Chiunque può creare regole per prevenire o per decidere una controversia.
Una regola generale e astratta, invece, è destinata a perdurare più a lungo nel tempo,
potendo servire per decidere gruppi di controversie progressivamente crescenti.
Nuovamente una soluzione della lite, che si riveli soddisfacente per le parti, attraverso
l’applicazione di una regola generale e astratta a un singolo caso, tenderà a riprodursi di
fronte a un caso giudicato “simile” e, con un processo inverso a quello appena visto,
smetterà i panni generali e astratti, per vivere nella dimensione casistica in cui si trova
normalmente applicata.
Nel primo caso, la forza da cui scaturisce la regola è la volontà dominante, mentre
nell’altro le regole originano dalla tradizione e, sin da quando si manifestano, esse
presentano quella condizione di equilibrio tra generalità e astrattezza da un lato e
particolarità e concretezza dall’altro, che le regole nate da una manifestazione espressa o
tacita raggiungono solo dopo un periodo più o meno lungo nel quale si trovano ad essere
applicate.
Le due variabili, almeno astrattamente, sono del tutto indipendenti: una regola di
formazione giudiziaria (cioè desunta da un “precedente”) non necessariamente avrà
carattere particolare e concreto – ad esempio, nel decidere una controversia il giudice
potrebbe manifestare anche una regola di portata generale e astratta (si tratta
tecnicamente di un obiter dictum) – mentre una regola di provenienza legale ben potrebbe
avere portata concreta e particolare (come accade, ad esempio, per le leggi-
provvedimento). Ancora più facile immaginare come l’opinione di un giurista possa essere
riferita a un determinato caso (e si potrà trattare di un parere pro veritate) oppure
astrarre da un caso concreto, formulando una regola di portata generale.
Non abbiamo spiegato come i differenti sistemi definiscono l’insieme delle “fonti del
diritto”: di questo si occupa il diritto costituzionale al quale rinviamo.
FONTI DEL DIRITTO: tutti gli atti o i fatti che hanno la capacità di innovare un
ordinamento giuridico (o che hanno l’attitudine a produrre diritto).
Ricordiamo solo che, secondo Hans Kelsen, l’insieme delle fonti del diritto sarebbe
definito da un’altra norma (Grundnorm: norma fondamentale), esterna all’insieme,
capace di rendere le regole ivi contenute -norme giuridiche (norma: dal latino “squadra”).
H. Kelsen (1881-1973): filosofo del diritto austriaco a cui si deve la teoria pura del diritto
concepito appunto come struttura puramente formale, non caratterizzato dai contenuti, ossia da
valutazioni socio-ideologiche valutative, mutevoli nei differenti periodi storici.
1) Le leggi
2) I regolamenti
3) (*) (abrogato “le norme corporative”)
4) Gli usi
I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi.
I regolamenti emanati a norma del secondo comma dell’art. 3 (emanati cioè da autorità
non governative) non possono nemmeno dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti
emanati dal Governo.
Tuttavia, l’art. 117 Cost. riconosce competenza legislativa esclusivamente allo Strato
nelle materie della cittadinanza, stato civile, anagrafi e ordinamento civile.
Una volta che l’interprete sappia dove reperire gli enunciati che lo vincolano (ossia le
espressioni grammaticalmente compiute ricavabili dai testi scritti, o “disposizioni”, con
cui gli atti legislativi e regolamentari si manifestano) deve procedere a ricercare le norme
attraverso la sua attività ermeneutica. Soltanto alle norme, non semplicemente agli
enunciati, egli potrà fare riferimento per motivare un atto con cui esercita una potestà
pubblica.
Ogni atto legislativo o regolamentare contiene infatti una pluralità di regole, pari ai
significati che l’enunciato può assumere nella mente dell’interprete. Questi deve scegliere
la regola che risulti più idonea a indirizzare verso l’attuazione della giustizia
sostanziale, cercando, tra le tante astrattamente ricavabili dall’enunciato, quella che
meglio converga con il piano di valori concordato dalla comunità, desumibile dalla
Costituzione, dai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali, secondo quanto prevede l’art. 117 Cost..
La regola più “convergente” con quella tavola assiologica è appunto ciò che si può
chiamare norma.
Ove invece si riscontri che tale norma convergente non è rinvenibile nell’enunciato,
l’interprete dovrà, a seconda dei casi, sollevare incidente di legittimità costituzionale o
rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
È possibile, infine, che l’interprete trovi nel caso concreto un contrasto tra i valori oppure
la concorrenza tra questi che in tal modo si limitano a vicenda: viene allora richiesto a
chi consulta la tavola di bilanciarli tra loro, facendoli convivere.
3. Le consuetudini
Tra le fonti del diritto l’art. 1 prel. Individua anche le consuetudini o usi: si tratta di
norme che non hanno bisogno di essere tramandate per iscritto, poiché da un lato la loro
osservanza nel corpo sociale appare molto diffusa e duratura, mentre dall’altro il loro
significato riguarda questioni di importanza in genere minuscola della vita quotidiana.
Per distinguere le consuetudini da altre regole, che il corpo sociale osserva diffusamente
e durevolmente pur se non hanno la funzione di dirimere controversie, si è soliti rilevare
che nel primo caso le regole siano rispettate perché si pensa di esservi obbligati, mentre
nell’altro tale requisito di ordine psicologico (detto opinio iuris seu necessitatis)
mancherebbe.
Per questo conviene ritenere che l’opinio iuris non sia elemento costitutivo della
consuetudine, che può essere distinta invece dalla regola non giuridica di costume
semplicemente perché la prima si trova richiamata dalle fonti-atto (la consuetudo
secundum legem).
Secondo l’art. 9 prel., il giudice, salvo suo diverso convincimento che dovrà motivare,
non può dubitare dell’esistenza di una consuetudine se registrata nella Raccolta
ufficiale.
SEZIONE II – LA CODIFICAZIONE
4. La codificazione
Poiché gli enunciati inevitabilmente tendono a moltiplicarsi, la loro stratificazione e la
stratificazione tra i differenti insiemi li rende difficili da reperire.
