibile per la responsabilità
contrattuale il primo e per la responsabilità extracontrattuale il secondo. La norma andrà quindi
applicata a seconda della ratio rispetto al caso specifico: nel nostro caso, quello di due soggetti, ad
esempio, che si sono trovati in trattativa e ad un certo punto uno di questi due soggetti ha deciso di
interrompere ingiustificatamente la stessa a, comportandosi in malafede, inducendo l'altro a
chiedere il risarcimento del danno. Qual è la norma simile che dovrà scegliere il giudice? Nel nostro
caso i due soggetti erano già in rapporto fra loro. Analizziamo le ratio dei due articoli: l'articolo 1225
è una norma che limita il risarcimento al danno prevedibile perché secondo la ratio di questa stessa
norma, il legislatore ha voluto che le parti tirassero fuori, essendosi già conosciute, i loro interessi. La
ratio dell'articolo 2056, non richiamando l'articolo 1225 fa supporre che tutti i danni devono essere
risarciti, anche quelli imprevedibili. Nel caso di responsabilità precontrattuale per recesso
ingiustificato dalle trattative, ci si avvicina di più all'ipotesi nella quale i soggetti si conoscono e
dunque hanno l'onere di tirare fuori i loro interessi. È giusto quindi in questo caso, salvo il caso di
dolo, applicare la limitazione del risarcimento – per responsabilità precontrattuale - al solo danno
prevedibile come previsto dall'articolo 1225. Da questo punto di vista si applica una norma che
troviamo nella disciplina della responsabilità contrattuale, ma non per questo la responsabilità
precontrattuale è contrattuale.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 127

Con riguardo alla prescrizione va elaborato un ragionamento simile: sarà da applicarsi l'articolo
2946 c.c., che prevede la prescrizione ordinaria di 10 anni nella responsabilità contrattuale o sarà
meglio applicare l'articolo 2947, che prevede per la responsabilità extracontrattuale una
prescrizione di 5 anni? Anche in questo caso va studiata la ratio delle due norme.
Si nota in questo modo che nel caso di responsabilità contrattuale esiste un titolo che può essere
portato davanti al giudice. Quel contratto dimostra davanti al giudice che un soggetto ha una
obbligazione nei confronti di un altro quindi, c'è responsabilità se tale obbligazione non è adempiuta,
quel contratto potrà essere portato davanti al giudice in qualunque momento entro il termine di
prescrizione previsto in 10 anni. L'articolo 2947 invece, per la responsabilità extracontrattuale
stabilisce una prescrizione quinquennale, questo perché in caso di fatto illecito, non si ha titolo
precedente, ma i fatti devono essere costruiti con testimoni e per presunzioni, e si incontra il limite
delle testimonianze dopo molti anni. Il legislatore ha quindi voluto dare un tetto massimo alla
possibilità di ricostruire un fatto illecito, stabilendo che il diritto al risarcimento del danno per
responsabilità da fatto illecito si prescrive in 5 anni.
Nella fattispecie del recesso ingiustificato dalle trattative, se le parti non hanno alcun documento
che dimostra fossero in trattativa tra di loro, l'unica cosa che possono fare è dimostrarlo tramite
testimoni o presunzioni.
In questo caso, quindi, la ratio ci porta verso l'applicazione dell'articolo 2947 c.c., cioè la
prescrizione quinquennale per responsabilità extracontrattuale: ma abbiamo sempre una
responsabilità precontrattuale, autonoma, e non extracontrattuale; solo che, per questa fattispecie, si
applica per analogia la prescrizione quinquennale di cui all'articolo 2947.
Le cose cambierebbero se la responsabilità precontrattuale nascesse da un patto precontrattuale.
In tal caso i due soggetti mettono per iscritto, ad esempio, i rispettivi incontri che dovranno tenere, i
rispettivi comportamenti che dovranno osservare (ad esempio con una clausola di riserbo o di
esclusiva): quello scritto permetterà di avere un titolo, che dà modo di cambiare la fattispecie e,
perciò, si può ipotizzare l'applicazione della prescrizione decennale, che sia quando si ha un titolo.

L'onere della prova: se manca un titolo, non sussiste il principio della permanenza del titolo. Stessa
cosa nella responsabilità precontrattuale: se manca un titolo, non c'è dubbio che sia il danneggiato
ad avere l'onere di provare, come il fatto illecito, la malafede dell'altra parte che ha receduto dalle
trattative in maniera ingiustificata. Se però c'è un titolo, la prova può essere portata in giudizio
grazie a quel titolo, ed è l'altra parte a dover dimostrare di aver adempiuto al titolo e di averlo
fatto in buona fede. Quindi è molto facile passare (sempre all'interno della responsabilità
precontrattuale), dall'applicazione di una norma dettata in materia di responsabilità contrattuale
all'applicazione di una norma dettata in materia di responsabilità extracontrattuale, a seconda che
sia presente come non titolo.

La capacità rilevante: la capacità di agire è quella rilevante per la responsabilità contrattuale, la


capacità naturale, invece, è quella rilevante per la responsabilità extracontrattuale. Sicuramente
rileva la norma secondo la quale il contratto stipulato dall'incapace in ogni caso non è valido. Se però,
il soggetto incapace, in un momento di lucidità ha violato gli articoli 1337 e 1338 è responsabile per
questa lesione della libertà negoziale, perché in quel momento non c'era un titolo e la responsabilità
è più simile a quella extracontrattuale. Si ricordi che, se il minore occulta con raggiri la sua minore
età il contratto non è annullabile (art. 1426 c.c.), quindi si ha valido contratto (ed eventuale suo
inadempimento, con conseguente responsabilità contrattuale). Quindi l'incapacità non esclude in
senso assoluto la responsabilità in materia di contratti.

Si parlerà, infine, di una norma che riguarda degli obblighi di informazione che si hanno e che
entrano nel contenuto di un contratto, ma che sembrano obblighi precontrattuali. Si tratta degli

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 128

obblighi che sorgono tra l'avvocato e il suo assistito e che concernono la responsabilità del
professionista che omette di informare l'altra parte in merito qualcosa che il professionista deve fare.
Secondo l'articolo 4 del decreto legislativo 28/2010 - che ha introdotto nel nostro ordinamento
giuridico la cosiddetta mediazione civile e commerciale - all'atto del conferimento dell'incarico,
l'avvocato è tenuto ad informare l'assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di
mediazione disciplinato dal decreto legislativo in questione e anche delle agevolazioni fiscali che
sono previste da quel decreto legislativo.
L'avvocato deve, inoltre, informare l'assistito anche nei casi in cui il tentativo di mediazione sia
addirittura condizione di procedibilità dell'azione in giudizio. L'informazione deve essere fornita
chiaramente per iscritto. In caso di violazione di questi obblighi di informazione, il contratto tra
avvocato e assistito è annullabile.
Questo è un obbligo particolare che sussiste a carico dell'avvocato a favore del suo assistito, ma
pone una sanzione che è un paradosso, perché viene prevista una responsabilità di tipo
precontrattuale, perché si parla di annullabilità e quindi, si sposta la responsabilità nell'ambito
dell'articolo 1338 c.c. In realtà un obbligo di questo genere, per tutte le professioni, pone una
responsabilità di tipo contrattuale, perché c'è un obbligo di informazione che si incardina nei doveri
tra avvocati assistito che dovrebbe portare non già al mero annullamento, ma a un inadempimento e
a un risarcimento del danno per interesse positivo per l'inadempimento.

Il legislatore pare abbia sbagliato a stabilire questa sanzione: se non avesse scritto nulla, nessuno
avrebbe avuto dubbi in merito, perché tutti avrebbero sostenuto che si tratta di una responsabilità
da inadempimento (come quella del medico che omette di informare il suo assistito, come quella
dell'intermediario finanziario che omette di informare il proprio cliente). Invece, il legislatore ha
previsto una sanzione, l'annullabilità, e prevedendola, ha escluso che la responsabilità possa essere
trattata come contrattuale ma l’ha trattata come precontrattuale ex articolo 1338 per invalidità
del contratto. Peraltro, l’ha fatta senza una consapevolezza piena, infatti dalla relazione illustrativa
della legge si evince che il legislatore ha scelto la sanzione della nullità, quindi nonostante la legge
scriva l’“annullamento” quale sanzione, la relazione illustrativa, redatta dagli stessi autori di questa
legge parla di nullità. Fatto sta che la legge prevede l'annullamento e prevedendo ciò, prevede una
responsabilità precontrattuale piuttosto che da inadempimento, risarcimento per interesse negativo
piuttosto che per interesse positivo e in più possibilità di convalida. Se avesse scelto la sanzione della
nullità, il contratto nullo non potrebbe essere convalidato, mentre il contratto annullabile può essere
convalidato, sia espressamente che tacitamente.
Quindi, una sanzione sia debole che di difficilissima applicazione. Per chiedere annullamento del
contratto con l'avvocato l'assistito dovrebbe andare da un altro avvocato, che si dovrebbe mettere
contro il primo avvocato (cosa molto difficile) e richiedere al giudice l'annullamento del mandato.
Nel frattempo, la causa è andata avanti, il vecchio avvocato aveva ancora il mandato, che finché non
viene annullato in giudizio è valido e continua ad avere i suoi effetti; l'assistito, infine, sapendo che
nelle mani di quell'avvocato ci sono le sorti del suo processo, difficilmente agirà contro lo stesso
avvocato chiamandolo in causa con un altro avvocato per avere l'annullamento di quel contratto.
Secondo problema: ciò che otterrebbe sarebbe appunto il risarcimento per interesse negativo,
oltre al pagamento della parcella già pagata, ma non si potrà certo avere l'interesse positivo ad
un'esecuzione, come si avrebbe nel caso in cui si considerasse obbligo contrattuale quello
dell'informazione e si ritenesse responsabile l'avvocato per il danno legato alla perdita di chance.
Inoltre, è facilissimo (con una telefonata, o un qualunque atto di convalida tacita del contratto),
sanare questa annullabilità e non potere più fare nulla contro quell'avvocato che non ha
adempiuto all'obbligo di informazione. Per i motivi sopra esposti, ci troviamo chiaramente di fronte
ad una norma paradosso.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 129

9.3 > Il contratto preliminare

Il contratto preliminare – I (fattispecie, denominazione, funzione, causa, oggetto)


Quella del contratto preliminare è una fattispecie spesso utilizzata nella contrattazione privata.
Con un contratto preliminare le parti si obbligano a stipulare tra loro un successivo contratto
detto definitivo, avente un oggetto già predeterminato almeno negli elementi fondamentali.
L’esempio di fattispecie è quello in cui Tizio (definito “promittente venditore”) e Caio (definito
“promittente acquirente”) si obbligano a stipulare un contratto col quale Tizio venderà al prezzo
100.000 € l’appartamento X a Caio che lo comprerà per quel prezzo. O ad esempio, la delega del
condominio all’amministratore per la vendita dell’alloggio del portiere, avendo deliberato di non
avvalersi più della figura. L’amministratore trova un acquirente, ma ritiene, per l’importanza
dell’affare, di non procedere subito col contratto definitivo ma di vincolarsi a stipularlo, mettendo per
iscritto gli elementi fondamentali: procura dell’amministratore, indicazione del bene, prezzo,
sottoscrizione. Si può inserire anche clausole che indicano un termine per la stipula del definitivo, un
importo a titolo di caparra il nominativo del notaio presso cui ci si dovrà recare, determinate modalità
di pagamento, etc. Il preliminare, in sostanza, può essere più o meno dettagliato: l'importante è che vi
sia l'oggetto essenziale, che in caso di vendita consiste nell'indicazione dell'immobile e del prezzo.

La funzione generica del contratto preliminare è quella di “bloccare” un affare, rinviando il


definitivo instaurarsi del rapporto, procedimentalizzando l’iter di realizzazione dell’assetto di
interessi a cui mirano la parti.
In altri termini, il contratto preliminare serve per rinviare nel tempo la stipula tra le stesse parti del
contratto definitivo e per stabilire già l'oggetto di questo (cioè gli elementi essenziali); le parti
potrebbero decidere di rinviare al momento della stipula del definitivo la precisazione di alcuni
elementi, ad esempio le modalità di pagamento. Per quanto attiene al preliminare invece, è
sufficiente che sia individuato esattamente il solo oggetto (ad esempio bene di vendita e prezzo).
Con il preliminare nasce il vincolo a stipulare un contratto definitivo.

Caparra. Nel contratto preliminare una delle parte può chiedere una somma di denaro a titolo di
caparra, che nel caso di adempimento viene imputata al pagamento del prezzo. Nel caso in cui la
parte versante recedesse renderebbe l'altra parte legittimata al trattenimento della caparra; se
invece dovesse essere la parte che riceve la caparra a non stipulare il contratto definitivo, la parte
che ha versato la caparra avrà diritto alla restituzione della stessa più il pagamento di una somma è
uguale da parte dell'altra parte (il doppio della caparra), come recita a riguardo la norma sul
pagamento della caparra, l’art. 1385 c.c.: “se al momento della conclusione del contratto una parte dà
all'altra a titolo di caparra una somma di denaro o una quantità di altre cose, la caparra, in caso di
adempimento deve essere restituita o imputata alla prestazione. Se la parte che ha dato la caparra è
inadempiente, l'altra parte può recedere dal contratto ritenendo la caparra; se è inadempiente la parte
che ha ricevuto la caparra, l'altra parte può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra.”
La caparra può dirsi confirmatoria, a conferma cioè della volontà di stipula del contratto definitivo.
Alcune volte la caparra si dice penitenziale, perchè legata strettamente non tanto
all'inadempimento, quanto al recesso, diventando cioè il pagamento esatto per il recesso: se un
soggetto recede, la caparra viene trattenuta dall'altra parte.

Funzione generica del contratto preliminare è, come già detto, quella di bloccare l'affare; essa può
servire anche a un eventuale mediatore che si occupa dell’affare. Si pensi a dei condomini che
decidono di acquistare un bene – che diverrà condominiale - e che si rivolgano, come da prassi comune,
alle cosiddette agenzie immobiliari (meglio dire mediatori immobiliari). Il mediatore ha il compito di
mettere in relazione le parti e di far concludere un affare, concluso il quale ha diritto al

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 130

pagamento della provvigione, come stabilito dall’art. 1755 c.c.: “Il mediatore ha diritto alla
provvigione da ciascuna delle parti, se l’affare è concluso per effetto del suo intervento.”
Il diritto alla provvigione per il mediatore nasce nel momento in cui l'affare è concluso: cioè quando
si ha qualcosa di scritto che possa dare qualche effetto. Secondo la giurisprudenza, la conclusione
dell'affare - quando si tratta di vendere un immobile - si ha con la stipula del contratto preliminare.
Fino al 2009 era invalsa la prassi, fra i mediatori immobiliari, di un c.d. preliminare di preliminare.
Essendo stato tale documento spesso ritenuto nullo da parte della giurisprudenza (erroneamente),
ultimamente è più facile i mediatori preferiscano far firmare un preliminare vero e proprio. Con esso
il mediatore blocca l'affare e da quel momento i soggetti sono tra loro vincolati, nascendo tra loro un
valido vincolo in relazione a quell’affare, e ha pertanto il diritto ad essere pagato.

Il contratto preliminare va distinto dalla cosiddetta minuta.


A volte i soggetti durante la trattativa mettono per iscritto dei punti sui quali l’accordo è già
concluso. Quando si mette qualcosa per iscritto bisogna stare molto attenti, perché ciò che è stato
messo per iscritto, senza che neanche le parti se ne rendano conto, oggettivamente potrebbe
trasformarsi in un contratto preliminare: se, infatti, da questo documento scritto si evince
semplicemente una clausola relativa alle modalità del pagamento, un obbligo del venditore di
trasformare l'assetto dell'appartamento, allora siamo sicuramente di fronte ad una minuta. Se in
questo documento, però, le parti mettono per iscritto che si obbligano tra di loro a stipulare un
contratto definitivo e stabiliscono il prezzo e non si evince chiaramente che è una minuta,
comprendendo (sottoscritto per iscritto) il bene oggetto della vendita, il prezzo e l'obbligo reciproco
di stipula con quell'oggetto, quel documento potrà essere portato quale contratto preliminare.
Vincolerà di conseguenza le parti, anche nel caso in cui queste dovessero pensare che si tratti solo di
una minuta. Se dal documento non si evince chiaramente la volontà di obbligarsi dei soggetti, che non
si sono accordati sugli elementi essenziali, si tratterà indubbiamente di minuta. E’ una questione di
qualificazione del documento.

La procedimentalizzazione che porta alla stipula di un contratto definitivo è la più varia: dalla
semplice minuta a un vincolo, cioè un obbligo che i soggetti si fanno a stipulare un successivo
preliminare (preliminare di preliminare fino al 2009) e infine il vero e proprio preliminare che
obbliga alla fattispecie conclusiva: il contratto definitivo. In ogni caso, nell’autonomia contrattuale
concessa alle parti dal nostro ordinamento, si deve ammettere libertà di procedimentalizzazione.
Le funzioni specifiche del contratto preliminare sono varie e permettono di prendere tempo:
1. Valutare l’affidabilità di controparte. Esempio: amministratore di condominio che stipula un
contratto preliminare per la vendita dell'alloggio del portiere, in rappresentanza di tutti gli altri
condomini; il potenziale acquirente, tuttavia, desta qualche sospetto (ad esempio, non si
conoscono i redditi del soggetto o i suoi atti potrebbero essere revocati). Inserendo un termine
abbastanza lungo per la stipula del contratto definitivo, il preliminare avrà funzione di valutare
l'altra parte (ad esempio, i condomini potrebbero eccepire di non voler vendere l’immobile con
molti precedenti penali o che traffica armi). La ragione per cui uno dei due soggetti decide di
sottrarsi al contratto definitivo deve essere forte, deve permettere effettivamente di sottrarsi.
Queste ragioni sono quelle che possono portare all'annullamento o alla risoluzione del
contratto: ad esempio, l'amministratore di condominio fa mettere in sede di preliminare all'altra
parte una clausola con la quale questa si obbliga a presentare l'estratto conto del proprio conto
corrente bancario e poi non adempie. Oppure, a pena di risoluzione, si potrebbe inserire una
clausola per cui il soggetto certifica di non essere mai stato in carcere, scoprendosi poi che non
era così (errore sulle qualità del contraente, determinante per il consenso). Queste potrebbero
essere clausole tali da risolvere il contratto preliminare;
2. Procurarsi dei documenti rilevanti per la conclusione dell'affare ad esempio, delle
varianti che comportano delle sanatorie;

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 131

3. Procurarsi un mutuo per il pagamento del prezzo;


4. Esaminare se sussistono cioè cause di annullamento (errori rilevanti, incapacità del
soggetto, etc) o di nullità (violazione di norme imperative) o di risoluzione (vizi della cosa, ad
esempio travi pericolanti in un appartamento).

Causa e oggetto. Ricordiamo che la causa del contratto è l'interesse esteriorizzato dalle parti nel
contratto e meritevole di tutela secondo l'ordinamento: si può distinguere tra una causa in astratto
che nel preliminare è una causa di scambio, e una causa in concreto, che nel preliminare riguarda lo
specifico scambio tra le parti. L'oggetto, che spesso si confonde con la causa in concreto, è il
contenuto specifico delle pattuizioni, e nel preliminare è il trasferimento che viene posto in essere tra
le obbligazioni dell'una e quelle dell'altra parte su un determinato bene.
Essendo uno scambio la causa in astratto del preliminare, non si ritiene ammissibile il cosiddetto
preliminare di donazione. Esso può considerarsi escluso per alcune ragioni e ciò si evince dall’art.
2932 del codice civile, esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto: “se colui che è
obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra parte qualora sia possibile e
non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso.
Se si tratta di contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata
o la costituzione o il trasferimento di un altro diritto, la domanda non può essere accolta se la parte che
la proposta non esegue a sua volta la sua controprestazione o non ne fa offerta nei modi di legge a
meno che non si tratti di prestazione ancora non esigibile”.
La norma ci fa capire che alla prestazione di una parte si accompagna la controprestazione dell'altra
e quindi che si tratta di uno scambio e che quindi la fattispecie del contratto preliminare non
riguarda le donazioni. Ci sono, tra l'altro, le stesse norme sulle donazioni che ci fanno capire come
non sia facile pensare a un preliminare della donazione, perché questa si ritiene pretesa
dall'ordinamento come una volontà attuale di donare. Un soggetto quindi non può promettere una
donazione per il futuro (ciò si desume anche dal divieto di donare beni futuri ex art. 771, o dall’art.
782 del codice civile, che, in merito alla forma, ci indica che questa deve essere fatta per atto pubblico
con specifica indicazione del valore del bene). Non essendo la donazione un contratto di scambio,
sono inapplicabili le norme sul contratto preliminare, comprese anche quelle di opponibilità.

Se la causa in concreto è lo scambio posto in essere tra le parti (promessa di vendere a fronte della
promessa di pagare), l'oggetto è il contenuto specifico e si confonde con la causa in concreto. Con
riguardo alla necessità che vi sia lo scambio, non si ammette, allo stesso modo, il preliminare di un
contratto reale gratuito. I contratti reali a titolo gratuito (deposito, comodato, mutuo) si
perfezionano con la consegna. Nel nostro ordinamento non ci si può obbligare a dare in prestito un
libro (comodato) o in comodato un locale al portiere: si può decidere, semmai, di compiere questo
tipo di azioni e tale tipo di contratti si perfeziona solo con la consegna della cosa. Nei contratti a titolo
gratuito, finché il soggetto non si spoglia della cosa non sorge nessun vincolo. Anche nelle
obbligazioni naturali, sorrette da dovere sociale o morale (es. la mancia o donazione di modico
valore), non ci si può vincolare (l’unico effetto è che non si può riavere indietro la cosa: anche qui si
noti che la causa idonea è l’effettiva dazione e quell’ unico effetto – non è ammessa la restituzione-
consegue proprio da essa). Se invece si tratta di contratto oneroso, si può promettere e vale, ad
esempio, la promessa di mutuo da parte di una banca.

