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LE FONTI, LE SITUAZIONI GIURIDICHE E LA LORO TUTELA

1. La funzione del diritto privato


La funzione del diritto privato (o civile) consiste nel ricercare la regola migliore per
prevenire o comporre una lite tra due persone, secondo un modello assiologico
criticamente provato e compatibile con i limiti posti dal contesto storico e culturale in cui
la regola stessa viene applicata.

Chiunque può creare regole per prevenire o per decidere una controversia.

Una regola particolare e concreta (applicabile, cioè ad un ristretto ambito di persone e


cose) non si presta a perdurate nel tempo, poiché la sua funzione si esaurisce una volta
che la lite sia stata decisa. Tuttavia, di fronte a liti “simili”, se l’esito della lite è risultato
soddisfacente per le parti, è probabile che la soluzione sia nuovamente ricercata nella
regola già espressa, la quale viene così riprodotta e tende ad affinarsi e a rendersi
uniforme nel tempo, trascendendo la singola controversia in cui aveva trovato la sua
origine.

Una regola generale e astratta, invece, è destinata a perdurare più a lungo nel tempo,
potendo servire per decidere gruppi di controversie progressivamente crescenti.
Nuovamente una soluzione della lite, che si riveli soddisfacente per le parti, attraverso
l’applicazione di una regola generale e astratta a un singolo caso, tenderà a riprodursi di
fronte a un caso giudicato “simile” e, con un processo inverso a quello appena visto,
smetterà i panni generali e astratti, per vivere nella dimensione casistica in cui si trova
normalmente applicata.

Le regole non nascono necessariamente da una manifestazione espressa di un individuo


o di un organo (e in tal caso si parla di fonte-atto), ma possono essere osservate da una
comunità, pur senza essere state formalizzate né per iscritto né oralmente (e si parla
allora di fonte-fatto).

Nel primo caso, la forza da cui scaturisce la regola è la volontà dominante, mentre
nell’altro le regole originano dalla tradizione e, sin da quando si manifestano, esse
presentano quella condizione di equilibrio tra generalità e astrattezza da un lato e
particolarità e concretezza dall’altro, che le regole nate da una manifestazione espressa o
tacita raggiungono solo dopo un periodo più o meno lungo nel quale si trovano ad essere
applicate.

L’esperienza storica e comparativa dimostra che ciascun ordinamento è la risultante di


una combinazione dell’uso di regole appartenenti ai differenti insiemi. In alcuni le
controversie vengono in prevalenza risolte affidandosi alle regole desumibili da decisioni
già assunte in precedenza (i “precedenti”) - è il caso dei sistemi detti di common law –
oppure guardando alle opinioni dei giuristi (come avveniva in parte nel diritto romano) o
alle consuetudini o ancora a regole di portata generale e astratta, come accade nei
sistemi di civil law.

Inoltre, le regole tendono inevitabilmente a moltiplicarsi e a stratificarsi mano a mano


che vengono applicate. Il tentativo di riduzione e di distinzione tra i differenti insiemi non
deve trarre in inganno, poiché una regola appartenente a un determinato insieme può
costituire il fondamento di un’altra che appartiene allo stesso insieme o a uno diverso.
2. Le regole, gli enunciati, le norme
Sin qui si è cercato di distinguere le regole guardando a colui che le crea (il giudice, il
giurista o il legislatore) e per la loro portata (generale e astratta o particolare e concreta).

Le due variabili, almeno astrattamente, sono del tutto indipendenti: una regola di
formazione giudiziaria (cioè desunta da un “precedente”) non necessariamente avrà
carattere particolare e concreto – ad esempio, nel decidere una controversia il giudice
potrebbe manifestare anche una regola di portata generale e astratta (si tratta
tecnicamente di un obiter dictum) – mentre una regola di provenienza legale ben potrebbe
avere portata concreta e particolare (come accade, ad esempio, per le leggi-
provvedimento). Ancora più facile immaginare come l’opinione di un giurista possa essere
riferita a un determinato caso (e si potrà trattare di un parere pro veritate) oppure
astrarre da un caso concreto, formulando una regola di portata generale.

Non abbiamo spiegato come i differenti sistemi definiscono l’insieme delle “fonti del
diritto”: di questo si occupa il diritto costituzionale al quale rinviamo.

FONTI DEL DIRITTO: tutti gli atti o i fatti che hanno la capacità di innovare un
ordinamento giuridico (o che hanno l’attitudine a produrre diritto).

Ricordiamo solo che, secondo Hans Kelsen, l’insieme delle fonti del diritto sarebbe
definito da un’altra norma (Grundnorm: norma fondamentale), esterna all’insieme,
capace di rendere le regole ivi contenute -norme giuridiche (norma: dal latino “squadra”).
H. Kelsen (1881-1973): filosofo del diritto austriaco a cui si deve la teoria pura del diritto
concepito appunto come struttura puramente formale, non caratterizzato dai contenuti, ossia da
valutazioni socio-ideologiche valutative, mutevoli nei differenti periodi storici.

Art. 1 prel. Indicazione delle fonti

Sono fonti del diritto:

1) Le leggi
2) I regolamenti
3) (*) (abrogato “le norme corporative”)
4) Gli usi

Art. 4 prel. Limiti della disciplina regolamentari

I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi.

I regolamenti emanati a norma del secondo comma dell’art. 3 (emanati cioè da autorità
non governative) non possono nemmeno dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti
emanati dal Governo.

Questo sistema giuridico, organizzato semplicemente su ben definiti livelli di gerarchia, si


è successivamente arricchito e complicato, vincolando l’interprete a ricercare le norme
anche negli enunciati contenuti:
- Nel Trattato sull’Unione europea, nel Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea e negli atti giuridici che l’Unione stessa adotta (regolamenti, direttive e
decisioni);
- Nelle leggi e nei regolamenti delle Regioni e delle province autonome di Trento e
Bolzano (nuovo ordinamento Costituzionale entrato in vigore nel 1948).

Tuttavia, l’art. 117 Cost. riconosce competenza legislativa esclusivamente allo Strato
nelle materie della cittadinanza, stato civile, anagrafi e ordinamento civile.

Una volta che l’interprete sappia dove reperire gli enunciati che lo vincolano (ossia le
espressioni grammaticalmente compiute ricavabili dai testi scritti, o “disposizioni”, con
cui gli atti legislativi e regolamentari si manifestano) deve procedere a ricercare le norme
attraverso la sua attività ermeneutica. Soltanto alle norme, non semplicemente agli
enunciati, egli potrà fare riferimento per motivare un atto con cui esercita una potestà
pubblica.

Ogni atto legislativo o regolamentare contiene infatti una pluralità di regole, pari ai
significati che l’enunciato può assumere nella mente dell’interprete. Questi deve scegliere
la regola che risulti più idonea a indirizzare verso l’attuazione della giustizia
sostanziale, cercando, tra le tante astrattamente ricavabili dall’enunciato, quella che
meglio converga con il piano di valori concordato dalla comunità, desumibile dalla
Costituzione, dai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali, secondo quanto prevede l’art. 117 Cost..

La regola più “convergente” con quella tavola assiologica è appunto ciò che si può
chiamare norma.

Ove invece si riscontri che tale norma convergente non è rinvenibile nell’enunciato,
l’interprete dovrà, a seconda dei casi, sollevare incidente di legittimità costituzionale o
rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.

È possibile, infine, che l’interprete trovi nel caso concreto un contrasto tra i valori oppure
la concorrenza tra questi che in tal modo si limitano a vicenda: viene allora richiesto a
chi consulta la tavola di bilanciarli tra loro, facendoli convivere.

La “ragionevolezza” esprime l’insieme di frammenti di regole tecniche e pragmatiche


necessari e sufficienti a mantenere la struttura in equilibrio: è per l’interprete la sintesi
della razionalità e della capacità argomentativa e dimostrativa.

3. Le consuetudini
Tra le fonti del diritto l’art. 1 prel. Individua anche le consuetudini o usi: si tratta di
norme che non hanno bisogno di essere tramandate per iscritto, poiché da un lato la loro
osservanza nel corpo sociale appare molto diffusa e duratura, mentre dall’altro il loro
significato riguarda questioni di importanza in genere minuscola della vita quotidiana.

È consentito fare riferimento alle consuetudini per motivare la decisione di una


controversia quando siano richiamate da enunciati scritti (consuetudo secundum
legem) e, secondo alcuni, quando gli enunciati non contengono la norma adatta a
decidere la controversia stessa (consuetudo praeter legem).
Solo quando il comportamento diffuso e ripetuto sia convergente con la tavola di valori
condivisi dalla comunità esso diventa norma, per cui non ha senso ipotizzare
consuetudini contra legem, cioè contrastanti con l’ordinamento giuridico.

ORDINAMENTO GIURIDICO: insieme delle regole convergenti con la tavola di valori


condivisi dalla comunità.

Per distinguere le consuetudini da altre regole, che il corpo sociale osserva diffusamente
e durevolmente pur se non hanno la funzione di dirimere controversie, si è soliti rilevare
che nel primo caso le regole siano rispettate perché si pensa di esservi obbligati, mentre
nell’altro tale requisito di ordine psicologico (detto opinio iuris seu necessitatis)
mancherebbe.

Attraverso l’opinio iuris si vorrebbe evidenziare il carattere doveroso del comportamento e


quindi la sua giuridicità; ma ciò che è “ritenuto” doveroso, a ben vedere “è” doveroso
perché a quel punto la regola è divenuta norma giuridica e come tale richiede di essere
osservata. Si cade quindi in un circolo vizioso.

Per questo conviene ritenere che l’opinio iuris non sia elemento costitutivo della
consuetudine, che può essere distinta invece dalla regola non giuridica di costume
semplicemente perché la prima si trova richiamata dalle fonti-atto (la consuetudo
secundum legem).

Anche se le norme consuetudinarie non possono desumersi da enunciati scritti – è


questo che le caratterizza rispetto a tutte le altre – si avverte l’esigenza di registrare per
iscritto certi comportamenti diffusi e ripetuti: si tratta delle Raccolte ufficiali di usi
pubblicate da enti o organi autorizzati – in ispecie dalle Camere di commercio – relativi a
comportamenti manifestati nello svolgimento di attività commerciali o agricole.

Secondo l’art. 9 prel., il giudice, salvo suo diverso convincimento che dovrà motivare,
non può dubitare dell’esistenza di una consuetudine se registrata nella Raccolta
ufficiale.

SEZIONE II – LA CODIFICAZIONE

4. La codificazione
Poiché gli enunciati inevitabilmente tendono a moltiplicarsi, la loro stratificazione e la
stratificazione tra i differenti insiemi li rende difficili da reperire.

La facilità con cui gli enunciati si possono conoscere contribuisce a rendere le decisioni
più agevolmente prevedibili e misura ciò che molti chiamano “certezza del diritto”.

L’esigenza di riordinare gli enunciati in maniera sistematica viene quindi continuamente


avvertita da chi deve conoscere le norme e da chi le deve applicare.

Tra i numerosi esempi che la storia giuridica ci offre va segnalato il movimento della
codificazione del diritto civile originatosi in Europa a partire dalla fine del diciottesimo
secolo.
L’idea è quella di raggruppare in un unico volume – appunto un codex, cioè
etimologicamente un libro compatto e cucito sul dorso - l’insieme delle regole necessarie
e sufficienti per dirimere potenzialmente qualsiasi lite facente parte del “diritto privato”.