La facilità con cui gli enunciati si possono conoscere contribuisce a rendere le decisioni
più agevolmente prevedibili e misura ciò che molti chiamano “certezza del diritto”.
Tra i numerosi esempi che la storia giuridica ci offre va segnalato il movimento della
codificazione del diritto civile originatosi in Europa a partire dalla fine del diciottesimo
secolo.
L’idea è quella di raggruppare in un unico volume – appunto un codex, cioè
etimologicamente un libro compatto e cucito sul dorso - l’insieme delle regole necessarie
e sufficienti per dirimere potenzialmente qualsiasi lite facente parte del “diritto privato”.
A questa impostazione non può essere ascritto compiutamente l’ALR (diritto generale
territoriale per gli stati del regno prussiano) emanato nel 1794 considerato,
comunque, un vero e proprio monumento di sapienza legale. Non vi si rinviene infatti, da
un lato, una netta distinzione tra gli ambiti disciplinari mentre dall’altro vi si trovano
nettamente distinti gli stati soggettivi della nobiltà, dei cittadini e quello dei contadini, a
sua volta suddiviso tra i contadini liberi e i servi.
Il code civil des Français o semplicemente code civil viene promulgato il 21 marzo
1804 (ed è tuttora vigente; dal 1807 prende il nome di code Napoléon) e si mostra molto
più conciso, sia perché, superando ogni formale distinzione tra le persone, non deve più
differenziarne il relativo trattamento giuridico, sia in quanto si riferisce strettamente a un
insieme più ristretto di regole che da allora si è soliti catalogare nel diritto civile. Esso è
suddiviso in tre libri – dedicati alle persone, ai beni, alle “differenti modificazioni della
proprietà” e ai “differenti modi con cui si acquista la proprietà” – e si compone (oggi) di
poco più di 2500 articoli, caratterizzandosi per la forma sobria ed elegante degli
enunciati.
In proposito Portalis, uno dei suoi autori, aveva scritto che il compito della legge è quello
di fissare le massime generali del diritto e quindi di non scendere nel dettaglio delle
questioni. Compete piuttosto ai magistrati e ai giuristi di penetrare lo spirito delle leggi e
su di esso indirizzare l’attività interpretativa.
In Italia, sin dal 1859 vengono insediate varie commissioni per procedere alla revisione
del codice albertino ed elaborare un codice per il Regno unito. Il nuovo codice viene
promulgato nel 1865 ed entra in vigore il 1° gennaio 1866, per essere esteso alla
provincia di Roma nel 1870 e alle province venete e di Mantova nel 1871.
6. La codificazione tedesca
In uno scritto intitolato alla “Necessità di un codice civile per la Germania” Thibaut
sostiene l’opportunità di creare, attraverso la codificazione, le basi giuridiche per
l’unificazione politica, in quell’epoca impedita dalla restaurazione del particolarismo
dinastico dei principi tedeschi conseguito alla caduta di Napoleone. Tale impostazione è
avversata tuttavia da un altro scritto, forse ancor più celebre, composto da Friedrich Karl
von Savigny – Sulla vocazione del tempo nostro per la legislazione e la scienza
giuridica del 1814 – il quale, criticata aspramente soprattutto la codificazione francese,
sostiene l’impossibilità di superare l’enorme congerie di regole sovrapposte affidando,
piuttosto, a una solida scienza del diritto il compito di rendere il “diritto non dubbio,
sicuro dalle usurpazioni dell’arbitrio, e dagli assalti dell’ingiustizia”.
Una parte cospicua degli studiosi tedeschi prende in tal modo ad elaborare un complesso
apparato di concetti nei quali le regole si trovano ordinate e sistematicamente elaborate.
In questo modo, attraverso il movimento noto come positivismo giuridico, si giunge a
ritenere che le norme derivino solamente dal sistema, dai concetti e dalle elaborazioni
degli studiosi, mentre ogni altro valore – politico, etico, economico o religioso – dovrebbe
essere mantenuto rigorosamente silente.
Ciò nonostante, nel 1865 viene presentato un progetto di unificazione del diritto delle
obbligazioni (noto come progetto di Dresda) e, dopo la fondazione del regno
bismarckiano nel 1871 ed estesa la competenza del Reich a tutto il diritto privato nel
1873, anche in Germania si avvia la fase di codificazione delle regole civilistiche.
Una prima commissione viene insediata nel 1874: il progetto presentato viene criticato da
più parti sia perché gli enunciati vi si trovano espressi con un linguaggio difficile, sia per
una netta propensione all’astrazione concettuale. Si contestano pure l’abuso della tecnica
del rinvio ad altri testi legislativi e il fatto che vi si trovino del tutto trascurate molte
tradizioni giuridiche del popolo tedesco. Una seconda commissione provvede perciò ad
apportare alcune correzioni linguistiche e ad attenuare il marcato e impersonale
individualismo che caratterizzava il primo progetto, licenziandone un secondo nel 1895,
che viene approvato nel 1896 per entrare in vigore, secondo i desideri del Kaiser, il 1°
gennaio 1900, a contrassegnare uno “scintillante” inizio di secolo.
Ai libri dedicati al Diritto dei rapporti obbligatori (II), ai Diritti delle cose (III), al Diritto di
famiglia (IV) e al Diritto delle successioni (V) si trova anteposta una Parte generale ove
trovasi raccolto quell’apparato concettuale sul quale la disciplina contenuta nei libri
successivi si trova costruita. In questo senso va segnalata soprattutto la disciplina
dedicata ai Negozi giuridici, cioè alle dichiarazioni di volontà dirette a produrre effetti
giuridici poiché le altre sezioni contengono più che altro i tratti frammentari di dottrine
generali piuttosto che una vera e propria parte generale.
Il BGB è sopravvissuto all’epoca nazista per pervenire sino ai tempi nostri e, sia pure
soltanto per un periodo, è rimasto vigente anche nei territori tedeschi che componevano
la DDR o Repubblica democratica tedesca dove è stato poi sostituito da un
Zivilgesetzbuch o ZGB, che è rimasto in vigore dal 1975 sino alla riunificazione tedesca
nel 1990.
