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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato

Parte Prima: INTRODUZIONE


CAP. 1.
L’ORDINAMENTO GIURIDICO
1. Le parole del diritto.
La parola “diritto” deriva dal latino medievale directus.
“Regula” era invece uno strumento antico che consentiva di distinguere ciò che è lineare (diritto) da ciò che è
contorto.
La combinazione di significati propria di regola si ritrova nella parola norma, che i giuristi italiani e tedeschi
preferiscono a regola. Norma significa regola di comportamento ma anche norma-lità, regola-rità.
La storia delle parole ci mostra dunque la relazione tra l’idea di dirittura, linearità, regolarità e quella di diritto.
“diritto” - ius: secondo la sua radice, Ius indicava all’origine un pronunciamento sacro.
Scopo ultimo del diritto è di perseguire un ideale di giustizia. Impedire di farsi giustizia da sé.
Il diritto, quindi, convoglia il bisogno di giustizia verso un criterio non oggettivo, ma condiviso socialmente.
Legame ius-iustitia: legame tra diritto e giudizio.
In molti contesti, al posto di “diritto” si usa “legge”: “La legge è uguale per tutti”.
La “Legge” equivale all’insieme, all’universo delle regole. Nell’uso comune equivale a diritto: indica un universo di
regole che hanno carattere di legalità.
La “legge” indica un testo normativo: viene anche vista come regola e norma in senso prescrittivo o descrittivo.
Il diritto è un universo di regole.
Diritto oggettivo: un insieme di norme legali.
Diritto soggettivo: possibilità, libertà, posizione di vantaggio attribuita ad un soggetto mediante la legge.

2. Prescrizioni, regole, norme.


Una regola è una proposizione la cui funzione è quella di prescrivere un comportamento: cioè di qualificarlo come
obbligatorio (che deve essere tenuto), vietato (che non deve essere tenuto) o anche semplicemente lecito (che può
essere tenuto).
La regola dunque non descrive, ma prescrive: cioè indirizza comportamenti.
Possiamo distinguere diversi tipi di regola:
• Concreta: la prescrizione vale in una o più situazioni concretamente determinate (es. Mario, se esci per
ultimo chiudi la porta!).
• Generale: riguarda il comportamento di chiunque si trovi in una determinata situazione (es. l’ultimo che esce
chiuda la porta!).
• Individuale: riguarda il comportamento di un individuo o di più individui determinati (es. Mario, chiudi la
porta!).
• Astratta: la prescrizione vale in ogni situazione che sia eguale a quella prevista (es. ogni volta che la lezione è
finita, l’ultimo che esce deve chiudere la porta!).
Nel mondo del diritto esistono tutti i tipi di prescrizione.

Individuale e concreta, ad esempio, è la prescrizione contenuta in una sentenza. L’ordinanza del sindaco, che impone
a tutti i frontisti di una via pubblica di spalare la neve dal marciapiede, contiene una prescrizione generale ma
concreta: rivolta a chiunque abiti lungo le strade comunali, ma limitata ad una concreta situazione, l’eccezionale
nevicata.
Ma quando parliamo di “regola di diritto” intendiamo di solito riferirci solo a quelle regole, di un gradino superiore,
che prescrivono in modo generale ed astratto ciò che si può o si deve fare in ogni situazione che corrisponda alle
situazioni-tipo previste dalle regole stesse. Hanno carattere generale ed astratto, salvo eccezioni, le regole contenute
nei codici, nelle leggi, nei decreti, nei regolamenti.
Sinonimo di regola è norma.

Una prescrizione di comportamento può essere resa efficace dal collegamento con una regola “strumentale” che
prevede conseguenze negative per chi viola la prescrizione: il concetto di sanzione indica appunto queste
conseguenze. In campo giuridico si distinguono:
• sanzioni civili, come il risarcimento del danno provocato ad altri;
• sanzioni penali, come la detenzione;
• sanzioni amministrative, come l’ammenda.

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L’universo delle regole è vasto. C’è la necessità di stabilire un criterio di riconoscimento della regola legale che la
distingua da tutte le altre regole. La questione si presenta in modo diverso a seconda che la si affronti da un punto di
vista “esterno” o “interno” al linguaggio giuridico.
La regola legale ha ormai assunto dei connotati che la distinguono dalle regole morali e del costume. Il sistema
giuridico si caratterizza perché le sue regole sono formate attraverso modi di produzione.
Regola di diritto: regola che si forma in uno dei modi di produzione previsti dallo stesso sistema.

3. L’idea di “fonti del diritto”.


Una fonte del diritto è un qualsiasi atto o fatto idoneo a produrre norme giuridiche.
Una distinzione tradizionale divide le fonti scritte dalle fonti non scritte.
Nelle prime, la regola è formulata in un testo scritto mentre nelle seconde deve essere ricavata da elementi diversi
(l’osservazione degli usi, lo studio di decisioni precedenti).
Nei sistemi contemporanei, è possibile segnalare la presenza di due tipi di “fonte”:
• il precedente giudiziario consiste nella decisione già avvenuta di un caso, analogo a quello che si tratta di
decidere: dalla decisione, o da una serie di decisioni conformi (c.d giurisprudenza), si ricava una “regola” cioè
un criterio di soluzione che può valere per ogni caso simile.
• l’atto legislativo in senso ampio è quel procedimento più o meno complicato, con cui un’autorità che ha il
potere di legiferare (di fare leggi) produce un testo che contiene regole di diritto
In un sistema giuridico evoluto, dunque, le regole di diritto sono quelle prodotte da determinate “fonti”. Ma chi
stabilisce quali fonti sono idonee alla produzione normativa?
Una prima risposta è la seguente: in ogni sistema esistono regole, dette norme di produzione, che prevedono come si
possano produrre le regole di quel sistema. In molti casi, si tratta di espresse previsioni normative. Anche là dove una
regola espressa non esista, tuttavia, essa si può ricavare dall’evoluzione di tutto il sistema. Le regole che disciplinano i
modi di produzione delle norme di un sistema giuridico si chiamano norme di produzione. Anche queste regole, però,
sono prodotte: l’art. 70 della nostra Costituzione fa parte di un testo costituzionale approvato dall’Assemblea
costituente. Se ogni norma giuridica si dovesse “legittimare” sulla base di una regola superiore che ne prevede la
produzione, si risalirebbe all’indietro all’infinito. In realtà, il punto fermo, la “sorgente” di tutto il sistema, è sempre e
soltanto un fatto storico: un sistema giuridico si regge, in ultima analisi, sul fatto di essersi affermato, con quei
determinati connotati, in un dato gruppo sociale.

Nei sistemi di oggi che tradizionalmente usano il precedente giudiziario, ha acquistato maggiore importanza l’atto
legislativo e, per converso, nei paesi dove viene usato l’atto legislativo ha acquistato maggiore importanza la
giurisprudenza per quanto riguarda l’interpretazione giudiziale.

4. L’ordinamento giuridico.
Ordinamento giuridico: universo di regole di diritto formano un insieme unitario e ordinato perché prodotte in
conformità ad un apparato di fonti legittimato da un unico fatto costitutivo.
Entrano a far parte dell’ordinamento solo le regole che si possono ricondurre ai modi di produzione previsti.
Diritto internazionale: ha proprie fonti, ovvero le consuetudini internazionali e i trattati, e proprie norme che ciascuno
stato è tenuto ad osservare.
L’articolo 10 della Costituzione sancisce che l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute. Si tratta di una norma di rinvio che rende le norme generali del diritto
internazionale efficaci anche nell’ordinamento interno.
Il Sistema delle fonti può selezionare in modo più o meno rigido le regole che entrano a far parte dell’ordinamento:
• chiuso -> ordinamenti che tendono a separare più nettamente potere legislativo dal potere giudiziario
Non è dato al giudice di produrre una regola di decisione

5. Le fonti del diritto italiano.


5.1. Il quadro tradizionale.
Chi legge l’art. 1 delle Disposizione preliminari al Codice civile trova il seguente elenco delle fonti di diritto:
1. Le leggi
2. I regolamenti
3. Le norme corporative
4. Gli usi
• Il 27 dicembre 1947 è stata promulgata la Costituzione della Repubblica, entrata in vigore il 1°
gennaio 1948. Da allora, la Costituzione è la prima tra le fonti di diritto.

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Essa contiene, nei suoi primi 12 articoli i PRINCIPI FONDAMENTALI, negli articoli da 13 a 54 i DIRITTI
E DOVERI DEI CITTADINI e negli articoli da 54 a 139 l’ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA.
• Per quanto riguarda le “leggi”, l’espressione comprende tutti quegli atti con cui si esercita la
funzione legislativa secondo la nostra Costituzione e cioè:
- Le “legge in senso formale”: vale a dire quello specifico atto che viene prodotto secondo
le procedure previste negli artt. 70 e successivi della Costituzione: approvazione da parte
delle due Camere, promulgazione da parte del Presidente della Repubblica,
pubblicazione nella Gazzetta ufficiale.
- Gli atti legislativi aventi forza di legge: il decreto legislativo delegato (emanato dal
Governo in base a una legge- delega) e il decreto-legge (emanato dal Governo in “casi
straordinari di necessità ed urgenza” e convertito poi in legge dalle Camere entro 60
giorni).
- Le leggi regionali: La competenza regionale è per alcune materie esclusiva, per altre è
concorrente. La Costituzione sancisce per quali materie è concorrente, le altre sono di
potestà legislativa esclusiva per esclusione. Sull’eventuale conflitto tra leggi regionali e
leggi nazionali decide la Corte costituzionale.
- Al livello gerarchico proprio della legge si collocano le norme che derivano dalla ratifica
di Convenzioni internazionali.
• Per quanto riguarda i “regolamenti”, si tratta di una fonte subordinata gerarchicamente alla legge. I
regolamenti possono essere emanati anzitutto dal Governo, dalle Regioni, dalle Province, dai
Comuni. In particolare, i regolamenti governativi intervengono a disciplinare l’esecuzione delle
leggi, dettando norme applicative che, naturalmente, non possono contrastare con quanto previsto
dalla legge (regolamenti di esecuzione).
• Le “norme corporative” erano quelle regole che trovavano fonte nei contratti collettivi, aventi
efficacia normativa generale in quanto stipulati dalle organizzazioni sindacali dell’ordinamento
corporativo fascista.
• Gli “usi” sono una fonte di diritto sussidiaria (la cosiddetta consuetudine) le cui regole fanno parte
dell’ordinamento a queste condizioni:
a. In quanto richiamate da una delle fonti precedenti.
b. In materie non regolate da altra fonte, questa è la vera e propria consuetudine, che vale
come fonte di diritto solo in presenza di due requisiti:
b.1. Una generale e costante uniformità di comportamento
b.2. La convinzione di osservare un obbligo giuridico.

Circa la rilevanza degli usi in campo privatistico occorre introdurre alcune distinzioni:
• Usi normativi: si tratta della consuetudine come fonte di diritto, cioè come fonte di regole
giuridiche che si applicano solo in mancanza di regole scritte o per espresso richiamo di queste. Il
secondo caso è il più frequente: ad esempio, gli usi normativi assumono rilevanza come fonti per
l’integrazione degli effetti del contratto in relazione a situazioni di conflitti non previsti dalle parti.
• Usi contrattuali: si tratta della prassi contrattuale, del modo cioè in cui comunemente si regolano,
negli accordi contrattuali, particolari questioni. A questi usi dà particolare rilievo l’art. 1340, che
considera inserite nel contratto, anche nel silenzio delle parti, le clausole d’uso. La distinzione
rispetto agli usi normativi sta in ciò: che per riconoscere una clausola d’uso è sufficiente anche una
prassi contrattuale diffusa in una cerchia ristretta e non è necessaria una uniformità di condotta
generalmente diffusa.
• Usi interpretativi: il modo in cui comunemente viene inteso un certo termine, o una certa clausola,
è importante: il codice ne fa un criterio per stabilire il significato di clausole contrattuali ambigue.
In un senso molto più ampio, è da avvertire che il costume (cioè il modo di comportarsi, di giudicare, di
reagire prevalente in un tempo e in un luogo) è criterio cui il giudice deve ricorrere per precisare il
contenuto di regole formulate in modo volutamente generico: come, ad esempio, quella che vieta
prestazioni contrarie al “buon costume”.

5.2. (segue) L’orizzonte europeo.


È importante evidenziare che i trattati della Comunità Europea e dell’Unione Europea sono stati qualificati come
fonte di rango costituzionale. Ricordiamo:

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• Trattato di Roma (Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea del 1957, la cui denominazione è
stata modificata in Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea a seguito del Trattato di Lisbona del
2007, entrato in vigore nel 2009)
• Trattato di Maastricht (Trattato sull’Unione Europea del 1992).
• La carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che integra la convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo.
Si tratta non di semplici Convenzioni internazionali, ma di strumenti che costituiscono una organizzazione
sovranazionale di cui il nostro Paese fa parte, e quindi fanno nascere un ordinamento nuovo ed una struttura con
propri organi e proprie fonti.
Trattati di Nizza e Lisbona danno vita ad una vera e propria Costituzione europea.
Più ampiamente, si è affermato il principio della prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale nelle materie
di competenza della UE. Un significato particolare assume la Carta dei diritti fondamentali dell’UE che è fonte
normativa vincolante, a carattere costituzionale, nell’ambito dell’Unione. Benché le norme della Costituzione italiana
conservino il primato nell’ambito dell’ordinamento interno, la Carta assume valore di fonte di rango costituzionale in
quanto integri la tutela dei diritti apprestata dalla nostra Costituzione, e vincola comunque il legislatore nazionale al
rispetto del contenuto essenziale dei diritti da essa previsti.
Nelle materie previste dal Trattato dell’Unione Europea il Consiglio può emanare dei regolamenti che hanno
immediata efficacia nel diritto interno degli Stati membri e prevalgono sulle norme interne difformi.
Tra gli obiettivi della Comunità Europea ha poi grande rilevanza l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri:
a questo scopo, il Trattato prevede che il Consiglio della Comunità emani direttive volte a ravvicinare il diritto interno
dei singoli Stati. La direttiva è una prescrizione rivolta agli Stati perché provvedano, ciascuno nel proprio ambito e
secondo il proprio sistema di fonti, all’armonizzazione delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative.
Procedura costante per l’attuazione delle direttive comunitarie, oggi disciplinata da (l. 9 marzo 1989):
• La legge 234 del 2012 stabilisce che ogni anno il Parlamento approvi la legge di delegazione europea: in cui
si delega il Governo all’adozione di decreti legislativi per il recepimento delle direttive.
Si è però affermato il principio per cui le direttive inattuate hanno immediata applicazione quando siano
“incondizionate, chiare e sufficientemente precise”; in questi limiti, la direttiva è fonte di diritto nell’ordinamento
interno (cosiddetta direttiva self-executing).
Regolamenti e direttive incidono al livello della legge ordinaria. Eventuali conflitti con una legge italiana vanno però in
questo caso risolti attraverso il principio della competenza. Regolamenti e direttive, infatti, possono essere emanati
soltanto nelle materie su cui l’Unione Europea risulta avere competenza e dunque sulla base dei Trattati istitutivi.

6. L’applicabilità delle norme. L’entrata in vigore.


Perché una disposizione normativa divenga parte integrante dell’ordinamento giuridico occorre anche che essa sia
entrata in vigore, divenuta cioè effettivamente applicabile.
L’entrata in vigore è subordinata a due presupposti: la pubblicazione del testo normativo, e il decorso del periodo di
vacatio legis.
La pubblicazione consiste nella riproduzione del testo nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (se si tratta di legge o
comunque di atto normativo statuale) oppure nel Bollettino Ufficiale della Regione (se si tratta di legge o atto
regionale) o infine nella affissione all’albo se si tratta di norme comunali.
Il requisito della pubblicazione ha la funzione di garantire la conoscibilità̀ delle norme dell’ordinamento. La stessa
esigenza può̀ spiegare l’intervallo di tempo che deve trascorrere tra la pubblicazione e l’entrata in vigore dell’atto
normativo (cosiddetta vacatio legis o “vacanza”): di regola, un periodo di 15 giorni. Ciascuna legge può tuttavia
ridurre o, addirittura, sopprimere il periodo di vacanza e disporre un’entrata in vigore immediata (leggi catenaccio).
Trascorso il termine, la norma entra in vigore ed è applicabile e vincolante, di regola, senza riguardo alla conoscenza
o conoscibilità di fatto da parte dei destinatari. Ignorantia legis non excusat -> limiti Corte costituzionale.

7. L’abrogazione delle norme. Il principio di irretroattività.


È però possibile che una norma nuova confligga con quelle emanate in precedenza, disciplinando la stessa materia in
modo diverso. Il conflitto può essere risolto dallo stesso legislatore, il quale, dettando la nuova disciplina, si
preoccupi di cancellare espressamente quella preesistente. Ma può succedere che il contrasto tra norme successive
nel tempo sia rilevato solo dall’interprete: ci si trova di fronte, in tal caso, ad una “antinomia” che deve essere
superata per far sì che l’ordinamento mantenga un carattere di coerenza, e disponga, in sostanza, una soluzione
univoca del caso.
Il criterio per risolvere questo tipo di conflitto è quello cronologico, che fa prevalere la norma più recente.
L’art. 15 delle Disposizioni preliminare distingue tre ipotesi di abrogazione di una disposizione normativa:
a. Per dichiarazione espressa del legislatore

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b. Per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti
c. Perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore
Il primo caso è quello dell’abrogazione espressa; il secondo e il terzo sono due differenti modi di abrogazione tacita.
Un modo particolare di abrogazione della legge è previsto dall’art. 75 Cost.: si tratta del referendum popolare
abrogativo, indetto su richiesta di cinquecentomila elettori o di cinque Consigli regionali. Lo stesso art. 75, al secondo
comma, dispone che non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di
autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
Un’applicazione particolarmente interessante dell’abrogazione, si ha nei casi in cui il legislatore provvede a riordinare
e raccogliere in un unico atto normativo la disciplina di un’intera materia prima regolata da norme sparse: si tratta
della formazione dei cosiddetti “testi unici”, fra i quali si possono classificare anche i codici.

Il conflitto tra norme successive nel tempo può̀ risolversi in senso diverso dall’abrogazione quando la norma
posteriore non sia diretta a regolare l’intera materia oggetto della disciplina preesistente, ma solo a sottrarre alcuni
casi a quella disciplina, che rimane però in vigore per la generalità delle fattispecie.
Tra le cause che determinano la cessazione di efficacia della legge non può essere annoverata la cosiddetta
consuetudine abrogativa, il ripetersi cioè di un comportamento contrario a quello prefigurato nella legge o il
perpetuarsi all’interno della collettività di un contegno omissivo della generalità dei soggetti: e cioè la costante
disapplicazione della regola (c.d. desuetudine).
L’abrogazione di una norma giuridica non significa che essa scompaia dall’ordinamento, ma solo che perde vigore a
partire dall’abrogazione. La norma abrogata mantiene infatti la sua forza prescrittiva con riguardo ai casi che si siano
verificati prima dell’abrogazione, anche se la controversia sorge dopo l’intervento abrogativo: la nuova disciplina
regola solo i fatti successivi alla sua entrata in vigore.

Il tutto si riassume nel principio della irretroattività delle leggi enunciato nell’art. 11 delle disposizioni preliminari al
Codice civile: “la legge non dispone che per l’avvenire”. Nell’ambito delle leggi penali, il principio di irretroattività̀ è
assisto da garanzia costituzionale. Fuori dal campo penale, il principio è derogabile dallo stesso legislatore ordinario.

Problemi particolari si pongono infine per la disciplina delle situazioni in svolgimento, che siano sorte cioè sotto il
vigore della vecchia disciplina, e non si siano concluse al sopravvenire della nuova. Lo stesso legislatore predispone
talvolta una serie di norme dirette a risolvere questo problema: si tratta del cosiddetto “diritto transitorio” o
“intertemporale” che regola il “passaggio” dall’una all’altra disciplina.

8. Rapporti tra fonti diverse. Parità, prevalenza, competenza.


Problemi derivanti dalla concorrenza di una molteplicità di fonti del diritto: possono produrre norme di forza diversa
con riguardo a una stessa materia.

Se si tratta di non identiche ma di pari grado (o omogenee) l’eventuale contrasto tra le rispettive discipline sarà
risolto sulla base dello stesso criterio che opera riguardo al conflitto di norme prodotte dalla stessa fonte: il criterio
cronologico.
Invece, nell’ipotesi in cui le fonti siano di grado diverso per quanto riguarda la loro capacità di produrre e di innovare
diritto, al criterio “cronologico” subentra il cosiddetto principio gerarchico: prevale non più la fonte successiva nel
tempo, bensì quella superiore per grado.
Nel diritto italiano, la Costituzione e le leggi costituzionali sono superiori alla legge ordinaria > dei regolamenti.

Infine, può accadere che esistano più fonti a ciascuna delle quali è assegnato un differente ambito di materia
(cosiddetta competenza). Se i limiti di competenza posti ad una fonte sono violati, la norma posta è illegittima, con
conseguente possibilità di procedere alla sua eliminazione.

9. L’illegittimità delle norme.


Dire che una norma è illegittima significa rilevare un vizio nella sua formazione, che la rende inidonea alla sua
funzione regolatrice. Due casi già ricordati sono la violazione di criteri di competenza e il contrasto con fonti di ordine
superiore. Affermare l’illegittimità di una norma non equivale però ad affermarne la radicale nullità o addirittura
l’inesistenza, la norma illegittima continua quindi a svolgere la sua funzione finché non viene cancellata.
L’ordinamento tollera in via provvisoria l’antinomia.
In particolare, il problema di accertare l’illegittimità costituzionale delle norme poste da fonti ordinarie può essere
sollevato dal giudice (a quo) richiesto di applicare la norma che gli appare incostituzionale, ma non da lui risolto: il

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giudizio di costituzionalità è, infatti, affidato alla esclusiva giurisdizione della Corte costituzionale. Nel caso dei
regolamenti, invece, la valutazione di illegittimità può essere fatta da qualunque giudice, ai soli fini di disapplicare il
regolamento nel decidere il caso concreto; ma il potere di annullare le norme spetta solo ai giudici amministrativi.

10. L’evoluzione delle fonti.


Il nostro ordinamento si regge sul principio per cui il giudice è “soggetto alla legge”: cioè significa che la decisione
della causa può avvenire soltanto sulla base delle norme ed eventualmente dei principi reperibili nel sistema delle
fonti. Il giudice non può dunque far prevalere un criterio empirico e concreto di giustizia per cambiare o disapplicare
la norma.
In questo senso, si dice che l’equità (cioè il criterio della giustizia nel caso concreto) non è fonte del diritto. Tuttavia,
la stessa legge può disporre che il giudice possa o debba risolvere la causa secondo equità, cioè secondo quel che a
lui appare, in concreto, un criterio di giustizia. L’equità allora non è fonte primaria di diritto ma è una “fonte”
secondaria. La legge (fonte primaria) dà al giudice questa regola: attingi pure dall’equità (fonte secondaria) la
soluzione del caso. Vi sono poi numerose norme che fanno rinvio all’equità come criterio per determinare il
contenuto di singoli diritti o obblighi di un rapporto tra privati. Equità significa, in questi casi, equilibrata soluzione del
conflitto di interessi. Così, all’equità si fa ricorso, come ultimo criterio dopo la legge e gli usi, per determinare gli
effetti del contratto oltre quanto le parti abbiano espressamente pattuito (art.1374); oppure per valutare il danno di
cui non si possa provare il preciso ammontare (art. 1226).

11 Dottrina e giurisprudenza
Il modo in cui i giudici (la giurisprudenza nel suo insieme, cioè l’attività degli organi giudiziari e il flusso delle loro
decisioni) si orientano nell’interpretare e applicare una norma è di fatto importantissimo per determinare decisioni
simili, creando la forza di fatto del precedente, in particolare attraverso le decisioni della Corte di Cassazione.

Corte di cassazione: vi si attribuisce una funzione di indirizzo e anche di soluzione dei conflitti di giurisprudenza.

L’interpretazione giudiziale assume spesso i caratteri di una forza di cambiamento del sistema giuridico, che si evolve
attraverso la tradizione giurisprudenziale.
In misura minore anche le opinioni dei giuristi possono influire sulla formazione di orientamenti giurisprudenziali e in
definitiva sul rinnovamento extra legislativo del sistema: è questo il senso del lavoro di studio che si svolge attorno
alla legge e alla giurisprudenza, il cui risultato assume il nome di “dottrina”, che ancora richiama l’antico ruolo dei
“dottori”, maestri di sapienza giuridica di cui si ricercava l’opinione.
Il giudice è soggetto solo alla legge, ma gli “occhiali” con cui studia ed interpreta i testi legislativi sono quelli che ha
acquistato studiando manuali e trattati. Il legislatore è sovrano; ma legiferando utilizza in parte schemi e concetti che
attinge al serbatoio della cultura giuridica.

12. La ricerca del diritto vigente.


a) Le norme di legge
Tutti gli atti normativi devono, prima di entrare in vigore, essere pubblicati, cioè resi pubblici ed accessibili alla
conoscenza del pubblico; la fonte di produzione (l’atto normativo) diviene così fonte di cognizione (il documento
normativo).

La ricerca della norma è relativamente agevole quando la materia è disciplinata con il sistema della codificazione; in
questo caso infatti, un’unica “legge”, un unico atto normativo, ne regola i vari aspetti in maniera organica,
sistematica e sin dove possibile completa.
Più precisamente, un codice si forma attraverso una legge-delega, che affida al Governo l’emanazione di un nuovo
codice, sia in una materia non ancora codificata (in tal caso ha la funzione di Testo Unico che ordina e rinnova tutte le
leggi esistenti in una determinata materia) sia in materie già codificate, quando ad un codice esistente si sostituisce
un codice nuovo. L’emanazione del Codice avviene per decreto legislativo.
In Italia abbiamo oggi cinque fondamentali codici:
• Il Codice civile è il fondamentale corpo normativo del diritto privato, e riguarda i rapporti personali e
patrimoniali tra privati. Esso è stato emanato nel 1942. È stato però nel corso del tempo parecchie volte
modificato in singoli punti. Consta sì ben 2969 articoli, distribuiti in sei Libri:
- Delle persone e della famiglia;
- Delle successioni;
- Della proprietà;
- Delle obbligazioni;

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- Del lavoro;
- Della tutela dei diritti.
Il testo è preceduto da 31 articoli delle Disposizioni sulla legge in generale (cosiddette Disposizioni preliminari
o preleggi) che riguardano le fonti del diritto, l’applicazione e interpretazione della legge, e il cosiddetto diritto
internazionale privato.
• Il Codice di procedura civile contiene le regole sull’instaurazione e sullo svolgimento dei processi civili (cioè
dei processi rivolti alla definizione dei rapporti tra privati). È formato da 831 articoli. Il suo contenuto è
distribuito in quattro Libri:
- Disposizioni generali;
- Del processo di cognizione;
- Del processo di esecuzione;
- Dei procedimenti speciali;
• Il Codice penale individua i comportamenti per i quali le pene devono essere applicate, cioè i reati, e
contiene le regole sull’applicazione delle pene. Consta di 734 articolari distribuiti in tre Libri:
- Dei reati in generale;
- Dei delitti in particolare;
- Delle contravvenzioni in particolare;
• Il Codice di procedura penale contiene le regole sull’avvio e lo svolgimento dei processi penali (rivolti
all’accertamento dei reati e all’applicazione delle pene). È formato da 746 articoli, divisi in undici Libri.
• Il Codice della navigazione
Le stesse materie dei codici vedono la contemporanea presenza di altre leggi e atti normativi, ma
al di fuori delle materie dei codici numerosissime altre leggi disciplinano gli oggetti più vari. Queste leggi sono
individuate dalla data, dal numero e dal titolo (ad esempio, legge 23 dicembre 1978, n. 833, Istituzione del servizio
sanitario nazionale).

Le leggi dello Stato vengono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica; le leggi regionali nei Bollettini
Ufficiali Regionali (BUR); direttive e regolamenti comunitari nella Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea (GUCE).

b) Le sentenze
Nel lavoro del giurista è molto importante, evidentemente, conoscere i modi con i quali le norme sono state nel
passato intese e applicate dai giudici nelle loro decisioni. Così come occorre saper dove trovare le leggi, occorre
anche sapere come si trovano le sentenze. Mentre le leggi e gli atti normativi hanno sempre una qualche forma di
pubblicazione ufficiale, le sentenze solo eccezionalmente sono soggette a pubblicazione legale (es. sentenze Corte
costituzionale). Come regola generale, le sentenze vengono soltanto depositate negli uffici di cancelleria del giudice.

Esistono però numerose Riviste specializzate nella pubblicazione di sentenze; esse vengono chiamate riviste di
giurisprudenza. Una sentenza si individua essenzialmente attraverso il giudice che l’ha pronunciata, la data, il numero
e i nomi delle parti litiganti.
Si usa redigere e premettere al testo della sentenza vera e propria una breve sintesi della materia e del contenuto
della decisione (chiamata rubrica) e una breve enunciazione del principio di diritto di cui si è fatta applicazione nella
fattispecie (che si dice la massima della decisione). Sia l’una che l’altra comunque non fanno parte della sentenza
vera e propria, ma sono opera dei redattori della rivista.

c) La dottrina
Alcuni argomenti debbono essere studiati più a fondo, e meglio approfonditi: esaminando le ragioni di una certa
disciplina, la sua evoluzione storica, i conflitti di interessi che ad essa sottostanno, le difficoltà interpretative, le
soluzioni possibili e quelle preferibili, anche a paragone di quelle normalmente accolte dai giudici, le eventuali
esigenze di “riforma”, cioè̀ di un nuovo intervento legislativo che muti la disciplina vigente. Agli studi di diritto ci si
riferisce usualmente con il termine “dottrina”. Gli studi giuridici sono spesso pubblicati in Riviste giuridiche, ciascuna
delle quali ha un campo di intervento più o meno ampio.

Gli studi giuridici si possono dividere in diversi generi letterari:


• Monografie: volumi dedicati all’approfondimento sistematico ed esauriente di uno specifico tema o
argomento.
• Rassegne: scritti con i quali si offre ai lettori una panoramica generale della legislazione di una certa materia,
o delle sentenze che si sono avute o degli studi compiuti.
• Nota a sentenza: commento ad una determinata sentenza pubblicato insieme alla stessa.
Manuali, Trattati, Commentari, Enciclopedie rappresentano alcuni strumenti di ricerca e conoscenza del pensiero dei giuristi.

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CAP. 2.
L’APPLICAZIONE DELLE NORME GIURIDICHE
1. La struttura della norma giuridica.
Lo schema logico della norma giuridica è costante: si tratta di una regola di comportamento condizionata, la quale prevede che:
- Se si verificano certi fatti, allora si dovrà o potrà comportarsi in un certo modo.
Fattispecie: termine utilizzato per indicare la situazione cui una norma giuridica collega certe conseguenze.
Un determinato fatto ha certi effetti o conseguenze giuridiche.
Le conseguenze sono il contenuto prescrittivo della norma.
Fattispecie complessa: insieme di fattispecie distinte la cui somma è necessaria per completare lo schema normativo,
sono solitamente a formazione progressiva poiché non si formano in un istante ma con un lungo corso di tempo:
- Prima si realizza un elemento della fattispecie, poi l’altro che la completa.
Sussunzione: compito del giudice di riconoscere, nel caso concreto, i connotati della fattispecie astratta.

2. Il testo normativo. Norma e disposizione.


Qualsiasi norma deve essere formulata come una regola di comportamento, cioè come un messaggio linguistico di contenuto
prescrittivo (proposizione prescrittiva).
Nel caso di norme non scritte, come gli usi, questa formulazione viene fatta da chi deve applicare la norma.
Nel caso di norme scritte, invece, la norma si ricava da un complesso di parole a cui dare un significato. Infatti,
mentre la norma è il significato, il testo scritto in sé viene detto disposizione normativa.
Interpretazione: operazione con cui si attribuisce significato alla disposizione normativa.

Il legislatore ordina e raggruppa le disposizioni normative in modo da rendere consultabile il testo legislativo.
Articolo: unità-base di ripartizione del testo nella legislazione italiana.
Commi: divisione in capoversi all’interno degli articoli.
Rubrica: titoletto attribuito agli articoli che annuncia l’argomento trattato.

3. L’interpretazione delle disposizioni normative.


La ricerca del significato delle disposizioni normative è quella operazione, che chiamiamo “interpretazione della
legge”. “Ricerca” del significato non va intesa nel senso che esiste un solo, unico, necessario significato del testo, che
l’interprete deve solo scoprire: l’interpretazione della legge non è scoperta di una verità precedente, assoluta e
incontestabile, ma attribuzione di significato:
a. Nell’ambito di ciò che è compatibile con il testo interpretato
b. Secondo criteri non arbitrari, e assoggettabili a un controllo di razionalità

Ma quali sono questi criteri dell’interpretazione:


a. Esiste una teoria dell’interpretazione che può suggerire al giurista una gamma di metodi interpretativi
b. Esistono dei criteri normativi per l’interpretazione (art. 12 Disposizioni preliminari) che devono essere
seguiti nell’interpretare qualsiasi regola dell’ordinamento.

Una parola può avere una gamma più o meno ristretta di significati. In questa gamma, si dovrà stabilire il significato
delle parole in relazione al contesto (art. 12 Disposizioni preliminari). A questi primi criteri si riferisce l’espressione
“interpretazione letterale”: ogni parola ha una gamma di significati, e solo il contesto può “concentrare” il significato.
(esempio parola “liquidi” debiti e alimenti).

Il testo legislativo si caratterizza però come messaggio prescrittivo: chi riceve questo tipo di messaggio deve chiedersi
quale risultato pratico la prescrizione sia diretta a raggiungere, e deve quindi attribuire al testo un significato che sia
coerente con lo scopo cui la regola è diretta. Si parla a riguardo di ratio (ragione pratica, scopo, logica) della norma:
l’interpretazione che ne tiene conto è detta “interpretazione logica”. (esempio “è vietato sporgersi” da un terrazzo e
da un treno).

Il criterio dell’interpretazione logica è fatto proprio anche dall’art. 12 Disposizione preliminari quando alla fine del
primo comma impone all’interprete di rispettare “l’intenzione del legislatore”. La regola sembra dunque obbligare
l’interprete a tener conto di ciò, che “il legislatore” storicamente si proponeva nel dettare la disposizione.
Nel linguaggio comune, “intenzione” è la volontà di una persona diretta a un fine. Il legislatore, però non è una
persona, ma un organo dello Stato (Parlamento). Di una “intenzione del legislatore” si può parlare in senso storico-
politico, per riferirsi agli scopi perseguiti con l’emanazione della norma, quali risultano, ad esempio, dai lavori
preparatori e dalla Relazione alla legge. Tuttavia, l’interprete non può ritenersi vincolato a cercare un significato

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
conforme alla “volontà politica”. La legge, una volta approvata, “si stacca” dall’organo che l’ha prodotta: non viene
più in rilievo come una “decisione” legata a ragioni e fini di chi l’ha voluta, ma come un testo legislativo inserito
nell’insieme dell’ordinamento giuridico.
La ratio della norma è, perciò, un vincolo per l’interprete solo se intesa in senso funzionale o teleologico: cioè come
lo scopo, il risultato razionale che la norma può oggettivamente perseguire nel momento in cui viene applicata.

La considerazione della ratio della norma, e gli altri criteri di cui parleremo, possono far sì che l’interprete attribuisca
alle parole usate dal legislatore un significato più ampio, o più ristretto a quello che deriverebbe dalla sola analisi
linguistica della singola disposizione normativa. Si usa perciò sottolineare due diversi risultati dell’interpretazione: si
parla di interpretazione estensiva quando la regola, che è risultato dell’interpretazione, ha un campo di applicazione
più esteso rispetto al significato letterale della disposizione; di interpretazione restrittiva nel caso opposto.
L’interpretazione giudiziale: fatta dal giudice è la formulazione di una regola concreta, che il giudice stesso applica
per risolvere la controversia. Questa interpretazione non è vincolante per altri soggetti né per altri giudici. Tuttavia,
l’interpretazione giudiziale influenza di fatto gli orientamenti giurisprudenziali.
L’interpretazione dottrinale, cioè quelle proposte di interpretazione che vengono avanzate dagli studiosi di diritto. In
altri sistemi l’autorità del giurista è considerata una fonte da cui il giudice può attingere per la decisione. Non è così
da noi.

L’interpretazione autentica, cioè fatta dallo stesso legislatore con una o più nuove disposizioni normative che
prescrivono come si debbano interpretare disposizioni vigenti che siano risultate di difficile interpretazione, o che
comunque abbiano condotto a risultati che il legislatore vuole evitare.

4. L’idea di “sistema” e l’interpretazione.


Un ordinamento giuridico come il nostro si è sviluppato nel tempo, e accumula ormai uno sull’altro diversi “strati
geologici” di disposizioni normative.
La visione che un giurista ha dell’ordinamento non è, tuttavia, quella di una massa di regole isolate l’una dall’altra. Il
giurista tende piuttosto a individuare dei sistemi di norme come delle costellazioni (infatti l’ordinamento giuridico è
definito come un universo di regole di diritto) ciascuno dei quali si presenta come un complesso coordinato in modo
da perseguire un unico fine: è questa la definizione tradizionale di istituto giuridico.
Nei grandi codici, la logica degli “istituti” risulta anche dalla ripartizione materiale fatta dal legislatore.

L’istituto giuridico è, dunque, la risposta un’unitaria che l’ordinamento dà a un problema di organizzazione della vita
sociale.

È l’idea stessa di ordinamento giuridico che pone l’esigenza di considerare la totalità delle norme come un sistema,
cioè come un insieme in cui ogni parte influenza e spiega le altre.
Questa idea sta alla base di tre criteri di lavoro del giurista: l’interpretazione sistematica, l’impiego dell’analogia e il
ricorso ai principi generali.

Il criterio dell’interpretazione sistematica prescrive di attribuire a una disposizione normativa quel significato che
essa può avere in quanto posta in relazione con tutte le altre che fanno parte del “sistema”. C’è sotto l’idea che il
linguaggio usato dal legislatore sia coerente (significati eguali per termini eguali in contesti simili) e che sia
riconoscibile anche una coerenza dei fini (della ratio delle norme).

5. L’analogia. I principi generali.


All’idea di “sistema” si ispira il secondo comma dell’art. 12 delle Disposizioni preliminari, che stabilisce come si
debbano colmare le lacune dell’apparato normativo.
Il problema nasce quando il giudice, chiamato a decidere un caso, si trova di fronte a una lacuna: ossia non trova una
disposizione normativa che sia applicabile alla situazione di fatto a lui presentata. Come colmarla?
Il giudice non può “creare” una regola di diritto, che riempia il vuoto legislativo. D’altra parte, vale anche il principio
per cui il giudice non può negare giustizia, rifiutando di risolvere il caso.
Postulato della completezza dell’ordinamento: qualsiasi caso può essere risolto sulla base delle regole
dell’ordinamento giuridico.
Di fronte al caso non previsto da alcuna disposizione normativa il codice dispone che il giudice segua, in successione,
i due criteri seguenti:
a. si cercherà di risolvere il caso utilizzando “disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe”; si tratta
della cosiddetta analogia legis che corrisponde a un criterio logico fondamentale: soluzioni simili per

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
problemi simili. L’analogia non porta ad applicare al caso non previsto la regola che disciplina il caso simile,
ma, avendo riguardo alla disposizione che vale per la situazione analoga, il giudice in sostanza stabilirà una
regola concreta adatta alla questione che deve risolvere.
Questo carattere “creativo” dell’analogia spiega i limiti imposti al suo impiego: non possono essere applicate
per analogia le leggi penali e le leggi eccezionali, cioè che stabiliscono una eccezione a regole più generali.
b. qualora il giudice non trovi una norma che regola un caso simile, deve applicare i principi generali
dell’ordinamento giuridico, come indicato dalla parte finale dell’art. 12 delle disposizioni preliminari; si
tratta della cosiddetta analogia iuris. In molti casi il legislatore ci aiuta dettando espressamente i suoi
princìpi.
Il ricorso ai principi serve a risolvere casi non previsti; supplisce, cioè, alla mancanza di una disposizione
direttamente applicabile al caso. Non va quindi confuso con l’applicazione di regole a contenuto molto
ampio, che vengono chiamate “clausole generali”, come ad esempio quella che prescrive alle parti di un
qualsiasi contratto di comportarsi “secondo buona fede” art. 1375. Questo tipo di regole è dettato dal
legislatore proprio per consentire al giudice di concretizzare il criterio di comportamento genericamente
prescritto.
CAP. 3.
IL DIRITTO PRIVATO E LE SUE FONTI
1. L’ambito del diritto privato.
La ripartizione fondamentale è quella che distingue il diritto privato dal diritto pubblico. Il senso della distinzione si
coglie guardando agli interessi (termine che comprende bisogni, esigenze, finalità, valori) che sono regolati o più
precisamente al modo in cui il legislatore li considera: se come interessi “particolari”, che riguardano cioè singoli
individui, e gruppi o invece come interessi generali, che toccano l’intera collettività.

Il diritto privato è il diritto degli interessi particolari, che sono trattati, di regola come interessi disponibili: bisogni,
esigenze, finalità, valori dei quali gli stessi interessati possono decidere, in certi limiti, se e come cercare la
soddisfazione o accettare il sacrificio.
Il diritto pubblico è il campo degli interessi generali, che, proprio perché tali, non sono disponibili da un singolo
interessato né da un gruppo di interessati: essi riguardano tutta la collettività e perciò la loro concreta realizzazione,
ed il controllo sulla loro realizzazione, sono affidati alla pubblica autorità, anche se con differenti margini di
“discrezionalità” nella scelta del miglior modo di intervento.

Il diritto pubblico è il campo degli interessi generali, che riguardano tutta la collettività e perciò la loro concreta
realizzazione ed il controllo sulla loro realizzazione sono affidatai alla pubblica autorità.

La diversa considerazione degli interessi giustifica la diversità degli strumenti.


Nel diritto privato, un interesse particolare può essere protetto da una norma giuridica a preferenza di un altro, che
viene sacrificato: ma questa protezione si realizza con strumenti che lasciano le parti in una posizione di reciproca
eguaglianza: nessuno è soggetto all’autorità di un altro.
Il diritto privato lascia poi un campo molto ampio alla possibilità di regolare da sé la soddisfazione dei propri
interessi: l’autonomia privata è il criterio distintivo di questo ramo del diritto, e il contratto il suo principale
strumento.
Nel diritto pubblico invece, la realizzazione degli interessi generali richiede un esercizio di autorità: almeno uno dei
soggetti compare in posizione di supremazia, in quanto investito dei poteri propri alla pubblica autorità.
I poteri di cui sono investiti enti e organi pubblici son caratterizzati da un vincolo: il potere sussiste allo scopo di
realizzare interessi della collettività, e l’esercizio del potere è legittimo solo se non devia da questo scopo.
I settori in cui prevalgono le caratteristiche del diritto privato sono quelli che formano lo scheletro del codice civile: il
diritto delle persone e della famiglia, le successioni ereditarie, la proprietà, ecc. Riconosciamo invece i caratteri del
diritto pubblico nelle norme che regolano l’attività degli organi costituzionali e della Pubblica Amministrazione, gli
obblighi dei cittadini verso lo Stato, la prevenzione e repressione dei reati, lo svolgimento del processo: le discipline
che se ne occupano sono il diritto costituzionale, il diritto amministrativo, il diritto tributario, il diritto penale, ecc.
Tuttavia, la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico è intesa tra due modi di affrontare i problemi. Infatti, si
noti che la natura dei soggetti non è mai decisiva per valutare se il rapporto tra loro sia privato o pubblico: infatti tra
soggetti pubblici e privati, o anche tra soggetti pubblici, possono esistere e spesso esistono rapporti disciplinati dal
diritto privato.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
2. La codificazione.
L’ordinamento italiano è fra quelli che sono comunemente chiamati di “diritto codificato”. Si tratta di quegli
ordinamenti nei quali si è cercato di riordinare e unificare il diritto dello Stato attraverso la promulgazione di grandi
testi legislativi che dovevano costituire l’unica fonte di disciplina per ciascun “ramo” del diritto.

Nel continente europeo il movimento della “codificazione” viene identificato con alcune grandi tappe:
• La formazione dei codici napoleonici (il Code civil è del 1804) e la loro diffusione nell’area di influenza
dell’impero francese compreso il Regno d’Italia
• Nel 1865 il Regno d’Italia, unificato nel 1861, si dotava del Codice civile e nel 1882 del Codice di commercio,
ricalcati sul modello dei codici francesi.

Le grandi codificazioni nascono da profonde motivazioni pratiche e ideali, che si riassumono nell’ideale di coerenza,
chiarezza e certezza dell’apparato normativo.
Prima della codificazione non esisteva un apparato unitario di regole; non tutte le regole erano scritte; non tutte le
regole erano emanate da un’autorità statuale né territoriale; la “legge” non era uguale per tutti. Esistevano leggi
scritte emanate dall’autorità statuale, cioè dal sovrano o dalle autorità che da lui ricevevano il potere, ma queste
leggi non formavano un sistema né completo né coerente.
I grandi vuoti nella rete disordinata delle regole scritte erano in parte riempiti dal diritto consuetudinario (i costumi)
che si poteva conoscere attraverso raccolte curate dai giuristi. Gli usi mercantili, che valevano come regole legali per
la soluzione delle controversie tra i mercanti delle diverse corporazioni.
Alla base della vita giuridica, stava il diritto romano, così come si conosceva nella codificazione di Giustiniano.
Al diritto romano si ricorreva come a un deposito di regole di “sapienza” giuridica, recepito però, per volontà stessa
delle autorità statuali, in tutti i sistemi giuridici europei, e perciò concepito come “diritto comune” ai diversi Stati. La
complessità delle “fonti” di diritto si combinava con quella delle autorità giudicanti: la giurisdizione (il potere di
dettare norme e di fare giustizia) del sovrano si incrociava con quella feudale, municipale, canonica. La scelta della
giurisdizione e delle regole da applicare dipendeva dagli status personali: cittadino o straniero, libero o servo, laico o
chierico, borghese o contadino.

Il diritto appariva quindi come un panorama frammentato e intricato, universale nei suoi fondamenti romanistici e
canonistici, ma formato poi da vasi non comunicanti, in cui ogni territorio, ogni municipio, ogni feudo, ogni ceto
sociale trovava regole e giurisdizione particolari: questo mondo si riassume nell’espressione “particolarismo
giuridico”.
Questo intreccio di regole e poteri non determinava soltanto l’oscurità e l’incertezza delle regole applicabili ad ogni
concreta situazione. Esso era anche la fonte di privilegi e di vincoli, che ostacolavano le spinte borghesi ad un libero e
vivace traffico economico; ed in particolare, ostacolavano la circolazione della proprietà terriera e immobiliare.