A questa impostazione non può essere ascritto compiutamente l’ALR (diritto generale
territoriale per gli stati del regno prussiano) emanato nel 1794 considerato,
comunque, un vero e proprio monumento di sapienza legale. Non vi si rinviene infatti, da
un lato, una netta distinzione tra gli ambiti disciplinari mentre dall’altro vi si trovano
nettamente distinti gli stati soggettivi della nobiltà, dei cittadini e quello dei contadini, a
sua volta suddiviso tra i contadini liberi e i servi.

Il code civil des Français o semplicemente code civil viene promulgato il 21 marzo
1804 (ed è tuttora vigente; dal 1807 prende il nome di code Napoléon) e si mostra molto
più conciso, sia perché, superando ogni formale distinzione tra le persone, non deve più
differenziarne il relativo trattamento giuridico, sia in quanto si riferisce strettamente a un
insieme più ristretto di regole che da allora si è soliti catalogare nel diritto civile. Esso è
suddiviso in tre libri – dedicati alle persone, ai beni, alle “differenti modificazioni della
proprietà” e ai “differenti modi con cui si acquista la proprietà” – e si compone (oggi) di
poco più di 2500 articoli, caratterizzandosi per la forma sobria ed elegante degli
enunciati.

In proposito Portalis, uno dei suoi autori, aveva scritto che il compito della legge è quello
di fissare le massime generali del diritto e quindi di non scendere nel dettaglio delle
questioni. Compete piuttosto ai magistrati e ai giuristi di penetrare lo spirito delle leggi e
su di esso indirizzare l’attività interpretativa.

5. La codificazione italiana nel XIX secolo


Il code civil viene tradotto in italiano nel 1806 per diventare diritto vigente nelle regioni
italiane che compongono il Regno d’Italia di origine napoleonica. Non soltanto in Francia,
ma pure in alcune province italiane perdura oltre la caduta di Napoleone, mentre altrove
viene sostituito da codici che lo imitano: segnaliamo il Codice civile sardo assai criticato
per il carattere reazionario.

Un’importante eccezione è costituita dal lombardo-veneto ove, con la riconquista


austriaca, nel 1816 entra in vigore la traduzione italiana dell’ABGB (codice civile
generale, tuttora vigente in Austria). Si tratta di un codice che si occupa esclusivamente
di quello che si suole chiamare diritto civile (o appunto privato) e non contiene
prescrizioni riguardanti il diritto particolare di certi gruppi o classi di persone. A
differenza del codice francese, non è tuttavia sempre caratterizzato dalla concisione
precisa degli enunciati e lasciano all’interprete di colmare lacune di discipline spesso
tutt’altro che insignificanti.

In Italia, sin dal 1859 vengono insediate varie commissioni per procedere alla revisione
del codice albertino ed elaborare un codice per il Regno unito. Il nuovo codice viene
promulgato nel 1865 ed entra in vigore il 1° gennaio 1866, per essere esteso alla
provincia di Roma nel 1870 e alle province venete e di Mantova nel 1871.

Pur mantenendone l’impianto e la complessiva ispirazione (con la suddivisione in tre


libri: Persone - Beni, proprietà e sue modificazioni – Modi di acquistare e trasmettere la
proprietà e gli altri diritti sulle cose), il codice italiano si discosta significativamente da
quello napoleonico, migliorandolo in maniera rilevante, anche se, risulta di tanto in tanto
difettoso con regole non sempre perfettamente coordinate tra loro. Assai criticata era la
decisione di mantenere l’istituto dell’autorizzazione maritale e forse ancor più quello di
conservare l’arresto personale del debitore o la scelta di devolvere le successioni intestate
ai parenti sino al decimo grado. Manca poi una regolamentazione del contratto di lavoro,
mentre la disciplina degli infortuni occorsi alle maestranze resta ancorata alle regole
consuete della responsabilità per colpa.

6. La codificazione tedesca

In uno scritto intitolato alla “Necessità di un codice civile per la Germania” Thibaut
sostiene l’opportunità di creare, attraverso la codificazione, le basi giuridiche per
l’unificazione politica, in quell’epoca impedita dalla restaurazione del particolarismo
dinastico dei principi tedeschi conseguito alla caduta di Napoleone. Tale impostazione è
avversata tuttavia da un altro scritto, forse ancor più celebre, composto da Friedrich Karl
von Savigny – Sulla vocazione del tempo nostro per la legislazione e la scienza
giuridica del 1814 – il quale, criticata aspramente soprattutto la codificazione francese,
sostiene l’impossibilità di superare l’enorme congerie di regole sovrapposte affidando,
piuttosto, a una solida scienza del diritto il compito di rendere il “diritto non dubbio,
sicuro dalle usurpazioni dell’arbitrio, e dagli assalti dell’ingiustizia”.

Una parte cospicua degli studiosi tedeschi prende in tal modo ad elaborare un complesso
apparato di concetti nei quali le regole si trovano ordinate e sistematicamente elaborate.
In questo modo, attraverso il movimento noto come positivismo giuridico, si giunge a
ritenere che le norme derivino solamente dal sistema, dai concetti e dalle elaborazioni
degli studiosi, mentre ogni altro valore – politico, etico, economico o religioso – dovrebbe
essere mantenuto rigorosamente silente.

Ciò nonostante, nel 1865 viene presentato un progetto di unificazione del diritto delle
obbligazioni (noto come progetto di Dresda) e, dopo la fondazione del regno
bismarckiano nel 1871 ed estesa la competenza del Reich a tutto il diritto privato nel
1873, anche in Germania si avvia la fase di codificazione delle regole civilistiche.

Una prima commissione viene insediata nel 1874: il progetto presentato viene criticato da
più parti sia perché gli enunciati vi si trovano espressi con un linguaggio difficile, sia per
una netta propensione all’astrazione concettuale. Si contestano pure l’abuso della tecnica
del rinvio ad altri testi legislativi e il fatto che vi si trovino del tutto trascurate molte
tradizioni giuridiche del popolo tedesco. Una seconda commissione provvede perciò ad
apportare alcune correzioni linguistiche e ad attenuare il marcato e impersonale
individualismo che caratterizzava il primo progetto, licenziandone un secondo nel 1895,
che viene approvato nel 1896 per entrare in vigore, secondo i desideri del Kaiser, il 1°
gennaio 1900, a contrassegnare uno “scintillante” inizio di secolo.

Il BGB tedesco è un’opera caratterizzata da tecnica e da struttura sofisticata, scritta con


linguaggio tendente all’astrazione ma in ogni caso chiaro, in cui si fanno apprezzare la
raffinata precisione con la quale sono formulati gli enunciati e il rigoroso impianto
sistematico, che ne fa una “macchina calcolatrice giuridica par excellence”.

Ai libri dedicati al Diritto dei rapporti obbligatori (II), ai Diritti delle cose (III), al Diritto di
famiglia (IV) e al Diritto delle successioni (V) si trova anteposta una Parte generale ove
trovasi raccolto quell’apparato concettuale sul quale la disciplina contenuta nei libri
successivi si trova costruita. In questo senso va segnalata soprattutto la disciplina
dedicata ai Negozi giuridici, cioè alle dichiarazioni di volontà dirette a produrre effetti
giuridici poiché le altre sezioni contengono più che altro i tratti frammentari di dottrine
generali piuttosto che una vera e propria parte generale.

Il BGB è sopravvissuto all’epoca nazista per pervenire sino ai tempi nostri e, sia pure
soltanto per un periodo, è rimasto vigente anche nei territori tedeschi che componevano
la DDR o Repubblica democratica tedesca dove è stato poi sostituito da un
Zivilgesetzbuch o ZGB, che è rimasto in vigore dal 1975 sino alla riunificazione tedesca
nel 1990.

7. La codificazione italiana del XX secolo


Già nel 1906, viene istituita una commissione ministeriale per la riforma generale della
legislazione privatistica e si comincia a ipotizzare di unificare il codice civile con il
codice di commercio, di aggiornare le definizioni romane degli istituti e si auspica
l’introduzione di una disciplina del contratto di lavoro.

Nel 1915, nell’imminenza del primo conflitto mondiale, il Governo ottiene il conferimento
di pieni poteri legislativi e provvede a emanare una serie di disposizioni legislative dirette
a innovare il diritto esistente: si consente ai prefetti di riconoscere le associazioni e i
comitati di assistenza civile, si disciplina la sospensione del lavoro notturno per le donne
e i fanciulli e l’abilitazione delle donne all’ufficio di tutore. Si equipara poi la guerra alla
forza maggiore, si stabilisce la sospensione del rapporto di lavoro per i dipendenti
chiamati alle armi, la proroga dei contratti agrari e delle locazioni di fondi urbani, mentre
lo Stato diviene erede necessario quando i parenti entro il sesto grado non possano o non
vogliano accettare l’eredità loro devoluta.

Sempre all’inizio della prima guerra mondiale, abolita l’autorizzazione maritale, Vittorio
Scialoja lancia l’idea di introdurre regole comuni alla Francia e all’Italia nel campo del
diritto delle obbligazioni. La proposta si traduce in un progetto di codice italo-francese
delle obbligazioni e dei contratti che mai divenne legge, ma che ispirò la successiva
codificazione.

L’avvento del fascismo concentra, con l’intendo propagandistico del regime, gli aneliti
riformatori di molti studiosi.

In una prima fase, l’opera di codificazione procede, sotto la guida di Scialoja e poi, dopo
la sua morte nel 1933, sotto quella di Mariano D’Amelio, con ritmo assai blando.

Tra il 1937 e il 1939 vedono definitivamente la luce sia il libro Delle Persone sia quello
Delle Successioni; il primo entra in vigore nel 1939 insieme alle Disposizioni sulla legge
in generale, il secondo nel 1940.

Il libro Delle Persone si apre con il riconoscimento a tutti della capacità giuridica,
stabilendo tuttavia la derogabilità alla regola, ad opera della legislazione speciale, a causa
dell’appartenenza della persona a “determinate razze”; allo stesso modo si assoggettano
a leggi speciali i matrimoni tra persone appartenenti a “razze differenti”.

Tra il 1939 e il 1941, il processo di completamento della nuova codificazione riceve un


nuovo e decisivo impulso quando Dino Grandi assume la carica di Ministro guardasigilli
al posto di Arrigo Solmi. In origine il testo doveva comporsi di quattro libri (oltre ai due di
cui si è detto, un terzo dedicato alle Cose e diritti reali e il quarto, ove avrebbe dovuto
trovare collocazione il progetto italo-francese sulle Obbligazioni e i contratti) ma si
comincia a ipotizzare di aggiungervene un quinto, dedicato alla Tutela dei diritti, mentre
il codice di commercio viene ancora concepito come corpo autonomo e quindi separato
dal codice civile. Nel frattempo, i principi della Carta del lavoro entrano immediatamente
in vigore nel 1941: si compone di trenta postulati, dedicati allo Stato corporativo, al
contratto di lavoro, agli uffici di collocamento e alla previdenza e istruzione.

Definitivamente abbandonata l’idea del progetto italo-francese viene istituita da Grandi


una nuova commissione. Ultimato il progetto di nuovo codice di commercio, si ritengono
superate le ragioni storiche che ne giustificavano l’autonomia dal codice civile, grazie
all’ordinamento corporativo e già alla fine di gennaio del 1941 si sottopongono al Re i
testi del libro Della proprietà, Delle obbligazioni, Del lavoro (che inglobava il codice di
commercio) e Della tutela dei diritti, dopo un lavoro di unificazione e coordinamento,
l’intero codice entra in vigore il 21 aprile 1942.