Il contratto preliminare – II (disciplina e disposizioni codicistiche)


Si parlerà della disciplina relativa al contratto preliminare e delle novità che sono state introdotte
negli anni successivi, essendo stata prevista nel 1997 la trascrivibilità del contratto preliminare.
Grazie a questo intervento sono state introdotte nuove norme all'interno del codice civile: prima, le
uniche due norme in materia erano gli articoli 1351 e 2932 cc.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 132

L'articolo 1351 del codice civile è la vera e unica norma che espressamente si riferisce al contratto
preliminare, tanto che così è rubricata: “Il contratto preliminare è nullo se non è fatto nella stessa
forma che la legge prescrive per il contratto definitivo”. Si prescrive quindi un onere di forma ad
substantiam: in caso di inosservanza di questa prescrizione il contratto è nullo; non rileva, essendo
la norma inderogabile, che le parti scelgano altra forma. Si noti che la legge lega il preliminare al
contratto definitivo, prevedendone la stessa forma. Ad esempio l’articolo 1937 prevede la forma
espressa e non la forma scritta per il contratto di fideiussione; anche un preliminare di fideiussione, ove
lo si ritenga ammissibile essendoci una causa idonea, dovrà essere effettuato in forma espressa, e si
esclude il tacito accordo o i fatti concludenti.
Secondo un’autorevole dottrina, questa forma sarebbe prevista dalla legge perché, in caso di
applicazione dell'articolo 2932 (nel caso di preliminare con cui un soggetto promissario
acquirente si obbliga ad acquistare un bene messo in vendita da un soggetto promittente venditore
che si obbliga a vendere) che permette l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre nel
caso in cui una delle parti si tira indietro, si può arrivare al trasferimento coattivo della proprietà,
grazie alla sentenza del giudice. In questo caso la proprietà si trasferisce, e siccome per il
trasferimento della proprietà di beni immobili l'articolo 1350 richiede la forma scritta, allora
deve essere seguita la stessa forma anche nel preliminare. Questo è, secondo alcuni, il ragionamento
che porta alla prescrizione dell’onere di forma di cui all'articolo 1351.

In realtà non si può fare mai un tale ragionamento sulla base dell'articolo 2932, perché tale articolo è
una norma derogabile. L’articolo 1351, norma non derogabile, quindi, non può avere la sua base
in una norma derogabile.
Per capire qual è la ragione per cui il legislatore ha scelto la forma scritta basta analizzare la
relazione al Re sui lavori preparatori dell’art. 1351. L’articolo in analisi trova fondamento in questo:
siccome con il preliminare ci si vincola a stipulare un contratto e a realizzarne gli effetti, il
preliminare è un qualcosa che obbliga i soggetti ad arrivare a determinati effetti, ai quali si arriverà sì
con un definitivo, ma sulla base di un preliminare. Secondo il legislatore non avrebbe avuto quindi
senso prevedere una forma per il contratto definitivo e una forma diversa per un contratto che
comporta il raggiungimento dei medesimi effetti, seppur con il passaggio del preliminare; il
medesimo adempimento formale dà maggiori garanzie e assiste maggiormente il contratto
definitivo.

Dottrina e giurisprudenza si sono chieste che forma debba avere l'eventuale risoluzione
consensuale di un contratto preliminare. Il vuoto legislativo andrà colmato con l’uso dell'analogia,
pertanto verificare se si può applicare una norma che preveda qualche onere di forma.
La ratio dell’art. 1351 è stata appena menzionata, ma per la risoluzione consensuale preliminare si
può usare la stessa ratio? A tale domanda si deve rispondere negativamente, perché sciogliere un
contratto preliminare non porta a un effetto traslativo per il quale è prevista la forma scritta.
Sciogliere un contratto preliminare non trasferisce nulla, pertanto non è applicabile la ratio
dell'articolo 1351 in via analogica anche alla risoluzione consensuale di un preliminare. Si noti al
riguardo che in questa sede non si sposano le convinzioni di chi sostiene che il nostro ordinamento
preveda una generale libertà delle forme, e che tutte le norme che prevedono una forma specifica
siano da considerarsi norme eccezionali.
Verifichiamo, allora, se sia possibile applicare per analogia l'art. 1350 c.c. (che elenca gli atti che
devono farsi per iscritto) alla fattispecie della risoluzione consensuale del contratto preliminare.
Nell’elencazione, in questo articolo, degli atti da farsi per atto pubblico o scrittura privata, nulla è
previsto riguardo allo scioglimento dei preliminare: e, secondo l’analisi sulla natura degli atti previsti
dall’articolo, non è possibile estenderne la disciplina alla risoluzione consensuale di preliminare.
Ciononostante, per esigenze di certezza, la giurisprudenza supera questo dato e - nelle pochissime
sentenze che si sono occupate di questo problema - la Cassazione stabilisce che, anche per la

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 133

risoluzione consensuale di un contratto preliminare è necessaria la forma scritta, quando il


preliminare è stato fatto per iscritto (si richiede quindi la stessa forma).
Secondo l'articolo 1350, tuttavia, per la risoluzione di un contratto obbligatorio non è necessaria la
forma scritta (ma la prevede per i contratti che riguardano diritti reali) e quindi, secondo questo
criterio analogico, dovremmo dedurre che per la risoluzione consensuale di un preliminare – di
natura obbligatoria - non dovrebbe essere prevista la forma scritta, nemmeno in caso di preliminare
immobiliare.
Per esigenze di certezza, tuttavia, la giurisprudenza ritiene che ciò non sia possibile. Così però la
giurisprudenza confonde il requisito della prova col requisito della certezza, perché nella pratica si
deve permettere una risoluzione consensuale del preliminare, in qualsiasi caso. Nonostante tutto
questo ragionamento la Corte di Cassazione ha previsto la necessità della forma scritta anche per la
risoluzione consensuale di quei preliminari per cui è richiesta la forma scritta.

Altra norma che si dedica al contratto preliminare è l'art. 2932 c.c., che parla dell'esecuzione in
forma specifica dell'obbligo di concludere un contratto. Non è una norma dedicata soltanto al
preliminare, ma è dedicata a tutti i casi in cui sorge un obbligo di concludere un contratto (ad
esempio, l’obbligo di un monopolista a contrattare coi soggetti).
La norma prevede: “comma 1 > Se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie
l'obbligazione, l'altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza
che produca gli effetti del contratto non concluso.” Quindi l’altra parte può ottenere una sentenza di
pari effetti al contratto non concluso, solo qualora sia possibile e non escluso dal titolo. Il bene
deve quindi essere nella titolarità del soggetto verso cui si propone la domanda. Oppure, può
chiedersi esecuzione in forma specifica solo prima che da altri, ad esempio, sia iscritta domanda di
trascrizione sui beni immobili del promittente venditore che poi ha venduto ad altri. “Non escluso dal
titolo” significa che le parti non abbiano escluso l’applicazione dell’art. 2932, che è norma derogabile.
Il comma 2 prevede invece che “Se ti tratta di contratti che hanno per oggetto il trasferimento della
proprietà di una cosa determinata, o la costituzione, o il trasferimento di un altro diritto, la domanda
non può essere accolta se la parte che l’ha proposta non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta
nei modi di legge, a meno che la prestazione non sia ancora esigibile.” Nel corso del giudizio deve
essere quindi offerta la controprestazione: non è possibile una sentenza, che tenga luogo del
contratto non concluso e che quindi trasferisca la proprietà in capo al promissario acquirente, se
questo non ha offerto di pagare il prezzo nei modi di legge o se non l'abbia già pagato.

Nel 1997 è intervenuta una normativa che ha previsto la trascrizione di alcuni contratti
preliminari, e quindi il relativo onere per ottenere l’opponibilità nei confronti dei terzi.
L'articolo 2645 bis, introdotto nel 1997, prevede che “i contratti preliminari aventi ad oggetto la
conclusione di taluno dei contratti di cui ai numeri 1,2,3 e 4 dell'articolo 2643 (si tratta di contratti che
riguardano diritti reali immobiliari e non beni mobili registrati), anche se sottoposti a condizione o
relativi ad edifici da costruire o in corso di costruzione, devono essere trascritti, se risultano da atto
pubblico o da scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente.”
Questa norma ha voluto contrastare in maniera severa la prassi per cui, ad esempio, un imprenditore
acquistava un terreno, si faceva pagare profumatamente con preliminari di immobili da costruire, e
poi, fallendo, non aveva di che pagare. Questa norma tutela, con una forza speciale e privilegiata, il
credito del promissario acquirente che abbia proceduto alla trascrizione del contratto
preliminare, che è tutelato anche per contratti preliminari aventi a oggetto immobili da costruire.
La trascrizione del contratto preliminare ha un effetto forte solo nel momento in cui è trascritto il
contratto definitivo, oppure quando è trascritto qualcosa che fa capire che c'è seria intenzione di
andare verso il definitivo. Un esempio si ha in caso di domanda di esecuzione in forma specifica ex
art. 2932, per ottenere il contratto definitivo dopo la trascrizione del preliminare: l’opponibilità
risale al momento della trascrizione del preliminare, si dice che ha un effetto “prenotativo”. Quindi,

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 134

la trascrizione di un contratto definitivo o di un altro atto che costituisca comunque esecuzione


dei contratti preliminari per cui è prevista la trascrizione, ovvero la trascrizione della sentenza
che accoglie la domanda diretta ad ottenere l'esecuzione in forma specifica dei contratti preliminari
predetti, prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite contro il promittente venditore dopo la
trascrizione del contratto preliminare.

Al comma terzo dell'articolo 2645 bis sono stabiliti tempi da rispettare: “ gli effetti della
trascrizione del contratto preliminare cessano e si considerano mai prodotti se, entro un anno dalla
data prevista dalle parti per la conclusione del contratto definitivo e in ogni caso entro tre anni dalla
data della trascrizione del preliminare, non sia stata eseguita la trascrizione del contratto definitivo o
un altro atto che costituisca comunque esecuzione del contratto preliminare o non sia stata eseguita la
trascrizione della domanda giudiziale di cui all'articolo 2652 primo comma numero 2 (cioè la domanda
giudiziale diretta ad ottenere l'esecuzione in forma specifica ex articolo 2932)”.
Pertanto, entro un anno bisogna provvedere alla trascrizione del contratto definitivo o alla
trascrizione della domanda giudiziale ex art. 2932, e comunque non si possono mai superare i tre
anni. Ne consegue che se si vuole un effetto alla trascrizione del contratto preliminare, il definitivo
dev'essere previsto entro i 3 anni rispetto alla trascrizione del preliminare (eventualmente, in caso di
promittente venditore
Ancora l’art. 2645 bis: “I contratti preliminari aventi ad oggetto porzioni di edifici da costruire o in
corso di costruzione devono indicare per essere trascritti la superficie utile della porzione di edificio e la
quota del diritto spettante al promissario acquirente relativa all'intero costruendo edificio espressa in
millesimi. In questo caso la trascrizione è eseguita con riferimento al bene immobile per la quota
determinata secondo le modalità appena indicate.”
Non appena l'edificio viene a esistenza, gli effetti della trascrizione si producono rispetto a queste
porzioni materiali corrispondenti alle quote di proprietà predeterminate, nonché alle relative parti
comuni: l'eventuale differenza di superficie o di quota contenute nei limiti di un ventesimo, non fa
testo e non produce effetti. Inoltre “si intende esistente l'edificio nel quale sia stato eseguito il rustico,
comprensivo delle mura perimetrali delle singole unità e sia stata completata la copertura”: in questo
momento si ritiene che la trascrizione varrà su quell'edificio.

Privilegio a favore del promissario acquirente. Norma importante e discussa legata alla
trascrizione del preliminare è contenuta nell'art. 2775 bis, sul credito per mancata esecuzione dei
contratti preliminari. Essa è riprodotta in qualche modo anche nella legge fallimentare, dove è
previsto che, se il promittente venditore fallisce, il promissario acquirente, che abbia
precedentemente trascritto ha un privilegio speciale: il suo credito può essere risposto con privilegio
rispetto agli altri creditori del fallimento.
L’art. 2775 bis concerne tutti gli altri casi: “nel caso di mancata esecuzione di contratto preliminare
trascritto, i crediti del promissario acquirente hanno privilegio speciale sul bene immobile oggetto del
contratto preliminare, sempre che gli effetti della trascrizione non siano cessati al momento della
risoluzione del contratto, risultante da atto avente data certa ovvero al mento della domanda giudiziale
di risoluzione del contratto o di condanna al pagamento, ovvero al momento della trascrizione del
pignoramento, ovvero al momento dell'intervento dell'esecuzione promossa da terzi”.
Quell'immobile, quindi, è sì in proprietà del promittente venditore, che non ha ancora eseguito il
contratto preliminare, ma il promissario acquirente, che non ha potuto tenere dell'esecuzione del
contratto definitivo, per riprendersi i soldi a garanzia della restituzione e del risarcimento del danno
ha un privilegio speciale su quel bene, cioè qualcosa di più forte delle ipoteche. Il privilegio non è
opponibile però ai creditori garantiti da ipoteca relativa a mutui erogati al promissario acquirente
per l'acquisto dell'immobile (questo serve principalmente per salvaguardare le banche, che ha
iscritto ipoteca su quello stesso immobile, che ha preso a garanzia per concedere un finanziamento al
promittente acquirente), nonché ai creditori titolari di ipoteca iscritta prima sul bene immobile.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 135

Sorge però un problema: questo privilegio che permette di prevalere su tutti gli altri creditori
(ottenendo prima di tutti il ricavato dalla vendita forzata del bene immobile), permane ancora, se su
quello stesso bene immobile c'è un’ipoteca iscritta da qualcun altro prima della trascrizione del
preliminare? Ovviamente no. In questo caso, un soggetto che intende iscrivere ipoteca su quel bene,
su cui grava già la trascrizione del preliminare, dovrebbe stare attento e non dovrebbe neanche
stipulare. Generalmente, sapendo che c'è una trascrizione del preliminare, un terzo non considera
seria una ipoteca sullo stesso bene, perché non è una buona garanzia, sapendo che se il promittente
venditore non adempie, il promissario acquirente può esercitare questo privilegio speciale e rifarsi
prima di lui sulla vendita forzata dell'immobile. Quindi, quell’ipoteca sarà di valore molto basso.
E quindi il problema non si pone, perché è ovvio che chi trascrive un preliminare ha una
sicurezza per il dopo, non può vedersi eccepito da qualcuno che hai scritto un’ipoteca dopo la
trascrizione del preliminare qualcosa (tranne che per il caso delle banche che gli hanno concesso il
mutuo).

C'è però una norma che ha fatto discutere: l'articolo 2748, comma II c.c., che va interpretato
correttamente. Secondo esso “i creditori che hanno privilegio sui beni immobili sono preferiti ai
creditori ipotecari se la legge non dispone diversamente”. Secondo alcuni tale norma sarebbe
applicabile nel senso che i creditori che hanno privilegio vincono sempre sui creditori ipotecari,
anche con riguardo a eventuali ipoteche iscritte prima della trascrizione del preliminare. In questa
sede deve ritenersi un'assurdità, tanto che la Cassazione ha risolto il problema dicendo che non è
possibile. Per la Cassazione le ipoteche trascritte anteriormente alla trascrizione del contratto
preliminare prevalgono sempre, anche sul privilegio a favore del promissario acquirente; addirittura
si toglierebbe valore all’ipoteca fraudolentemente. E allora perché è prevista questa norma?
Anzitutto, la norma è preesistente rispetto alla riforma del 1997 che ha inserito i privilegi a favore
del promissario acquirente. Pertanto, il legislatore dell’art. 2748, quando parla di privilegi sugli
immobili, si riferisce a quelli già presenti nel codice (prima del 1997) e relativi a crediti particolari
(per espropri, per imposte sui redditi, per tributi indiretti, per concessione di acque etc.) che hanno una
rilevanza di tipo pubblico (e perciò i privilegi su questi si sono ritenuti prevalenti rispetto alle
ipoteche). Lo stesso legislatore è stato assai attento a non pregiudicare i diritti ipotecari altrui, come
nell’art. 2772, dove prevede che il privilegio non si può esercitare in pregiudizio dei diritti
precedentemente acquistati sugli immobili. Quindi l’art. 2748 interpretato e si può essere certi,
anche grazie alla Cassazione, che non sia stato tenuto in considerazione adeguata dal legislatore del
1997, e il tenore di questo va armonizzato con la normativa. Quindi, chi ha iscritto ipoteca prima, non
può non avere prevalenza sul soggetto che successivamente ha iscritto trascrizione di preliminare.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 136

10. La responsabilità familiare


10.1 > Nozioni introduttive e problematiche

Il tema che si affronterà in questo paragrafo è quello che riguarda la responsabilità nei rapporti
familiari, quindi, responsabilità extracontrattuale nell'ambito della famiglia.
Il tema è di grande interesse da parte della dottrina più recente e da parte della giurisprudenza.
In periodo più risalente, non si poteva concepire che il danno extracontrattuale potesse entrare
nell'ambito del nucleo familiare. Storica è la metafora di Carlo Arturo Jemolo la famiglia è un'isola che
il mare del diritto può soltanto lambire ma mai penetrare. Questa concezione della immunità della
famiglia dalle aule dei tribunali, se non in ipotesi patologiche, ha contraddistinto il nostro pensiero
e influenzato culturalmente le idee e le riflessioni dei giuristi.
Si parte quindi da una soluzione negativa, cioè il primo approccio di diffidenza verso l'applicazione
della responsabilità extracontrattuale di dottrina e di giurisprudenza, ad una soluzione che trova
conforto anche in alcuni dati normativi significativi, non soltanto trova l'avallo di dottrina e
giurisprudenza.

Trattando di questa prima posizione negativa, da un lato c'era una riflessione culturale sulla
considerazione della immunità del nucleo familiare, che si risolveva nella frase di carattere
popolare secondo cui i panni sporchi si devono lavare in famiglia, per cui il giudice non doveva
entrare nelle controversie familiari. Fino a un tempo abbastanza recente, era inimmaginabile che un
coniuge potesse avanzare delle pretese risarcitorie nei confronti dell'altro coniuge.
A queste considerazioni sociologiche e metagiuridiche si affiancano delle considerazioni di carattere
più tecnico - giuridico. Francesco Santoro Passarelli, autorevole giurista, afferma che gli obblighi
familiari non sono dei veri e propri obblighi giuridici, e non essendo tali la violazione degli stessi
non può mai comportare un illecito e quindi non può mai determinare danno ingiusto Nella
riflessione di Passarelli la non giuridicità degli obblighi familiari derivava sostanzialmente dal loro
carattere incoercibile. Il giurista affermava che, non essendo coercibile l'obbligo di assistenza
familiare, ad esempio, si deve ritenere che tale obbligo non riveste natura e struttura giuridica.
Vediamo quali sono gli obblighi familiari che, se violati, determinano la richiesta di risarcimento del
danno:
• Art. 143 c.c., inerente diritti e doveri reciproci dei coniugi, comma I: “con il matrimonio, il
marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”. Questo primo comma
dell'art.14 rinvia ad un criterio di reciprocità e quindi di uguaglianza che è anche affermato nella
carta costituzionale all'articolo 29. Il comma II e III riguardano gli obblighi: “Dal matrimonio
deriva l'obbligo reciproco alla fedeltà, all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione
nell'interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in
relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a
contribuire ai bisogni della famiglia.” Nel secondo comma si ha una fascia di obblighi di natura
non patrimoniale (fedeltà, assistenza, coabitazione) al terzo comma abbiamo invece l'obbligo di
contribuzione, che assume un carattere eminentemente economico.
• Per gli obblighi nel il rapporto tra genitori e figli, l’art.147: “Il matrimonio, impone ad ambedue
i coniugi, l'obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto delle capacità,
dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.”

Secondo la posizione negativa sopra illustrata, i suddetti obblighi non sarebbero obblighi di
contenuto giuridico la cui lesione determina la richiesta di risarcimento del danno virgola poiché si
tratta di obblighi incoercibili. Santoro Passarelli si chiedeva come fosse possibile dare amore o
assistenza a chi non ha voglia di darli, e come fosse possibile obbligare un soggetto ad adempiere.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 137

A queste considerazioni se ne aggiungono altre di dottrina più recente, le quali ritengono che
configurare la possibilità di applicare all'ambito familiare l'art. 2043 c.c. significherebbe in
qualche modo costringere i soggetti nella loro esplicazione della libertà individuale, sottoponendo i
membri del nucleo familiare ad un ricatto (ad esempio: se tu non ti comporti in un certo modo, io
avanzo richiesta di risarcimento del danno, se tu non ti attieni agli obblighi chiedo la separazione, etc.).
Queste riflessioni si fondano su un presupposto generale, secondo il quale l'apertura alla
responsabilità extracontrattuale in quest'ambito determinerebbe un passo indietro nella
disciplina dei rapporti familiari, costringendo i soggetti alla indissolubilità del matrimonio, perché
attraverso il ricatto della richiesta di risarcimento del danno un soggetto non sembra essere libero di
interrompere o meno una determinata relazione e, anzi, sembrerebbe doversi trovare costretto a
mantenere una determinata situazione (che, invece è lasciata alla libertà individuale)
La separazione, seppur fondata su presupposti giuridici determinati, come l'intollerabilità della
convivenza, è da considerare esercizio di un diritto e manifestazione di una libertà del coniuge.

Altre riflessioni di carattere generale e tecnico giuridico si aggiungono a queste: si è da sempre


ritenuto che la disciplina del diritto di famiglia fosse una disciplina esaustiva, ed essendo dotata
di rimedi specifici, non ha bisogno di estendere la sua disciplina a quelli che sono i rimedi generali
dell'ordinamento, fra cui quello dell’illecito extracontrattuale.
Per tanto tempo la dottrina e la giurisprudenza hanno ritenuto che la violazione degli obblighi di
cui agli artt. 143 e 147 trovasse la sua “soluzione” negli istituti e nei rimedi di diritto familiare.
Tra questi, per quanto riguarda i rapporti personali tra i coniugi, si è ritenuto che fosse sufficiente
l’istituto dell’addebito nella separazione che si basa specificamente sulla violazione degli obblighi
di cui all'articolo 143. L’addebito della separazione è disciplinato all’art. 151 del c.c., co. 2: “Il
giudice, pronunciando la separazione dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale
dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai
doveri che derivano dal matrimonio” rinviando all'articolo 143 e all'articolo 147.
Una separazione con addebito può essere richiesta anche qualora uno dei due coniugi non
adempie agli obblighi verso i figli. La separazione con addebito ha delle conseguenze specifiche
per il diritto civile di famiglia, tra le quali vi è quella della perdita della posizione ereditaria.
Per lungo tempo, quindi, si è ritenuto che la separazione per addebito potesse coprire tutte le
esigenze che derivano dalla violazione degli obblighi familiari. L’insieme di queste riflessioni ha
costituito la matrice della prima posizione negativa di dottrina e giurisprudenza sull’applicabilità
in ambito familiare dell'istituto della responsabilità civile.