Di qui l’impulso, “rivoluzionario”, verso la formazione di un corpo unitario di regole ad applicazione generale. Questo
obiettivo implicava l’abbattimento dei privilegi e il superamento degli status particolari:
• l’attribuzione ad ogni cittadino, cioè ad ogni uomo, di una condizione eguale, di un solo basilare status,
quello di soggetto, eguale ad ogni altro, dell’ordinamento giuridico (unità del soggetto).
• L’abbattimento dei vincoli feudali, la “liberazione” dei beni: anche la proprietà doveva uniformarsi ad un solo
modello (unità della proprietà e libertà dei beni).
• Lasciare che i singoli, nella loro condizione di soggetti liberi ed eguali, costruissero le proprie relazioni
economiche, senz’altro limite che quello del lecito, con lo strumento del contratto (libertà
contrattuale/autonomia contrattuale).

I grandi codici dell’Ottocento hanno vita lunga. Attraverso continue modificazioni, rimangono in vigore fino ad oggi
sia il corpo del Codice Napoleone che quello del Codice tedesco. In Italia, una grande riforma dei codici è impostata
dopo la Prima guerra mondiale, arriva a compimento:
• Dal 1930 approvazione del Codice penale e del Codice di procedura penale.
• Al 1940 approvazione del Codice di procedura civile.
• Al 1942 approvazione del Codice civile (unificando quello di commercio) e del Codice della navigazione.

Il legislatore può reagire all’invecchiamento di un codice con mezzi diversi:


• Novellazione: riforma di parti più o meno ampie del codice stesso.
• Altrimenti, il legislatore può procedere affiancando al codice nuove leggi (leggi collegate) che regolano materie nuove o
stabiliscono nuove soluzioni per problemi già considerati nel Codice civile. Nel caso italiano, questa è la via più battuta.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Il Codice civile rimane tuttavia ancora il luogo in cui si raccolgono i meccanismi fondamentali, in base ai quali il diritto regola i
rapporti tra i privati, e da cui si possono ricavare le idee, concetti, principi utili a interpretare, cioè a capire e a sistemare, anche le
molteplici, spesso disordinate leggi che si sono nel tempo affiancate al Codice civile.

3. Diritto civile e diritto commerciale: cenni storici.


Nella rinascita civile ed economica del mondo medievale, l’economia dei nuovi ceti cittadini, “borghesi” formò un
proprio sistema di regole attorno a due pilastri fondamentali:
• Usi mercantili: consuetudini che valevano come regole nei rapporti tra chi svolgeva attività economiche. Alla base di
queste regole vi erano le regole del diritto romano o anche, semplicemente, pratiche di onestà e buon senso che, con il
tempo, avevano assunto il peso di vere e proprie norme di condotta.
• Corporazioni: associazioni professionali a cui ogni commerciante o artigiano doveva iscriversi per poter svolgere la
propria attività. L’esclusione dalla corporazione comportava l’impossibilità di praticare il commercio o l’artigianato nella
città e l’estrema difficoltà di poterlo fare altrove. Il giudizio si svolgeva alla luce degli usi, degli Statuti della corporazione
e delle decisioni precedenti (che a loro volta contribuivano alla formazione di regole).

Unificazione dei codici: direttiva politica del regime fascista con la scomparsa del Codice di commercio (1882):
• La disciplina dell’impresa e delle società è infatti contenuta nel V Libro del Codice civile “Del lavoro”.
• Commercializzazione del diritto privato, a soccombere fu la disciplina civile delle obbligazioni e dei contratti.

4. Il Codice civile del 1942.


Il Codice civile del 1942 ha lo strano destino di nascere negli stessi anni in cui il suo “legislatore” storico cade travolto
dalla guerra che aveva concorso a scatenare.
A partire dalla liberazione d’Italia, e poi con la Costituzione repubblicana, il Codice vige in un ordinamento le cui basi
sono completamente mutate (es. leggi razziali e concezione gerarchica della società). A partire dal 1944 si era
provveduto a eliminare quelle leggi di natura fascista facendo così divenire il Codice un tipo di Codice
sostanzialmente liberale. L’innovatività di questo codice era nell’aver messo l’impresa e il contratto al centro del suo
disegno, anziché la proprietà.

Il Codice civile del 1865 era diviso in tre Libri:


• Libro I: era dedicato alle Persone e comprendeva in sostanza la disciplina dei soggetti e il diritto di famiglia.
• Libro II: era dedicato alla proprietà e comprendeva la disciplina del diritto di proprietà sulle cose, in
particolare della proprietà fondiaria.
• Libro III era dedicato ai “Modi di acquisto della proprietà” tra questi erano regolati tutti gli istituti che
avevano la funzione di determinare il passaggio della proprietà da un soggetto ad un altro. Successione
ereditaria, contratto e la stessa obbligazione.

Il codice del 1865 era “il codice della Proprietà”. Anche a causa della fusione con il Codice di commercio, il Codice
civile del 1942 assume una struttura profondamente diversa. I Libri del Codice diventano sei:
• Libro I dedicato alle Persone e alla Famiglia.
• Libro II dedicato alle Successioni a causa di morte: che diventano una materia autonoma.
• Libro III raccoglie la materia della Proprietà.
• Libro IV è dedicato alle Obbligazioni, cioè ai rapporti che corrono tra un debitore e un creditore, e di seguito
alle loro “fonti” cioè alla fattispecie da cui possono nascere obbligazioni. Come tale è disciplinato il
contratto, e quindi tutti i contratti tipici; inoltre, i titoli di credito e l’illecito civile.
• Libro V intitolato “Del Lavoro” raccoglie la materia strettamente commercialistica, che fa centro sull’impresa
e sulla società commerciale.
• Libro VI dedicato alla Tutela dei diritti raccoglie la disciplina di istituti che servono a dare certezza e
attuazione coattiva ai rapporti di diritto privato.

5. La Costituzione e i rapporti tra privati.


La Costituzione italiana contiene numerose norme che riguardano i diritti della persona, i rapporti familiari, l’iniziativa
economica, la proprietà e l’impresa, il rapporto di lavoro. Nella cultura giuridica del dopoguerra, però, il testo
costituzionale non è immediatamente apprezzato come una fonte e uno strumento di lavoro per il civilista. È solo
attorno agli anni Sessanta che nella dottrina civilistica italiana irrompe la “scoperta” della Costituzione:

Oggi la rilevanza riconosciuta alle norme costituzionali nel formare la disciplina dei rapporti di diritto privato è
molteplice:

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
• la norma costituzionale viene in rilievo nell’interpretazione di singole norme di diritto privato là dove una regola di
diritto privato presenta una gamma di possibili significati; è la regola costituzionale che può far pendere la bilancia a
favore dell’interpretazione conforme agli indirizzi costituzionali.
• la Costituzione può essere vista come un “deposito” di principi fondamentali che riguardano anche i rapporti tra i privati
e che valgono come principi generali a norma dell’art. 12 delle disposizioni preliminari;
• la regola costituzionale è formulata in modo da permettere all’interprete di considerarla come direttamente applicabile
a un rapporto privato.

6. Il diritto privato e le relazioni transazionali.


La crescita delle relazioni economiche e personali attraverso i confini statuali ha posto due tipi di esigenze:
a. Quella di uniformare il diritto interno dei diversi Stati tramite studio e stipulazione di convenzioni
internazionali (importanti sono quella di Ginevra del 1930 che ha a riguardo le cambiali e gli assegni e quella
di Vienna del 1980 riguardante i contratti di vendita internazionale di merci).
L’obiettivo dell’uniformazione è poi particolarmente perseguito all’interno della Comunità europea grazie
alle direttive.
b. Quella di regolare situazioni e relazioni che non si esauriscono nel territorio di un singolo Stato. Il problema è
quello della disciplina da applicare a quei rapporti che, rispetto ad un ordinamento statuale presentano un
“elemento di estraneità” perché una o entrambe le parti in causa sono cittadini stranieri o perché il bene su
cui verte la causa è situato fuori dal territorio dello Stato. In ogni ordinamento esistono norme (c.d. norme
di diritto internazionale privato) che dispongono che il giudice debba decidere in base alle norme dell’uno o
dell’altro diritto nazionale.

Nel 1995 è stato riformato il sistema italiano di diritto internazionale privato e l’art. 1 indica l’oggetto del “diritto
internazionale privato”: la legge
• Determina “l’ambito della giurisdizione italiana”.
• Stabilisce “i criteri per l’individuazione del diritto applicabile”.
• Regola “l’efficacia delle sentenze e degli atti stranieri”.

Per quanto riguarda il secondo punto le linee seguite dalla legge sono in sintesi le seguenti:
1. La legge nazionale regola lo stato e la capacità delle persone fisiche e i diritti della personalità, i rapporti di
famiglia, la protezione degli incapaci, la successione a causa di morte, le donazioni (quindi i rapporti in cui
prevale il riferimento alla persona).
2. La legge del luogo regola il possesso, la proprietà e i diritti reali sui beni mobili e immobili e i diritti sui beni
immateriali e le questioni di forma degli atti giuridici, nonché le obbligazioni non contrattuali.
3. La legge indicata dalla volontà delle parti regola le obbligazioni contrattuali in forza del rinvio che l’articolo
57 (sempre della legge del 95) fa alla Convenzione di Roma (1980), che consente ai contraenti di scegliere la
legge cui assoggettare tutto il contratto o parte di esso. La stessa regola è ora prevista dal Regolamento CE,
che sostituisce la Convenzione di Roma negli Stati facenti parte dell’UE.
I diversi criteri possono anche combinarsi tra loro o valere in “serie”.

Il legislatore ha inserito nel sistema del diritto internazionale privato un principio di favore per la formazione e
l’applicazione di un diritto uniforme: l’art. 2 prevede che le disposizioni della legge non pregiudichino l’applicazione
di convenzioni internazionali.
Esiste però un limite a questa “importazione” del diritto straniero: l’art. 16 della legge stabilisce che in nessun caso la
legge straniera sia applicabile se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico. Con il concetto di “ordine pubblico” si
fa qui riferimento a quei principi fondamentali di carattere etico-sociale che sono alla base dell’ordinamento
giuridico italiano ed hanno perciò un carattere di inderogabilità:
- I princìpi espressi nella Costituzione
- Poi, quei princìpi che riflettono le scelte fondamentali che caratterizzano la nostra “civiltà giuridica”.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato

Parte Seconda: LE CATEGORIE GENERALI


CAP. 4.
LE SITUAZIONI GIURIDICHE
1. Prescrizioni, situazioni, rapporto giuridico.
Consideriamo una tra le più semplici regole del nostro codice: “chi trova una cosa mobile deve restituirla al
proprietario.” art. 927.
Come ogni norma, anche questa contiene una prescrizione, che impone un certo comportamento: si deve restituire
ciò che si trova. Anche una regola così semplice, quando trova applicazione, colloca due soggetti in una precisa
posizione o situazione giuridica: il primo nella situazione di chi è tenuto a comportarsi in un certo modo (restituire); il
secondo nella posizione di chi può pretendere dal primo un comportamento a lui favorevole.
Si stabilisce così tra i due protagonisti una relazione disciplinata dalla legge, o come si usa dire un rapporto giuridico.
Il rapporto mette in relazione due soggetti ciascuno dei quali è investito di una situazione giuridica soggettiva: la
situazione, o posizione, in cui viene a trovarsi un soggetto, per effetto della applicazione di una o più regole di diritto.
Si chiama, in genere, situazione giuridica attiva quella in cui si trova la parte avvantaggiata, il cui interesse è protetto
nel rapporto, e situazione giuridica passiva quella in cui si trova la parte svantaggiata, il cui interesse è sacrificato.

Descrivere esattamente il rapporto giuridico che una norma crea, indicare con precisione e proprietà le situazioni
giuridiche che lo compongono, permette di rappresentare fedelmente il contenuto delle norme e di rendersi conto
dell’equilibrio di interessi che esse intendono realizzare.

2. Le situazioni elementari: dovere-obbligo, facoltà, potere.


Funzione primaria della norma giuridica è quella di imporre ai suoi destinatari un determinato comportamento.
La categoria logica che corrisponde a questa funzione è quella del dovere/obbligo. La norma ci dice che una certa
condotta è dovuta; il che significa che solo un comportamento come quello soddisfa la prescrizione, mentre un
comportamento opposto o diverso, viola la norma.
La norma può indicare il comportamento che vuole imporre e collegarlo a espressioni come “deve”, “è tenuto a”, “ha
l’obbligo di”, ecc. (formule di comando). Oppure può indicare un comportamento che vuole sia evitato e collegarlo a
espressioni come “è vietato”, “non è lecito”, “non può” ecc. (formule di divieto).
La situazione soggettiva della persona, che è tenuta ad un certo comportamento (a fare o a non fare qualcosa: dovere
positivo o negativo) si chiama obbligo. L’obbligo di non fare è un divieto. Ma in realtà le norme giuridiche però
svolgono spesso una diversa funzione, quella di stabilire quali comportamenti si possono tenere. La regola può essere
formulata dicendo che un soggetto “può” fare qualcosa oppure che “ha diritto di”.
Va chiarito anzitutto che il verso “potere” non ha un solo significato. Noi italiani abbiamo qualche difficoltà a
percepire immediatamente questa distinzione perché́ disponiamo di un unico verbo “potere”; in altre lingue esistono
due verbi differenti che corrispondono al nostro “potere” (es. can e may). il primo verbo esprime l’idea di avere la
libertà o il permesso di comportarsi in un certo modo, il secondo invece l’idea di avere la capacità, la possibilità di
ottenere un risultato. Noi possiamo esprimere le due idee con chiarezza usando le perifrasi: avere la facoltà o avere il
potere.
Facoltà e potere sono dunque due concetti diversi. Mentre facoltà indica la posizione di chi può compiere
lecitamente un atto, potere indica la posizione di chi può compiere efficacemente un atto.
Dato che tutto ciò che non è un obbligo è lecito, la parola facoltà trova la sua utilità quando il legislatore vuole
indicare che solo un certo soggetto può fare qualcosa, oppure anche quando vuole indirettamente stabilire dei
limiti chiari, in quanto attribuire la posizione giuridica della facoltà significa esprimere chiaramente che quella
condotta è lecita.

3. (segue) Soggezione e onere.


Non sempre le norme giuridiche impongono un comportamento. In alcuni casi, la regola si limita a stabilire che un
certo risultato può essere ottenuto solo da chi terrà un certo comportamento: la situazione del soggetto si chiama
allora, non obbligo, ma onere. Consideriamo come esempio l’art. 2697, intitolato all’onere della prova. Dice questo
articolo che “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Allora,
per esempio, se io voglio far valere in giudizio il io diritto alla restituzione di una somma di denaro che ho prestato,
“devo” provare che il prestito è avvenuto.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
L’onere, come situazione giuridica elementare, non si deve confondere con l’onere testamentario o con l’onore
imposto al donatario: si tratta, in quel caso, di obblighi veri e propri, che nascono da una clausola, detta anche
“modus”, che limita i benefici di un atto di liberalità.

Usiamo il termine soggezione per indicare la situazione di un soggetto che senza essere obbligato a un determinato
comportamento, subisce le conseguenze dell’esercizio di un potere altrui che sia un’autorità o no. Il termine nasce
per descrivere la posizione di chi è soggetto a un’autorità altrui: per esempio, la posizione dei figli minorenni che
sono soggetti alla potestà dei genitori. Il concetto di soggezione viene però esteso a casi, in cui non c’è una
subordinazione ad un’autorità o potestà altrui, ma il soggetto è “esposto” alle conseguenze dell’esercizio di un altrui
potere.

4. Il diritto soggettivo.
In passato si è tentato di dare una sola definizione di diritto soggettivo che si adattasse a tutti i diversi casi in cui
questa espressione viene data.
Nel corso del tempo, si è dapprima definito il diritto soggettivo come “facoltà di agire” sul modello della proprietà, in
cui si vedeva il proprietario come colui che ha la facoltà di godere e disporre pienamente e liberamente della cosa. Si
è poi accentuato l’aspetto della pretesa, valorizzando il modello del credito, in cui un soggetto ha il potere di esigere
da un altro.
In realtà, una definizione unitaria di “diritto soggettivo” è problematica per due ragioni:
a. Da un lato, si sono moltiplicate le situazioni in cui si parla di “diritto soggettivo
b. Dall’altro, anche nei diritti “classici”, come la proprietà o il credito, si è man a mano valorizzatala la
complessità della situazione.
La proprietà non è solo facoltà di usare e potere di escludere gli altri, ma anche dovere: la Costituzione
impone un uso della proprietà conforme alla sua funzione sociale (art. 42 Cost.) e, nell’iniziativa economica,
un impiego conforme alla dignità della persona (art. 41 Cost.). La posizione di creditore non è solo pretesa e
potere ma anche obbligo: obbligo di correttezza (art. 1175), obbligo di collaborare con il debitore perché
possa eseguire la prestazione (artt. 1206 e ss.) ecc.
È evidente, insomma, che il concetto di diritto soggettivo non indica posizioni sempre eguali.
Una definizione unitaria è tuttavia possibile, perché due aspetti sono presenti in tutti i casi nei quali si parla di “diritto
soggettivo”:
a. L’attribuzione di un potere: o come potere di pretendere un comportamento altrui, o come potere di
impedire altrui interferenze, o almeno come potere di rivolgersi al giudice per la tutela del proprio interesse.
b. Lo scopo immediato e diretto di tutelare l’interesse del soggetto, cui quelle prerogative sono conferite.
Si può quindi ritenere una definizione accettabile di diritto soggettivo la seguente: si parla di diritto soggettivo
quando la legge attribuisce a un soggetto un potere per la tutela primaria e diretta del proprio interesse.

5. L’interesse legittimo nel diritto privato.


Nel diritto pubblico si parla di “interesse legittimo” per indicare quelle situazioni in cui l’attribuzione di un potere ad
un soggetto non viene data per proteggere l’interesse del titolare, ma al fine di far coincidere un interesse
particolare con uno generale.
Esempio: una persona partecipa a un concorso pubblico, nel quale la commissione non prende in considerazione uno
dei “titoli” che devono essere valutati ai fini del punteggio. C’è qui la coincidenza di due interessi: l’interesse pubblico
allo svolgimento rigoroso e corretto dei concorsi, e l’interesse del singolo che è stato privato del punteggio.
L’ordinamento attribuisce al singolo interessato il potere di mettere in moto vari meccanismi di controllo sull’attività
della commissione, diretti a porre rimedio alla violazione della legge, o ad altri difetti dell’attività compiuta, ma
considera questo potere d’iniziativa come uno strumento per assicurare, prima di tutto, l’interesse generale alla
legittimità e corretta dell’amministrazione.

Chi agisce per la tutela di un interesse legittimo deve rivolgersi, anziché al giudice ordinario, agli organi della
giurisdizione amministrativa.
Una situazione di struttura per qualche aspetto paragonabile a quella dell’interesse legittimo si ritrova, nei rapporti di
diritto privato, quando un potere di iniziativa viene attribuito a una persona non per la tutela immediata di un suo
particolare interesse, ma per un interesse collettivo al rispetto di certe regole: così, è attribuito ai congiunti, e a
chiunque vi abbia un legittimo interesse (art. 119) il potere di impugnare il matrimonio concluso da un interdetto per
infermità mentale; egualmente, per far dichiarare la nullità di un contratto può agire “chiunque via abbia
interesse” (art. 1421).

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
6. Ufficio o funzione.
Ben distinte dal diritto soggettivo sono quelle posizioni in cui si combinano insieme potere e dovere e che possono
comprendersi tutte nell’idea di funzione o ufficio di diritto privato. Accade che un soggetto sia investito di un potere
che gli è affidato non per la tutela di un proprio interesse ma perché egli persegua e curi un interesse altrui.
Così è, ad esempio, per i poteri attribuiti ai genitori per curare l’interesse del figlio minore (art.320); per i poteri
attribuiti al tutore di un minore o di un interdetto (art. 357); per i poteri attribuiti a varie figure come il curatore dei
beni di una persona scomparsa (art. 48).
Questo scopo, con cui la legge caratterizza l’attribuzione stessa del potere, ha due conseguenze:
• L’attività giuridica oggetto del potere è anche oggetto di un dovere: il titolare può e deve compiere tutti gli atti che sono
opportuni per curare l’interesse a lui affidato.
• Il potere stesso è vincolato allo scopo, cioè ogni atto di esercizio del potere che si discosti dallo scopo fissato dalla legge
costituisce un abuso.

Vi sono casi nei quali la funzione o l’ufficio attribuito ad un soggetto ha un contenuto tale che il rapporto con l’interessato perde
quei caratteri di parità che sono propri di ogni rapporto di diritto privato, e assume invece i connotati della autorità.
Il caso più evidente è quello dei genitori: essi sono investiti di un potere-dovere di cura della persona e degli interessi del minore
che comprende in sé anche aspetti di autorità: il genitore può assumere decisioni nell’interesse dei propri figli e in certi limiti
disporre, senna il loro consenso, dei loro interessi. Questo aspetto era in passato detto “potestà genitoriale”.

7. Diritti assoluti e relativi.


La categoria dei diritti soggettivi è varia perché gli interessi che il diritto protegge sono di varia natura: anche gli
strumenti di protezione sono dunque diversi tra loro, in funzione del tipo di interesse che sono diretti a tutelare.
Una prima distinzione è quella tra:
• Diritti assoluti, i quali sono diritti che si possono far valere verso chiunque ovvero, come si dice, opponibili
“erga omnes” (es. proprietà e diritti reali minori)
• Diritti relativi, i quali sono diritti che si fanno valere solo nei confronti di determinati soggetti (es. crediti).
Si considerano “assoluti”, sul modello della proprietà, anche gli altri diritti che attribuiscono al titolare facoltà e poteri di vario
contenuto, aventi ad immediato oggetto una cosa: categoria dei diritti reali che comprende i diritti reali limitati.
Diritti assoluti sono, poi, quei diritti che proteggono la persona, come il diritto alla vita, all’integrità fisica (art. 5), al nome (artt. 6-
9) all’immagine (art. 10) alla vita privata, e in genere tutti i diritti della personalità.

In altri casi, il diritto soggettivo è lo strumento per proteggere un interesse la cui soddisfazione può essere assicurata solo
attraverso il comportamento di una o più determinate persone: il diritto consiste allora in una pretesa verso l’obbligato.
- Diritti di credito: pretesa a una prestazione che si possa valutare dal punto di vista economico.
- Diritti non patrimoniali: diritto di ciascun coniuge alla collaborazione dell’altro.

8. Diritti potestativi.
Vi sono casi in cui ad un soggetto è attribuito un potere a cui non corrisponde un obbligo, ma una soggezione: vale a
dire che il titolare, esercitando il suo potere, non fa valere una pretesa, ma determina direttamente una
modificazione, a proprio vantaggio, nella situazione giuridica della controparte.
Per esempio, esercita un diritto potestativo il proprietario di un fondo, che chiede la comunione del muro di confine
(art. 874); il comproprietario che chiede la divisione del bene comune (art. 1111); il contraente che esercita il diritto
di recesso dal contratto.
In questi casi il titolare del diritto ha il potere di determinare un mutamento della situazione giuridica, che l’altra
parte subisce. Di qui il nome “diritto potestativo”.

Non sempre il diritto potestativo si può esercitare ad arbitrio. In certi casi, c’è un onere da adempiere per ottenere il
risultato. In altri casi, nell’interesse di chi subisce l’esercizio del diritto, si stabilisce un limite all’arbitrio: la giusta
causa (per esempio nell’espulsione di un socio dell’associazione, o per la revoca del datore di lavoro) o un criterio di
oggettiva necessità (per esempio per il locatore di immobile non abitativo che voglia rifiutare di rinnovare il contratto
alla prima scadenza).

La potestà è invece un insieme di poteri attribuiti ad un soggetto con lo scopo che gli eserciti per un interesse altrui.

9. L’obbligazione.
Obbligazione: Il vincolo, da cui è gravato il debitore verso il creditore.
Ciò che distingue l’obbligazione è anzitutto l’oggetto dell’obbligo imposto al debitore: la lettura degli artt. 1175 e
1175 ci informa infatti che di obbligazione si parla quando un soggetto è tenuto a una prestazione che deve essere

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“suscettibile di valutazione economica”, anche se l’interesse, che si tratta di soddisfare, non è in sé e per sé di natura
patrimoniale.
Il termine “obbligazione” però, serve a indicare più ampiamente tutta la posizione del debitore, che è, come quella
del creditore, una posizione complessa, la quale comprende anche poteri, come, ad esempio, il “diritto alla
quietanza”, o il potere di rifiutare la remissione del debito.

Il termine obbligazione è usato, inoltre, nel codice per indicare l’intero rapporto tra debitore e creditore che
comprende le due posizioni del debito e del credito: così nell’art. 1173 che stabilisce da quali fatti nasce una
obbligazione (le cosiddette “fonti” dell’obbligazione).

10. La titolarità. La successione.


La relazione di appartenenza di un diritto o di un obbligo ad un soggetto si esprime con il concetto di titolarità del
diritto o dell’obbligo; il soggetto, cui il diritto o l’obbligo “appartiene”, ne è il titolare.
Queste espressioni si comprendono meglio a partire dal concetto di titolo d’acquisto. Titolo è la
“fonte” dell’acquisto, cioè la fattispecie che ha per conseguenza l’acquisto del diritto o dell’obbligo.

È essenziale stabilire se l’acquisto è avvenuto a titolo originario o a titolo derivativo.


• Acquisto a titolo originario significa che il diritto si costituisce, in capo a una persona, senza dipendere dalla
posizione di un precedente titolare. In certi casi (come, per esempio, nell’acquisto della proprietà sugli
animali nella pesca o nella caccia) non c’è neppure un precedente titolare; in altri (come, per esempio,
nell’acquisto della proprietà di una cosa smarrita) il precedente titolare c’è, ma il diritto si costituisce in capo
all’acquirente senza connessione o dipendenza rispetto a quello del vecchio proprietario. Questo è anche il
caso dell’usucapione, in cui la proprietà di una cosa si acquista per effetto di un effettivo possesso esercitato
per un lungo periodo di tempo.
• Acquisto a titolo derivativo significa invece che il diritto dell’acquirente ha fonte nel diritto del precedente
titolare, e perciò la sua esistenza e i suoi limiti dipendono dall’esistenza e dai limiti di questo.
L’acquisto a titolo derivativo segue due principi-base:
- Nessuno può trasmettere a un’altra persona più di quello che ha
- Se viene meno il diritto dell’alienante, viene meno anche il diritto dell’acquirente.
L’acquisto di un diritto è derivativo non solo quando all’acquirente si trasmette lo stesso diritto che aveva il dante causa
(acquisto derivativo traslativo: come quando io compero una cosa e la proprietà “passa” dal venditore a me), ma anche
in quei casi in cui in capo all’acquirente si costituisce un diritto nuovo, che però ha fonte nel diritto dell’autore (per
esempio, se io proprietario costituisco a favore di mio figlio un diritto di usufrutto, e mantengo la cosiddetta “nuda”
proprietà̀: acquisto derivativo costitutivo).
Un linguaggio particolare viene usato nel codice per indicare le due parti della vicenda traslativa: “dante causa” o
“autore” è chiamato chi trasmette ad altri il proprio diritto, e “avente causa” è chiamato chi acquista da altri un diritto.
L’avente causa si chiama anche successore e l’acquisto a titolo derivativo successione nel diritto.

Il termine successione ha però un ambito più vasto; non si riferisce solo ai diritti ma anche agli obblighi. Succedere
significa, in questo modo, sostituire un “portatore” precedente: subentrare, dunque, a un precedente titolare.
Successione, in generale, è quindi ogni sostituzione di un soggetto a un altro come titolare di un diritto o di un
obbligo: essa indica la continuità del rapporto giuridico attraverso il mutare dei titolari.

Quando si parla, al plurale, delle “successioni” ci si riferisce però a una particolare ipotesi di successione, quella che si
verifica a causa di morte; si parla invece di successione fra vivi ogni volta che, per atto tra vivi, una persona succede a
un’altra in un rapporto giuridico.
Può essere a titolo universale o a titolo particolare. La prima si verifica a causa di morte, con la successione dell’erede
nell’universalità dei diritti e degli obblighi che spettavano al defunto: cioè nella totalità del patrimonio o in una quota
di essa. Unico caso simile nell’ambito delle successioni tra vivi è quella della fusione di società.
Ogni altra successione tra vivi, e la successione a causa di morte del legatario, è invece a titolo particolare: cioè
riguarda uno o più rapporti giuridici determinati.

11. L’estinzione di diritti e obblighi. La rilevanza nel tempo.


Diritto o obbligo si estingue: la facoltà, i poteri, i doveri di cui un certo soggetto era titolare vengono meno
definitivamente.
Per molti diritti o obblighi, l’estinzione può essere funzionale allo scopo stesso per cui il diritto nasce (es: credito).
Può essere poi dovuta a vicende che fanno venir meno la ragione d’essere del diritto o che cancellano il “titolo”
stesso d’acquisto o che, secondo la legge, rendono impossibile il rapporto, che viene perciò sciolto.

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Vi sono diritti che durano quanto la persona a cui sono attribuiti. I diritti fondamentali.
Alcuni di questi diritti spettano anche a persone giuridiche e si estinguono con l’estinzione dell’ente.
Altri diritti personali invece, possono sorgere o estinguersi per vicende particolari: il cognome, per esempio, può
essere acquistato da una donna con il matrimonio e può decadere per effetto del divorzio o dell’annullamento del
matrimonio.
Anche nel campo dei diritti patrimoniali, la durata del diritto o dell’obbligo è soggetta a regole diverse: la proprietà,
per esempio, non è limitata nel tempo da un termine finale, in quanto è un diritto “pieno” ed esclusivo; gli altri diritti
reali, invece, hanno spesso carattere temporaneo. Alcuni debbono essere limitati nel tempo: usufrutto.

12. Altre posizioni protette: interessi diffusi, aspettative, situazioni di fatto.


Il catalogo delle situazioni soggettive va completato con un cenno a quelle posizioni che non hanno una struttura
definita ma che possono attribuire ad un soggetto in determinate circostanze un “rimedio” a tutela del proprio
interesse.

Vi sono anzitutto interessi che non fanno capo a singoli determinati individui né ad un gruppo definito di persone, ma
che sono piuttosto riferibili a intere categorie, a classi sociali, o a collettività non delimitate, come i consumatori, le
donne, i lavoratori, gli abitanti di una certa zona: interessi dunque diffusi nella società.
La protezione di questi interessi con gli strumenti del diritto privato trova ostacolo appunto nell’indeterminatezza del
soggetto, cioè nella difficoltà di individuare un “esponente” del gruppo sociale interessato, e di considerarlo
come titolare di poteri in senso tecnico per la tutela di un interesse che investe tutta la “classe” rappresentata.
La questione si concentra su due aspetti:
a. Il potere di attivare la tutela giudiziale e amministrativa dell’interesse eventualmente leso: in sintesi, la
legittimazione ad agire
b. Il contenuto della tutela, cioè la possibilità di sacrificare, a favore dell’interesse diffuso, più definiti interessi
individuali o di gruppo: e ciò sia con l’inibitoria delle attività che ledono l’interesse diffuso, sia con il
risarcimento del danno.

Un’estensione del catalogo delle situazioni protette si ha poi quando si ha riguardo alle situazioni in formazione.
L’acquisto di un diritto soggettivo si collega talvolta ad una fattispecie complessa a formazione progressiva. Per
esempio, se una persona dispone per testamento il lascito di un certo bene a favore di un determinato beneficiario,
ma subordina il lascito ad una condizione (supponiamo: che riesca a laurearsi con il massimo dei voti), il beneficiario
del lascito acquisterà il diritto soltanto se la condizione prevista si avvererà. Tuttavia, dal momento della morte del
testatore, si sono già verificati alcuni degli elementi della fattispecie acquisitiva: la morte del titolare e l’esistenza di
un testamento che dispone a favore di quel soggetto. Si ha quindi una situazione prodromica, una legittima “attesa”
dell’evento finale che completerà la fattispecie e produrrà l’effetto giuridico. Si parla di aspettativa legittima per
indicare una situazione che è ben distinta da quella che si avrà con l’acquisto del diritto ma che richiede tuttavia una
qualche protezione proprio perché presenta già alcune premesse dell’acquisto del diritto.
È invece una pura aspettativa di fatto quella che si fonda su eventualità future rispetto alle quali nessun elemento
della fattispecie si è definitivamente formato: si tratta di possibilità, prospettive o speranze, non di aspettative in
senso proprio. Così, è un’aspettativa di fatto quella della persona che avrebbe titolo a succedere in caso di morte di
un’altra, o in base alla legge o in base ad un testamento di cui già consti l’esistenza.
Queste aspettative non hanno una specifica tutela giuridica.

13. L’abuso del diritto (cenni).


Quando un soggetto è investito di un potere per realizzare un interesse altrui si ha un evidente “vincolo allo scopo”: il
potere può essere esercitato solo per i fini, in vista dei quali è attribuito; ogni atto non giustificato da questa finalità,
e deviante dallo scopo, costituisce un abuso.
Quando l’attribuzione del potere serve a realizzare l’interesse dello stesso titolare, siamo nell’ampio territorio del
diritto soggettivo.
Naturalmente, esiste in ogni caso un limite, un confine al contenuto stesso del potere: se Tizio, titolare di un diritto,
compie atti non compresi tra quelli che ha la facoltà o il potere di fare, “esce” dai confini del suo diritto, e dunque
commette un illecito o compie atti inefficaci. Ma questo non è abuso del proprio diritto perché il diritto di compiere
quegli atti non c’è affatto; abuso è usare male qualcosa che c’è.
Il problema riguarda il controllo sugli atti che rientrano nel contenuto della facoltà o del potere: ci si chiede in che
misura si possa sindacare se l’esercizio del diritto sia “giustificato” dallo scopo di realizzare il legittimo interesse del
titolare, o invece sia “deviato” verso scopi diversi (abuso del diritto); e quali possano essere le conseguenze.
L’abuso del diritto non è un istituto: è un problema, che ha tante facce e tante soluzioni quanti sono i diritti.

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CAP. 5.
I FATTI E GLI ATTI GIURIDICI
1. Fatti e atti nel diritto privato. Atti giuridici in senso ampio.
L’espressione “fatto giuridico” indica in generale ogni fatto al quale una norma giuridica collega un qualsiasi effetto.
Con la parola “fatto” indichiamo qualsiasi accadimento o “stato” come la nascita, o il comportamento cosciente e
volontario di una persona ecc. Con l’aggettivo “giuridico” indichiamo brevemente che il fatto è previsto da una regola
di diritto che collega al suo accadere determinate conseguenze e gli attribuisce così “rilevanza giuridica”: il fatto
preso in considerazione da una norma entra nel campo visivo del sistema giuridico.

Ogni diverso fatto “rileva” secondo il modo in cui la legge lo considera, cioè in ragione dei particolari “connotati” che
la regola di diritto prende in considerazione nel definire la “fattispecie”. Si pensi, per esempio, al caso di una persona
che perde la vita in un incidente d’auto. Da un primo punto di vista, quel che importa è il fatto della morte in sé e per
sé. Sotto un altro aspetto, però, lo stesso accadimento dovrà essere considerato da tutt’altro punto di vista: quello
dell’atto umano che ha provocato l’incidente e la morte.

L’esempio ci suggerisce, dunque, una prima distinzione: nella grande classe dei fatti giuridici, è bene separare i fatti
in senso stretto (meri fatti giuridici), che vengono considerati in modo oggettivo, cioè in tanto in quanto accadono, e
gli atti, cioè le azioni umane, delle quali è rilevante l’aspetto che chiamiamo “soggettivo”, cioè la consapevolezza e
volontarietà dell’azione.
Così, ad esempio, meri fatti giuridici sono la nascita (art. 1), la morte (artt.149-456), il crollo di un edificio (art.2053);
atti giuridici sono il contratto (art. 1321), il testamento (art. 587), il matrimonio (art. 84), la confessione (art. 2730).

Non tutti i “fatti umani” vengono in considerazione come atti. In limitati casi, anche l’attività dell’uomo è presa in
considerazione nel suo materiale accadere (cosiddetti atti materiali). Al diritto non interessa se quella attività sia
stata compiuta in modo consapevole e volontario ma solo che si sia materialmente verificata. Esempi di attività
considerata come mero fatto giuridico sono nel diritto privato, la piantagione, la costruzione, l’opera fatta sopra o
sotto il suolo (art. 934).

In senso ampio si può parlare di atto giuridico per ogni comportamento, lecito o illecito, che la legge prende in
considerazione in quanto imputabile ad una persona come sua propria azione. All’interno degli atti in senso ampio,
un’utile distinzione è quella tra:
• Atto lecito: una norma stabilisce che una condotta è lecita attribuendogli rilevanza giuridica, si tratta dei casi
nel quale una persona fa uso di libertà o esercita poteri;
• Atto illecito: un comportamento viene in considerazione perché è contrario ad una norma o ad un principio
dell’ordinamento giuridico, ed ha perciò come conseguenza una sanzione.

2. Gli atti illeciti. L’illecito civile.


Una condotta umana è giuridicamente illecita quando viola una regola di diritto, cioè quando corrisponde ad un
comportamento vietato, o quando non corrisponde al comportamento dovuto.

La valutazione dell’illeceità è un giudizio che confronta la condotta, di fatto tenuta, con la prescrizione normativa, per
vedere se sussista o non sussista quel contrasto, che rende illecito il comportamento. Questo confronto non è
sviluppato in modo meccanico: secondo i comuni criteri di interpretazione e applicazione, la norma si riterrà violata
solo in quanto si possa affermare che il comportamento è tale da ledere gli interessi protetti dalla regola legale.
Così, in campo penale vige il principio “nullum crimen sine lege”: non c’è reato, e non si dà pena, se una regola di
diritto non lo prevede espressamente. Il diritto penale è, perciò, costruito attraverso la previsione normativa di
fattispecie tipiche di reato, delle quali si deve accertare in concreto la realizzazione per poter pronunciare la
condanna. In base allo stesso principio vale, in campo penale, il divieto dell’analogia.
In altri casi invece, la stessa regola legale è formulata in modo da porre in primo piano non tanto la descrizione di
specifici “connotati” del comportamento obbligatorio o vietato, quanto il risultato che il legislatore vuole assicurare:
la soddisfazione di determinati interessi o la tutela di determinati valori. La valutazione di illiceità di una condotta
concreta si presenta, allora, come una risposta a questa domanda: se il comportamento tenuto si possa ritenere
lesivo degli interessi protetti dalla norma.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
In rapporto al tipo di regola violata, alla natura dell’interesse leso, alle sanzioni predisposte, si possono utilmente
distinguere diverse “specie” di illecito:
• L’illecito penale comprende tutti quei comportamenti che la legge considera lesivi di un interesse generale, e che
espressamente prevede come fattispecie di reato, cui si collega una pena a carico dell’autore dell’illecito.
• L’illecito amministrativo comprende tutti i comportamenti che violano norme poste a tutela di quegli interessi di ordine
generale, la cui soddisfazione è affidata alla Pubblica Amministrazione.
Nel campo del diritto privato, occorre distinguere tra una generale nozione di atto illecito, ed una più specifica
nozione di illecito civile.

Per qualificare un atto umano come atto illecito in senso ampio, bastano le condizioni già indicate: è contrario alla
legge un atto che viola una norma giuridica e che perciò stesso lede gli interessi da essa protetti, che siano generali o
particolari.

Con il concetto di illecito civile ci riferiamo invece, più specificamente, ad un comportamento che:
a. lede direttamente un interesse particolare protetto da una norma giuridica;
b. provoca un pregiudizio per il soggetto leso.

L’illecito civile è fonte di responsabilità, e cioè dell’obbligo di risarcire il danno cagionato.


Un illecito civile può verificarsi in due ordini di casi, che trovano disciplina in due gruppi di articoli del Codice civile.
a. Gli artt. 1218 e ss. Sanzionano l’inadempimento dell’obbligazione: condotta del debitore che non adempie
la prestazione dovuta al creditore che viola la norma che lo obbliga ad adempiere e lede l’interesse del
creditore protetto da quella norma (cosiddetto illecito contrattuale)
b. L’art. 2043 riguarda invece “qualunque fatto doloso o colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto” e
dispone l’obbligo del risarcimento a carico di chi ha commesso il fatto. La lesione dell’interesse di un
soggetto viene provocata dalla condotta di un altro soggetto al di fuori di ogni relazione precostituita
(cosiddetto illecito extracontrattuale): come avviene, ad esempio, quando per disattenzione Tizio danneggia
una cosa di proprietà di Caio.

Vi sono atti da qualificare come illeciti in senso ampio (perché contrari a norme inderogabili) senza che si cada nello
schema dell’illecito civile: così un contratto vietato dalla legge è illecito, in quanto è semplicemente nullo (art. 1418)
e non produce alcun effetto.
Vi sono casi in cui la legge impone obblighi, di ordine non patrimoniale, all’interno di rapporti giuridici soggetti a
regole particolari: si pensi al dovere di educare i propri figli imposto ai genitori. In questi casi, la condotta che viola
l’obbligo lede un interesse particolare dell’altra parte oltre all’interesse generale. È certo una condotta illecita, ma
non è trattata secondo lo schema dell’illecito civile, che si regge sulla coppia danno-risarcimento.
La responsabilità civile è solo una delle forme di tutela per la protezione degli interessi particolari.
Sempre maggiore importanza assume la cosiddetta tutela inibitoria (cioè l’ordine giudiziale di cessare l’attività lesiva)
che è prevista da diverse norme giuridiche: qui, il presupposto è la violazione del diritto, cioè una condotta contraria
ad una norma che protegge un interesse privato, ma non è necessario che si sia prodotto un danno, perché la tutela
ha anche funzione preventiva.

3. Gli atti (leciti) nel Codice civile.


Nel Codice civile, la parola “atto” viene usata con significati diversi. Talvolta essa equivale a “comportamento,
azione”, talvolta per indicare dichiarazioni della volontà (es. contratto, testamento, matrimonio) di uno o più autori
dell’atto, altre volte ancora per indicare dichiarazioni di conoscenza o di verità (es. confessione giuramento,
riconoscimento del figlio). Tutti questi atti consentono a chi li compie di disporre dei propri interessi, cioè di decidere
da sé circa la sorte dei propri interessi; attraverso l’atto giuridico il privato può determinare la disciplina dei propri
interessi nei limiti e secondo le regole predisposte dal legislatore: può esercitare la propria auto-nomia.

4. L’idea di autonomia privata.


La parola autonomia è composta da due parti:
• Nomia che deriva da nomos, regola, norma e quindi vuole dire regolazione, formazione
• Auto che usiamo per indicare che un’attività o un modo di essere non è imposto o prodotto dall’esterno
Autonomia significa dunque dare regole a sé stessi, farsi da sé le proprie regole.
L’ordinamento giuridico “sceglie” di far dipendere la disciplina di una gran parte di interessi dalla decisione, cioè dalla
volontà, degli stessi interessati.

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L’ampiezza dell’autonomia privata dipende dal modo in cui, in un certo periodo storico, sono considerati gli interessi
che si tratta di regolare: come interessi privati, di cui le parti stesse possono liberamente disporre (interessi
“disponibili”) o invece come interessi che vanno garantiti anche contro la volontà delle parti (e sono perciò “non
disponibili”). Per esempio, il fatto che nel nostro sistema sia riconosciuta l’autonomia nel testamento, significa che la
sorte dei beni dopo la morte del loro proprietario è considerata, in certi limiti, un interesse privato di quest’ultimo.
Ma appunto, in certi limiti: perché, se chi fa testamento ha marito, o moglie, o figli, non è libero di escluderli
dall’eredità; essi hanno diritto a una quota minima del patrimonio del testatore, anche contro la sua volontà.
L’autonomia non è quasi mai, quindi, una soluzione pura, ma quasi sempre parziale e combinata con elementi più o
meno forti di eteronomia (regolazione dall’esterno, imposizione).
Anche nei contratti molti effetti sono stabiliti da norme inderogabili: e ogni volta che c’è una regola inderogabile, là
c’è qualche interesse che l’ordinamento vuole proteggere anche contro l’autonomia dei privati.

Autonomia significa, dunque, che gli atti dei privati divengano fonte di un regolamento di interessi congruente con il
contenuto dell’atto stesso, tale cioè da realizzare una corrispondenza tra la decisione che nell’atto si manifesta, e le
conseguenze giuridiche dell’atto medesimo. Le parti esprimono, con l’atto, una decisione di fondo, a carattere
pratico: gli effetti dell’atto consistono in un regolamento di interessi che realizza, sempre nel complesso, la
sistemazione voluta dalle parti.
Ma la corrispondenza tra volontà ed effetti può essere:
• totale (per esempio, in un contratto in cui le parti abbiano previsto dettagliatamente ogni possibile vicenda);
• parziale (come quando la legge stabilisce che certi effetti si producano anche se le parti non li hanno
previsti);
• essenziale (come in un contratto parzialmente illecito che rimanga in piedi nella parte non contrastante con
la legge).

5. Distinzioni tra atti giuridici.


Per la struttura si distinguono:
• Atti unilaterali: che consistono in una dichiarazione proveniente da una sola parte. Esempi sono la procura,
la diffida, la disdetta, il voto espresso da chi partecipa a una assemblea ecc.
• Atti bi-plurilaterali: si combinano dichiarazioni provenienti da più parti. Esempio il contratto. Si basi che “una
parte” non significa “una persona”, ma un centro di interessi: quindi, se tutti i condòmini diffidano un
amministratore a consegnare i rendiconti nella sua amministrazione, la loro diffida è un atto unilaterale,
anche se compiuto da più soggetti.
• Atti unipersonali: possono essere fatti da una sola persona. L’atto unipersonale per eccellenza è il
testamento.
• Atti collegiali: manifestazioni di volontà che si formano attraverso le dichiarazioni di più soggetti riuniti in un
collegio (es. assemblea dei soci). L’atto in questione viene trattato come una manifestazione unitaria di
volontà, nonostante è probabile che le dichiarazioni dei singoli siano contrastanti.

Per l’oggetto si distinguono:


• Atti patrimoniali: diretti a regolare primariamente interessi economici. Atto patrimoniale per eccellenza è il
contratto.
• Atti non patrimoniali: diretti a regolare interessi di natura personale. Atto non patrimoniale è il matrimonio,
o il riconoscimento di figlio naturale. Gli effetti di un atto non patrimoniale possono essere anche di ordine
patrimoniale (per esempio tra gli effetti del matrimonio si annoverano l’obbligo di contribuzione e il regime
patrimoniale legale della famiglia).

Non si devono confondere le categorie degli atti non patrimoniali e degli atti personalissimi: quest’ultima nozione
indica che certi atti possono essere compiuti solo personalmente e direttamente dall’interessato e non da suoi
rappresentanti (per esempio, il riconoscimento di figlio naturale); ma rientrano nella categoria anche atti patrimoniali
come il testamento (che è anche, come si è detto, uni personale).