Nel complesso l’opera codificatoria – che, a differenza di quella tedesca, si deve


essenzialmente a docenti universitari e, in minor misura ad alti magistrati - è
tecnicamente assai apprezzabile: tuttavia, soprattutto nel primo libro, dedicato alle
persone, si evidenziano alcune lacune di linguaggio, di precisione concettuale e di
coordinamento.

Riguardo all’inclusione del codice di commercio nel codice civile si è parlato di


“commercializzazione” del diritto civile, poiché l’operazione di accorpamento non
dev’essere considerata soltanto dal punto di vista topografico quanto piuttosto come
risultato di una precisa scelta di politica del diritto, tendente a ridurre all’unità l’intera
materia del diritto delle obbligazioni. Il baricentro d’attenzione viene spostato dalla
proprietà verso l’impresa, scegliendo, tra le soluzioni diverse che i primi codici unitari
fornivano, quella tratta dal codice commerciale.

Nonostante gli auspici di alcuni studiosi, specialmente Santi Romano, manca alla nostra
codificazione una parte generale sul modello del primo libro del BGB ma il quarto libro
di apre con una trattazione generale del rapporto obbligatorio (non tuttavia del negozio
giuridico).

Le vicende belliche hanno a lungo mantenuto sulla storia della codificazione una spessa
coltre di nebbia, squarciata soltanto di recente da indagini archivistiche su documenti
inediti.

8. Il codice civile, la Costituzione repubblicana e i vincoli derivanti


dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali
Caduto il fascismo, e cancellate le incrostazioni più evidenti del regime (la Carta del
lavoro, i riferimenti al diritto corporativo e la vergognosa legislazione razzista a tutela
della “razza ariana”) ci si domanda se il resto del codice debba sopravvivere alla nuova
epoca o vada abrogato.

Tuttavia, all’opera di codificazione aveva partecipato la gran parte dei migliori studiosi
dell’epoca, quindi una nuova stesura si sarebbe ritrovata inevitabilmente nelle loro mani;
inoltre le esigenze primarie del periodo post-bellico non si indirizzavano verso la
riscrittura dei codici, ma verso la ricostruzione fisica e morale di una nazione distrutta
dalla guerra.

Inoltre occorreva verificare se il testo del codice presentasse tratti tali da poterlo
considerare non compatibile con la nuova vita democratica dell’Italia repubblicana.

Così come il BGB è sopravvissuto indenne al regime nazista, così è avvenuto per il nostro
codice del 1942. Infatti, è compito dell’interprete quello di far rivivere nell’applicazione
ai casi concreti il testo del codice, ricavandone le norme corrispondenti alla tavola di
valori dichiarata dall’art.117 Cost. e, da tale punto di vista, il carattere generale e
astratto delle previsioni civilistiche ha favorito questa operazione. Il giudice, al quale tale
operazione non sembri possibile di fronte a certe previsioni, dovrà sollevare questione di
legittimità alla Corte costituzionale che, se l’accoglie, con sentenza eliminerà lo stesso
enunciato con effetto retroattivo (ossia lo dichiara tanquam non esset, cioè come se non ci
fosse).

Un discorso analogo vale quanto alla necessità per l’interprete di leggere gli enunciati
rinvenibili nel codice civile alla luce della normativa europea: a tal fine il giudice può
investire del compito di ricercare la norma la Corte di giustizia di Lussemburgo, la
quale fornisce l’interpretazione esatta dell’enunciato europeo da applicare alla
controversia e, indirettamente, di quello di provenienza italiana che eventualmente
appaia contrastante con l’altro.

Inoltre, secondo gli artt. 11 e 117 Cost., la legislazione ordinaria è tenuta a rispettare
quei vincoli che derivano dagli obblighi internazionali e quindi anche da quelli che
discendono dalle Convenzioni internazionali (oltre che dalle norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute) tra le quali spicca la Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma nel 1950).

Nel periodo repubblicano, il codice civile ha conosciuto poi importanti interventi


novellatori: la riforma del diritto di famiglia del 1975 e la recente legge in materia di
filiazione del 2012; la disciplina delle società di capitali del 2003; la riforma
dell’interdizione e dell’inabilitazione del 2004; quella del condominio del 2012.

Altri importanti interventi hanno riguardato la riscrittura degli enunciati dall’esterno del
codice, dove si sono moltiplicate discipline di settore riguardanti la materia civile, che
spesso hanno assai influito su alcuni istituti soprattutto per adeguarli al mutato contesto
socio-economico (locazioni immobiliari, affitto di fondi rustici, divorzio, affidamento e
adozione di minori) o tecnico-scientifico (procreazione medicalmente assistita) o a causa
dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea (disciplina della concorrenza e del
mercato, Codice di consumo).

ISTITUTO: insieme di norme aventi finalità unitaria.

La proliferazione di enunciati collocati fuori dal codice civile (che è stata definita
“decodificazione”) non lo ha privato di un ruolo pur sempre centrale.: la legislazione
extra codicem, in genere, si rivela poco sistematica e soprattutto non autosufficiente,
visto che presuppone strutture concettuali ricavabili soltanto dallo stesso codice civile.
SEZIONE III – L’INTERPRETAZIONE E LE SITUAZIONI GIURIDICHE

9. L’art 12 delle disposizioni sulla legge in generale, l’analogia e la


giurisprudenza
Art. 12 prel. INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE

Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal
significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del
legislatore.

Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo
alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora
dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.

L’interprete, se non può andare oltre il perimetro semantico definito negli enunciati, per
comprenderne pienamente la portata non può che indagarne il loro significato esatto,
profondo: “l’intento del legislatore”, cioè la funzione della norma quale risulta dal
contesto ove si trova l’enunciato (interpretazione logico-sistematica).

Tradizionalmente l’interpretazione si definisce:

- “letterale” quando in sostanza v’è corrispondenza tra ambito semantico


dell’enunciato e norma
- “restrittiva” o “estensiva” quando si deve restringere l’ambito semantico o lo si
deve allargare per reperire la norma che vi si annida
- “interpretazione storica” quando nel valutare l’enunciato si guardi alla sua
genesi, cioè alla formazione del testo
- “adeguatrice” quando l’interprete deve leggere gli enunciati alla luce della
Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario
- “evolutiva” quando l’interprete deve leggere gli enunciati alla luce dell’evoluzione
storica del contesto sociale-culturale-economico.

Quando la norma non sia rinvenibile nel perimetro semantico degli enunciati, l’art. 12, 2
comma, prel. consente di guardare ad enunciati riguardanti casi simili o materie
analoghe, se ciò porta a ritrovarvi una norma che consenta di risolvere la controversia in
maniera conforme alla tavola di valori (analogia legis); altrimenti le norme andranno
ricavate direttamente dalla tavola assiologica (analogia iuris).
L’analogia è preclusa, oltre che per gli enunciati che prevedono reati, per quelli che
hanno carattere e portata eccezionale: poiché derogano a un principio per assolvere a
una finalità precisa, non avrebbe senso fare di un’eccezione appunto una regola.

L’interprete, di fronte alla difficoltà di applicare l’enunciato ai fatti giuridici controversi,


può inoltre valersi della “giurisprudenza”, cioè dagli insegnamenti tramandati dagli
studiosi attraverso i loro scritti (“giurisprudenza dottrinale” o semplicemente
“dottrina”), che a loro volta si trovano variamente recepiti nelle decisioni della Corte di
cassazione (“giurisprudenza forense”).

La Corte di cassazione, quale organo supremo della giustizia, ha il compito di


assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge” e “l’unità del
diritto oggettivo nazionale”. In sostanza, da un lato è chiamata a determinare, in relazione
a determinati fatti giuridici, l’esatta applicazione dell’enunciato (funzione nomofilattica)
dall’altro deve ricomporre all’unità le differenti interpretazioni date agli enunciati dai
diversi giudici dispersi sul territorio nazionale. Essendo articolata in diverse sezioni
(ciascuna composta da cinque consiglieri) può trovarsi essa stessa costretta a conciliare
le applicazioni differenti di enunciati identici a fatti simili: in tal caso giudica allora “a
Sezioni unite”, cioè con l’intervento di nove consiglieri. Lo stesso accade quando le venga
prospettata una questione di massima di particolare importanza.

Il ruolo di assoluto rilievo ricoperto dalla Corte nel sistema è riconosciuto dall’art. 111
Cost., che consente a chiunque di sottoporre al controllo della corte la ricerca e
l’applicazione dell’enunciato compiuto da qualunque giudice (purché non si sia ancora
formato il giudicato formale e con le eccezioni previste dallo stesso articolo).

10. I fatti, gli atti e i negozi giuridici. I c.d. diritti potestativi (o


pretese formative) e l’onere
La norma misura un accadimento o una situazione: quanto viene misurato si chiama in
teoria generale “fatto giuridico”.
La grande categoria dei fatti giuridici viene a sua volta distinta tra:

- “fatti naturali” quando gli accadimenti e le situazioni possono essere considerati


indipendenti dalla volontà consapevole di una persona
- “fatti umani” (atti o azioni) detti pure “atti giuridici”

Gli atti giuridici quando siano misurati dalla norma, e quindi rilevanti, possono essere:

- leciti, se non si pongono in contrasto con alcun obbligo o dovere posto


dall'ordinamento giuridico;
- illeciti, se si pongono in contrasto con un obbligo o dovere posto dall'ordinamento
giuridico.

Gli atti leciti possono essere a loro volta:

- meritevoli, se conformi alla tavola assiologica


- immeritevoli, se, pur non essendo espressamente riprovato dall’ordinamento,
siano diretti a realizzare interessi non coerenti con quella stessa tavola.

Gli atti giuridici, leciti o illeciti, meritevoli o immeritevoli, sono poi distinti in:
- atti in senso stretto, quando la norma richiede che siano posti in essere in
maniera consapevole e volontaria, ma non si pretende che siano diretti a
disciplinare gli interessi di chi li pone in essere (es. costituzione in mora, diffida ad
adempiere; dichiarazioni di scienza, come le dichiarazioni rese dal testimone, le
confessioni, le registrazioni contabili)
- atti negoziali (o negozi giuridici), quando, oltre la consapevolezza e la volontà
dell’atto, sia presente la consapevolezza e la volontà degli effetti pratici che l’atto
sia diretto a produrre, effetti che consistono nel dettare per l’avvenire regole
riguardanti i propri interessi patrimoniali (testamento, contratto) o la propria
persona (uso del proprio nome o dei dati personali).

Il codice civile italiano non detta una disciplina generale del negozio giuridico, in modo
che la categoria dev’essere ricostruita a posteriori, comparando le figure di cui essa
costituisce manifestazione, come il contratto, il testamento, l’atto unilaterale di
fondazione, l’imposizione del vincolo.

Il negozio illecito (come quello lecito ma immeritevole) non produce effetti giuridici, mentre
l’atto in senso stretto, se illecito, può comportare l’obbligo di risarcire il danno ingiusto
che abbia arrecato a un terzo.