Tale posizione è stata scalfita e superata da una trasformazione del modello culturale della
famiglia. Con riguardo all'evoluzione della nozione di famiglia nel rapporto tra i coniugi, deve
evidenziarsi che la famiglia prevista e disciplinata nel codice civile del 1942 è una famiglia di tipo
patriarcale, in cui il capofamiglia è il marito e la moglie assume una funzione di sudditanza rispetto
alle decisioni e alla volontà primaria del capofamiglia.
Questa modello culturale di struttura gerarchica della famiglia è testimoniato da tutta una serie di
norme civilistiche, di carattere patrimoniale e non patrimoniale (ad esempio, il solo cognome del
padre per i figlia o il diritto-dovere del marito di amministrare i beni della moglie, o il concetto di
famiglia allargata in cui anche il nonno aveva un ruolo da paterfamiliae e componente del c.d. consiglio
di famiglia e consulente di diritto). La riforma del diritto di famiglia, avvenuta con la legge numero
151 del 1975, ha rinnovato le norme e ha recepito nel dettato normativo le sollecitazioni culturali
che già all'inizio degli anni ‘60 si erano manifestate attraverso una serie di decisioni della Corte
Costituzionale, che, proprio in ragione del principio di uguaglianza tra i coniugi ex art. 29 Cost.,
avevano sollevato il problema di illegittimità costituzionale di una serie di norme del codice che
violavano proprio tale principio in ragione della preminenza del paterfamilias.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 138

Il carattere principale della riforma del diritto di famiglia è quindi l'enunciazione formale e
sostanziale della parità reciproca tra marito e moglie ex art. 29 Cost., norma che ha consentito di
legittimare tutta una serie di decisioni della Corte costituzionale, anticipatorie della riforma stessa.
Agli istituti originariamente previsti, con la riforma del 1975, se ne sostituiscono altri, votati alla
collaborazione, anche dal punto di vista patrimoniale (si pensi all’abolizione della c.d. dote); in tal
senso è significativa la sostituzione, come regime legale da applicarsi automaticamente al
matrimonio e salvo diversa richiesta, della separazione con la comunione dei beni.
La comunione legale rappresenta la svolta del legislatore del 1975, perché, anche dal punto di vista
patrimoniale, non c'è più un capo famiglia che “deve portare i soldi a casa”, ma c'è un regime di
contribuzione e di collaborazione che pone i due coniugi in posizione di parità.
Queste riflessioni assumono una importanza significativa per capire in che modo l’evoluzione
culturale e giuridica del modello di famiglia ha una influenza anche sulle aperture in tema di
responsabilità extracontrattuale; questo perché, nel modello patriarcale, tutta una serie di abusi del
marito nei confronti della moglie erano culturalmente accettati come espressione di un modello
gerarchico (ad esempio, la violazione dell’obbligo di fedeltà da parte del marito non aveva rilevanza
giuridica, a differenza di quella della moglie che assumeva, per la legge, la definizione di “concubina”).

Oltre all'evoluzione nella nozione di famiglia, anche l'evoluzione del rapporto tra genitori e figli è
significativo e premette all'ingresso dell'illecito extracontrattuale nei rapporti familiari.
Sostanzialmente, l'evoluzione del rapporto tra genitori e figli è legata all'evoluzione del modello
familiare, perché nel modello gerarchico il capofamiglia era tale tanto nei confronti della moglie
quanto nei confronti dei figli (c’era addirittura l’idea per cui i figli erano in qualche modo equiparati a
beni dei genitori, quindi sui quali i genitori esercitavano un diritto simile a quello di proprietà).
L'evoluzione del rapporto genitori-figli passa attraverso una linea per cui il figlio, da soggetto debole
da proteggere, diventa una persona titolare di diritti e di doveri. La c.d. potestà dei genitori sui figli,
dal punto di vista della situazione giuridica soggettiva, è una situazione di potere- dovere, per cui il
potere del genitore nei confronti dei figli minori, deve essere esercitato solamente per quanto
riguarda la realizzazione dell'interesse del minore.
Questo passaggio significativo nella posizione del figlio minore da soggetto da proteggere a persona,
ha delle conseguenze significative, riconoscendosi al minore un diritto ad essere ascoltato, un
diritto alla privacy, e tutta una gamma di diritti della personalità che rappresentano il
presupposto per l'applicazione della responsabilità extracontrattuale in questo settore.
Una precisazione: l'ingresso della responsabilità extracontrattuale nell'ambito familiare è un
ingresso doloroso, perché apre il varco a situazioni penose, dall'abbandono morale di un genitore
nei confronti del figlio, all'abbandono materiale (quindi, ad esempio, un genitore che si rifiuta di
mantenere economicamente un figlio minore) fino a casi di abusi sui minori.
L'applicazione dell’illecito extracontrattuale nei rapporti genitori-figli, deve rispondere alla domanda
se gli obblighi, dettati e contenuti nell'art. 147 c.c., obblighi giuridici.

Accanto all'evoluzione del rapporto tra i coniugi e del rapporto tra genitori e figli, un'importante
svolta verso l'ingresso dell'illecito extracontrattuale nei rapporti familiari, è stata determinatadalla
progressiva estensione dell'area dell'illecito extracontrattuale.
Questo è un tema di carattere generale che riguarda le frontiere dell'art. 2043 del c.c. e l'applicazione
sempre più estesa di nuove figure di danno ingiusto, ad esempio la tutela di situazioni di fatto
come il possesso, o di diritti soggettivi relativi come il credito o di interesse legittimo.
Si è assistito, pertanto, a una progressiva estensione dell'ambito di applicazione della
responsabilità extracontrattuale e, accanto all'estensione dell'art. 2043, a una progressiva
estensione anche dell'ambito applicativo dell'art. 2059, sul cosiddetto danno non patrimoniale, che
riguardava in un primo momento solo la c.d. pecunia doloris, secondo l’interpretazione restrittiva,
ma oggi, con l’evoluzione, riguarda la violazione di interessi costituzionalmente garantiti.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 139

L’evoluzione dell’art. 2059 ha, inoltre, superato l’esistenza del reato per essere previsto risarcimento.
Quindi, hanno rilevato, sia l’estensione dell’area dell’art. 2043 che l’evoluzione dell’art. 2059 da
norma residuale a clausola generale per tutte le ipotesi di lesione di interessi giuridicamente.

Queste riflessioni, che toccano il cuore della responsabilità civile, sono poi connotate da una
progressiva emersione di nuove figure di danno, tra cui assume rilevanza peculiare, per il danno nei
rapporti familiari, l'emersione della nuova figura del danno esistenziale. E’ una figura di danno
creata dalla giurisprudenza che identifica, nelle parole di una sentenza della Corte Costituzionale il
danno da compromissione delle attività realizzatrici dell'esistenza e quindi della persona
umana. Quindi, la persona umana è determinata non solo dal suo patrimonio, ma anche dalla qualità
della sua vita di tutti i giorni, e – per appunto - della sua esistenza.
Questa figura di danno esistenziale in un primo tempo viene collocata nell'ambito dell'art. 2043 per
poi migrare definitivamente nella sua sede naturale: il danno non patrimoniale ex articolo 2059, in
quanto un danno che tocca i valori dell'esistenza umana. È significativo che, anche nelle decisioni
della giurisprudenza, gli esempi tipici di danno esistenziale siano delle figure di lesione del
rapporto affettivo e del rapporto familiare, che diventa una delle espressioni più forti.
Tutte queste premesse (l’evoluzione del rapporto fra coniugi e fra genitori e figli, e la progressiva
estensione dell’area dell’illecito extracontrattuale ex artt. 2043 e 2059) sono la base per
l'applicazione della responsabilità extracontrattuale nell'ambito del diritto di famiglia. L'emersione
della categoria del danno esistenziale identifica proprio delle esigenze meritevoli di tutela che
emergono nell'ambito familiare.

A questo punto è interessante vedere che, rispetto a quello che è l'assetto sistematico codicistico
degli istituti del diritto di famiglia (che elencano una serie di obblighi cui sono tenuti i coniugi
reciprocamente e cui sono tenuti i genitori nei confronti dei figli, formalizzati come di contenuto
patrimoniale), sono emersi dei nuovi interessi meritevoli di tutela che assumono rilevanza giuridica
specifica: il diritto alle relazioni affettive e la rilevanza del rapporto affettivo nell'ambito familiare.
Questo è un tema molto delicato, perché la rilevanza giuridica dell'affetto e dell'amore è stata
sempre contestata da giuristi autorevoli, sostenendo che l'affetto e l'amore non possono entrare nel
campo del diritto in quanto sono qualcosa di incoercibile. Se tutto questo è vero nel rapporto tra
adulti e quindi tra coniugi, diventa meno vero quando si parla del rapporto tra genitori e figli: nel
rapporto tra adulto e minore, il diritto all'affetto del minore assume un contenuto giuridico
specifico la cui violazione determina violazione degli obblighi specifici dei genitori, che non
consistono soltanto nel mantenimento, nell'istruzione e nell'educazione dei figli, ma è anche il diritto
alle relazioni affettive.
Che il minore sia titolare di un diritto alle relazioni affettive non è un'idea romantica di alcuni
giuristi, ma è un'idea che ha trovato conferma anche a livello normativo: di conseguenza, si pone il
quesito se il diritto alle relazioni affettive possa configurarsi anche rispetto ad un rapporto
coniugale. Come vedremo, ci sono sentenze significative che non dettano un generale diritto
all'affetto di un coniuge nei confronti dell'altro, ma identificano una serie di comportamenti, non
tanto lesivi del diritto all'affetto ma quanto al diritto alla dignità e all’onore di un coniuge che può
determinare una richiesta di risarcimento del danno qualora conduca alla lesione di diritti
fondamentali della persona. È tuttavia difficile identificare in capo ad un coniuge il diritto all'amore,
perché è condivisibile che si tratti di un diritto incoercibile; tuttavia, si possono identificare una
serie di obblighi tra i coniugi, la cui lesione determina una richiesta di risarcimento del danno.

L’emersione della categoria del danno esistenziale importa dei collari significativi per aprire il
varco alla responsabilità extracontrattuale in ambito familiare. In particolare il danno esistenziale
viene, per esempio, riconosciuto in una sentenza della Cassazione del 2001, in capo ad un minore che

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 140

era stato abbandonato dal genitore, che pur mantenendolo economicamente non voleva più vederlo,
disinteressandosi in toto della persona del minore.
Il danno esistenziale in ambito familiare, quindi, va a coprire tutta una serie di ipotesi, dalla
violazione degli obblighi familiari alla violazione di obblighi dei genitori nei confronti dei figli e,
infine, anche la violazione degli obblighi familiari da parte di terzi. Si noti che il danno esistenziale
non è stato molto “gradito” dalla dottrina, perché spesso se ne è abusato, usandolo in ipotesi limite
(ad es., richieste di risarcimento al parrucchiere o alla compagnia telefonica per una interruzione).
Quindi è proprio la figura del danno esistenziale (quale danno non patrimoniale) che identifica la
violazione di obblighi familiari, che hanno un contenuto non solo di natura patrimoniale ed
economica, ma soprattutto di natura morale.

La lesione di diritti familiari fondamentali, come all'assistenza materiale ad esempio, probabilmente


prescinde dalla formalizzazione di un istituto matrimoniale, perché è chiaro che la violazione può
configurarsi anche rispetto a soggetti che non sono uniti in matrimonio. Il quesito di fondo però
rimane, essendo gli artt. 143 e 147 dettati dal legislatore per la famiglia unita in matrimonio.

L'ingresso della responsabilità extracontrattuale nell'ambito dei rapporti familiari porta a una
distinzione fondamentale tra una responsabilità endofamiliare ed una responsabilità esofamiliare.
Per responsabilità endofamiliare si intende la responsabilità o di un coniuge verso l'altro oppure
di un genitore nei confronti dei figli. Si chiama responsabilità endofamiliare in quanto l'autore del
fatto illecito è un componente della famiglia. Questa responsabilità, che è quella più difficile da
ammettere ma anche più interessante dal punto di vista giuridico, determina una distinzione tra la
responsabilità c.d. coniugale e la responsabilità c.d. parentale.
Per responsabilità esofamiliare, invece, si intende una lesione dei diritti familiari in cui l'autore
dell'illecito non è un componente della famiglia. Essa individua tutte quelle ipotesi in cui un terzo
è l'autore di un illecito e compie un danno nei confronti di un soggetto, con la lesione dei diritti
familiari (ad esempio, diritto alla serenità familiare, alla sessualità, ad una vita normale). Fra questi
casi, significativi e classici sono quelli inerenti la sfera medica o di sinistri stradali, ma ce ci sono casi
di dubbia applicazione: ad esempio, si è parlato di responsabilità esofamiliare nel caso di adulterio e
la giurisprudenza ha cercato di affermare l’induzione all'inadempimento da parte del terzo.
E’ importante chiarire che si tratta in entrambi i casi di ipotesi di responsabilità nei rapporti
familiari, ma che partono da premesse completamente diverse: la responsabilità endofamiliare
consiste nell’ingresso dell'illecito extracontrattuale in quella che Jemolo chiamava l'isola della
famiglia; la responsabilità esofamiliare, in quanto responsabilità per lesione di diritti familiari, è una
responsabilità in cui l'autore dell'illecito è un soggetto terzo. Entrambe sono significative
dell'evoluzione dei rapporti familiari, in quanto anche individuare in capo al terzo una responsabilità
per lesione del valore familiare, significa dare rilevanza giuridica ai valori familiari.

10.1 > La responsabilità endofamiliare nel rapporto tra coniugi

Affrontiamo il problema dell’illecito compiuto da uno coniuge nei confronti dell’altro.


Il primo passo consiste nel vedere quali sono gli obblighi tra coniugi, cui articolo di riferimento è
l’art. 143 cc. espressamente rubricato “diritti e doveri reciproci dei coniugi” (vedi supra). Nel primo
comma emerge il profilo dell’uguaglianza giuridica tra i coniugi per quanto riguarda obblighi e dei
doveri. Come già detto, mentre nel secondo comma emergono una serie di obblighi di contenuto
non patrimoniale (fedeltà, assistenza materiale e morale, coabitazione), nel terzo comma emerge
invece l’obbligo generale, di contenuto patrimoniale ed economico, alla contribuzione.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 141

Bisogna anzitutto chiedersi se tali obblighi abbiano un contenuto giuridico. Al riguardo nella
dottrina meno recente, era emersa una teoria che considerava questi “obblighi” come dei semplici
oneri, la cui violazione determinerebbe quindi una conseguenza giuridica sanzionatoria.
A queste considerazioni della dottrina passata, suffragata dalla giurisprudenza, si sono aggiunte altre
riflessioni, secondo cui quelli ex art. 143 sono da ritenersi obblighi, ma la violazione di questi
obblighi comporta solamente un rimedio settoriale previsto dal diritto di famiglia, ma non si arriva
alla configurazione di un illecito civile ex art. 2043, che viene proprio escluso dal rimedio settoriale.
In questo secondo filone si inseriscono tutte le riflessioni secondo le quali l'unica sanzione
giuridica prevista per la violazione di questi obblighi sarebbe l’addebitabilità della separazione.
Infatti l'art. 151 c.c,, espressamente rubricato come separazione giudiziale, prevede che: “Co. 1 la
separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di
entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave
pregiudizio all'educazione della prole. Co. 2 Il giudice, pronunciando la separazione, dichiara, ove ne
ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in
considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”.
Quindi è sicuro che la sanzione prevista dal diritto di famiglia per la violazione degli obblighi ex art.
143 è la separazione con addebito: il giudice, nel pronunciare la separazione giudiziale, stabilisce
che questa separazione è addebitabile (cioè imputabile) ad uno dei due coniugi, perché nel periodo di
convivenza uno dei due ha violato uno degli obblighi contenuti nell'art. 143.
Le conseguenze giuridiche dell’addebitabilità della separazione sono la perdita del diritto al
mantenimento e la perdita dei diritti successori.
Di fronte a queste posizioni, dieci anni orsono, è emerso un dibattito dottrinalee giurisprudenziale,
che ha iniziato a parlare di un danno ingiusto per violazione degli obblighi familiari.

Un altro tema: è possibile che vi sia un illecito anche indipendentemente dalla pronuncia di
addebito? In altre parole, è possibile richiedere il risarcimento del danno anche prima che sia
richiesta la separazione? Per rispondere, tutto ciò va considerato sistematicamente, perché è chiaro
che è una volta che siano violati gli obblighi fondamentali della convivenza familiare,
automaticamente si instaura una crisi della coppia. Quindi, normalmente, la richiesta di
risarcimento del danno è accompagnata alla richiesta di separazione e molto spesso è
accompagnata alla richiesta di separazione con addebito (le due richieste vanno solitamente di pari
passo); tuttavia, strettamente, la configurabilità di una responsabilità per fatto illecito dovrebbe
portare a configurare tale responsabilità a prescindere da una domanda congiunta di separazione.

Altro tema importante è quello della configurabilità di un illecito civile anche nella famiglia di
fatto, quella non unita in matrimonio. Con riguardo al tema della responsabilità per fatto illecito e
quindi della rilevanza di tali obblighi al di fuori della famiglia legittima, occorre fare una
premessa di carattere generale: in realtà questo movimento culturale e dottrinale muove da un
presupposto di fatto, cioè che il singolo, pur appartenendo ad un nucleo familiare, rileva come
soggetto singolo e quindi dotato come tutte le persone di diritti della personalità, che devono
essere garantiti a prescindere dallo status familiare.
Va qui dato conto di un dibattito risalente nel tempo: originariamente la famiglia veniva
considerata come una formazione sociale a metà tra lo Stato e l'individuo, quindi un'entità a sé stante
nella quale l'individuo veniva conglobato ma che non rilevava come persona. L’evoluzione
culturale della nozione di famiglia ha portato via via alla scomparsa della nozione di famiglia come
istituzione sociale e si è sempre più data rilevanza alla persona nell'ambito della comunità
familiare. Questo movimento culturale ha portato necessariamente a dare rilevanza alla persona
umana e quindi alla singola persona, sia essa moglie, marito o figlio, non considerando lo status
familiare.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 142

Il problema della famiglia di fatto consiste nel capire se gli obblighi di assistenza morale,
materiale, di fedeltà e coabitazione (soprattutto quelli di contenuto non patrimoniale), che
caratterizzano e sono contenuti nel secondo comma dell'art. 143, valgono solo per la famiglia
legittima, oppure devono considerarsi applicabili a qualsiasi famiglia in cui si configuri una
convivenza affettiva stabile?
È chiaro che dal punto di vista tecnico giuridico, l'art. 143 viene letto quando i coniugi si sposano,
costruendo una famiglia fondata sul matrimonio, ma se si considera che vi sia diritto di ciascuno (e
quindi diritto della persona) all'assistenza materiale o morale e soprattutto se, dal punto di vista
della giurisprudenza, si considera la famiglia di fatto equiparata a quella legittima qualora vi sia un
rapporto affettivo stabile nel tempo, allora deve riconoscersi la rilevanza di questi obblighi anche
nella famiglia non fondata sul matrimonio. Laddove esista una convivenza stabile di tipo affettivo,
necessariamente questi obblighi devono estendersi anche a questa seconda tipologia di famiglia,
perché sarebbe incostituzionale (principio di uguaglianza) affermare la rilevanza di questi obblighi
solo nella famiglia fondata sul matrimonio e dire, per esempio, che in una convivenza stabile, che
abbia tutte le caratteristiche affettive di quella che la giurisprudenza chiama convivenza more
uxorio, uno dei due conviventi possa legittimamente violare l'obbligo di assistenza materiale o
morale, l'obbligo di fedeltà, l'obbligo di coabitazione.
È tuttavia da chiarire un punto: mentre nella famiglia legittima, la violazione di tali obblighi
comporta la sanzione giuridica della addebitabilità della separazione, nella famiglia di fatto - non
essendoci l'istituto della separazione e quindi tanto meno della addebitabilità - non c'è lo
strumento della perdita del diritto successorio e del diritto al mantenimento.
È chiaro che l'illecito civile e il relativo risarcimento è uno strumento di carattere generale che
ciascun individuo, indipendentemente dal fatto di essere componente di una famiglia legittima o di
fatto, può utilizzare. Tuttavia, l’individuazione degli obblighi di assistenza morale o materiale, è un
procedimento che collega il singolo all'appartenenza ad una comunità familiare.
Si può quindi dire che il problema è ancora aperto, che non è al momento ancora risolto a livello
giuridico e sistematico, ma che si configura laddove venga riconosciuto un illecito civile come
violazione di questi doveri all'interno della famiglia legittima.
La norma costituzionale che riconosce la famiglia è l'art. 29 della Costituzione, dal quale è
possibile verificare la rilevanza anche della famiglia di fatto: “la Repubblica riconosce i diritti della
famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza
morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare”.
Da una lettura testuale dell'articolo 29 della Costituzione si deduce che il nostro ordinamento
avrebbe riconosciuto solamente la famiglia legittima; a questa lettura testuale, tuttavia, si
accompagna una lettura anti letterale che ammette che nel concetto di famiglia possano rientrare
anche le famiglie diverse.
Il problema è quello di stabilire quali delle famiglie alternative a quella legittima possano
rientrare nel concetto di società naturale.
Tornando al tema della responsabilità endofamiliare nel rapporto tra coniugi, deve dirsi tuttavia che
quella tendenza dottrinale che fa entrare l'illecito civile nell'ambito della famiglia, estende la
rilevanza della violazione degli obblighi di cui all'art.143, anche alla convivenza eterosessuale che
abbia i caratteri di una convivenza more uxorio, la quale viene considerata come una convivenza di
carattere affettivo stabile nel tempo.

Si andrà ora ad analizzare il contenuto dei singoli obblighi previsti dall'art. 143 c.c.:
Il primo obbligo che emerge è l'obbligo di fedeltà, che, nella giurisprudenza più recente, viene
considerato non solo come l'obbligo di non intrattenere relazioni extraconiugali con altre persone,
ma con un contenuto più ampio, come l'obbligo di contenuto morale di essere fedeli all'altra
persona anche indipendentemente relazioni extraconiugali. Quindi tale obbligo viene
considerato violato non solo quando una persona palesemente intrattiene delle relazioni

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 143

extraconiugali, ma anche quando, pur non essendo accertata l'infedeltà, comunque sia tenuto un
comportamento in violazione dell'obbligo morale di affidamento di un coniuge nei confronti
dell'altro. Quindi quando faccia a credere all'altro di intrattenere delle relazioni extraconiugali o
addirittura la giurisprudenza è arrivata a considerare violazione dell'obbligo di fedeltà anche una
relazione extra-coniugale che non abbia contenuti della materialità, ma che sia anche di ordine
virtuale. Quello che è sicuro è che la violazione dell'obbligo di fedeltà non costituisce più un reato
dal punto di vista penale. Si entra qui in un problema relativo alla responsabilità endofamiliare, cioè
possibile risarcimento del danno non patrimoniale. Si può dire che, ad una prima lettura dell'art.
2059, che considerava risarcibile il danno non patrimoniale solo nell'ipotesi di reato, non essendo
più reato l'adulterio, si dovrebbe arrivare a considerare non più risarcibile l'obbligo di fedeltà. A
questo primo orientamento della giurisprudenza in tema di applicazione del danno non patrimoniale
si è poi affiancato un orientamento, oggi prevalente, secondo il quale è risarcibile il danno non
patrimoniale anche in assenza di reato. Secondo questa moderna concezione del danno non
patrimoniale, la violazione dell'obbligo di fedeltà - nel contenuto esteso che gli abbiamo
assegnato - dovrebbe comportare la risarcibilità del danno non patrimoniale;

Gli altri obblighi di natura non patrimoniale ex art. 143 sono quelli di assistenza materiale e
morale. L'obbligo di assistenza materiale è sicuramente un obbligo diverso rispetto a quello al
mantenimento (contenuto al III comma dell'art. 143 e di natura patrimoniale, cioè l’obbligo di
contribuire alle spese della famiglia): il riferimento all’assistenza materiale e morale fa venire in
mente la formula della cura dell'altro coniuge. Sicuramente esso non si esaurisce nel l'obbligo di
mantenimento e di contribuzione, ma è qualcosa che va oltre.
Con riguardo all’assistenza materiale si analizzerà adesso un caso giurisprudenziale deciso dal
Tribunale di Firenze in una sentenza del 2000. Si tratta di un leading case, perché è stato proprio
partire da questo caso che si è dato ingresso alla responsabilità endofamiliare.