Nel 1915, nell’imminenza del primo conflitto mondiale, il Governo ottiene il conferimento
di pieni poteri legislativi e provvede a emanare una serie di disposizioni legislative dirette
a innovare il diritto esistente: si consente ai prefetti di riconoscere le associazioni e i
comitati di assistenza civile, si disciplina la sospensione del lavoro notturno per le donne
e i fanciulli e l’abilitazione delle donne all’ufficio di tutore. Si equipara poi la guerra alla
forza maggiore, si stabilisce la sospensione del rapporto di lavoro per i dipendenti
chiamati alle armi, la proroga dei contratti agrari e delle locazioni di fondi urbani, mentre
lo Stato diviene erede necessario quando i parenti entro il sesto grado non possano o non
vogliano accettare l’eredità loro devoluta.
Sempre all’inizio della prima guerra mondiale, abolita l’autorizzazione maritale, Vittorio
Scialoja lancia l’idea di introdurre regole comuni alla Francia e all’Italia nel campo del
diritto delle obbligazioni. La proposta si traduce in un progetto di codice italo-francese
delle obbligazioni e dei contratti che mai divenne legge, ma che ispirò la successiva
codificazione.
L’avvento del fascismo concentra, con l’intendo propagandistico del regime, gli aneliti
riformatori di molti studiosi.
In una prima fase, l’opera di codificazione procede, sotto la guida di Scialoja e poi, dopo
la sua morte nel 1933, sotto quella di Mariano D’Amelio, con ritmo assai blando.
Tra il 1937 e il 1939 vedono definitivamente la luce sia il libro Delle Persone sia quello
Delle Successioni; il primo entra in vigore nel 1939 insieme alle Disposizioni sulla legge
in generale, il secondo nel 1940.
Il libro Delle Persone si apre con il riconoscimento a tutti della capacità giuridica,
stabilendo tuttavia la derogabilità alla regola, ad opera della legislazione speciale, a causa
dell’appartenenza della persona a “determinate razze”; allo stesso modo si assoggettano
a leggi speciali i matrimoni tra persone appartenenti a “razze differenti”.
Nonostante gli auspici di alcuni studiosi, specialmente Santi Romano, manca alla nostra
codificazione una parte generale sul modello del primo libro del BGB ma il quarto libro
di apre con una trattazione generale del rapporto obbligatorio (non tuttavia del negozio
giuridico).
Le vicende belliche hanno a lungo mantenuto sulla storia della codificazione una spessa
coltre di nebbia, squarciata soltanto di recente da indagini archivistiche su documenti
inediti.
Tuttavia, all’opera di codificazione aveva partecipato la gran parte dei migliori studiosi
dell’epoca, quindi una nuova stesura si sarebbe ritrovata inevitabilmente nelle loro mani;
inoltre le esigenze primarie del periodo post-bellico non si indirizzavano verso la
riscrittura dei codici, ma verso la ricostruzione fisica e morale di una nazione distrutta
dalla guerra.
Inoltre occorreva verificare se il testo del codice presentasse tratti tali da poterlo
considerare non compatibile con la nuova vita democratica dell’Italia repubblicana.
Così come il BGB è sopravvissuto indenne al regime nazista, così è avvenuto per il nostro
codice del 1942. Infatti, è compito dell’interprete quello di far rivivere nell’applicazione
ai casi concreti il testo del codice, ricavandone le norme corrispondenti alla tavola di
valori dichiarata dall’art.117 Cost. e, da tale punto di vista, il carattere generale e
astratto delle previsioni civilistiche ha favorito questa operazione. Il giudice, al quale tale
operazione non sembri possibile di fronte a certe previsioni, dovrà sollevare questione di
legittimità alla Corte costituzionale che, se l’accoglie, con sentenza eliminerà lo stesso
enunciato con effetto retroattivo (ossia lo dichiara tanquam non esset, cioè come se non ci
fosse).
Un discorso analogo vale quanto alla necessità per l’interprete di leggere gli enunciati
rinvenibili nel codice civile alla luce della normativa europea: a tal fine il giudice può
investire del compito di ricercare la norma la Corte di giustizia di Lussemburgo, la
quale fornisce l’interpretazione esatta dell’enunciato europeo da applicare alla
controversia e, indirettamente, di quello di provenienza italiana che eventualmente
appaia contrastante con l’altro.
Inoltre, secondo gli artt. 11 e 117 Cost., la legislazione ordinaria è tenuta a rispettare
quei vincoli che derivano dagli obblighi internazionali e quindi anche da quelli che
discendono dalle Convenzioni internazionali (oltre che dalle norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute) tra le quali spicca la Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma nel 1950).
Altri importanti interventi hanno riguardato la riscrittura degli enunciati dall’esterno del
codice, dove si sono moltiplicate discipline di settore riguardanti la materia civile, che
spesso hanno assai influito su alcuni istituti soprattutto per adeguarli al mutato contesto
socio-economico (locazioni immobiliari, affitto di fondi rustici, divorzio, affidamento e
adozione di minori) o tecnico-scientifico (procreazione medicalmente assistita) o a causa
dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea (disciplina della concorrenza e del
mercato, Codice di consumo).
La proliferazione di enunciati collocati fuori dal codice civile (che è stata definita
“decodificazione”) non lo ha privato di un ruolo pur sempre centrale.: la legislazione
extra codicem, in genere, si rivela poco sistematica e soprattutto non autosufficiente,
visto che presuppone strutture concettuali ricavabili soltanto dallo stesso codice civile.
SEZIONE III – L’INTERPRETAZIONE E LE SITUAZIONI GIURIDICHE
Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal
significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del
legislatore.
Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo
alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora
dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.
L’interprete, se non può andare oltre il perimetro semantico definito negli enunciati, per
comprenderne pienamente la portata non può che indagarne il loro significato esatto,
profondo: “l’intento del legislatore”, cioè la funzione della norma quale risulta dal
contesto ove si trova l’enunciato (interpretazione logico-sistematica).