Talvolta viene riconosciuto a un determinato soggetto di produrre con un proprio


comportamento effetti giuridici predeterminati dalla norma, per la realizzazione di un
interesse, anche se ciò può comportare effetti sfavorevoli per un altro soggetto. Si parla in
questo caso di “diritto potestativo” o anche di “pretesa formativa” mentre la situazione
di chi subisce l’esercizio del potere è detta “soggezione”. L’esercizio della pretesa
formativa avviene con una dichiarazione espressa o tacita, con un comportamento,
attraverso un’istanza amministrativa o ancora tramite la domanda giudiziale volta a
conseguire una sentenza. In tale ultimo caso si parla di “diritti potestativi ad attuazione
giudiziaria”.

Strettamente affine al diritto potestativo è la figura dell’“onere” (o “obbligo potestativo”),


che indica il procedimento con cui si chiede al soggetto di porre in essere un determinato
atto giuridico, quando intende realizzare un certo effetto (es. l’onere di trascrivere un
atto).

11.Le vicende, l’obbligo e le situazioni soggettive correlate

I fatti giuridici, se rilevanti per una norma, possono essere efficaci, cioè produrre effetti
giuridici nuovi. Un fatto rilevante può quindi essere pure efficace, mentre il fatto efficace
deve necessariamente essere rilevante. Occorre ribadire che i fatti giuridici appartengono
alla realtà fenomenica, e come tali possono essere apprezzati con i cinque sensi, mentre
gli effetti giuridici vanno ricondotti alla metafisica e come tali possono essere soltanto
apprezzati con il pensiero.

Tali effetti sono detti anche “vicende” e consistono essenzialmente:

a. nel valutare un certo comportamento selezionando solo la condotta che verrà


considerata doverosa (“vicende costitutive”);
b. Nel modificare la qualità del comportamento atteso dal soggetto mantenendone la
doverosità (“vicende modificative”);

c. Infine nel rendere libera la scelta dei comportamenti che il soggetto potrà
osservare (“vicende estintive”).

Ai minimi termini, gli effetti giuridici si risolvono sempre in un obbligo di osservare un


certo comportamento. In altre parole la norma, misurato il fatto, seleziona i
comportamenti futuri e decide che un determinato comportamento sarà doveroso e tutti
gli altri quindi anti doverosi.

Spesso quell’obbligo è indirizzato verso uno o più destinatari determinati i quali,


attraverso l’azione, possono conseguirne coattivamente l’osservanza. La posizione nella
quale si trova il destinatario dell’obbligo si chiama allora “diritto soggettivo”: come
l’obbligo appartiene all’insieme delle posizioni giuridiche soggettive.

L’impostazione ottocentesca identificava il diritto soggettivo in una signoria di volontà


protetta dall’ordinamento, cioè in una facoltà di volere o di agire contro altre persone o
sulle cose, al fine di realizzare gli scopi che l’ordinamento giuridico riconosce al titolare. Il
diritto soggettivo definiva in tal modo solamente il potere (o volontà).

In seguito si è posto l’accento sull’interesse identificato in qualche modo con il diritto


soggettivo (interesse giuridicamente protetto).

Il diritto soggettivo può, quindi, definirsi come il potere di agire nel proprio interesse, o
di pretendere che qualcun altro tenga un determinato comportamento nell’interesse del
titolare del diritto.

Senza l’intervento degli organi giudiziari il titolare della posizione di vantaggio si


troverebbe costretto a farsi giustizia da sé ponendo il conflitto fuori dal controllo sociale.

L’obbligo, al quale il soggetto è tenuto, e la coattività, che ne assicura la doverosità, si


giustificano poiché devono essere correlati a un interesse che la norma ritiene meritevole
di protezione giurisdizionale.
L’interesse esprime quindi il fondamento e il limite dell’obbligo.

INTERESSE: un’esigenza o un bisogno di beni e valori da realizzare.

Il diritto soggettivo individua il destinatario dell’obbligo in colui che è portatore


dell’interesse: la “potestà” esprime invece la situazione giuridica in cui la doverosità
dell’agire è indirizzata alla realizzazione di un interesse che un determinato destinatario
condivide necessariamente con la collettività (detto “interesse legittimo “). Ad esempio
l’autorità che rilascia un permesso di costruire è tenuta a osservare un certo
comportamento, sia perché deve conseguire l’interesse di chi glielo richiede (che è titolare
appunto dell’interesse legittimo), sia perché deve realizzare l’interesse dei consociati allo
sviluppo armonico e ordinato delle costruzioni.

12. La titolarità delle situazioni soggettive e le vicende traslative (o


successioni)
La titolarità esprime il collegamento tra un soggetto e una determinata situazione
giuridica (l’obbligo è quanto gli corrisponde): quando il legame sia attuale si parla di
“appartenenza”, quando sia soltanto virtuale, perché esiste un titolo rilevante ma
inefficace che consente di acquistarla, di “spettanza”.

Per il principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione può trovarsi obbligata ogni
persona vivente, che, proprio perché persona, ha l’attitudine ad assumere ogni altra
situazione giuridica soggettiva (quell’attitudine si chiama “capacità giuridica”, art. 1
c.c.). Essa è limitata tuttavia alla persona vivente: si perde infatti nel momento della
morte. Al concepito si riconosce in alcuni casi la spettanza di situazioni giuridiche ma
l’appartenenza presuppone la nascita dell’individuo (art. 1, 2 comma, c.c.).

L’attitudine ad acquistare situazioni giuridiche viene riconosciuta pure quale effetto


giuridico in alcuni atti (nel diritto privato essenzialmente il contratto, il testamento e
l’atto unilaterale tra vivi) capaci di dar vita a centri di imputazione di situazioni
giuridiche differenti dalle persone fisiche che li hanno posti in essere (le persone
giuridiche).

È poi possibile che una situazione giuridica sia priva di un titolare (si parla allora di
“situazioni adespoti”): la mancanza del titolare, di regola, non comporta l’estinzione
della situazione stessa.

Le “vicende traslative” o successioni indicano quel particolare effetto modificativo, che


consiste nel subentrare di una persona a un’altra in una situazione giuridica, che quindi
si trasferisce da un titolare a un altro, ferma restando l’identità della situazione
medesima.

Colui che ne perde la titolarità si dice “autore” o “dante causa”, mentre chi la riceve si
dice rispettivamente “successore” o “avente causa”.

A seconda della natura dell’atto o del fatto che dà causa alla vicenda si distingue la
vicenda successoria tra vivi (o inter vivos) o a causa di morte (mortis causa).

La vicenda, che riguarda l’universalità o una quota dei diritti di un soggetto, si dice “a
titolo universale” diversamente viene detta “a titolo particolare”. Solamente le vicende
traslative a causa di morte possono essere tanto a titolo universale quanto a titolo
particolare, mentre quelle tra vivi possono essere esclusivamente a titolo particolare.

SEZIONE VI - LA TUTELA DEI DIRITTI E LE PROVE

13. Le situazioni giuridiche e l’azione


Si chiama azione (latino actio) lo strumento con il quale si domanda la protezione
giurisdizionale della posizione giuridica soggettiva. Può domandare protezione anche chi
non sia titolare della situazione soggettiva, ma in tal caso la protezione gli dovrà essere
negata.

Il titolare del diritto soggettivo può esercitarlo senza bisogno di ricorrere al giudice,
quando l'obbligato tenga spontaneamente il comportamento dovuto.

Diversamente dovrà rivolgersi allo Stato per ottenere, attraverso l'azione, un


provvedimento che sottoponga l'obbligato alla soggezione del potere pubblico. L’azione è
al contempo presupposto e limite per l'esercizio del potere giurisdizionale, giacché la
cooperazione dell’obbligato si consegue coattivamente, soltanto se sia stata domandata al
giudice con le forme stabilite dal codice di procedura civile (principio della domanda).

L’art. 2907 c.c. stabilisce infatti che “alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede
l'autorità giudiziaria”, precludendo così a chiunque altro di provvedervi. Si aggiunge poi
che l'autorità provvede “su domanda di parte”, vietando in tal modo l'iniziativa ufficiosa
del giudice al quale inoltre è richiesto di giudicare “su tutta la domanda e non oltre i limiti
di essa” (art. 112 c.p.c.).

La tutela assicurata dallo Stato alle situazioni soggettive consiste anzitutto


nell’accertamento del rapporto giuridico, quando ne sia incerta la sussistenza o la
consistenza, attraverso la statuizione (deliberazione, disposizione, prescrizione)
contenuta nella sentenza che definisce il processo di cognizione (processo volto
all’accertamento del rapporto giuridico) con l’efficacia del giudicato. Si parla al proposito
di cosa giudicata, sia per indicare che il processo di formazione della sentenza si è
esaurito (il “giudicato formale”), perché essa non è soggetta ad appello o ricorso
ordinario per cassazione, sia per indicare il vincolo di irretrattabilità dell'accertamento
stesso tra le parti, gli eredi e gli aventi causa (art. 2909 c.c.). Si vuole in tal senso
stabilire che ogni ulteriore accertamento sull' identico rapporto da parte di un altro
giudice è precluso, essendo così assicurato per il futuro l’esito del processo (il “giudicato
sostanziale”).
La formula "cosa giudicata formale" indica una decisione non più impugnabile in quanto i mezzi
di impugnazione sono già stati proposti o non sono più proponibili per la scadenza dei relativi
termini. Il giudicato formale è causa di quello sostanziale, che consiste nel valore vincolante della
sentenza tra le parti, i loro eredi o aventi causa (art. 2909 del c.c.).

All’accertamento contenuto nella sentenza si può accompagnare l’attribuzione in capo a


una delle parti del processo di un potere di azione, “l’azione esecutiva”, che consente il
coattivo soddisfacimento del diritto soggettivo attraverso l’espropriazione forzata dei beni
del debitore o l'esecuzione in forma specifica: si parla in tal caso di “sentenze di
condanna”.

Delle “sentenze costitutive”, cioè di quelle che danno attuazione giudiziaria a una
pretesa formativa, si è già detto invece nel paragrafo 10.

14. Il divieto di non liquet e la decisione sul fatto incerto


L’esercizio dell'azione presuppone, in capo a chi la esperisce cioè all'attore,
l'affermazione (o allegazione):

a) che uno o più fatti giuridici si siano verificati nella realtà fenomenica e
b) che una norma ne abbia valutata la rilevanza e l'efficacia.

La ricerca e l’applicazione della norma, che riconosce rilevanza ed efficacia ai fatti


allegati, compete al giudice per la regola iura novit curia (il giudice conosce le norme
giuridiche), mentre dipende dalla parte stessa convincere il giudice che i fatti o atti o
negozi allegati si sono concretamente verificati.

La controparte, cioè il convenuto, potrà nel difendersi, contestare che i fatti o gli atti o i
negozi si siano verificati nella realtà fenomenica.
Il convenuto può affermare poi, attraverso un eccezione sostanziale o di merito, che i
fatti allegati dall’attore si sono sì verificati ma risultano attualmente inefficaci a causa di
un fatto impeditivo, contestuale a quello allegato, oppure di un fatto modificativo o
di un fatto estintivo, cioè un fatto sopravvenuto a quello allegato dall' attore che lo ha
modificato o estinto.
Ad esempio: Tizio afferma “ho concluso un contratto con Caio, che si è obbligato a pagarmi il 1 gennaio 2010
10.000 € (cioè Caio ha l’obbligo di pagarmi 10.000 € o se si vuole ho il diritto soggettivo di ricevere 10.000 €)
quale prezzo per un autovettura che gli ho venduto”. Il fatto costitutivo è appunto il contratto. Caio potrà
sostenere che quel contratto non è mai stato concluso (quindi contestare il fatto costitutivo) oppure potrà
allegare diversi fatti nuovi “abbiamo pattuito che il pagamento fosse dovuto il 1 gennaio 2020” (il fatto
impedisce a Tizio di far valere attualmente la sua pretesa); “ho già pagato 10.000 €” (il fatto ha estinto
l’obbligo di Caio) oppure con un contratto successivo abbiamo modificato il termine di pagamento
prorogandolo al 1 gennaio 2020” (il fatto allegato in via d’eccezione ha modificato le modalità di esecuzione
dell’obbligo di Caio).