Il fatto: all’interno di un matrimonio la moglie, dopo una serie di problemi di coppia, cade in una
depressione grave per la quale vengono somministrati degli psicofarmaci, che portano, come noto, ad
una perdita di attenzione e di interesse per la vita (perdita peraltro già configurabile nella patologia
di base, la depressione). Il comportamento del marito è quello di chiudere la moglie in una stanza
della loro abitazione (materialmente abbandonandola), il salotto. Inoltre, a un certo punto il marito
va a vivere altrove, intrattenendo una relazione extra-coniugale, che viene nelle more accertata. La
moglie è lasciata per un lungo tempo e l'abbandono materiale viene accertato dagli assistenti sociali,
i quali rinvengono in capo alla signora una patologia (dermatite), causata dallo stato di abbandono.
La moglie versa in uno stato totale di abbandono e non viene assistita dal marito, che si accorge di
questa situazione quando decide di mettere in affitto l'appartamento coniugale, e non quando viene
preso da un pentimento nei confronti della persona malata della moglie. A quel punto, dovendo far
andar via la moglie si accorge della situazione di degrado.

Si apre il giudizio di primo grado, è data separazione con addebito e il marito è imputato di reato
di abbandono ai sensi dell'art. 570 del codice penale. Congiuntamente, viene chiesto il risarcimento
del danno non patrimoniale per la violazione degli obblighi di assistenza materiale e morale.
Il Tribunale di Firenze accorda il risarcimento del danno non patrimoniale (peraltro in questa ipotesi,
essendo configurato il reato di abbandono, il risarcimento viene dato anche a prescindere dalla
applicazione di quell’orientamento di apertura che considera risarcibile il danno non patrimoniale
anche qualora non sia configurato in un reato, esistendo il reato di abbandono nel caso di specie.)
Questa è stata una delle prime sentenze configurante l'esistenza di un illecito civile che si
accompagna all'ipotesi di reato e di violazione degli obblighi di assistenza morale e materiale
contenuti nell'art. 143 del codice civile. Viene dimostrato il comportamento doloso del marito e il
nesso di causalità tra il comportamento del marito è il danno configurato in capo al coniuge.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 144

Si analizzerà ora l'obbligo di assistenza morale con cui si intende tutto quello che è l'apparato
affettivo ed emotivo di assistenza ad una persona. Nel caso di sopra, vi è violazione sia dell’obbligo
di assistenza materiale che morale. L'obbligo di assistenza morale, quindi, è configurabile ogni
qualvolta vi sia la violazione dell'obbligo di assistenza materiale (è chiaro che se una persona non
provvede neanche a curare materialmente l'altro, tanto meno provvederà ad assisterla dal punto di
vista morale). È anche però configurabile una violazione autonoma dell'obbligo di assistenza
morale, indipendentemente dalla violazione dell'obbligo di assistenza materiale.

Analizziamo due casi giurisprudenziali inediti in merito all’obbligo di assistenza morale.

Primo caso: un marito provvede a curare ed assistere materialmente la moglie, ma risulta dagli atti
che si tratta di una persona assolutamente fredda, indifferente e dal comportamento di tipo autistico,
che quindi nega ogni dialogo con la moglie e quindi si configura l'ipotesi di una violazione del mero
obbligo di assistenza morale. La moglie, nel caso oggetto della controversia, non lamenta la
mancanza di cure, ma sostanzialmente lamenta la mancanza di affetto da parte del marito
(freddezza, scostanza, non conformità a un dialogo fra coniugi).

Il secondo caso riguarda una questione di mobbing familiare. Il marito, pur assolvendo in toto e da
solo all'obbligo di contribuzione per le spese della famiglia, mantiene un comportamento
denigratorio nei confronti della moglie (denigrandola in pubblico come incapace di avere dei figli e
anche dal punto di vista estetico, qualificandola incapace di autonomia). Le richieste della moglie
vengono accolte dal giudice e viene dato il risarcimento del danno non patrimoniale come
mobbing familiare, pur non essendo tale fattispecie direttamente ricavabile dagli obblighi ex art.143.
Si entra qui in un campo molto delicato, perché nella controversia del tribunale di Firenze trattata
in precedenza si configura ipotesi di reato, in queste due ipotesi limite, sostanzialmente si riproduce
quella che è la vita di tanti rapporti familiari, e diventa più difficile stabilire il limite tra quello che è
legittimo e quello che non lo è. Soprattutto è difficile distinguere tra un comportamento normale
in un rapporto di famiglia e un comportamento antigiuridico, che qualifica il danno come ingiusto.

Pertanto, per riportare il problema della responsabilità endofamiliare in coordinate tecnico


giuridiche, occorre partire sempre dal faro dell’art. 2043. Quindi, non ogni comportamento freddo,
ostruzionistico o denigratorio può comportare la richiesta di risarcimento del danno, ma occorre,
anzitutto, dimostrare l'elemento soggettivo del comportamento (dolo o colpa) e, in secondo luogo,
dimostrare che sia stato prodotto un danno alla persona e che vi sia un nesso di causalità tra il
comportamento (freddo o denigratorio) e la produzione del danno.
Nel primo caso del secondo gruppo, un atteggiamento freddo potrebbe appartenere all’indole della
persona: qual è la soglia dell’illiceità per cui si configura un danno in seguito a un comportamento? Si
deve far riferimento a ipotesi non normali, ma patologiche, ad esempio, un comportamento che
abbia effettivamente comportato un danno nei confronti dell'altra persona e che sia un
atteggiamento protratto e reteirato nel tempo, tale da causare effettivamente un danno alla persona.
Questo tema è oggi affrontato dai giuristi più attenti: esiste un diritto all'affetto? Nel rapporto
genitori-figli la dottrina più attenta configura l'esistenza di un diritto soggettivo all'affetto nei
confronti dei soggetti minori. Invece, nel rapporto tra adulti, non è configurabile un diritto
all'amore, ma la violazione del diritto all'affetto deve accompagnarsi alla lesione di altri diritti,
come il diritto alla dignità e all'identità personale (lesi, ad esempio, nel caso di mobbing familiare).

Esaminiamo l’obbligo di contribuzione ex art. 143 III comma, che ha, come detto, un contenuto
sostanzialmente ed esclusivamente patrimoniale. Ciascuno dei coniugi, anche se non svolge un
lavoro professionale all'esterno (casalingo o casalinga), deve contribuire alle spese della famiglia.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 145

Si fa qui riferimento ai bisogni della famiglia, ma sostanzialmente la violazione di questo obbligo si


configura in tutte le ipotesi in cui uno dei due coniugi non provveda, né attraverso la
corresponsione di una somma per quelle che sono le spese comuni né attraverso un lavoro anche se
di tipo domestico. In realtà, tutto il dibattito in ordine alla responsabilità endofamiliare non tocca
tanto il danno patrimoniale quanto più la violazione degli obblighi di contenuto non
patrimoniale, perché è proprio in questa sfera di diritti e di doveri che si configurano i danni più
rilevanti consistenti.
È chiaro che l'obbligo di contribuzione patrimoniale (quindi l'obbligo di mantenimento) è più
facile da dimostrare dal punto di vista probatorio, e sicuramente è un obbligo che può dar luogo ad
un risarcimento del danno, sempre sul presupposto della presenza di elementi dell’illecito.
In negativo ci sono delle sentenze della Cassazione, entrambe del 1993, che chiamano in causa il
problema del danno patrimoniale nell'ipotesi di separazione. In un caso il coniuge separato lamenta i
danni economici derivanti dalla separazione (l’assunzione di una domestica) e intenta un’azione
di revoca per ingratitudine della donazione di un immobile precedentemente donato alla moglie.
L’altro caso riguarda i danni economici lamentati dalla moglie per la perdita dei vantaggi e benefici
derivanti dalla convivenza, nel caso di specie del godimento della casa familiare, qualificabili come
vantaggi economici collaterali rispetto alla violazione dell'obbligo generale di contribuzione.
In ogni caso, qualora si configura un’ipotesi di violazione dell'obbligo di contribuzione che abbia
le caratteristiche dell’illecito civile, è chiaro che si tratta di danno patrimoniale e non concerne la
violazione di diritti costituzionalmente garantiti.

Nell'ambito dei diritti a contenuto non patrimoniale, l'ultima categoria, seppur residuale, è costituita
dall'obbligo di coabitazione che il codice cita dopo aver enunciato gli obblighi già analizzati di
contenuto non patrimoniale.
In merito, la giurisprudenza si è pronunciata ritenendo che esso venga violato solo qualora un
coniuge si allontani dalla residenza della famiglia senza giustificato motivo, senza preavviso e
soprattutto per un tempo ragionevolmente lungo e reiterato (abbandono del tetto coniugale).
Non emergono, a livello di giurisprudenza di merito, né tantomeno a livello di Cassazione, casi di
risarcimento del danno per la violazione del mero obbligo di coabitazione; esso si accompagna in
generale alla violazione di altri obblighi contenuti all'art. 143.

Si analizzeranno, infine, due sentenze che prendono delle decisioni contrapposte nell'ambito
dell'ammissibilità al risarcimento del danno per responsabilità endofamiliare. Nell’ambito delle
motivazioni emergono proprio le riflessioni sintetizzate in apertura, quindi sull’aprire o meno la
configurabilità dell’illecito civile nel rapporto fra coniugi.

1. Tribunale di Savona (sede di Albenga, 08/01/2005), in tema di violazione dell'obbligo di fedeltà


coniugale, che porta, nella controversia, alla separazione e alla richiesta di risarcimento del danno da
parte della presunta vittima (nella specie, la moglie).

Il fatto: Dopo 8 anni di convivenza, la coppia contrae il matrimonio nel 1994 (lei è in seconde nozze).
Dopo tre anni di vita coniugale, la moglie viene contattata da un tale che le comunica che sua moglie
aveva una relazione coniugale con suo marito. Emerge quindi nei fatti che il marito intrattiene una
relazione coniugale con un'altra donna e il marito dell’amante consegna alla moglie una serie di
lettere intercorse tra i due amanti.
Da qui, la moglie inizia ad avere una depressione che le porta l'esigenza di cure mediche che vengono
accertate. La moglie afferma di essere caduta in uno stato di inferno e frustrazione, e non vede più
prospettive per la sua vita sentimentale; adduce che il suo disagio viene accresciuto dal fatto che i
suoi amici, parenti, conoscenti, iniziano a chiedere informazioni (la situazione diviene difatti di

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 146

pubblico dominio), accrescendone lo stato di disagio. Secondo la donna, il comportamento del marito
è gravemente lesivo degli obblighi contenuti nell'articolo 143 del codice civile e chiede:
" Risarcimento del danno biologico conseguente alla violazione del dovere di fedeltà del
coniuge, o danno psicologico. Tale danno consiste nel trauma psichico degenerato in lesione
permanente alla salute dell'attrice, in quanto colpita da uno stato psicologico di profonda
depressione;
" Risarcimento del danno esistenziale o danno alla serenità familiare, adducendo che il
rapporto affettivo con l'attuale marito aveva determinato la crisi del precedente suo rapporto
coniugale, che la vita dell’attrice ruotava attorno alla persona del suo compagno che aveva
sostenuto e aiutato anche nella crescita professionale. Sicché la violazione del dovere di
fedeltà aveva stravolto l'esistenza della donna.

Sentenza e motivazioni. In primo grado viene respinta dal tribunale la richiesta del risarcimento
del danno biologico e anche quella del danno esistenziale: analizziamo le motivazioni.
Sono significative alcune indagini istruttorie (con testimonianze), risultando che questa depressione,
che dovrebbe essere collegata causalmente al fatto dell'adulterio, in realtà non aveva poi comportato
un peggioramento della vita di questa persona perché anzi ci sono delle testimonianze secondo cui,
non solamente questa persona stava meglio, ma si rifiutava di avere un dialogo col marito.
Il punto più importante è il seguente, che contiene le motivazioni di rigetto della richiesta. Il
Tribunale di Savona riproduce le riflessioni precedenti nella dottrina: il fatto che la violazione dei
reciproci diritti e doveri dei coniugi sia sanzionata dall'art. 151 (che fa riferimento alla sanzione
dell'addebito della separazione) in base al principio lex specialis derogat legis generali, induce a
ritenere che, nel caso di trasgressione, il coniuge non posso andare incontro a conseguenze diverse ed
ulteriori. Ciò a prescindere dal fatto che nel caso in esame la separazione non è stata neppure
addebitata al marito, perché in realtà si è proceduto per separazione consensuale.
Quindi, in questo caso, la giurisprudenza nel 2005, a proposito di controversia in tema di violazione
dell'obbligo di fedeltà, riproduce le riflessioni della dottrina risalente, secondo cui, essendoci lo
strumento settoriale previsto dal diritto di famiglia della separazione per addebito, in base al
principio secondo cui lex specialis derogat legis generali, non è possibile intravedere la possibilità di
un illecito risarcibile ai sensi dell’art. 2043 o dell'articolo 2059.
Sono interessanti anche altre considerazioni tratte dalla sentenza: “Per converso, quand’ anche si
ritesse sussistere lo spazio per ottenere il risarcimento per violazione dei doveri nascenti dal
matrimonio, si dovrebbe trattare evidentemente di un danno non patrimoniale tutelato dall’ art. 2059
c.c. secondo cui “il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”
nella chiave di lettura costituzionalmente orientata di recente indicata dalla Suprema Corte che,
superando la tradizionale restrittiva lettura della norma, considera inoperante il limite derivante dalla
riserva di legge correlata all’ art. 185 c.p. laddove la lesione abbia riguardato valori della persona
costituzionalmente garantiti. In tale ipotesi, non essendovi lo spazio per un risarcimento da danno
morale soggettivo in seguito all’ eliminazione del reato di adulterio e non essendo coercibili gli obblighi
previsti all’ art. 143 c.c. (alcuni autori sostengono addirittura che si tratti in realtà di oneri piuttosto
che di doveri strictu sensu), il risarcimento viene negato”.

Come si vede, nelle motivazioni della sentenza sono riprodotte tutte le teorie dottrinali già esposte e
da ritenere oggi superate (unico rimedio, obblighi incoercibili, interpretazione restrittiva art. 2059).
A questa sentenza restrittiva si contrappone la tesi dominante secondo cui l'esistenza di strumenti
sanzionatori di carattere familiare, come la separazione per addebito, non escluda assolutamente la
possibilità di applicare il rimedio del risarcimento del danno. Questo perché il risarcimento del
danno è un rimedio di carattere generale, quindi si arriverebbe al paradosso per cui, se una
persona fa parte di un nucleo familiare, viene trattata dal punto di vista giuridico peggio di una
persona single.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 147

A questo vanno ad affiancarsi altre riflessioni: se questi obblighi si applicassero solamente alla
famiglia legittima fondata sul matrimonio, si arriverebbe al paradosso secondo cui sarebbe più
conveniente non sposarsi, così da potersi giovare del rimedio generale dell'illecito civile, e non
esaurendo tutta la tutela nell’unico rimedio speciale della separazione per addebito.
Senza contare poi che, come abbiamo visto, la separazione per addebito prevede solamente delle
conseguenze di tipo patrimoniale, ma non vale a coprire il danno non patrimoniale che si
configura quando vengono violati questi obblighi. Come visto le conseguenze della sanzione della
separazione per addebito sono solo la perdita del diritto al mantenimento e dei diritti successori.

2. Tribunale di Milano (24/10/2001): in questa decisione di merito viene accordata la separazione


per addebito, alla quale si aggiungono una serie di obblighi di mantenimento e costituisce una
delle decisioni più significative in tema di responsabilità endofamiliare nel rapporto tra coniugi.

Il fatto: Protagonista è una coppia giovane che desidera un figlio, e dagli atti risulta addirittura che i
due si erano trasferiti in un'abitazione più grande e che la moglie si era anche sottoposta a delle cure
per avere un figlio, che poi felicemente arriva. A questo punto, però, il marito rifiuta in maniera
assoluta la gravidanza della moglie, si disinteressa sotto tutti i profili dell’assistenza materiale e
morale della donna, violando anche l'obbligo di coabitazione e l'obbligo di fedeltà. Il marito infatti
intrattiene una relazione extraconiugale con un'altra donna, abbandona il tetto coniugale
scomparendo (risulta che la moglie incinta chiama la forza pubblica per trovare il marito), inoltre
nega ogni assistenza, sia morale che materiale, alla moglie incinta (risulta dagli atti che il marito
addirittura aveva eliminato il dialogo verbale e comunicava con la moglie solo con dei bigliettini).
Quando nasce il bambino, dalle testimonianze risulta che il marito va soltanto una volta a vedere il
bambino, ma era ormai talmente assente dalla vita della moglie che addirittura è un amico a
comunicargli la nascita del figlio mediante fax. La moglie chiede separazione per addebito e il
risarcimento del danno.

Questa sentenza è significativa perché risulta la violazione di quasi tutti gli obblighi di natura non
patrimoniale contenuti nell’articolo 143.
Il danno lamentato non è solamente quello psicologico derivante dalla separazione, ma è proprio un
danno specifico e accertato, in quanto risulta che la signora in gravidanza contrae una depressione
che porta ad un rallentamento della crescita fetale del bambino. Sicché, per tale sviluppo le viene
praticato il taglio cesareo conservatore. Sempre dagli atti risulta che il marito più volte aveva cercato
con atteggiamenti più o meno violenti e intimidatori di fare interrompere la gravidanza della moglie.
La parte che a noi interessa è il profilo del risarcimento del danno non patrimoniale in
violazione degli obblighi nascenti dal matrimonio ex art.143.
La decisione di questa sentenza rappresenta, in un certo modo, uno statuto della responsabilità
endofamiliare nel rapporto tra i coniugi, perché qui il Tribunale di Milano riproduce una serie di
riflessioni importanti anche per segnare il limite tra il danno risarcibile e il danno non risarcibile.

Viene affermato: “Occorre verificare se la condotta di questo signore, in violazione dei doveri nascenti
dal matrimonio, sia lesiva di una posizione giuridica soggettiva, tutelata della controparte e
produttiva di un danno apprezzabile a carico dell'altro coniuge e bisogna vedere se ciò implichi, quindi,
una responsabilità extracontrattuale dell'agente ex articolo 2043”.
A questo punto inizia a tutta una riflessione sulla natura giuridica dei doveri nascenti dal
matrimonio e si dice: “Orbene, in ordine alla natura dei doveri nascenti dal matrimonio, questo
Tribunale ha già avuto modo di rilevare chiaramente come la dottrina prevalente, desumendola
anche dalle conseguenze che l'ordinamento ricollega alla loro violazione, riconosce la natura
pienamente giuridica e non soltanto morale di tali doveri. Può quindi affermarsi, essendo questi
degli obblighi a contenuto giuridico e quindi rilevanti, come da essi discenda una posizione giuridica

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 148

tutelata, o addirittura un diritto soggettivo di un coniuge nei confronti dell'altro, a


comportamenti rispondenti a tali obblighi”.

Vi sono poi una serie di considerazioni sul fatto che, ormai, l'apertura dell'art. 2043 prescinde dalla
etichettatura come un diritto soggettivo assoluto; ciò perché nell'ambito dell'art. 2043 vi rientrano,
secondo la giurisprudenza più recente, non solamente i diritti soggettivi assoluti ma anche i diritti
soggettivi relativi, le situazioni di fatto, le aspettative e le chance.
Vi è poi la seguente ulteriore riflessione: “non si può affermare, né varrebbe invocare, per escludere la
configurabilità di una responsabilità extracontrattuale di un coniuge nei confronti dell'altro, l'assunto
secondo il quale sulla base del principio lex specialis derogat legis generalis, il fatto stesso che i doveri
coniugali e la loro violazione siano specificamente disciplinati nell'ambito del diritto di famiglia,
imporrebbe di ritenere inapplicabile in specie la normativa generale, in particolare il disposto
normativo ex articolo 2043. È di tutta evidenza infatti che, da un lato, le sanzioni specificamente
previste nel diritto di famiglia per la violazione di tali doveri sono strettamente settoriali, solo
eventuali e ormai di ben limitata portata anche sul piano giuridico almeno a seguito
dell'introduzione nel nostro ordinamento dell'istituto del divorzio”.

Si rileva una situazione esattamente speculare e contrapposta rispetto a quella esaminata dal
Tribunale di Savona, secondo il quale non è possibile aprire le porte al risarcimento e quindi
all’illecito extracontrattuale, perché esiste la sanzione della separazione per addebito.
Il Tribunale di Milano ribalta completamente questa posizione e dice che non è possibile applicare il
principio secondo cui la legge di famiglia deroga al principio generale dell'art. 2043, perché questa è
una tutela settoriale, residuale e quindi non esaustiva di quella che è la tutela generale dell'individuo.

C'è di più, secondo il Tribunale di Milano: “d’altra parte, una lettura siffatta della normativa in tema di
diritto di famiglia, quale disciplina anche sanzionatoria, esclusiva ed esaustiva nell'ambito dei rapporti
tra coniugi, risulterebbe comunque in palese contrasto con il dettato costituzionale, ove valesse a
rendere inapplicabile in materia il disposto generale ex articolo 2043, anche in caso di condotte
lesive dei diritti inviolabili di ciascuno dei coniugi, tutelati in modo pieno ed assoluto ex articolo 2
Cost. anche nelle formazioni sociali ove si svolge la personalità di un individuo e quindi anche
nell'ambito familiare, ovvero in caso di comportamenti dei coniugi in contrasto con il principio
fondamentale di uguaglianza morale e giuridica di essi all'interno della famiglia, laddove
manchi un esplicito dettato legislativo a limitare tale uguaglianza a garanzia dell'unità familiare.”