Infine, per la funzione di distinguono:


• Gli atti tra vivi, cioè destinati a regolare i rapporti tra viventi
• Gli atti a causa di morte che sono destinati a regolare la successione nei diritti e negli obblighi dopo la morte
del titolare. L’atto a causa di morte per eccellenza è il testamento.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
6. Atto e documento.
Quando una dichiarazione “si consegna” ad uno scritto si forma un documento.
Il linguaggio giuridico usa la parola atto sia per indicare la manifestazione di volontà (o di conoscenza) sia per indicare
il documento cui essa è consegnata. Così, ad esempio, si potrà dire che una parte allega in giudizio “l’atto di vendita”.
Restano due avvertenze importanti:
a. La nozione di documento si è ampliata con l’ingresso di nuovi mezzi di raccolta e memorizzazione delle
dichiarazioni: da quello magnetico a quello informatico.
b. Quel che si è qui detto del rapporto atto-documento si può in parte riprodurre con riguardo a meri fatti
giuridici, di cui un documento costituisca la prova: come il rilievo planimetrico di un incidente, la
registrazione di una conversazione telefonica, ecc.

7. La disciplina degli atti nel sistema del codice.


Nel codice esiste un corpo di norme organico e completo per la disciplina del contratto (artt. 1321 e ss.), un altro di
paragonabile ampiezza per la disciplina del matrimonio, un gruppo esteso di norme per la disciplina del testamento
(artt. 587 e ss.), un altro che regola il riconoscimento di figlio naturale (artt. 250 e ss.) ed una consistente disciplina
della procura (artt. 1389-1392, 1396). Non esiste invece un complesso di regole unitario che preveda e risolva tutti i
problemi comuni agli atti di autonomia. Il legislatore non stabilisce in modo unitario i requisiti degli atti giuridici, o le
conseguenze dei loro vizi (difetti dei requisiti essenziali), né regola unitariamente il modo in cui si producono gli
effetti degli atti medesimi: di questi problemi si occupa disciplinando, volta per volta, i singoli principali atti.

La lettura delle poche regole che riguardano la generalità degli atti e dei gruppi di norme dedicati a ciascuno, mostra
che alcuni problemi sono comuni a tutti gli atti di autonomia.
Infatti, sia per il contratto che per il matrimonio che per il testamento, il legislatore considera la questione della
capacità (minore o maggiore età, interdizione, inabilitazione, capacità di intendere e di volere); della forma (cioè del
mezzo usato per compiere l’atto: comunicazione verbale, scritta o tacita, ecc.); della volontà (problemi di errore, di
violenza, di dolo).
Il nostro legislatore non ha creato una disciplina generale valida per tutti gli atti giuridici, ma ha concentrato gran
parte della sua attenzione sul contratto. A questo punto, con l’art. 1324, il legislatore attribuisce alle norme sul
contratto un valore particolare: le dichiara applicabili direttamente a una serie di altri atti giuridici, diversi dal
contratto, e cioè a tutti gli atti unilaterali, tra vivi e con contenuto patrimoniale (infatti, il contratto è considerato una
particolare fonte di produzione).
L’espressione “atti unilaterali” fa cadere nel campo della norma tutti gli atti che consistono in una dichiarazione
proveniente da una parte sola.
L’espressione “tra vivi” esclude gli atti che si compiono a causa di morte; quindi il testamento. L’espressione “aventi
contenuto patrimoniale” esclude tutti gli atti che non trattano di interessi economici, ma personali.
Le regole dettate per il contratto sono quindi applicabili a tutti gli atti di autonomia nel campo degli interessi
economici: a tutti gli atti che si usano nei traffici.

8. Il sistema del codice e la nozione di “negozio giuridico”.


Il concetto di negozio giuridico è definito come una “manifestazione di volontà diretta a costituire, regolare o
estinguere rapporti giuridici”.

La categoria del negozio giuridico nasce con lo scopo di creare una figura unitaria (la dichiarazione di volontà) e di
stabilirne in modo uniforme requisiti e disciplina. Caratteri essenziali sono la tipicità, l’autonomia privata e la
casualità. È tipico in quanto necessariamente compreso in uno schema legislativo. Il carattere dell’autonomia privata
riguarda il fatto che il soggetto privato può, entro i limiti di legge, determinare il contenuto della regolamentazione
degli interessi. È causale in quanto l’autorizzazione data dalla legge per esplicare la propria autonomia è condizionata
dall’interesse sociale.

La nozione di negozio, è dunque utile per:


• Individuare e raccogliere in una sola categoria i diversi strumenti dell’autonomia negoziale, cioè gli atti con
cui si esercita quella speciale libertà dei privati di regolare da sé i propri interessi.
• Riconoscere una certa omogeneità di problemi nel campo degli atti di autonomia, e sfruttare
l’interpretazione sistematica e l’analogia per risolverli.
La nozione unitaria è invece pericolosa se, come qualche volta avviene, si scambia il concetto per una fattispecie
unica effettivamente regolata dal nostro diritto e si crede che abbia una disciplina rigorosamente unitaria.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
9. Efficacia e validità degli atti giuridici.
I diversi tipi di “atti umani” o atti in senso ampio sono previsti dalla legge come fattispecie astratte, ciascuna
“disegnata” dal legislatore attraverso caratteristici connotati.
Di fronte a un atto concreto, quindi, esiste sempre un problema di corrispondenza con la fattispecie astratta. Questa
valutazione assume caratteri diversi a seconda che riguarda un illecito o invece un atto di autonomia.

Nel caso dell’illecito, l’atto che cagiona danno è preso in considerazione al fine di ascrivere al danneggiante una
responsabilità. Per accollargli cioè il carico dei danni subiti dal soggetto leso, attraverso l’obbligo di risarcimento. I
requisiti o elementi dell’illecito sono quei connotati dalla fattispecie, che devono in concreto sussistere perché si
produca la conseguenza giuridica consistente nell’obbligo di risarcire il danno: nello schema fondamentale dell’art.
2043, si tratta di accertare che il fatto dannoso sia stato:
a) Commesso con dolo o con colpa (requisito di colpevolezza),
b) Da un soggetto capace di intendere e volere (art. 2047: requisito della imputabilità),
c) Che abbia “cagionato”, cioè causato in modo diretto e immediato (requisiti della causalità),
d) Un danno ingiusto (requisito della antigiuridicità).

Nel campo degli atti di autonomia, il discorso è un po' più complicato; basti leggere, per il più chiaro esempio, la
regola dell’art. 1325 in tema di contratto, il quale indica che i requisiti di questi tipi di atti sono:
a. L’accordo delle parti, che presuppone due o più soggetti dotati di capacità giuridica e di agire, la cui volontà
sia correttamente formata e manifestata
b. Un oggetto possibile, lecito, determinato o determinabile
c. Una causa (cioè una funzione economico-sociale) lecita
d. La forma prescritta dalla legge
L’articolo 1325 può essere considerato una particolare norma di produzione. Infatti, l’articolo 1372 dice che il
contratto ha forza di legge tra le parti.

Quando un atto di autonomia presenta tutti i requisiti è valido, ovvero è in sé idoneo a produrre i suoi specifici effetti
giuridici.
La completa corrispondenza dell’atto al modello della fattispecie astratta è la premessa per una conclusione di
validità dell’atto (cioè di idoneità a produrre i suoi effetti, a fungere da fonte di autodisciplina), non invece per una
conclusione di efficacia.

Un atto, invero, può essere valido ma inefficace. Ciò avviene, ad esempio, se chi ha compiuto l’atto non aveva il
potere di disporre dei beni o degli interessi cui l’atto si riferiva (come, per esempio, quando un soggetto vende cose
altrui). Il difetto di potere determina però l’invalidità degli atti collegiali, come le delibere delle assemblee di
condominio o di società. Nell’ambito del diritto pubblico, poi, l’atto compiuto da chi non ha il potere di compierlo è,
di regola, invalido.
Atto valido e inefficace si ha anche quanto le parti stabiliscono che l’atto produca i suoi effetti solo a partire da un
determinato momento (termine) o nel caso che si verifichi un certo avvenimento (condizione).

All’opposto, quando un atto non ha tutti i requisiti stabiliti dalla legge, o presenta un vizio (un difetto) in uno dei
requisiti, dobbiamo concludere che non è in sé idoneo a produrre i suoi effetti ed è quindi invalido.
Con riguardo agli atti dell’autonomia privata si distinguono gradi diversi di invalidità̀:
• la nullità̀ deriva dalla mancanza di un requisito essenziale, o dall’illiceità dell’atto ed è una inidoneità radicale e
tendenzialmente irrimediabile dell’atto di autonomia a produrre i suoi specifici effetti (ad avere cioè “forza di legge”).
• L’annullabilità deriva, in generale, da un vizio (difetto) di uno dei requisiti (per esempio, dai vizi del consenso: errore,
violenza, dolo); l’atto annullabile non è in sé idoneo a produrre i suoi effetti in modo definitivo, perché l’esistenza del
vizio permette di ottenere una sentenza di annullamento, che cancella i suoi effetti in modo retroattivo.

Ecco, dunque, che la valutazione di invalidità dell’atto non implica sempre una conclusione di inefficacia: è senz’altro
inefficace, di regola, l’atto nullo; è invece efficace, fino all’annullamento, l’atto annullabile.

10. La sostituzione nell’attività giuridica: legittimazione, rappresentanza.


Un atto giuridico qualsiasi è efficace solo se compiuto da un soggetto legittimato a compierlo; così, la giustificazione per
l’assenza a scuola di un ragazzo minorenne, firmata da un vicino di casa, non ha effetto, perché solo i genitori sono “legittimati”,
essi soli hanno il potere di incidere su quella determinata situazione giuridica.
Anche l’interessato deve avere il potere di compiere un atto perché questo produca i suoi effetti: deve cioè trovarsi
in una situazione giuridica che lo legittima a compiere quel determinato atto. Per esempio, se io vendo una cosa che

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
non è mia, il compratore non acquista la proprietà, perché io, venditore, non essendo proprietario, non sono
“legittimato” a vendere.
Si chiama legittimazione il potere di compiere efficacemente un atto giuridico con riguardo a un determinato
rapporto.

Una fonte particolare di legittimazione è la rappresentanza, cioè il potere, conferito ad un soggetto (rappresentante)
di compiere atti giuridici che producano effetti nei confronti di un altro soggetto (rappresentato o dominus).
Secondo l’art. 1387, il potere di rappresentanza può essere:
• Conferito dalla legge (rappresentanza legale)
• Conferito dall’interessato (rappresentanza volontaria)

L’atto, con cui il potere di rappresentanza si conferisce, si chiama procura ed è regolato negli artt. 1387 e ss.
La procura è un atto unilaterale, diretto ai terzi. Ciò significa che non si tratta di un accordo fra il rappresentante e il
rappresentato; l’accordo, tra i due, se c’è, dà origine ad un contratto (per esempio di società, di mandato, di lavoro)
che regolerà i rapporti tra le due parti.
Il rappresentante della procura ha un dovere essenziale: se usa la procura, deve comportarsi in modo da fare
l’interesse del rappresentato. Ed infatti, il conflitto di interessi e il contratto con sé stesso sono casi di annullamento
del contratto.

Talvolta, il sostituto ha soltanto il potere di trasmettere una dichiarazione dell’interessato: si tratta allora di un
messo, un “nuncio”; la volontà espressa è esclusivamente volontà del rappresentato. Il vero rappresentante, invece,
non è solo un messo, ma è una persona che ha il potere di dare il suo consenso con effetti per il rappresentato.
Si dice perciò che il rappresentante è parte formale dell’atto (è sua la dichiarazione di volontà), mentre parte
sostanziale (titolare dei rapporti regolati dall’atto, o destinatario degli effetti) è il rappresentato. Se c’è un problema,
per esempio, di errore che determina la conclusione del contratto, o di buona o mala fede nella conclusione, si
guarda al rappresentante (la volontà viziata è la sua) a meno che non si tratti di aspetti sui quali tutto era stato deciso
dal rappresentato, nel qual caso il rappresentante funziona come un mezzo, cioè si limita a trasmettere una volontà
altrui. Le due posizioni (rappresentante e messo) si distinguono in pratica, così: è rappresentante colui che ha
qualche margine di discrezione, di decisione nel concludere il contratto, è messo colui che non ha questo margine, e
si limita a trasmettere la volontà del rappresentato.

Si usa distinguere la rappresentanza “diretta” da quella “indiretta”.


• Rappresentanza diretta si ha quando un soggetto ha potere di agire in nome e per conto di un altro. Agire in
nome altrui significa compiere un atto giuridico assumendo, di fronte alla controparte o ai destinatari
dell’atto, il ruolo di chi agisce non per sé, ma in vece di un altro soggetto, il rappresentato, del quale
“spende” il nome. Agire per conto altrui significa invece compiere un atto giuridico nell’interesse di altro
soggetto.
Se chi agisce per altri ha il potere di agire in nome dell’interessato gli atti giuridici compiuti hanno effetti
diretti nella sfera del rappresentato.
• Rappresentanza indiretta si ha invece quando un soggetto agisce per conto di altri (cioè nell’interesse altrui)
ma in nome proprio (cioè senza qualificarsi come rappresentante, ma compiendo l’atto come un soggetto
che agisce per sé). In tal caso l’atto compiuto ha effetti immediati nella sfera di chi lo stipula (il cosiddetto
rappresentante indiretto) e non in capo all’interessato, il quale se ne potrà “appropriare” in seguito, tramite
un atto di “ritrasferimento”.

La rappresentanza legale deriva sempre da una fattispecie (es. genitori).


In altri casi poi, la rappresentanza è conferita, in situazioni previste dalla legge, da un provvedimento del giudice: così
per il tutore di un minore (quando mancano genitori esercenti la potestà), o di un interdetto; per l’amministratore di
sostegno con riferimento ad alcuni atti.
Va notato, ancora, che l’espressione rappresentanza legale non vuol dire soltanto che il potere non è attribuito
dall’interessato, ma anche che l’esercizio del potere non è sotto il controllo dell’interessato e si attua secondo norme
particolari, dirette a proteggere l’interesse del rappresentato e con il controllo del giudice.
Perciò la revoca del potere è legata alla violazione dei propri doveri o all’abuso di potere da parte del
rappresentante, ed è disposta dal Tribunale per i minorenni nel caso dei genitori e del giudice tutelare nel caso del
tutore.
Dalla rappresentanza legale va distinta l’assistenza, che si ha quando la volontà di un soggetto diverso si affianca,
senza sostituirla, a quella dell’interessato: così nell’ipotesi del curatore dell’inabilitato o dell’amministratore di
sostegno.

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Ci sono ipotesi in cui il potere di agire con effetti diretti nei confronti di un altro soggetto è conferito “dalla legge”,
ma non nell’interesse del soggetto, che è sostituito nell’attività giuridica. Si parla più propriamente in questo caso di
sostituzione (in senso stretto). L’esempio più importante è quello del curatore fallimentare.

11. La rappresentanza organica.


Una particolare ipotesi di rappresentanza è quella che si realizza nelle collettività (associazioni, comitati, società), in
particolare provviste di personalità giuridica, e nelle istituzioni, sia private (fondazioni) che pubbliche (lo Stato e gli
altri enti).
Da un punto di vista sociologico, tutte queste realtà possono essere considerate come organizzazioni, cioè
combinazioni funzionali di persone e mezzi che producono attività per un certo scopo.
Diciamo piuttosto che:
a. Ogni collettività o istituzione ha un ordinamento interno, cioè delle regole di funzionamento
b. Queste regole attribuiscono a singoli individui, o a “collegi” (l’assemblea, consiglio di amministrazione) il
compito, e il potere, di prendere decisioni e di attuarle
c. Gli atti giuridici compiuti da questi soggetti secondo le regole interne sono considerati come atti “del
gruppo” o “dell’istituzione”.
d. Questo meccanismo di distribuzione di competenze per il riferimento di atti all’ente è, dal punto di vista
giuridico, l’organizzazione dell’ente.

Quando il potere attribuito a un organo consiste nel compiere atti giuridici “in nome” e nell’interesse della collettività
o dell’ente, si parla di rappresentanza organica.
La differenza con la comune rappresentanza sta in ciò, che nella rappresentanza ordinaria si distinguono due diversi
soggetti, il rappresentante e il rappresentato, ciascuno portatore di una distinta volontà; nella rappresentanza
organica, invece, c’è un solo oggetto, l’ente, che agisce tramite l’organo.
La distinta identità del rappresentante e del rappresentato rimane nelle collettività più semplici, in cui chi agisce per
il gruppo rappresenta tutti gli altri individui che ne fanno parte. Un esempio è quello dell’amministratore del
condominio, il quale rappresenta i vari condomini e non l’intero condominio (è come se si moltiplicasse). È sempre
l’individuo, tuttavia, l’autore dell’atto riferito all’ente.

CAP. 6.
I SOGGETTI
1. L’idea di soggetto di diritto.
Quando osserviamo la realtà sociale, ci troviamo di fronte ad una scena animata da diversi protagonisti:
• i singoli individui, ciascuno con caratteristiche particolari di età, capacità, attitudini, ruoli
• i gruppi: la famiglia, le associazioni, le chiese, i partiti e i sindacati
• le organizzazioni economiche
• le istituzioni pubbliche
L’ordinamento giuridico è un sistema di regole che ha lo scopo di dare un ordine a questa realtà. Regolando i
comportamenti, tende a realizzare una ragionevole composizione degli interessi in campo, e quindi a prevenire o
risolvere conflitti di interessi.

Se guardiamo all’ordinamento giuridico come ad un insieme di prescrizioni, che stabiliscono come ci si debba o ci si
possa comportare nelle relazioni sociali, allora “veri” e necessari protagonisti della scena giuridica sono soltanto gli
uomini, i cui comportamenti sono regolati dalla legge. Ma se guardiamo all’ordinamento giuridico come ad un
sistema di composizione dei conflitti d’interesse, la prospettiva cambia.
Portatori degli interessi regolati non sono solo singoli uomini, ma gruppi, organizzazioni, categorie, istituzioni. Essi ci
appaiono come titolari di situazioni giuridiche attive o passive, dal contenuto più o meno complesso, a loro riferite o
“imputate”, e quindi come parti dei rapporti giuridici regolati dalle norme dell’ordinamento.

Nel linguaggio del giurista, il protagonista delle relazioni è indicato come “il soggetto”:
a. soggetto di diritti e obblighi, o, capo d’imputazione di situazioni e rapporti giuridici
b. soggetto di attività giuridica, o capo d’imputazione di atti (e fatti) giuridici.

2. La determinazione dei soggetti. Soggetto e “persona”.


Ogni ordinamento giuridico individua i propri “soggetti”: stabilisce cioè chi possa avere diritti e obblighi nell’ambito
dell’ordinamento stesso. La scelta può essere esplicita, cioè avvenire tramite un’espressa disposizione

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dell’ordinamento stesso, come ad esempio nel diritto canonico che individua i propri soggetti nelle persone
battezzate o come avviene nell’ordinamento dell’ONU che individua i propri soggetti negli Stati aderenti al trattato.
In altri casi la scelta può essere implicita: in assenza di una regola espressa, i possibili soggetti si individuano in base al
modo in cui le comuni norme dell’ordinamento attribuiscono diritti e obblighi. Questo avviene, per esempio, nel
diritto internazionale, nel quale è pensiero prevalente che i soggetti siano gli Stati e gli enti sovrani.

Il nostro Codice civile non contiene una regola che espressamente attribuisce la qualità di “soggetto di diritto” e
nemmeno usa questa espressione, cara invece ai teorici del diritto.
Nel Libro I del Codice civile i protagonisti della scena giuridica sono indicati con il termine persona, che subito si
sdoppia in due “specie”: nel titolo I (artt.1-10) sono raccolte le norme che riguardano le persone fisiche; nel Titolo II
(artt. 11 e ss.) le norme che riguardano le persone giuridiche. La prima espressione indica gli esseri umani, la seconda
una varietà di centri di interesse diversi dall’uomo singolo.
Per quanto riguarda le persone fisiche il legislatore usa, per indicare la qualità di soggetto, l’espressione “capacità
giuridica”. All’art. 1 stabilisce infatti che “la capacità giuridica di acquista con la nascita”; il significato
dell’espressione, risulta anche dal secondo comma dell’articolo: è l’attitudine a essere titolari di diritti e obblighi,
dunque la stessa qualità di soggetto di diritto.
Alle sole persone fisiche è pure dedicato l’art. 2, che disciplina la capacità d’agire, cioè l’attitudine a compiere
validamente atti giuridici che producano effetti per l’agente: la persona fisica viene considerata, qui, come soggetto
di attività giuridica.

Per le persone giuridiche, la legge si limita a stabilire in qual modo gruppi e organizzazioni acquistano la “personalità
giuridica”. Questo linguaggio riflette l’idea tradizionale che realtà diverse dall’uomo singolo possano, per disposizione
del legislatore, diventare “persone” per l’ordinamento giuridico (cioè essere equiparate alle persone fisiche): persona
giuridica sarebbe un’entità artificiale cui la legge dà la soggettività come alle persone fisiche.
Vedremo meglio oltre che questa idea non corrisponde alla realtà del nostro sistema giuridico. Infatti:
a. La soggettività di un gruppo o di una organizzazione si avvicina a quella degli uomini, ma non è mai eguale
b. La possibilità di avere diritti e obblighi propri si riscontra anche in gruppi che non hanno la qualità formale di
“persone giuridiche”

I. LA PERSONA FISICA
3. La capacità giuridica.
L’art. 22 Cost. dice che “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica”.
Per molto tempo, nel definire la capacità, l’accento è stato posto sull’attitudine ad avere diritti.
La definizione è stata poi completata: capacità giuridica è l’attitudine ad essere titolare di diritti e obblighi, ovvero di
rapporti giuridici.
L’art. 16 delle disposizioni preliminari dispone che “Lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al
cittadino a condizione di reciprocità (...)”, cioè in tanto in quanto l’ordinamento dello Stato cui il soggetto appartiene
riconosca eguale posizione ai cittadini italiani. Il legislatore riconosce senz’altro i diritti civili a tutti gli stranieri
regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato; la condizione di reciprocità vale quindi ormai solo nei casi di
mancanza del permesso di soggiorno.
L’espressione “diritti civili” si considera equivalente a “diritti nascenti da rapporti di diritto privato”. Lo straniero non
gode dunque dei diritti politici in senso stretto (elettorato attivo e passivo). Il criterio della reciprocità non si applica
per il godimento dei diritti inviolabili dell’uomo.

Circa i “diritti che la legge riconosce” al nascituro (cosiddetta aspettativa), sono da distinguere due aspetti:
• Nell’ambito patrimoniale, tutto si risolve nella capacità di succedere per successione legittima o per
testamento (art. 462, 1° comma) e di ricevere una donazione (art. 784). Per testamento può ricevere anche
il non-concepito, purché figlio di una determinata persona vivente al tempo della morte del testatore (art.
462, comma 3°); un criterio parallelo vale per la donazione (art. 784, comma 1°). Queste attribuzioni, però,
sono subordinate alla nascita: se la nascita si verifica, diventano definitive.
• Nell’ambito non patrimoniale, si discute molto se ci siano diritti “personali” del nascituro concepito. A parte
la disciplina dell’interruzione di gravidanza, che implica, in qualche misura, la protezione della vita del
nascituro (art. 1), in caso di conflitto tra la vita del feto e la salute della madre si discute del diritto al
risarcimento del danno per lesione dell’integrità fisica subita durante la gravidanza (per esempio in un
incidente stradale) o addirittura con la procreazione (trasmissione di malattia ereditaria, o malformazioni
dovute a procreazione da parte di soggetti che avevano assunto farmaci o droga: cosiddetto danno da
wrongful life). Inoltre, la possibilità di intervenire con trattamenti medici e anche chirurgici durante la

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gravidanza, per prevenire o curare malattie del feto (terapia prenatale), pone problemi di disciplina del
consenso al trattamento medico e della responsabilità del professionista: al riguardo, è concorde l’opinione
che il feto debba essere trattato come un paziente, rappresentato naturalmente dai genitori. Problemi più
precoci o di meno univoca soluzione si presentano con riguardo alle nuove tecniche di formazione
dell’embrione in vitro, sia a fini di fecondazione artificiale, sia a fini di ricerca.
In Italia, la legge sulle Norme in materia di procreazione medicalmente assistita contiene diverse misure di
protezione dell’embrione. Essa vieta in modo assoluto la sperimentazione sull’embrione umano e consente
la ricerca clinica e sperimentale solo per finalità di diagnosi e terapia che siano dirette vantaggio
dell’embrione stesso (art. 13); si vietano poi la formazione di embrioni ad ogni fine diverso da quello della
procreazione assistita ed ogni forma di selezione ai fini eugenetici, di alterazione del patrimonio genetico, di
clonazione o di produzione di ibridi e chimere combinando DNA umano e non umano. La crioconservazione
(congelamento) di embrioni umani è ammessa solo in limitate ipotesi. Si configurano così dei veri diritti
dell’embrione che la legge, tutela nel loro insieme accennando ad una soggettività dell’embrione: questa
sussiste in relazione ai particolari diritti riconosciuti all’embrione non invece come capacità giuridica.

La nozione di capacità giuridica è praticamente utile soprattutto quando si tratta di stabilire se una persona è
considerata dal nostro ordinamento idonea a essere titolare di un determinato tipo di rapporto giuridico: si parla
allora di capacità giuridica speciale.
Per esempio, l’art. 2 comma 2°, fa rinvio alle norme che stabiliscono un età inferiore ai 18 anni per la “capacità a
prestare il proprio lavoro”; ed infatti, vi sono varie età minime per potere assumere i diritti e gli obblighi del
lavoratore: di regola, per il commercio e l’industria, l’età minima è 16 anni. Chi è minore di 15 anni non ha la capacità
giuridica al rapporto di lavoro e perciò il contratto eventualmente stipulato è radicalmente nullo.
La donna era esclusa da alcuni rapporti di lavoro, o per ragioni di protezione contro un impiego troppo pesante o per
ragioni di presunta incompatibilità con il sesso. Queste discriminazioni sono gradualmente cadute; e con la legge
sulla “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro” è stata vietata ogni discriminazione fondata sul
sesso.
Altri esempi di capacità giuridica speciale sono legati all’età: l’età di 16 anni è prevista come età minima per contrarre
matrimonio con autorizzazione del Tribunale (art. 84) e per il riconoscimento del proprio figlio naturale (art. 250
ultimo comma); sono entrambi i casi in cui l’acquisto della capacità giuridica speciale coincide con l’acquisto
(anticipato) di una speciale capacità d’agire.

L’art. 1 del Codice civile collega la soggettività della persona alla nascita. La prova della nascita viene fatta coincidere
tradizionalmente con la prova dell’autonoma respirazione.

Per quanto riguarda la fine della vita umana, il nostro legislatore aveva, in passato, evitato di enunciare una
definizione di morte. La legge faceva implicito rinvio alla pratica medica; nella generalità dei casi, valeva perciò una
nozione semplice di morte, legata alla cessazione irreversibile del battito cardiaco e della respirazione: al medico era
rimesso l’accertamento della morte.
Questa disciplina era però inadeguata rispetto ai problemi nascenti dalle tecniche di rianimazione e di “sopravvivenza
assistita”, e dalle pratiche di prelievo d’organi da cadavere a fini di trapianto. La materia è ora disciplinata dalle
“Norme per l’accertamento e la certificazione della morte”, che hanno enunciato una definizione unitaria di morte,
secondo la quale “la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo” (cosiddetta
“morte cerebrale”). ****
Non sempre la morte può essere materialmente constatata. Particolari regole vigono per i casi di scomparsa della
persona, nei quali si prevede la possibilità di accertamenti presuntivi della morte, o di una dichiarazione di morte
presunta.
In altri casi, può essere impossibile determinare esattamente il momento della morte. Supponiamo che in una stessa
occasione siano morte più persone. Quando la realtà non può essere accertata si applica la regola della commorienza
(art. 4): tutte le persone si considerano morte nello stesso momento.

Nessuna regola espressa enuncia l’effetto primario della morte, cioè l’estinzione della personalità del defunto anche
dal punto di vista del diritto. Nel nostro sistema l’esistenza in vita di un individuo è condizione necessaria per
riconoscere una sua “personalità giuridica”.

4. Scomparsa, assenza, dichiarazione di morte presunta.


Scomparsa: una persona, allontanandosi dal suo domicilio, non dia più notizie di sé, in modo che si ignora se sia
ancora in vita.

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La prima conseguenza è che non si può fare valere il diritto ad una eredità o ad un legato se la morte della persona,
cui lo scomparso dovrebbe succedere, si è verificata dopo la scomparsa (art.70).
Quanto ai rapporti che fanno capo allo scomparso, si distinguono tre fasi:
a. Nell’immediato, il Tribunale può nominare un curatore che amministri i beni dello scomparto (art. 48): si
crea una situazione assimilabile alla rappresentanza legale, in quanto titolare del patrimonio rimane la
persona scomparsa.
b. Dopo due anni, si può chiedere la dichiarazione di assenza (art. 49), che consente l’apertura del testamento,
se esiste. Coloro che sarebbero eredi o legatari, per testamento o per legge, se l’assente fosse morto nel
giorno cui risale la sua ultima notizia, ottengono l’immissione nel possesso temporaneo dei beni.
L’immesso ha il potere di amministratore i beni lui affidati, usandoli e godendone i frutti, e di rappresentare
in giudizio l’assente, che rimane il titolare (art. 52). La dichiarazione di assenza non scioglie il matrimonio e
non permette le seconde nozze; se però queste avessero luogo, il nuovo matrimonio non può essere
impugnato finché dura l’assenza.
c. Dopo un termine più lungo ( di regola, dieci anni) si può chiedere la dichiarazione di morte presunta (artt. 58
e ss.); sentenza che accerta l’altissima probabilità della morte, e crea un fictio iuris: lo scomparso “si
considera” morto.
Dal punto di vista patrimoniale, la sentenza produce gli stessi effetti della morte: gli aventi diritto alla
successione conseguono “il pieno esercizio dei diritti loro spettanti” (art. 64); in sostanza, si verifica
l’apertura della successione.
Quanto ai rapporti personali, la dichiarazione di morte presunta ha pure l’effetto di una “finzione” di morte:
il coniuge del presunto morto più risposarsi, come se il matrimonio fosse sciolto a causa di morte accertata
(art. 65). Se però il morto presunto ricompare, la fictio cade, e il matrimonio celebrato a norma dell’art. 65 è
nullo (art. 68). Se invece si accerta la vera morte, posteriore al secondo matrimonio, la nullità̀ non può
essere pronunciata (art. 68, comma 2°).

5. I luoghi della persona: domicilio, residenza, dimora.


Il titolo III del Libro I riguarda i “criteri di collegamento” tra persone e luoghi: domicilio, residenza, dimora.
L’art. 43 del Codice civile, al primo comma, regola il domicilio, definito come “il luogo in cui una persona ha stabilito
la sede principale dei suoi affari e interessi”.
I punti salienti della definizione sono due. Primo, quel che conta è l’oggettiva prevalenza di una sede di “affari e
interessi”; secondo, gli “interessi” sono evidentemente non solo di natura economica, ma anche personale, sociale,
politica: per esempio, se io divido i miei affari tra Padova e Milano, ma vivo con la mia famiglia a Milano, prevarrà̀
Milano.
Domicilio speciale o elettivo: qui essenziale è la dichiarazione del soggetto, che elegge il domicilio in una sede per
determinati atti o affari.
Domicilio legale è oggi solo quello dell’incapace di agire. Il minore ha il domicilio nel luogo di residenza della famiglia;
se è sottoposto a tutela, ha il domicilio del tutore, come avviene anche per l’interdetto. Oggi ognuno dei coniugi ha il
proprio domicilio, secondo il criterio ordinario. Essi invece stabiliscono d’accordo la comune residenza nella quale si
situa, come dicevamo, il domicilio dei figli minori.

Il 2° comma dell’art. 43 ci dice che la residenza è “il luogo in cui la persona ha la dimora abituale.” Non ci dice cos’è la
dimora, e quindi il significato del termine è quello comune: il luogo in cui una persona si trova ad abitare. Anche nella
dimora ci vuole un minimo di stabilità. È possibile avere più di una residenza di fatto, come quando una persona
dimora abitualmente sei mesi in città e sei mesi in campagna.
La residenza è un fatto giuridico, oggetto di pubblicità (se non sbaglio pubblicità dichiarativa) nei registri anagrafici.
Se una persona cambia residenza, e non “denuncia il fatto nei modi previsti dalla legge” (art. 44) il cambiamento è
inopponibile ai terzi di buona fede (cioè che non ne fossero comunque a conoscenza).

Infine, l’art. 46 dispone che, quando la legge fa dipendere determinati effetti dalla residenza o dal domicilio, per le
persone giuridiche si ha riguardo al luogo in cui è stabilita la sede.

6. La capacità d’agire.
L’art. 2 dispone che “con la maggior età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita
un’età diversa”.
La capacità d’agire è, dunque, l’attitudine a compiere atti giuridici; essa si acquista, per la generalità degli atti, al
compimento del 18° anno di età (maggiore età).
Questa prima, e semplice definizione, va completata con due precisazioni:

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
a. La capacità d’agire è l’attitudine a compiere validamente atti giuridici; infatti, l’atto compiuto da una
persona che manca di capacità d’agire non è privo di rilevanza giuridica né di propria efficacia; esso non è
completamente nullo ma solo annullabile (art. 1425) e, finché non è annullato, produce i suoi effetti.
b. La capacità d’agire è necessaria per compiere validamente atti giuridici con riguardo ai propri interessi: un
atto giuridico può essere compiuto validamente da un incapace d’agire se questi agisce in nome altrui, in
forza di una procura rilasciata da un soggetto capace.
***
• Interdizione giudiziale: provvedimento del giudice con il quale una persona viene totalmente privata della capacità
d’agire. Avviene quando una persona è abitualmente sprovvista della capacità naturale a tal punto di non riuscire a
provvedere ai propri interessi. È una forma di tutela del soggetto. I soggetti legittimati a chiedere il provvedimento sono
i parenti fino al quarto grado e gli affini fino al secondo. L’incapace non può chiedere la revoca. Il giudice valuta la
richiesta esaminando l’interdicendo, senza essere obbligato a consultare una perizia psichiatrica. L’interdetto è
sostituito nell’attività giuridica patrimoniale attraverso la rappresentanza legale attribuita ad un tutore.
• Interdizione legale: chiunque debba scontare una pena detentiva superiore alla durata di 5 anni, è sostituita da un
tutore per quanto riguarda il compimento di tutti gli atti patrimoniali tra vivi.
• Inabilitazione: sentenza del giudice, col quale la capacità di un soggetto viene limitata a causa della sua infermità̀
mentale (meno grave di quella dell’interdetto come, ad esempio, quella derivante dalla sua patologica prodigalità o
dalla sua dipendenza di sostanze) o della sua sordità e cecità, a meno che la persona dimostri di saper provvedere ai
propri interessi. L’inabilitazione permette di compiere gli atti di ordinaria amministrazione (partecipare all’attività
giuridica), nonché gli atti personalissimi se ha capacità di intendere e di volere (naturale). Per gli atti di straordinaria
amministrazione l’inabilitato e sostituito da un curatore.
• Amministrazione di sostegno: sentenza del giudice che indica specificatamente quali atti può compiere il soggetto in
autonomia, quali atti devono essere compiuti dall’amministratore di sostegno, e quali atti debbano essere stipulati con
l’affiancamento dell’amministratore di sostegno. È il più recente e il più usato oggi, in quanto permette di creare una
situazione fatta su misura per il soggetto.
L’interdizione, l’inabilitazione (e in certi casi l’amministrazione di sostegno) sono provvedimenti che pongono la
persona in uno stato di incapacità dichiarata; insieme alla minore età, essi esauriscono il campo della incapacità
legale d’agire.
L’eventuale capacità di fatto dell’incapace legale è rilevante nel caso di attività negoziale da lui svolta in nome altrui:
infatti con la procura un soggetto capace di agire può attribuire il potere di rappresentanza anche a un incapace
legale, purché questi abbia la capacità di intendere e di volere commisurata alla natura dell’atto da compiere (art.
1389).
Il secondo correttivo cui si accennava è questo: ferma restando la capacità legale d’agire, si attribuisce limitata
rilevanza all’incapacità naturale o di fatto. A norma dell’art. 428, è causa d’annullamento degli atti giuridici
l’incapacità di intendere o di volere (cioè di capire natura e contenuto dell’atto e di decidere autonomamente) che
sussista, per qualsiasi causa anche transitoria (assunzione di alcool o stupefacenti, stati di infermità mentale, malattia
debilitante, stati confusionali, ecc.), al momento in cui l’atto è compiuto. L’incapacità non è però causa sufficiente:
occorre che l’atto sia gravemente pregiudizievole per l’incapace; se si tratta di un contratto, occorre invece la
malafede dell’altra parte.
Solo di recente si è affermata un’interpretazione più larga, che ritiene sussistere l’incapacità naturale quando esista
una menomazione tale da impedire un serio controllo del comportamento e una cosciente volontà. Il quadro così
descritto riguarda la capacità di compiere atti giuridici e più precisamente atti di autonomia. Diverso il discorso
riguardo agli atti illeciti e ancor più riguardo ai meri atti materiali.
Per gli atti illeciti così da accollargliene la responsabilità (imputabilità) è la pura capacità di intendere e di volere
sussistente nel momento in cui l’atto è compiuto (art. 2046). Essa può riscontrarsi ovviamente nel minore o
nell’interdetto legale, ma anche nell’interdetto giudiziale: non è detto infatti che l’infermità di mente, pur “abituale”
implichi una continua e ininterrotta incapacità di intendere o di volere.

Infine, nessun requisito di capacità rileverà in quei casi in cui il comportamento di una persona viene in rilievo come
puro fatto materiale: così, il ritrovamento causale di una cosa mobile di pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessuno
può provare di essere proprietario (art. 932), fa acquistare la proprietà a chi fa la scoperta, anche se privo di capacità
di intendere e volere.

7. La posizione del minore. La responsabilità genitoriale.


Negli ultimi decenni, la cultura delle relazioni familiari ha valorizzato in modo crescente l’esigenza di riconoscere al
figlio minore, in rapporto alla sua fase di crescita, una progressiva posizione di “soggetto attivo”, e non di suddito.
Una tappa fondamentale in questo senso è la Convenzione di Strasburgo del 1996.
Il concetto di potestà genitoriale è stato criticato e abbandonato da tempo in diversi ordinamenti.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Ad oggi, è più preciso parlare di “responsabilità genitoriale”, il quale è una posizione complessa, che comprende:
1. Un complesso di prerogative che riguardano la cura della persona del figlio: si tratta del diritto-dovere di
mantenere, istruire ed educare i figli tenendo conto delle loro capacità, dell’inclinazione naturale, delle
aspirazioni (cioè del valore della personalità dei figli).
2. Un potere-dovere di amministrazione dei beni di cui i figli minori siano titolari.
3. Un potere di rappresentanza legale, per il quale i genitori sostituiscono il figlio nel compimento di “tutti gli
atti civili”.
4. L’usufrutto legale sui beni del figlio, che consente ai genitori di percepirne i frutti, i quali sono però destinati
al mantenimento della famiglia e all’istruzione ed educazione dei figli (anche diversi dal titolare dei beni).
Non sono soggetti ad usufrutto legale i beni acquistati dal figlio con i proventi del proprio lavoro; i beni
lasciati o donati al figlio per intraprendere una carriera, un’arte o una professione; i beni lasciati o donati
con la condizione che i genitori non ne abbiano l’usufrutto oppure accettati nell’interesse del figlio contro la
volontà dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale.

I poteri di amministrazione e di rappresentanza, e il godimento dell’usufrutto legale, sono aspetti normali della
posizione giuridica dei genitori, ma non essenziali: i genitori che amministrano male possono essere privati di quei
poteri, o dell’usufrutto legale, senza per questo perdere l’insieme delle loro prerogative.

La responsabilità genitoriale si esercita di comune accordo tra i genitori (art. 316); in caso di disaccordo, su questioni
di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere al giudice (Tribunale per i minorenni). Il giudice cerca di
raggiungere una soluzione concordata, disponendo l’ascolto del figlio che abbia almeno 12 anni di età; se non riesce,
può tuttavia affidare il potere di decidere, per la questione concreta, a quello dei due che gli sembri più idoneo a
curare l’interesse del figlio.
Regole particolari vigono per l’esercizio della potestà sui figli naturali, e sui figli di genitori separati o divorziati. Anche
l’attività di amministrazione dei genitori è soggetta a controllo: l’autorizzazione del giudice tutelare è necessaria per
tutti gli atti di straordinaria amministrazione; tali atti possono essere compiuti solo per necessità o utilità evidente
del figlio. In particolare, poi, l’esercizio di un’impresa commerciale non può essere continuato senza l’autorizzazione
del Tribunale su parere del giudice tutelare.

La responsabilità genitoriale si perde nell’ipotesi di decadenza, cioè per effetto di una sentenza del Tribunale per i
minorenni in caso di violazione di doveri o di abuso di poteri da parte del genitore, che rechi grave pregiudizio al
figlio. Se la condotta dei genitori, pur pregiudizievole al figlio, non è così grave da giustificare la decadenza dalla
potestà, il giudice “può adottare i provvedimenti convenienti” ed eventualmente allontanare il figlio dalla casa
familiare.

Se entrambi i genitori muoiono, o decadono dalla loro posizione di responsabilità, il minore è soggetto a tutela. I
poteri del tutore sono simili a quelli dei genitori: egli ha la “cura della persona” del minore, provvede
all’amministrazione dei beni del minore e ne ha la rappresentanza legale. È però soggetto a più intenso controllo da
parte del giudice tutelare e del Tribunale, la cui autorizzazione, su parere del giudice tutelare, è necessaria per gli atti
di disposizione elencati dall’art. 375, e per la prosecuzione dell’esercizio dell’impresa. In caso di cattiva
amministrazione, o di abuso di potere, è prevista la revoca dall’ufficio.
Il potere di indirizzare il comportamento del minore, e di decidere riguardo ai suoi interessi ha però un’estensione
sempre minore man mano che il minore cresce. Questo graduale acquisto di libertà da parte del minore si riflette
sulla sua capacità di compiere atti giuridici.
Anzitutto, lo stesso articolo 2 del Codice civile stabilisce che se il minore entra in un rapporto di lavoro (come può
avvenire di regola dopo i 15 anni) acquista la capacità di esercitare i diritti e le azioni che dipendono dal contratto di
lavoro.
Si tenga poi presente che il contratto di lavoro, che impegna la personalità del minore, non può concludersi senza il
suo consenso: secondo un’opinione attendibile, la funzione dei genitori rispetto alla conclusione del
contratto è di sola assistenza.
Ma anche sotto altri aspetti il minore è capace d’agire: può contrarre matrimonio, con l’autorizzazione del Tribunale
per i minorenni, a 16 anni; alla stessa età può riconoscere un proprio figlio naturale e può dare il consenso a essere
riconosciuto da un genitore naturale. Le norme penali in tema di violenza sessuale indicano nei quattordici e nei
sedici anni le soglie di età da oltre le quali il minore può disporre di sé ai fini di un rapporto sessuale.
Importanti aspetti di capacità si riscontrano per la donna minore nella disciplina dell’interruzione di gravidanza.
Infatti, la richiesta di interruzione della gravidanza deve provenire dalla stessa minore. Occorre bensì l’assenso di chi
esercita la patria potestà o la tutela, ma nei primi novanta giorni, per seri motivi, il difetto di assenso può essere
superato con un provvedimento del giudice tutelare che autorizza l’interruzione della gravidanza o, in caso di

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
urgenza, con la sola certificazione del medico. Dopo i primi novanta giorni la minore dei diciotto anni è in tutto
parificata alla donna maggiorenne.
Sempre a sedici anni, è richiesto il consenso del minor per varie decisioni nell’ambito familiare. Età inferiori hanno
rilevanza ai fini dell’adozione: il minore che ha compiuto i quattordici anni deve dare il proprio consenso; dopo i
dodici anni, l’adottando dev’essere sentito.
Si tenga poi presente che un incapace legale può sempre compiere atti giuridici come procuratore di un soggetto
capace di agire, purché abbia la capacità di intendere e volere adeguata alla natura e al contenuto dell’atto; con una
procura tacita dei genitori, che si manifesterebbe nella disponibilità del denaro in mano al minore, si spiega,
tradizionalmente, come mai i minorenni stipulano i cosiddetti “atti della vita quotidiana”: essi sono tutti atti
considerati validi.
Norme speciali regolano anche la capacità d’agire del minore con riguardo ai contratti di deposito bancario.
La Convenzione di Strasburgo del 1996, ratificata dall’Italia nel 2003, accentua l’autonoma persona del minore, la sua
presenza come soggetto nei procedimenti che lo interessano, il rilievo della “capacità di discernimento (di prendere
decisioni)” via via acquistata dal minore nel corso della crescita.
Si sono poi acquisiste in via giurisprudenziale conclusioni ormai indiscusse circa la capacità del minore di compiere
autonomamente scelte di carattere relazionale (adesione a gruppi), politiche, e soprattutto di gestione del proprio
corpo e della propria salute (consenso ad intervento medico, consensi necessari ad attività sportive, consenso alla
riproduzione della propria immagine): sia nel senso primario, di ritenere tali decisioni impraticabili dai soli genitori in
virtù del potere di rappresentanza, ma solo con il personale consenso del minore in rapporto alla sua “capacità di
discernimento” concretamente acquisita, sia nel senso più forte di ritenere il minore in grado di assumere da solo le
decisioni in questione.

Infine, si ricordi che il minorenne che si sposa acquista uno status particolare, quello di “minore emancipato”; egli è
capace di compiere tutti gli atti di ordinaria amministrazione, e per gli altri non è sostituito, ma assistito da un
curatore (che non è rappresentante), il cui assenso è necessario per la validità dell’atto. In più, se l’emancipato è
autorizzato all’esercizio di una impresa commerciale, diventa pienamente capace di agire; ma per la donazione v.
l’art. 774.

8. La protezione del “soggetto debole” maggiorenne.


L’interdizione e l’inabilitazione sono spesso presentati come mezzi di protezione dell’incapace, che attraverso questi
provvedimenti sarebbe messo in condizione di non nuocere ai propri interessi. Il fine principale appariva la
protezione di interessi patrimoniali dei familiari: sono legittimati a chiedere il provvedimento non solo il coniuge, ma
i parenti entro il quarto grado e gli affini entro il secondo. In più, una volta pronunciata l’interdizione, l’incapace non
può chiederne di persona la revoca.