La valutazione giuridica dei singoli fatti, che compete al giudice, sarà la seguente: il contratto ha forza di
legge tra le parti, obbliga le parti a quanto è in esso espresso ed è fonte di obbligazioni: chi l’ha concluso ha
quindi l’obbligo di darvi esecuzione. L'adempimento esatto della prestazione libera il debitore quindi, se Caio
ha pagato, Tizio non può esigere più alcunché da lui; oppure, se è stato pattuito un termine, il creditore non
può esigere la prestazione prima della scadenza.

Il giudice è tenuto a formare il proprio convincimento sulla verità dei fatti stessi, se
questa sia contestata dall’attore o dal convenuto, esclusivamente sulle prove proposte
dalle parti, con le forme stabilite nel codice di procedura civile, essendogli precluso di
fidare sulle sue personali conoscenze (divieto della scienza privata del giudice), inoltre
l'articolo 111 Cost. gli impone l’imparzialità.

Dovrà inoltre dare conto nella motivazione della sentenza delle ragioni che lo hanno
indotto a ritenere che un fatto allegato si è effettivamente verificato oppure no.

Può accadere tuttavia che il giudice dubiti che uno o più tra i fatti allegati dalle parti si
siano verificati. In tali casi gli è vietata la decisione di non liquet: egli cioè non può
rifiutarsi di decidere, ma è obbligato ad assumere una decisione valendosi della regola
che implicitamente si trova codificata all’articolo 2697 del codice civile: un fatto non
provato deve considerarsi un fatto non accaduto.

Art. 2697 Onere della prova

Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il
fondamento.
Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto
deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.

L'onere di provare un fatto ricade su colui che invoca proprio quel fatto a sostegno della propria tesi: chi
vuol far valere in giudizio un diritto deve quindi dimostrare i fatti costitutivi, che ne hanno determinato
l'origine. Colui che contesta la rilevanza di tali fatti in giudizio ha invece l'onere di dimostrarne l'inefficacia, o
provare eventuali altri fatti che abbiano modificato o fatto venir meno il diritto vantato, chiamati
rispettivamente fatti impeditivi, modificativi ed estintivi.

A Caio che afferma, senza riuscire a convincere il giudice, di aver pagato la somma
pretesa da Tizio si risponderà quindi che in realtà la sua affermazione falsa,
condannandolo a pagare nuovamente. Ciò contribuisce a spiegare perché gli operatori
del mondo giuridico tendano a precostituirsi una pluralità di prove, in genere
documentali, pur quando esse non siano richieste dal legislatore per la validità dell'atto
giuridico.
L’articolo 2697 si limita ad enunciare la distinzione tra i fatti giuridici allegati dalle parti,
lasciando all’interprete di stabilire quando essi siano costitutivi oppure all’inverso
impeditivi, modificativi o estintivi e quindi se il rischio del fatto incerto (cioè di non
essere riusciti a convincere il giudice quanto alla sussistenza di quel fatto) vada a danno
dell'attore o del convenuto. Non è difficile distinguere infatti i fatti modificativi e quelli
estintivi, poiché essi sono cronologicamente sopravvenuti rispetto a quelli costitutivi e
impeditivi, mentre per distinguere tra queste ultime due categorie si tende a guardare se
la sussistenza di un certo fatto sia normale nell’esperienza concreta, costituendo in
qualche modo una regola, oppure sia anormale e quindi si verifichi in via d’eccezione:
alla regolarità dell’allegazione corrisponde un fatto costitutivo, all’eccezionalità un fatto
impeditivo.

15. La prova dei fatti giuridici: profili generali


Il convincimento del giudice deve formarsi sulle prove proposte dalle parti, sempre che i
fatti non risultino incontroversi tra le parti stesse che non li hanno contestati. Fanno
eccezione soltanto i fatti notori, che il giudice può porre a fondamento della decisione
senza bisogno di prova: fatti noti alla generalità delle persone di media cultura nel luogo
e nel momento in cui si svolge il processo.

Il mezzo di prova è ciò che fornisce al giudice l’esperienza di un fatto.

La nostra legislazione contiene nel codice processuale enunciati diretti a regolare il modo
grazie al quale il singolo mezzo di prova entra nel processo e a determinarne la struttura,
l’ammissibilità e l’efficacia.

In linea generale il giudice valuta i singoli mezzi di prova secondo il suo prudente
apprezzamento, cioè attraverso la sua esperienza e il suo raziocinio. Eventualmente
potrà nominare, quando occorrano nozioni di tipo tecnico scientifico, un esperto detto
consulente tecnico d'ufficio. Esistono tuttavia ipotesi eccezionali nelle quali gli
enunciati legislativi predeterminano l'efficacia di alcuni mezzi di prova, che per questo
vengono ascritti all’insieme delle prove legali. In tal modo essi si trovano sottratti alla
libera valutazione del giudice.

Oltre alla distinzione tra i mezzi liberamente apprezzabili da quelli legali, si distinguono
anzitutto i mezzi di prova precostituiti, che consistono in cose preesistenti al processo (i
documenti), dai mezzi di prova semplici o costituendi, perché si formano durante il
processo attraverso un’apposita attività. E il caso della prova testimoniale, delle differenti
specie di giuramento e della confessione giudiziale.

16. Le prove documentali


Nelle prove documentali è possibile distinguere un elemento materiale (la carta, il
codice binario che fornisce il suono all’immagine del fatto e così via), e l'elemento
intellettuale, ossia il contenuto. Per fornire la rappresentazione di un fatto controverso,
il documento deve anzitutto essere attribuito al soggetto che l’ha formato: se si tratta di
documenti scritti di pugno si potrà argomentare in base alla calligrafia, se si tratta di
rappresentazioni fonografiche, dalla voce e così via. In caso di scrittura privata, cioè un
documento scritto recante una sottoscrizione, l’articolo 2702 attribuisce l'insieme delle
dichiarazioni contenute nel documento a chi appunto vi ha apposto la firma.
La sottoscrizione è data per vera e quindi il giudice non può dubitare della provenienza
delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, a meno che non venga proposta la querela di
falso in tre casi:

1. Quando sia stata autenticata, cioè quando un notaio o un altro pubblico ufficiale
a ciò autorizzato attesta che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza;
2. Quando sia stata riconosciuta, anche tacitamente, da colui contro il quale la
scrittura è stata prodotta in giudizio;
3. Quando sia stata verificata giudizialmente.

La data della scrittura privata non autenticata può essere contestata da una delle parti,
in tal modo costringendo l'altra parte a darne la prova. Tra le parti della scrittura stessa
la prova della data può essere fornita con qualsiasi mezzo e, se la scrittura sia stata
riconosciuta o verificata, la data appostavi si ha per provata, salvo prova contraria. Nelle
controversie insorte tra chi sottoscrisse la scrittura e un terzo la data della scrittura è
viceversa provata:

1. Dal giorno in cui è stata registrata;


2. Dal giorno della morte o sopravvenuta impossibilità fisica di colui o di uno di
coloro che l’hanno sottoscritta;
3. Dal giorno in cui il contenuto della scrittura è riprodotto in atti pubblici;
4. Dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo
l’anteriorità della formazione del documento (ad esempio l'apposizione del timbro
dell'ufficio postale).

Il telegramma, strumento di comunicazione ormai poco utilizzato, pone gli stessi


problemi della scrittura privata ma le particolari modalità di trasmissione richiedono
opportuni adattamenti. Questo si presume fino a prova contraria conforme all’originale
anche se, per evitare errori di trasmissione, il mittente può chiedere che il testo sia
collazionato. Per quanto riguarda la provenienza può risultare necessario domandare al
giudice di ordinare al gestore del servizio postale di depositare l’originale consegnato
all’ufficio di partenza. Se il documento risulta firmato dal mittente o è scritto di pugno,
oppure se l’originale è stato consegnato direttamente da chi appare come il mittente, in
caso di contestazione si dovrà procedere al riconoscimento della sottoscrizione o del testo
dell’originale del telegramma.

Le carte e registri domestici se, come accade in genere, non recano la sottoscrizione di
chi li predispone, fanno comunque prova contro chi li ha scritti, quando annunciano un
pagamento ricevuto o contengono l’espressa menzione che la notazione è stata eseguita
per supplire la mancanza di titoli in favore di chi è indicato come creditore.

Una regola analoga vale per la notazione fatta dal creditore in calce, in margine o a tergo
di un documento rimasto in suo possesso se tende ad accertare la liberazione del
debitore o la notazione fatta dal creditore in calce, a margine o a tergo di una quietanza o
di un esemplare del documento del debito posseduto dal debitore.

Riguardo l'efficacia probatoria delle riproduzioni meccaniche, ad esempio delle


riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, delle registrazioni
fotografiche, si pone, come per le scritture, un problema di paternità, di datazione e di
ricostruzione ed attendibilità del contenuto. Il giudice, se è convinto dell’ imputazione e
della genuinità nonostante il disconoscimento, può fondare la propria decisione anche
soltanto sulla riproduzione.
Le copie fotografiche di un documento hanno la stessa efficacia probatoria
dell’originale, salvo che siano state disconosciute e sempre che la loro conformità
all'originale non sia stata attestata da un pubblico ufficiale, perché in tal caso la parte
che li vuole disconoscere deve proporre la querela di falso.

17. (Segue): l'atto pubblico


L'«atto pubblico» è il documento redatto, da un notaio o da un altro pubblico ufficiale
autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato (art. 2699).

L'atto pubblico è un mezzo di prova legale, poiché al giudice è precluso ogni


apprezzamento in ordine alle seguenti circostanze previste dall’art. 2700:

1. della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che appare averlo formato;
2. delle dichiarazioni delle parti;
3. dei fatti che il pubblico ufficiale dichiara di avere compiuto;
4. dei fatti che il pubblico ufficiale attesta siano avvenuti in sua presenza
5. della data e del luogo in cui l'atto risulta formato.

L'incontestabilità delle circostanze appena enumerate agevola le controversie poiché


limita il numero delle situazioni in cui può essere necessario rivolgersi al giudice.

Sono tuttavia necessarie tre importanti precisazioni:

1. poiché la fede privilegiata dell’atto pubblico riguarda soltanto le circostanze


enumerate, tutte le altre restano sottoposte al prudente apprezzamento del
giudice: ad esempio, i giudizi e le valutazioni formulate dal pubblico ufficiale
durante la redazione dell'atto o la verità intrinseca delle dichiarazioni delle parti,
che il pubblico ufficiale non è in grado di accertare;
2. il documento formato da un pubblico ufficiale incapace, incompetente, o senza
l'osservanza delle formalità prescritte, va considerato alla stregua di una
scrittura privata, quando sia stato sottoscritto dalle parti (art. 2701);
3. l'incontestabilità delle circostanze indicate all'art. 2700 può essere superata
attraverso un'apposita domanda di accertamento, detta appunto «querela di
falso», con la quale si chiede al giudice di stabilire con l'efficacia del giudicato che
una o più tra le circostanze stesse è falsa.