Quando la norma non sia rinvenibile nel perimetro semantico degli enunciati, l’art. 12, 2
comma, prel. consente di guardare ad enunciati riguardanti casi simili o materie
analoghe, se ciò porta a ritrovarvi una norma che consenta di risolvere la controversia in
maniera conforme alla tavola di valori (analogia legis); altrimenti le norme andranno
ricavate direttamente dalla tavola assiologica (analogia iuris).
L’analogia è preclusa, oltre che per gli enunciati che prevedono reati, per quelli che
hanno carattere e portata eccezionale: poiché derogano a un principio per assolvere a
una finalità precisa, non avrebbe senso fare di un’eccezione appunto una regola.
Il ruolo di assoluto rilievo ricoperto dalla Corte nel sistema è riconosciuto dall’art. 111
Cost., che consente a chiunque di sottoporre al controllo della corte la ricerca e
l’applicazione dell’enunciato compiuto da qualunque giudice (purché non si sia ancora
formato il giudicato formale e con le eccezioni previste dallo stesso articolo).
Gli atti giuridici quando siano misurati dalla norma, e quindi rilevanti, possono essere:
Gli atti giuridici, leciti o illeciti, meritevoli o immeritevoli, sono poi distinti in:
- atti in senso stretto, quando la norma richiede che siano posti in essere in
maniera consapevole e volontaria, ma non si pretende che siano diretti a
disciplinare gli interessi di chi li pone in essere (es. costituzione in mora, diffida ad
adempiere; dichiarazioni di scienza, come le dichiarazioni rese dal testimone, le
confessioni, le registrazioni contabili)
- atti negoziali (o negozi giuridici), quando, oltre la consapevolezza e la volontà
dell’atto, sia presente la consapevolezza e la volontà degli effetti pratici che l’atto
sia diretto a produrre, effetti che consistono nel dettare per l’avvenire regole
riguardanti i propri interessi patrimoniali (testamento, contratto) o la propria
persona (uso del proprio nome o dei dati personali).
Il codice civile italiano non detta una disciplina generale del negozio giuridico, in modo
che la categoria dev’essere ricostruita a posteriori, comparando le figure di cui essa
costituisce manifestazione, come il contratto, il testamento, l’atto unilaterale di
fondazione, l’imposizione del vincolo.
Il negozio illecito (come quello lecito ma immeritevole) non produce effetti giuridici, mentre
l’atto in senso stretto, se illecito, può comportare l’obbligo di risarcire il danno ingiusto
che abbia arrecato a un terzo.
I fatti giuridici, se rilevanti per una norma, possono essere efficaci, cioè produrre effetti
giuridici nuovi. Un fatto rilevante può quindi essere pure efficace, mentre il fatto efficace
deve necessariamente essere rilevante. Occorre ribadire che i fatti giuridici appartengono
alla realtà fenomenica, e come tali possono essere apprezzati con i cinque sensi, mentre
gli effetti giuridici vanno ricondotti alla metafisica e come tali possono essere soltanto
apprezzati con il pensiero.
c. Infine nel rendere libera la scelta dei comportamenti che il soggetto potrà
osservare (“vicende estintive”).
Il diritto soggettivo può, quindi, definirsi come il potere di agire nel proprio interesse, o
di pretendere che qualcun altro tenga un determinato comportamento nell’interesse del
titolare del diritto.
Per il principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione può trovarsi obbligata ogni
persona vivente, che, proprio perché persona, ha l’attitudine ad assumere ogni altra
situazione giuridica soggettiva (quell’attitudine si chiama “capacità giuridica”, art. 1
c.c.). Essa è limitata tuttavia alla persona vivente: si perde infatti nel momento della
morte. Al concepito si riconosce in alcuni casi la spettanza di situazioni giuridiche ma
l’appartenenza presuppone la nascita dell’individuo (art. 1, 2 comma, c.c.).
È poi possibile che una situazione giuridica sia priva di un titolare (si parla allora di
“situazioni adespoti”): la mancanza del titolare, di regola, non comporta l’estinzione
della situazione stessa.
Colui che ne perde la titolarità si dice “autore” o “dante causa”, mentre chi la riceve si
dice rispettivamente “successore” o “avente causa”.
A seconda della natura dell’atto o del fatto che dà causa alla vicenda si distingue la
vicenda successoria tra vivi (o inter vivos) o a causa di morte (mortis causa).
La vicenda, che riguarda l’universalità o una quota dei diritti di un soggetto, si dice “a
titolo universale” diversamente viene detta “a titolo particolare”. Solamente le vicende
traslative a causa di morte possono essere tanto a titolo universale quanto a titolo
particolare, mentre quelle tra vivi possono essere esclusivamente a titolo particolare.
Il titolare del diritto soggettivo può esercitarlo senza bisogno di ricorrere al giudice,
quando l'obbligato tenga spontaneamente il comportamento dovuto.
L’art. 2907 c.c. stabilisce infatti che “alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede
l'autorità giudiziaria”, precludendo così a chiunque altro di provvedervi. Si aggiunge poi
che l'autorità provvede “su domanda di parte”, vietando in tal modo l'iniziativa ufficiosa
del giudice al quale inoltre è richiesto di giudicare “su tutta la domanda e non oltre i limiti
di essa” (art. 112 c.p.c.).
Delle “sentenze costitutive”, cioè di quelle che danno attuazione giudiziaria a una
pretesa formativa, si è già detto invece nel paragrafo 10.
a) che uno o più fatti giuridici si siano verificati nella realtà fenomenica e
b) che una norma ne abbia valutata la rilevanza e l'efficacia.
La controparte, cioè il convenuto, potrà nel difendersi, contestare che i fatti o gli atti o i
negozi si siano verificati nella realtà fenomenica.
Il convenuto può affermare poi, attraverso un eccezione sostanziale o di merito, che i
fatti allegati dall’attore si sono sì verificati ma risultano attualmente inefficaci a causa di
un fatto impeditivo, contestuale a quello allegato, oppure di un fatto modificativo o
di un fatto estintivo, cioè un fatto sopravvenuto a quello allegato dall' attore che lo ha
modificato o estinto.