Inoltre, è emersa l’inadeguatezza di un sistema che privilegiava uno strumento applicabile solamente nei confronti di
soggetti in condizione di abituale infermità di mente, lasciando invece completamente privi di sostegno quei soggetti
che non versassero in una tale grave situazione ma che pure non fossero in concreto autosufficienti (per esempio gli
invalidi, gli anziani della quarta età, ecc.). Questi pesanti limiti sono in buona parte rimossi dalla legge 9.1.2004, n.6,
che ha introdotto nel libro primo del Codice civile la figura dell’amministratore di sostegno.
Si tratta di una riforma che mira a tutelare i cosiddetti soggetti deboli (cioè le persone “prive in tutto o in parte di
autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana”), attuando interventi di sostegno temporaneo o
permanente, con la “minore limitazione possibile della capacità di agire”.

Presupposto dell’interdizione giudiziale è una abituale infermità di mente, tale da rendere l’infermo incapace di
provvedere ai propri interessi. Tale situazione è accertata dal giudice con un “esame” dell’interdicendo, senza però
obbligo di perizia psichiatrica.
La perdita della capacità a seguito dell’interdizione è totale: l’interdetto è incapace di compiere validamente qualsiasi
atto patrimoniale, anche di piccola entità; non può fare testamento; non può sposarsi; non può riconoscere un figlio
naturale. Tuttavia, il giudice può stabilire che l’interdetto conservi la capacità con riguardo a taluni atti di ordinaria
amministrazione.
Inoltre, la donna interdetta può richiedere personalmente l’interruzione della gravidanza.

L’attività giuridica preclusa all’interdetto è svolta per suo conto da un rappresentante legale, che lo sostituisce: si
tratta del tutore nominato con la sentenza di interdizione, i cui poteri e doveri sono determinati con rinvio alle
norme che riguardano la tutela dei minori.
Il potere di rappresentanza del tutore non si estende agli atti personalissimi che sono quindi del tutto preclusi

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
all’interdetto: la giurisprudenza ammette, con molte incertezze, che il tutore possa rappresentare l’interdetto nel
giudizio di separazione e di divorzio intentato dall’altro coniuge. Tuttavia, la riforma del 2004 lascia al giudice di
prevedere che l’interdetto possa compiere alcuni atti di ordinaria amministrazione senza l’intervento, ovvero
soltanto con l’assistenza, del tutore.
L’attività di amministrazione e rappresentanza del tutore si svolge sotto il controllo del giudice tutelare; gli atti che
eccedono l’ordinaria amministrazione possono essere compiuti solo con l’autorizzazione del giudice tutelare o con
l’autorizzazione del tribunale, su parere del giudice tutelare, se si tratta di atti “di disposizione”. Se compiuti senza le
prescritte autorizzazione, gli atti del tutore sono annullabili, su istanza del tutore stesso, o del rappresentato (che
può agire dopo la revoca dell’interdizione) o infine dei suoi eredi o aventi causa.
Tutti i provvedimenti che ruotano attorno all’interdizione sono soggetti a una doppia pubblicità: essi debbono essere
iscritti nel registro delle tutele tenuto presso la cancelleria del tribunale, ed essere poi trasmetti all’ufficiale dello
stato civile che ne fa annotazione a margine dell’atto di nascita. In questo modo nessuno può sostenere di averli
senza colpa ignorati.

Un’ipotesi di incapacità che non va confusa con la precedente è quella che deriva dalla cosiddetta interdizione legale.
Essa colpisce automaticamente chi sia condannato all’ergastolo o alla reclusione per un periodo ti tempo non
inferiore a cinque anni. La misura è punitiva: l’interdizione è una pena accessoria rispetto alla sanzione primaria.
La condizione dell’interdetto legale si distingue da quella dell’interdetto giudiziale perché la sua incapacità non
riguarda gli atti di natura personale o familiare: il condannato può sposarsi e riconoscere un figlio naturale.

Conseguenze molto meno pesanti, rispetto all’interdizione, ha l’inabilitazione, che presuppone un’infermità di mente
non così grave da richiedere l’interdizione, oppure diverse situazioni: la patologica prodigalità, l’abuso abituale di
bevande alcooliche o di stupefacenti, ma soltanto se espongono la persona o la sua famiglia a gravi pregiudizi
economici; la sordità e la cecità congeniti o dalla prima infanzia, se è mancata un’educazione sufficiente, e a meno
che non risulti una totale incapacità di provvedere ai propri interessi, che consente l’interdizione.
L’inabilitazione lascia all’inabilitato la capacità di compiere tutti gli atti di ordinaria amministrazione, nonché gli atti
personali. Quanto al testamento, l’inabilitato è capace, purché provvisto della concreta capacità di intendere e
volere. Per gli atti di straordinaria amministrazione, l’inabilitato non è sostituito, ma solo assistito dal curatore che
deve dare il suo assenso. Il giudice però può prevedere che l’inabilitato possa compiere uno o più atti di straordinaria
amministrazione senza l’assistenza del curatore. L’inabilitato può essere anche autorizzato dal Tribunale, su parere
del giudice tutelare, a continuare l’esercizio di una impresa commerciale: non invece ad avviare un’attività nuova.

L’amministrazione di sostegno si applica alla persona che “per effetto di una infermità ovvero di una menomazione
fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”.
Il giudice stabilisce per quali atti è richiesta l’assistenza e per quali invece è richiesta la sostituzione
dell’amministratore di sostegno. Il beneficiario conserva la capacità con riferimento a tutti gli altri atti; l’istituto
dunque sembra limitato alla sfera patrimoniale e non destinato a incidere sulla capacità agli atti personali.
La nuova figura dell’amministratore di sostegno mira a proteggere il “soggetto debole” con la minore limitazione
possibile della capacità: spetta al giudice di decidere per quali atti è richiesta la rappresentanza o l’assistenza
dell’amministratore.
Il provvedimento può anche essere temporaneo: la durata dell’incarico viene stabilita nel decreto di nomina; in ogni
caso, il giudice può sempre modificare o integrare le decisioni assunte con il decreto di nomina. Inoltre,
l’amministratore di sostegno deve periodicamente riferire al giudice circa l’attività svolta e sulle condizioni di vita
personale e sociale del beneficiario.
La scelta dell’amministratore di sostegno deve avvenire con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi del
beneficiario e lo stesso soggetto interessato può designare un amministratore di sostegno in previsione di una
propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata.
Il provvedimento è soggetto a pubblicità tramite annotazione nell’atto di nascita.

II. PERSONE GIURIDICHE E I SOGGETTI COLLETTIVI


9. Universitas e singuli.
Gli individui si aggregano, formano organizzazioni, uniscono forze: gli interessi e le azioni umane, pur rimanendo in
ultima analisi interessi e azioni di singoli essere umani, si integrano in modo da assumere un carattere diverso dagli
interessi e dalle azioni che ciascuno coltiva o compie solo per sé medesimo. Da sempre il diritto tiene in
considerazione questo aspetto del problema, che i latini chiamavano vertere in unum, confluire in unità: la pluralità si
integra, uni –verte, forma uni-verso o meglio una universitas.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Nel diritto medievale molti benefattori donavano o lasciavano in eredità i loro beni all’ordine francescano, i cui
componenti erano legati al voto di povertà. Se si guardava all’ordine come ad una somma di singoli individui, la
proprietà acquistata sarebbe stata proprietà comune, pura e semplice con titolarità: e i frati non sarebbero stati
poveri.

Il diritto allora conosce la finzione, la fictio: trattare una situazione come se un certo elemento, in realtà non
esistente, esistesse. Ebbene: di fronte ad un insieme di singoli, si poteva fingere (fare come se ci fosse) una nuova
persona, un nuovo attore della scena giuridica: l’universitas, l’insieme, considerato come distinto dai singoli che lo
formano: era nata la persona giuridica.
Si trattava, allora, di un brillante espediente inventato dal giurista. Quando però, in tempi più vicini, si guardò al
legislatore come all’unico “creatore” del diritto: la persona giuridica venne pensata non più come una finzione del
giurista, ma come la “creazione” di un “soggetto artificiale” da parte del legislatore. E così, il concetto di persona, che
un tempo indicava l’uomo, diventa un concetto “di genere” che comprende due “specie”: la persona fisica e la
persona giuridica, entrambe soggetti, cioè “capi d’imputazione” di diritti e di obblighi nonché di atti giuridici.

10. Funzione della personalità giuridica.


Lo scopo pratico della personalità giuridica è quello di stabilire una distinzione tra universitas (insieme) e singuli
(individui che lo compongono) mettendo questi ultimi in grado di controllare le risorse e l’attività dell’ente
(attraverso le regole di organizzazione interna) ma tenendoli al riparo dalle conseguenze della titolarità diretta di
rapporti attivi e passivi.
La personalità giuridica è riconosciuta a quella forme di società che il legislatore concepisce come strumenti adatti
alla grande o media impresa, e destinati anche a consentire di raccogliere le risorse di investitori, grandi o piccoli, che
non intendono assumere rischi oltre a quanto conferiscono in società: le società “di capitali”, che si presentano sul
mercato nella veste di un protagonista autonomo, un soggetto distinto dai soci, una persona giuridica.
Se un’organizzazione appare sulla scena giuridica come un “soggetto di diritto” nuovo e diverso dall’insieme dei
singoli che fanno parte della sua organizzazione, è solo perché certi rapporti ed attività (proprietà, debiti, crediti,
contratti) sono regolati in modo da farli funzionare “come se” l’organizzazione fosse un individuo a sé; essi sono
imputati al gruppo nel suo insieme perché sono regolati in modo da separarli perfettamente o quasi perfettamente
dalla sfera di interessi e di rapporti che fanno capo ai singoli individui: si tratta della cosiddetta autonomia
patrimoniale, perfetta o imperfetta.
L’autonomia patrimoniale ci permette di parlare di beni o di debiti propri dell’ente; essa implica che chi dispone di
beni o assume debiti agisca in nome e per conto della persona giuridica; consente di costituire anche rapporti
giuridici tra un socio e la persona giuridica: l’associato potrà essere in credito o in debito (o ogni altro rapporto
giuridico) verso la persona giuridica.
Ovviamente, se questa permesso è usato da singoli individui per frodare la legge, o per sottrarsi alle conseguenze
negative di attività (come la responsabilità personale illimitata per i debiti) o per lucrare indebitamente vantaggi, si
deve poter disapplicare la distinzione tra la persona giuridica e gli individui che le stanno dietro: per accollare alle
persone fisiche le responsabilità cui esse volevano sfuggire o negare loro i vantaggi lucrati.

11. L’estensione dell’autonomia patrimoniale.


I benefici legali all’idea di un soggetto distinto, di una persona ficta, sono stati estesi dal diritto commerciale a forme
di società più semplici adatte alla piccola impresa (dette società di persone) che tuttavia non si configurano come
persone giuridiche, cioè come veri e propri “soggetti artificiali” distinti dai soci.
In queste forme di aggregazione, la collettività dei soci non è coperta dallo “schermo” della persona giuridica: i diritti
e gli obblighi che fanno capo alla società si possono, in ultima analisi, riferite alla collettività dei soci. Ma i rapporti
che fanno capo alla società sono regolati in modo da realizzare un certo grado di separazione del patrimonio sociale
dal patrimonio dei singoli soci (autonomia patrimoniale imperfetta).

L’indicatore principale del grado di autonomia del patrimonio sociale è dato dalla disciplina della responsabilità per i
debiti. Essa è regolata, infatti, in modo da separare, più o meno intensamente, il destino della società da quello del
singolo socio. E cioè:
a. Finché la società dura, i creditori del singolo socio non possono aggredire direttamente i beni della società,
come avverrebbe in una semplice comproprietà.
b. La responsabilità del singolo per i debiti della società diviene sussidiaria o addirittura limitata alla sola quota
di partecipazione
Un altro aspetto importante attiene al modo in cui si può disporre dei beni sociali. Mentre in una situazione di
semplice comproprietà ciascun comproprietario può cedere o ipotecare la propria quota del bene comune, nelle

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
società di persone il socio non ha questo potere sui beni conferiti in società: di questi si dispone solo secondo le
regole dell’ordinamento interno. Il conferimento, quindi, segna un vero passaggio di proprietà.
Questi benefici sono stati estesi, col Codice civile del ’42, anche a gruppi diversi dalle società, cioè alle associazioni
non riconosciute e ai comitati: forme di aggregazione senza scopo di lucro.

12. Il panorama attuale.


La prima grande classificazione delle organizzazioni riguarda lo scopo, e distingue gli enti a scopo di profitto
(organizzazioni “profit”) egli enti che non hanno scopo di profitto (organizzazioni non profit), senza riguardo al fatto
che si tratti di persone giuridiche o di gruppi senza personalità giuridica.
• Sono enti del primo tipo le società, sia “di persone” (società semplice, snc, sas) che “di capitali” (spa, sapa, e srl)
• Sono enti del secondo tipo le associazioni (riconosciute o non riconosciute), le fondazioni, i comitati, oltre ad alcune
società (società cooperative e mutue assicuratrici) inserite nel “Libro V”.

Una seconda grande classificazione, che si intreccia con la prima, è quella già considerata tra enti provvisti di
personalità giuridica, ed enti non personificati:
• Sono enti personificati, tra gli enti non profit, le associazioni riconosciute e i comitati, e tra quelle a scopo di profitto, le
società di capitali.
• Sono enti non personificati, tra le organizzazioni non profit, le associazioni non riconosciute e i comitati, e tra quelle a
scopo di profitto le società di persone.

Una terza distinzione è quella tra corporazioni e istituzioni. Il primo termine designa le organizzazioni a tipo
associativo, dove prevale l’elemento personale (associazioni, comitati, società); il secondo invece quelle
organizzazioni, private e pubbliche, in cui l’elemento personale non è dominante, perché prevalgono l’aspetto
patrimoniale o quello funzionale.
Organizzazioni a struttura corporativa invece, sono quelle in cui si prevede una distribuzione di poteri tra organi
diversi. Infine, tra gli enti personificati, occorre distinguere le persone giuridiche private da quelle pubbliche.

13. I tipi di persone giuridiche private.


Si distinguono tre grandi tipi di persone giuridiche private: le associazioni e le fondazioni (regolate nel Libro I) e le
società (regolate nel Libro V), cioè s.p.a., s.a.p.a., s.r.l. A questo sommario elenco si devono aggiungere i consorzi, che
a loro volta non sono una figura unitaria; sono persone giuridiche private i consorzi di produttori agricoli e i consorzi
per il coordinamento e la produzione degli scambi con attività esterna. La distinzione tra associazioni e fondazioni è
sempre stata discussa. La differenza sembra concentrarsi sul diverso modo di determinare la vita dell’ente:
nell’associazione, anche se l’atto costitutivo stabilisce lo scopo e i criteri per raggiungerlo, rimane determinante la
volontà degli associati; nella fondazione, l’attività dell’istituzione rimane legata al rispetto della volontà del
fondatore. Questa differenza ha origine nella diversa natura dell’atto costitutivo; l’associazione nasce da un accordo
tra più persone che convengono di collaborare per il raggiungimento di uno scopo; la fondazione invece nasce da un
atto unilaterale (tra vivi o a causa di morte) con il quale il fondatore destina certi beni ad uno scopo.

14. Connotati generali delle persone giuridiche.


Si usa dire che in ogni persona giuridica si ritrovano due elementi costitutivi:
• Un “elemento materiale”, in quanto, da un punto di vista sociologico, associazioni, fondazioni, società sono tutte
organizzazioni, cioè combinazione funzionali di uomini e mezzi che producono attività diretta ad uno scopo. Dal punto di vista
giuridico, si sottolinea la presenza dei seguenti aspetti:
- Le persone giuridiche private sono di regola caratterizzate dalla presenza di una pluralità di individui. Questo
profilo è essenziale nelle associazioni e nelle società, che si costituiscono con un contratto tra più persone; è
solo normale nelle fondazioni, alla cui attività partecipano più individui.
- La persona giuridica ha sempre una base patrimoniale
- L’attività delle persone e l’impiego dei mezzi sono diretti a uno scopo determinato dall’atto costitutivo; e
qui, una “grande divisione” separa le persone giuridiche con scopo di profitto (le società commerciali) da
quelle che non hanno scopo di profitto (le persone del Libro I, le società cooperative).
- Il tutto si lega in quanto anche sul piano giuridico si costituisce un’organizzazione; il termine non indica tutto
l’insieme che stiamo considerando, ma l’esistenza e la disciplina di un apparato di organi, cui è affidata la
formazione delle decisioni o la loro attuazione sia all’interno che all’esterno, tramite atti giuridici.
L’organizzazione segue un modello tipico nelle società, che devono avere certi organi stabiliti dalla legge; è
più elastica invece nelle associazioni e nelle fondazioni.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Elementi non secondari della persona giuridica sono la denominazione (che corrisponde al nome della persona fisica)
e la sede (che tiene luogo del domicilio); entrambe devono risultare sull’atto costitutivo.

• Un “elemento formale”, poiché la persona “nasce” soltanto quando agli elementi materiali si aggiunge il “riconoscimento
formale”. Tradizionalmente si distingueva due “sistemi” di riconoscimento della personalità giuridica:
- Sistema “concessorio”: per associazioni e fondazioni, riconoscimento per decreto dell’autorità governativa.
- Sistema “normativo”: per spa, riconoscimento per effetto dell’iscrizione nel Registro delle Imprese.

Per le persone giuridiche del Libro I, l’acquisto della personalità giuridica avviene a seguito dell’iscrizione nel registro delle
persone giuridiche istituito presso le prefetture e tenuto sotto la diretta sorveglianza del Prefetto oppure istituito presso le
Regioni. La domanda per il riconoscimento deve essere presentata alla prefettura nella cui provincia è stabilita la sede
dell’ente ad opera del notaio che ha ricevuto l’atto costitutivo su richiesta del fondatore o degli associati ovvero di coloro ai
quali è conferita la presidenza o la direzione dell’ente.
Presupposti per l’attribuzione del riconoscimento sono l’osservanza delle condizioni previste da norme di legge e
da regolamento per la costituzione dell’ente; uno scopo possibile e lecito ed un patrimonio adeguato alla
realizzazione dello scopo.

Carattere comune a tutte le persone giuridiche private è, infine, la pubblicità della loro costituzione, e degli atti che
ne modificano l’organizzazione.
Per le associazioni e fondazioni funziona il registro delle persone giuridiche. Per le società, è previsto il Registro delle
Imprese istituito presso la Camera di commercio.
La pubblicità consente ai terzi di conoscere la dotazione patrimoniale di associazioni e fondazioni, il capitale e i
conferimenti delle società, l’identità degli amministratori, ecc., ed è condizione di opponibilità di taluni atti.

15. La capacità delle persone giuridiche.


L’idea di una distinta soggettività delle persone giuridiche fa sì che i giuristi estendano anche a questi soggetti i
concetti di capacità giuridica e capacità di agire, che negli articoli 1 e 2 si riferiscono all’uomo.

16. Le persone giuridiche pubbliche.


Le persone giuridiche pubbliche (o enti pubblici) non sono soltanto lo Stato e gli altri enti territoriali (Regioni,
Province e Comuni).
L’art. 11 del Codice civile fa un generico riferimento ad altri “enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche”, per
dire che essi “godono dei diritti” secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico.
La diversa “natura” dell’ente (pubblico o privato) determina la soggezione alle regole di diversi rami del diritto.

In generale, si può dire che le persone giuridiche private sono costituite tramite un atto dell’autonomia privata (il
contratto di associazione o di società; il negozio di fondazione) e perseguono interessi particolari. I loro strumenti di
attività sono esclusivamente quelli del diritto privato: gli stessi, cioè, che sono normalmente accessibili alle persone
fisiche; la loro capacità si modella, come s’è visto, per analogia con la capacità delle persone fisiche.
Gli enti pubblici invece, sono di regola costituiti direttamente dalla legge o da un atto dell’autorità amministrativa
sulla base di una previsione di legge. Essi si caratterizzano per uno scopo di carattere pubblico: sono cioè costituiti, e
debbono operare, per il soddisfacimento di interessi della collettività.

Dallo scopo deriva l’attribuzione di poteri di carattere pubblicistico, che consentono agli enti pubblici di porsi in
rapporti di supremazia verso i privati, nel campo, s’intende, di loro competenza e nei limiti previsti dalla legge.
La tendenza a perseguire fini pubblici attraverso strumenti privatistici sembra però accentuarsi in anni recenti.
La struttura organizzativa della società per azioni viene utilizzata per costruire enti che debbono funzionare come
s.p.a, ma che perseguono interessi di ordine generale, e per riorganizzare in forma privatistica i grandi “enti pubblici
economici” (ENI,IRI,ENEL) in modo da assoggettarli alle regole della s.p.a per quanto riguarda i vincoli di bilancio e
l’eventuale riduzione del capitale per perdite (cosiddetta privatizzazione).
Spesso poi, gli stessi enti pubblici, costituiscono organizzazioni che svolgono attività collaterali e perseguono scopi
complementari rispetto alle attività e agli scopi degli enti che li costituiscono: ad es. Associazione Comuni D’Italia.

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CAP. 7.
I BENI
1. Il concetto di “bene” nel Codice civile.
Il Titoli 1 del Libro della Proprietà è dedicato ai beni. Esso si apre con l’articolo 810: “Sono beni le cose che possono
formare oggetto di diritti”.
Con questa definizione, il legislatore stabilisce tre requisiti per riconoscere un bene: il bene è a) una cosa b) che può
formare c) oggetto di diritti.
A. “Bene” è una cosa.
Nel linguaggio giuridico si ritiene che la parola “cosa” si riferisca alle realtà materiali. Il carattere materiale si
riferisce all’esistenza nel mondo della materia, tutto ciò che è empiricamente verificabile e quantificabile
“Cose” sono dunque: solidi, liquidi, gas, ma anche energie e beni immateriali come l’avviamento e i brevetti.
B. “Bene” è una cosa, che può formare oggetto di diritti.
L’attribuzione di un diritto risolve sempre un conflitto d’interessi, e un conflitto sorge solo se c’è una relativa
scarsità di ciò che può soddisfare un bisogno. Aria, acqua, mare, sono cose, ma non beni.
C. “Bene” è una cosa, che può formare oggetto di diritti: non che forma oggetto di diritti.
Ci sono cose (c.d. res nullius) che non sono oggetto di diritti, ma che possono diventare tali. Un esempio è il
pesce che diventa proprietà del pescatore dopo che quest’ultimo lo ha pescato (occupazione).
Cosa di nessuno è anche la cosa abbandonata (res derelicta) dal proprietario, lasciata con l’intenzione di non tenerla più.
Tutte le cose che non siano “di nessuno”, si dicono in patrimonio.

2. Relazioni tra cose.


Alcune relazioni tra cose sono rilevanti nel diritto privato.
L’art. 817 considera il rapporto di pertinenza di cosa a cosa. È un rapporto nel quale si individua una cosa principale
ed un’altra, chiamata appunto pertinenza, che è destinata in modo durevole al servizio o all’ornamento della prima.
La destinazione dev’essere fatta dal proprietario della cosa principale o da chi ha un diritto reale su di essa. Il
rapporto di pertinenza può essere stabilito tra:
• beni mobili (ad esempio, la cornice è pertinenza del quadro)
• tra un bene mobile e uno immobile (ad esempio, le cassette delle lettere di un condominio)
• tra immobile e immobile (come i garages separati che sono pertinenze dei vari villini).

La conseguenza più importante de rapporto di pertinenza è che gli atti e i rapporti che hanno per oggetto la cosa
principale comprendono anche le pertinenze se non è diversamente disposto.
Diverso dal rapporto di pertinenza è quello che si stabilisce fra varie cose che formano una cosa composta. La
differenza sta in ciò: eliminando la pertinenza, la cosa principale non perde la sua integrità (identità), mentre
l’integrità della cosa composta esige la compresenza di tutti gli elementi essenziali (per esempio le ruote sono un
componente dell’automobile). Il rapporto tra i componenti non è necessariamente quello di parti unite
materialmente tra loro: per esempio uno stereo può considerarsi come cosa composta.

3. Diverse categorie di cose.


Nelle obbligazioni “di dare”, e nei contratti che trasferiscono la proprietà di beni, è importante stabilire se
l’alienazione riguarda cose “generiche” o cose “specifiche”:
• Cose generiche sono quelle di cui non interessa alle parti l’identità, ma solo l’appartenenza a un genere, definito da certi
connotati (tipo di cosa, funzione, qualità, ecc.) e che sono perciò determinate solo per quantità, numero, misura: per
esempio 500 magliette Lacoste azzurre.
• Cose specifiche invece sono quelle che vengono in considerazione per la loro particolare identità: quel determinato
quadro, quel certo mobile antico ecc.
Nel rapporto tra un debitore e un creditore di cosa generica c’è un momento in cui la cosa dovuta viene individuata
(cioè determinata nella sua identità) all’interno del genere. L’individuazione trasforma l’oggetto del rapporto; non si
tratta più di cosa generica.
La “qualità” di cosa generica o specifica dipende solo in parte dalla natura della cosa: importante è come le parti la
considerano.

Diversa è la distinzione tra cose fungibile e infungibili, cioè sostituibili l’una all’altra, o invece non sostituibili.
• Bene fungibile per eccellenza è il denaro, ma sono normalmente fungibili tutte le cose prodotte in serie;
Infungibile è la cosa che esiste in un solo esemplare o ha caratteristiche che la rendono infungibile. La cosa specifica non
è sempre infungibile (se io vedo una maglietta Lacoste azzurra, taglia XL, nuova, vendo una cosa specifica ma fungibile),
mentre la cosa generica è sempre fungibile.

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Anche qui, però, il carattere fungibile o infungibile può dipendere dal modo in cui le parti considerano una cosa: un
oggetto di serie può essere considerato non sostituibile perché è un ricordo, perché è sicuramente esente da difetti,
ecc.
La distinzione viene in rilievo in tema di contratti: per esempio il mutuo è prestito di cose fungibili (denaro o altro)
che il mutuatario deve restituire nello stesso genere e qualità.
C’è infine la distinzione tra cose consumabili (cioè la cui normale utilizzazione ne implica l’estinzione, come il
carburante, cibi, vini, detersivi) e inconsumabili (cioè la cui normale utilizzazione non implica alterazione alcuna come
i gioielli, o implica solo il deterioramento, come un’automobile, un elettrodomestico ecc.). Ad esempio, ancora in
tema di contratti, il comodato (prestito gratuito di cosa) ha per oggetto cose inconsumabili.

4. Cose e valori. Il corpo umano.


Le cose che hanno, per l’uomo, un valore che va al di là dell’utilità pratica ed economica, sono in vario modo
sottratte alle regole comuni che riguardano l’appropriazione e l’utilizzazione dei “beni”: così, una disciplina speciale è
riservata alle cose sacre, al sepolcro, ai ricordi familiari.

Uno “statuto” ancora più particolare è poi riservato al corpo dell’uomo, che fa parte del regno degli oggetti di diritto.
La legge si preoccupa, anzitutto, di vietare quegli atti di disposizione da cui derivi una lesione permanente, o che
siano contrari all’ordine pubblico e al buon costume (art. 5 cod. civ).
Tradizionalmente, si dice che il soggetto è “proprietario” delle parti staccate dal proprio corpo; la legge n. 219 vieta
la cessione del proprio sangue ai fini di lucro ma ne ammette di regola la “donazione” (attività trasfusionali). Nei
trapianti tra vivi (per esempio il trapianto di rene tra persone viventi e il trapianto parziale di fegato) si fa “dono “di
un tessuto o di un organo, “cosa” di cui si dispone ma non commerciabile. Anche il cadavere è per certi aspetti una
“cosa”, di cui però non si può disporre se non nei modi stabiliti dalla legge e per fini pubblici; al corpo morto
dell’uomo è riconosciuta una dignità e riservata una protezione che induce a negare la sua natura di “cosa”, e a
considerarlo come un aspetto della personalità individuale del soggetto defunto, che riceve una protezione
“postuma”. Sul cadavere si prolunga però il potere di disporre sul proprio corpo, attraverso la dichiarazione di
volontà relativa al prelievo di organi e tessuti.
Sul versante opposto della vita umana, si discute la natura dell’embrione formato in vitro (altro è il discorso
sull’embrione formato in utero, che ha la condizione del concepito). Almeno su un punto tutti sono d’accordo, che
l’embrione non è una cosa: non appartiene al regno degli oggetti del diritto.

5. Oltre le cose.
La definizione dell’art. 810 è in parte superata dalla tradizione dei giuristi e dallo stesso legislatore. La tradizione
estende l’idea di cosa, e parla di “cose incorporali” (cose… che non sono affatto cose) per indicare beni come l’opera
dell’ingegno o l’invenzione. Chiamare questi beni in tal modo serviva a ricostruire i diritti su quei beni come una
particolare specie di proprietà. È uno schema che, oggi, si tende a non considerare valido: si tratta di diritti dal
contenuto originale, e di beni che non sono cose, ma utilità economiche.
L’art. 813 dispone che le regole relative ai beni mobili si applichino a tutti i diritti che non hanno per oggetto beni
immobili. In questo modo la nozione di bene invece di indicare l’oggetto del diritto, indica il diritto stesso.
Questa più ampia idea di “bene” si ritrova puntualmente nel linguaggio legislativo. “Beni” equivale a “sostanze”.
Diremo dunque che di beni si può parlare in due sensi:
a. Bene è qualsiasi utilità che può formare oggetto di un diritto
b. Bene è ogni diritto che abbia ad oggetto una utilità economica

6. Beni immobili e beni mobili.


L’art. 812 distingue due grandi categorie di beni, i beni immobili e i beni mobili.
La definizione di beni immobili è data dal legislatore tramite un breve elenco: il suolo, le sorgenti e i corsi d’acqua, gli
alberi, gli edifici, le costruzioni anche se unite al suolo a scopo transitorio. Ma a ciò si aggiunge “tutto ciò che
naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo”.
L’esperienza di questi anni mostra alcuni casi in cui l’appartenenza di determinate cose ai beni immobili è stata
discussa proprio perché non era certa la loro “incorporazione” al suolo: le cosiddette “case mobili”, ritenute ormai
beni immobili; i “palloni” che coprono piscine e campi da tennis, di cui non è del tutto certa la catalogazione; gli
impianti fotovoltaici, che si ritiene si tratti di beni immobili.
Il secondo comma dell’art. 812 infine considera certe particolari costruzioni galleggianti (mulini, bagni, ecc.) che sono
immobili se solidalmente assicurati alla riva e se destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione. I
beni mobili sono tutti gli altri beni: è quindi un concetto definito “in negativo”, il cui significato si ricava per
sottrazione.

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La distinzione tra i due ordini di beni è molto importante, soprattutto dal punto di vista della circolazione dei diritti
sui beni stessi.
Nel caso dei mobili, prevalgono criteri di semplicità e rapidità: dunque non ci vogliono particolari forme negli atti di
alienazione. Non è previsto poi un sistema di pubblicità tramite registri: l’opponibilità degli acquisti è legata al
possesso del bene (possesso vale titolo).
Per gli immobili, invece il criterio è quello di richiedere maggiori formalità (la scrittura privata è la forma minima per
atti che costituiscono o trasferiscono diritti reali sugli immobili) e di organizzare un sistema di sicurezza degli acquisti,
tramite la pubblicità affidata ai registri immobiliari.

A particolari categorie di beni mobili, però, si applicano alcune regole simili a quelle che valgono per i beni immobili.
Autoveicoli, motoveicoli, certi tipi di natanti, gli aerei, ecc., sono beni mobili registrati; per la loro circolazione, cioè, è
previsto un sistema di pubblicità tramite registri, cosicché non si applicano molte delle regole che riguardano i beni
mobili comuni. Tuttavia, dove mancano norme specifiche, si devono applicare, secondo l’art. 815, le disposizioni
relative ai beni mobili: la vendita di un’auto non richiede forma scritta (è necessaria una dichiarazione autenticata
per trascrivere la vendita).

7. Le universalità. Il patrimonio.
Ad alcune norme simili a quelle che valgono per gli immobili sono soggette anche le universalità di mobili. Si tratta di
una pluralità di cose che appartengono a una stessa persona e hanno una destinazione unitaria.
Esempi antichi sono il gregge, la mandria, la biblioteca, la collezione.
Caratteristica dell’universalità è di poter essere considerata come un bene ma anche come più beni; ogni singola
cosa può essere oggetto di un separato atto giuridico.
Visto come un tutto, l’universalità si avvicina agli immobili nella difesa del possesso e nella usucapione.

Tra le universalità viene annoverata anche l’azienda che l’art. 2555 definisce come “il complesso di beni organizzati
dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. L’art. 670 del Codice di procedura civile, in effetti, sembra qualificare
espressamente l’azienda come un “universalità di mobili”. L’azienda non è una semplice universalità di cose; essa
comprende beni immateriali (come i segni distintivi) e quel valore particolare che è l’avviamento. In un senso più
ampio, fanno parte dell’azienda anche diritti derivanti da rapporti obbligatori: beni, dunque nel senso più esteso del
termine.
La considerazione unitaria dell’azienda si osserva con particolare evidenza nella disciplina dell’usufrutto e dell’affitto
d’azienda.

Vi è sicuramente un caso in cui la legge tratta come unità un insieme di rapporti giuridici attivi e passivi: quando una
persona muore, il suo patrimonio ( la totalità dei rapporti attivi e passivi che facevano capo al defunto) è considerato
unitariamente come oggetto della successione ereditaria.
L’eredità è definita perciò come universalità di diritto, in quanto l’unità dei suoi elementi non dipende da una
funzione materiale o economica ad essi comune, ma solo da un’esigenza giuridica, quella appunto di considerare il
patrimonio come un insieme, ai fini della successione. Il patrimonio della persona vivente non è invece considerato
come unico oggetto di vicende giuridiche; esso appare come unità solo nel senso della imputazione dei diversi
rapporti all’unico titolare: unità che consente il collegamento tra beni e debiti ai fini della responsabilità
patrimoniale.

8. I frutti.
Una particolare considerazione, tra i beni hanno i beni fruttiferi e i loro “frutti”; a essi il codice dedica gli artt. 820 e
821. Si distinguono due specie di “frutti”: frutti naturali e frutti civili.
• I frutti naturali sono quelli che “provengono direttamente dalla cosa, vi concorra o no l’opera dell’uomo”; lo stesso
articolo ci dà gli esempi: i prodotti agricoli, la legna, i parti degli animali, i prodotti delle miniere, delle cave, delle
torbiere.
I frutti naturali hanno questo di particolare: che per un certo tempo sono parte della cosa (si dice che sono frutti
pendenti, ove “pendenti” significa non ancora attuali, non aventi una identità in esistenza come cose distinte); poi se ne
“separano” e sono considerati come cose con una loro distinta identità.
• I frutti civili non sono altro che il corrispettivo (in denaro, o in altro genere di cose, o in opere) che si ricava da una cosa
in cambio del godimento che si cede ad altri: come gli interessi sulle somme date a mutuo, o il canone che il proprietario
ricava dalla locazione di un appartamento, eccetera. Qui, non c’è un momento di “separazione”; perciò, i frutti civili si
acquistano “giorno per giorno”, in ragione della durata del diritto (ultimo comma).

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9. I beni pubblici.
L’art. 42 della Costituzione dice “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o
a privati”. L’espressione “beni economici” è inutilmente pesanti perché il valore economico è implicito nell’idea di
bene.
Quanto alla proprietà pubblica o privata, la distinzione non riguarda solo l’appartenenza dei beni allo Stato e agli enti
pubblici, o invece ai privati, ma anche il regime cui sono sottoposti i beni, cioè la disciplina che vale per la proprietà
pubblica (artt. 822 e ss.) o invece per la proprietà privata (artt. 832 e ss.).
Anche lo Stato e gli enti pubblici possono essere titolari di “proprietà privata”, cioè proprietari di beni soggetti allo
stesso regime cui sono sottoposti i beni dei privati. Perché un bene sia oggetto di “proprietà pubblica” non basta
dunque che appartenga allo Stato o a enti pubblici, ma occorre che faccia parte di certe categorie di “beni pubblici”.

Carattere comune a tutti i “beni pubblici” sono:


a. Di essere in proprietà dello Stato o di altri entri pubblici
b. Di essere destinati all’utilità pubblica o a un pubblico servizio
Anche beni in proprietà di privati possono avere un’utilità pubblica: così, per esempio, i beni di interesse storico
artistico che restano di proprietà privata ma il diritto del proprietario è soggetto a limiti, e gravato da doveri, in
funzione della pubblica utilità.
Tra i beni pubblici che appartengono allo Stato o ad enti territoriali distinguono poi:
• I beni demaniali che appartengono allo Stato o alle province e ai comuni (824). Sono demaniali i beni
elencati nell’art. 822: cosiddetto demanio naturale (come il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti, i
fiumi, i torrenti, i laghi) e demanio artificiale (strade, strade ferrate, autostrade, aeroporti, ecc.).
• I beni del patrimonio indisponibile dello Stato, delle province e dei comuni come le foreste, le miniere e le
cave, le torbiere, le cose mobili di interesse storico, archeologico o artistico, le caserme, gli armamenti, gli
aerei militari e le navi da guerra, la dotazione della Presidenza della Repubblica. Inoltre, tutti gli edifici
appartenenti agli enti indicati, e destinati a sede di uffici pubblici, e i loro arredi.
L’elenco consente di vedere che si tratta in ogni caso di beni che servono a soddisfare un interesse pubblico.

I beni demaniali sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti privati se non nei modi stabiliti dalla legge
(per esempio per concessione, come avviene spesso per il lido del mare, la spiaggia, e soprattutto le miniere, cave e
torbiere, sfruttate da imprese concessionarie). Ma gli stessi limiti valgono per i beni del patrimonio indisponibile,
perché loro caratteristica è di non potere essere sottratti alla loro destinazione. Una differenza si può vedere nel
fatto che solo i beni del demanio pubblico sono sottratti a quel modo di acquisto della proprietà tramite possesso
prolungato che è l’usucapione (art. 1145).

Tutti gli altri beni che sono nel patrimonio disponibile dello Stato e degli enti pubblici sono oggetto di un diritto di
proprietà regolato dalle norme comuni del Codice civile, salve le leggi speciali.
Beni pubblici, infine sono i beni che appartengono a enti pubblici non territoriali e sono destinati a un pubblico
servizio. Essi pure non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi previsti dalla legge.
Tutte queste forme di appartenenza, per cui più propriamente si parla di proprietà pubblica sono molto diverse nel
loro contenuto dalla proprietà privata. L’unico connotato comune è dato dai mezzi di tutela: l’autorità amministrativa
può valersi sia dei procedimenti amministrativi, sia dei mezzi ordinari di difesa della proprietà e del possesso regolati
dal Codice civile (art. 823, comma 2o).

CAP. 8.
LA TUTELA DELLE SITUAZIONI GIURIDICHE
1. Premessa. La “tutela dei diritti”: Libro VI e dintorni.
La tutela dei diritti è il titolo del sesto libro del Codice civile. Essa fa riferimento a una gamma molto ampia di
strumenti di protezione e attuazione delle situazioni giuridiche soggettive. Le funzioni specifiche dei vari istituti di
questo Libro mirano tutte a prevenire quanto più possibile le liti o a rendere più facile e prevedibile la loro soluzione.
Un primo gruppo di strumenti mira ad assicurare la certezza delle situazioni giuridiche: se si riducono i dubbi circa
l’acquisto di un diritto, circa la sua persistenza, circa il suo contenuto, si evitano tentazioni di contestazioni e liti e si
dà tranquillità a chi opera nel traffico contrattuale. A questi scopi sono orientati alcuni strumenti di tutela sostanziale
(non-processuale) dei diritti: i mezzi di pubblicità e gli istituti della prescrizione e della decadenza.
Più direttamente nel terreno della lite si colloca la disciplina dei mezzi di prova. Avere un diritto è una cosa
importante, ma poter provare i fatti che lo fondano è ciò che conta in pratica. Ad una sicura attuazione dei diritti
mirano gli istituti della tutela del credito; e con particolare riguardo all’attività di impresa occorrerà tener conto delle

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procedure concorsuali, cioè dei procedimenti con cui si reagisce alla insolvenza di un debitore che sia imprenditore
commerciale (sono disciplinate in leggi speciali). Lo strumento finale di attuazione del diritto, il cui buon
funzionamento è a chiave della effettività di tutte le regole che studiamo, è il giudizio.

I. GLI STRUMENTI DI PUBBLICITA’


2. Nozioni generali.
Gran parte del diritto privato, e dell’attività giuridica in particolare, ruota attorno alla circolazione di ricchezza:
“circola” la proprietà di beni mobili e immobili; “circolano” crediti e contratti; “circolano” i titoli di partecipazione e le
quote di società, ecc.
Caratteristica dei diritti moderni è di tendere ad una circolazione dei beni semplice e veloce. Una circolazione veloce,
a sua volta, richiede condizioni di chiarezza e certezza, non di dubbio e di rischio; occorre quindi stabilire dei criteri e
degli strumenti che consentano a chi partecipa alle contrattazioni:
a. Di informarsi con facilità sulla condizione giuridica dei beni che vuole acquistare
b. Di poter contare sulla sicurezza degli acquisti fatti.
A questi scopi mira il sistema della pubblicità dei fatti e atti giuridici, che, con strumenti diversi, tende sempre ad
assicurare la conoscibilità legale di diversi tipi di atto, ma con effetti giuridici non sempre eguali.
In base alle conseguenze giuridiche, che la legge collega alla pubblicità, questi vari mezzi si dividono in tre categorie:
• Strumenti di mera pubblicità-notizia: la legge predispone lo strumento per assicurare la conoscibilità legale
di determinati fatti, per esigenze di carattere pubblico, e senza connettervi un particolare effetto riguardo
all’efficacia del fatto o dell’atto reso pubblico. Per esempio: le pubblicazioni matrimoniali (art. 93) servono a
consentire eventuali opposizioni, ma, se non sono regolarmente compiute, non influiscono sulla validità del
matrimonio che sia stato poi comunque celebrato.
• Strumenti di pubblicità dichiarativa: la conoscibilità non è fine a sé stessa, ma condiziona l’efficacia dell’atto,
nel senso che in mancanza della pubblicità l’atto non può essere fatto valere verso determinati terzi
(inefficacia relativa o inopponibilità). L’esempio più importante riguarda gli atti di trasferimento della
proprietà su beni immobili: essi sono efficaci immediatamente tra le parti ma solo con la trascrizione nei
registri immobiliari diventano opponibili anche a quei terzi che avessero acquistato diritti dallo stesso dante
causa.
• Strumenti di pubblicità costitutiva: è il grado più forte della pubblicità: l’atto non produce effetti se non
quando è stato reso pubblico. Esempio tipico è la concessione d’ipoteca che diventa efficace solo con
l’iscrizione nei registri immobiliari.

3. Pubblicità immobiliare e forme analoghe.


La trascrizione è lo strumento di pubblicità predisposto per gli atti relativi all’acquisto della proprietà o di diritti reali
sui beni immobili (terreni, edifici) e su alcune categorie di beni mobili (cosiddetti beni mobili registrati: autoveicoli,
motoveicoli, aerei, imbarcazioni).
Esso consiste, come dice il nome, nel riportare il contenuto essenziale dell’atto in appositi registri, rendendolo così
legalmente conoscibile: chiunque voglia informarsi sulle vicende giuridiche di questi beni lo può fare consultando i
registri.

L’istituto della trascrizione si inserisce in un sistema di circolazione dei beni immobili costruito sulla base del principio
consensualistico, cioè della regola per cui la proprietà e gli altri diritti si trasferiscono per effetto del solo consenso
legittimamente manifestato tra le parti (art. 1736).
I vantaggi di questo principio consistono nella estrema semplicità e immediatezza dei trasferimenti. I rischi sono
quelli dell’incertezza delle situazioni giuridiche: un proprietario potrebbe vendere più volte lo stesso bene, o
costituire diritti contrastanti tra loro, con atti conosciuti solo a lui e alla sua controparte del momento.
La trascrizione tende a ridurre questi rischi garantendo la certezza dell’acquisto a chi utilizza avvedutamente lo
strumento di pubblicità. Per raggiungere questo risultato, la legge stabilisce che soltanto chi ha trascritto l’atto, da
cui deriva il suo acquisto, possa opporlo contro altri acquirenti che non abbiano invece trascritto o abbiano trascritto
in un momento successivo (art. 2644, comma 2o).

La trascrizione non ha efficacia costitutiva, cioè non determina il trasferimento della proprietà o la costituzione di
diritti reali, è un modo per risolvere conflitti tra soggetti.
Effetto giuridico della trascrizione è l’opponibilità degli atti trascritti ai terzi che vantino diritti sullo stesso bene in
base ad un atto non trascritto o trascritto in data posteriore. Chi non provvede alla trascrizione rischia l’inopponibilità
o inefficacia relativa del proprio atto: ciò significa che l’atto resta efficace tra le parti o anche verso altri terzi ma non

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nei confronti di quei terzi che abbiano trascritto il titolo concorrente.
Curare la trascrizione è interesse di chi vuol far valere il proprio atto anche verso i terzi: trascrivere è solo un onere
per la parte interessata; è invece un obbligo per il pubblico ufficiale che redige l’atto (notaio).

Solo in alcuni casi la trascrizione ha mero valore di pubblicità notizia: le convenzioni matrimoniali vanno trascritte a
norma dell’art. 2647 che non richiama l’art. 2644.

Secondo l’art. 2657, la trascrizione non si può eseguire se non in forza di sentenza, di atto pubblico o di scrittura
privata autenticata o accertata giudizialmente. La funzione e gli effetti della trascrizione richiedono che sia
legalmente certa la provenienza dell’atto dai soggetti che figurano come parti. Proprio per questo la trascrizione non
è un mezzo di prova dell’atto.
La parte che richiede la trascrizione di un atto tra vivi deve presentare una nota che indici gli elementi essenziali
dell’atto. La trascrizione avviene sulla base della nota, una nota inesatta o lacunosa può rendere inutile trascrivere.

I registri immobiliari in cui si trascrivono gli atti a fini di pubblicità non vanno confusi con il catasto fondiario, che
registra i beni immobili e i relativi passaggi di proprietà soprattutto a fini fiscali ed urbanistici. Mentre il catasto è
ordinato su base reale (bene per bene), i registri immobiliari sono ordinati su base personale: con riguardo alle
persone che li acquistano o li alienano; peraltro, l’informatizzazione di questi registri rende interrogabile la banca dati
anche su dati reali e non personali, con notevoli vantaggi di sicurezza e di rapidità per gli operatori.
Gli atti sono trascritti con riferimento alle parti che li compiono: ogni atto di alienazione o di costituzione di diritti
viene trascritto sia contro l’alienante, sia a favore dell’acquirente (doppia trascrizione).
La priorità nel tempo fra trascrizioni a favore o contro soggetti diversi risulta dal registro generale.