Si dice quindi che, escludendo la risarcibilità ex articolo 2043, si commette anche una violazione
degli articoli 2 e 29 della Costituzione.
Il Tribunale di Milano va a verificare, allora, quando si deve ammettere tale responsabilità,
eliminati tutti gli impedimenti formali, e quindi i casi in cui, in concreto sia possibile applicare
l'articolo 2043. Questa è la parte più importante della sentenza, perché si dice che “ai fini del
riscontro di una responsabilità risarcitoria ex articolo 2043, a carico del coniuge inadempiente ai
doveri coniugali, il giudice deve accertare anzitutto l'obiettiva gravità della condotta assunta
dall’agente, in violazione di uno o più dei doveri nascenti dal matrimonio, pure nel contesto di una
valutazione comparativa del comportamento di entrambi i coniugi nel contesto familiare, ed in secondo
luogo verificare con speciale rigore la sussistenza di un danno oggettivo conseguente a carico
dell'altro coniuge e la sua riconducibilità in sede eziologica (cioè in sede di riconoscimento di un
nesso di causalità), dello stato di sofferenza psico-emotiva, affettiva e relazionale, produttiva, oltre che
di disagio economico e comportamentale a carico di una delle parti.”

In sostanza il tribunale di Milano, aprendo le porte alla responsabilità per fatto illecito, sente,
tuttavia, la necessità di porre dei limiti all'ammissibilità di questo risarcimento e stabilisce che non

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 149

è risarcibile qualsiasi sofferenza psichica, perché è chiaro che la separazione in sé comporta un


danno psichico (è fra le cause di depressione più rinomate in psicologia). Tale danno non può essere
automaticamente risarcibile, ma è necessario individuare un danno grave e un comportamento che
sia talmente grave ed eziologicamente collegato col danno, tanto da legittimare la richiesta di
risarcimento.
Stabiliti questi principi, il Tribunale viene ad analizzare qual è stato il comportamento del marito nei
confronti della moglie e li analizza uno per uno (per questo la sentenza in analisi rappresenta uno
statuto), con riguardo, ad esempio all’obbligo di fedeltà, di cui si fornisce una definizione ampia.
Dall'esame complessivo del comportamento del marito, dalle aspettative che aveva ingenerato nei
confronti della moglie, anche su una felice vita insieme con la nascita del figlio, si deduce un
comportamento complessivamente grave, perché lesivo di una serie di obblighi: quello di
assistenza materiale e morale e quello di fedeltà, inteso in senso lato.
È sicuramente un danno apprezzabile, ma soprattutto “peggioramento della sfera personale del
soggetto, intesa come il complesso di attività ma anche di vissuti affettivi, emozionali e relazionali, in
cui il soggetto esplica la sua personalità, ben più grave del mero disagio comunque conseguente alla
frattura dell'unione coniugale.”
Quindi non qualsiasi depressione collegata alla fine di un matrimonio comporta risarcimento del
danno, ma deve configurarsi un comportamento grave e un grave pregiudizio, e
complessivamente lesivo di una serie di diritti, e in violazione di una serie di obblighi.

10.3 > La responsabilità endofamiliare nel rapporto tra genitori e figli

Ci si occuperà di tutti i danni conseguenti dal mancato adempimento di tutti gli obblighi previsti
nel rapporto tra genitori e figli, soprattutto del mancato adempimento degli obblighi del genitore
nei confronti dei figli ex artt. 147 e 148 del c.c.
Occorre preliminarmente tenere conto dell'evoluzione significativa che in quest'ambito hanno
determinato il costume e le variabili sociali e sociologiche che hanno determinato delle ricadute
importanti per quanto concerne questo capitolo dell'illecito civile.
Questa evoluzione, che tocca in generale il diritto di famiglia, è significativa quando si analizza il
rapporto tra genitori e figli.
Come è noto in un remoto passato, i genitori vantavano addirittura un diritto di proprietà sulla
prole, il c.d. ius corrigendi, un vero e proprio “potere dei genitori” nei confronti dei figli. Questo
modello è stato sostituito per gradi da un modello paritario in cui non solamente il genitore non si
pone più in una posizione sovraordinata rispetto al figlio, ma in cui la situazione giuridica soggettiva
in capo ai genitori, è una situazione – la potestà- in cui convivono due anime e quindi due situazioni
giuridiche diverse. La potestà è la situazione giuridica soggettiva del potere-dovere, cioè un
potere che è tuttavia in qualche modo calibrato da un dovere nei confronti dei figli. Nell'arco
dell'ultimo ventennio quindi, la prole, da soggetto debole è via via diventata un soggetto di diritto.
Già nel codice del 1942 si stabiliva che i figli fossero pienamente titolari di diritti e doveri, tuttavia,
si concepiva, anche più di recente, il rapporto genitori-figli come un rapporto fra un soggetto forte e
uno debole. La percezione è cambiata sia attraverso la giurisprudenza che attraverso la legislazione,
anche europea, ponendo le basi per il superamento della concezione protezionistica.
Questa evoluzione tocca in maniera significativa il tema da trattare, essendo concepibile un danno,
solo se e in quanto si riconosce che i figli sono dei soggetti di diritto, tanto di riconoscere
addirittura una responsabilità endofamiliare del genitore nei confronti dei figli.

Occorre, al riguardo, dare conto di nuove riflessioni della dottrina che non restano nel campo delle
idee, ma sono suffragate da una significativa legislazione in materia di diritto di famiglia.
Il punto più significativo di questa evoluzione è la tendenza da parte della dottrina e della
legislazione di dare una nuova rilevanza ai rapporti affettivi.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 150

Quando si parla di affetto, in materia giuridica, c’è sempre del disagio, perché il diritto all'affetto
dovrebbe essere qualcosa che non appartiene all'area degli obblighi giuridici, ma che, in maniera
più romantica, appartiene a settori esterni al diritto.
Non è solo un pensiero della dottrina quello della presenza del diritto all’affetto (e della relativa
tutela) nei rapporti tra genitori e figli, ma tale pensiero è suffragato dalla legislazione speciale.
Occorre fare una premessa: si parla di diritto alle relazioni affettive solo nel rapporto tra genitori e
figli, perché al momento non esiste in alcuna riflessione dottrinale il riferimento a un diritto
all'amore nel rapporto tra persone adulte non legate da un rapporto di filiazione.
Il minore è un soggetto che non vanta solamente un diritto all'istruzione e all'educazione, ma
come la psicologia più avanzata ha dimostrato (teoria dell'attaccamento), il minore fin dai primi mesi
di vita, ha bisogno di relazionarsi in maniera affettiva con il mondo degli adulti e in particolare con i
propri genitori. Un riferimento specifico al diritto del minore alle relazioni affettive si trova nella
nuova legge sull'adozione. Tale riferimento è talmente nuovo che, nelle prime trasposizioni di
questa legge nei codici civili, quasi tutti facevano l'errore di mettere il diritto del minore tra i diritti
“effettivi”, scambiandoli erroneamente con i diritti affettivi. Uno specifico diritto alle relazioni
affettive si rinviene, inoltre, nell’art. 1 della nuova legge sull'affidamento condiviso: tra i vari
diritti del soggetto minore vi è quello di conservare rapporti affettivi, e quindi significativi, non
solo coi propri genitori ma anche con la figura degli ascendenti (i nonni).
Questi riferimenti normativi al diritto del minore all’affetto hanno in qualche modo sovvertito quello
che era il rapporto gerarchico familiare: a conferma della nuova rilevanza dei rapporti affettivi, si
veda come, secondo la giurisprudenza, per configurarsi un abbandono di minore (presupposto per
l’affidamento) può anche bastare il solo abbandono morale e non quello materiale.

Nel rapporto genitori-figli, nel codice del 1942, gli articoli di riferimento sono gli articoli 147 e 148.
Art. 147 c.c., Doveri verso i figli: “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l'obbligo di mantenere,
istruire ed educare la prole, tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni
dei figli”.
In questa enucleazione dei doveri verso i figli, il legislatore del 1942 aveva sostanzialmente pensato
ai doveri classici: mantenimento, istruzione, educazione, che devono senz'altro essere
adempiuti dai genitori, tenendo conto delle aspirazioni dei figli.
Per quanto riguarda il primo di questi doveri, quello di mantenimento, la nostra giurisprudenza di
legittimità, ritiene che tale dovere superi anche il compimento dei 18 anni di età e che vada oltre
nel tempo, fino a permettere anche ai figli maggiorenni di continuare il proprio corso di studi.
In questo dovere di mantenimento si enucleano chiaramente i diritti alimentari, ma anche il diritto
dei figli a mantenere uno stile di vita parametrato a quello del proprio nucleo familiare.
Per quanto riguarda il dovere di istruzione e di educazione, si va ad affrontare un capitolo triste e
spesso penoso del rapporto genitori-figli, ancora oggi. Questo perché la tendenza, anche in un
modello familiare è voluto in cui il minore è passato da soggetto da proteggere a titolare di diritti e di
doveri, si rischia che i genitori trasferiscano in capo ai figli le proprie aspirazione o dei sogni non
esauditi. La difficile linea di demarcazione è quella tra il dettare (e quindi comunicare) un modello
di istruzione ed imporlo ai figli, quando sia contrario alle proprie aspirazioni personali.
Altro aspetto difficile affrontato dala giurisprudenza riguarda le comunità religiose che impongono
determinati modelli comportamentali ai figli, che spesso contravvengono, ad esempio, al diritto
alla salute (e quindi a garantire ai propri figli una vita salubre), con norme contrarie alla trasfusione
o particolari in termini di cibo. In questi casi la risposta deve essere data dal fatto che il codice
religioso (che un genitore ha tutto il diritto di trasmettere al proprio figlio, in quanto patrimonio
morale) non deve superare la soglia dei diritti dell'individuo, perché occorre ricordare che prima
dello status di figlio vi è la persona umana. Quando la religione si sovrappone a quelli che sono i
diritti della persona, si evidenzia indubbiamente uno stato di antigiuridicità.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 151

Art. 148 c.c., Concorso negli oneri: “Co.1. I coniugi devono adempiere l'obbligazione prevista
nell'articolo precedente in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro
professionale o casalingo. Quando i genitori non hanno i mezzi sufficienti gli altri ascendenti, legittimi o
naturali, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari, affinché
possano adempiere i propri doveri nei confronti dei figli. Co. 2. In caso di inadempimento il presidente
del Tribunale, su istanza di chiunque vi ha interesse, sentito l'inadempiente ed assunte informazioni,
può ordinare con decreto che la quota dei redditi dell'obbligato, in proporzione agli stessi sia versata
direttamente all’altro coniuge o a chi sopporta le spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione
della prole. Co. 3. Il decreto notificato agli interessati o al terzo debitore, costituisce titolo esecutivo ma
le parti e il terzo oppositore possono proporre opposizione nel termine di venti giorni dalla notifica.
L'opposizione è regolata dalle norme relative all'opposizione al decreto di ingiunzione in quanto
applicabili, le parti e il terzo debitore possono sempre chiedere, con le forme del processo ordinario, la
revoca del provvedimento.”
Si tratta, come visto, di rimedi peculiari forti previsti nel diritto di famiglia in caso di
inadempimento dell'obbligo di mantenimento. È chiaro che i rimedi appena letti, dal secondo
comma in poi, sono utilizzabili per il caso di mancato adempimento, ma prescindono dalla
produzione di un danno ingiusto. Qui ci si occuperà dei casi in cui la violazione dei doveri sopra
riportati provochi un danno ingiusto, che faccia sorgere il diritto di risarcimento del danno. È un
rimedio ulteriore e che va a coprire solo l'ipotesi in cui si sia effettivamente prodotto un danno
ingiusto, non giustificato da nessuna delle esimenti previste in tema di illecito civile.
I rimedi previsti dall'art. 148, quindi, scattano a prescindere dalla produzione di un danno, in
tutte le ipotesi in cui un genitore si rende inadempiente all'obbligo di mantenere i figli. Altro e
diverso settore è quello che riguarda l'individuazione di un danno a seguito di un
comportamento di un genitore, classificabile tra i comportamenti antigiuridici dell’illecito civile.

Nell'evoluzione del rapporto genitori-figli non si registra solo il passaggio enunciato, che va dalla
considerazione del figlio minore quale soggetto debole alla considerazione del figlio minore quale
soggetto titolare di diritti e di doveri. L'altro passaggio significativo di questa evoluzione è dato
principalmente dalla nuova rilevanza dei rapporti affettivi.
Tale rilevanza nasce nelle nuove riflessioni della dottrina (Bianca) che apre la strada al
riconoscimento di un risarcimento del danno in capo al minore per mancanza di amore, ovvero
quando si dimostri il danno sofferto per mancanza di relazioni affettive; essa è stata recepita nelle
citate leggi sull’adozione e sull’affidamento condiviso.
Si tratta di un capitolo delicatissimo del diritto di famiglia, che si confonde con le valutazioni della
psicologia e dell'etica, che hanno aiutato i giuristi nel codificare e nel rilevare come questo diritto
all'affetto costituisca una specifica pretesa giuridica, ma soprattutto come la mancanza di affetto da
parte di un genitore verso un figlio possa determinare in età adulta degli squilibri e delle
conseguenti gravi situazioni, ravvisabili solo a lungo termine, anche se spesso si possono già
ravvisare dei danni a medio o breve termine (ad esempio, disagi comportamentali e del linguaggio
o addirittura problemi di deambulazione).
Accanto a questa nuova rilevanza del diritto del minore all'amore dei genitori, è significativa una
corrente dottrinale e giurisprudenziale che ha dimostrato gli specifici diritti del minore non vi è
solamente quello a conservare le relazioni affettive con i propri genitori, ma anche coi propri nonni
(la giurisprudenza si è interrogata anche sulla natura giuridica del diritto - soggettivo o interesse
legittimo - del nonno a visitare il nipote e ad averci un rapporto, soprattutto nei casi di divorzi).
Si analizzeranno una serie di decisioni giurisprudenziali sui temi trattati.

1. Sentenza del Tribunale di Monza, 2004.


Il fatto: Due coniugi hanno un figlio, dopodiché la coppia entra in crisi e si separa. Il figlio,
contrariamente a quello che è il costume abituale da parte dei giudici, viene affidato al padre fin

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 152

dall'epoca della separazione. Pur avendo i coniugi concordato un regime di frequentazioni da parte
della madre, ad un certo punto si interrompe il rapporto tra la madre e il bambino. Dalla consulenza
tecnica d'ufficio e dalle testimonianze emerge che la donna si era ammalata gravemente e che non
fosse più nelle condizioni psicologiche ed emotive per intrattenere una serena relazione col proprio
figlio che all'epoca aveva solo 3 anni. L’ASL chiamata a testimoniare rileva un giudizio di sostanziale
inadeguatezza di entrambe le figure genitoriali nell'affrontare i gravi problemi derivati al minore
dalla vicenda della separazione, rifiutando anche un progetto terapeutico. La madre è stata per lungo
tempo latitante e si è mostrata incostante nel presentarsi agli appuntamenti, oltre che discontinua
negli impegni assunti. A sua volta, il padre ha mantenuto una posizione di totale diffidenza, quando
non di aperta svalutazione, del ruolo della madre e ha incentivato un atteggiamento ostile, talvolta
decisamente volto a boicottare il progetto di intervento. La cosa più importante è che tutto questo
crea uno stato di disagio psicologico in capo al minore. La madre lamenta un atteggiamento di
boicottaggio da parte dell'ex marito, che più volte esprime la totale inadeguatezza dell’ex moglie a
intrattenere e continuare un rapporto con il figlio.
La madre chiede il risarcimento del danno esistenziale per aver ostacolato il rapporto con il minore.

La decisione: il Tribunale di Monza sostiene che, anche se non ci sono gli estremi del danno
biologico, comunque l'ex marito ha compiuto un atto illecito violando un diritto
costituzionalmente garantito che è il diritto familiare. Nella motivazione si legge che in quanto al
danno morale, la domanda dovrebbe essere accolta solo sulla base dell’accertamento del reato a capo
dell’ex marito, cioè la mancata esecuzione della sentenza che stabiliva il diritto di vista per il
codice non affidatario. Il marito, infatti, non solo aveva boicottato il rapporto tra la madre non
affidataria e il minore, ma aveva anche disatteso il provvedimento del giudice, che aveva stabilito dei
momenti precisi nei quali la signora poteva visitare il figlio. Perciò, quanto al danno morale, sarebbe
sufficiente quanto stabilito dall'articolo 388 del codice penale, concernente la mancata e dolosa
esecuzione del provvedimento dell’autorità giudiziaria. Il Tribunale ritiene che la violazione del
diritto della signora vada rinvenuto nella giurisprudenza in merito al risarcimento del danno morale;
la stessa Cassazione ha stabilito che in tema di risarcimento del danno, ogni qualvolta si verifichi la
lesione di un interesse costituzionalmente protetto, il pregiudizio conseguenziale integrante il
danno morale soggettivo è risarcibile anche se il fatto non sia configurabile come reato. Quindi il
danno morale soggettivo è il danno che viene risarcito a prescindere dal reato.
E ancora, il Tribunale adduce che il riconoscimento dei diritti della famiglia di cui all'art.29 della
Costituzione, va inteso nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa
dell'individuo, alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto genitoriale ispira, generando
bisogni e doveri, ma anche dando luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati. Allorché
un fatto lesivo abbia profondamente alterato quel complessivo assetto provocando una
determinante riduzione, se non un annullamento delle positività che derivano dal rapporto
parentale, il danno non patrimoniale consistente nello sconvolgimento delle abitudini di vita, deve
trovare ristoro nella tutela prestata dall'art. 2059 c.c. in caso di lesioni di un interesse
costituzionalmente protetto. Il Tribunale di Monza, nell’accordare il risarcimento del danno
esistenziale alla donna per la privazione del rapporto affettivo con il figlio, richiama e trova un
importante fondamento giuridico e tecnico nella sentenza 8827 del 2003, che per la prima volta
ritiene che vi sia un diritto costituzionalmente garantito ad un sereno rapporto affettivo e familiare,
che trova il suo fondamento nell'art. 29.
Il Tribunale di Monza ritiene che, nel caso in esame, appaia indubbio che la compromissione
sofferta dalla signora nella sfera dei propri rapporti col figlio minore, attraverso l'interruzione di
ogni apprezzabile relazione negli ultimi 10 anni, integri la lesione di un diritto personale
costituzionalmente garantito e rappresenti quindi un fatto costitutivo del diritto al
risarcimento dei danni non patrimoniali sotto l'aspetto sia del danno morale soggettivo sia
dell'ulteriore pregiudizio derivante dalla privazione delle positività derivanti dal rapporto parentale.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 153

Quello che è importante mettere a fuoco è questa prospettiva esposta, ma soprattutto questa
dimensione non patrimoniale del danno da privazione del rapporto affettivo parentale. In questo
caso di specie, il risarcimento che viene accordato alla donna viene fondato sulla lesione di un
diritto costituzionalmente garantito. Concludendo, è significativo vedere come, in primo luogo,
l'elemento soggettivo del comportamento antigiuridico dell'ex marito, viene riconosciuto
addirittura nel dolo, perché viene chiaramente detto che non è un comportamento che si è verificato
solo una tantum, ma è stato un comportamento costante nel tempo e idoneo a sostenere la dolosità
soggettiva. Quanto all'entità del risarcimento, dalle indagini testimoniali e dalla CTU emerge che,
anche se a questa donna è stata riconosciuta la lesione di un diritto costituzionalmente garantito, in
realtà anche lei, per un comportamento colposo, imputabile a varie ragioni, non mostra di
cooperare per intrattenere il rapporto col figlio. Il tribunale riconosce questo dato e quindi richiama
la regola stabilita dall'art. 1227 c.c., secondo la quale se vi è stata una concorrenza nella
produzione del danno da parte del soggetto danneggiato allora si ha una riduzione dell’entità del
risarcimento.

2. Sentenza del Tribunale di Modena, 2006. In questa sentenza, in seguito ad abbandono di


minore, viene accolta la richiesta di sequestro conservativo e si fa riferimento alla fondatezza
delle domande (vedi art. 261 c.c.). Nel punto 3 viene accolto il ricorso avente ad oggetto il sequestro
conservativo e si accerta il danno esistenziale legato alla consapevolezza soggettiva in capo al figlio
di non essere mai stato desiderato dal padre e trattato come figlio, cosa che in termini equitativi
appare certo risarcibile anche se allo stato non esplicitabile, trattandosi di una valutazione equitativa
da liquidarsi in sede di decisione definitiva. Anche questa sentenza, che richiama la n.7713 del 2000
di Cassazione, è significativa perché riconosce il danno esistenziale in capo al minore.

3. Sentenza della Corte di Cassazione n. 7713/2000, un vero e proprio leading case.


Il fatto: Attore è un figlio che lamenta di essere stato abbandonato, ma il pregiudizio che egli lamenta
non è solamente l'abbandono materiale (il mantenimento), ma anche l'abbandono morale, poiché
non è mai stato trattato come tale, sia sotto il profilo affettivo che sotto quello economico. Nell’atto di
citazione l’attore deduceva di essere stato mantenuto per un periodo, ma di aver subito un
comportamento intenzionalmente e pervicacemente defatigatorio del padre naturale.
La decisione: Non è tanto il mancato adempimento dell'assistenza materiale a rilevare, perché
sembra dai fatti che il padre in questione per tanti anni non lo avesse mantenuto, ma poi avesse
mandato un assegno periodico con tutti gli arretrati. La Cassazione, prescindendo dal pagamento
ritardato e anche degli arretrati, sostiene che il danno esistenziale emerge dalla lesione in sé di un
diritto costituzionalmente garantito, che non ha un contenuto economico ma un contenuto
morale fortissimo, cioè quello alla relazione affettiva col proprio genitore. Di grande rilevanza è
anche la lettura civilistica del reato di mancata assistenza, che è il reato di abbandono ex art. 570
del codice penale. Da tale reato, in una lettura civilistica, non consegue solo alla mancata
corresponsione dei mezzi di sussistenza, ma rileva sul piano civile in termine di violazione non di
un mero diritto di contenuto patrimoniale, ma di sottesi e più pregnanti diritti fondamentali
della persona in quanto figlio è in quanto minore. In questa sentenza il fondamento del
comportamento antigiuridico è la lesione di un diritto fondamentale della persona collegato
all’appartenenza a una famiglia, che trova la sua rilevanza agli artt. 29 e 30 della Costituzione.