Ad esempio: Tizio afferma “ho concluso un contratto con Caio, che si è obbligato a pagarmi il 1 gennaio 2010
10.000 € (cioè Caio ha l’obbligo di pagarmi 10.000 € o se si vuole ho il diritto soggettivo di ricevere 10.000 €)
quale prezzo per un autovettura che gli ho venduto”. Il fatto costitutivo è appunto il contratto. Caio potrà
sostenere che quel contratto non è mai stato concluso (quindi contestare il fatto costitutivo) oppure potrà
allegare diversi fatti nuovi “abbiamo pattuito che il pagamento fosse dovuto il 1 gennaio 2020” (il fatto
impedisce a Tizio di far valere attualmente la sua pretesa); “ho già pagato 10.000 €” (il fatto ha estinto
l’obbligo di Caio) oppure con un contratto successivo abbiamo modificato il termine di pagamento
prorogandolo al 1 gennaio 2020” (il fatto allegato in via d’eccezione ha modificato le modalità di esecuzione
dell’obbligo di Caio).
La valutazione giuridica dei singoli fatti, che compete al giudice, sarà la seguente: il contratto ha forza di
legge tra le parti, obbliga le parti a quanto è in esso espresso ed è fonte di obbligazioni: chi l’ha concluso ha
quindi l’obbligo di darvi esecuzione. L'adempimento esatto della prestazione libera il debitore quindi, se Caio
ha pagato, Tizio non può esigere più alcunché da lui; oppure, se è stato pattuito un termine, il creditore non
può esigere la prestazione prima della scadenza.
Il giudice è tenuto a formare il proprio convincimento sulla verità dei fatti stessi, se
questa sia contestata dall’attore o dal convenuto, esclusivamente sulle prove proposte
dalle parti, con le forme stabilite nel codice di procedura civile, essendogli precluso di
fidare sulle sue personali conoscenze (divieto della scienza privata del giudice), inoltre
l'articolo 111 Cost. gli impone l’imparzialità.
Dovrà inoltre dare conto nella motivazione della sentenza delle ragioni che lo hanno
indotto a ritenere che un fatto allegato si è effettivamente verificato oppure no.
Può accadere tuttavia che il giudice dubiti che uno o più tra i fatti allegati dalle parti si
siano verificati. In tali casi gli è vietata la decisione di non liquet: egli cioè non può
rifiutarsi di decidere, ma è obbligato ad assumere una decisione valendosi della regola
che implicitamente si trova codificata all’articolo 2697 del codice civile: un fatto non
provato deve considerarsi un fatto non accaduto.
Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il
fondamento.
Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto
deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.
L'onere di provare un fatto ricade su colui che invoca proprio quel fatto a sostegno della propria tesi: chi
vuol far valere in giudizio un diritto deve quindi dimostrare i fatti costitutivi, che ne hanno determinato
l'origine. Colui che contesta la rilevanza di tali fatti in giudizio ha invece l'onere di dimostrarne l'inefficacia, o
provare eventuali altri fatti che abbiano modificato o fatto venir meno il diritto vantato, chiamati
rispettivamente fatti impeditivi, modificativi ed estintivi.
A Caio che afferma, senza riuscire a convincere il giudice, di aver pagato la somma
pretesa da Tizio si risponderà quindi che in realtà la sua affermazione falsa,
condannandolo a pagare nuovamente. Ciò contribuisce a spiegare perché gli operatori
del mondo giuridico tendano a precostituirsi una pluralità di prove, in genere
documentali, pur quando esse non siano richieste dal legislatore per la validità dell'atto
giuridico.
L’articolo 2697 si limita ad enunciare la distinzione tra i fatti giuridici allegati dalle parti,
lasciando all’interprete di stabilire quando essi siano costitutivi oppure all’inverso
impeditivi, modificativi o estintivi e quindi se il rischio del fatto incerto (cioè di non
essere riusciti a convincere il giudice quanto alla sussistenza di quel fatto) vada a danno
dell'attore o del convenuto. Non è difficile distinguere infatti i fatti modificativi e quelli
estintivi, poiché essi sono cronologicamente sopravvenuti rispetto a quelli costitutivi e
impeditivi, mentre per distinguere tra queste ultime due categorie si tende a guardare se
la sussistenza di un certo fatto sia normale nell’esperienza concreta, costituendo in
qualche modo una regola, oppure sia anormale e quindi si verifichi in via d’eccezione:
alla regolarità dell’allegazione corrisponde un fatto costitutivo, all’eccezionalità un fatto
impeditivo.
La nostra legislazione contiene nel codice processuale enunciati diretti a regolare il modo
grazie al quale il singolo mezzo di prova entra nel processo e a determinarne la struttura,
l’ammissibilità e l’efficacia.
In linea generale il giudice valuta i singoli mezzi di prova secondo il suo prudente
apprezzamento, cioè attraverso la sua esperienza e il suo raziocinio. Eventualmente
potrà nominare, quando occorrano nozioni di tipo tecnico scientifico, un esperto detto
consulente tecnico d'ufficio. Esistono tuttavia ipotesi eccezionali nelle quali gli
enunciati legislativi predeterminano l'efficacia di alcuni mezzi di prova, che per questo
vengono ascritti all’insieme delle prove legali. In tal modo essi si trovano sottratti alla
libera valutazione del giudice.
Oltre alla distinzione tra i mezzi liberamente apprezzabili da quelli legali, si distinguono
anzitutto i mezzi di prova precostituiti, che consistono in cose preesistenti al processo (i
documenti), dai mezzi di prova semplici o costituendi, perché si formano durante il
processo attraverso un’apposita attività. E il caso della prova testimoniale, delle differenti
specie di giuramento e della confessione giudiziale.