Della sentenza di rigetto della querela viene fatta menzione sull’originale del documento
a cura del cancelliere e la parte che l'ha proposta viene condanna a una pena pecuniaria
di importo modesto. Quando viceversa la querela venga accolta, ne viene ordinata la
cancellazione totale o parziale, secondo le circostanze e, se è il caso, «la ripristinazione, la
rinnovazione o la riforma dell'atto o del documento».

18. La testimonianza e la confessione


La «testimonianza» è la narrazione che un terzo estraneo alla lite espone al giudice, dopo
aver prestato giuramento, quanto alla verità di un fatto di cui abbia avuto conoscenza o
di cui altri l'abbia informata (testimonianza de auditu).

Essa è prova liberamente apprezzabile dal giudice, di cui il legislatore fa mostra di


diffidare alquanto, visto che tale prova non è ammessa, quando ha per oggetto «patti
aggiunti o contrari» al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la
stipulazione è stata anteriore o contemporanea (art. 2722). Si consente invece al giudice
di ammettere la prova testimoniale di patti aggiunti o contrari al contenuto di un
documento, che si assumano successivi a questo, se è verosimile che aggiunte o
modificazioni verbali fossero state fatte, in relazione alla qualità delle parti, alla natura
del contratto e a ogni altra circostanza (art. 2723).

La testimonianza è tuttavia ammissibile in ogni caso se vi è un principio di prova per


iscritto, o il contrante si trovi nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una
prova scritta o abbia perduto senza colpa lo scritto che gli forniva la prova (art. 2724).

La prova non è invece ammissibile per i contratti, per il pagamento e per la remissione
del debito, salvo che il contraente non abbia senza colpa perduto il documento che gli
forniva la prova:

1) quando il valore dell'oggetto eccede la cifra di € 2,58;


2) quando sia richiesta la forma scritta a pena di nullità o sia richiesta dalla
legge o dalla volontà delle parti la prova per iscritto (come accade per
l'assicurazione, o per la transazione).

Il giudice può desumere argomenti di prova dal contegno osservato dalle parti durante il
processo ma il nostro sistema non conosce la testimonianza della parte. Le
dichiarazioni rese tuttavia da questa nel processo o fuori di esso possono rivelarsi assai
credibili, quando presentino un contenuto sfavorevole allo stesso dichiarante e favorevole
all'altra parte.

La confessione è appunto una dichiarazione di scienza che la parte fa di un certo fatto


giuridico davanti al giudice («confessione giudiziale») ovvero fuori dal processo, alla
parte o a un terzo («confessione stragiudiziale»).

La confessione giudiziale può essere spontanea o provocata mediante interrogatorio


formale reso nel processo (art. 2733): essa è mezzo di prova legale, quando non verta su
fatti relativi a diritti non disponibili, e non è sottoposta quindi al libero apprezzamento
del giudice.

La confessione stragiudiziale ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale,


quando sia resa alla parte o a chi la rappresenta (art. 2735, 1° Comma): per poterla
introdurre nel processo occorrerà tuttavia ricorrere alla prova documentale o a quella
testimoniale (purché non verta su quegli oggetti per i quali tale ultima prova è
inammissibile). Un esempio è dato dalla descrizione della dinamica di un sinistro
stradale contenuta nei moduli di constatazione amichevole d'incidente: essi costituiscono
scritture private e possono contenere dichiarazioni di fatti sfavorevoli a chi li ha
sottoscritti e favorevoli alla controparte.

La confessione ha in genere un contenuto inscindibile, in modo che le dichiarazioni


aggiunte di altri fatti o circostanze, capaci di infirmare l'efficacia del fatto confessato o di
modificarne o estinguerne gli effetti, fanno egualmente prova piena se non sono
contestate dall'altra parte. In tale ultimo caso, l'efficacia probatoria delle dichiarazioni è
sempre rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Lo stesso accade quando la
confessione stragiudiziale sia resa a un terzo o sia contenuta in un testamento.

La confessione può infine essere «revocata», ossia resa inefficace da un atto ad essa
sopravvenuto, quando sia stata determinata da errore di fatto, attraverso la prova cioè
che il fatto confessato non è vero ma il confidente lo aveva erroneamente creduto tale,
oppure che la dichiarazione di scienza è stata estorta con minaccia (o «violenza») (art.
2732).

19. Il giuramento e le presunzioni


Secondo la regola dell'onere della prova, il fatto che pure si sia verificato, ma del quale
non si sia in grado di dare la prova, deve essere considerato dal giudice come non
verificato. Per attenuare il rigore di un simile meccanismo, il nostro sistema consente a
una delle parti di «sfidare» l'altra a giurare sulla verità di un fatto proprio della parte, o di
cui abbia conoscenza, per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa (o
come dice l'art. 2736, n. 1, di «deferirgli il giuramento decisorio»). La parte, dopo
essere stata ammonita sull'importanza morale dell'atto e sulle conseguenze penali delle
dichiarazioni false, può quindi prestare il giuramento e la dichiarazione assume forza di
prova legale, essendo quindi il suo contenuto inoppugnabile. Se si accerti poi in sede
penale la falsità della dichiarazione giurata, ferma restando l'irrevocabilità della sentenza
civile, chi ha perduto la causa potrà ottenere il risarcimento del danno subito. Può darsi
invece che la parte alla quale il giuramento sia stato deferito non giuri, non
presentandosi senza motivo giustificato a renderlo o rifiutandosi di prestarlo: in tal caso
soccombe sulla domanda o sul punto di fatto per il quale il giuramento è stato ammesso
(chi non giura soccombe).

Quando si tratti di un fatto comune a entrambe le parti, è possibile ancora che la parte a
cui il giuramento sia stato deferito lo riferisca, sfidando la controparte a prestarlo (la
formula del giuramento andrà allora opportunamente rettificata da «giuri e giurando
affermi...» a «giuri e giurando neghi...»). Allora, esclusa l'ulteriore riferibilità, delle due
l'una: giura e vince oppure non giura e soccombe.

Non è ammesso tuttavia il giuramento per le cause relative a diritti di cui le parti non
possono disporre (si pensi alla capacità delle persone) o su un fatto illecito o sopra un
contratto per la validità del quale sia richiesta la forma scritta o per negare un fatto che
da un atto pubblico risulti avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale che ha formato
l'atto stesso ( art. 2739, 1 comma).

Il codice prevede poi due ulteriori espedienti che vorrebbero attenuare il rigore dell'onere
probatorio: il «giuramento suppletorio», che dovrebbe essere deferito su decisione del
giudice «quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del
tutto sfornite di prova» (art. 2736,n.2), e il «giuramento d'estimazione», che potrebbe
essere deferito per «stabilire il valore della cosa domandata, se non si può accertare
altrimenti». Un simile intervento del giudice, che scegliendo di far giurare una delle parti,
la agevola deve con ogni probabilità ritenersi precluso dall'art. 111, 2° comma, Cost.,
laddove prevede che il processo si svolga tra l'altro «in condizioni di parità, davanti a
giudice terzo e imparziale».

Non sono invece propriamente mezzi di prova le «presunzioni semplici», con le quali si
indicano quei ragionamenti che, muovendo da un fatto provato o incontroverso,
consentono di pervenire al convincimento in ordine alla verità di un altro fatto. Il
legislatore mostra di temere tale istituto per l'ampia libertà di valutazione, che è
consentita al giudice. Per questo, da un lato gli preclude di farvi ricorso per fondare la
decisione quando sia vietata la prova testimoniale, mentre dall'altro l'art. 2729 parla di
presunzioni ammesse soltanto quando siano «gravi, precise e concordanti».

In alcuni casi è la stessa legge a stabilire che dall'accertamento di un dato fatto consegue
quello di un altro: ad esempio, la prova di aver acquistato il possesso di una cosa
implica anche quella della buona fede del possessore. Si parla in simili casi di
«presunzioni legali», a loro volta suddistinte in:

 presunzioni «relative» o iuris tantum, quando la parte che vi abbia interesse possa
dare la prova contraria;
 e presunzioni «assolute» o iuris et de iure, quando alla parte che pur vi abbia
interesse sia precluso di dare la prova contraria.

SEZIONE V-LE PRESCRIZIONI E LE DECADENZE


20. La prescrizione estintiva e il non uso
Le situazioni soggettive consistono essenzialmente in un obbligo. L'obbligo medesimo
trae causa, limite e giustificazione in un bisogno o in un valore, giudicati meritevoli
dall'ordinamento e tali che, se vengono meno, non v'è allora ragione per mantenere
l’obbligo stesso. Per questo l'art.2934 dispone l'estinzione di «ogni diritto» per
prescrizione, quando il titolare non lo eserciti per il tempo determinato dalla legge.

La disciplina in esame pone la collettività al riparo dai costi, anche sociali, ai quali si
dovrebbe andare incontro per assicurare protezione giurisdizionale; per questo l'art.
2936 prevede l'inderogabilità della prescrizione: essa non può essere modificata dal
contratto o dal testamento.

L'effetto estintivo può tuttavia essere evitato, dopo che si è compiuto, attraverso la
«rinunzia alla prescrizione», manifestata espressamente da chi ha interesse a vedere
estinta la situazione per lui sfavorevole, o desumibile da un comportamento non
compatibile con la volontà di volersene valere (art. 2937).

L'estinzione provocata dalla prescrizione opera quando la parte che ne tragga beneficio
intenda servirsene: deve quindi domandare al giudice di accertare che si è verificata la
prolungata inattività del titolare. L'art. 2938 precisa infatti che la prescrizione non è
rilevabile d’ufficio dal giudice. Se il debitore adempie, nonostante siano trascorsi i
termini per la prescrizione, non può ripetere quanto abbia pagato.

L'effetto estintivo riguarda tutti i diritti soggettivi, esclusa la proprietà (Art. 2934), le
situazioni soggettive non patrimoniali e quelle patrimoniali ma non disponibili (cioè non
rinunziabili per volontà del titolare), non soggetti a prescrizione. In tali casi, infatti, vi
si trovano coinvolte anche esigenze di protezione di interessi generali.

La disciplina dettata nel codice è applicabile per intero soltanto ai diritti di credito,
mentre richiede di essere adattata e coordinata per quanto concerne i diritti reali; per
questo preferiamo parlare in tali ultimi casi di «non uso».
Escluso che la prescrizione possa riguardare la potestà, sono invece soggette ad
estinzione per non uso anche le pretese formative o diritti potestativi.

Il legislatore usa indiscriminatamente l'espressione «prescrizione» ma l'estinzione del


potere formativo è fenomeno che non può essere sottoposto sic et simpliciter alla
disciplina dettata dal codice, che è modellata piuttosto attorno al diritto soggettivo. Come
questo tuttavia, anche le pretese formative si estinguono quando non vengano esercitate
per dieci anni, o per il periodo più breve stabilito dalla legge e, anche in questo caso,
sempre che si tratti di pretese di contenuto patrimoniale e di carattere disponibile.

Non sono soggette a prescrizione le azioni di accertamento, che esprimono un bisogno


generale di stabilità e certezza dell'ordinamento, e non producono altro effetto giuridico
se non quello di rendere incontrovertibile la sussistenza o la consistenza del diritto.