La certezza dell’acquisto si ha solo sulla base della continuità delle trascrizioni, cioè di una sequenza non interrotta di
trascrizione che risalga fino ad un acquisto a titolo originario, come ad esempio l’usucapione.
Gli atti soggetti a trascrizione sono elencati nell’art. 2643: si tratta dei contratti, degli atti unilaterali, e dei
provvedimenti giudiziali con cui:
a. Si trasferisce la proprietà dei beni immobili
b. Si trasferiscono, si costituiscono, si estinguono diritti reali limitati
c. Si costituiscono rapporti di locazione ultra-novennale
d. Si conferiscono immobili, ancora per una durata ultra-novennale, in società o in associazione, ecc.
e. I contratti che trasferiscono diritti edificatori
A questo elenco si deve aggiungere, a norma dell’art. 2645, ogni altro atto o provvedimento che produca gli stessi
effetti di quelli menzionati nell’art. 2643: così le divisioni (art. 2646) e l’accettazione di eredità o legato (art. 2648).
L’art. 2645 bis ha poi introdotto la trascrizione del contratto preliminare, in forza dell’art. 2645 ter sono poi
trascrivibili gli atti di destinazione, per fini meritevoli di tutela, di beni immobili o mobili registrati.

Quanto agli effetti della usucapione si tratta di un acquisto a titolo originario che può essere fatto valere contro
chiunque, indipendentemente dalla trascrizione. La trascrizione è però egualmente utile, sia in funzione di pubblicità
- notizia sia per costituire un punto fermo nelle ricerche dirette a stabilire la continuità delle trascrizioni. In caso di
usucapione l’interessato potrà trascrivere un accertamento convenzionale dell’avvenuta usucapione oppure la
sentenza da cui risulta l’acquisto del diritto (art. 2651). In modo analogo si dovrà procedere per dare pubblicità
all’avvenuta prescrizione di diritti reali limitati.

L’art. 2652 contiene poi un elenco di domande giudiziali che “si devono trascrivere qualora si riferiscano ai diritti
menzionati nell’art. 2643”. Occorre tenere presente che quando si decide una causa, la sentenza produce i suoi
effetti fin dalla data della domanda. Durante il processo, però, la situazione giuridica può risultare diversa da quella
che poi deriverà dalla sentenza: per esempio, può risultare proprietario di un immobile Tizio, contro cui Caio ha
avviato una causa; mentre, pronunciata la sentenza, la proprietà risulterà di Caio fin dal tempo della sua domanda.
Esiste, quindi, il rischio che, mentre la causa è in corso, Tizio venda o accia altri atti di disposizione del bene. Caio si
protegge da questo rischio trascrivendo la sua domanda: a tal punto sarà opponibile contro chiunque abbia
acquistato da Tizio senza trascrivere o che abbia trascritto in data posteriore a quella della trascrizione della
domanda. La trascrizione della domanda giudiziale conserva il suo effetto per vent’anni, e perde efficacia se non
viene rinnovata prima del decorso di tale termine (art. 2668 bis)

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Un sistema analogo a quello della trascrizione è previsto per la circolazione dei beni mobili registrati (autoveicoli,
motocicli provvisti di tarda, aeromobili e natanti provvisti di targa).
Qui però, i registri sono organizzati su base reale, e cioè sono ordinati in base al numero di targa.

Una pubblicità costitutiva si realizza, come si è accennato, riguardo all’ipoteca (che è una forma d garanzia del
credito avente ad oggetto beni immobili o mobili registrati) con il sistema dell’iscrizione nel registro delle ipoteche
dell’atto di concessione o di altro titolo costitutivo. L’atto produce dunque non un diritto di ipoteca, ma un diritto alla
costituzione dell’ipoteca, cioè un diritto a iscrivere; l’ipoteca è un diritto reale che si costituisce solo con l’avvenuta
iscrizione.

L’iscrizione si applica anche agli atti di trasferimento della proprietà e di costituzione di diritti reali limitati nelle zone
d’Italia dove ancora vige il sistema tavolare, cioè il sistema di registrazione dei beni immobili introdotto dall’impero
austriaco. I registri immobiliari del sistema tavolare sono impostati con riferimento ai beni, e quindi su base reale,
l’iscrizione nei registri tavolari è una forma di pubblicità costitutiva.

4. Altri mezzi di pubblicità.


Quanto ai beni mobili non registrati, un meccanismo di certezza della circolazione è affidato a un criterio di
immediata evidenza che è quello del possesso (cioè della disponibilità di fatto della cosa) ed in particolare del
possesso di buona fede (possesso vale titolo).

Per i diritti di credito, funzione vicina alla pubblicità in senso proprio svolge la notificazione della cessione al debitore
(cap.17)
Diverse regole valgono quando il credito circola attraverso i titoli di credito (cap. 29)
Anche sotto aspetti diversi dalla circolazione in senso stretto, la pubblicità serve a esigenze di certezza, attraverso il
collegamento tra conoscibilità e opponibilità di atti e fatti giuridici.
Così è, per esempio, per i registri delle persone giuridiche, la cui funzione è duplice.
In parte essi sono mezzi di pura pubblicità-notizia. Questa conoscibilità consente di limitare la responsabilità per
debiti al solo patrimonio dell’ente; e infatti, finché non c’è la registrazione della persona giuridica, rispondono
personalmente e solidalmente gli amministratori.
In parte il registro svolge funzioni di vera pubblicità dichiarativa che condiziona l’opponibilità degli atti.

Funzione analoga svolge, per le società, il Registro delle Imprese. L’iscrizione nel Registro delle Imprese ha effetto
costitutivo dell’acquisto della personalità giuridica; ha invece funzioni di pubblicità dichiarativa per altri atti, come la
nomina o la revoca degli amministratori.

Funzione molto complessa svolgono i registri dello stato civile. I registri di stato civile svolgono anche la funzione di
assicurare la conoscibilità di certi fatti, risultanti dagli atti stessi, o all’origine, o tramite la loro annotazione a margine:
per esempio nell’atto di matrimonio è inserita la dichiarazione degli sposi di volere la separazione dei beni, e a
margine sono annotate le altre convenzioni matrimoniali.

II. LE PROVE
5. Principio dispositivo e onere della prova.
I rapporti regolati dal diritto privato hanno riguardo, come sappiamo, a interessi particolari e disponibili: è solo
l’interessato a poter decidere se e quanto occuparsi e preoccuparsi di curare e perseguire il proprio particolare
interesse. Questo criterio, nel giudizio civile, si traduce nel “principio dispositivo”, per il quale spetta alle parti
interessate promuovere la difesa dei propri diritti (cosiddetta iniziativa di parte). È interesse, compito di ciascuna
parte dimostrare l’esistenza dei fatti che fondano le sue ragioni. Non è il giudice dover cercare le prove dei fatti.
Quando sono in gioco interessi della generalità, o che sono comunque oggetto di una particolare protezione che li
rende indisponibili, prevale il principio inquisitorio: è il giudice che deve cercare la verità e il compito delle parti può
essere quello di suggerire, o di offrire la prova di fatti rilevanti.

Regola sull’onere della prova: l’art. 2697 dispone che ci vuol far valere un diritto in giudizio, ha l’onere di provare i
fatti che ne costituiscono il fondamento, mentre chi eccepisce (oppone) che il diritto si è modificato o estinto deve
provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.
In alcuni casi l’ordinamento giuridico tende a rendere più facile la tutela di un interesse, trasferendo l’onere della
prova sull’altra parte, che quindi sopporta un maggiore rischio.

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Per esempio, nel caso di responsabilità per i danni derivanti dalla circolazione di un’automobile, il conducente che
abbia danneggiato persone o cose è tenuto a risarcire il danno “se non prova di aver fatto tutto il possibile” per
evitarlo (art. 2054, comma 1o). Si dice che c’è una inversione dell’onere della prova. Infatti, secondo la regola dell’art.
2697, il danneggiato dovrebbe provare tutti i fatti che sono a fondamento del suo diritto al risarcimento, e quindi:
a. L’investimento
b. Il danno
c. Il dolo o la colpa dell’investitore (art. 2043)
Ed invece basta che provi “a” e “b”, ed è l’investitore a dover provare che non sussiste “c”.

6. I mezzi di prova.
Dare la prova di un fatto significa dimostrare che un fatto è accaduto. Non sempre la dimostrazione arriverà a
stabilire la certezza assoluta del fatto. Anzi, si tratta di una “certezza pratica” cioè della riduzione dell’incertezza.
Insomma, una elevata probabilità è sufficiente a ritenere “provato” il fatto nel processo civile, mentre nel processo
penale la condanna esige che il reato sia provato oltre ogni ragionevole dubbio.

I mezzi, con cui si raggiunge il risultato della prova, si distinguono in due grandi categorie:
• Quando la funzione di prova è affidata ad un mezzo materiale che serve da documento di un fatto o di un
atto siamo nel campo delle prove documentali o precostituite:
- Documento scritto: atto pubblico (redatto da un pubblico ufficiale), scrittura privata verificata giudizialmente o
autenticata, la semplice scrittura privata.
- Documento magnetico (poi elettronico): audio, video, foto o anche un rilievo scientifico di dati.
• Le prove non precostituite, che possono formarsi in corso di causa, sono dette prove semplici: sono la
testimonianza, il giuramento, la confessione resa in giudizio, l’ispezione, la perizia; tradizionalmente si fa
rientrare tra le prove semplici anche la presunzione semplice cioè quell’argomentazione con cui il giudice,
da fatti accertati, trae la convinzione della sussistenza di altri fatti non direttamente verificabili; in realtà, si
tratta, più che di una prova, di un modo di valutare le prove (par.10).

Una diversa e più importante distinzione tra le prove riguarda il modo in cui esse incidono sulla formazione del
convincimento del giudice. Il principio fondamentale è quello della libera valutazione delle prove; di fronte al mezzo
di prova allegato dalle parti, il giudice forma liberamente la propria convinzione circa il “peso” della prova.

A certe prove, però, il legislatore attribuisce un valore diverso, quello di “prova legale”: il giudice non può valutarle
liberamente, ma deve giudicare assumendo per verificati i fatti, che da quelle prove risultano accaduti. Hanno valore
di prova legale l’atto pubblico, la scrittura privata autenticata, la confessione, il giuramento. Sono invece oggetto di
libera valutazione la semplice scrittura privata e la testimonianza.

7. Le prove documentali.
L’atto pubblico è il documento redatto da un notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuire all’atto
pubblica fede. Tipico atto pubblico è il rogito notarile, che si ha quando il notaio scrive le dichiarazioni fatte dalle
parti in sua presenza; altro esempio è il verbale dell’udienza redatto da un cancelliere in Tribunale, o il verbale di una
commissione elettorale o anche quello di una commissione d’esame.
L’art. 2700 dispone che l’atto pubblico “fa piena prova, fino a querela di falso”.
“Piena prova” è un’espressione che spesso si sostituisce con quella di “prova legale”. Il principio generale in tema di
prova è quello, secondo cui il giudice valuta liberamente le prove addotte dalle parti. La “piena prova” resiste fino a
querela di falso. Cioè significa che la parte, interessata a negare l’esistenza dei fatti attestati dal documento, non può
dare prova contraria se non esperisce prima una querela di falso.
L’atto pubblico è prova legale del fatto che certe persone hanno pronunciato certe dichiarazioni davanti al notaio
(non della verità di queste dichiarazioni); oppure di altri fatti accaduti davanti al notaio.

La scrittura privata è invece un semplice documento scritto, sottoscritto dalle parti. Le “formalità”, dunque, sono
poche: basta un pezzo di carta (o anche un altro materiale) e una firma. E per questo, l’efficacia di prova è limitata:
una firma può sempre essere contraffatta.
L’art. 2702 dispone che la scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni
da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione.
Il valore probatorio della scrittura privata verte, dunque, tutto attorno al problema della sottoscrizione.
La firma viene utilizzata per appropriarsi di quanto scritto nel documento e per indicare il soggetto che si “appropriava” della
dichiarazione.

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La sottoscrizione, per quando riconoscibile, è imitabile; per questo la norma attribuisce valore di prova alla scrittura
privata solo se chi ne compare come l’autore riconosce la propria firma; se costui la disconosce, anzitutto l’art. 215
cod. proc. civ prevede dei casi in cui la scrittura “si ha per riconosciuta”; poi l’articolo 216 del Codice di procedura
civile prevede che la controparte possa fare istanza di verificazione della scrittura privata (autenticità firma).

Il telegramma viene trasmesso a distanza e non è quindi sottoscritto. Vale però come scrittura privata se il “modulo” è stato
sottoscritto dal mittente o anche solo da lui fatto consegnare. Altre scritture senza sottoscrizione sono i libri contabili delle
imprese commerciali (artt. 2709 e ss.).
Le riproduzioni cosiddette meccaniche fanno piena prova dei fatti o documenti rappresentati se la persona, contro cui sono
prodotte, non ne disconosce la conformità ai fatti e alle cose rappresentate.
Il recente “codice dell’amministrazione digitale” ha incluso nel raggio di applicazione anche le riproduzioni informatiche.

La prova legale della provenienza delle dichiarazioni si ha, invece, nella Scrittura privata autenticata (art. 2703) è
invece il documento redatto dalle parti e sottoscritto davanti a un pubblico ufficiale, il quale attesta che la firma è
stata apposta in sua presenza ed è autentica. L’autenticazione rende certa l’identità del sottoscrittore, il fatto che ha
sottoscritto e la data in cui ha sottoscritto il documento e, quindi, anch’essa ha valore di prova legale fino a querela
di falso.

Un problema particolare è la data della scrittura. Se l’atto è pubblico, la data è certa, coperta da prova legale: così
pure nella scrittura privata autenticata. La scrittura privata non ha data certa, ma la può acquistare:
• Registrazione
• Apposizione delle “marche” temporali per i documenti informatici.
• Può risultare indirettamente: es. l’autore dell’atto è morto.

L’efficacia probatoria del documento informatico è liberamente valutabile in giudizio in relazione alle caratteristiche di qualità
sicurezza, integrità e immodificabilità.

8. La prova per testimoni.


Tra le prove che si formano nel processo (prove semplici), la prima che il Codice civile disciplina è quella per
testimoni, che consiste nelle dichiarazioni rese al giudice durante l’interrogatorio del testimone sui fatti di cui egli
abbia avuto diretta conoscenza.
Il problema della prova per testimoni è la sua ammissibilità. Non si può dire che la prova testimoniale sia vista con
favore dal legislatore; anzi, è chiara la diffidenza: a parte il pericolo di testimonianze interessate, ciascuno può
scambiare le proprie impressioni per fatti, e deformare, anche senza malizia, la verità.
Il limite generale alla prova testimoniale riguarda i contratti. Ponendo il limite, la legge stimola le parti a scegliere la
strada che dà più certezza e meno litigiosità.
Vi sono poi casi importanti in cui la prova testimoniale è sempre ammessa: quando vi è un “principio di prova” per
iscritto (come, per esempio, la ricevuta di un pagamento che fa menzione di un contratto del quale manca la prova
scritta); quando il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi la prova (come, per esempio,
nel caso di contratto concluso verbalmente); quando il documento di prova è stato perduto senza colpa.
È sempre ammessa la prova per testimoni dei contratti di vendita internazionale di merci.
Per contro, ci sono casi in cui il giudice non può ammettere la prova per testimoni; si tratta di quei contratti per i
quali la legge impone, per evitare la litigiosità, una prova per iscritto. Anche qui, la perdita o la distruzione
incolpevole del documento consentono la prova testimoniale (art. 2725). Stesso regime si ha quando le parti
d’accordo stabiliscono che, in caso di controversia, valgono tra di loro solo le prove scritte e quando la forma scritta è
richiesta a pena di nullità.
La prova testimoniale non è mai prova legale: il giudice ne apprezza liberamente l’attendibilità, secondo il principio
generale.

9. La confessione e il giuramento.
La confessione è definita dall’art. 2730 come “la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli
e favorevoli all’altra parte”. Confessare è un modo di disporre.
Il valore della confessione nel processo civile dipende sempre dal grande principio della disponibilità dei propri
interessi. Per questo, nel processo penale, la confessione non vincola il giudice a ritenere colpevole il “reo confesso”.
La confessione resa in giudizio è prova legale dei fatti dichiarati, se verte su fatti relativi ai diritti disponibili. Stessa
efficacia ha la confessione extragiudiziale fatta alla parte o a chi la rappresenta. Requisito per entrambe è la capacità
di disporre (per esempio, il tutore non può confessare fatti pregiudizievoli al minore).

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L’efficacia di prova legale viene a mancare nel caso in cui una parte confessa, sì, un fatto o dei fatti che le sono
sfavorevoli (ammette, per esempio, di avere guidato a velocità eccessiva) ma aggiunge altri fatti, che tolgono o
limitano l’efficacia del primo (per esempio, aggiunge che l’altro automobilista viaggiava fuori dalla mezzeria stradale).
In questo caso la confessione continua a fare piena prova se l’altra parte non ne contesta la verità. Se invece c’è
contestazione la prova legale viene meno su tutto, e il giudice apprezza liberamente il valore della confessione.

Il giuramento è l’ultima spiaggia delle prove. Se una parte non dispone di prove sufficienti, può deferire all’altra il
giuramento, per farne dipendere la decisione (totale o parziale) della causa; è il giuramento decisorio, il quale si
formula in modo che, se l’altra parte giura, vince.
Per non dire né sì né no, la parte cui il giuramento è deferito, può rilanciare la palla, e “riferirlo” all’altra, che non ha
più scappatoie: o giura o perde.
Il giuramento è prova legale. Se la parte giura, non è più ammessa prova contraria; la sentenza deve dare ragione a
chi ha giurato, e non può essere revocata neanche se, poi, fosse provata la falsità del giuramento (art. 2738).
E allora, chi giura il falso, cosa rischia?
1. Il falso giuramento è reato
2. Chi è stato sconfitto può chiedere il risarcimento del danno subito, anche se il reato è estinto.
Un altro giuramento si può dare: quello suppletorio, deferito d’ufficio dal giudice quando domanda ed eccezioni non
sono pienamente provate, ma neppure sfornite di prova; oppure per estimazione, cioè per stabilire il valore della
cosa se non si può accertarlo altrimenti. Non può essere riferito.

10. Le presunzioni.
Nel linguaggio comune la parola “presunzione” indica un’argomentazione che sulla base di un fatto noto risale a fatto
ignoto: mi è noto, ad esempio, che a Tizio è stata consegnata una mia lettera qualche giorno fa; presumo che l’abbia
letta.
Questa definizione si attaglia bene all’uso che il giudice può fare di presunzioni al fine di ritenere accertati fatti
rilevanti per la decisione della causa: da fatti noti o da fatti direttamente provati, il giudice trae la conclusione che
anche altri fatti, non direttamente verificabili, possano ritenersi ragionevolmente certi : per esempio, in un incidente
d’auto, accertata la lunghezza della frenata, lo stato del fondo, ecc. (gli indizi), si risale alla velocità (fatto da provare).
La presunzione del giudice si chiama presunzione semplice: è un modo di valutare i risultati delle prove. La si
considera però anche tra i mezzi di prova, nel senso che la certezza pratica sull’accadimento dei fatti in causa può
ricavarsi, talvolta, solo tramite argomentazioni.
Secondo l’articolo 2729, il giudice deve ammettere solo le presunzioni fondate su fatti “gravi, precisi e concordanti”.
Naturalmente, la presunzione non dev’essere un modo per superare i limiti alla libertà della prova; quindi, se di un
fatto è richiesta la prova scritta, non si può argomentarne l’esistenza per presunzioni: la presunzione vale solo nei
casi in cui è ammessa la prova testimoniale.
Sull’onere della prova invece, incide la presunzione legale, che si ha quando è la legge stessa a prevedere che un
fatto, rilevante come elemento di una fattispecie, si debba considerare per accaduto senza necessità di darne la
prova. Se la presunzione legale non ammette prova in contrario, parliamo di presunzione assoluta: per esempio, un
figlio nato nel periodo che va dal 180° giorno dopo il matrimonio, fino al 300° giorno successivo allo scioglimento,
annullamento, separazione ecc. si presume, senza possibilità di prova contraria, concepito durante il matrimonio.
Se, invece, è ammessa prova contraria, allora si parla di presunzione relativa che si risolve in una inversione
dell’onere della prova: la legge tratta una situazione come se il fatto fosse provato, finché l’interessato non dimostri il
contrario. Così il figlio concepito durante il matrimonio si presume generato dal marito della madre ma questi può, in
limitati casi, provare il contrario.

Finzione (ficto iuris): si ha finzione quando il legislatore assoggetta una determinata situazione di fatto alla disciplina prevista per
una situazione diversa: in sostanza, la legge dice: il caso A, qui previsto, si regola come se (finzione) sussistesse il caso B.

11. Gli atti dello stato civile.


Un’esigenza che si manifesta fin dalle origini dello Stato è quella di assicurare certezza e conoscibilità dei fatti più
rilevanti per la condizione giuridica della persona: la nascita, il matrimonio, la morte.
A questi fini serve il sistema dei registri dello stato civile, nei quali devono essere riprodotti quegli atti chiamati atti
dello stato civile proprio perché influiscono sulla condizione civile, sugli stati della persona. Gli atti dello stato civile
sono tre:
• Atto di nascita
• Atto di matrimonio
• Atto di morte

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Ciascuno di essi dà prova legale dei fatti materiali (la nascita, l’età, la morte) o degli atti giuridici documentati (la
dichiarazione di essere padre o madre, la celebrazione del matrimonio). Ma l’atto di stato civile è più che una prova,
Infatti, l’esistenza di una persona, la paternità o maternità, il matrimonio, la morte possono essere provati
normalmente solo allegando l’atto di stato civile da cui quei fatti risultano. L’atto di stato civile non è il fatto
costitutivo della condizione civile della persona; questa dipende dai fatti o atti di cui quel documento fa prova: è la
nascita che determina lo stato di figlio, la celebrazione del matrimonio che determina lo stato di coniuge, la morte
che pone fine alla soggettività e apre la successione. Tuttavia, solo allegando l’atto-documento si possono far valere
quegli effetti giuridici.
In pratica, perciò, l’atto di stato civile funziona come un titolo dello stato che ne dipende, cioè come un elemento
necessario per far valere la condizione che l’atto stesso attesta.
La necessità dell’atto di stato civile può essere superata in diversi casi:
a. Quando i registri non siano stati tenuti, o siano smarriti o distrutti
b. Nelle ipotesi particolari in cui ha rilevanza il possesso di stato, cioè la situazione di fatto per cui una persona
è creduta e trattata come coniuge, figlio ecc.
Gli atti e i registri dello stato civile svolgono anche la funzione di mezzi di pubblicità: atti diversi devono essere
annotati a margine di questo o quell’atto di stato civile, per essere resi legalmente conoscibili ai terzi interessati.
• In alcuni casi si tratta di pubblicità-notizia (così per la sentenza di interdizione e inabilitazione annotate a
margine dell’atto di nascita)
• In altri l’annotazione ha funzione di pubblicità dichiarativa che determina l’opponibilità (così per le
convenzioni matrimoniali annotate a margine dell’atto di matrimonio)
• In altri ancora la funzione di pubblicità si fonde con la modificazione del titolo dello stato (così per la
sentenza di divorzio o di annullamento del matrimonio).

Ogni rettificazione dell’atto di stato civile richiede un ricorso al tribunale che provvede con decreto. Una forma
particolare di rettificazione è quella per l’indicazione del sesso della persona dovuta a modificazione di caratteri
sessuali avvenuta dopo la nascita, che richiede una sentenza passata in giudicato.

III. LA CERTEZZA NEL TEMPO


12. La prescrizione.
Secondo l’art. 2934, “Ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo
determinato dalla legge”. Dunque, la prescrizione è un modo di estinzione dei diritti fondato sulla inerzia del titolare:
chi non esercita il diritto, lo perde.

Sulle ragioni della prescrizione possiamo individuare due prerogative fondamentali:


• L’esigenza di certezza nelle relazioni giuridiche, che è compromessa quando un diritto non è esercitato per
un lungo periodo di tempo
• La tendenza dell’ordinamento a sfavorire l’inerzia: la legge privilegia le ragioni di chi vuole essere libero da
un vecchio obbligo rispetto a quelle del titolare inerte.

Le norme sulla prescrizione sono inderogabili dai privati, che non possono escludere, né aggiungere, casi di
prescrizione e neppure modificarne i termini.
L’interesse protetto dalla norma che fa prescriver un diritto è però pur sempre un interesse particolare: è quindi
possibile una rinunzia alla prescrizione già compiuta (art. 2937); non invece una rinuncia preventiva. La rinunzia può
risultare anche tacitamente da un fatto incompatibile con la volontà di valersi della prescrizione (come, per esempio,
la richiesta di una dilazione).

Per analoghe ragioni, la prescrizione deve essere eccepita dall’interessato, cioè deve essere opposta alla richiesta di
adempimento e, in giudizio, non può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Conseguenza: chi paga spontaneamente il
debito prescritto, non può ripetere ciò che ha pagato (art. 2940). Perciò, non è del tutto giusto dire che il decorso del
termine di prescrizione estingue il diritto. Il decorso del termine consente di paralizzare la pretesa del titolare; ma se
viene spontaneamente pagato un debito prescritto, il titolo ha ancora l’efficacia di giustificare il pagamento: in tal
senso il diritto non è estinto.
La prescrizione non opera per tutti i diritti. Si esclude la prescrizione per:
a. I diritti indisponibili, come i diritti di carattere personale relativi allo stato familiare, i diritti personalissimi e
alcuni diritti di carattere patrimoniale
b. Gli altri diritti indicati dalla legge, come, per esempio, il diritto a far valere la nullità del contratto.

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Nella categoria sub b) si fa rientrare usualmente il diritto di proprietà. La legge suppone l’imprescrittibilità del diritto di
proprietà, che è frutto di una tradizione antichissima non ancora contestata: il problema dell’inerzia, con riguardo alla
proprietà, è affrontato attraverso la tutela del possessore, cioè facendo prevalere le ragioni di chi utilizza il bene,
rispetto alle ragioni del titolare inerte; lo strumento è l’usucapione. In realtà non è la proprietà ad essere imprescrittibile
ma il diritto di rivendicazione.

Quanto al modo di operare della prescrizione vanno fissati i seguenti punti:


• Decorrenza: la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935). Se quindi
l’acquisto del diritto è sottoposto a condizione, o se è previsto un termine iniziale, la prescrizione non corre finché la
condizione non si è verificata o il termine non è scaduto.
• Sospensione: gli artt. 2941 e 2942 prevedono alcuni casi di sospensione del periodo di prescrizione; l’orologio si ferma, e
il tempo trascorso finché dura la causa di sospensione non è computato ai fini del decorso del termine. L’art. 2941, nello
specifico, cita per quali rapporti tra le parti la prescrizione rimane sospesa (es. tra coniugi, tra chi esercita la
responsabilità genitoriale e chi vi è sottoposto, ecc.). L’art. 2042, invece, prevede alcuni casi in cui il titolare è inerte, ma
viene considerato giustificato e, quindi, la prescrizione si sospende (es. militari i militari in servizio in tempo di guerra o
gli incapaci legali privi di rappresentante). Cessata la causa di sospensione, l’orologio della prescrizione si rimette in
moto: al periodo di tempo eventualmente già trascorso prima della sospensione si aggiunge quello trascorso dopo.
• Interruzione: quando cessa l’inerzia del titolare, la prescrizione si interrompe. Ma poiché fondamento della prescrizione
è un’esigenza di certezza, ecco che anche la cessazione dell’inerzia deve avere un certo grado di certezza: occorre un
atto con cui si inizia un giudizio o un atto che vale a costituire in mora il debitore. L’interruzione può derivare anche dal
riconoscimento del diritto da parte di colui contro il quale può essere fatto valere.
A differenza della sospensione, l’interruzione “azzera” il periodo di prescrizione. L’orologio non solo si ferma, ma è
riportato indietro, e il periodo di prescrizione riparte da zero.
• Durata: il termine ordinario di prescrizione dei diritti è di dieci anni. Ordinario significa che questo termine si applica
ogni volta che la legge non dispone diversamente. Gli artt. 2947 e ss. prevedono una numerosa serie di prescrizioni
brevi: ad esempio il diritto al risarcimento derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni, e in due anni nel caso di
danni derivanti da circolazione di veicoli. Occorre tener presente che, in tutti questi casi, se il titolare agisce in giudizio, e
ottiene una sentenza definitiva di condanna, la prescrizione torna al termine ordinario di dieci anni (2953).

Prescrizioni presuntive: si tratta di una serie di casi che riguardano prevalentemente prestazioni di commercio, di
lavoro o di opera professionale e in cui il termine è stabilito in sei mesi (per gli albergatori e gli osti), in un anno (per
retribuzioni periodiche inferiori al mese, o il prezzo di merci vendute a privati), in tre anni (per retribuzioni relativa a
periodi superiori al mese, o per onorari professionali).
Il decorso del termine ha qui soltanto un effetto: si presume che il debito sia stato pagato, o estinto per un’altra
causa; non si presume quindi la prescrizione. Ammette prova contraria: giuramento e confessione giudiziale.
Perciò in tutti questi casi il titolare del diritto, a cui viene opposta la prescrizione presuntiva, ha una possibilità:
deferire il giuramento “per accertare se si è verificata l’estinzione del debito” (art. 2960).

13. La decadenza.
Si fatica spesso a cogliere la distinzione tra prescrizione e decadenza. Entrambi sono istituti in cui il decorso del
tempo fa perdere la possibilità di esercitare il diritto; entrambi presuppongono l’inerzia del titolare.
Nella prescrizione, l’esigenza di certezza si combina con un riguardo alle ragioni dell’inerzia. Nella decadenza, invece,
l’esigenza di certezza è assoluta: il diritto deve essere esercitato entro un dato termine per rendere la situazione
definitivamente chiara. Solo l’esercizio del diritto evita la decadenza.
La decadenza può essere stabilita dalla legge o anche dal contratto. Quando la decadenza è stabilita dalla legge, si
distingue a seconda che essa riguardi diritti indisponibili o diritti disponibili: nel primo caso le parti non possono
modificarne la disciplina, né rinunziarvi (come nella prescrizione); nel secondo caso, il termine si intende stabilito a
tutela dell’interesse individuale di chi subisce l’esercizio del diritto, e perciò le parti possono derogare alla disciplina
legale. Il termine di decadenza è inesorabile. Si evita la decadenza solo con il compimento dell’atto previsto dalla
legge o dal contratto, o con il riconoscimento del diritto da parte della persona contro cui si deve far valere.

È soggetto a decadenza il diritto di far valere l’azione redibitoria o estimatoria per i vizi della cosa venduta: se il
compratore denunzia i vizi entro otto giorni alla scoperta, decade dal diritto della garanzia. Una volta fatta la
denunzia, la decadenza è evitata e il compratore può agire; è soggetto però a un termine di prescrizione, per cui il
diritto si estingue se non è fatto valere entro un anno dalla consegna della cosa. Se l’anno è passato, prima della
scoperta, il compratore ha perso il diritto per prescrizione; se scopre il vizio in tempo, ha otto giorni per la denunzia,
e il residuo del termine annuale per prescrizione.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato

IV. LA LITE
14. Diritto e azione.
Azione: possibilità di far valere in giudizio un proprio diritto, cioè di proporre una domanda al giudice, il quale deve
prenderla in considerazione, tramite un giudizio che si concluda con una sentenza che dia torto o ragione a chi l’ha
avviato.
Art. 100 cod. proc. civile dispone che: “Per proporre una domanda in giudizio è necessario avervi interesse”.
I giuristi dicono che la legittimazione ad agire (cioè il potere di promuovere l’azione) suppone un interesse ad agire.
Non si tratta, però, di un qualsiasi interesse, ma di un interesse protetto dalla legge in modo tale da consentire la
domanda.
L’ipotesi più frequente è quella in cui l’interesse ad agire esista in quanto l’attore (chi propone la domanda) è titolare
di un diritto soggettivo. L’azione si configura, da questo punto di vista, come un aspetto del contenuto del diritto:
uno dei poteri che lo compongono. Così, considereremo come parte essenziale della proprietà il potere di agire in
rivendicazione.

15. Azione, interessi qualificati, interessi diffusi.


L’azione non è uno strumento di tutela dei soli diritti.
Abbiamo già visto come in certe ipotesi sia attribuito un potere di iniziativa a soggetti che non sono titolari di un
diritto soggettivo, ma che si ritengono portatori di un interesse qualificato: così, per esempio, l’azione per
l’interdizione e l’inabilitazione è esperibile dai congiunti dell’infermo, l’azione per la nullità del matrimonio spetta, in
alcuni casi, non solo ai coniugi ma anche a soggetti diversi quali i genitori.
Vi sono poi altri casi, in cui la legge prevede l’azione da parte di “chiunque vi abbia interesse”: così per la nullità del
contratto e per l’annullamento delle disposizioni testamentarie.

Un aspetto molto discusso è quello del rapporto tra l’azione e la tutela di quegli interessi che fanno capo alla
collettività: si tratta dei cosiddetti interessi diffusi, di cui si è parlato nel capitolo 4.
In Italia, sul piano normativo, si segnalano soprattutto i settori della tutela ambientale e della protezione dei
consumatori.

16. L’eccezione.
Il giudizio civile vede due protagonisti: chi propone la domanda (esercita l’azione) è l’attore; chi è chiamato a
difendersi, è il convenuto: si difende negando la pretesa dell’attore ovvero sollevando eccezioni.
“Eccepire” significa opporre ad una richiesta ragioni sufficienti per sottrarvisi in tutto o in parte. Ad una pretesa
rivolta contro di me, io oppongo fatti che paralizzano o limitano la pretesa avversaria (eccezione in senso ampio); ad
una domanda giudiziale oppongo fatti che ne escludono o ne limitano il fondamento (eccezione in senso stretto o
processuale). Per esempio, alla richiesta del rimborso di un prestito io posso opporre il fatto che l’ho già pagato.
Ogni azione che spetta ad un soggetto può dare fondamento ad una eccezione con cui lo stesso soggetto può
resistere all’altra parte. Per esempio, se io ho concluso un contratto per errore, non posso far altro che agire per
l’annullamento.
Anche per l’eccezione si pone un problema di legittimazione. Infatti, anche l’eccezione è un potere, che la legge
riconosce sulla base di un interesse da proteggere (art. 100 cod. proc. civ.).

Parte Terza: INTERESSI E RAPPORTI


Sezione prima: PERSONA
CAP. 9.
I DIRITTI DELLA PERSONA
1. Personalità e diritti inviolabili.
Per quanto riguarda il tema dei diritti della persona solamente negli ultimi decenni si è avvertita in modo sempre più
intenso l’esigenza di proteggere interessi di carattere strettamente personale non solo nei rapporti tra il cittadino e
lo Stato, ma anche nei rapporti tra privato e privato.

I giudici e gli studiosi del diritto privato si sono trovati a dover soddisfare una “domanda” di tutela sempre crescente,
avendo a disposizione un materiale normativo ampio, ma non organico:
• La Costituzione, che tutela ampiamente la personalità individuale (art. 2) e la dignità di ogni cittadino (art. 3)
e sancisce la gamma dei diritti e delle libertà fondamentali.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
• La Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950.
• La recente Convenzione sui Diritti dell’uomo e la biomedicina, promossa dal Consiglio d’Europa.
• La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
• I pochi articoli del Codice civile.
• Le norme penali di tutela dell’integrità fisica, dell’onore, del segreto della corrispondenza.
• Alcune importanti leggi speciali.

La norma dell’art. 2 della Costituzione contiene il fondamento di tutti i rapporti tra la persona, i gruppi sociali e lo
Stato: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali
ove si svolge la sua personalità (...)”.
Il significato della norma è complesso:
a) Stabilisce una correlazione tra il valore della personalità individuale e la gamma dei diritti inviolabili dell’uomo.
b) i diritti inviolabili sono garantiti non solo guardando all’uomo “come singolo” ma anche “nelle formazioni sociali”
(famiglia, associazioni, confessioni religiose). In questi gruppi la Costituzione riconosce i “luoghi” in cui si realizza il valore
della persona.
Si riconosce nell’art. 2 la base normativa di un’ampia gamma di diritti che hanno in comune la funzione di garantire lo
svolgimento della personalità: i “diritti della personalità”:
Art. 13 Cost.: “La libertà personale è inviolabile, se non per atto dell’autorità giudiziari e nei soli modi e casi previsti
dalla legge”.
Art. 18 Cost.: “I cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente per i fini non vietati dalla legge penale”
Art. 21 Cost.: “I cittadini sono liberi di manifestare il loro pensiero”.
I diritti alla personalità sono diritti indisponibili e assoluti, ovvero sono diritti di cui il soggetto non se ne può spogliare
e sono diritti opponibili erga omnes.

2. Integrità, salute, autodeterminazione.


L’integrità della persona è un valore primario tradizionalmente protetto dall’ordinamento giuridico. L’art. 5 del
Codice civile, regola gli “atti di disposizione del proprio corpo” vietandoli quando ne consegue una diminuzione
permanente dell’integrità, o quando siano comunque contrari alla legge (per esempio una sperimentazione medica
illegale sull’embrione), all’ordine pubblico (per esempio schiavitù) o al buon costume (offese al pudore).
I limiti dell’art. 5 sono espressamente derogati dalle leggi che consentono i trapianti di organi tra i viventi.

Il diritto di decidere in merito alla propria sorte assume il carattere di uno specifico diritto della personalità con
riferimento al governo del proprio corpo.
La necessità del consenso al trattamento medico da parte del paziente e il diritto a rifiutare le cure, si fondano sul
principio della autodeterminazione, che viene affermato con sempre maggiore forza fino a ipotizzare un diritto a
rifiutare le cure e lascarsi morire (ipotesi da non confondere con l’eutanasia). Le basi normative sono l’art. 2 e l’art.
13 Cost., che garantisce l’inviolabilità della libertà personale, e che trova riscontro nell’art. 32 Cost.: nessuno può
essere obbligato da una persona a essere sottoposta a trattamenti sanitare, escluso i casi di TSO e vaccinazioni.
Una particolare applicazione di questi principi si osserva nella disciplina dei prelievi e trapianti di organi e tessuti da
cadavere. Tutti i cittadini a seguito di formale richiesta del Ministero della Sanità sono tenuti a dichiarare la propria
libera volontà in ordine alla donazione di organi e tessuti del proprio corpo successivamente alla morte: la mancata
dichiarazione (se la richiesta è stata regolarmente notificata) è considerata assenso alla donazione.

Al di là di questo ambito più elementare, l’autodeterminazione si articola nelle libertà fondamentali: dalla libertà
personale, alla libertà di circolazione, alla libertà di riunione, di associazione, di fede religiosa, di manifestazione del
pensiero.
Così, lo Statuto dei lavoratori garantisce la libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero sotto il profilo
politico, sindacale, religioso, nei luoghi di lavoro. Ma anche nei rapporti familiari si afferma un principio di rispetto
delle libertà fondamentali: così, in casi di particolare gravità, si è protetta la libertà dei minori “contro” restrizioni
immotivate da parte dei genitori e nell’art. 147 c.c. si evidenzia l’imposizione ai genitori di tener conto delle
“aspirazioni” e “inclinazioni” del minore, si è visto un canale per la rilevanza delle libertà.

3. Nome, immagine, identità.


Il nome (che comprende prenome e cognome) è protetto contro l’uso che altri indebitamente ne faccia: al giudice si
può chiedere la cessazione dell’abuso (tutela inibitoria), il risarcimento degli eventuali danni, la pubblicazione della
sentenza in uno o più giornali.
Il prenome è attribuito dai genitori di comune accordo, salvo l’intervento del Tribunale in caso di loro dissenso.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Il cognome è attribuito secondo criteri legali: il figlio nato nel matrimonio porta il cognome del padre, in virtù di una
regola non scritta, ma ricavabile implicitamente dal sistema. Di recente tale regola è stata giudicata contraria alla
Convenzione europea sui diritti dell’uomo (artt. 8 e 14) e l’Italia è stata chiamata dai giudici di Strasburgo ad
intraprendere tutte le riforme necessarie, al fine di assicurare il rispetto dei principi di uguaglianza. Sulla questione
ha però deliberato la Corte costituzionale, dichiarando l’illegittimità costituzionale della normativa nella parte che
non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome
materno.

Il figlio nato fuori dal matrimonio acquista il cognome del genitore che per prima lo abbia riconosciuto o sia stato
dichiarato tale, ma ha la possibilità di assumere, aggiungere o anteporre il cognome del padre. Se viene riconosciuto
da entrambi i genitori contemporaneamente, assume il cognome del padre (anche qui la Corte ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale nella parte della normativa che non consentiva di trasmettere al figlio, al momento della
nascita, anche il cognome materno).
La moglie aggiunge al proprio il cognome del marito e lo conserva fino a divorzio o annullamento del matrimonio; in
caso di separazione il giudice può disporre che la moglie possa, o debba non usare il cognome del marito.
L’adottato assume il cognome dell’adottante (adozione dei minorenni) o lo premette al proprio (adozione dei
maggiorenni).
Le modifiche al nome sono ammesse con le formalità indicate dalla legge, il quale non prevede casi specifici, ma un
iter molto pesante.
Lo pseudonimo è tutelato quando “abbia acquistato l’importanza del nome”, per esempio per ragioni di protezione
artistica. Un segno di identificazione che nasce nell’ambito delle comunicazioni informatiche (Internet), è il
cosiddetto domain name, il “nome di dominio” registrato con cui si individua un “sito” in rete.
Esso può riprodurre il nome di una persona o la denominazione di un ente, ed essere protetto come tale.
Prevista dal Codice civile (art. 10), che fa rinvio alla legge sul diritto d’autore, è la protezione dell’immagine; ne è
vietata sia la riproduzione, sia la diffusione senza il consenso della persona raffigurata, salvo i casi in cui si tratti di
personaggio o avvenimento di interesse pubblico.
La norma protegge l’immagine fisica della persona; se ne ricava però, per analogia, la protezione di altri aspetti
identificativi, come la voce. La difesa avviene con l’inibitoria (ordine di cessare l’abuso) salvo il risarcimento dei danni.
Un altro aspetto di tutela della personalità è il diritto all’identità personale, e cioè il diritto a non essere “presentati”
agli occhi del pubblico in modo falsato rispetto ai valori e ai connotati fondamentali con i quali si caratterizza la
presenza sociale della singola persona; esso confina con il diritto all’integrità morale ma protegge la persona anche
contro quella alterazione della sua identità che non ne aggredisce l’onore o la reputazione, ma semplicemente ne dà
una rappresentazione infedele: ognuno ha diritto a essere conosciuto per ciò che realmente è.

4. Diritto alla vita privata e alla riservatezza.


Il diritto alla cosiddetta privacy è un diritto di origine giurisprudenziale. La Corte di cassazione ha stabilito che il
singolo venga tutelato riguardo agli “affari propri”.
Il problema di tutela della sfera di vita privata, comprende due aspetti essenziali:
• Si fa riferimento alla difesa di una zona di intimità, in cui “essere lasciati in pace”
• Si fa riferimento al controllo sulle informazioni che riguardano la nostra persona, in tutte le sue espressioni:
fisiche, affettive, morali, di opinione, patrimoniali.
Dal primo punto di vista prevale lo strumento di tutela del divieto e, in caso di abuso, dell’inibitoria; dal secondo
punto di vista la tutela deve di necessità farsi più complessa, e dare al singolo i poteri di vigilanza ed intervento
necessari per non perdere il controllo delle informazioni che lo riguardano.
Nelle norme interne, aspetti particolari di protezione della vita privata sono costituzionalmente protetti nella
garanzia del domicilio (art. 14) e della corrispondenza (art. 14).

Nel 1989 l’Italia ratificava la Convenzione di Strasburgo del 1981, che protegge il diritto alla vita privata (privacy) nei
confronti dell’elaborazione automatica dei dati di carattere personale (cosiddetta “protezione dei dati”), sia di
carattere pubblico che privato.
La legge non tutela solo la privacy; suo scopo è garantire che il “trattamento” dei dati personali si svolga nel rispetto
dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche, con particolare riferimento alla
riservatezza e all’identità personale. L’applicazione della legge è affidata ad un Garante.

Codice in materia di protezione dei dati personali: formato in modo tale da riordinare l’intera materia del
trattamento dei dati personali con il d. lgs 30 giugno 2003. Esso definisce i diritti dell’interessato e detta altre
generali sul trattamento dei dati, sui soggetti che lo effettuano, sulla sicurezza dei dati e dei sistemi di raccolta.
Infine, disciplina gli strumenti di tutela e la struttura, le competenze e i poteri dell’Autorità Garante.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Il Reg. UE 2016/679: relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali,
nonché alla libera circolazione di tali dati. Il Regolamento UE è per sua natura, un atto normativo direttamente
applicabile.
Esso stabilisce norme relative alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali,
nonché norme relative alla libera circolazione dei dati.

Ai fini del regolamento, si intende per “dato personale” qualsiasi informazione riguardante una persona fisica
identificata o identificabile. Molto ampia la definizione di “trattamento” di dati personali con cui si intende la
raccolta, la conservazione, l’elaborazione, l’utilizzazione, la comunicazione, la diffusione, la distribuzione ed altre
operazioni proprie alle “banche dati”, sia che si svolgano con mezzi elettronici o automatici, sia che si realizzino con
mezzi tradizionali. Il titolare del trattamento è definito come “la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il
servizio o altro organismo che determina le finalità e i mezzi del trattamento dei dati personali”.

Il Regolamento enuncia una serie di principi applicabili al trattamento di dati personali. Essi devono essere trattati in
modo lecito, corretto e trasparente nei confronti dell’interessato; devono essere raccolti per finalità determinate,
esplicite e legittime; devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali
sono trattati. Devono essere esatti e aggiornati. I dati devono essere conservati per un arco di tempo non superiore
al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati; possono essere conservati per periodi più lunghi a
condizione che siano trattati esclusivamente ai fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o
storica o a fini statistici. Infine, devono essere trattati in modo da garantirne un’adeguata sicurezza.

Il Regolamento afferma il principio di “responsabilizzazione” del titolare del trattamento, che è responsabile del
rispetto dei principi applicabili al trattamento dei dati personali e deve essere in grado di comprovarlo.

L’art. 25 dà attuazione ai principi della c.d. privacy by design e della privacy by default. Il primo principio comporta
che la protezione dei dati personali sia integrata, sin dal momento della progettazione, in una data tecnologia,
servizio o processo.
Il secondo implica che la raccolta dei dati abbia luogo nella minore misura possibile e per finalità quanto più possibile
limitate.

Il titolare del trattamento, nel momento in cui i dati sono raccolti, deve fornire all’interessato un’articolata serie di
informazioni, tra cui l’identità del titolare del trattamento, le finalità del trattamento e i diritti dell’interessato.
Il trattamento è lecito qualora l’interessato abbia espresso il consenso al trattamento dei propri dati personali per
una o più specifiche finalità. Una volta espresso il consenso, l’interessato ha diritto di revocarlo in qualsiasi momento.
La revoca non pregiudica la liceità del trattamento basata sul consenso prima della revoca.
Il trattamento è, inoltre, lecito quando sia necessario. Le ipotesi di necessità del trattamento sono specificamente
previste dal Regolamento.