1. Quando sia stata autenticata, cioè quando un notaio o un altro pubblico ufficiale
a ciò autorizzato attesta che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza;
2. Quando sia stata riconosciuta, anche tacitamente, da colui contro il quale la
scrittura è stata prodotta in giudizio;
3. Quando sia stata verificata giudizialmente.
La data della scrittura privata non autenticata può essere contestata da una delle parti,
in tal modo costringendo l'altra parte a darne la prova. Tra le parti della scrittura stessa
la prova della data può essere fornita con qualsiasi mezzo e, se la scrittura sia stata
riconosciuta o verificata, la data appostavi si ha per provata, salvo prova contraria. Nelle
controversie insorte tra chi sottoscrisse la scrittura e un terzo la data della scrittura è
viceversa provata:
Le carte e registri domestici se, come accade in genere, non recano la sottoscrizione di
chi li predispone, fanno comunque prova contro chi li ha scritti, quando annunciano un
pagamento ricevuto o contengono l’espressa menzione che la notazione è stata eseguita
per supplire la mancanza di titoli in favore di chi è indicato come creditore.
Una regola analoga vale per la notazione fatta dal creditore in calce, in margine o a tergo
di un documento rimasto in suo possesso se tende ad accertare la liberazione del
debitore o la notazione fatta dal creditore in calce, a margine o a tergo di una quietanza o
di un esemplare del documento del debito posseduto dal debitore.
1. della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che appare averlo formato;
2. delle dichiarazioni delle parti;
3. dei fatti che il pubblico ufficiale dichiara di avere compiuto;
4. dei fatti che il pubblico ufficiale attesta siano avvenuti in sua presenza
5. della data e del luogo in cui l'atto risulta formato.
Della sentenza di rigetto della querela viene fatta menzione sull’originale del documento
a cura del cancelliere e la parte che l'ha proposta viene condanna a una pena pecuniaria
di importo modesto. Quando viceversa la querela venga accolta, ne viene ordinata la
cancellazione totale o parziale, secondo le circostanze e, se è il caso, «la ripristinazione, la
rinnovazione o la riforma dell'atto o del documento».
La prova non è invece ammissibile per i contratti, per il pagamento e per la remissione
del debito, salvo che il contraente non abbia senza colpa perduto il documento che gli
forniva la prova:
Il giudice può desumere argomenti di prova dal contegno osservato dalle parti durante il
processo ma il nostro sistema non conosce la testimonianza della parte. Le
dichiarazioni rese tuttavia da questa nel processo o fuori di esso possono rivelarsi assai
credibili, quando presentino un contenuto sfavorevole allo stesso dichiarante e favorevole
all'altra parte.
La confessione può infine essere «revocata», ossia resa inefficace da un atto ad essa
sopravvenuto, quando sia stata determinata da errore di fatto, attraverso la prova cioè
che il fatto confessato non è vero ma il confidente lo aveva erroneamente creduto tale,
oppure che la dichiarazione di scienza è stata estorta con minaccia (o «violenza») (art.
2732).
Quando si tratti di un fatto comune a entrambe le parti, è possibile ancora che la parte a
cui il giuramento sia stato deferito lo riferisca, sfidando la controparte a prestarlo (la
formula del giuramento andrà allora opportunamente rettificata da «giuri e giurando
affermi...» a «giuri e giurando neghi...»). Allora, esclusa l'ulteriore riferibilità, delle due
l'una: giura e vince oppure non giura e soccombe.
Non è ammesso tuttavia il giuramento per le cause relative a diritti di cui le parti non
possono disporre (si pensi alla capacità delle persone) o su un fatto illecito o sopra un
contratto per la validità del quale sia richiesta la forma scritta o per negare un fatto che
da un atto pubblico risulti avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale che ha formato
l'atto stesso ( art. 2739, 1 comma).
Il codice prevede poi due ulteriori espedienti che vorrebbero attenuare il rigore dell'onere
probatorio: il «giuramento suppletorio», che dovrebbe essere deferito su decisione del
giudice «quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del
tutto sfornite di prova» (art. 2736,n.2), e il «giuramento d'estimazione», che potrebbe
essere deferito per «stabilire il valore della cosa domandata, se non si può accertare
altrimenti». Un simile intervento del giudice, che scegliendo di far giurare una delle parti,
la agevola deve con ogni probabilità ritenersi precluso dall'art. 111, 2° comma, Cost.,
laddove prevede che il processo si svolga tra l'altro «in condizioni di parità, davanti a
giudice terzo e imparziale».
Non sono invece propriamente mezzi di prova le «presunzioni semplici», con le quali si
indicano quei ragionamenti che, muovendo da un fatto provato o incontroverso,
consentono di pervenire al convincimento in ordine alla verità di un altro fatto. Il
legislatore mostra di temere tale istituto per l'ampia libertà di valutazione, che è
consentita al giudice. Per questo, da un lato gli preclude di farvi ricorso per fondare la
decisione quando sia vietata la prova testimoniale, mentre dall'altro l'art. 2729 parla di
presunzioni ammesse soltanto quando siano «gravi, precise e concordanti».
In alcuni casi è la stessa legge a stabilire che dall'accertamento di un dato fatto consegue
quello di un altro: ad esempio, la prova di aver acquistato il possesso di una cosa
implica anche quella della buona fede del possessore. Si parla in simili casi di
«presunzioni legali», a loro volta suddistinte in:
presunzioni «relative» o iuris tantum, quando la parte che vi abbia interesse possa
dare la prova contraria;
e presunzioni «assolute» o iuris et de iure, quando alla parte che pur vi abbia
interesse sia precluso di dare la prova contraria.
La disciplina in esame pone la collettività al riparo dai costi, anche sociali, ai quali si
dovrebbe andare incontro per assicurare protezione giurisdizionale; per questo l'art.
2936 prevede l'inderogabilità della prescrizione: essa non può essere modificata dal
contratto o dal testamento.
L'effetto estintivo può tuttavia essere evitato, dopo che si è compiuto, attraverso la
«rinunzia alla prescrizione», manifestata espressamente da chi ha interesse a vedere
estinta la situazione per lui sfavorevole, o desumibile da un comportamento non
compatibile con la volontà di volersene valere (art. 2937).
L'estinzione provocata dalla prescrizione opera quando la parte che ne tragga beneficio
intenda servirsene: deve quindi domandare al giudice di accertare che si è verificata la
prolungata inattività del titolare. L'art. 2938 precisa infatti che la prescrizione non è
rilevabile d’ufficio dal giudice. Se il debitore adempie, nonostante siano trascorsi i
termini per la prescrizione, non può ripetere quanto abbia pagato.