L’estinzione provocata dalla prescrizione non impedisce al titolare di valersene per


paralizzare le pretese altrui, cioè come strumento di eccezione secondo la massima “le
azioni sono temporanee, le eccezioni sono perpetue". In alcuni casi, tutti riguardanti però
le pretese formative, è espressamente previsto il carattere perpetuo dell'eccezione (in
tema di annullabilità, per i rimedi azionabili dal compratore e dal committente per i vizi
della cosa o dell'opera), mentre testualmente la regola si trova esclusa per la rescissione
del contratto (art. 1449). Il carattere perpetuo dell’eccezione risulta difficilmente
compatibile con l'esigenza di certezza, che è alla base dell'istituto della prescrizione, e
difficilmente si riuscirebbe a spiegare, appunto in mancanza di un enunciato che lo
preveda, la ragione per cui la situazione soggettiva estinta dovrebbe mantenere uno
spazio residuo di efficacia, sia pure utilizzabile solamente per paralizzare le pretese altrui
attraverso l'eccezione.

21. La sospensione e l'interruzione della prescrizione. Le prescrizioni


brevi
Il termine di prescrizione, computato secondo gli artt. 2962 e 2963, decorre dal giorno in
cui il diritto può essere fatto valere, cioè da quando il fatto o l'atto che l’ha originato non
sia solamente rilevante ma pure efficace: un fatto impeditivo (come il termine o la
condizione) impedisce il decorso della prescrizione che viceversa corre anche se il titolare
si trovi materialmente impedito ad esercitarlo.

Non mancano tuttavia ipotesi nelle quali la decorrenza della prescrizione viene spostata
sino al momento in cui il titolare della situazione possa trovarsi in condizione di
esercitare il diritto. Tale è il caso, ad esempio, del termine quinquennale di prescrizione
dell'azione di annullamento del contratto concluso dal minore, termine che decorre da
quando egli abbia raggiunta la maggiore età.

Vi sono pure ipotesi in cui la decorrenza della prescrizione è «sospesa», proprio in


ragione degli impedimenti materiali in cui il titolare della situazione giuridica si trovi. Ciò
accade per il minore non emancipato e l'interdetto per infermità di mente, sino a quando
non sia stato loro nominato il tutore e per i sei mesi successivi alla nomina di questo o
alla cessazione dell’incapacità, oppure per i militari e il personale al séguito in caso di
guerra (art. 2942).
L'art. 2941 impedisce invece il decorrere del periodo di tempo in ragione delle particolari
relazioni intercorrenti tra le parti del rapporto giuridico: accade, ad esempio, tra
coniugi, tra chi esercita la potestà e chi vi sia sottoposto, tra chi amministra i beni altrui
e il titolare dei beni amministrati.

Fermo restando che l'ignoranza del credito non impedisce la prescrizione, la si ritiene
sospesa quando il debitore abbia occultato dolosamente, cioè con mezzi fraudolenti,
l'esistenza del credito stesso.

La causa di «sospensione» può precedere il decorso del termine di prescrizione oppure


sopravvenire a questo: nel primo caso il termine sarà posticipato sino al venir meno
dell'impedimento, nell'altro il decorso sarà arrestato e riprenderà, quando sia cessato
l'impedimento stesso.

Determinati eventi cancellano invece il periodo di tempo già trascorso ai fini della
prescrizione, che si trova in tal modo azzerato (si parla allora di «interruzione della
prescrizione»).

La prima ipotesi è data dal ricorso all’azione attraverso la domanda giudiziale o l'avvio
del procedimento arbitrale: in tal caso la prescrizione resta azzerata sino al passaggio in
giudicato della sentenza che definisce il giudizio. Simile effetto riguarda i diritti di credito,
i diritti reali e le pretese formative.

Per quanto riguarda solamente i diritti di credito è prevista l'interruzione del periodo di
prescrizione anche quando il debitore sia costituito in mora o quando lo stesso debitore
ammetta, anche implicitamente, l'esistenza del credito (un esempio è dato dal
pagamento di un «acconto» o dalla richiesta di dilazione del pagamento). In questi casi la
prescrizione si azzera e ricomincia immediatamente a decorrere ex novo.

Il termine ordinario di prescrizione è dieci anni (mentre quello di estinzione dei diritti
reali per non uso è ventennale).

Termini abbreviati sono previsti anzitutto per i crediti originati da fatto illecito: il diritto
al risarcimento del danno nei confronti dell'agente si prescrive in genere in cinque anni,
se non si tratti di sinistro provocato dalla circolazione di veicoli di ogni specie. In tale
caso la prescrizione ha durata biennale.

Quando il fatto sia tuttavia considerato dalla legge come reato, si applica il periodo di
prescrizione stabilito dalla legge penale, se è più lungo e sempre che il reato non si sia
estinto per causa diversa dalla prescrizione o sia intervenuta sentenza irrevocabile nel
giudizio penale, giacché in tal caso il termine è quello stabilito dal codice civile [ossia di
cinque (o due) anni] ma la prescrizione decorre dalla data di estinzione del reato o dalla
data in cui la sentenza penale è divenuta irrevocabile. Altri termini di prescrizione
abbreviati, sino in alcuni casi al minimo di un anno (ad esempio per la spedizione e il
trasporto), riguardano i crediti che traggono origine da alcuni contratti nominati (v. artt.
2948 ss.).

L'abbreviazione del termine di prescrizione non opera per quanto riguarda l'azione
esecutiva esperita in séguito a una sentenza di condanna: essa resta sottoposta al solito
periodo di dieci anni (art. 2953).

22. La prescrizione presuntiva


Vi sono poi alcuni diritti di credito, originati da particolari contratti nominati, che il
legislatore, trascorso un certo periodo di tempo, si limita a «presumere estinti» a causa
della difficoltà che il debitore potrebbe incontrare, dopo quel periodo, nel dimostrare di
averli pagati. Si tratta infatti di pagamenti che normalmente avvengono in contanti e di
cui in genere non si conserva a lungo la quietanza. Si pensi al pagamento di un pasto al
ristorante o di una camera d’albergo (art. 2954) ma anche al versamento del prezzo di
merci o di medicinali da parte di chi non ne faccia commercio o pure ai compensi
corrisposti a professionisti, notai o insegnanti o alle retribuzioni pagate ai lavoratori.

La presunzione è impedita se la parte, o il suo difensore, ammettono che l’obbligazione


non si è estinta (art. 2959). La presunzione stessa può essere superata dalla prova
contraria solamente deferendo al debitore il giuramento decisorio (giuramento de
veritate) o, se è morto, ai suoi eredi, al coniuge che gli sia sopravvissuto, o ai loro
rappresentanti legali, quanto alla notizia ch'essi abbiano dell'estinzione del debito
(giuramento de notitia).

Una regola simile vale pure per il debito di restituzione degli incartamenti relativi alle liti,
trascorsi tre anni da quando sono state decise (art. 2961).

Il decorso del termine oltre il quale opera la presunzione di adempimento è sottoposto


alle regole sull'interruzione e sulla sospensione dettate per la prescrizione estintiva: il
riconoscimento da parte del debitore ha tuttavia effetto interruttivo soltanto se è
effettuato fuori dal processo e prima che il termine si sia compiuto, poiché, se occorra
nel processo, costituendo ammissione, impedisce alla presunzione medesima di operare.

L’istituto realizza un adeguato bilanciamento tra le ragioni del creditore e quelle del
debitore, che viceversa si troverebbe costretto a tenere copia della documentazione di
tutti i pagamenti eseguiti per periodi di tempo irragionevolmente lunghi: piuttosto il
ricorso sempre più frequente a strumenti di pagamento che lasciano prova scritta del
versamento (si pensi alle carte di credito), potrebbero indurre il legislatore a rimodulare
in un prossimo futuro l'istituto.

23. La decadenza su diritti disponibili e quella su diritti indisponibili


Anche le due specie di decadenza disciplinate agli artt. 2964 ss. estinguono differenti
situazioni giuridiche, siano esse disponibili oppure indisponibili, cioè non rinunziabili per
volontà del titolare, a causa dell'inattività del titolare perdurata per un certo periodo di
tempo. Nonostante valorosi tentativi, una distinzione con l'istituto della prescrizione è
impossibile, in guisa che l'interprete, per stabilire quali norme applicare non può che
rimettersi all'espressione letterale rinvenibile nell'enunciato.

Quando questo nulla dispone, limitandosi a prevedere un effetto estintivo per prolungata
inattività del titolare di una situazione giuridica occorre allora guardare all'eventuale
disciplina dettata.

La decadenza è infatti insensibile agli eventi sopravvenuti nel corso del periodo di
tempo richiesto per estinguere la situazione giuridica, capaci invece di interrompere o di
sospendere la prescrizione. Il titolare, se non vuole l'estinzione della situazione giuridica,
è quindi costretto ad esercitarla nelle forme e nei modi stabiliti dalle singole disposizioni
o dagli altri atti che sanciscono la decadenza (art. 2966).
La decadenza riguardante i diritti disponibili non è rilevabile d'ufficio dal giudice (art,
2969) e può essere prevista, oltre che dalla legge, anche da contratti o testamenti: loro
tramite si può pure modificarne la disciplina stabilita dalla legge. Le parti possono anche
rinunziare alla decadenza prima che si sia compiuta.

La decadenza stabilita per contratto, testamento o legge (quando si tratti di diritti


disponibili), può essere impedita dal riconoscimento della situazione proveniente dalla
persona contro la quale si fa valere la situazione giuridica (art. 2966).

Sono nulli invece i patti e le clausole testamentarie con le quali si rinunci,


preventivamente o successivamente, o si modifichi la disciplina della decadenza vertente
su diritti indisponibili stabiliti dalla legge: in tal caso, il giudice può rilevare d'ufficio la
decadenza se comporta l'improponibilità dell'azione.

La decadenza può infine derivare da provvedimenti amministrativi o giudiziari (artt.


481 o 650): in tal caso essa non può essere modificata contrattualmente e le parti non vi
possono rinunziare preventivamente o successivamente. Quei provvedimenti sono
tuttavia invalidi se rendono eccessivamente difficile l'esercizio della situazione giuridica
al titolare.

SEZIONE VI - LA PUBBLICITÀ
24. La pubblicità dei fatti giuridici in generale
Numerose sono le ipotesi nelle quali si prevede che sia data pubblicità a un determinato
fatto o atto giuridico, rendendolo quindi conoscibile da chiunque vi abbia interesse
attraverso un procedimento regolato compiutamente dalla legge.

Vi sono casi in cui alle parti è richiesto di percorrere quel procedimento, rendendo quindi
pubblici determinati fatti o atti giuridici versati in un documento, ma questi risultano
comunque rilevanti ed efficaci nonostante la violazione dell’obbligo (che può tuttavia
comportare l'irrogazione di sanzioni a carico delle parti).

Si parla in questi casi di «pubblicità notizia»: la sentenza di interdizione o di


inabilitazione deve, ad esempio, essere annotata a cura del cancelliere in un registro
apposito e comunicata all'ufficiale di stato civile per le annotazioni in margine all'atto di
nascita (art. 423): l'omissione non inficia in alcun modo la rilevanza e l'efficacia della
sentenza.