Per talune categorie particolari di dati personali il Regolamento stabilisce una disciplina più rigorosa. È di regola
vietato il trattamento dei “dati sensibili” cioè quei dati personali che concernono l’origine razziale ed etnica, le
convenzioni religiose, filosofiche o di altro genere, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a
carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali relativi allo stato di salute e alla vita
sessuale.

Diritto di accesso: diritto da parte dell’interessato di ottenere dal titolare del trattamento la conferma che sia o meno
in corso un trattamento di dati personali che lo riguardano e in tal caso, di ottenere l’accesso ai dati personali e a una
serie di ulteriori informazioni. L’interessato ha il diritto di ottenere la rettifica dei dati inesatti senza ingiustificato
ritardo e l’integrazione di quelli incompleti. Ha altresì diritto alla cancellazione quando sussistano i motivi enucleati
dal Regolamento.
Ancora ha il diritto di opporsi in qualsiasi momento al trattamento dei dati personali che lo riguardano per motivi
legittimi.

Chiunque subisca un danno materiale o immateriale causato da una violazione del Reg. UE ha il diritto di ottenere il
risarcimento del danno dal titolare del trattamento o dal responsabile del trattamento.

Il Regolamento prevede che ogni Stato membro dispone che una o più autorità pubbliche indipendenti (l’”autorità di
controllo”) siano incaricate di sorvegliare l’applicazione del Regolamento. L’autorità di controllo ha poteri di indagine,

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
correttivi (ad. es quello di ingiungere al titolare di conformare il trattamento alle disposizioni del Regolamento, o di
ordinare la rettifica, cancellazione di dati personali), oltre che poteri autorizzativi e consultivi.

5. Lesione della personalità e mezzi di tutela (rinvio).


La varietà degli aspetti della “personalità” richiede vari mezzi di tutela: l’inibitoria, la pubblicazione delle sentenze, il
risarcimento del danno. Non sempre la legge li prevede espressamente: ma l’analogia permette di utilizzare i mezzi di
tutela, previsti in un caso, anche in ipotesi non regolate espressamente, o nelle quali è carente la disciplina degli
strumenti di protezione.
CAP. 10.
UGUAGLIANZA E DIFFERENZE
2. Gli status personali.
L’organizzazione delle società, dall’antichità sino alla fine del XVIII secolo, ed ancor oggi sotto molte latitudini, ha
sempre poggiato su profonde e rigide disuguaglianze giuridiche tra gli esseri umani. I diritti e gli obblighi degli
individui variavano a seconda dell’ordine, o della classe sociale, o della casta, o della comunità di appartenenza, e
dunque del gruppo al quale il singolo era legato, per ragione di nascita e di sangue, da un vincolo originario,
indissolubile e immodificabile. Gli appartenenti alla comunità erano dunque ordinati e distinti per status. Dominava
un complesso particolarismo giuridico fatto di diritti differenziati ed ineguali.

Questa situazione di disuguaglianza fu superata con la rivoluzione del 1789, preludio delle moderne codificazioni:
venne introdotto il principio fondamentale secondo cui la legge è uguale per tutti (fine degli status, fine dei privilegi).
Ma soprattutto venne introdotto il principio secondo cui tutti sono uguali davanti alla legge (uguaglianza formale),
espresso dall’attribuzione della capacità giuridica a tutti i cittadini.

L’uguaglianza “davanti alla legge”, tuttavia, man mano che procedeva l’evoluzione della società, si dimostrava
insufficiente, da sola, a garantire un assetto realmente e profondamente giusto dei rapporti sociali: a ben poco
serviva il riconoscimento a ciascun individuo dei medesimi diritti (eguaglianza formale), se poi, in concreto, le
differenti condizioni economiche dei soggetti determinavano profonde disuguaglianze sostanziali.
Dal 2° dopoguerra si è assistito alla diffusione di discipline differenziate in funzione di protezione di situazioni di
speciale debolezza.

Nel linguaggio giuridico moderno, l’idea di status è utilizzata là dove diverse situazioni soggettive, di cui è titolare una
persona, ci appaiono come un solo insieme, come una “posizione” complessa ma unitaria, occupata dal soggetto in
un certo “campo” di relazioni giuridiche che derivano a loro volta dall’appartenenza ad un gruppo sociale più o meno
coeso.

L’appartenenza a un gruppo familiare si concreta in una pluralità di diritti ed obblighi che riflettono il diverso ruolo
dei componenti la famiglia e che si riassumono negli status di coniuge, genitore, figlio.

“Status” diversi si individuano osservando la relazione tra una persona e l’intera collettività: quello fondamentale di
cittadino, formato dall’insieme di diritti e obblighi che ciascuno di noi ha per la relazione di cittadinanza; quello di
imprenditore; quello di lavoratore subordinato ecc..

L’idea di status implica quella di un “diritto particolare”: prerogative, diritti e obblighi, che non sono di tutti, ma solo
di chi occupa quella particolare “posizione”. Lo “status” sfiora perciò talvolta il problema del privilegio. Gode di un
privilegio la persona cui non si applica una regola che vale per tutti gli altri, e che quindi è in una posizione di
immunità.

3. La cittadinanza (cenni).
L’acquisto dello stato di cittadino è regolato dalla l. 5 febbraio 1992, Nuove norme sulla cittadinanza
Si è cittadini anzitutto “per nascita”:
a. Dovunque si sia nati, se figli di padre o di madre cittadini (“iure sanguinis”)
b. Se nati nel territorio della repubblica
- Da genitori ignoti o apolidi
- Da genitori stranieri la cui legge non preveda che il figlio segua la cittadinanza dei genitori.
La cittadinanza poi si acquista:

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
- Per adozione da parte di cittadino italiano
- Per matrimonio con cittadino italiano dopo sei mesi di residenza in Italia o tre anni di matrimonio.
- Per concessione con decreto del Presidente della repubblica in diversi casi (esempio lo straniero che risiede
da dieci anni in Italia)
- Per opzione volontaria legata ad alcuni presupposti oggettivi come la prestazione del servizio militare per lo
Stato italiano, l’assunzione di un pubblico impiego, la residenza in Italia senza interruzioni dalla nascita alla
maggiore età.

Sezione Seconda: PROPRIETA’


CAP. 11.
IL DIRITTO DI PROPRIETÀ
1. Il contenuto della proprietà: problemi e fonti normative.
Il Titolo II del Libro III cod. civ., si apre con l’art. 832 del c.c. dice “il proprietario ha il diritto di godere e disporre delle
cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”.

Consideriamo separatamente le due parti della regola. Nella prima, la posizione del proprietario è definita con una
formula (diritto di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo) che non delimita specifiche possibilità
d’uso del bene, né seleziona gli interessi o i fini che il proprietario può perseguire; nessun tipo di utilizzazione, nessun
lecito interesse può dirsi estraneo al contenuto della proprietà: questa appare come la signoria sulle cose.
La seconda parte della regola, che ne rappresenta l’anima positivista, sembra oscurare la prima. Il proprietario gode e
dispone della cosa in modo pieno ed esclusivo “entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti
dall’ordinamento giuridico”. Dunque, la pienezza può essere intaccata, ridotta.

Le esigenze della società “moderna” hanno imposto di disegnare in modo diverso i poteri e le facoltà del proprietario
a seconda del bene che è oggetto della proprietà.
Anche l’identità del proprietario influisce sulle facoltà e i poteri che questi, o chi per lui, può concretamente
esercitare.
Se proprietario è un incapace legale (minore o interdetto) nessuno ha facoltà di libero godimento né potere di libera
disposizione; chi agisce per il minore ha poteri vincolati allo scopo, che è quello di conservare il bene e assicurarne un
uso conveniente all’interno del minore o dell’incapace: la vendita, o altri atti di disposizione, sono infatti condizionati
alla necessità o utilità evidente del minore. Se la proprietà è in capo a un gruppo (dalla semplice comunione,
all’associazione non riconosciuta, alle società di persone) oppure in capo a persone giuridiche (associazioni,
fondazioni, società di capitali), le prerogative dei singoli individui si allontanano sempre più dal modello della
proprietà individuale dell’art. 832, fino a non avere più alcuna relazione con quello; ogni facoltà o potere risulta
infatti limitata o alterata man mano che si fa più forte il vincolo allo scopo che il gruppo o l’ente debbono
statutariamente perseguire.
Allo stesso modo, la libertà d’uso, godimento, alienazione manca là dove il bene, anche di proprietà di un individuo,
fa parte di un patrimonio destinato a uno scopo.

Se poi un bene fa parte del patrimonio disponibile dello Stato, o del patrimonio di un ente pubblico, uso, godimento,
disposizione del bene sono tutti legati alle finalità dell’interesse pubblico che l’ente deve perseguire.

1.1 Proprietà e new properties.


“New properties” è un termine che indica che la disciplina odierna dei beni e della proprietà comprende anche “beni” come
l’immagine, l’informazione e la frequenza, in quanto appartengono a qualcuno e sono quindi oggetto di diritti.

2. La proprietà privata nel Codice civile.


Il contenuto della proprietà, secondo l’art. 832, si concentra nei due aspetti del “godere” e del “disporre”, ed è
“pieno” ed “esclusivo”.
• “Godere” significa trarre utilità dalla cosa; sia con l’uso diretto, sia ricavandone i frutti naturali, sia
ricavandone i frutti civili, cioè il corrispettivo che un altro soggetto paga per poter godere del bene.
• “Disporre” non è altro che decidere e attuare operazioni materiali sulla cosa: destinarla a un certo uso, o
trasformarla. Disporre, in senso stretto, è invece disporre del diritto di proprietà: vendere, donare, costituire
diritti altrui sulla cosa, insomma determinare la sorte giuridica della cosa, non quella materiale.

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• “pieno” significa senza né vuoti né limiti (in realtà entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi
dell’ordinamento giuridico). Occorrono norme particolari per dire ciò che il proprietario non può, o ciò che
deve fare.
• “esclusivo” significa poter escludere gli altri. La pretesa, volta verso tutti, a un comportamento che non
ostacoli il libero e pieno godimento del bene.
L’articolo che segue, 833, dice che non rientra nelle facoltà del proprietario di usare la cosa in un modo che abbia il
solo scopo di nuocere ad altri (cosiddetti atti emulativi). La norma ha però un ristretto campo di applicazione e
ritiene che basti una minima utilità del proprietario per rendere lecito l’atto; non si fa cioè una questione di
proporzione tra interesse sacrificato e interesse avvantaggiato.
La proprietà non soffre di limiti nel tempo. Non soltanto il diritto del proprietario è ritenuto necessariamente
perpetuo ma neppure la prescrizione si applica alla proprietà.
L’imprescrittibilità del diritto non è espressamente prevista dalla legge, che sancisce però l’imprescrittibilità (art. 948)
dell’azione con cui il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque l’abbia in suo possesso (rivendicazione).
L’inerzia del proprietario può tuttavia contribuire al formarsi di una fattispecie estintiva del diritto, quando la cosa
cade in effettivo possesso di persona diversa dal titolare, la quale si comporta come proprietario per un lungo
periodo di tempo, e realizza così una usucapione: la proprietà viene allora acquistata a titolo originario dal
possessore, e il diritto del proprietario si estingue.

3. La proprietà fondiaria (o immobiliare).


Il bene immobile è un bene la cui utilizzazione può incidere, e anzi sempre incide, sugli interessi individuali di altri
proprietari (i confinanti e più in generale i vicini) e sugli interessi della collettività.
Per questo nel Codice civile l’art. 845 statuisce che “la proprietà fondiaria è soggetta a regole particolari per il
conseguimento di scopi di pubblico interesse”.
I due aspetti, interessi privati e interesse pubblico, non sono divisi da una linea di netta separazione perché molte
norme, mentre proteggono un interesse privato, assicurano anche un’esigenza della collettività e viceversa.
È possibile però vedere una prevalenza dell’uno o dell’altro aspetto: le norme che tendono a risolvere i rapporti di
vicinato sono in prima linea norme che risolvono conflitti di interessi tra proprietari, le norme invece che riguardano
l’urbanistica e la proprietà agricola sono in prima linea norme che tendono a raggiungere obiettivi di interesse
pubblico.

La proprietà del suolo si concepiva come proprietà di tutto ciò che sta sotto il suolo, e nello spazio sopra il suolo,
senza alcun limite in profondità e in altezza. Nell’art. 840 troviamo un criterio diverso: può formare oggetto di diritto
ciò che presenta una utilità per il titolare, dunque la proprietà si estende al sottosuolo e allo spazio sovrastante, ma il
diritto di escludere attività altrui cessa quando la profondità o l’altezza è tale che manca l’interesse ad escludere.
Il primo comma dell’art. 840 stabilisce poi una serie di casi in cui questo generale criterio non vale e il diritto di
godere e di escludere gli altri viene a mancare: così, il proprietario non può come tale, sfruttare le miniere, le cave, le
torbiere che fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o delle Regioni: non può appropriarsi dei reperti
archeologici; non può opporsi all’esecuzione di opere idrauliche di pubblico interesse, eccetera.

Potere caratteristico del proprietario d’immobili, ed espressione del “diritto di escludere”, è quello di vietare
l’ingresso nel fondo.
L’art. 841 prevede che il proprietario possa in qualunque momento chiudere il fondo, cioè recintarlo, o compiere
altre opere adatte a impedirne a chiunque l’accesso. In certi casi però, deve permettere l’accesso: per esempio, al
vicino che debba costruire o riparare un muro o altra opera propria o comune, o a chi debba recuperare una sua cosa
che vi si trovi accidentalmente: in questi casi, se l’accesso causa danno, è dovuta un’indennità.

4. I rapporti di vicinato.
Il rapporto di vicinato è fonte di vari limiti della proprietà privata che hanno tre caratteristiche comuni:
• automaticità: i limiti nascono direttamente dalla esistenza della situazione prevista dalla legge
• reciprocità: quel che vale per l’uno vale per l’altro, il sacrificio e il vantaggio sono reciproci
• gratuità: non esistendo uno squilibrio di vantaggi, non c’è un compenso

Un limite generale della proprietà fondiaria, legata al rapporto di vicinato, è il divieto di immissioni: il problema che la
norma vuole risolvere è quello dei fastidi che si propagano da un “fondo” all’altro, ovvero le immissioni di fumo o di
calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e altre simili propagazioni.
Il criterio di equilibrio prescelto dalla norma è quello della normale tollerabilità: il proprietario di un fondo non può
impedire le immissioni che non superino la normale tollerabilità. L’idea di normale tollerabilità si adatta alla

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condizione dei luoghi: quello che è intollerabile in una tranquilla zona residenziale va tollerato, invece, in una zona
con insediamenti misti (negozi, officine, abitazioni, ecc.).
In secondo luogo, il giudice deve “contemperare le ragioni della proprietà con quelle della produzione”: l’attività
produttiva gode di una tutela particolare, in considerazione del fatto che l’eliminazione delle immissioni richiede dei
costi che qualche volta possono essere sproporzionati rispetto all’interesse dell’altra parte.
Poi, il giudice può tener conto della priorità di un determinato uso.
La giurisprudenza ritiene che legittimati ad agire siano anche i possessori e i detentori degli immobili vicini.
I rimedi sono l’ordine di cessare l’abuso (inibitoria) o di provvedere alle misure necessarie per ridurre le immissioni e,
se ne sussistono i presupposti, il risarcimento del danno.
Negli ultimi decenni però, la questione si è spostata sul problema sociale dell’inquinamento ambientale. Le leggi in
materia impongono, nell’interesse generale, criteri precisi e accorgimenti tecnici determinati per la limitazione di
fumi, esalazioni, vibrazioni ecc.

La seconda fonte di limiti di vicinato è data dalle norme sulle distanze nelle costruzioni, piantagioni, scavi, muri, ecc. Il
codice indica una distanza minima di 3 metri tra le costruzioni: ma distanza maggiori sono imposte, per fini diversi, da
leggi speciali o regolamenti comunali.
Poiché il problema riguarda la distanza tra edifici, il proprietario che costruisce per primo può farlo anche sul confine.
L’altro a questo punto, ha una scelta: o costruisce in aderenza, oppure rispetta la distanza costruendo in posizione
arretrata all’interno del proprio fondo.
Se il primo proprietario costruisce non sul confine, ma a una distanza dal confine minore della metà di quella
prescritta dal codice o dai regolamenti, l’altro ha un diritto potestativo di ottenere la comunione forzosa del muro. Il
primo, però, potrà impedire l’occupazione del suo suolo portando la sua costruzione al confine, o arretrandola fino
alla metà della distanza prevista. In tal modo, è il proprietario che costruisce per primo a poter determinare in
concreto l’arretramento del vicino rispetto al confine (cosiddetto criterio della prevenzione temporale).

In altri casi, la legge prevede una distanza tra la costruzione e il confine. Così è quando si vuole aprire una finestra. Le
finestre si distinguono in vedute, il quale “permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o
lateralmente” e luci, che non permettono tutto questo, ma solo “danno passaggio alla luce e all’aria”.
Le vedute devono essere costruite a non meno di metà distanza di quella prevista per le costruzioni.
Le luci, invece, permettono al vicino di costruire in aderenza o di ottenere la comunione forzosa di quel muro, salvo
che, per contratto, si sia stabilita una servitù di luce.
La violazione delle norme in materia di distanza e di quelle relative alle luci e vedute può determinare conseguenze
diverse: in particolare, il diritto del proprietario leso alla riduzione in pristino o al risarcimento del danno. La riduzione
in pristino può consistere nell’abbattimento della costruzione o di una sua parte; nella chiusura di pozzi o cisterne o di
canali e fossi; nella chiusura di una luce o di una veduta o nelle opere necessarie per rendere la luce conforme alla
legge.

5. La proprietà edilizia.
Nella proprietà edilizia il problema dominante è quello di combinare l’interesse dei privati a edificare sul suolo di loro
proprietà, e l’interesse generale ad assicurare uno sviluppo razionale dell’edilizia.
Queste diverse esigenze sono protette da norme (c.d norme di edilizia) che derivano da varie fonti, e che hanno
natura e finalità diverse.
Schematicamente, si possono elencare:
• Il Codice civile che disciplina le distanze tra le costruzioni e contiene norme che interessano l’edificazione,
come quelle relative alle luci e alle vedute.
• Le leggi speciali che stabiliscono regole da osservarsi nelle costruzioni (ad esempio, norme di tutela
ambientale, norme antisismiche).
• Il piano regolatore, e precisamente il piano regolatore generale e il piano regolatore particolareggiato.
• I regolamenti edilizi comunali
Ai fini pratici, la sintesi di tutte queste fonti è affidata, sia dalle leggi speciali sia dal Codice civile, al piano regolatore,
il quale prevede quali aree possono essere destinate alla edificazione, quali devono essere mantenute a verde, quali
devono essere destinate a pubblici servizi; stabilisce inoltre quali caratteri dovranno avere le zone edificabili, con
quali criteri e con che vincoli si dovrà costruire.

La facoltà di edificare del proprietario che intenda costruire un edificio sul proprio terreno, riedificare, modificare un
edificio esistente, è stata da gran tempo limitata. Lo strumento con cui si dava via libera al proprietario si chiamava,
fino al 1977, licenza: l’esercizio della facoltà di edificare doveva essere autorizzato da un provvedimento dell’autorità
amministrativa (il Comune). Con la legge sui suoli, la licenza fu sostituita dalla concessione, legata al pagamento di un

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contributo. La Corte costituzionale però, declinò la concessione, in quanto affermò che la proprietà immobiliare
comprende in sé il permesso di edificare (ius aedificandi). Ecco perché, riordinando la materia con il Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia il legislatore ha sostituito il termine concessione con il
permesso di costruire implicando che lo ius aedificandi non è attribuito con l’atto amministrativo, ma è soltanto
sottoposto ad autorizzazione. In particolare, l’art. 11 prevede che il proprietario dell’immobile possa richiedere il
permesso di costruire con una domanda che va presentata allo sportello unico dell’edilizia, anziché a diverse autorità
Il testo unico prevede che alcune opere edilizie possano essere eseguite senza alcun titolo abilitativo: tra esse si
possono ricordare gli interventi di manutenzione ordinaria e alcuni interventi diretti ad eliminare barriere
architettoniche.
Per altre opere, ad esempio, la manutenzione straordinaria riguardante parti strutturali dell’edificio, è richiesta la
presentazione da parte dell’interessato di una segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A); la segnalazione deve
essere accompagnata da una relazione di un progettista abilitato che asseveri la conformità delle opere da realizzare
agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti e il rispetto delle norme di sicurezza igienico sanitarie.
L’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata dalla data della presentazione della segnalazione
all’amministratore competente.

Le norme di edilizia rispondono ad esigenze diverse ed attribuiscono al privato situazioni giuridiche differenti.
Alcune hanno per scopo primario la migliore utilizzazione della proprietà privata, altre, sono dirette primariamente a
realizzare interessi generali.
Alla prima categoria appartengono le norme sulle distanze tra i fabbricati, contenute nel Codice civile, e le norme di
fonte diversa che sono richiamate dalle regole in materia di distanza o che le integrano. La violazione di queste
regole dà diritto alla riduzione in pristino (art. 872, comma 2o), oltre all’eventuale risarcimento del danno.
Alla seconda categoria appartengono le altre regole, dirette a imporre criteri di igiene o di estetica. In caso di
violazione, il proprietario vicino ha a disposizione rimedi di diritto amministrativo, per cercare di ottenere dalla P.A o
dal giudice amministrativo un provvedimento che ordini l’abbattimento. Sul piano privatistico, la violazione di queste
regole può non avere conseguenze, poiché la loro inosservanza non lede immediatamente un diritto soggettivo; ma
se la violazione determina una diminuzione patrimoniale, allora sussiste una lesione che trova ristoro nel
risarcimento del danno.

7. I modi di acquisto della proprietà.


I fatti e gli atti giuridici che, nel nostro ordinamento, hanno per effetto l’acquisto della proprietà sono elencati
nell’art. 922.

I modi di acquisto a titolo derivativo, che sono senza dubbio i più frequenti e importanti sono il contratto e la
successione a causa di morte. È importante dire, che in questa tipologia di modi di acquisto esiste una relazione di
dipendenza tra il diritto del dante causa (alienante) e quello dell’avente causa (acquirente), per cui:
• L’avente causa acquista il diritto così com’era in capo all’autore o dante causa
• Se il titolo del dante causa viene meno, viene meno anche il diritto dell’avente causa.

I modi di acquisto a titolo originario sono:


• l’occupazione: è un modo di acquisto che riguarda le “res nullius”, ovvero le cose mobili abbandonate o
senza proprietario: esse diventano proprie tramite possesso. La selvaggina è parte del patrimonio
indisponibile dello Stato, ma può essere acquistata dal cacciatore che se ne impossessi nel rispetto delle
regole previste per la caccia. Anche gli immobili possono essere abbandonati, ma in tal caso la loro proprietà
è acquistata automaticamente dallo Stato: perciò, non esistono immobili “di nessuno”.
• l’invenzione: dal latino “invenire”, ovvero trovare. Essa riguarda le cose mobili smarrite. Chi le trova, ha il
dovere di restituirle al proprietario o di consegnarle al sindaco (cioè all’ufficio comunale delegato). Dal
ritrovamento può derivare o l’acquisto della proprietà dopo un anno, o il diritto ad un premio se il
proprietario si presenta a reclamare la cosa.
Una suggestiva ipotesi di invenzione è il ritrovamento del tesoro, che è qualsiasi cosa mobile di pregio,
nascosta o sotterrata, di cui nessuno può provare di essere proprietario: appartiene al proprietario del
fondo in cui si ritrova, ma, se il ritrovatore è una persona diversa dal proprietario, spetta per metà all’uno e
per metà all’altro.
• l’accensione: quando un bene viene in rapporto con un altro, che lo “attrae”, come per forza di gravità, così
che il tutto diventa proprietà del titolare del bene principale.
L’accensione in senso stretto si verifica tra cosa mobile e cosa immobile, le piante, e i materiali da
costruzione, sono attratti nella proprietà del suolo su cui si pianta o si edifica.

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Il Codice civile prevede il meccanismo della così detta accensione invertita: nel caso in cui il costruttore,
iniziata l’edificazione sul suolo di sua proprietà, l’abbia poi continuata sconfinando sull’attiguo fondo altrui,
ciò facendo nella convinzione di costruire sempre su suolo di sua proprietà, può chiedere al giudice di
respingere la domanda di demolizione del proprietario e di trasferire a suo favore il diritto di proprietà della
superficie occupata. Il giudice, tenuto conto delle circostanze, può accogliere la domanda del costruttore,
che dovrà peraltro indennizzare il proprietario nella misura del doppio valore della superficie occupata, oltre
all’eventuale risarcimento dei danni. Un’interessante applicazione dell’accensione invertita si ha nella
occupazione acquisitiva da parte della Pubblica Amministrazione (vedi par. successivo).
Forme di accensione di immobile a immobile (artt. 941 ss.): ipotesi in cui si può acquistare la proprietà di
pezzi di terra in conseguenza di modificazioni spontanee intervenute nell’andamento di corsi d’acqua, laghi
o stagni, ecc.: alluvione e avulsione Importante è sapere che solo il mutamento spontaneo produce quelle
conseguenze, non quello provocato da opere di regolamento o da bonifiche.
• Una forma simile all’accensione si attua, tra cose mobili, per unione o commistione (art. 939): cioè per
mescolanza di cose che non possono essere separata senza deterioramento (come se io vernicio la mia
automobile con calore di proprietà altrui); in tal caso, è importante vedere se c’è una cosa principale, o
molto superiore di valore o meno: nel primo caso il proprietario della cosa principale acquista il tutto, e
deve pagare il valore della cosa unita o mescolata, nel secondo caso (come se vengono uniti due tipi di vino)
la proprietà diventa comune in proporzione del valore delle cose unite.
• Altra forma di accensione di mobile a mobile è la specificazione: una persona adopera una materia che non
le apparteneva per formare una cosa nuova (per esempio, con del legname non mio costruisco un banco
per attrezzi). Il principio è che il lavoro prevale sulla proprietà dei materiali, così che proprietario della cosa
nuova è colui che ha compiuto l’opera. Se però il valore del materiale supera di molto quello della mano
d’opera, “la cosa spetta al proprietario della materia, per il quale deve pagare il prezzo della mano d’opera”
(art. 940).
• A titolo originario si acquista la proprietà anche per usucapione e per acquisto del possesso di buona fede di
cosa mobile (come il vaso Ming).
Infine, l’art. 922 fa riferimento agli “altri modi stabiliti dalla legge”. Una menzione particolare merita l’acquisto della
proprietà derivante dall’esercizio del diritto di riscatto, ovvero del diritto, riconosciuto a un soggetto, di acquistare o
riacquistare la proprietà di una cosa mediante una dichiarazione unilaterale di volontà.
Il diritto di riscatto è un diritto potestativo, rispetto al quale il precedente proprietario si trova in posizione di pura
soggezione. La fonte del diritto può essere convenzionale o legale.

Di fonte contrattuale è il diritto che spetta al venditore in caso di vendita con patto di riscatto. Un diritto di riscatto di
fonte legale si trova in ipotesi diverse tra loro, nelle quali la legge riconosce a un soggetto il diritto di essere preferito
ad altri acquirenti nel caso di alienazione di un bene (diritto di prelazione). Se la prelazione non è rispettata
dall’alienante, l’avente diritto si tutela esercitando il riscatto.

8. I modi di acquisto della proprietà pubblica.


L’acquisizione dei beni al patrimonio dello Stato e degli altri enti pubblici può avvenire, secondo i modi d’acquisto
della proprietà “di diritto comune”, cioè previsti da norme che si applicano a tutti gli altri soggetti.
In certi casi, però, l’interesse pubblico può richiedere di uscire dalle regole del mercato, e assicurare allo Stato o agli
enti pubblici la proprietà di determinati beni. È prevista allora l’espropriazione per motivi di interesse generale.

Il Codice civile prevede l’espropriazione dell’art. 834, che statuisce:


• La necessità di una causa di pubblico interesse prevista dalla legge
• Il pagamento di una “giusta indennità”
La Costituzione non parla di “giusta indennità”, ma solo di “indennizzo”. Il tutto è oggi disciplinato dal testo unico in
materia di espropriazione.
La questione dell’indennizzo è stata oggetto di una storia travagliata, dominata dal problema di consentire, da un
lato, all’autorità amministrativa di provvedere alle opere di pubblica utilità senza pagare a prezzo di mercato le aree
espropriate, dall’altro, di non ledere il diritto del proprietario al ristoro del sacrificio a lui imposto. Una soluzione è
stata ricercata nel meccanismo della “cessione bonaria” del bene con procedere dirette a una determinazione
concordata dell’indennità. In mancanza di accordo, l’indennità di espropriazione si determina, sulla base di criteri
stabiliti dalla legge, in misura pari al valore venale del bene, suscettibile di essere ridotto del 25% quando
l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale.
La Costituzione stabilisce per l’espropriazione una “riserva di legge”, cioè prevede che solo attraverso una legge
formale si possano stabile causa di espropriazione (c.d “principio di legalità”). L’art. 838 consente l’espropriazione in

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ogni caso in cui il proprietario “abbandona la conservazione, la coltivazione o l’esercizio di beni che interessano la
produzione nazionale, in modo tale da nuocere gravemente alle esigenze della produzione stessa”; l’espropriazione è
anche prevista quando il deperimento di beni di proprietà di privati ha per effetto il nuocere gravemente al decoro
della città o alle ragioni dell’arte, della storia o della sanità pubblica.
A fini di utilità generale, la Costituzione afferma che la legge può “riservare originariamente o trasferire, mediante
espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate
imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di
monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale” (cosiddetta “nazionalizzazione”).

Qualora la P.A. abbia occupato il fondo del privato durante il corso della procedura di espropriazione e tale
occupazione sia divenuta illegittima per scadenza del termine previsto, ovvero qualora l’occupazione sia avvenuta
senza titolo e quindi sia da considerarsi illegittima fin dall’inizio, la proprietà del fondo occupato, che abbia subito
un’irreversibile destinazione alla realizzazione di un’opera pubblica, non può più essere rivendicata dal privato
stesso: la radicale trasformazione del suolo determina il passaggio dell’area nella proprietà della P.A. (cosiddetta
occupazione acquisitiva).
L’istituto dell’occupazione acquisitiva è stato fatto oggetto di ricorsi alla Corte di Strasburgo, che ha ritenuto violato il
principio di legalità e non arbitrarietà. Nel 2015, infatti, l’illegittimità dell’occupazione acquisitiva è stata
espressamente affermata dalle sezioni unite della Corte di Cassazione.
La Suprema Corte (corte di cassazione) ha quindi affermato che in caso di illecito spossessamento da parte della P.A.,
il privato resta legittimato a chiedere la restituzione, salvo che non preferisca abdicare al suo diritto ed esigere il
risarcimento del danno.
Attualmente, il nuovo testo unico in materia di espropriazione, entrato in vigore nel 2003, sancisce che il decreto di
esproprio deve precedere l’immissione nel possesso del bene, con la conseguenza che la P.A., a differenza del
passato, inizia a realizzare un’opera sull’area ormai sua. L’art. 42 bis del T.U. prevede che “l’autorità che utilizza un
bene immobile, per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o
dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio
indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale”.
Tale modalità di acquisto è diversa rispetto all’occupazione acquisitiva giacché presuppone un provvedimento da
parte della P.A. che deve essere specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative.

Infine, l’art. 835, prevede che in caso di gravi e urgenti necessità pubbliche, militari o civili l’autorità amministrativa
possa disporre la requisizione di beni mobili o immobili, il provvedimento non priva il proprietario del suo diritto, ma
gli sottrae temporaneamente il godimento e la disponibilità della cosa. Anche qui prevista una giusta indennità.

CAP. 12.
I DIRITTI SU COSA ALTRUI
1. I diritti reali “limitati”.
I diritti reali su cosa altrui sono chiamati usualmente “diritti reali limitati”. Poiché essi comprimono la proprietà e la
libertà del bene, le facoltà e poteri del titolare e i limiti imposti al proprietario sono solo quello che possono ricavarsi
da positive indicazioni normative. Al titolare di un diritto reale su cosa altrui spettano facoltà e poteri che possono
apparire come parti della proprietà.
Si usa dire che la proprietà è compressa, e si riespande non appena il diritto altrui viene a cessare (cosiddetta
elasticità della proprietà).
Il diritto reale limitato sussiste solo su cose di cui il titolare non è proprietario; perciò, la proprietà si riespande, e il
diritto reale limitato si estingue, quando le due posizioni si riuniscono in una stessa persona: questo modo di
estinzione di un diritto reale minore si chiama confusione.

Si usa distinguere diritti reali:


• di godimento: come superficie, enfiteusi, usufrutto, uso, abitazione, servitù, sono detti “di godimento” perché
assicurano in varia misura l’utilizzazione della cosa da parte del titolare del diritto limitato (ma non è sempre vero,
perché la servitù può consistere, in certi casi, in un limite alle facoltà del proprietario del fondo servente: cosiddetta
“servitù negative”).
• di garanzia: sono il pegno e l’ipoteca, che assicurano al creditore pignoratizio o ipotecario la possibilità di soddisfarsi sul
bene a preferenza di altri creditori.

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• Usi civici: diritti che spettano ai membri di una comunità locale, di carattere pubblico, imprescrittibile; residui di
antiche concessioni antiche concessioni e proprietà collettive. Ossia diritti collettivi che consentono l’uso o il
godimento limitato di proprietà altrui, pubbliche o private (diritto di raccogliere la legna nel bosco di p. pubblica).

2. Usufrutto, uso, abitazione.


La posizione dell’usufruttuario è descritta nel Codice civile in due gruppi di articoli, i diritti (981 e ss.) gli obblighi
(1001 e ss.) nascenti dall’usufrutto.
L’usufruttuario ha il diritto di godere della cosa. Il termine “godere” comprende ogni utilizzazione della cosa, e quindi
l’uso diretto e indiretto e la percezione dei frutti naturali e civili. Se l’usufrutto riguarda una mandria o un gregge, i
parti si considerano frutti e spettano all’usufruttuario solo dopo che le nascite hanno reintegrato le perdite. Per
realizzare il “godimento”, ha diritto di ottenere il possesso della cosa.
Quando ai frutti civili, l’usufruttuario può dare in locazione la cosa; il rapporto così stabilito continua anche alla
cessazione dell’usufrutto, fino al termine stabilito, ma non oltre un quinquennio dalla data della cessazione.
L’usufruttuario ha, di regola, il potere di disporre del proprio diritto per un certo tempo, o per tutta la sua durata.
Il potere dell’usufruttario incontra però un limite essenziale: egli deve rispettare la destinazione economica della
cosa. L’usufruttario non può cioè, né attraverso atti materiali, né attraverso atti giuridici come la locazione, alterare
quelle caratteristiche del bene che ne delimitano gli impieghi economici. Può invece introdurre dei miglioramenti; in
tal caso, ha diritto a un’indennità da parte del proprietario, corrispondente alla somma minore tra quanto
l’usufruttuario ha speso per i miglioramenti, e l’aumento di valore che essi hanno indotto.

Se l’usufrutto comprende cose deteriorabili l’usufruttuario ha diritto di servirsene, e alla fine dell’usufrutto è soltanto
tenuto a restituirle nello stato si cui si trovano.
Se l’usufrutto ha ad oggetto cose consumabili allora si verifica la situazione di quasi- usufrutto; l’usufruttuario ha
diritto di servirsi delle cose, consumandole, e ha l’obbligo di pagarne il valore al termine dell’usufrutto: il che significa

che ne acquista la proprietà, con l’obbligo di restituzione del solo valore.

Quanto agli obblighi, oltre a quello di restituire la cosa alla cessazione del diritto, l’usufruttario deve:
a. Usare la diligenza del buon padre di famiglia nel godimento (art. 1001)
b. Fare l’inventario e prestare garanzia
c. Pagare le spese per l’ordinaria manutenzione e amministrazione della cosa (sono pure a suo carico le
riparazioni straordinarie rese necessarie dall’inadempimento degli obblighi di ordinaria amministrazione)
d. Pagare le imposte

Il proprietario della cosa viene comunemente chiamato il “nudo proprietario”. Egli non ha la facoltà di godere.
Conserva però un certo controllo sulla cosa, perché, come abbiamo visto:
a. Solo con il suo consenso l’usufruttuario può mutare la destinazione economica
b. È suo compito provvedere a riparazioni straordinarie

Il proprietario conserva, poi, il potere di disporre della nuda proprietà: e la nuda proprietà è un valore, perché è
destinata prima o poi ad “espandersi” a tornare piena con la cessazione dell’usufrutto.

L’usufrutto nasce per volontà privata (contratto o testamento) o per usucapione. Si prevede anche la costituzione ad
opera della legge: si potrebbe pensare che l’ipotesi contemplata sia quella dell’art. 324 cioè dell’usufrutto legale dei
genitori sui beni del minore. Si ritiene però che questo diritto dei genitori, malgrado il nome non sia configurabile
come diritto reale, bensì solo come diritto personale.
Caratteristica dell’usufrutto è, comunque, la durata limitata: essa non può eccedere la vita dell’usufruttuario e il
diritto cessa comunque alla scadenza prevista nel titolo o alla morte del primo titolare. L’usufrutto a favore della
persona giuridica non può durare più di trent’anni, ma viene meno se l’ente si estingue prima. Infine, i casi di
estinzione:
a. Prescrizione per non uso ventennale
b. Confusione (riunione di usufrutto e proprietà nella stessa persona)
c. Totale perimento della cosa (se perisce un edificio, però, l’usufrutto permane sull’area).
d. Causa particolare di estinzione, per provvedimento del giudice, è l’abuso che l’usufruttuario faccia del suo
diritto alienando i beni o deteriorandoli o lasciandoli andare in rovina per mancanza di riparazioni.
Di contenuto più limitato rispetto all’usufrutto sono l’uso e l’abitazione.

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L’uso attribuisce al titolare non solo il diritto di servirsi della cosa, ma anche quello di goderne i frutti, limitatamente
ai bisogni suoi e della sua famiglia (art. 1021).
A differenza dell’usufrutto, che può essere ceduto, l’uso è personalissimo: è quindi incedibile, e si estingue con la
morte dell’usuraio. Si estingue inoltre nei modi stabiliti per l’usufrutto.
Contenuto più specifico ha il diritto di abitazione, che attribuisce la facoltà d’uso di un immobile al solo scopo di
abitarci (art. 1022). Anche qui il diritto è incedibile, e il titolare può far godere dell’abitazione solo i membri della sua
famiglia. La nozione di famiglia è qui particolarmente ampia: comprende non solo i figli legittimi, naturali, adottivi e
gli affiliati, ma anche le persone conviventi per servizio.

3. Superficie e proprietà superficiaria.


Di regola ciò che è costruito sul suolo appartiene al proprietario del suolo: principio che sta alla base di un dei modi di
acquisto della proprietà, cioè l’accensione. È però possibile che questo meccanismo sia escluso e si abbia, perciò, una
separazione tra proprietà del suolo e proprietà di ciò che è costruito sopra o sotto il suolo.

Questa separazione può verificarsi quando il proprietario di un’area costituisce, a favore di un altro soggetto, il diritto
di costruire; si tratta di un diritto reale su cosa altrui (sull’area), che determina l’acquisto della proprietà dell’edificio
separatamente da quella del suolo. Sul suolo, c’è un diritto reale limitato che si esaurisce nella facoltà di edificare
(cosiddetto diritto di superficie); sull’edificio, se costruito, c’è proprietà superficiaria cioè proprietà piena, ma limitata
all’edificio, anziché estesa all’area. Lo stesso risultato si produce quando il proprietario di un immobile alieni la
proprietà dell’edificio separandola dalla proprietà del suolo: l’avente causa acquista la proprietà superficiaria, che
comprende in sé la facoltà di edificare (il diritto di superficie).
Anche la legge prevede ipotesi di separazione tra proprietà del suolo e proprietà dell’edificio. Nel condominio il suolo
è proprietà comune dei condomini, mentre i singoli appartamenti sono proprietà individuale di ciascun condomino: e
perciò si dice che sul condominio si realizza una proprietà individuale orizzontale.

Modi di estinzione del diritto di superficie: rinuncia, confusione, scadenza dei termini, prescrizione per non uso
ventennale (ovviamente se l’avente diritto non ha costruito, in caso contrario egli è proprietario dell’edificio).

4. Enfiteusi.
L’enfiteusi si realizza quando il proprietario di un fondo “concede” ad un’altra persona (l’enfiteuta) il diritto di
goderne, con l’obbligo di migliorarlo e di pagare un canone annuo in denaro o in natura (artt. 958 e 960).
L’obbligo di miglioria è essenziale: l’istituto nasce soprattutto per porre rimedio all’abbandono di terreni agricoli,
combinando insieme l’interesse del proprietario a recuperarli alla coltura e a migliorarne lo stato, con quello di un
coltivatore a “godere” del fondo con un rapporto meno precario e meno oneroso dei comuni rapporti contrattuali.
Esigenze pratiche spiegano la durata minima, ventennale, necessaria per consentire un impiego prolungato di lavoro
e di capitale con la prospettiva di poterne godere i risultati; e addirittura, la possibile perpetuità della concessione.
L’enfiteuta può disporre del suo diritto per atto tra vivi o per testamento e ha il diritto di affrancazione, cioè il diritto
di acquistare in qualsiasi momento la piena proprietà del fondo, pagando una somma corrispondente a quindici volte
l’ammontare del canone annuo.

5. Le servitù prediali.
L’art. 1027 recita “La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un alto fondo
appartenente a diverso proprietario”.
La servitù determina un obbligo a carico del proprietario di un fondo (detto fondo servente) e una reciproca pretesa a
favore del proprietario di un fondo vicino (detto fondo dominante).
L’obbligo non può essere un obbligo di fare qualcosa, ma piuttosto un obbligo di non fare (per esempio non
sopraelevare) o un obbligo di lasciar fare (per esempio lasciar passare).
Scopo della servitù è poi non un vantaggio personale del titolare del diritto, ma solo la utilità di un altro fondo
appartenente a diverso proprietario anche se nel senso della sua maggior comodità o amenità o per assicurarne la
destinazione industriale.

La servitù non è semplicemente un obbligo assunto personalmente da un Tizio verso un Caio, ma un rapporto che si
instaura tra i proprietari dei due fondi, come tali, e che quindi permane anche se l’uno o l’altro dei due fondi passano
nella proprietà di persone diverse.
Il doppio legame con i fondi (peso sul fondo servente, utilità del fondo dominante), si dice, ha carattere di

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
“predialità”. Conseguenza pratica: i fondi devono essere vicini; non necessariamente confinanti, ma vicini quel tanto
che consenta di legare lo svantaggio dell’uno all’oggettivo vantaggio dell’altro.

L’art. 1031 dice che le servitù prediali si possono costituire in quattro modi:
• Coattivamente
• Volontariamente (cioè per contratto o per testamento)
• Per usucapione
• Per destinazione del padre di famiglia

Le servitù coattive (artt. 1032 e ss.) prevedono una serie di situazioni in cui la piena utilizzazione di un fondo esige
che sia imposto un peso ad altri fondi: per esempio, per condurre acqua “per i bisogni della vita o per usi agrari o
industriali (servitù di acquedotto), o per accedere alla via pubblica da un fondo che non ha diretto accesso (fondo
intercluso) o il cui accesso è inadeguato rispetto a esigenze produttive o di tutela dei portatori di handicap (servitù di
passaggio).
La parola “coattive” va ben compresa: la situazione prevista crea solo il “diritto di ottenere la costituzione di una
servitù”. A tale diritto corrisponde un obbligo a contrarre imposto al proprietario del fondo che diventerà servente. Il
primo modo di costituzione delle servitù coattive è dunque il contratto, con cui le parti devono stabilire le modalità di
esercizio della servitù e l’indennità che è sempre dovuta. Solo se il proprietario si rifiuta o comunque non arriva
all’accordo, l’avente diritto può chiedere al giudice una sentenza, che tiene luogo del contratto e costituisce il diritto
(cosiddetta sentenza costitutiva).
Finché non è pagata l’indennità, il proprietario del fondo servente può opporsi all’esercizio della servitù.

Abbiamo così tutti i criteri necessari per distinguere le servitù coattive dai limiti di vicinato:
SERVITU’ COATTIVE LIMITI DI VICINATO
Si ha un limite della proprietà. Si ha un limite della proprietà.
Unilaterali. Limiti reciproci
Suppongono un’indennità. Gratuiti
Nascono per contratto o per Sono automatici
sentenza.

Regole particolari valgono quando la legge prevede la costituzione di servitù per esigenze di carattere pubblico. La
servitù si costituisce infatti per atto dell’autorità amministrativa: così per le servitù militari, la cui costituzione è
prevista in certe zone del paese (Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia).

Servitù volontarie si dicono tutte quelle servitù la cui costituzione non è obbligatoria.

Due modi di costituzione valgono solo per le servitù apparenti, cioè per quelle servitù che richiedono un’opera
visibile e permanente (come le servitù di acquedotto ecc.)
Un primo modo di costituzione è quello cosiddetto per “destinazione del padre di famiglia”: In un fondo, che
appartiene ad un proprietario, si crea, fra parti diverse, uno stato di cose tale che, se si trattasse di proprietà distinte,
saremmo di fronte a una servitù: per esempio da una sorgente situata in una certa parte dell’area si conduce acqua
alla casa che sta in un’altra parte dell’area.
Successivamente, il fondo viene diviso tra due proprietari senza che lo “stato di cose” creato in precedenza sia tolto
di mezzo: in tal caso se non è disposto diversamente, si costituisce tra i due fondi la servitù.
Alle servitù apparenti si applica poi il modo di acquisto per usucapione, cioè tramite l’esercizio di fatto del diritto
durato ininterrottamente per 20 anni o per il periodo minore previsto dalle norme sull’usucapione dei diritti reali di
godimento.
Tra le regole che riguardano l’esercizio delle servitù si ritrovano due principi:
• le opere necessarie all’esercizio devono essere costruite nel tempo e nel modo in cui rechino “minore incomodo” al
proprietario del fondo servente;
• le spese sono a carico del proprietario del fondo dominante, salvo che giovino anche al fondo servente: in tal caso, le
spese si dividono in proporzione dei rispettivi vantaggi.

Le servitù si estinguono per confusione, per rinuncia e per prescrizione in caso di non uso prolungato per 20 anni.