L'effetto estintivo riguarda tutti i diritti soggettivi, esclusa la proprietà (Art. 2934), le
situazioni soggettive non patrimoniali e quelle patrimoniali ma non disponibili (cioè non
rinunziabili per volontà del titolare), non soggetti a prescrizione. In tali casi, infatti, vi
si trovano coinvolte anche esigenze di protezione di interessi generali.
La disciplina dettata nel codice è applicabile per intero soltanto ai diritti di credito,
mentre richiede di essere adattata e coordinata per quanto concerne i diritti reali; per
questo preferiamo parlare in tali ultimi casi di «non uso».
Escluso che la prescrizione possa riguardare la potestà, sono invece soggette ad
estinzione per non uso anche le pretese formative o diritti potestativi.
Non mancano tuttavia ipotesi nelle quali la decorrenza della prescrizione viene spostata
sino al momento in cui il titolare della situazione possa trovarsi in condizione di
esercitare il diritto. Tale è il caso, ad esempio, del termine quinquennale di prescrizione
dell'azione di annullamento del contratto concluso dal minore, termine che decorre da
quando egli abbia raggiunta la maggiore età.
Fermo restando che l'ignoranza del credito non impedisce la prescrizione, la si ritiene
sospesa quando il debitore abbia occultato dolosamente, cioè con mezzi fraudolenti,
l'esistenza del credito stesso.
Determinati eventi cancellano invece il periodo di tempo già trascorso ai fini della
prescrizione, che si trova in tal modo azzerato (si parla allora di «interruzione della
prescrizione»).
La prima ipotesi è data dal ricorso all’azione attraverso la domanda giudiziale o l'avvio
del procedimento arbitrale: in tal caso la prescrizione resta azzerata sino al passaggio in
giudicato della sentenza che definisce il giudizio. Simile effetto riguarda i diritti di credito,
i diritti reali e le pretese formative.
Per quanto riguarda solamente i diritti di credito è prevista l'interruzione del periodo di
prescrizione anche quando il debitore sia costituito in mora o quando lo stesso debitore
ammetta, anche implicitamente, l'esistenza del credito (un esempio è dato dal
pagamento di un «acconto» o dalla richiesta di dilazione del pagamento). In questi casi la
prescrizione si azzera e ricomincia immediatamente a decorrere ex novo.
Il termine ordinario di prescrizione è dieci anni (mentre quello di estinzione dei diritti
reali per non uso è ventennale).
Termini abbreviati sono previsti anzitutto per i crediti originati da fatto illecito: il diritto
al risarcimento del danno nei confronti dell'agente si prescrive in genere in cinque anni,
se non si tratti di sinistro provocato dalla circolazione di veicoli di ogni specie. In tale
caso la prescrizione ha durata biennale.
Quando il fatto sia tuttavia considerato dalla legge come reato, si applica il periodo di
prescrizione stabilito dalla legge penale, se è più lungo e sempre che il reato non si sia
estinto per causa diversa dalla prescrizione o sia intervenuta sentenza irrevocabile nel
giudizio penale, giacché in tal caso il termine è quello stabilito dal codice civile [ossia di
cinque (o due) anni] ma la prescrizione decorre dalla data di estinzione del reato o dalla
data in cui la sentenza penale è divenuta irrevocabile. Altri termini di prescrizione
abbreviati, sino in alcuni casi al minimo di un anno (ad esempio per la spedizione e il
trasporto), riguardano i crediti che traggono origine da alcuni contratti nominati (v. artt.
2948 ss.).
L'abbreviazione del termine di prescrizione non opera per quanto riguarda l'azione
esecutiva esperita in séguito a una sentenza di condanna: essa resta sottoposta al solito
periodo di dieci anni (art. 2953).
Una regola simile vale pure per il debito di restituzione degli incartamenti relativi alle liti,
trascorsi tre anni da quando sono state decise (art. 2961).
L’istituto realizza un adeguato bilanciamento tra le ragioni del creditore e quelle del
debitore, che viceversa si troverebbe costretto a tenere copia della documentazione di
tutti i pagamenti eseguiti per periodi di tempo irragionevolmente lunghi: piuttosto il
ricorso sempre più frequente a strumenti di pagamento che lasciano prova scritta del
versamento (si pensi alle carte di credito), potrebbero indurre il legislatore a rimodulare
in un prossimo futuro l'istituto.
Quando questo nulla dispone, limitandosi a prevedere un effetto estintivo per prolungata
inattività del titolare di una situazione giuridica occorre allora guardare all'eventuale
disciplina dettata.
La decadenza è infatti insensibile agli eventi sopravvenuti nel corso del periodo di
tempo richiesto per estinguere la situazione giuridica, capaci invece di interrompere o di
sospendere la prescrizione. Il titolare, se non vuole l'estinzione della situazione giuridica,
è quindi costretto ad esercitarla nelle forme e nei modi stabiliti dalle singole disposizioni
o dagli altri atti che sanciscono la decadenza (art. 2966).
La decadenza riguardante i diritti disponibili non è rilevabile d'ufficio dal giudice (art,
2969) e può essere prevista, oltre che dalla legge, anche da contratti o testamenti: loro
tramite si può pure modificarne la disciplina stabilita dalla legge. Le parti possono anche
rinunziare alla decadenza prima che si sia compiuta.
SEZIONE VI - LA PUBBLICITÀ
24. La pubblicità dei fatti giuridici in generale
Numerose sono le ipotesi nelle quali si prevede che sia data pubblicità a un determinato
fatto o atto giuridico, rendendolo quindi conoscibile da chiunque vi abbia interesse
attraverso un procedimento regolato compiutamente dalla legge.
Vi sono casi in cui alle parti è richiesto di percorrere quel procedimento, rendendo quindi
pubblici determinati fatti o atti giuridici versati in un documento, ma questi risultano
comunque rilevanti ed efficaci nonostante la violazione dell’obbligo (che può tuttavia
comportare l'irrogazione di sanzioni a carico delle parti).