Vi sono viceversa ipotesi nelle quali l'omissione del procedimento pubblicitario, o


l'invalidità di alcuno degli atti capace di inficiarlo, comportano l'inefficacia del fatto che
può essere:

 Relativa, e si parla allora di «pubblicità dichiarativa», poiché l'atto è inefficace


nei confronti dei terzi ai quali l'effetto dovrebbe essere appunto «dichiarato» (ciò è
quanto accade in alcuni casi in cui la legge richiede che un atto venga trascritto,
v. art. 2644)
 Assoluta, e si parla allora di «pubblicità costitutiva»: in simili ipotesi il fatto, pur
rilevante, deve essere reso noto col procedimento previsto dalla legge per poter dar
vita agli effetti ai quali è destinato (tale è il caso, ad esempio, della pubblicità
ipotecaria).

In alcuni casi la conoscibilità legale del fatto da parte dei terzi, tramite il procedimento
legale, rende in parte efficace l'atto originariamente improduttivo di effetti: si parla allora
di «pubblicità sanante» (v. art. 2652, n. 6 e 7).

25. Le norme e i fatti giuridici nel tempo (diritto intertemporale)


È assolutamente normale che gli enunciati si susseguano nel tempo, compete al diritto
costituzionale stabilire quando un enunciato sia effettivamente vigente e quando possa
essere abrogato espressamente o tacitamente da uno sopravvenuto.

L'interprete deve ricercare la norma nell'enunciato vigente al momento in cui il fatto


giuridico si è manifestato nella realtà fenomenica al fine di misurarlo, per
determinarne la rilevanza e l'efficacia (tempus regit actum).

È tuttavia possibile che l'enunciato, sopravvenuto dopo la realizzazione del fatto, venga
espressamente dichiarato applicabile a questo tramite una previsione transitoria, che
in tal modo deroga all'art. II, 1° comma, prel., secondo il quale «la legge non dispone che
per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo».

L'interprete dovrà poi considerare che, pur in assenza di una disposizione transitoria
espressa, la norma ricavabile da un enunciato sopravvenuto a un fatto già perfetto potrà
richiedere di essere applicata, in quanto essa sia finalizzata all'attuazione di quei valori
costituzionali o quei vincoli comunitari o derivanti da obblighi internazionali, che
l'interpretazione basata sull'enunciato anteriore non consentiva. Ad esempio, norme che
stabiliscano una riduzione legale dell'orario giornaliero o settimanale di lavoro o una
disciplina, sopravvenuta alla conclusione di un contratto di mutuo, che stabilisca un
limite massimo al saggio d'interessi, o ancora gli enunciati che, sopravvenuti alla nascita
di un figlio, favoriscano l'attribuzione della responsabilità genitoriale, o per quelli,
sopravvenuti al matrimonio, che contribuiscano a realizzare la parità morale e giuridica
dei coniugi o favoriscano l'unità familiare.

Quando ad esempio venne introdotta la disciplina del divorzio (1. 1° dicembre 1970, n.
898) qualcuno avrebbe potuto dubitare del fatto ch'essa potesse essere applicata ai
matrimoni celebrati prima della sua entrata in vigore. Tuttavia il fatto giuridico che
andava sottoposto a misurazione attraverso la norma sopravvenuta non era il fatto-
matrimonio, ma il fatto consistente nella domanda giudiziale di divorzio proposta da uno
degli sposi. Tale ultimo fatto, se realizzatosi successivamente al 1970, non poteva che
essere valutato alla stregua della disciplina sopravvenuta, poco o nulla rilevando che si
riferisse a un vincolo nuziale formatosi prima o dopo l'entrata in vigore della legge sul
divorzio.

26. I fatti giuridici nello spazio (cenni di diritto internazionale privato)


La coesistenza di insiemi normativi che variano da Stato a Stato pone spesso
all'interprete il problema di identificare quale sia l'insieme, dal quale prelevare
l'enunciato che contiene la norma regolatrice del fatto concreto.

Al proposito, occorre fare riferimento anzitutto alla 1. 31 maggio 1995, n. 218, la quale
«pone i criteri per l’individuazione del diritto applicabile», attraverso il meccanismo
del rinvio a una legge straniera che il giudice italiano è in tal modo chiamato d'ufficio ad
applicare.

La legge stessa viene poi applicata per risolvere la controversia con i criteri ermeneutici e
le regole intertemporali ch'essa stessa dispone (art. 15 1. cit.).

La legge straniera richiamata dalle norme di diritto internazionale privato non è


tuttavia applicabile, quando i suoi effetti siano contrari all'«ordine pubblico», cioè
all'insieme di valori desumibili dai principi costituzionali. In questi casi si deve far
riferimento ad altra legge eventualmente richiamata mediante altri criteri di collegamento
o, in mancanza, si applica la legge italiana.

Nonostante il richiamo alla legge straniera, alcune norme italiane richiedono di essere
comunque applicate, in considerazione del loro oggetto o del loro scopo: si parla in questi
casi di «norme di applicazione necessaria» o anche di disposizioni imperative. Un
esempio in tal senso è l'art. 116 c. c., che sottopone la celebrazione del matrimonio dello
straniero alla legge italiana, che deve essere osservata in ogni caso.

Il «criterio di collegamento» è quel carattere del fatto controverso che la regola di diritto
internazionale privato assume come decisivo per determinare quale insieme di regole
(generate in un certo Stato) andrà applicato. Tra i principali criteri si devono segnalare la
«cittadinanza», il «luogo» in cui un fatto si è verificato o il «luogo in cui la vita
matrimoniale è prevalentemente localizzata» o ancora il «luogo in cui si trova la
cosa».

Si consente, con alcuni atti di volontà, di designare quale legge dovrà regolare
determinati rapporti giuridici: ad esempio, col contratto si può prevedere quale legge sia
deputata a regolarlo in tutto o in parte, purché la designazione sia espressa o tale da
risultare in modo ragionevolmente certo.

Esistono poi alcune Convenzioni internazionali di diritto materiale uniforme, che


contengono cioè enunciati dai quali si ricavano norme le quali, come quelle interne,
misurano la rilevanza e l'efficacia del fatto, mentre quelle di diritto internazionale privato
si limitano a designare la legge di questo o di quello stato, facendovi semplicemente
rinvio. Tra queste merita di essere ricordata soprattutto, per la grande importanza della
materia trattata, la Convenzione delle Nazioni Unite sui contratti di vendita
internazionale di beni mobili, adottata a Vienna l'I1 aprile 1980.

27. L’integrazione europea e i singoli diritti nazionali


L'attuale stato di cose rende piuttosto faticosa l'integrazione effettiva dei singoli sistemi
che compongono l’Unione europea, poiché la coesistenza di regole differenti può generare
insicurezza tra gli operatori economici che scambiano beni o servizi risiedendo in due
differenti Stati dell'Unione.
Per superare il problema si può pensare astrattamente di unificare quelle parti del
diritto, come quella che disciplina il contratto e quella che disciplina le obbligazioni, le
quali più da vicino incidono sullo scambio di beni e di servizi intracomunitari.

Per «unificare» il diritto oggettivo non è sufficiente la creazione di una disciplina


uniforme, valevole in ciascuno Stato (un esempio importante di unificazione giuridica
all'interno dell'Unione europea dato dalla disciplina della concorrenza tra imprese).
Occorre infatti che l'applicazione di questa sia sottoposta al controllo interpretativo di
un unico organo, per evitare che le differenti letture degli enunciati da parte dei giudici
nazionali finiscano col tradire l'intento, facendo in tal modo convivere regole differenti in
ogni Stato, sia pure desunte da enunciati uniformi.

La creazione di un organo unico, al quale riconoscere quella funzione nomofilattica che


da noi svolge la Corte di cassazione, è tuttavia operazione estremamente complicata ed è
del resto arduo immaginare di gravare i giudici del Lussemburgo di un’opera tanto
imponente. Inoltre si tratterebbe di prendere a livello politico decisioni delicatissime
anche dal punto di vista culturale, con esiti incerti e forse non prevedibili.

Volendo abbandonare un proposito tanto ambizioso ci si è più spesso contentati di


«armonizzare» il diritto esistente, concordando a livello centrale alcune regole uniformi,
ad esempio quelle che disciplinano la conclusione del contratto o la responsabilità del
debitore per il ritardo nell'adempimento, che i singoli Stati dovrebbero poi realizzare con i
metodi e gli strumenti che ciascuno di essi ritenesse più idonei. È quanto avvenuto
soprattutto nel settore della protezione del consumatore, dove si sono susseguite con
crescente frequenza una serie di direttive che hanno creato un sistema di regole che
assicurano un livello uniforme di protezione del consumatore in ogni parte dell'Unione.

Se si considera poi quale contenuto assegnare a una nuova disciplina delle


obbligazioni e dei contratti, da valere per tutta l'Unione, la questione diventa ancor più
insidiosa.

Alcuni hanno pensato di elaborare ex novo un testo di riferimento, ponendo a confronto


le esperienze e i metodi di diversi studiosi che hanno elaborato i Principles of European
Contract Law, che costituiscono una enunciazione sistematica di regole comuni per la
futura elaborazione di un codice comune di diritto civile europeo.

Altri, hanno pensato di elaborare un testo muovendo da una base comune che è stata
individuata nel quarto libro del nostro codice civile, che è assai più recente di quello
francese e tedesco e risente delle influenze dell'uno e dell'altro, e in un progetto di
Contract code, elaborato da un giurista anglosassone per mediare le differenze esistenti
tra diritto inglese e diritto scozzese e utile per avvicinare il diritto continentale al mondo
della common law. Si è così giunti alla stesura di un Code européen des contrats, privo
a oggi di efficacia normativa, ma che va oltre l'enunciazione di principi comuni e cerca
invece di codificare in maniera sistematica l'apparato di regole che dovrebbero essere
accolte in un futuro codice europeo.

Non si deve tuttavia credere che l'avvicinamento delle regole esistenti nei differenti Stati
debba necessariamente transitare per la stesura di testi uniformi. Essi si rivelano ottimi
allo scopo quando contribuiscano al confronto tra gli studiosi ma difficilmente riescono
nell'intento quando finiscano con l'essere imposti a un ordinamento complesso e ormai
molto consolidato come è il nostro.
È dato invece di rilevare come in non poche occasioni, sia pure muovendo da enunciati
differenti, i giudici dei singoli Stati dell'Unione siano pervenuti a soluzioni non dissimili.
Purtroppo al momento non esistono ancora sistemi organizzati (come le banche dati
online o le raccolte scritte) per favorire la conoscenza delle decisioni emesse dai
differenti giudici collocati al vertice dell'organizzazione giudiziaria di ciascuno Stato
appartenente all'Unione (come la Corte di cassazione, ad esempio). Assai più dei
differenti progetti di codici europei, il confronto quotidiano tra le applicazioni degli
interpreti dei differenti Paesi costituirebbe un volano potente per avvicinarle
progressivamente.

Il superamento delle barriere giuridiche nazionali, piuttosto che con arditi progetti
legislativi uniformi, potrebbe quindi essere realizzato agendo perché siano favorite la
conoscenza e la circolazione degli studenti e degli studiosi e, forse ancor di più,
stimolando la circolazione e il confronto delle opere giuridiche e delle decisioni. È
un processo storico ormai iniziato, e che nessuno riuscirà a fermare, favorito com'è dalla
velocità delle comunicazioni e dal miglioramento delle conoscenze linguistiche.

La comune formazione, il comune modo di sentire e di vedere le cose sono lo strumento


che, assai più di quei progetti, potrà consentire ai cittadini dell'Europa di ripercorrere in
senso inverso il processo di frazionamento della matrice unica del diritto romano
medioevale, provocata dall'avvento degli Stati nazionali.

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