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CAP. 13.
LA COMUNIONE
1. La comunione.
Secondo l’art. 1100, le norme dedicate alla comunione regolano la situazione in cui “la proprietà o altro diritto reale
spetta in comune a più persone”.
La comunione è la contitolarità di un diritto reale: comproprietà, cousufrutto, cosuperficie, eccetera.
La contitolarità si può verificare anche nei diritti su beni immateriali, creando situazioni analoghe alla comunione. Si
può verificare, inoltre, riguardo al credito o al debito.
Si usa distinguere tre possibili origini della situazione di comunione:
• comunione volontaria, si realizza per volontà delle parti;
• comunione incidentale, si attua indipendentemente dalla volontà delle parti (esempio comunione tra eredi, che
riguarda tutti i beni del defunto non attribuiti per legato);
• comunione forzosa, cioè imposta dalla legge a una o tutte le parti (esempio il diritto potestativo della comunione
forzosa del muro, o quella che si realizza nel condominio per quanto riguarda le parti comuni).
Un particolare modo di costituzione della comunione è quello della comunione legale tra i coniugi, che riguarda i beni acquistati,
anche separatamente, dopo il matrimonio. In questo caso, le parti sono libere di non attuare la comunione, ma, in caso di silenzio,
si applica la comunione.
Il problema che si pone il legislatore per quanto riguarda la contitolarità dei diritti reali è quello di stabilire un equilibrio tra
l’interesse individuale del singolo e l’interesse collettivo dell’insieme dei contitolari. L’art. 1102 prevede che “ciascun partecipante
può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso
secondo il loro diritto”: a tal fine, egli può, anche a sue spese, fare modifiche necessarie per un migliore godimento della cosa.
L’uso, dunque, è un diritto del singolo

La seconda prerogativa di ciascun partecipante è quella di poter disporre del suo diritto, e cioè della quota. L’idea di quota è lo
strumento concettuale con cui si concilia la titolarità collettiva della proprietà sulla cosa, e la libertà del singolo di disporre del suo
diritto.
La quota è a sua volta un bene, che rappresenta un cespite attivo nel patrimonio del singolo partecipante. Il partecipante ne può
disporre e ne può fare anche l’oggetto di una garanzia per i suoi creditori. Il comproprietario può nei limiti della quota, cedere ad
altri il godimento della cosa.
Può inoltre chiedere in ogni momento lo scioglimento della comunione (art. 1111): se gli altri non consentono, la domanda va
rivolta al giudice, che ordina lo scioglimento e procede alla divisione. Può però esserci sulla cosa un patto di non divisione per un
periodo massimo di 10 anni. Inoltre, non si può chiedere lo scioglimento quando si tratta di cose che, se divise, cesserebbero di
servire all’uso cui sono destinate.
Per la disposizione del diritto sulla cosa comune (non della quota) è necessario il consenso di tutti i partecipanti (in questo caso è
tutelato l’interesse del singolo). L’unanimità protegge il singolo contro decisioni che non condivide.

Per tutto ciò che riguarda l’amministrazione del bene comune prevale, invece, un criterio di tutela dell’interesse collettivo, che si
esprime nel principio della maggioranza. Tutti i partecipanti hanno diritto di partecipare alle deliberazioni, per l’ordinaria
amministrazione, a maggioranza semplice calcolata secondo il valore delle quote, per le innovazioni e la straordinaria
amministrazione, invece, con la maggioranza di due terzi.

In definitiva, la comunione non stabilisce alcun vincolo di destinazione dei beni; rimane la libera disponibilità della quota e la
possibilità che i creditori aggrediscano la cosa comune: l’interesse collettivo, dunque, non è al riparo da rischi. Da questo punto di
vista, è molto importante distinguere la comunione da altre forme di proprietà collettiva come quella fra coniugi nella comunione
legale o come quella fra i soci di una società.

2. Il condominio degli edifici.


Il condominio è una particolare forma di proprietà degli edifici, che combina in sé la proprietà individuale e la
comunione. Supponiamo che tre fratelli eredino una casa, con tre appartamenti. Tra loro si stabilisce una situazione di
comunione: il diritto di proprietà su tutto l’edificio e in ogni sua parte spetta in comune ai tre fratelli. Supponiamo però che essi
procedano a divisione, assegnando a ciascuno la proprietà di uno dei tre appartamenti. In questo caso si realizza la situazione di
condominio: la proprietà di ciascun appartamento spetterà in modo esclusivo ad ogni singolo fratello, mentre le parti comuni
saranno soggette a comunione. È la cosiddetta proprietà orizzontale.

Le regole di riferimento sono enunciate agli artt. 1117 e ss.


In base alla nuova disciplina (2012) le regole sul condominio si applicano anche a più unità immobiliari o più edifici
che abbiano parti comuni. Si tratta di tutte quelle villette o unità immobiliari che fanno parte di un complesso
condominiale perché legati tra loro dall’esistenza di alcune parti comuni come il viale d’accesso, le zone verdi, ecc.
(c.d. supercondominio).
Oggetto di proprietà collettiva sono le parti comuni.

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Rispetto alle parti comuni, il diritto del singolo segue alcune regole proprie alla comunione (come per l’uso), ma se ne
allontana in conseguenza del carattere forzoso e indivisibile della comunione che qui si realizza.
Inoltre, la quota ideale del bene comune può essere ceduta solo insieme alla proprietà esclusiva del piano o della
porzione di piano.
Infine, non c’è per il condominio la possibilità di liberarsi dall’obbligo di contributo alle spese di manutenzione, salva
la possibilità di rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo
distacco non derivino notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini.

Tutto il problema dell’amministrazione è regolato in modo più dettagliato della semplice comunione.
Si distinguono tre gruppi di atti:
• Atti di ordinaria amministrazione: la delibera richiede un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli
intervenuti (dei presenti) e almeno la metà del valore dell’edificio, in prima convocazione, e un terzo dei condomini e
almeno un terzo del valore, in seconda convocazione;
• Atti di straordinaria amministrazione: è necessario un numero legale per la valida costituzione dell’assemblea (due terzi
dei condomini in prima convocazione, un terzo in seconda) e una maggioranza dei presenti e del valore;
• Innovazioni dirette al miglioramento delle cose comuni: è anche qui necessario il numero legale degli atti di
straordinaria amministrazione, ma la votazione “passa” se votano sì la maggioranza qualificata del 50% +1 dei
condomini che siano proprietari di almeno due terzi del valore del condominio.
Fanno eccezione le innovazioni di utilità sociale, come quelle volte a migliorare la sicurezza degli edifici o quelle per la
produzione di energie rinnovabili o quelle per abbattere barriere architettoniche. Tali innovazioni sono valide se
deliberate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli interventi all’assemblea e almeno la metà del
valore del condominio (come se fossero atti di ordinaria amministrazione).

Se i condomini sono più di otto, l’assemblea deve nominare un amministratore di condominio (art. 1129).
L’assemblea gi può richiedere la presentazione di una polizza di responsabilità civile per gli atti compiuti nell’esercizio
del suo mandato.
È previsto l’obbligo di attivare un conto corrente intestato al condominio dove far transitare tutte le somme di
denaro ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi riferibili al condominio.

Quando il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento che contenga le regole
relative all’uso delle cose comuni e alla ripartizione delle spese.

3. La multiproprietà.
Multiproprietà: un immobile viene venduto, con atti separati, ad una pluralità di acquirenti. Si tratta, in genere, di
complessi immobiliari in località turistiche.
Il contratto prevede che ciascun acquirente abbia diritto ad una utilizzazione esclusiva dell’unità prescelta, solo per
un determinato periodo di tempo. Ciascun acquirente può dunque utilizzare la cosa solo nel suo “turno”: si parla
perciò anche di “proprietà turnaria”.
Si acquista una permanente disponibilità dell’immobile, esclusiva ma limitata a un periodo dell’anno: in sostanza, un
certo tempo/abitazione.

Si potrebbe vedere nella multiproprietà una comunione, in cui ogni multiproprietario è titolare di una micro-quota
del bene. La limitazione temporale riguarderebbe solo il godimento del bene comune da parte dei micro-
comproprietari; la clausola che la prevede avrebbe solo effetti obbligatori, dunque non sarebbe trascrivibile.
Altrimenti, si potrebbe guardare alla multiproprietà come ad un diritto non diverso dalla proprietà individuale, che
avrebbe ad oggetto il tempo/cosa: un diritto antico per un bene nuovo, definito non solo da una identità materiale e
spaziale, ma da una collocazione temporale; il limite temporale sarebbe allora trascrivibile.

Si parla infine di multiproprietà alberghiera nei casi in cui il godimento turnario del bene sia assicurato, insieme ad
alcuni servizi, attraverso la cooperazione di un gestore cui l’acquirente si lega con un contratto misto.

CAP. 14.
IL POSSESSO
1. La nozione di “possesso”.
Secondo l’art. 1140: “il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della
proprietà o di altro diritto reale.”

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La fattispecie che la norma descrive è un comportamento: vale a dire un comportamento che si presenta
all’osservatore tale quale la condotta di un proprietario, o del titolare di altro diritto reale.
Quindi tutto ciò che conta, secondo la disposizione, è che il soggetto si comporti di fatto come il proprietario, o come
il titolare di altro diritto reale. La parola “potere” indica il controllo di fatto che il possessore ha sulla cosa: possessore
è colui che di fatto ha “in suo potere” la cosa.
La definizione si precisa aggiungendo al termine potere la qualificazione “di fatto”: il possesso è il potere di fatto sulla
cosa che si manifesta...: la formula “potere di fatto” è usata nell’art. 1141, comma 1°.

2. La rilevanza del possesso.


Al possesso sono collegati due ordini di effetti:
• Un sistema di protezione dello stato di fatto contro spoliazioni, turbative e molestie (le azioni possessorie)
• La possibilità di trasformare la situazione di possesso senza diritto nella titolarità del diritto corrispondente (acquisto di
un diritto reale per usucapione).
La tutela giudiziale del possesso trova ragione nell’interesse generale a conservare una pacifica convivenza.
Stabilendo il principio per cui si protegge in prima istanza, lo stato dei fatti, si scoraggia chi volesse forzarlo per
ristabilire da sé il proprio diritto. Questa tecnica da rilievo, in via immediata e provvisoria, allo stato di fatto e ne
consente il ripristino o la protezione tramite l’azione possessoria, rinviando ad altra sede l’azione petitoria.
Supponiamo che, attraverso un terreno, corra un sentiero per il quale passano i proprietari dei terreni retrostanti e
un bel giorno il proprietario chiude il passaggio. Una tecnica di soluzione del conflitto sarebbe quella di aprire la
questione dell’esistenza o non esistenza di una servitù di passaggio (azione petitoria). Chi agisce dovrebbe provare di
essere proprietario del fondo dominante e di avere il diritto di servitù; prove non sempre facili e soggette a molte
contestazioni che potrebbero causare un lungo scorrere di tempo e, nel frattempo, il passaggio resterebbe chiuso.
Ecco allora la diversa tecnica di soluzione: l’attore dovrà solo provare che si comportava come titolare della servitù.
Su questa base il giudice provvederà anzitutto a ripristinare lo status quo tramite l’azione possessoria.
Successivamente si potrà aprire la questione relativa al diritto di passare.

La separazione tra il giudizio possessorio e il giudizio peritorio era affidata a due regole:
- Art. 705 cod. proc. civ. vietava al convenuto in un giudizio possessorio di proporre giudizio petitorio, finché la
controversia relativa al possesso non fosse stata definita e la decisione eseguita.
- Art. 1168 comma 4°, il convenuto in giudizio possessorio non può difendersi opponendo eccezioni di natura petitoria,
cioè fondate sul suo diritto di proprietà o altro diritto reale sulla cosa.

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo dell’art. 705 cod. proc. civ. nella parte in cui subordina la
proposizione del giudizio petitorio alla definizione della controversia possessoria e all’esecuzione della decisione, nel caso in cui da
ciò possa derivare un pregiudizio irreparabile al convenuto.

3. I requisiti del possesso. La detenzione.


La definizione di possesso come attività che corrisponde all’esercizio effettivo di un diritto reale giustifica i due più
importanti requisiti della fattispecie:
• l’uso della cosa non può derivare solo dalla benevola tolleranza del proprietario: tolleranza non crea possesso.
• possessore è colui che utilizza la cosa come la utilizzerebbe il proprietario (c.d. animus possendi). Non è possessore chi
da segno di riconoscere un diritto altrui.

Detenzione: è il potere di fatto sulla cosa di chi la tiene o la utilizza riconoscendo un diritto altrui.
Al secondo comma del solito art. 1140 viene sancito che si può possedere direttamente o per mezzo di un’altra
persona che ha la detenzione della cosa. Infatti, se io presto un’automobile a un mio amico non smetto di
possederla; la possiedo tramite il mio amico, che la detiene. Detentore è colui che da segno di riconoscere un
“potere” altrui.
La detenzione non può mutarsi in possesso per pura volontà del detentore; se non c’è un oggettivo cambiamento
della situazione occorre un atto di opposizione, con cui il detentore dà segno di non riconoscere un potere altrui.
Per quanto riguarda le prove, l’art. 1141 dispone che il possesso si presume in colui che esercita il potere di fatto:
occorre quindi provare che costui ha cominciato ad esercitare l’effettivo possesso della cosa come detentore.
Interversione del possesso: se una persona possiede, per esempio, a titolo di usufrutto, può mutare il suo possesso in
possesso a titolo di proprietà compiendo atti di opposizione contro il potere del proprietario.

4. L’acquisto del possesso.


Il possesso si acquista in modo originario per apprensione (impossessamento d’iniziativa di chi diviene possessore) e
in modo derivativo per consegna, che può essere anche simbolica (consegna delle chiavi, dei documenti, ecc.).

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L’acquisto derivativo del possesso può realizzarsi anche senza la consegna quando:
• l’acquirente è già detentore e diventa possessore (es. l’inquilino acquista l’appartamento in cui abita)
• chi cede il possesso conserva la detenzione della cosa, e “costituisce” nel possesso l’acquirente (es. il venditore
costudisce la cosa venduta in attesa della consegna)

Il possesso attuale non fa presumere il possesso anteriore. Il possesso si presume solo se:
• la persona ha posseduto in tempo più remoto, si presume il possesso intermedio, salva prova contraria
• la persona possiede in base a un titolo si presume che possieda dalla data del titolo, sempre salva prova contraria.

Successione nel possesso: il possesso del defunto continua nell’erede. L’erede succede nel possesso così come era nel defunto e
ne assume le conseguenze.
Accessione del possesso: il successore a titolo particolare (colui che subentra in uno o più rapporti determinati; es. chi compra),
sia a causa di morte sia che tra vivi, può giovarsi degli effetti favorevoli del possesso ma evitare quelli sfavorevoli, come, per
esempio, quelli derivanti dal possesso in mala fede.

Il possesso continua nelle mani del successore mortis causa e del successore a titolo particolare. Se quindi, ad esempio, il primo
possessore dona la cosa al secondo possessore ed entrambi la abbiamo posseduta per dieci anni, il possessore diventa
proprietario per usucapione.

È possessore di buona fede (art. 1147) colui che possiede ignorando di leder l’altrui diritto. Ciò che qualifica il
possesso è, quindi, uno stato soggettivo (buona fede possessiva) che consiste in una ignoranza non colpevole.
La buona fede soggettiva è presunta e basta che sussista al tempo dell’acquisto del possesso.

5. Gli effetti sostanziali del possesso.


Una prima serie di norme regola “i diritti e gli obblighi del possessore nella restituzione della cosa” (artt. 1148-1152).
Art.1148 cc: Il possessore di buona fede fa suoi i frutti naturali e civili fino al giorno della domanda giudiziale
(rivendicazione). Egli risponde, verso il rivendicante, dei frutti percepiti dopo la domanda giudiziale e anche di quelli
che avrebbe potuto percepire dopo tale data, usando la diligenza del buon padre di famiglia.
Diritto di ritenzione (art. 1152): facoltà di non restituire la cosa rivendicata finché non sia stata pagata l’indennità.
Questo diritto spetta al possessore di buona fede.
L’art. 1153 prevede che la persona a cui è alienato un bene mobile non registrato ne acquisti la proprietà, anche se
l’alienante non era proprietario della cosa, purché egli sia in buona fede al momento dell’acquisto e abbia acquistato
il bene sulla base di un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà.
Per “titolo“ e “astrattamente idoneo” si intende un atto giuridico (compravendita, donazione, ecc.) valido (non nullo,
né annullabile), anche se in concreto non potrebbe produrre quell’effetto perché manca nell’alienante il potere di
disporre. L’acquisto del possesso in buona fede non sana i vizi dell’atto ma solo il difetto di legittimazione.

La priorità di acquisto del possesso di buona fede risolve anche il conflitto tra due aventi causa dello stesso autore.
L’art. 1155 stabilisce che se un soggetto vende a più acquirenti il medesimo bene mobile, diventa proprietario del
bene colui che ne ha acquistato per primo il possesso in buona fede, anche se il suo contratto di alienazione è di data
posteriore.

Effetto importante del possesso è ovviamente l’usucapione. Le giustificazioni più semplici e convincenti sono due: si
premia l’attiva utilizzazione delle cose e si fa coincidere la situazione di diritto con una situazione di fatto consolidata
nel tempo, in omaggio della chiarezza e sicurezza dei rapporti giuridici.
Né l’una né l’altra ragione danno peso alla buona fede del soggetto. Infatti, l’importante è che il possesso sia pacifico
e pubblico (nel caso il possesso fosse stato acquistato in modo clandestino o violento, l’usucapione potrà decorrere
solo quando la clandestinità o la violenza saranno cessate); che sia continuato per il tempo previsto dalla
legge e che non sia stato interrotto per atto del proprietario o di terzi che ne abbiano privato il possessore per oltre
un anno.
Il possesso può essere esercitato anche “a titolo” di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie, servitù, tutti i
diritti reali possono essere acquistati per usucapione.
Per quanto riguarda i tempi, il termine ordinario di usucapione è di vent’anni (sia mobili che immobili che universalità
di mobili).
Questo termine si riduce a dieci anni, per i beni immobili, se c’è buona fede, un titolo idoneo a trasferire la proprietà
e la trascrizione dell’atto. Con gli stessi requisiti si riduce a tre anni l’usucapione di beni mobili registrati. I beni mobili
non registrati fanno ridurre il termine a dieci anni se c’è buona fede; se oltre alla buona fede vi è anche un titolo
idoneo la proprietà viene acquistata immediatamente (non è usucapione).

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Il decorso del termine può essere sospeso o interrotto per le stesse cause che valgono per la prescrizione.

CAP. 15.
LA TUTELA DELLA PROPRIETÀ E DEL POSSESSO
1. Le azioni petitorie.
Proprietà e diritti reali limitati hanno in comune il carattere di diritti “assoluti”, cioè che si possono far valere “verso
tutti”. Questo carattere si riflette anche nelle azioni (cosiddette petitorie) con cui il diritto reale si fa valere in
giudizio. Chi agisce per valere un diritto relativo può chiamare in giudizio solo la persona obbligata (dispone ciò di
una azione personale) il titolare di un diritto assoluto può agire contro chiunque tenga un comportamento tale da
impedire, ostacolare, o semplicemente molestare il pieno e pacifico esercizio del diritto “sulla cosa”: egli dispone
dunque di una azione reale.

1.1 Azioni a difesa della proprietà.


La prima azione a tutela del diritto di proprietà è la rivendicazione.
Ciò che si chiede è la consegna o la restituzione della cosa di cui il proprietario ha perduto, o non ha mai avuto, il
possesso (cioè la disponibilità di fatto). L’azione segue la cosa, perché non è rivolta solo contro la persona che,
poniamo, per prima si è impossessata della cosa, ma contro chiunque la tenga al momento in cui il proprietario
agisce. Una volta che l’azione è iniziata, il convenuto non può liberarsene cedendo ad altri il possesso della cosa:
anche se lo fa, rimane obbligato a recuperarla per l’attore e, in mancanza, a pagargliene il valore, oltre a risarcirgli il
danno.

Naturalmente chi agisce in rivendicazione deve provare di essere proprietario, secondo la regola generale sull’onere
della prova.
La prova della proprietà si considera diabolicamente difficile. Ogni acquisto a titolo derivativo attribuisce
all’acquirente solo ciò che l’alienante può trasferirgli: quindi, in forza di un acquisto a titolo derivativo, io divengo
proprietario solo se ho comprato da un (vero) proprietario, e quest’ultimo lo è solo se a sua volta ha “acquistato
bene”, e così via: la prova di avere acquistato il diritto di proprietà non è raggiunta fino a quando non sia accertato
un acquisto a titolo originario. In realtà, questa ricerca dell’acquisto a titolo originario non è poi così diabolicamente
difficile: se si tiene conto degli effetti della usucapione, basterà provare che qualcuno, abbia posseduto la cosa per
un periodo di tempo sufficiente ad acquistare comunque la proprietà a titolo originario. Questo periodo si può
“costruire” sommando i periodi più brevi, consecutivi, in cui i diversi soggetti hanno posseduto la cosa (successione o
accessione nel possesso).
Se il proprietario ha interesse solo alla restituzione della cosa in mano ad altri, e non anche all’accertamento del suo
diritto di proprietà, può ricorrere ad azioni in cui non è richiesta la prova della proprietà, e cioè o alle azioni
possessorie o all’azione che deriva da un contratto, per il quale egli abbia diritto alla restituzione o alla consegna
(p.es. compravendita, deposito, comodato). Alla rivendicazione ricorrerà solo chi abbia perduto la possibilità di agire
per la tutela del possesso (a causa della prescrizione) o abbia comunque interesse a ottenere l’accertamento della
proprietà. Questo però può essere chiesto anche senza domanda di restituzione: si tratta allora non di
rivendicazione, ma di una azione di accertamento della proprietà.

Come il diritto di proprietà non è prescrittibile, così non lo è l’azione di rivendicazione. Ma solo l’imprescrittibilità
dell’azione di rivendicazione è espressamente enunciata dalla legge, non quella del diritto di proprietà. Si tenga
sempre presente, però, che l’inerzia del proprietario può permettere al possessore di usucapire la cosa.

Un’altra azione che spetta al proprietario è l’azione negatoria, che è diretta a “far dichiarare l’inesistenza di diritti
affermati da altri sulla cosa, quando il proprietario ha motivo di temerne pregiudizio”: oltre all’accertamento, il
proprietario può chiedere che il giudice ordini la cessazione delle eventuali molestie e turbative (inibitoria), e
condanni l’altra parte al risarcimento del danno.

Le ultime due azioni riguardano il problema dei confini. Il confine tra due fondi può essere “incerto”: ciascuno dei
proprietari, allora, può chiedere che il confine sia stabilito giudizialmente (azione di regolamento dei confini). Poiché
l’azione spetta ad entrambi, i ruoli di attore e convenuto sono interscambiabili. Il legislatore tende dunque ad evitare
che rimanga un’incertezza, ammettendo ogni mezzo di prova; se incertezza rimane, il giudice si attiene al confine
desumibile dalle mappe catastali (che normalmente non sono un mezzo di prova).

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
L’azione di apposizione di termini suppone che non ci sia controversia sui confini, ma che le parti non si accordino
per mettere i segni di delimitazione delle due proprietà: in tal caso, ciascuno dei proprietari può chiedere che i
“termini” (cioè i segni di confine) siano collocati o ricollocati a spese comuni.

Al proprietario spettano, infine, le due azioni cosiddette “di nunciazione”.

1.2 Azioni a difesa dei diritti reali limitati.


Il titolare di una servitù può:
1) Farne riconoscere in giudizio l’esistenza contro chi ne contesta l’esercizio
2) Far cessare le turbative e gli impedimenti
3) Chiedere la rimessione in pristino, cioè che sia ricostituito lo stato di cose preesistente alle turbative
4) Il risarcimento dei danni

Alla prima domanda ci si riferisce con il nome di azione confessoria, che si presenta come l’immagine speculare
dell’azione negatoria: là si trattava dell’interesse del proprietario a far dichiarare l’inesistenza di un diritto limitato,
qui, all’opposto, dell’interesse del titolare di un diritto reale su cosa altrui a farne dichiarare l’esistenza; entrambe
sono azioni di accertamento, nelle quali però la domanda si estende alla cessazione delle turbative (cosiddetta
inibitoria).

Per i titolari di diritti di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, o del diritto di superficie si applica per analogia la norma
relativa alla azione confessoria.
Al titolare di proprietà superficiaria spettano inoltre le azioni a difesa della proprietà.

2. Le azioni possessorie.
Si distinguono due gradi diversi di protezione del possesso:
• Qualunque possessore (buona o mala fede) è protetto contro lo spoglio, cioè la privazione violenta o
clandestina del possesso; egli può chiedere al giudice entro un anno dallo spoglio, di essere reintegrato nella
sua posizione: “azione di reintegrazione”.
Come vanno le cose se lo spogliato è un possessore che non ha diritto a tenere la cosa, e magari se ne è
impossessato rubandola o sottraendola con violenza al proprietario?
Supponiamo, per fare un esempio, che una persona “occupi” un appartamento sfitto. Il proprietario subisce,
in questo caso, uno spoglio e può quindi agire in reintegrazione. Se però tollera la situazione per più di un
anno, perde questa possibilità e potrà agire solo in sede petitoria tramite la rivendicazione.
Qualora decida di voler sistemare le cose da sé, il sistema del possesso funziona a favore dell’occupante, il quale può
chiedere al giudice la reintegrazione.
Anche il detentore può agire per lo spoglio: per esempio, un inquilino. L’azione non spetta, invece, se la
detenzione è dovuta a ragioni di ospitalità o di servizio: quindi, gli ospiti si possono cacciare di casa senza
rischio di vedersi fare causa.
• Una più completa tutela è disposta a favore di un possessore di immobili o di universalità di mobili il cui
possesso abbia i requisiti già visti per l’usucapione e sia durato almeno un anno (azione di manutenzione); in
tal caso, il possesso è protetto:
- Contro le molestie
- Contro una privazione del possesso non violenta né clandestina (esempio, contro una persona cui si
è concesso gratuitamente l’uso di un appartamento, e che non se ne vuole andare).
Anche qui l’azione può essere esperita solo entro l’anno dalla turbativa o dallo spoglio.

3. Le azioni di nunciazione.
Due azioni che spettano sia al possessore sia al proprietario, o titolare di altro diritto reale, anche se non possessore
(cosiddette azioni di nunciazione, cioè di denunzia).
La denunzia di nuova opera può essere esperita quando si ha “ragione di temere” che da una nuova opera intrapresa
nel fondo altrui, possa derivare (come diretta conseguenza) un danno alla propria cosa; l’opera però non deve essere
terminata.
Simile svolgimento ha la denunzia di danno temuto che si riferisce al pericolo di un danno “grave e prossimo”, ma
derivante da uno stato di cose già esistente, cioè da un “edificio, albero, o altra cosa” siti nel fondo altrui.
In entrambi i casi il giudice può disporre in via provvisoria.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato

Sezione Terza: CREDITO


CAP. 16.
L’OBBLIGAZIONE
1. Il rapporto obbligatorio e le sue fonti.
La parola obbligazione indica il rapporto tra un debitore e un creditore; il primo obbligato verso il secondo a dare, o
fare, o non fare qualcosa: in sintesi, ad una prestazione suscettibile di valutazione economica.
In sostanza, dunque, qualsiasi relazione economico-giuridica che preveda obblighi tra le parti riveste i caratteri
dell’obbligazione.
Come ogni rapporto giuridico l’obbligazione nasce da un fatto o da un atto che ne è il titolo o la fonte.
L’art. 1173, che indica le fonti delle obbligazioni, elenca il contratto, il fatto illecito, e ogni altro atto o fatto idoneo a
produrle in conformità dell’ordinamento giuridico.
Il contenuto normativo di questo elenco sta soprattutto nella diversa considerazione del contratto e dell’illecito
rispetto a fatti di altro tipo: al contratto e all’illecito la norma riconosce senz’altro il ruolo di titolo di rapporti
obbligatori; per altri fatti o atti invece, si fa rinvio ad altre norme, dalle quali risulti, di volta in volta, l’idoneità a
fungere da fonte di obbligazione.
Le fonti diverse dal contratto e dall’illecito sono molte: il testamento, che è fonte di obbligazioni per eredi e legatari,
il matrimonio e la filiazione, che danno origine a obblighi patrimoniali di mantenimento e di alimenti; per non parlare
delle obbligazioni che nascono da sentenze del giudice, come le sentenze di condanna.
In ambito pubblico, poi, la legge collega obblighi fiscali ad una quantità di “altri fatti”: dalla titolarità di reddito, alla
proprietà di determinati beni, ai trasferimenti di ricchezza ecc.

L’art. 1173 si caratterizza per la sua formulazione atipica ed elastica, che rimanda ad ogni altro atto o fatto idoneo a
produrre obbligazioni in conformità all’ordinamento giuridico. Giovandosi di ciò, la giurisprudenza ha ravvisato nel
contatto sociale una fonte di obbligazione, tale da consentire di riconoscere il fondamento di una responsabilità
“contrattuale” in alcune ipotesi problematiche poste ai confini tra contratto e fatto illecito.
La figura è stata evocata per la prima volta dai giudici di legittimità per risolvere l’annosa questione della natura della
responsabilità del medico dipendente da struttura ospedaliera.

3. La prestazione.
Il Codice civile non da una definizione di obbligazione, ma stabilisce i “caratteri” essenziali della prestazione che
forma oggetto dell’obbligazione, dicendo che “deve essere suscettibile di valutazione economica e deve
corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale, del creditore”. Art. 1174.
L’obbligazione si caratterizza dunque per l’oggetto: è obbligazione quel rapporto nel quale una parte (il debitore) è
tenuta ad una prestazione a carattere patrimoniale (suscettibile di valutazione economica) in vista della
soddisfazione di un interesse dell’altra parte (il creditore). Analizziamo brevemente i caratteri essenziali della
prestazione.

Uno schema tradizionale di classificazione distingue, quanto al contenuto della prestazione, obbligazioni di dare, di
fare, di non fare.
• L’obbligazione di dare è anzitutto quella in cui il debitore è tenuto alla consegna di una cosa. Il dare non va
inteso solo in senso materiale, ma anche come trasferimento della proprietà: se io vendo, la mia
prestazione di debitore è trasferire la proprietà al compratore e poi anche consegnargli materialmente la
cosa venduta. La prestazione non è la cosa, ma il dare la cosa: questo è l’oggetto dell’obbligazione; oggetto
della prestazione è la cosa che si tratta di dare.
• L’obbligazione di fare è quella in cui il debitore è tenuto a svolgere una attività, il cui compimento soddisfa
un interesse del creditore. Così è in gran parte dei contratti “tipici” regolati nel Codice civile.
• Quanto alle obbligazioni di non fare, esse richiedono al debitore una omissione, cioè di astenersi da
un’attività: si tratta insomma di un divieto.

La prestazione deve “corrispondere a un interesse del creditore” (art. 1174). La norma sottolinea che il rapporto
obbligatorio si regge su una relazione funzionale tra la prestazione e un interesse del creditore che la prestazione
deve soddisfare. Definire l’interesse del creditore significa stabilire il parametro con cui valutare se la condotta del
debitore soddisfa quanto l’obbligazione gli impone, o lascia invece inadempiuto l’obbligo.

La prestazione cui il debitore è tenuto dev’essere “suscettibile di valutazione economica”: dev’essere possibile, cioè,
determinarne un valore, che possa esprimersi in un equivalente in denaro. Al comportamento del debitore (dare,

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fare, non fare) si potrà assegnare un valore perché si tratta di una prestazione comunemente apprezzata nei rapporti
economici. La prestazione può anche non avere un valore di mercato ma assumere una rilevanza economica nel
rapporto tra debitore e creditore.
Quel che conta, dunque, è che il rapporto tra le parti sia caratterizzato da un indice di patrimonialità della
prestazione.
La patrimonialità della prestazione non implica la patrimonialità dell’interesse da soddisfare. La prestazione può
corrispondere anche a un interesse non patrimoniale del creditore (es: corso di meditazione).

3. Il rapporto tra debitore e creditore.


La norma fondamentale del rapporto tra creditore e debitore è quella dell’art. 1175 che impone a entrambe le parti
del rapporto obbligatorio un dovere di correttezza. Esso assume contenuti diversi per il debitore e per il creditore:
• Debitore: l’obbligo si precisa nel dovere di usare una media diligenza nell’adempiere l’obbligazione:
• Creditore: deve anch’esso comportarsi correttamente; egli ha un dovere di collaborazione con il debitore
perché questi possa adempiere; e in caso di inadempimento, deve a sua volta usare un’ordinaria diligenza
perché siano evitate o limitate le conseguenze dannose dell’inadempimento.

4. Correttezza e buona fede.


Lo schema del rapporto obbligatorio si realizza ogni volta che tra due parti si stabilisca una relazione giuridicamente
rilevante a carattere patrimoniale; il che avviene nei campi e per effetto delle fattispecie più svariate: ebbene, tutti
questi rapporti sono governati dalla regola fondamentale espressa dall’art. 1175, il dovere di correttezza.

Occorre sottolineare il collegamento sistematico con altre regole: si tratta delle regole che prescrivono una condotta
di buona fede. Già nelle trattative, dice l’art. 1337, le parti debbono comportarsi secondo buona fede. Ma la norma
che più da vicino si collega all’art. 1175 è quella dell’art. 1375, che regola l’esecuzione del contratto ed impone alle
parti un comportamento secondo buona fede.
L’espressione “buona fede” serve a definire un dovere di comportamento (cosiddetta buona fede oggettiva): il
dovere di comportarsi da persone oneste e leali, o, come più speditamente si può dire, il dovere di correttezza.

L’idea di buona fede ha varie applicazioni e diversi significati, riconducibili però ad uno stesso valore.
Sia nella disciplina delle obbligazioni, sia in quella del contratto, altre norme fanno riferimento alla buona fede non
per stabilire un dovere di comportamento (la buona fede oggettiva) ma per indicare una situazione psicologica
(cosiddetta buona fede soggettiva) che giustifica la protezione accordata all’interesse di una delle parti.
La buona fede soggettiva consiste dunque in una ignoranza, che deve però essere incolpevole, cioè non dipendere da
negligenza o leggerezza.
Regola comune a tutti i casi in cui rileva la buona fede soggettiva è che essa si presume: è la controparte che deve
provare la malafede.
Esiste un sostrato comune a tutte le norme che fanno riferimento alla buona fede, sia in senso oggettivo che
soggettivo: è il modello della persona onesta e leale. A questo modello fa riferimento, in campo contrattuale l’art.
1366.

Si disegna dunque un quadro in cui norme diverse ci appaiono come segnali di una sola linea di tendenza: un grande
principio che è il principio di buona fede, che ha il suo nucleo forte in materia di obbligazioni e contratti, ma si
espande poi in tutte le direzioni nell’ordinamento giuridico.

5. Obbligo e responsabilità.
La tradizione parla dell’obbligazione come di un vincolo, qualcosa di più di un dovere di comportarsi in un certo
modo. Quello che rimane, “in più” rispetto all’obbligo, è il legare tra dovere e responsabilità patrimoniale. L’art. 2740
stabilisce la regola fondamentale secondo cui “il debitore rispondere dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i
suoi beni presenti e futuri”, il che significa che i creditori possono rivalersi sui beni del debitore per soddisfare il loro
interesse quando il debitore manca di adempiere. Ecco allora che, assumendo un’obbligazione, il debitore espone i
suoi beni all’azione dei creditori e stabilisce un generico vincolo sul suo patrimonio.
L’obbligazione comprende così due elementi essenziali: obbligo e responsabilità.

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CAP. 17.
DISCIPLINA E VICENDE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO
I. ADEMPIMENTO E INADEMPIMENTO
1. L’adempimento.
Adempimento è l’esatta esecuzione della prestazione dovuta: inadempiente, infatti, è quel debitore che “non esegue
esattamente la prestazione”. È regolato dal Codice agli artt. 1176 e ss.
a) Criterio della diligenza nell’adempimento. L’art. 1176 dispone che nell’adempiere il debitore deve usare “la
diligenza del buon padre di famiglia”. Il buon padre di famiglia è una persona di buon senso, che non fa le
cose male ma neppure si vota alla perfezione.
La negligenza, o l’imperizia, o l’imprudenza, o comunque la mancata osservanza di regole dettate
dall’autorità, costituisce colpa del debitore. Poiché la diligenza richiesta non è quella massima, ma appunto
quella del buon padre di famiglia, una colpa cosiddetta lievissima non è rilevante. Il criterio della diligenza si
conferma, e si precisa, nel 2° comma dell’art. 1176, il quale riguarda l’adempimento delle obbligazioni
inerenti all’esercizio di un’attività professionale. Qui la diligenza richiesta non è quella generica del buon
padre di famiglia, ma la “diligenza tecnica” indicata dalla “natura dell’attività esercitata”: cioè il rispetto
delle regole dell’arte che saranno tanto più impegnative quanto più è delicata l’attività.
La diligenza richiesta al debitore diventa la misura per valutare l’esattezza dell’adempimento.
b) La rilevanza del risultato nell’adempimento. L’obbligo di eseguire la prestazione è funzionale a soddisfare un
interesse del creditore. Ebbene, non sempre questo interesse può dirsi soddisfatto dalla sola condotta
diligente del debitore; in molti casi, la pretesa del creditore ha ad oggetto una prestazione vista come
effettivo risultato del comportamento del debitore: l’esatto adempimento, in questi casi, richiede la
produzione del risultato.
La prevalenza della condotta diligente o del risultato, ai fini dell’adempimento dell’obbligazione, dipende dal
modo in cui sono regolati i singoli rapporti obbligatori, ed in particolare i rapporti contrattuali.
La questione verte soprattutto sulle obbligazioni di fare. In alcune, pare che la diligenza diventi l’oggetto
stesso dell’obbligazione: per esempio, nelle attività professionali in senso stretto, come quella dell’avvocato
o del medico il professionista è tenuto a svolgere al meglio la propria attività.
In altri rapporti invece, il debitore sembra tenuto a produrre un certo risultato, e non solo a comportarsi
secondo regole di diligenza: così, il trasportatore si obbliga a trasferire la cosa da un luogo all’altro, non ad
“adoperarsi” quanto può per farlo.
La differenza dipende dalla causa del contratto.
Sulla base di queste considerazioni, si è affermata la distinzione tra:
• Obbligazioni di mezzi: nelle quali il debitore è tenuto a una condotta diligente, e con essa
“adempie”.
• Obbligazioni di risultato: nelle quali il debitore è tenuto a produrre un certo risultato concreto,
senza il quale non si ha adempimento.

2. Modalità dell’adempimento.
I diversi problemi che sorgono riguardo a modalità e requisiti dell’adempimento sono risolti dal legislatore alla luce
dei criteri fondamentali: correttezza tra le parti, diligenza del debitore, interesse del creditore.

Per quanto riguarda il luogo dell’adempimento prima di tutto si guardi all’accordo tra le parti, poi gli usi, poi alla
natura della prestazione, poi ad altre circostanze dell’adempimento. Infine, si fa ricorso a tre regole suppletive:
a. Consegna di cosa determinata: va fatta nel luogo in cui era la cosa quando è sorta l’obbligazione.
b. Pagamento di somma di denaro: va fatto al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza
c. Altre prestazioni: vanno eseguite al domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza.
I debiti che devono essere pagati al domicilio del creditore si dicono portabili, quelli che vanno pagati al domicilio del
debitore si dicono chiedibili.

Quanto al tempo dell’adempimento: se la convenzione non stabilisce un termine, la prestazione va compiuta


immediatamente; se però gli usi, la natura della prestazione, il modo o il luogo dell’adempimento richiedono un
termine, questo, in mancanza di accordo, è stabilito dal giudice.
Importante è anche la regola sulla decadenza dal beneficio del termine: anche se è stabilito un termine a favore del

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debitore, il creditore può esigere immediatamente la prestazione se il debitore è divenuto insolvente o ha diminuito
le garanzie date o non ha dato quelle promesse.

Quando un debitore ha più debiti della medesima specie verso un creditore, c’è il problema di imputare il pagamento
all’una o all’altra obbligazione. Il debitore ha il vantaggio di poter dichiarare quale debito intende soddisfare anche
senza il consenso del creditore. Se il debitore non dichiara quale debito vuole estinguere, si applica un ordine: prima
il debito scaduto, poi il più oneroso per il debitore, poi il più vecchio.

Il debitore non può liberarsi dalla obbligazione eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta. Il creditore può,
se crede, accettare anche la prestazione offerta dal debitore in luogo dell’adempimento. In questo caso, il debito si
estingue quando la diversa prestazione è eseguita.

Il debitore che paga ha un diritto di ricevere a sue spese una quietanza, cioè una dichiarazione del creditore con cui
questi attesta l’avvenuto pagamento; egli ha pure diritto a vedere liberati i beni dalle garanzie reali date per il
credito.

3. I soggetti dell’adempimento.
L’adempimento ha due ideali protagonisti: il debitore e il creditore. Ciascuno indirettamente dispone di un proprio
interesse.
a. Capacità del debitore. Art. 1191 prevede che il debitore che ha eseguito la prestazione dovuta non può
“impugnare il pagamento a causa della propria incapacità”. La norma si presta a diverse interpretazioni.
Secondo una prima opinione, la disposizione vuole intendere che il pagamento non è trattato come un atto
negoziale ma come un atto giuridico in senso stretto, cioè un atto lecito, per il quale la legge stabilisce un
requisito di capacità minore, cioè la semplice capacità di intendere e di volere: dunque se chi paga non è in
grado di intendere e di volere, allora può chiedere e ottenere la restituzione.
Altri invece sottolinea che il pagamento è un atto dovuto; il creditore, che ha ricevuto quanto gli era dovuto,
non può essere obbligato a restituire. La norma andrebbe intesa dunque nel senso di escludere la rilevanza
di qualsiasi incapacità, e non solo di quella legale.
b. Capacità del creditore. Il creditore deve “accettare” la prestazione, cioè verificare che corrisponda a quella
dovuta; inoltre deve rilasciare quietanza, liberare i beni dalle garanzie, ecc. Sono tutte decisioni, atti di
autonomia: logico quindi che debba essere capace d’agire, nonché di intendere e volere.
Il pagamento fatto a persona incapace di riceverlo non libera il debitore, a meno che questi possa provare
che “ciò che fu pagato è stato rivolto a vantaggio dell’incapace”; cioè che la somma pagata a un incapace
legale è finita sotto il controllo del tutore o dei genitori, e che la somma pagata a un incapace naturale è
ancora nella disponibilità del creditore una volta superata la temporanea incapacità.
c. Legittimazione a pagare. Creditore e debitore sono parti sostanziali dell’adempimento; ma non è detto che
ne siano i protagonisti materiali.
Si è già accennato alla possibilità che un terzo adempia l’obbligazione, e si è detto che ciò può avvenire
anche contro la volontà del creditore, “se questi non ha interesse a che il debitore esegua personalmente la
prestazione”. L’opposizione del debitore non è considerata decisiva: egli può solo consentire al creditore di
rifiutare l’adempimento del terzo.
Diversa dall’adempimento del terzo è l’ipotesi in cui il debitore si faccia sostituire nel pagamento: ciò può
avvenire nelle obbligazioni di dare e anche in quelle obbligazioni di fare la cui esecuzione non sia
strettamente personale. Il creditore può rifiutare la prestazione del sostituto negli stessi casi in cui può
rifiutare l’adempimento del terzo, cioè quando ha interesse alla esecuzione personale da parte
dell’obbligato.
d. Legittimazione a ricevere. Il creditore non è l’unico possibile legittimato a ricevere. Il debitore si libera del
proprio debito anche se paga al rappresentante del creditore, o alla persona che, senza aver potere di
rappresentanza, è indicata dal creditore o dalla legge come autorizzata a riceverlo.
Il debitore può liberarsi del proprio debito anche se paga a chi non è legittimato a ricevere se colui al quale
ha pagato appariva legittimato in base a circostanze univoche (creditore apparente), e se il debitore ha
pagato in buona fede, cioè convinto, senza sua colpa, di pagare al creditore o a una persona che poteva
ricevere (un caso di buona fede soggettiva).

4. L’adempimento.
Le ragioni che possono determinare un inadempimento sono molte, e non tutte legate a una condotta biasimevole
del debitore.

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Dal punto di vista del legislatore, il problema è evidente: si tratta di dettare regole che distribuiscano il rischio di
eventi di questo genere tra creditore e debitore; se esonera il debitore da responsabilità, carica il rischio sul
creditore, se invece mantiene intatta la pretesa del creditore, carica il rischio sul debitore.
Nell’art. 1218 dedicato all’inadempienza vi è scritto che il debitore, il quale non esegue esattamente la prestazione
dovuta, deve risarcire il danno subito dal creditore se non prova che l’inadempimento o il ritardo sono stati
determinati da impossibilità della prestazione, derivante da causa a lui non imputabile. Dunque, la più grave difficoltà
non basta a liberare il debitore: questi è tenuto a ogni possibile sforzo, e sopporta tutto il rischio del mancato
adempimento. La diligenza, anche se massima, non basta per liberare il debitore, se non si è realizzato
l’adempimento; se invece l’adempimento è mancato per impossibilità, la negligenza, che abbia concorso a
determinare l’inadempimento, basta a far rispondere, ancora, il debitore.
Giurisprudenza e dottrina, poi, hanno dato alla parola “impossibilità” una interpretazione rigorosa, indicando due
requisiti:
• L’impossibilità dev’essere oggettiva: cioè non dipendere dalla particolare situazione del debitore
• Dev’essere assoluta, cioè tale da escludere anche la minima possibilità di eseguire la prestazione.
La durezza della regola, infine, si rafforza con il requisito della “causa non imputabile”: il debitore deve provare
l’esistenza di una causalità a lui esterna, e cioè praticamente il caso fortuito (una fatalità, un evento non prevedibile)
o la forza maggiore (un fatto o una situazione, anche prevedibile, cui non si può resistere) o un atto d’autorità.
In tal modo, la responsabilità del debitore si presenza come una responsabilità oggettiva, cioè che si realizza anche
senza colpa.
Per intere categorie di obbligazioni, la stessa liberazione per impossibilità è esclusa. Per esempio, all’obbligazione di
dare cosa generica non è mai oggettivamente impossibile, perché cose del genere promesso esistono in natura.
L’impossibilità si può verificare nel caso del c.d. genus limitatum, quando cioè oggetto dell’obbligazione sia la
consegna di una o più cose determinate per genere e qualità, ma appartenenti ad un insieme limitato: per esempio
una certa rimanenza di magazzino che viene venduta a prezzo ridotto. In questo caso, la distruzione fortuita di tutto
l’insieme (per esempio, l’incendio del magazzino) rende impossibile la prestazione.
Un attento lettore potrebbe ricordare che l’art. 1176 impone al debitore di adoperarsi nei limiti di una normale
diligenza. In realtà, l’art. 1176 riguarda il modo in cui si deve adempiere: la diligenza è un criterio di misura della
precisione richiesta al debitore che adempie, non un criterio generale di liberazione dall’obbligo di adempiere. Infatti,
si è già notato come in molti rapporti obbligatori (c.d obbligazioni di risultato), il debitore non possa liberarsi
provando di aver tenuto una condotta diligente, ma solo dimostrando che il creditore è stato effettivamente
soddisfatto.
D’altra parte, si è pure detto che nella disciplina di altri rapporti (c.d obbligazioni di mezzi) il principio della diligenza
prevale su quello del risultato: la prestazione dovuta tende a coincidere con un certo comportamento diligente,
tanto da permettere al debitore di liberarsi provando che la propria condotta è stata adeguatamente accurata; in tal
caso, non ogni sforzo possibile è richiesto al debitore, ma solo quello commisurato al dovere di diligenza.
Infine, va ricordato che l’intero rapporto obbligatorio è dominato dal reciproco dovere di correttezza imposto al
creditore e al debitore. Da questa norma si ricava un principio che limita l’art. 1218: se la correttezza vale non solo
come dovere, ma come criterio di valutazione di ogni atto del debitore o del creditore, allora la pretesa di
quest’ultimo, che esiga la prestazione nonostante essa sia ostacolata da circostanze che rendono l’impegno del
debitore oltremodo gravoso o difficoltoso, può apparire contraria a correttezza; esigere l’adempimento, in tali
condizioni, può costituire abuso del diritto del creditore: la prestazione, benché possibile, sarebbe inesigibile. Tra gli
esempi noti si ricordi il caso dell’inquilino che non aveva pagato il canone di locazione perché costretto a rimanere
nascosto durante l’occupazione tedesca sulla città di Roma.