In alcuni casi la conoscibilità legale del fatto da parte dei terzi, tramite il procedimento
legale, rende in parte efficace l'atto originariamente improduttivo di effetti: si parla allora
di «pubblicità sanante» (v. art. 2652, n. 6 e 7).
È tuttavia possibile che l'enunciato, sopravvenuto dopo la realizzazione del fatto, venga
espressamente dichiarato applicabile a questo tramite una previsione transitoria, che
in tal modo deroga all'art. II, 1° comma, prel., secondo il quale «la legge non dispone che
per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo».
L'interprete dovrà poi considerare che, pur in assenza di una disposizione transitoria
espressa, la norma ricavabile da un enunciato sopravvenuto a un fatto già perfetto potrà
richiedere di essere applicata, in quanto essa sia finalizzata all'attuazione di quei valori
costituzionali o quei vincoli comunitari o derivanti da obblighi internazionali, che
l'interpretazione basata sull'enunciato anteriore non consentiva. Ad esempio, norme che
stabiliscano una riduzione legale dell'orario giornaliero o settimanale di lavoro o una
disciplina, sopravvenuta alla conclusione di un contratto di mutuo, che stabilisca un
limite massimo al saggio d'interessi, o ancora gli enunciati che, sopravvenuti alla nascita
di un figlio, favoriscano l'attribuzione della responsabilità genitoriale, o per quelli,
sopravvenuti al matrimonio, che contribuiscano a realizzare la parità morale e giuridica
dei coniugi o favoriscano l'unità familiare.
Quando ad esempio venne introdotta la disciplina del divorzio (1. 1° dicembre 1970, n.
898) qualcuno avrebbe potuto dubitare del fatto ch'essa potesse essere applicata ai
matrimoni celebrati prima della sua entrata in vigore. Tuttavia il fatto giuridico che
andava sottoposto a misurazione attraverso la norma sopravvenuta non era il fatto-
matrimonio, ma il fatto consistente nella domanda giudiziale di divorzio proposta da uno
degli sposi. Tale ultimo fatto, se realizzatosi successivamente al 1970, non poteva che
essere valutato alla stregua della disciplina sopravvenuta, poco o nulla rilevando che si
riferisse a un vincolo nuziale formatosi prima o dopo l'entrata in vigore della legge sul
divorzio.
Al proposito, occorre fare riferimento anzitutto alla 1. 31 maggio 1995, n. 218, la quale
«pone i criteri per l’individuazione del diritto applicabile», attraverso il meccanismo
del rinvio a una legge straniera che il giudice italiano è in tal modo chiamato d'ufficio ad
applicare.
La legge stessa viene poi applicata per risolvere la controversia con i criteri ermeneutici e
le regole intertemporali ch'essa stessa dispone (art. 15 1. cit.).
Nonostante il richiamo alla legge straniera, alcune norme italiane richiedono di essere
comunque applicate, in considerazione del loro oggetto o del loro scopo: si parla in questi
casi di «norme di applicazione necessaria» o anche di disposizioni imperative. Un
esempio in tal senso è l'art. 116 c. c., che sottopone la celebrazione del matrimonio dello
straniero alla legge italiana, che deve essere osservata in ogni caso.
Il «criterio di collegamento» è quel carattere del fatto controverso che la regola di diritto
internazionale privato assume come decisivo per determinare quale insieme di regole
(generate in un certo Stato) andrà applicato. Tra i principali criteri si devono segnalare la
«cittadinanza», il «luogo» in cui un fatto si è verificato o il «luogo in cui la vita
matrimoniale è prevalentemente localizzata» o ancora il «luogo in cui si trova la
cosa».
Si consente, con alcuni atti di volontà, di designare quale legge dovrà regolare
determinati rapporti giuridici: ad esempio, col contratto si può prevedere quale legge sia
deputata a regolarlo in tutto o in parte, purché la designazione sia espressa o tale da
risultare in modo ragionevolmente certo.
Altri, hanno pensato di elaborare un testo muovendo da una base comune che è stata
individuata nel quarto libro del nostro codice civile, che è assai più recente di quello
francese e tedesco e risente delle influenze dell'uno e dell'altro, e in un progetto di
Contract code, elaborato da un giurista anglosassone per mediare le differenze esistenti
tra diritto inglese e diritto scozzese e utile per avvicinare il diritto continentale al mondo
della common law. Si è così giunti alla stesura di un Code européen des contrats, privo
a oggi di efficacia normativa, ma che va oltre l'enunciazione di principi comuni e cerca
invece di codificare in maniera sistematica l'apparato di regole che dovrebbero essere
accolte in un futuro codice europeo.
Non si deve tuttavia credere che l'avvicinamento delle regole esistenti nei differenti Stati
debba necessariamente transitare per la stesura di testi uniformi. Essi si rivelano ottimi
allo scopo quando contribuiscano al confronto tra gli studiosi ma difficilmente riescono
nell'intento quando finiscano con l'essere imposti a un ordinamento complesso e ormai
molto consolidato come è il nostro.
È dato invece di rilevare come in non poche occasioni, sia pure muovendo da enunciati
differenti, i giudici dei singoli Stati dell'Unione siano pervenuti a soluzioni non dissimili.
Purtroppo al momento non esistono ancora sistemi organizzati (come le banche dati
online o le raccolte scritte) per favorire la conoscenza delle decisioni emesse dai
differenti giudici collocati al vertice dell'organizzazione giudiziaria di ciascuno Stato
appartenente all'Unione (come la Corte di cassazione, ad esempio). Assai più dei
differenti progetti di codici europei, il confronto quotidiano tra le applicazioni degli
interpreti dei differenti Paesi costituirebbe un volano potente per avvicinarle
progressivamente.
Il superamento delle barriere giuridiche nazionali, piuttosto che con arditi progetti
legislativi uniformi, potrebbe quindi essere realizzato agendo perché siano favorite la
conoscenza e la circolazione degli studenti e degli studiosi e, forse ancor di più,
stimolando la circolazione e il confronto delle opere giuridiche e delle decisioni. È
un processo storico ormai iniziato, e che nessuno riuscirà a fermare, favorito com'è dalla
velocità delle comunicazioni e dal miglioramento delle conoscenze linguistiche.