4. Sentenza del Tribunale di Venezia, 2004. Il fatto: da una unione di fatto nasce una bambina,
abbandonata dal padre ventenne fin dal momento della gravidanza dell'allora compagna. Risulta dai
fatti che il comportamento di assoluta indifferenza del padre si protrae nel tempo e non viene mai
sanato, neanche quando la figlia cerca un contatto col padre, che le nega ogni possibilità. La figlia
chiede risarcimento del danno.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 154

Tale risarcimento non consiste nel danno biologico perché la ragazza, nonostante l'abbandono del
padre, fu molto seguita dalla madre e dai nonni materni, garantendole equilibrio psicologico e
culturale. Viene quindi chiesto il risarcimento del danno esistenziale. È significativo come questo
danno viene accordato, ma il comportamento del padre viene contrassegnato dal punto di vista
soggettivo come un comportamento doloso, perché si dice che è vero che al momento della nascita
della bambina vi era una giustificazione dovuta alla giovanissima età del padre, ma il reiterato
rifiuto della bambina integra tutti gli estremi del dolo. Per quanto riguarda il fondamento del
risarcimento del danno esistenziale, il Tribunale si rifà alla motivazione della Cassazione e afferma
che vi sia stata lesione di un diritto costituzionalmente garantito che non configura danno
strettamente morale, ma fa capo ad un diritto soggettivo e assoluto, certamente di valenza
costituzionale cioè il diritto di ogni figlio all'assistenza morale e materiale di ciascun genitore.

5. Sentenza del Tribunale di Venezia, 2005. Il fatto: Uno dei figli di una coppia ha un grave
handicap fisico e mentale ed è affidato alla madre. Il padre non si disinteressa del mantenimento
economico, ma tronca ogni rapporto affettivo col figlio handicappato. Qui il fatto è uno dei più
penosi analizzati, trattandosi del caso di abbandono di un figlio affetto da grave handicap fisico; in
questa sentenza è interessante - oltre l’argomentazione addotta con motivazione lunga, tecnica e
argomentata (anche piano etico) - il fatto che il Tribunale, nell' accordare il risarcimento del danno
subito dal figlio, stabilisce forzatamente una serie di incontri obbligatori e periodici tra padre e
figlio, Al padre che contesta il fatto che l’obbligo sia stato stabilito giudizialmente, il Tribunale
risponde con l’equiparazione del figlio maggiorenne affetto da gravi handicap a un figlio minorenne e
arriva ad affermare il rapporto tra padre e figlio disabile come necessario.

6. Corte di Appello di Bologna, caso di abbandono meramente materiale. Il fatto: risulta il


mancato adempimento da parte del genitore degli obblighi di istruzione, educazione e
mantenimento inteso nel senso più lato, e quindi non solo in termini meramente economici. Quando
si parla di mantenimento si deve intendere non solo la corresponsione di quanto necessario per
la sopravvivenza, ma in senso più esteso anche tutto quello che consente al figlio o al coniuge di
vivere un certo livello di vita, sia dal punto di vista sociale, economico e culturale. I motivi: la Corte
di Appello di Bologna riconosce il danno da mancato mantenimento del figlio con violazione degli
artt. 147 e 148 e dispone il risarcimento del danno. Quanto alla qualifica di questo danno, si pone il
quesito se si tratti di danno solamente economico o anche di danno esistenziale. La Corte
d'Appello, nello stabilire il danno da mancato mantenimento, richiama la figura del danno
esistenziale, non suffragandola col riferimento importante che viene fatto nella sentenza Cassaz.7713
del 2000, alla lesione di un diritto costituzionalmente garantito; in questo caso si fa solo riferimento
al mancato mantenimento del figlio, quindi alla lesione e violazione degli artt. 147 e 148.

7. Corte di Appello di Bologna (2). Il fatto: Anche qui vi è la richiesta di una figlia di risarcimento
del danno per abbandono materiale e morale da parte del padre. Questa è l'unica sentenza in cui la
Corte rifiuta il risarcimento, non tanto sulla base del mancato riconoscimento o il mancato
fondamento di questo danno esistenziale che ormai è accertato, bensì affermando, nei motivi della
decisione, che questo danno non era stato provato dalla figlia, non essendo stato dimostrato. La Cort
motiva che il danno patrimoniale non è in re ipsa, ma bisogna allegarlo e provarlo.

Sintetizzando queste decisioni della giurisprudenza emerge un dato fondamentale:


nell'orientamento della giurisprudenza (di merito e di Cassazione), un principio di diritto che
poi viene accolto nella maggioranza delle decisioni di merito, è che il danno che emerge nella
maggioranza dei casi analizzati è il danno da privazione affettiva, un danno esistenziale e non
patrimoniale, che è dato dalla violazione di un diritto costituzionalmente garantito, cioè il diritto
del minore a intrattenere e continuare delle relazioni affettive coi propri genitori.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 155

10.4 > La responsabilità esofamiliare

La responsabilità esofamiliare non nasce all'interno del nucleo familiare, ma è la responsabilità il


cui autore è un terzo estraneo al nucleo familiare che cagiona un danno ad un componente della
famiglia. Essa ha acquistato nell'ultimo periodo una rilevanza significativa, rilevando sempre più il
rapporto familiare e di affettività che lega i componenti della famiglia, così da far rilevare sempre più
il danno compiuto da un terzo nei confronti di un componente del nucleo familiare.
La responsabilità esofamiliare può realizzarsi sia nei confronti di un componente della famiglia
legittima che nei confronti di un convivente more uxorio. Quindi è configurabile una
responsabilità esofamiliare per l'atto illecito compiuto nei confronti del convivente more uxorio:
classico caso è quello dell’uccisione del convivente more uxorio.
Riguardo alla tipologia di responsabilità e al tipo di danno che viene lamentato, la responsabilità
esofamiliare può essere sia responsabilità extracontrattuale che contrattuale, in tal caso per una
tipologia particolare coniata dalla giurisprudenza: il contratto protettivo degli interessi dei terzi.

La prima tappa dell’evoluzione, nonché la più classica formulazione della responsabilità esofamiliare
consta nell'ipotesi della tutela aquiliana del credito: si parla di tutela aquiliana del credito
ogniqualvolta l'atto illecito compiuto dal terzo va a ledere un diritto di credito. La prima ipotesi
fatta è quella del caso Superga, a seguito di un incidente aereo e alla morte di quasi tutti i componenti
del Torino calcio: fu avanzata una richiesta di risarcimento del danno dal presidente della squadra
coinvolta nell'incidente, che lamentava il danno da perdita della prestazione calcistica (e quindi del
suo credito) a seguito del danno cagionato dal terzo.
A partire dagli anni 80, alcune prime sentenze riconoscono la tutela aquiliana del credito per
l'uccisione del convivente more uxorio. Da tale tipo di convivenza nascono diritti e doveri per le
parti, e di conseguenza anche dei crediti: ad esempio ci sarà il convivente che contribuisce alla
gestione e alle spese della famiglia e magari l'altro convivente mantiene il primo. Quindi uno dei due
conviventi vanta un credito nei confronti dell'altro. Nel caso, ad esempio, avvenga un incidente
stradale, a seguito di un illecito compiuto da un terzo, che comporti la morte di un soggetto, il danno
risarcibile che il convivente può far valere non è quello per la perdita in sé del compagno, ma il danno
consistente nella perdita al suo diritto alla prestazione economica (il mantenimento)
In queste prime decisioni emerge, anzitutto, la rilevanza della convivenza more uxorio. Dal punto di
vista però del danno, emerge che la tutela extracontrattuale del credito non dà rilevanza alle
relazioni affettive, in quanto il danno che il convivente sopravvissuto richiede è un danno di
natura meramente economica, e non il danno esistenziale per la perdita affettiva. Questo primo
passo della giurisprudenza (cui poi seguirà il riconoscimento del danno esistenziale) dà una
rilevanza al danno economico e quindi si qualifica proprio come tutela aquiliana del credito, in cui
rientra ovviamente anche il coniuge, oltre al convivente more uxorio.

Essendo la responsabilità esofamiliare una componente della responsabilità civile e della


responsabilità che opera nei confronti della famiglia, essa segue naturalmente tutte le tappe proprie
della responsabilità civile.
Le tappe più significative dell'evoluzione della responsabilità civile si muovono lungo le direttive
dell'alternanza tra la rilevanza data dalla giurisprudenza dall'art. 143 c.c. la residualità dell'art.
2059, fino ad arrivare all'ultima e attuale giurisprudenza, che pone invece al centro di ogni
attenzione l'art. 2059, come articolo di riferimento per la responsabilità per atti illeciti che derivino
dalla lesione dei valori fondamentali della persona.
La seconda tappa di questa evoluzione è costituita dai tentativi della giurisprudenza di
individuare la fonte (cioè articolo di riferimento) per il danno biologico. Con riguardo alla
responsabilità esofamiliare ci sono una serie di importanti sentenze nelle quali, il coniuge o il
genitore o il convivente, vantano nei confronti di ipotesi di danno biologico.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 156

E’ interessante rilevare, nell'ambito della varietà di ipotesi delle sentenze, la qualificazione che la
giurisprudenza dà questi danni, spaziando dal danno alla vita di relazione, estetico, alla vita sessuale.
Nell'ambito del rapporto tra genitori e figli, sono frequentissimi i danni che vengono provocati da
errore medico, e in questi casi sono i genitori a richiedere il danno economico e quello morale.
Emerge spesso la figura del contratto protettivo degli interessi dei terzi fra medico e paziente: un
contratto che, seppure stipulato tra due soggetti, estende i suoi effetti protettivi anche nei
confronti dei componenti stretti del nucleo familiare; la fattispecie rientra nell’ambito contrattuale
(ad esempio, c’è stata una richiesta per puro danno da nascita, per una coppia che aveva richiesto la
sterilizzazione per la moglie ed era stata effettuata, senza risultato, da parte al medico).
La giurisprudenza si è interrogata a lungo sulla collocazione del danno biologico nell'ambito del
danno patrimoniale (art. 2043) o non patrimoniale (art. 2059).
In una sentenza della Corte Costituzionale degli anni 80 si riteneva che il danno biologico andasse
collocato nell'ambito dell'art. 2043, andando il danno non patrimoniale a qualificare solamente, in
maniera residuale, il danno morale soggettivo, ossia la c.d. pecunia doloris.
In questa prima fase tutto il sistema viene polarizzato attorno all'articolo 2043, quindi tutti i danni
trovavano una loro risposta nel danno patrimoniale; l'art. 2059, invece, svolgeva un ruolo residuale,
valendo a coprire solamente il danno morale soggettivo.
L'orientamento di cui sopra, però, via via muta prospettiva e il mutamento più significativo è dato
dell'attenzione sempre più pregnante verso i valori fondamentali della persona, ma soprattutto ai
valori non patrimoniali; il sistema, così, si polarizza intorno all'art. 2059, che copre sia il danno
biologico sia ogni ipotesi di danno per la violazione di valori fondamentali della persona.
In questo humus culturale nasce nella giurisprudenza la figura del danno esistenziale, prodotto
tipico dell’orientamento enunciato. È il danno che viene sofferto da un soggetto per un mutamento
peggiorativo dell’esistenza: un danno che non ha un effetto immediato e che dura nel tempo per
tutta l'esistenza dell'individuo che lo ha subito, la cui esistenza si modifica in senso peggiorativo,
proprio a seguito dell'atto illecito compiuto dal terzo. Anche qui la giurisprudenza, in un primo
tempo e in ricordo dell’orientamento passato, colloca il danno esistenziale nell'ambito dell'art.
2043, mentre il più recente orientamento – oggi prevalente – lo colloca nell'ambito dell'art. 2059.
Tutta questa evoluzione incide sulla responsabilità familiare, e in particolare nella responsabilità
esofamiliare, perché, in un primo tempo, i danni lamentati dal coniuge o del convivente sono
meramente economici (anche il danno alla salute è visto solo come danno per le spese e ai danni
morali stessi viene riconosciuta valenza residuale). La vera svolta, nell'ambito del diritto familiare, è
contrassegnata dal danno esistenziale: tutti i danni che prima venivano collocati nell'ambito
dell'art. 2043 trovano adesso collocazione centrale e maggioritaria nell' art. 2059 e, nell'ambito della
famiglia, sono le ipotesi più frequenti quelle di danno esistenziale, individuato come violazione
del valore fondamentale alla famiglia (per la prima volta nelle sentenze viene riconosciuto un danno
per lesione dell'art. 2 e degli artt. 29 e 30 della Costituzione, come danno alla serenità familiare).
L’ultimo capitolo dell’evoluzione comporta anche lo spostamento della collocazione del danno
morale soggettivo che, fino agli anni ’80, aveva valore residuale e comportava il solo risarcimento
delle spese (ad esempio, risarcimento delle sole spese mediche per la depressione da perdita del
congiunto). Oggi, con l’evoluzione, questo si affianca spessissimo al danno esistenziale; si noti che, a
volte, finisce per essere ricompreso in questo, perdendo di autonomia e confondendosi.
Si analizzerà, di seguito, la giurisprudenza in tema di responsabilità esofamiliare.

1. La sentenza affronta un incidente stradale, con addebito dell’illecito su un terzo. Il problema di


fondo è il danno: il risarcimento viene richiesto, oltre dalla signora che ha subito l'incidente
stradale, anche dal di lei marito, perché a seguito di questo incidente stradale, la donna che era alla
sesta settimana di gravidanza perde il bambino. In punto di diritto, la questione più interessante è
quella della pretesa avanzata dal marito, che chiede il risarcimento del danno sia iure proprio che
iure hereditario. La decisione: viene intanto accertata la causalità fra l’illecito e l’interruzione di

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 157

gravidanza; quanto alla pretesa avanzata dal marito, il Tribunale non ha dubbi sul risarcimento del
danno in conseguenza del sinistro. Ciò che è interessante è che non viene dato il risarcimento del
danno soltanto alla moglie e al marito, ma - per la prima volta in questo settore - viene richiamato
il danno esistenziale, vantato da entrambi i coniugi per il peggioramento qualitativo della loro vita
a seguito della perdita della gravidanza. Il peggioramento della vita di questi coniugi è qualificato e
risarcito come danno esistenziale, e il Tribunale lo qualifica chiaramente diverso dal danno morale.
Per quanto riguarda la pretesa del marito - concernente la richiesta del danno iure hereditario - la
sentenza affronta il problema della soggettività del feto, dicendo che chiedere questo tipo di danno
significherebbe ammettere la soggettività giuridica del feto. La giurisprudenza in questa sentenza
prende posizione negativa, sancendo che il feto non è ancora una persona e non è possibile, pertanto,
attribuire il risarcimento iure hereditario. Il punto interessante di questa sentenza, per ciò che
riguarda il danno esofamiliare, è il riconoscimento del danno anche in capo al marito.

2. La sentenza è peculiarissima, trattandosi di una delle prime sentenze in tema di contratto


protettivo degli interessi dei terzi. Volendo qualificare tale contratto, bisogna ricordare il
principio generale di relatività del contratto: secondo questo principio, contenuto nell'articolo
1372 del codice civile, il contratto è vincolante e produce effetti solo tra le parti che lo hanno
stipulato. Per tale motivo, la responsabilità contrattuale, è una responsabilità che sorge soltanto nei
confronti dei soggetti contraenti. In tante fattispecie però, si è visto (soprattutto in tema di
responsabilità medica) che il modello della responsabilità contrattuale sia in realtà un modello
più efficiente rispetto alla responsabilità extracontrattuale. Questo perché, a parte il tempo di
prescrizione più lungo e quindi favorevole, il meccanismo della prova nella responsabilità
contrattuale risulta più semplice per il danneggiato, essendo l'autore dell'illecito a dover dimostrare
di non aver potuto evitare quel danno, a tutto vantaggio della vittima di danno. Questo maggiore
favore della responsabilità contrattuale, rispetto al modello della responsabilità extracontrattuale, in
linea generale ha portato la giurisprudenza a inquadrare la responsabilità medica nell'area
contrattuale attraverso diversi escamotage concettuali, fra cui il contratto protettivo degli interessi
dei terzi. Per contratto protettivo degli interessi dei terzi si intende quanto segue: se una donna
stipula un contratto di opera professionale con il medico, la responsabilità contrattuale dovrebbe
sorgere solo tra le parti contraenti, e il marito, non essendo parte contraente, non potrebbe mai agire
con l’azione di responsabilità contrattuale. Attraverso la figura del contratto protettivo degli interessi
dei terzi, tuttavia, si individuano dei terzi peculiari (i componenti della famiglia), che sono, appunto,
i terzi protetti dal contratto. Ciò significa che un contratto, anche se a due parti precise, protegge
anche i familiari; ciò rileva sul piano processuale, perché l'eventuale marito della moglie che ha
stipulato un contratto d'opera col medico ha un'azione di risarcimento del danno anche nei confronti
di quel medico, in virtù del suo essere un terzo rispetto privilegiato al contratto. Questa figura del
contratto protettivo degli interessi dei terzi ha avuto un'applicazione dalla giurisprudenza in questo
caso di scuola di mancata informazione del medico verso la paziente, nell'ambito di una
gravidanza non desiderata. Questo caso è peculiare perché sussiste la figura del contratto protettivo
degli interessi dei terzi, ma il danno che viene lamentato dalla moglie dal marito non è il danno da
gravidanza indesiderata, ma – assurdamente - il danno è la gravidanza in sé.
I fatti: due coniugi, che avevano già due figli, si rivolgono ad un ginecologo richiedendo una tecnica di
sterilizzazione che consenta alla moglie di essere sicura di non avere più figli. Il medico procede ad
una tecnica di sterilizzazione consistente nella chiusura delle tube della donna, ma anche a seguito di
ciò la donna rimane incinta e non abortisce per scelta. La donna chiede, insieme al marito, il
risarcimento del danno al medico, perché, a seguito della nascita di questo figlio i coniugi si trovano
in difficoltà nel mantenimento e chiedono il danno patrimoniale per il mantenimento del pargolo
e il danno morale, provando che, a seguito della nascita, la moglie contrae una sindrome
depressiva che poi si protrae nel tempo. Ci si trova di fronte ad una situazione del diritto che impone
delle riflessioni non solo giuridiche ma etiche. Ci si chiede innanzitutto se la nascita in sé possa

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 158

essere considerata un danno, e quindi, può quindi essere risarcito come danno ingiusto il fatto in
sé della nascita? La decisione del Tribunale è in favore del risarcimento del danno sia alla moglie
che al marito, usando la figura del contratto protettivo degli interessi dei terzi con un escamotage
concettuale. Il Tribunale dice che il danno non è la nascita in sé, ma l'onere economico
inevitabilmente correlato ad un evento non programmato. Quindi si arriva a dire che il danno
non consiste nella nascita ma nel diritto e nell’obbligo dei genitori di mantenere la prole. Un ulteriore
danno viene poi visto nel fatto che la programmazione della prole è un atto libero, e quindi vi
sarebbe violazione della libertà di autodeterminazione dei coniugi. La cosa sconvolgente è che il
contratto protettivo degli interessi dei terzi, normalmente applicato per i casi in cui si lamenta danno
subito da uno dei due coniugi, in questo caso si applica all’ipotesi di una nascita non desiderata.

3. Sentenza di Cassazione del 2005 n. 20320. A differenza della precedente, questa sentenza si
inserisce nella normalità dell'applicazione giurisprudenziale del contratto protettivo degli
interessi dei terzi, essendo una classica ipotesi di gravidanza indesiderata per mancata
informazione da parte del medico. In particolare, nasce un bambino affetto da emimelia agli arti
inferiori e da labio palatoschisi e malformazioni alle mani. I genitori del bambino chiedono il
risarcimento del danno al medico, perché qualora fossero stati preventivamente avvertiti delle
problematiche del figlio, avrebbero sicuramente interrotto la gravidanza. Il punto interessante,
che poi risulta anche essere comune a tutte le decisioni sul contratto protettivo degli interessi dei
terzi, è la valutazione di idoneità del marito a chiedere il risarcimento del danno al medico
ginecologo. Si tratta di un danno contrattuale perché la figura del cosiddetto danneggiato di riflesso
o danneggiato indiretto non sarebbe sufficiente a coprire il danno da lui lamentato. La sentenza
richiama in motivazione l'idea della famiglia come comunità intermedia: si tratta di un'idea
dottrinale molto interessante, secondo cui la famiglia è un'organizzazione intermedia tra lo Stato e
l'individuo, e quindi questo “tessuto di diritti e doveri” non riguarda soltanto il singolo coinvolto in
quel rapporto, ma si estende anche nei confronti dei terzi. Ciò significa che se un terzo causa un
danno come in ipotesi ad un coniuge, l'altro coniuge è un terzo protetto dal contratto.

4. L’ipotesi che segue è classica: un incidente stradale con conseguente morte del soggetto, che
era un padre di famiglia in età giovane; il danno viene lamentato dalla moglie e dalla figlia
maggiorenne. Ciò che qui è interessante rilevare sono due elementi: il primo consta nella rilevanza
e nel risarcimento del danno all’affetto, che entrerà in maniera sempre più forte entrerà nelle aule
giudiziarie. Il secondo elemento consta nel fatto che il Tribunale prende posizione contro il danno
esistenziale, cercando di individuare un danno che deriva dal peggioramento qualitativo della vita. Il
Tribunale di Roma, facendo un ragionamento logico molto complicato, contesta l'etichettatura del
danno come esistenziale e dice che questo non sarebbe altro che il danno morale, che secondo la
sentenza in analisi non viene inteso in maniera restrittiva e residua come la pecunia doloris, ma come
il danno per lesione dei valori costituzionalmente garantiti. Alla fine della decisione è interessante
vedere come il tribunale ritenga che la figura del danno esistenziale sia un escamotage per
aggirare l'ostacolo ex art. 2059. Il Tribunale si rifiuta di accogliere il danno esistenziale e lo configura
come un danno non patrimoniale, derivante dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti.

5. Sentenza di Cassazione. Una donna va dal medico per sottoporsi a una cistoscopia a seguito della
quale riporta una serie di danni alla vescica per una sostanza caustica usata nell’esame; viene quindi
sottoposta ad un intervento chirurgico con asportazione dell'utero e alla sostituzione della vescica,
pervenendo a una serie di danni fisici di tipo permanente. Sicuramente in capo alla signora si
configurano danni di vario tipo (biologico, patrimoniale, non patrimoniale) ma il punto interessante
della sentenza è che il marito avanza una richiesta nei confronti della struttura ospedaliera di danno
alla vita sessuale, non potendo più intrattenere una regolare vita sessuale con la moglie. Il problema
sta nel qualificare se esiste e se sia risarcibile il danno richiesto. In primo grado e in appello si

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 159

ritiene che il marito non abbia nessuna legittimazione ad agire per la richiesta di questo danno,
perché non si configura un’ipotesi di autonoma voce di danno. La Cassazione riconosce infine il
danno alla vita sessuale, ma vedendolo come una componente del danno alla vita di relazione e
classificandolo come un danno di natura patrimoniale. Cioè, in seguito all'atto illecito compiuto dal
terzo, si configura una autonoma voce di danno per il marito che non può più intrattenere una vita di
relazione soddisfacente con la moglie. La parte interessante della motivazione attiene soprattutto
alle argomentazioni che vengono date dalla Cassazione in merito alla forza espansiva della
famiglia, cioè l’espansione dei diritti reciproci dei coniugi anche nei confronti dei terzi. Anche in
questo caso infatti viene richiamata la famiglia come comunità familiare, quindi come
un'istituzione in cui i soggetti vantano dei diritti e degli obblighi reciproci, che non hanno una
valenza solo endofamiliare ma hanno anche valenza esofamiliare. Questa nuova impostazione della
giurisprudenza ha un significato culturale, oltre che giuridico, molto profondo perché i diritti
familiari superano quelli individuali. La potenzialità espansiva richiamata si basa sulla Costituzione.

6. Anche qui un caso di incidente stradale: vittima è una donna, che a seguito dell'incidente subisce
una serie di lesioni e in via autonoma chiede il risarcimento del danno per non poter più svolgere
l'attività domestica di casalinga. Qui è interessante vedere come il Tribunale affronti il problema
della risarcibilità del danno domestico e quindi della risarcibilità della mancata possibilità di
svolgere in futuro l'attività di casalinga. Per noi rileva il risarcimento chiesto dal marito: costui era
andato in pensione anticipatamente, a seguito dell’illecito, e quindi chiede il risarcimento del danno
patrimoniale ed anche di quello non patrimoniale. Nei motivi della decisione emerge la rilevanza
della famiglia come fondamento giuridico, che legittima i componenti a chiedere il risarcimento
del danno anche quando l'illecito non abbia toccato la persona che chiede il risarcimento, ma abbia
toccato un componente del nucleo familiare (principio fondante della responsabilità esofamiliare).

In sintesi, la figura del contratto protettivo degli interessi dei terzi e la figura del danno
esistenziale sono strumenti, il primo della responsabilità contrattuale e il secondo della
responsabilità extracontrattuale, che consentono di dare una rilevanza giuridica autonoma alla
comunità familiare e quindi di affermare la responsabilità esofamiliare come una ipotesi che
vive nella giurisprudenza e che quindi è oggi diventata una figura del cosiddetto diritto vivente.

Il diritto del minore alla propria famiglia - I


Si tratteranno degli aspetti fondamentali riguardanti i diritti primari del minore. Il funzionario
pubblico che si trova in una relazione con un minore sa di avere una responsabilità nei suoi costui e
in alcuni casi ritiene che sia utile attivare determinati meccanismi di tutela dello stesso.
Il problema è che, in una stragrande varietà di casi, certi meccanismi che possono sembrare di tutela
non si rivelano tali, perché in realtà c'è un diritto del minore a crescere nella propria famiglia e
c'è un dovere di chi esercita funzioni pubbliche - soprattutto nel settore dell'assistenza - di
agevolare tale diritto del minore e, di conseguenza, la famiglia. Questo dovere, nonostante sia
limpidamente espresso dalla nostra normativa, non è in molti casi effettivamente adempiuto, tanto
che, a volte, sembra più ci sia una tensione verso l'allontanamento del minore dalla propria
famiglia, piuttosto che ad agevolare rapporto con la stessa.
Si può già dire che si deve stare attenti se si svolge un incarico pubblico (insegnanti, dipendenti
dell'ambito scolastico), a segnalare al servizio sociale una determinata situazione riguardante un
minore, perché se non se ne è convinti e si agisce in buona fede con l'intenzione di aiutare il minore, è
opportuno sapere che in alcuni casi ciò non avviene. A volte, infatti, contesti degradati dovrebbero
ricevere una segnalazione al servizio sociale, che dovrebbe aiutarli; ciò che avviene è che il minore
viene sottratto, spesso, alla propria famiglia. Purtroppo, in una casistica purtroppo variegata,
quando si segnala al servizio sociale una situazione inerente un minore (che per povertà o difficoltà
della famiglia, non cresce con l'educazione che ci si aspetterebbe o non veste bene, ho ancora non

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 160

conosce le buone maniere, etc.) spesso purtroppo si può incorrere in un servizio sociale che strappa il
minore alla propria famiglia e lo affida a comunità di tipo familiare. Queste sono spesso
impenetrabili e i soli testimoni di ciò che avviene all'interno sono gli stessi soggetti che ne escono, a
volte, solo da maggiorenni e con una personalità violentata dalla detenzione forzata e
dall’allontanamento dai propri genitori. Spesso il servizio sociale non conosce i diritti del minore
alla propria famiglia e provvede per fini ulteriori a “strapparlo” alla propria famiglia (es.
finanziamenti pubblici).
La situazione, oggi, sta lentamente cambiando ed è stata arginata, complice l'arrivo di figli minori
con lo status di figli di rifugiati che hanno bisogno di aiuto e in questi casi l'accoglienza di una casa
famiglia è sollecitata dagli stessi soggetti che accompagnano i minori in Italia (in questi casi si tratta
davvero di avere un tetto sotto il quale vivere, che invece non si avrebbe). Questo fenomeno ha
permesso alle case famiglia di riempirsi e ricevere adeguati finanziamenti.
Il fine di un servizio sociale vero non dovrebbe risolversi nello “strappare” i figli alle famiglie e si
auspica una normativa in merito. È chiaro che in alcune situazioni può risultare impossibile
mantenere il minore all'interno del nucleo familiare: si pensi ai casi abusi sul minore da parte di
un genitore. In situazioni di questo genere si può intervenire allontanando il genitore violento dalla
famiglia e non il bambino, ma è chiaro che se, ad esempio, i genitori violenti sono entrambi, non si
può attuare l'allontanamento del genitore violento perché l'altro genitore concorre nell’abuso. Allora
il minore deve essere messo temporaneamente in altro contesto fino alla completa rieducazione
della famiglia, e solo in questi casi estremi il minore può essere allontanato dalla famiglia. Perciò
servirebbe una normativa volta a disciplinare tali situazioni; ma in ogni caso, anche qualora si tratti
di casi eclatanti come quello posto ad esempio, i genitori dovrebbero poter incontrare il figlio
ogni giorno e per molto tempo, frequentando la comunità.

Con tale premessa, andiamo ad analizzare la normativa contenuta all'interno della disciplina
dell'adozione e dell'affidamento, perché proprio in quel campo si è deciso di fare dei passi avanti.
La disciplina organica sull'adozione piena si è avuta con la Legge 4 maggio del 1983 n. 184
denominata “Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori”; si è così riservata
l'adozione prevista dal codice civile solo ai maggiorenni.
Questa normativa previgente è stata, in seguito, rimodellata grazie alle sollecitazioni della dottrina
più sensibile a questi temi. Si è arrivati così alla legge 28/03/2001 numero 149, che ha reso più forte
il diritto del minore alla propria famiglia, tanto che si chiama “diritto del minore a una famiglia”.
L’esordio della legge all’articolo 1 recita: “1. Il minore ha diritto di crescere ed essere educato
nell’ambito della propria famiglia. 2. Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore
esercente la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore
alla propria famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di
aiuto.” La legge richiede in primo luogo, quindi, sostegno alle famiglie e non alle comunità, e
nessun ostacolo può essere posto dall’eventuale stato di indigenza dei genitori.
Il comma III dell’art.1 specifica ancora: “Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle
proprie competenze, SOSTENGONO, con idonei interventi, nel rispetto della loro autonomia e nei
limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei familiari a rischio, al fine di prevenire l’abbandono e di
consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia. Essi promuovono altresì
iniziative di formazione dell’opinione pubblica sull’affidamento e l’adozione e di sostegno all’attività
delle comunità di tipo familiare, organizzano corsi di preparazione ed aggiornamento professionale
degli operatori sociali nonché incontri di formazione e preparazione per le famiglie e le persone che
intendono avere in affidamento o in adozione minori. I medesimi enti possono stipulare convenzioni con
enti o associazioni senza fini di lucro che operano nel campo della tutela dei minori e delle famiglie per
la realizzazione delle attività di cui al presente comma.” Quindi, si pone in capo a Stato, Regioni ed enti
locali un obbligo di intervento a favore della famiglia.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 161

Il comma IV prevede un’extrema ratio, cioè una misura di carattere residuale: “Quando la famiglia
non è in grado di provvedere alla crescita e all’eduzione del minore, si applicano gli istituti di cui alla
presente legge.” L’affidamento del minore dovrebbe essere una misura temporanea distinta
dall’affidamento familiare, che avviene tra familiari stessi del minore (i nonni che prendono in
affidamento un minore perché i genitori non possono provvedervi temporaneamente). L’affidamento
può avvenire su istanza dei servizi sociali e in seguito si può finire in una comunità di tipo
familiare.
Il problema è il seguente: le misure di questo genere sono previste dalla legge come temporanee,
ma nella prassi viene sempre consentita una proroga di anno in anno, accompagnando il minore
fino al compimento della maggiore età. Non si arriva mai, nella prassi, né all'adozione, che darebbe
al minore un'altra famiglia e nemmeno al rientro nella propria famiglia. Nella prassi, infatti, questi
istituti fanno relazioni non corrispondenti alla situazione reale, a seguito delle quali il minore non
riesce essere liberato dalle case famiglia, ed è dovuto intervenire il giudice per interrompere la
situazione di abuso.
Si ripete che gli istituti dell’affidamento e adozione (con inserimento in un’altra famiglia) sono di
carattere residuale: la famiglia non deve più essere in grado di provvedere alla crescita e
all'educazione del minore, e devono essere stati provati tutti gli interventi di cui all'art.1 di cui sopra.

In ogni caso, il comma V dell’art. 1 stabilisce che il minore ha diritto a una famiglia, se per caso la
sua famiglia non può davvero provvedere a lui, nonostante tutti gli interventi previsti dalla legge: “Il
diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia è assicurato
senza distinzione di sesso, di etnia, di età, di lingua, di religione e nel rispetto della identità culturale
del minore e comunque non in contrasto con i princìpi fondamentali dell’ordinamento.” E’ importante
il riferimento all’identità culturale e alla volontà del legislatore di garantire il rispetto del minore.
Pertanto il minore è da ritenersi abbandonato quando non può restare nella propria famiglia
biologica, perché essa non vuole saperne di provvedere a lui; quando i genitori colposamente
abbandonano il minore si può provvedere all'affidamento e all’adozione, essendo preminente il
diritto del minore a avere assistenza morale (in primo luogo, attenzione) e materiale, rispetto al
diritto di restare nella propria famiglia biologica.
Il diritto del minore a rimanere nella propria famiglia è un diritto soggettivo assoluto del minore
o fondamentale (ne è titolare il minore: non sono più i genitori gli esclusivi titolari di diritti in
relazione alla persona del minore);
o di rispetto della personalità del minore (si lega al diritto all'identità personale: la persona si
identifica anche attraverso la provenienza da un contesto familiare in cui vive: art. 7 Conv. ONU
del 1989 sui diritti del fanciullo). A ciò si connette anche la necessità di adeguare i provvedimenti
all'etnia del minore (5° co.): a maggior ragione il diritto all’identità deve essere tutelato quando
si tratta del diretto mantenimento del rapporto con la propria famiglia di origine;
o di solidarietà sociale (è necessaria la collaborazione sociale, in particolare dello Stato, delle
regioni e degli enti locali).

Per “propria famiglia” si intende generalmente la famiglia nucleare, ma ai sensi della legge
sull'adozione può intendersi anche quella composta dai parenti fino al quarto grado.
Secondo alcuni studiosi la «propria famiglia» sarebbe quella costituita solo dai familiari tenuti agli
alimenti (soggetti che tengono con sé il minore in forza, quindi, di un'obbligazione preesistente, non
per ragioni di solidarietà di fatto, o per dovere sociale o morale di origine familiare). Tuttavia, se si
vuole garantire il diritto del minore di crescere nella propria famiglia, deve di certo preferirsi che egli
sia collocato con un parente entro il quarto grado (parenti a cui la legge sull'adozione dà rilievo ai
fini del controllo, da effettuare durante il procedimento, in ordine alla sussistenza stato di
abbandono) piuttosto che in altro contesto estraneo.
Le misure di sostegno a cui devono provvedere lo Stato, le regioni e gli enti locali possono essere:

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 162

o interventi concreti (purtroppo, fra i meno attuati), come corresponsione di somme di denaro
alla famiglia, attribuzione di una casa alla famiglia, facilitazione nell'assunzione al lavoro e nelle
graduatorie per avere una casa di edilizia residenziale pubblica;
o interventi formativi (attuati maggiormente) utili a mettere la famiglia in grado di prevenire o
affrontare al meglio le situazioni che sfociano o che possono sfociare nella abbandono del
minore, ma anche a qualificare professionalmente gli operatori del settore, in modo che riescano
a rendere effettivo il diritto del minore di crescere nella propria famiglia;
o interventi di sensibilizzazione dell'opinione pubblica.

Il diritto del minore alla propria famiglia - II


Il diritto del minore a crescere nella propria famiglia deve essere reso effettivo dall’applicazione
della normativa. Il fatto che vi siano poche norme regolamentari ha lasciato ampio spazio
all’applicazione effettiva, tuttavia, con la legge del 2001 si è fatto qualche passo avanti. Vediamo
come si colloca il diritto del minore a una famiglia all’interno della disciplina dell'adozione. Le
norme previste in merito confermano la tutela del fatto che il minore resti legato alla propria
famiglia o comunque nel suo contesto culturale e familiare.

L'articolo 6, comma VII della legge sull'adozione stabilisce che “Ai medesimi coniugi sono consentite
più adozioni anche con atti successivi e costituisce criterio preferenziale ai fini dell'adozione
l'avere già adottato un fratello dell'adottando o il fare richiesta di adottare più fratelli.”
Al riguardo si segnala che, grazie all'intervento epocale del legislatore del dicembre 2012, cioè la
riforma della filiazione, tutti i figli di uno stesso genitore sono fratelli. Precedentemente, se i
genitori non erano uniti in matrimonio, il rapporto che nasceva in seguito al riconoscimento di un
figlio lo collegava al solo genitore che lo aveva riconosciuto e non anche ai suoi parenti. Quindi prima
della riforma del 2012, il figlio nato da genitori non uniti in matrimonio tra loro non aveva
parentela riconosciuta dalla legge. Si sosteneva che l'unico parente che aveva era il solo genitore
che lo aveva riconosciuto o entrambi i genitori qualora l'avessero riconosciuto entrambi. Nel 2012,
finalmente, la legge ha stabilito che la parentela si ha per tutti, anche per i figli nati da genitori non
uniti in matrimonio tra loro e, finalmente, si è avuta l’equiparazione dello status del figlio nato da
genitori uniti in matrimonio e figlio nato da genitori non uniti in matrimonio. Pertanto tale riforma
riflette i propri effetti anche sull’articolo in esame e vuole andare nel senso di premiare la possibilità
di far restare il minore all’interno del proprio ambito familiare, dando un criterio preferenziale a
chi adotta più fratelli o vuole adottare il fratello di un minore già adottato.

Il comma ottavo dell'articolo 6 sancisce un altro criterio preferenziale: “Nel caso di adozione dei
minori di età superiore a dodici anni o con handicap accertato (…) lo Stato, le regioni e gli enti locali
possono intervenire, nell'àmbito delle proprie competenze e nei limiti delle disponibilità
finanziarie dei rispettivi bilanci, con specifiche misure di carattere economico, eventualmente
anche mediante misure di sostegno alla formazione e all'inserimento sociale, fino all'età di
diciotto anni degli adottati.” Anche in questo caso, norme volte a dare sostegno a chi adotta.
E’ vero che lo Stato, le regioni e gli enti locali dovrebbero dare la precedenza agli interventi di
sostegno - prima esposti - verso la famiglia d'origine, per evitare che si attivi l'adozione stessa;
sarebbe, infatti, un risparmio in termini di costi sociali non arrivare all'adozione e tutelerebbe il
primo dei diritti dell' ordine gerarchico in favore del minore, cioè restare nella propria famiglia.

Ancora, l’articolo 80 IV comma: “Le regioni determinano le condizioni e le modalità di sostegno alle
famiglie, persone e comunità di tipo familiare che hanno minori in affidamento, affinché tale
affidamento si possa fondare sulla disponibilità è l'idoneità all'accoglienza indipendentemente dalle
condizioni economiche”.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 163

Prima di provvedere verso gli affidatari, è chiaro che la Regione deve provvedere verso la
famiglia d'origine. Si calcola che il rapporto tra il costo dell'intervento di sostegno alla famiglia di
origine e il costo dell'intervento di sostegno alla comunità di tipo familiare sia circa di 1 a 10, alcune
volte addirittura di 1 a 20. Alle comunità di tipo familiare vengono erogati circa €300 al giorno per
ogni minore (che aumentano se il minore è portatore di handicap); alla famiglia sono invece
sufficienti circa €30 al giorno per garantire che possa provvedere a quello stesso minore.
Sembra quindi assurdo che vengano finanziate le comunità, e che si spenda 20 volte in più di quello
che si spenderebbe per il mantenimento del minore in favore delle comunità di tipo familiare.
A maggior ragione ogni ente locale dovrebbe valutare, nell’ambito delle proprie poste di spesa, il
rapporto di spesa di cui sopra: perché l'ordine della legge vuole questo e perché così si può
provvedere a molti più bambini, lasciandoli presso la propria famiglia e non portandoli in
detenzione presso una comunità che li sradica dalla propria famiglia. Viste quindi le priorità e visti gli
interventi di sostegno previsti dalla legge per le famiglie, prima ancora che possa essere data una
somma a chi ha in affidamento, il sostegno deve essere dato alla famiglia biologica. Ciò evita il
costo burocratico e sociale del procedimento legato all'affidamento.

Con la riforma sulla filiazione l'intervento si è fatto ancora più effettivo; in precedenza, infatti le
norme che prevedono gli interventi di Stato, regioni ed enti locali verso le famiglie erano state
ritenute norme non immediatamente precettive. Purtroppo, invece, erano state ritenute più
precettive, in quanto più attuate, le norme che hanno previsto interventi in favore degli affidatari e
delle comunità di tipo familiare con relativi finanziamenti per queste ultime.
Un passo avanti per evitare che la norma sugli interventi in favore delle famiglie non venisse
considerata solo programmatica e non precettiva consiste nel decreto di attuazione della riforma,
che ha reso precettivo il principio previsto dell'intervento di sostegno alla famiglia.
Così, il decreto legislativo del 28 dicembre del 2013 numero 154 (decreto attuativo della riforma
della filiazione introdotta con la legge del dicembre del 2012) ha inserito un articolo nella legge
sull'adozione, l’art. 79 bis: “Il giudice segnala ai comuni le situazioni di indigenza dei nuclei familiari
che richiedono interventi di sostegno, per consentire al minore di essere educato nell'ambito della
propria famiglia”. L’attuarsi di questo procedimento si incardina con quanto statuito da tempo dalla
Corte di Cassazione: la mera mancanza di denaro non può legittimare la dichiarazione dello
stato di adottabilità del minore, in presenza dell'assistenza morale da parte dei genitori.
Con la novella di cui sopra, si attua un procedimento di aiuto, che si somma a quello già esistente:
la famiglia deve poter presentare una richiesta di aiuto e lo Stato, le Regioni gli enti locali devono
rispondere. L’eventuale diniego deve essere motivato con una ragione che permetta di
considerare prevalente l'autonomia dell'ente di riferimento rispetto all'interesse di lasciare il minore
nella loro famiglia, ovvero con una ragione che permetta di considerare prevalentemente giustificato
un riparto finanziario che non contempli somme per la famiglia in dissesto rispetto a un riparto che
le contempli. Con l’articolo 79 bis, si da la possibilità al giudice deve segnalare ai Comuni le
situazioni di indigenza. Il Comune può intervenire direttamente o tramite i servizi sociali. La
segnalazione dà avvio a un procedimento che deve ampiamente fungere da bilanciamento
rispetto a quello a cui dà avvio la segnalazione fatta ai servizi sociali in caso di minore che si
ritiene in stato di abbandono.
La segnalazione del giudice verso il Comune si pone in contrasto con l'altro tipo di segnalazione,
a cui può provvedere chiunque, soprattutto il personale scolastico. Si tratta della segnalazione fatta ai
servizi sociali in caso di minore che si ritiene in stato di abbandono. Tra le due sopracitate
segnalazioni deve essere data precedenza necessariamente a quella che riguarda l'aiuto alle
famiglie, perché primaria e gerarchica importanza assume l'interesse del minore a restare nella sua
famiglia. La segnalazione di stato di abbandono deve essere assolutamente secondario e residuale.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 164

Tutto ciò si coordina con la nuova normativa in tema di bigenitorialità: dal 2006 in poi
l’ordinamento, infatti, in caso di crisi della famiglia, tratta allo stesso modo il caso concernente
l'affidamento di un minore nato da genitori uniti in matrimonio tra loro e il caso di un minore nato da
genitori non uniti in matrimonio tra loro (procedimenti che prima avevano due vie distinte spesso
con esiti diversi).
Adesso il procedimento è stato unificato: l’affidamento, in caso di crisi familiare, del minore all'uno
o all'altro genitore o entrambi, è ormai gestito sempre dal tribunale ordinario (sia che si tratti di
minore nato da genitori uniti in matrimonio, sia che si tratti di minore nato da genitori non uniti in
matrimonio tra loro).
Per tali procedimenti si applica, in tema di affidamento, un principio fortissimo: dal 2006 in poi
vige il principio della priorità alla bigenitorialità. La normativa del 2006 ha previsto che il giudice,
in caso di crisi familiare, valuta prioritariamente la possibilità che il figlio minore venga affidato a
entrambi i genitori con affidamento condiviso, affinché la separazione interferisca il meno
possibile con la necessità del figlio di restare giuridicamente legato a entrambi i genitori.
Come avviene in materia di affidamento dei figli in relazione ai casi di crisi familiare, anche in
relazione alle situazioni di adozione l'indigenza economica non deve interferire con il legame
giuridico tra genitore e figlio.
La normativa prevede infatti che per gli adempimenti economici, gravanti sui genitori, sono
stabilite, in relazione ai procedimenti di affidamento dei minori a uno o a entrambi i genitori
separati, apposite misure. Il principio è quello per cui l’inadempimento economico non può portare
al distacco da uno dei genitori o a preferirne uno dei due; cioè le ragioni economiche non possono
incidere sui rapporti personali. Analogicamente ciò deve valere anche ai fini dell'applicazione
della legge sull'adozione.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 165

11. Le azioni surrogatoria e revocatoria


11.1 > L’azione surrogatoria

L’azione surrogatoria è un’azione prevista a tutela del creditore, che deve poter fare affidamento
sul patrimonio del debitore (principio naturale di ogni obbligazione).
Tale principio è sancito dall’art. 2740 c.c. sulla responsabilita' patrimoniale: “Il debitore risponde
dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Le limitazioni della
responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge”.
All’interno del patrimonio del debitore rientrano così delle poste attive (crediti, diritti del debitore
verso terzi) su cui il creditore può fare affidamento, giusto il riferimento ai beni presenti e futuri.

L’azione surrogatoria è quella particolare azione che permette al creditore (chiamato surrogante)
di esercitare le azioni del suo debitore (chiamato surrogato) verso dei terzi su cui il debitore
vanta dei diritti. Ciò avviene in caso di inerzia del debitore: il creditore, in virtù di questo
affidamento sul patrimonio, può intervenire affinché esso non venga intaccato.
Bisogna prestare attenzione, ovviamente, quando si ingerisce nella sfera altrui e negli altrui affari:
infatti, non qualsiasi inerzia del debitore permette l’azione surrogatoria, in ossequio al principio
dell’autonomia privata, di cui la surrogatoria è un’eccezione. L’inerzia del debitore, in virtù
dell’eccezionalità della surrogatoria, va valutata con rigore: non ci si può surrogare sempre e
comunque, ma solo quando il debitore non agisca verso i terzi pregiudicando le ragioni del creditore.
In generale il debitore dev’essere libero di poter scegliere modi e tempi di conservazione e tutela
del proprio patrimonio e dei propri diritti, salvo che ciò non arrechi un pregiudizio al suo debitore.
La previsione dell’azione sancisce, tuttavia, il principio della possibilità per il creditore di tutelare il
proprio credito e agire quando venga messa in pericolo il patrimonio o diventi difficile ottenere
l’adempimento (ad esempio si ammette l’azione verso il debitore inerte anche quando il creditore ha
una garanzia o una prelazione; è vero che il creditore ha un pegno ma la sua situazione, in caso di
inerzia o altri atti che intaccano il patrimonio, potrebbe venire comunque pregiudicata.)
Fattispecie classica: Tizio è creditore di Caio e Caio,a sua volta, è debitore di Sempronio. Se Caio non
agisce verso Sempronio, Tizio può sostituirsi a Caio e agire verso Sempronio

L’azione è disciplinata dall’art. 2900 c.c. intitolato “condizioni ed effetti”: “co.1. il creditore per
assicurare che siano soddisfatti o conservate le sue ragioni può esercitare i diritti e le azioni che
spettano verso terzi al proprio debitore è che questi trascura di esercitare, purché i diritti e le azioni
abbiano contenuto patrimoniale e non si tratti di diritti o di azioni che per loro natura o per
disposizione di legge non possono essere esercitati se non dà loro titolare. co.2. Il creditore, qualora
agisca giudizialmente deve citare anche il debitore al quale intende surrogarsi”.

Il principio fondamentale è che non si tratta dell’esercizio di un diritto del creditore verso i
terzi, ma una tutela del proprio credito, azionando verso i terzi un diritto del suo debitore: con la
surrogatoria sia ha semplicemente una legittimazione a sostituirsi sul piano processuale. Il
surrogante non ha una propria azione verso i terzi, ma in virtù del divieto di farsi giustizia da soli,
questa azione permette di salvaguardare il patrimonio del debitore. Il debitore, per altro, resta libero
e non soffre limitazioni nel caso in cui il creditore agisca in surrogatoria, rimanendo difatti libero di
far valere anche lo stesso diritto che è stato oggetto della surrogatoria. E’ chiaro che la tutela del
debitore sia una tutela anche del creditore.

Come si diceva, l’azione surrogatoria non è ammessa sempre e comunque, ma solo quando possa
apportare un’utilità a tutela delle ragioni creditorie verso il debitore surrogato. L’azione è
ammessa anche a titolo cautelare, ma è fondamentale che vi sia uno scopo di utilità.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 166

Le azioni sono le più varie, ad esempio si può chiedere che venga invalidato un contratto o reso
inefficace un atto compiuto da un terzo debitore del mio debitore. Ad esempio, il mio debitore ha
stipulato un contratto di vendita ottenendo una determinata somma, spogliandosi di un proprio bene
per ottenere dei soldi (si sa bene che i soldi possono essere impiegati nei motivi più vari). Il contratto,
tuttavia, è invalido e il mio debitore potrebbe agire per ottenere indietro il bene, restituendo il
corrispettivo. Se il debitore non si attiva, posso surrogarmi e chiedere la dichiarazione della nullità o
l’annullamento del contratto, così che il bene rientri nel patrimonio del debitore. Così potrò fare
affidamento sulla consistenza – anche qualitativa – del patrimonio del mio debitore. (Cosa diversa è
infatti fare affidamento su beni e non sul denaro, che può essere facilmente speso ma anche occultato).
Potrebbe trattarsi anche di credito sottoposto a condizione (ad esempio, il mio debitore mi deve
qualcosa in virtù di un contratto sottoposto a condizione) o credito oggetto di una controversia:
anche in questi casi il creditore può agire in via generale a tutela del credito, secondo il principio
generale della normativa. L’azione surrogatoria si annovera, quindi, fra gli atti conservativi a tutela
di un credito, anche se sottoposto a condizione risolutiva (se, infatti, la condizione si verifica, deve
esserci la possibilità di far recuperare il bene in capo al debitore). Il credito non deve essere
necessariamente liquido ed esigibile.

Con la surrogatoria si ottiene, sia chiaro, solo il recupero al diritto dell’integrità del patrimonio
del proprio debitore. Una volta che si agisca, ottenendo quanto dovuto dai terzi al debitore
surrogato, il surrogante non è comunque garantito dal bene oggetto di surrogatoria sul proprio
debito, essendo solo intervenuto a tutela del patrimonio del debitore. Non può, pertanto, rivalersi
direttamente sulle somme pagate dal debitore surrogato dal terzo; la posizione del surrogante è di
concorrenza sul patrimonio del debitore in maniera uguale a quella degli altri creditori.

La situazione è diversa nel caso in cui il creditore abbia ricevuto un credito in pegno dal debitore.
In questo caso ci sono delle norme da osservare per vantare la prelazione: l’art. 2800 c.c. dice che
“Nel pegno di crediti la prelazione non ha luogo, se non quando il pegno risulta da atto scritto e la
costituzione di esso è stata notificata al debitore del credito dato in pegno ovvero è stata da questo
accettata con scrittura avente data certa.” Se, quindi, il mio debitore mi ha dato un credito in pegno, il
terzo (debitore del mio debitore) deve avere notificato il pegno sul suo credito.
L’art. 2803 spiega perché il pegno di credito sia qualcosa di diverso dall’azione surrogatoria: “Il
creditore pignoratizio è tenuto a riscuotere, alla scadenza, il credito ricevuto in pegno e, se
questo ha per oggetto danaro o altre cose fungibili, deve, a richiesta del debitore, effettuarne il deposito
nel luogo stabilito d'accordo o altrimenti determinato dall'autorità giudiziaria.” Quindi, avvenuta
accettazione e notifica del pegno, alla scadenza del credito del mio debitore verso il terzo devo
riscuotere il credito che ho ricevuto in pegno. A questo punto il creditore potrà ritenere dalle somme
ricevute quanto necessario per la soddisfazione del proprio credito e restituire la differenza al
debitore. Quindi ottiene direttamente la soddisfazione del proprio credito, a differenza che nella
surrogatoria, dove il creditore non può rivalersi sull’oggetto della surrogatoria.

Altri tratti di disciplina riguardano la soluzione di alcuni dubbi.


La tutela, come detto, può avere vari oggetti (credito liquido o meno, esigibile e non, sottoposto a
termine, controverso, condizione, etc.) e può consistere anche nell’impedire la perdita di diritti,
interrompendo la prescrizione. Ad esempio, il debitore non esercita un diritto verso un terzo e
questo diritto rischia di andare in prescrizione: il creditore può surrogarsi con un atto interruttivo e
agire per fare ripartire da zero la prescrizione.
Dalla lettera della legge, ancora, si evince che l’azione surrogatoria possa essere sia giudiziale che
extragiudiziale (ad esempio, mandando una lettera di interruzione della prescrizione o richiedendo
il pagamento con una diffida ad adempiere per conto del debitore surrogato). Nel caso in cui il terzo
si veda recapitare dal creditore surrogante, ad esempio, una lettera di adempimento ha il diritto di

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 167

chiedere la giustificazione del potere di intimazione a pagare. Ciò perché il debitore del debitore
non ha un rapporto diretto col surrogante. Tale principio si ricava dall’art. 1393 del c.c. in materia di
rappresentanza, che detta il principio valido anche in questo caso: il rappresentante deve giustificare
i suoi poteri. In caso di surrogatoria giudiziale, invece, deve essere citato in giudizio anche il
debitore surrogato, che è un litisconsorte necessario, e quindi deve prendere parte al giudizio.

Alcuni casi di surrogatoria sono previsti specificamente dalla legge, come ad esempio l’art. 2939:
“La prescrizione può essere opposta dai creditori e da chiunque vi ha interesse, qualora la parte non la
faccia valere. Può essere opposta anche se la parte vi ha rinunziato.” Se il debitore, quindi, doveva
pagare una somma a un terzo, può essere tutelato il suo diritto alla prescrizione già decorsa (e
quindi col diritto estinto). Quindi, il surrogante può opporre che il diritto del terzo debitore del
surrogato si è estinto.
In alcuni casi la legge chiarisce come agire per tutelare determinati diritti, vedi all’art. 481 del c.c.
sulla c.d. actio interrogatoria: “Chiunque vi ha interesse può chiedere che l’autorità giudiziaria fissi
un termine entro il quale il chiamato dichiara se accetta o rinunzia all’eredità. Trascorso questo
termine senza che abbia fatto la dichiarazione, il chiamato perde il diritto di accettare.” Quindi, non ci
si può surrogare nell’accettazione dell’eredità ma si può richiedere la fissazione di un termine entro
il quale il soggetto chiamato si pronunci (normalmente il diritto di accettare l’eredità si prescrive in
dieci anni). L’art. 524 chiarisce che “Se taluno rinunzia, benché senza frode, a un’eredità con danno
dei suoi creditori, questi possono farsi autorizzare ad accettare l’eredità in nome e luogo del
rinunziante, al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti.”
Quindi, dopo l’actio interrogatoria ex art. 481, se il soggetto rinuncia all’eredità, i creditori possono
surrogarsi nell’accettazione dell’eredità, entro 5 anni dalla rinunzia (dopo di che, il diritto si
prescrive).
E’ esclusa, infine, la surrogatoria in caso di diritti che devono essere azionati per legge
direttamente dal titolare, i c.d. diritti personalissimi: ad esempio, il diritto al nome, alla propria
immagine, al divorzio, etc. Sono diritti che possono incidere sul patrimonio del debitore, ma non
possono essere azionati direttamente dal creditore, proprio in virtù della loro natura. Si esclude la
surrogatoria anche per diritti che devono essere tutelati da particolari uffici: ad esempio il
creditore non può sostituirsi al curatore fallimentare, che ha competenza esclusiva sui crediti del
creditore insolvente.

11.2 > L’azione revocatoria

La revocatoria si colloca fra le tutele del creditore sulla soddisfazione del proprio credito. Il
principio base è il medesimo della surrogatoria, per cui il creditore deve poter fare legittimo
affidamento sul patrimonio del suo debitore (art. 2740 c.c.).
L’azione revocatoria è quell’azione che consente di rendere inefficaci (con sentenza costitutiva)
nei confronti del creditore, specifici atti di disposizione del patrimonio compiuti dal debitore e in
grado di pregiudicare le ragioni creditorie.
Esempio: Tizio è creditore di Caio. Caio compie un atto di disposizione verso Sempronio. Tizio,
ritenendo che l’atto sia pregiudizievole per il soddisfacimento delle sue ragioni, agisce verso
Sempronio per rendere l’atto inefficace.
La norma di riferimento è l’art. 2901: “Il creditore, anche se il credito è soggetto a condizione o a
termine, può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del
patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni”. Le ragioni creditorie sono
tutelate, come nella surrogatoria, anche quando il credito è soggetto a condizione o a termine.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 168

L’art. 2901 proseguendo, specifica le condizioni:


1. “che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o,
trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine
di pregiudicarne il soddisfacimento.” Quindi, il debitore deve conoscere il pregiudizio che
l’atto da lui compiuto comporta al creditore o, se compiuto prima, deve essere dolosamente
indirizzato a pregiudicare il credito;
2. che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel
caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione.
Agli effetti della presente norma, le prestazioni di garanzia, anche per debiti altrui, sono
considerate atti a titolo oneroso, quando sono contestuali al credito garantito.
Non è soggetto a revoca l’adempimento di un debito scaduto. L’inefficacia dell’atto non
pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede, salvi gli effetti della
trascrizione della domanda di revocazione.” Negli atti a titolo oneroso, quindi, serve qualcosa
in più oltre alla consapevolezza prima esposta. Bisogna che il terzo partecipi, quindi che sia
consapevole del pregiudizio o, se l’atto è stato compiuto prima del sorgere del credito, che
sia partecipe del dolo del debitore che ha messo in atto l’alienazione, pregiudicando le
ragioni. Anche le prestazioni di garanzia sono considerate a titolo oneroso se contestuali
al credito che garantiscono: ad esempio, Caio stipula un prestito con Sempronio, dandogli in
pegno un proprio bene a garanzia o concedendogli ipoteca su un bene simile; se il mutuo già
esisteva e solo successivamente viene garantito con il bene, si applica solamente la condizione di
cui al punto 1 e non anche quella del punto 2, perché non si considera a titolo oneroso. Un
debito scaduto, ancora, non è revocabile, perché è una posta passiva e non attiva, quindi
non si ha alcuna riduzione del patrimonio su cui può fare affidamento il creditore. Infine, si
stabilisce che se ci sono terzi che acquistano a titolo oneroso da Sempronio in buona fede,
che a sua volta ha acquisito in buona fede dal debitore, non soffrono alcun pregiudizio dalla
revoca dell’atto. Quindi, il terzo che acquista da chi – a sua volta e in buona fede – abbia
acquistato dal debitore sottoposta a revoca, può stare tranquillo, salvi gli effetti della
trascrizione della domanda di revocazione. Ad esempio, c’è una domanda giudiziale di
revocatoria trascritta da Tizio verso Sempronio, se quest’ultimo vende a Medio, ed egli trascrive
dopo la domanda di revocazione. Se la sentenza dovesse dare ragione a Tizio, i diritti di Medio
sono pregiudicati perché la trascrizione è a lui opponibile (gli effetti della sentenza
retroagiscono infatti fino alla data di trascrizione, secondo il principio generale).

Si deve precisare che la revocatoria è prevista dal codice per tutelare il creditore, ma non significa
che il debitore abbia un obbligo a non disporre dei propri beni; né si può pensare che gli atti
dispositivi del debitore siano atti illeciti. Ciò cozzerebbe col principio della libertà contrattuale, e
quindi non si può pensare che un soggetto sia bloccato nel disporre dei propri beni; è ovvio che,
quando il debitore passi il limite, l’ordinamento dà la possibilità al creditore di tutelarsi. La
revocatoria, del resto, può essere esercitata a prescindere dalla colpa dei soggetti coinvolti, e
anche questo depone nell’impossibilità di inquadrarla nell’ambito dell’illecito.
La tutela apprestata dal codice è una tutela di carattere relativo che riguarda solo il rapporto fra
creditore e debitore; difatti, gli atti revocati non vengono eliminati dal panorama giuridico (quindi
non sono invalidati con la sentenza), ma sono semplicemente resi inefficaci nei confronti del
creditore che agisce in revocatoria. L’atto è perfetto in tutti i suoi elementi ma è inefficace nei
confronti del creditore che ha agito in revocatoria: quindi, per lui, è come se non fosse mai stato
posto in essere.
Dall’ultimo comma dell’art. 2901, già esposto, si desume come i sub acquirenti che acquistano a
titolo gratuito o in mancanza di buona fede, invece, sono sempre pregiudicati dall’azione
revocatoria esperita con successo.
La prescrizione è stabilita in cinque anni dalla data dell’atto, a norma dell’art. 2903.

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 169

L’art. 2902 disciplina gli effetti della revocatoria: “Il creditore, ottenuta la dichiarazione di
inefficacia, può promuovere nei confronti dei terzi acquirenti le azioni esecutive o conservative sui beni
che formano oggetto dell’atto impugnato.
Il terzo contraente, che abbia verso il debitore ragioni di credito dipendenti dall’esercizio dell’azione
revocatoria, non può concorrere sul ricavato dei beni che sono stati oggetto dell’atto dichiarato
inefficace, se non dopo che il creditore è stato soddisfatto.”
Quindi, se l’atto del debitore può essere revocato, sussistendo tutti i requisiti esposti, si otterrà la
dichiarazione di inefficacia dell’atto (sentenza di natura costitutiva). Ottenuta questa, il creditore
può promuovere, nei confronti dell’acquirente, le azioni esecutive o conservative sul bene che
forma oggetto dell’atto impugnato. Il creditore ha, quindi, una particolare legittimazione ad agire
verso un terzo con cui ha avuto rapporti il debitore (e ha anche nei confronti di altri eventuali
terzi subacquirenti). In questo caso il terzo che abbia versato una somma di denaro (e che abbia
acquistato consapevole del pregiudizio e/o con dolo) per l’acquisto del bene, può rifarsi sul prezzo
di eventuale vendita del bene solo dopo il creditore revocante. In altri termini, il creditore
revocante può agire in via esecutiva verso il terzo, che si considera alla stregua di chi ha un bene su
cui sussiste un pegno o una ipoteca a favore di altri.

In merito al credito che si può tutelare con la revocatoria, non deve essere necessariamente
liquido ed esigibile ma può essere condizionato (come da art. 1356 si possono compiere atti
conservativi su un credito sottoposto a condizione) o oggetto di controversia.
Tutti gli atti di disposizione, in via generale, sono considerati potenzialmente pregiudizievoli per
le ragioni del creditore, a maggior ragione se sono a titolo gratuito.; il pregiudizio può essere di vario
tipo: ci si può spogliare del bene, prometterlo in vendita, locarlo, darlo in pegno o ipoteca.
In ogni caso, il creditore deve dimostrare il proprio interesse ad agire in caso di attivazione del
giudizio di revocazione. Egli deve dimostrare che l’atto ha realizzato un pregiudizio reale; ciò perché
la revocatoria appresta una tutela generica a favore del mantenimento della consistenza del
patrimonio, e non una tutela specifica a favore della conservazione di un determinato assetto
dei beni nel patrimonio stesso. La revocatoria, quindi, non può essere esperita per fare restare
uno specifico bene all’interno del patrimonio del debitore.
E’ discusso se si possa attaccare l’atto dispositivo compiuto da uno dei condebitori solidali; in via
generale si dovrebbe ritenere comunque attaccabile l’atto dispositivo, con riguardo, però, all’effettiva
consistenza del patrimonio totale di uno dei condebitori o alle modalità della disposizione.

L’art. 2901 prende in considerazione gli stati soggettivi di chi è coinvolto nella fattispecie che è alla
base dell’azionabilità in via revocatoria.
Il debitore deve essere consapevole del pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie dall’atto di
disposizione. Al riguardo, alcuni ritengono serva una conoscenza effettiva conoscenza effettiva, altri
sostengono che basta un pregiudizio meramente conoscibile.
In questo caso è difficile provare la consapevolezza del pregiudizio (ad esempio una lettera
confessoria del debitore disponibile al creditore, ma è un caso molto remoto) e la prova viene
normalmente data attraverso presunzioni, ovvero le conseguenze tratte da un fatto noto per
risalire a un fatto ignorato (ad esempio, il debitore vende al fratello il suo unico immobile a un prezzo
irrisorio; la vendita al fratello è un fatto noto da cui si può risalire alla consapevolezza del pregiudizio).
In particolare, dalla specifica consistenza patrimoniale che fa capo al debitore può risalirsi al
pregiudizio collegato all’atto di disposizione.
L’impiego delle presunzioni esclude che abbia rilevanza la predetta distinzione tra conoscenza
effettiva e mera conoscibilità del pregiudizio alle ragioni creditorie da parte del debitore.
Nel caso di atti a titolo gratuito non serve la conoscenza del pregiudizio alle ragioni creditorie da
parte del terzo controparte – o destinatario effettivo – dell’atto di disposizione. Tale conoscenza è
invece necessaria nel caso di atti di disposizione a titolo oneroso. Infatti, non è giusta una

La responsabilità extracontrattuale
Diritto Civile 170

ingerenza sul patrimonio di un terzo che abbia pagato in cambio dell’atto di disposizione in esame
e sia in buona fede (manchi cioè un suo coinvolgimento nella conoscenza del pregiudizio arrecato al
creditore del disponente). Anche tale prova viene normalmente fornita tramite presunzioni.
La prova degli stati di conoscenza deve essere fornita da chi agisce.

Con riferimento agli atti di disposizione precedenti al sorgere del credito si richiede, al fine della
revocatoria, la dolosa preordinazione da parte del debitore in ordine al pregiudizio delle ragioni
creditorie future.
Nel caso di atti a titolo oneroso, anche il terzo deve partecipare alla preordinazione, cioè deve
conoscerla al momento del fatto. Anche in questo caso le prove si forniscono mediante presunzioni.
Si tratta, ovviamente, di una prova più difficile (la dolosa preordinazione); ad esempio, Tizio e
Sempronio conoscono da un calendario che Tizio dovrà incontrare Caio per una somma a mutuo e si sa
già che la somma sarà data da Caio senza richiesta di garanzie particolari; il giorno prima stipulano
una vendita a prezzo bassissimo dell’unico immobile di Tizio. C’è una dolosa preordinazione a cui si può
risalire attraverso le presunzioni.

Non è possibile revocare i pagamenti, in quanto atti attualmente dovuti (deve essere scaduto il
termine di adempimento): quest’ultima caratteristica li rende, quindi, sempre efficaci nei confronti
dei creditori del disponente. Tali pagamenti sono poste passive, come detto, già presenti nel
patrimonio del debitore.
Si richiede l’avvenuta scadenza del termine: sarebbe infatti ingiustificabile la preferenza da parte
del debitore a favore di un creditore, in ordine al pagamento di un debito non accaduto, rispetto al
pagamento del creditore che vuole agire in revocatoria. Un pagamento non scaduto ma effettuato
può essere oggetto di revocatoria.
Nell’ambito della revocatoria ordinaria può considerarsi non sussistente il principio del pari
trattamento dei creditori i cui crediti sono scaduti, in quanto il debitore può decidere di pagare
un debito scaduto al creditore da lui scelto, a riprova della volontà di tutelare l’autonomia
negoziale.

La responsabilità extracontrattuale

Potrebbero piacerti anche