5. Gli effetti dell’inadempimento.


La prima conseguenza dell’inadempimento è solennemente stabilita dall’art. 1218: “il debitore è tenuto a risarcire il
danno”. L’obbligo di risarcimento è imposto al debitore che “non esegue esattamente” la prestazione dovuta.
All’interno della “non esatta esecuzione”, il legislatore tende poi a distinguere l’inadempimento dal ritardo
nell’adempimento. Si può tuttavia parlare di inadempimento in tutte e tre le ipotesi (mancanza, difetto, ritardo): e
tutte danno origine alla responsabilità per inadempimento, cioè all’obbligo di risarcire il danno.
Una considerazione a parte merita, comunque, il colpevole ritardo del debitore nell’adempiere (c.d. mora del
debitore) in quanto determina ulteriori e particolari conseguenze.

L’altro grande ordine di effetti è disposto dall’art. 2740: “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con
tutti i suoi beni presenti e futuri”. Il termine “rispondere” assume qui un significato diverso. Si tratta della
responsabilità patrimoniale che altro non è che una garanzia patrimoniale generica, distinta dalle specifiche garanzie

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date dal debitore, cioè le garanzie reali (pegno e ipoteca) o personali (fideiussione ecc.). Questa responsabilità è un
aspetto della stessa obbligazione: dal momento in cui io assumo l’obbligazione, ne rispondo, con tutti miei beni, cioè
assoggetto i miei beni presenti e futuri all’eventuale azione dei creditori.

Per cercare una soddisfazione concreta del proprio interesse “contro” un debitore che non collabora, il creditore può
ricorrere al giudice perché disponga l’esecuzione coattiva. L’art. 2910 prevede l’espropriazione dei beni che, posti, in
vendita, procureranno i mezzi per soddisfare l’interesse economico del creditore; questo sistema previsto è l’unico
che vale per le obbligazioni di pagare una somma di denaro o di dare cose determinate solo nel genere: in tal caso,
l’esecuzione forzata sarà diretta a procurare al creditore anche il risarcimento del danno. Per le altre obbligazioni,
sono previste forme diverse di esecuzione in forma specifica: la consegna e il rilascio forzati di una cosa determinata;
l’esecuzione a spese dell’obbligato di obblighi di fare; la sentenza costitutiva che tiene luogo di un contratto non
concluso; la distribuzione di quanto fatto in violazione di un obbligo di non fare. Le varie forme di esecuzione
dimostrano che, con l’inadempimento, il debitore non è liberato dalla “vecchia” obbligazione per assumere solo
quella di risarcire il danno. L’originaria prestazione resta dovuta, e il creditore che ne abbia interesse può sempre
esigere l’adempimento, più il danno per il ritardo.

6. La mora del debitore.


Negli artt. 1219 e ss. viene disciplinata la mora del debitore. Mora è una parola che viene dal latino, e significa pure
ritardo. Ma tra il semplice fatto del ritardo e la mora c’è una differenza.
La norma dice che il debitore, il quale manca di adempiere nel tempo dovuto deve essere “costituito in mora” (ex
persona) mediante intimazione o richiesta di adempiere fatta per iscritto dal creditore. La costituzione in mora non è
necessaria in tre casi (mora automatica, ex re):
1. Quando il debito deriva da fatto illecito (il debitore è già in mora dal momento in cui il fatto è stato
compiuto);
2. Quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non voler adempiere;
3. Quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore (cosiddetti
debiti portabili).
L’art. 1220 prevede il caso in cui il debitore sia pronto ad adempiere, ma non lo possa fare perché il creditore non
riceve la prestazione; in tale ipotesi, il debitore “non può essere considerato in mora (anche se la prestazione non è
stata eseguita) se tempestivamente ha fatto offerta della prestazione dovuta”: si tratta della cosiddetta offerta “alla
buona”. L’offerta non vale a evitare la mora se il creditore aveva rifiutato la prestazione “per un motivo legittimo”.
L’art. 1222 contempla invece il caso delle obbligazioni negative, cioè di non fare, e dispone che le norme sulla mora
non si applicano a queste obbligazioni, perché ogni fatto compiuto in violazione di esse “costituisce di per sé
inadempimento” e non c’è quindi la possibilità di distinguere il fatto del non adempimento dalla situazione giuridica
per cui il debitore è considerato inadempiente.
Gli effetti della mora sono:
a. Il debitore è tenuto a risarcire i danni provocati dal ritardo nell’adempimento.
b. Se il debitore non è in mora, la sopravvenuta impossibilità non imputabile determina l’estinzione
dell’obbligazione; il debitore in mora, invece, anche qualora la prestazione divenga impossibile per causa a
lui non imputabile, non è liberato, ma resta responsabile per la mancata tempestiva esecuzione della
prestazione.
Se l’obbligazione aveva ad oggetto la consegna di una cosa determinata, il debitore può ancora liberarsi provando che
l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore; se però l’obbligazione era quella di restituire una
cosa illecitamente sottratta allora nessuna prova libera dall’obbligo di restituirne il valore.

7. La mora del creditore.


Si ha la mora del creditore quando questi rifiuti, senza un motivo legittimo, di ricevere il pagamento offertogli dal
debitore.
Questo può verificarsi in varie ipotesi: ad esempio, potrà esserci un dissenso tra creditore e debitore circa la
prestazione dovuta, oppure, nei contratti a prestazioni corrispettive, una delle due parti potrebbe rifiutare a ricevere
in modo tale da non dover dare.
In una situazione così fatta, il primo e più urgente interesse del debitore è evitare la propria mora; questo interesse è
protetto, come abbiamo visto, dall’art. 1220, che consente al debitore stesso di non essere considerato
inadempiente mediante una semplice offerta “alla buona” della prestazione.
Ma il debitore ha anche altri interessi: liberarsi del debito, anzitutto. Il debitore può tutelarsi provocando la mora del
creditore.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Se si tratta di obbligazioni di dare, il debitore farà una offerta formale della prestazione tramite un pubblico ufficiale
a ciò autorizzato; i requisiti dell’offerta sono diretti ad assicurare la corrispondenza tra prestazione offerta e
prestazione dovuta nonché il rispetto delle regole sul tempo, luogo, e i soggetti dell’adempimento.
Se l’obbligazione ha per oggetto denaro, titoli di credito, ovvero cose mobili da consegnare al domicilio del creditore,
l’offerta dev’essere reale; se ha per oggetto cose mobili da consegnare in luogo diverso va fatta per intimazione a
ricevere.
Può accadere che il creditore accetti l’offerta e in tal caso il debitore è liberato con l’adempimento; se invece il
creditore non riceve il pagamento, occorre un controllo del giudice, che accerti l’esistenza dei requisiti dell’offerta, e
la dichiari valida con sentenza. Quando ciò avviene, il creditore è considerato in mora fin dal giorno in cui l’offerta è
stata fatta.
Se invece il debitore ha fatto un’offerta secondo gli usi, gli effetti della mora si verificano dal giorno in cui egli esegue
il deposito che consente un controllo pari a quello dell’offerta formale.
Nelle obbligazioni di fare le conseguenze della mora si producono con una offerta fatta nelle forme d’uso e cioè
senza le solennità previste nell’art. 1208.

Gli effetti della mora del creditore sono indicati nell’art. 1207:
a. È a suo carico l’impossibilità della prestazione sopravvenuta per causa non imputabile al debitore;
b. Non sono più dovuti gli interessi né i frutti non percepiti dal debitore;
c. Il creditore è tenuto a risarcire i danni derivati dalla sua mora e a sostenere le spese per la custodia e la
conservazione della cosa dovuta.
Infine, se il debitore vuole liberarsi dall’obbligazione, deve reagire al rifiuto dell’offerta da parte del creditore con il
deposito, che può essere accettato dal creditore o dichiarato valido con sentenza. Il deposito riguarda, ovviamente,
cose mobili e si esegue con le forme del sequestro. Nelle obbligazioni di fare il deposito non è possibile. Il debitore,
perciò, ottiene gli effetti della mora, ma non si libera finché:
a. La prestazione non diviene impossibile;
b. L’adempimento non può più essere richiesto in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura della
prestazione, o perché il creditore non ha più interesse ad esigerlo;
c. Interviene la prescrizione.

8. Il risarcimento del danno.


Il mancato adempimento ha sempre conseguenze negative per il creditore.
La nozione di danno: danno non è solo la perdita, dice l’art. 1223, ma anche il mancato guadagno. Il danno risarcibile,
poi, è delimitato secondo tre criteri:
a. Il danno dev’essere conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento;
b. Il danno dev’essere prevedibile al tempo in cui è sorta l’obbligazione, salvo che l’inadempimento sia doloso,
nel qual caso il risarcimento si estende ai danni imprevedibili;
c. Il danno non deve essere collegato ad un fatto colposo del creditore.
Il più discusso è il primo, cioè il nesso di causalità.
Quando un qualsiasi evento si è verificato, possiamo sempre guardare all’indietro e scoprire una catena di fatti, senza
i quali l’evento osservato non si sarebbe verificato: chiamiamo questa serie di accadimenti “catena causale”.
Sotto un primo punto di vista, tutti i fatti che compongono la catena sono da considerare come concause dell’evento
finale: causa è, in questo senso, qualsiasi condizione necessaria nella storia dell’evento (condicio sine qua non).
L’art. 1223, invece, richiede che il danno sia conseguenza immediata (cioè senza passaggi intermedi come avviene
per le cause remote) e diretta (cioè senza il concorso di altri elementi causanti) dell’inadempimento. Ma, a loro volta,
questi criteri, se intesi nello stretto significato letterale porterebbero a conclusioni troppo limitative.
Per distinguere tra cause “forti” e cause “deboli” occorre osservare la catena causale a partire dall’evento di cui si
discute e chiedersi se quel fatto sia potenzialmente idoneo a produrre il danno che ne è derivato a seguite del
concatenarsi delle circostanze.
Secondo questo diverso criterio, sono causate da un certo evento solo le conseguenze che l’evento stesso era
“adeguato” a produrre secondo una “legge” di normalità, secondo ciò che normalmente accade.
Questo modo di guardare al problema della causa si chiama “causalità adeguata” che consente di rispettare il criterio
normativo di un rapporto immediato e diretto tra inadempimento e danno senza restringere eccessivamente l’idea di
nesso causale.

Quest’area è poi ulteriormente limitata dal requisito di prevedibilità che è riferito, non al tempo dell’inadempimento,
ma al tempo in cui l’obbligazione è sorta.

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Quanto, infine, alla regola sul concorso di colpa, essa prevede un vero e proprio esonero da responsabilità del
debitore nel caso in cui il creditore avrebbe potuto evitare il danno usando l’ordinaria diligenza; se invece il fatto
colposo del creditore ha contribuito a causare il danno, si riduce il quantum del risarcimento.

La valutazione del danno subito dal creditore difficilmente può risolversi in un calcolo svolto con esattezza
matematica: quando si tratta di mancato guadagno, la determinazione dei guadagni possibili, e non realizzati a causa
dell’inadempimento, è spesso opinabile. Il legislatore lascia perciò una specie di valvola di sicurezza, disponendo che
quando il danno “non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione
equitativa”.
Per i debiti di denaro quando il debitore è in mora, se erano stati previsti interessi corrispettivi in misura superiore al
tasso legale, gli interessi moratori (cioè dovuti per il ritardo) si applicano nella stessa misura. Se gli interessi non
erano previsti, o addirittura erano stati espressamente esclusi, sono comunque dovuti, dal giorno della mora, gli
interessi legali.
Il creditore, per esigere questi interessi, non deve provare d’aver subito un danno: può tuttavia dare la prova di un
danno ulteriore.

Possono essere oggetto di risarcimento non soltanto i danni di natura patrimoniale, ma, in presenza di determinate
condizioni, anche le conseguenze non patrimoniali dell’inadempimento. Il principio opera in quelle ipotesi in cui
l’inadempimento dell’obbligazione, oltre ad aver determinato la violazione dell’obbligo assunto, abbia provocato la
lesione di un diritto inviolabile del creditore (la negligenza del medico che provoca la lesione di diritti inviolabili del
paziente, quali il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione. In questi casi, ove sia dimostrata la lesione di un
diritto inviolabile della persona il risarcimento potrà estendersi ai danni non patrimoniali derivanti
dall’inadempimento).

L’ultima norma del Capo dedicato all’inadempimento prevede un particolare tipo di clausola contrattuale, quella con
cui una delle parti viene esonerata da responsabilità in caso di inadempimento (clausole di esonero da
responsabilità). La norma stabilisce che sia radicalmente nullo ogni patto che esclude o limita preventivamente la
responsabilità del debitore:
a. Per dolo o per colpa grave: la nullità si giustifica perché stabilire un obbligo e nello stesso tempo prevedere
che l’obbligato possa violarlo impunemente è contradditorio.
b. Derivante dalla violazione di obblighi imposti da norme di ordine pubblico. La nullità si giustifica perché la
norma che impone l’obbligo coincide con un principio inderogabile dell’ordinamento giuridico, di cui i privati
non possono disporre.

9. I modi di estinzione diversi dall’adempimento.


La cessazione dell’obbligo e la liberazione del debitore possono essere provocate anche da altri fatti; in certi casi,
l’interesse del creditore è, comunque, soddisfatto (cosiddetti modi di estinzione satisfattori: compensazione,
confusione), in altri invece manca la soddisfazione ma si verifica egualmente l’effetto estintivo (cosiddetti modi di
estinzione non satisfattori: novazione, remissione, impossibilità sopravvenuta).

Si è già detto dell’estinzione del debito per impossibilità sopravvenuta (artt. 1256 e ss.), e in particolare dei requisiti
dell’impossibilità (oggettiva e assoluta).
Impossibilità temporanea: è del tutto logico che, finché la prestazione resta impossibile, il debitore non sia
responsabile del ritardo nell’adempimento; quando l’impossibilità viene meno, e la prestazione ritorna possibile,
l’obbligazione può comunque estinguersi se l’impossibilità è durata fin quando:
a. In relazione al titolo, o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere obbligato a eseguire la
prestazione (ad esempio, se io mi obbligo a trasportare una comitiva di turisti in un giro delle isole,
annullato per maltempo)
b. Il creditore non ha più interesse (se io affitto per una festa un locale, mi servirà, probabilmente, in
quell’esatto giorno)
Questo criterio è importante anche perché è applicabile per analogia in altri casi: per esempio, quando un debitore
offre di adempiere un’obbligazione di fare, ma il creditore la rifiuta e viene costituito in mora.
L’interesse del creditore è invece sacrificato nella impossibilità parziale: il debitore si libera prestando la parte
rimasta possibile.

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Si ricordi infine come la giurisprudenza ammetta, in casi limitati, la possibilità di riconoscere, accanto all’impossibilità,
la inesigibilità della prestazione come situazione in cui l’obbligo si estingue perché è contrario a correttezza
pretenderne l’adempimento.

Non satisfattoria è pure la novazione che si ha quando le parti si accordano per sostituire all’obbligazione esistente
una obbligazione nuova. Dire “nuovo” significa affermare una diversità.
Gli elementi in base ai quali noi possiamo identificare un rapporto obbligatorio sono tre:
• La novità può consistere nel titolo: per esempio, il padrone di casa e l’inquilino, che deve pagare un anno di
canone arretrato, si accordano perché la somma sia da restituire, a un certo termine, a titolo di mutuo.
• La novità può consistere nell’oggetto: per esempio, un antiquario che mi deve un milione si obbliga a
consegnarmi un tavolo dell’Ottocento di una certa misura e di una certa qualità. Qui si deve ben osservare
la distinzione tra la novazione (che sostituisce un obbligo con un nuovo obbligo) e la dazione in pagamento
(che estingue l’obbligo con una prestazione diversa da quella dovuta). Nella prima l’accordo produce
l’estinzione del vecchio debito e la nascita del nuovo senza immediata soddisfazione del creditore; nella
seconda, solo l’esecuzione della prestazione estingue il debito con la soddisfazione del creditore.
• La novazione soggettiva in cui un nuovo soggetto è obbligato, al posto di un vecchio debitore. L’articolo
1235 rinvia agli articoli 1268 e ss. che regolano la delegazione, l’espromissione e l’accollo.
In ogni caso di novazione vale la regola per cui l’accordo è senza effetto, se l’obbligazione originaria non esisteva, o
derivava da un atto nullo. Se invece derivava da atto annullabile, la novazione è valida se il debitore conosceva il vizio
del titolo originario.

La dichiarazione del creditore di rimettere il debito estingue l’obbligazione quando è comunicata al debitore, salvo
che questi dichiari di non volerne approfittare.
La remissione pare dunque un atto unilaterale, che, nel silenzio del debito, produce l’effetto liberatorio. Se però il
debitore si oppone, è come se la remissione non fosse mai avvenuta. Il debito, dunque, può estinguersi per effetto
della sola dichiarazione del creditore, ma non contro la volontà del debitore.

La compensazione (art. 1241) si ha quando due persone sono obbligate reciprocamente l’una verso l’altra.
Esistono due distinti debiti, uno di Tizio verso caio e nello stesso tempo uno di Caio verso Tizio. Quando questo
incrocio di posizioni si verifica, i debiti si estinguono per compensazione “per le quantità corrispondenti”. La
compensazione è legale (cioè avviene senza necessità di accordo o di intervento del giudice) quando:
a. I due debiti sono omogenei, cioè abbiano per oggetto una somma di denaro o cose fungibili dello stesso
genere
b. I debiti sono liquidi, che vuol dire determinati nel loro preciso ammontare e non, come spesso si crede,
espressi in denaro
c. I debiti sono esigibili, cioè non sottoposti a condizione, e senza termine o con termine scaduto.
Quando sussistono tutti questi presupposti, l’effetto estintivo non si verifica automaticamente, ma a seguito della
dichiarazione unilaterale della parte che vuole ottenere la compensazione. Se esistono i requisiti visti in a) e c) ma i
debiti non sono entrambi liquidi è prevista una compensazione giudiziale, purché i debiti siano di facile e pronta
liquidazione.
Anche in mancanza di tutti i requisiti indicati, poi, è possibile una compensazione volontaria.
Un sistema particolare di estinzione di crediti e debiti, legato alla compensazione, si realizza attraverso il contratto di
conto corrente, con il quale due soggetti, che hanno crediti e debiti reciproci, si accordano per considerare crediti e
debiti non esigibili fino alla chiusura del conto, e realizzare poi, attraverso la compensazione, un saldo finale.

Confusione: si tratta della riunione, in capo a una persona, di due posizioni giuridiche che possono sussistere solo in
capo a soggetti diversi. Questo vale infatti anche per le quantità di creditore e di debitore: e perciò, se esse si
riuniscono nella stessa persona (per esempio: Tizio, debitore di Caio, gli succede come erede) l’obbligazione si
estingue.

II. TIPI PARTICOLARI DI OBBLIGAZIONE


10. Obbligazioni pecuniarie.
I debiti di somma di denaro sono una specie particolare del genere obbligazione: le “obbligazioni pecuniarie”.

La definizione dell’obbligazione pecuniaria è quel debito che ha per oggetto una somma di denaro. È in evoluzione la
stessa definizione dell’oggetto della prestazione pecuniaria: dalla moneta-cosa alla disponibilità monetaria; e di

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conseguenza i connotati della prestazione: da consegna di cose a trasferimento di unità ideali contabilizzate; e
dunque la nozione di pagamento del debito di denaro.

Uno dei problemi che affliggono il creditore di denaro è la perdita di potere d’acquisto della moneta connessa ai
provvedimenti di svalutazione e all’inflazione.
Il nostro codice stabilisce che “i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del
pagamento e per il suo valore nominale”: se il mio debito è di 1 milione, alla scadenza mi libero pagando 1 milione,
cioè il valore nominale, senza riguardo all’eventuale perdita di valore d’acquisto della moneta (c.d. principio
nominalistico).

Il principio nominalistico non vale però per tutti i debiti espressi in denaro. Vi sono casi, in cui l’obbligazione ha per
oggetto di trasferire all’altra parte un certo valore, che, nel momento dell’adempimento, dovrà necessariamente
tradursi in una somma di denaro. In questi casi il denaro è solo il mezzo che rappresenta il valore reale, e perciò, se
varia il potere di acquisto del denaro, varia anche la somma che dev’essere pagata al creditore: si parla, allora di
debiti di valore, in contrapposizione con i debiti di valuta in cui la somma di denaro in sé è l’oggetto del debito e in
cui vale il principio nominalistico.
Debito di valore è, per esempio, il risarcimento dei danni derivanti da responsabilità contrattuale o extracontrattuale.
L’obbligo di risarcimento ha ad oggetto l’equivalente in denaro del reale valore perduto del danneggiato. Solo dopo
che il danno è stato liquidato, cioè ne è stato determinato l’ammontare, espresso in denaro, oggetto del debito
diviene la somma: il mio debito è ora di valuta e perciò, se il danneggiato ritarda nell’esigerlo, io sono sempre
obbligato a pagargli quella cifra, secondo il principio nominalistico.

Le parti possono evitare l’applicazione del principio nominalistico, e caratterizzare un debito di denaro come debito
di valore, concordando certe clausole che “agganciano” la somma dovuta al valore di un bene che serve come
termine di paragone: con la clausola oro, le parti possono stabilire che sia dovuta una somma di denaro equivalente a
quella con cui si può comperare una certa quantità d’oro all’epoca del pagamento (lo stesso può avvenire con un
termine di paragone diverso); oppure, il rischio della svalutazione può essere evitato “indicizzando” la somma
dovuta, cioè pattuendo che debba mutare in rapporto a un codice prescelto, come l’indice statistico del costo della
vita. Un altro sistema è quello di esprimere il debito in moneta straniera.

Il denaro è “bene fruttifero”: i suoi frutti sono gli interessi.


È importante sottolineare la distinzione tra interessi corrispettivi e interessi moratori: i primi sono i veri frutti del
denaro, perché fungono da corrispettivo per il godimento della somma da parte di chi ne dispone ma è obbligato a
pagarla o a restituirla; gli altri invece fungono da riparazione del danno derivante al creditore dal fatto di non aver
potuto disporre della somma per ritardo nel pagamento.
Producono interessi corrispettivi tutti i debiti di denaro liquidi ed esigibili ( cioè non sottoposti a condizione o
termine). L’obbligazione di interessi si presenta come una obbligazione accessoria rispetto a quella di pagare una
somma di denaro, e si accompagna a quest’ultima “di pieno diritto” cioè anche se le parti non l’hanno previsto: si
tratta infatti di frutti civili. In mancanza di un diverso accordo delle parti, si applica il saggio di interesse legale
stabilito con un decreto del Ministro del tesoro ogni anno, sulla base del rendimento annuo lordo dei titoli di Stato a
breve termine (non oltre 12 mesi) e tenuto conto del tasso di inflazione registrato in quell’anno.
Per pattuire un interesse diverso da quello legale è necessaria la forma scritta. Occorre tener presente, però, che
esiste un limite alla libertà di contrarre un elevato tasso di interessi, ed è il divieto (sanzionato penalmente)
dell’usura.
L’interesse legale non va confuso con il tasso di sconto che è il principale strumento di politica monetaria in quanto
ne dipendono gli interessi praticati sul mercato dei capitali.
Gli interessi scaduti diventano a loro volta un qualsiasi debito di denaro: tuttavia, la norma sul cosiddetto anatocismo
stabilisce che queste somme non producano a loro volta interessi se non dal giorno della domanda giudiziale, o per
accordo successivo alla scadenza, e sempre purché riguardino un periodo superiore a 6 mesi.
La legge ammette però una deroga quando l’anatocismo sia previsto dagli usi.
Gli interessi moratori sono invece quelli dovuti a titolo di risarcimento del danno per il ritardo nel pagamento di un
debito in denaro. Anche la misura degli interessi moratori può essere oggetto di accordo preventivo tra le parti. In
mancanza di tale accordo, dal giorno della mora il danno è senz’altro ritenuto esistente, nella misura dell’interesse
legale, senza che il creditore debba darne la prova. Il creditore però può provare di avere subito un danno superiore
a quella misura, in termini di perdita o di mancato guadagno:
1. La perdita consiste nella quantità di potere d’acquisto perduto dalla moneta e non compensato
dall’adeguamento annuale dell’interesse legale; il principio nominalistico non ostacola questa prova perché

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stiamo parlando di una responsabilità da inadempimento e l’obbligo di risarcire il danno è un debito di
valore.
2. Il mancato guadagno nasce dal fatto che il creditore che non ha potuto disporre della somma per impieghi
fruttiferi: il creditore può darne la prova dimostrando che avrebbe impiegato il denaro in maniera più
redditizia rispetto al saggio legale: la prova può essere data anche per presunzioni, non però generiche ma
riferite alle possibilità di investimento proprie alla categoria sociale cui appartiene il creditore.
La Corte di Cassazione ha recentemente affermato che si presume che il maggior danno in tutti i casi in cui, nel
periodo di mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di stato con scadenza non superiore ai dodici mesi sia
stato superiore al saggio degli interessi legali.

11. Obbligazioni con pluralità di oggetti.


Si è già osservato che spesso un debitore è obbligato a più prestazioni, di cui una principale e altre accessorie:
l’esempio più corrente è quello dell’obbligazione di dare una cosa determinata, che impone al debitore anche di
custodire la cosa fino alla consegna. La pluralità di prestazioni però corrisponde, in questo caso ed altri simili, a una
pluralità di distinte obbligazioni che si innestano su un rapporto obbligatorio fondamentale.
Talvolta invece, uno stesso singolo rapporto obbligatorio ha ad oggetto due o più prestazioni: questo succede ad
esempio quando il debitore è obbligato, in alternativa, a eseguire l’una oppure l’altra delle prestazioni dedotte in
obbligazione” (obbligazioni alternative). Esempio: un abbonamento teatrale che dà diritto all’abbonato di assistere
ad un certo numero di rappresentazioni, a sua scelta, fra quelle previste da un ampio programma.
Il debitore si libera eseguendo una delle prestazioni dedotte in obbligazione. La scelta spetta al debitore se le parti
non l’hanno attribuita al creditore o a un terzo. Il principio-base è che la scelta “concentra” l’obbligazione su un unico
oggetto, e cioè la prestazione indicata da chi ha facoltà di scegliere: perciò, dopo la scelta, l’impossibilità della
prestazione estingue l’obbligazione.

Dalla obbligazione alternativa si distingue quella facoltativa, che si ha quando il debitore è obbligato a eseguire una
certa prestazione, ma è prevista, nel solo interesse del debitore, una facoltà di liberarsi con una diversa prestazione.
Esempio: un erede obbligato a dare a un legatario una certa parte dell’argenteria può liberarsi con un’equivalente
somma di denaro.
La differenza con l’obbligazione alternativa sta nel fatto che qui la prestazione dovuta è solo la prima, e perciò, se
quella diviene impossibile, per causa non imputabile al debitore, questi è senz’altro liberato, anche se la prestazione
sostitutiva è possibile.

12. Obbligazioni con pluralità di soggetti. La solidarietà.


Il rapporto obbligatorio può anche avere più soggetti: più debitori o più creditori.
Quando più debitori sono obbligati a una medesima prestazione che sia divisibile, si possono avere due diverse
situazioni:
a. Si ha solidarietà nel debito quando ciascun debitore può essere costretto all’adempimento per la totalità; in
tal caso, l’adempimento da parte di una libera tutti gli altri; il debitore che ha pagato l’intero debito può
rivalersi verso gli altri, ripetendo da ciascuno solo la parte per cui è obbligato. (azione di regresso)
b. Si ha invece obbligazione parziaria quando ciascuno dei debitori è tenuto a pagare solo la sua parte

I condebitori sono tenuti in solido se dalla legge o dal titolo non risulta diversamente (presunzione di solidarietà).
In certi casi la legge prevede espressamente la solidarietà: così, sono tenuti solidalmente al risarcimento del danno
tutti i soggetti cui è imputabile il fatto dannoso.
La scelta del legislatore per la solidarietà nel debito è un aspetto della tendenza a rafforzare la posizione del
creditore: poiché i condebitori rispondono per l’intero con tutti i loro beni presenti e futuri, il creditore non solo è più
garantito, ma può scegliere la parte da cui esigere l’intero adempimento. Proprio per questo il meccanismo della
solidarietà non si riproduce nei rapporti interni tra debitori, cioè nell’azione di regresso.

Se l’obbligazione è parziaria, la sorte di ciascun debitore è indipendente da quella degli altri. Se invece l’obbligazione
è solidale, si ha una vera contitolarità nel debito.
L’art. 1293, parte 1a, prevede che la solidarietà possa esistere anche tra debitori tenuti ciascuno con modalità diverse
nei confronti del creditore. Ogni debitore può avere quindi eccezioni personali da opporre al creditore.
La solidarietà nel debito non resiste alla morte del debitore. Gli eredi sono tenuti ciascuno solo per la quota anche
verso il creditore (“beneficio di divisione”).

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La distinzione tra obbligazione solidale e obbligazione parziaria si presenta anche dal lato attivo, quando più creditori
hanno diritto a una medesima prestazione. Credito solidale è quello in cui ciascun creditore può esigere dal debitore
l’intera prestazione; credito parziario è invece quello in cui ciascun creditore può esigere solo una parte della
prestazione. Qui la solidarietà esiste solo se prevista.

L’alternativa tra solidarietà e parzialità non può porsi quando la prestazione è indivisibile: in questo caso,
l’obbligazione è regolata dalle norme sulla obbligazione solidale, in quanto applicabili.

III. LA SUCCESSIONE NEL CREDITO E NEL DEBITO


13. La titolarità del rapporto obbligatorio.
Come per ogni situazione giuridica, la posizione di creditore o di debitore si assume in base ad un titolo che, nel
nostro caso, è il fatto o l’atto che è fonte dell’obbligazione che ci consente di individuare le parti del rapporto.
Talvolta però, la fonte del rapporto fa sì che il debitore o il creditore non siano immediatamente determinati nella
loro identità - Tizio o Caio - ma individuati in base alla titolarità di un diverso rapporto giuridico.
Consideriamo, per esempio, l’obbligazione di pagare le spese condominiali. Essa grava sui condomini come
partecipanti alla comproprietà delle parti comuni che a sua volta dipende dalla titolarità della proprietà individuale di
una porzione dell’edificio: dunque il titolare del debito si determina con riferimento alla posizione di proprietario.
L’obbligazione assume allora due caratteri:
• È obbligazione ambulatoria nel senso che passa da un soggetto ad un altro in dipendenza dal trasferimento
della situazione giuridica che le fa da “supporto”, cioè la proprietà.
• È poi obbligazione reale nel senso che il debito è legato alla titolarità del diritto reale, quasi come un
accessorio, al punto da potersi paragonare ad un “peso” che accompagna la proprietà; proprio perciò, si
ritiene che anche alle obbligazioni reali debba applicarsi il principio della tipicità (o numero chiuso).
La “realità” dell’obbligazione ha però una conseguenza: che il debitore si può liberare con l’abbandono della cosa o la
rinunzia al suo diritto.

L’ambulatorietà dell’obbligazione si riscontra anche dal lato attivo quando la legge collega la titolarità del credito alla
proprietà di un documento, e la legittimazione all’esercizio del diritto al possesso del documento stesso: è il
meccanismo proprio ai titoli di credito.

14. La successione nel credito: surrogazione, cessione.


Il credito può essere visto, oltre come un rapporto giuridico, come un bene. Ma questi meccanismi di successione
trovano senso nella prospettiva che guarda al credito come a un bene, una ricchezza che si può vendere, comprare,
dare in pegno, donare, lasciare in eredità, lasciare in legato.
Una prima forma di successione nel rapporto di credito si ha per surrogazione (sostituzione) di un terzo nei diritti del
creditore. Le ipotesi previste sono tre:
• Surrogazione per volontà del creditore: il debito di Tizio verso Caio è pagato da Sempronio; Caio creditore,
ricevendo il pagamento, surroga Sempronio nei suoi diritti verso Tizio. La surrogazione deve essere fatta in
modo espresso e contemporaneo al pagamento;
• Surrogazione per volontà del debitore: il debitore (Tizio), il quale prende a mutuo una somma di denaro da
un terzo (Sempronio) al fine di adempiere al proprio debito, surroga il mutuante nei diritti spettanti al
creditore, anche senza il consenso di quest’ultimo;
• Surrogazione legale: quattro i casi espressamente previsti:
- Un creditore chirografario (sprovvisto di cause di prelazione, cap. 18 par. 3) paga un altro creditore
che gode di privilegio o garanzia reale, e subentra in questi diritti
- L’acquirente di un immobile ipotecato paga il creditore ipotecario per liberare l’immobile
- Un terzo è obbligato a pagare un debito altrui o un debito che ha con altri
- L’erede che ha accettato con beneficio di inventario paga i debiti ereditari per evitare
l’espropriazione dei beni dell’eredità

La cessione del credito, invece, è un contratto con cui si realizza il trasferimento del diritto dal creditore, cedente, ad
un cessionario. Qui si vede che il credito è un bene, perché il creditore, che ne è titolare, lo può cedere senza il
consenso del debitore. Le parti possono escludere di comune accordo la cedibilità del credito ma il patto non è
opponibile all’eventuale cessionario se non si prova che egli ne era a conoscenza: se il cedente viole il patto, è
obbligato al risarcimento verso il debitore ceduto, ma la cessione ha ugualmente effetto. La cessione è esclusa
quando il credito è strettamente personale o quando il trasferimento è vietato dalla legge (per esempio, i genitori sui

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figli). Ma che contratto è la cessione? Può essere vendita, se il credito è ceduto dietro corrispettivo di un prezzo; può
essere donazione, può essere un conferimento in società, può essere lo strumento per estinguere un debito
(prestazione in luogo di adempimento: anziché pagare, cedo al mio creditore il credito che ho verso altri); insomma,
non si tratta di un contratto tipico con propria causa.

Vi sono però norme generali che valgono per qualsiasi cessione:


a. Garanzia. Se la cessione è a titolo oneroso, il cedente risponde verso il cessionario della esistenza del
credito, non della solvenza del debitore (cessione pro-soluto), salvo che ne abbia assunto espressamente la
garanzia; in quest’ultima ipotesi, il cedente garantisce la solvenza del debitore ceduto (cessione pro-
solvendo) ma il suo obbligo vien meno se il cessionario è negligente nel perseguire l’adempimento.
b. Efficacia tra le parti e opponibilità. Il trasferimento del credito tra cedente e cessionario avviene per effetto
del solo consenso (principio consensualistico).
Verso il debitore ceduto, però, la cessione diviene efficace solo quando il debitore stesso l’abbia accettata o gli sia
stata notificata (efficacia relativa o opponibilità). La notificazione (comunicazione al debitore dell’avvenuta cessione)
è un onere del cessionario, perché fin quando la cessione non è opponibile al debitore questi potrebbe pagare al
vecchio creditore ed essere liberato.
Come strumento di opponibilità, la notificazione serve anche a risolvere i conflitti tra più acquirenti dello stesso
diritto: prevale chi ha notificato per primo la cessione al debitore ceduto.

15. La successione nel debito: delegazione, espromissione, accollo.


L’identità del debitore non è mai indifferente per il creditore. Se il debito è di denaro, è importante che il debitore sia
solvente; se l’obbligazione ha per oggetto un “fare”, è importante che il debitore sia puntuale e diligente
nell’adempimento. Si spiega così la regola per cui la sostituzione del debitore non può avvenire, per successione a
titolo particolare, senza la volontà del creditore: se questa manca, si potrà aggiungere al vecchio debitore uno nuovo,
ma il primo non sarà liberato. Secondo la regola ora indicata funzionano le operazioni di delegazione, di
espromissione e di accollo. Esse possono avere carattere privativo (o liberatorio) oppure cumulativo, a seconda che il
creditore consenta o non consenta alla liberazione del vecchio debitore.

La delegazione è descritta dall’art. 1268 come l’operazione per cui un debitore “assegna al creditore un nuovo
debitore, il quale si obbliga verso il creditore”.
Gli elementi essenziali sono dunque questi:
a. C’è un debito, diciamo di Tizio verso Caio;
b. Il debitore, cioè Tizio, invita un terzo, Sempronio, a obbligarsi verso Caio a pagare quanto dovuto;
c. Il terzo, Sempronio, promette a Caio, creditore di Tizio, il pagamento.
Il creditore può:
a. Rifiutare la promessa;
b. Accettarla senza liberare il debitore originario (delegazione cumulativa); però egli non può, in questo caso,
rivolgersi al vecchio debitore se prima non ha richiesto l’adempimento al “delegato”;
c. Accettarla, dichiarando di liberare il debitore originario: solo in questa ipotesi si ha il trasferimento del
debito (delegazione privata o liberatoria).
Naturalmente, la delegazione suppone un certo rapporto tra delegante e delegato, che giustifica l’invito a obbligarsi
rivolto dal primo al secondo. Questo rapporto, che fornisce per così dire i mezzi dell’operazione, si chiama rapporto
di provvista, invece, il rapporto tra delegante e creditore, che è quello da estinguere con il pagamento, si chiama
rapporto di valuta.
Da ciascuno dei due rapporti possono nascere eccezioni, cioè ragioni per rifiutare il pagamento; i casi e i limiti in cui il
delegato può opporre al delegatario le diverse eccezioni sono previsti dall’art. 1271. Da entrambi i punti di vista si
distinguerà una delegazione “astratta”, cioè slegata dall’uno o l’altro rapporto, e una delegazione “causale”, cioè
legata dall’uno o l’altro rapporto. Importante è il modo in cui viene fatta la promessa da parte del delegato: e cioè se
la causa viene o meno menzionata. Può sempre essere opposta l’inesistenza del rapporto.

Se un terzo estraneo al rapporto tra debitore e creditore promette al creditore, di sua iniziativa, di pagare il debito, si
ha l’espromissione, che non va confusa con l’adempimento del terzo: nell’espromissione, il terzo si obbliga a pagare,
e nasce un rapporto obbligatorio tra terzo e creditore; invece, nell’ipotesi dell’adempimento del terzo, il terzo offre
senz’altro il pagamento e, se il creditore non ha ragione di rifiutarlo, lo esegue estinguendo il debito.
L’effetto può essere privativo o cumulativo, a seconda che il creditore dichiari o non dichiari di liberare il debitore
espromesso.

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L’altra operazione con cui si può realizzare il trasferimento del debito è l’accollo, che consiste in un contratto tra
debitore e terzo (accollante) per cui questi si assume il debito.
Si distinguono due specie di accollo. Con il c.d. accollo interno, l’accollante si limita ad obbligarsi verso il debitore ed il
creditore non acquista alcun diritto nei suoi confronti. Se invece l’accordo è concepito come un
contratto a favore di un terzo (il creditore), si ha lo schema contrattuale del cosiddetto accollo esterno, il quale
produce l’effetto di obbligare l’accollante anche verso il creditore.
Nell’accollo esterno il debitore originario resta obbligato (accollo cumulativo) a meno che il creditore consenta alla
liberazione (accollo privativo).
CAP. 18.
LE GARANZIE
1. La responsabilità patrimoniale del debitore.
Nel libro VI del Codice civile (la tutela dei diritti), il titolo terzo è dedicato alla responsabilità patrimoniale, alle cause
di prelazione e alla conservazione della garanzia patrimoniale.
Si tratta di tutti i meccanismi predisposti per la tutela del diritto del creditore di soddisfarsi sui beni del debitore in
caso di inadempimento. Questi istituti vanno considerati non come aspetti della patologia, ma come aspetti del
normale funzionamento del credito. I principi fondamentali che governano la materia sono enunciati negli artt. 2740
e 2741:
• L’art. 2740 enuncia al primo comma il principio della responsabilità illimitata: “il debitore risponde
dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”. Al secondo comma sancisce che
esistono limitazioni di responsabilità, nei casi stabiliti dalla legge.
• L’art. 2741 enuncia il principio della pari condizione dei creditori: ciascuno ha un eguale diritto di soddisfarsi
sui beni del debitore. Ma subito “fa salve” le cause legittime di prelazione (cioè di preferenza di un creditore
rispetto agli altri) che indica al secondo comma.

2. Limitazioni di responsabilità e “patrimoni di destinazione”.


Secondo la regola enunciata nel comma 1° dell’articolo 2740, chi si immette nel traffico economico assumendo
obbligazioni, espone a rischio tutto il suo patrimonio. Esiste soltanto, come limite generale, l’esclusione di alcuni
cespiti attivi, non soggetti ad espropriazione da parte dei creditori: gli oggetti di primaria necessità, il credito agli
alimenti e gli altri beni indicati negli artt. 514 e 515 del Codice di procedura civile.

Questo semplice schema si altera in una serie di casi, nei quali la legge prevede che determinati beni siano destinati
in modo primario o esclusivo alla garanzia di determinati debiti; si costituisce, allora, una distinta unità patrimoniale
(cosiddetto patrimonio di destinazione) che, in certi casi, raccoglie una parte dei rapporti attivi e passivi che fanno
capo ad un soggetto e che sono distinti dal patrimonio generale dello stesso soggetto (cosiddetto patrimonio
separato), in atri casi invece riunisce un complesso di rapporti attivi e passivi che fanno capi a più soggetti, e che sono
distinti dai patrimoni individuali di ciascuno (cosiddetto patrimonio autonomo).

Patrimonio separato è, anzitutto, l’eredità accettata con beneficio di inventario. L’accettazione pura e semplice
dell’eredità determina la confusione dei patrimoni (patrimonio di provenienza ereditaria e patrimonio personale
dell’erede) in un unico patrimonio con un solo attivo (beni dell’eredità e beni personali) un solo passivo (debiti
dell’eredità e debiti personali).
L’erede che tema un’eredità dannosa può evitare questa “confusione” accettando con beneficio d’inventario:
secondo l’art. 490: “l’effetto del beneficio di inventario consiste nel tener distinto il patrimonio del defunto da quello
dell’erede”; l’erede, in questo modo, risponde dei debiti ereditari solo con i beni dell’eredità.
Altri esempi di patrimonio separato sono la massa fallimentare e il fondo patrimoniale costituito per i bisogni della
famiglia
In altri ordinamenti, esistono istituti giuridici che consentono la formazione di un patrimonio separato per l’esercizio
dell’impresa: si crea cioè la possibilità di un’impresa individuale a responsabilità limitata. Da noi un fenomeno simile
si realizza attraverso la forma societaria della s.r.l. con un unico socio.

Art. 2645 ter: la norma prevede la trascrizione degli “atti di destinazione” relativi a beni immobili, diretti a stabilire un
vincolo di destinazione ad uno scopo determinato dal disponente (o dai disponenti). La determinazione dello scopo
rimane rimessa all’autonomia privata secondo la regola generale dell’art. 1324 in base al quale ogni interesse
meritevole di tutela potrebbe valere come scopo legittimo di un atto di destinazione. I beni vincolati allo scopo
possono essere impiegati solo per la realizzazione del vincolo di destinazione e quindi possono costituire oggetto di

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esecuzione solo per i debiti contratti a tale scopo; ma non vale il contrario: per i crediti contratti in funzione dello
scopo di destinazione, rispondono tutti i beni del proprietario. Il vincolo è reso opponibile ai terzi con la trascrizione.

La nozione di patrimonio autonomo è molto ampia e indica una gamma di situazioni, che hanno in comune questi
caratteri:
• Un complesso di beni di cui sono contitolari più soggetti e che sono destinati a uno scopo
• Una disciplina che mette al riparo questi beni dall’azione dei creditori personali di ciascuno dei contitolari,
cosicché i beni stessi possono offrire una più sicura garanzia per i debiti assunti in vista dello scopo, e, evita
ai singoli di rispondere illimitatamente verso i creditori del gruppo.
• La formazione di una unità patrimoniale composta di rapporti che fanno capo a più soggetti, ma che sono
distinti dai patrimoni individuali di ciascuno.
Nel diritto vigente il fenomeno, che si indica come autonomia patrimoniale, si realizza in settori e per gradi diversi:
dalla comunione legale tra coniugi, ai soggetti collettivi come associazioni non riconosciute e comitati, alle società di
persone; l’autonomia patrimoniale perfetta sfocia quindi nella costituzione di un soggetto separato, con le persone
giuridiche del libro I (associazioni riconosciute e fondazioni) e con le società di capitali.

3. Le cause di prelazione.
L’art. 2741 stabilisce il principio della pari condizione dei creditori. Non importa quale dei creditori abbia iniziato
prima l’esecuzione; gli altri possono inserirsi nel procedimento e, il ricavato della vendita dei beni del debitore è
distribuito in proporzione all’ammontare dei crediti: se ci sono tre creditori, uno per 10 mila euro e due per 5 mila
euro, e dalla vendita si ricavano 16 mila euro, il primo avrà 8 e ciascuno degli altri 4 mila euro.
Si parla di prelazione quando un creditore ha diritto di soddisfarsi a preferenza degli altri. Le cause di prelazione sono:
i privilegi, il pegno e l’ipoteca.
I creditori sprovvisti di cause di prelazione si dicono chirografari.
Può succedere che esistano contemporaneamente più creditori con diritto di preferenza. La legge, stabilisce un
ordine di preferenza; tra creditori che occupano, nell’ordine, la stessa posizione (si dice lo stesso “grado”), si torna al
criterio proporzionale quando non sia possibile la soddisfazione completa di tutti.

Se la cosa soggetta a privilegio, pegno, ipoteca, va distrutta o deteriorata, le somme di denaro dovute agli
assicuratori sono vincolate al pagamento dei creditori privilegiati, pignoratizi o ipotecari, secondo il loro grado; si
parla di “surrogazione” (cioè sostituzione) dell’indennità alla cosa come oggetto del diritto di prelazione.

4. I privilegi.
L’art. 2745 definisce il fondamento del privilegio: il privilegio è accordato in considerazione della causa del credito.
Il legislatore considera con favore certi crediti che riguardano la fonte, il titolo da cui nasce la pretesa del creditore:
sono privilegiati i crediti riguardanti certi bisogni di primaria necessità per il debitore, il credito di alimenti o i crediti
derivanti da certi tipi di rapporto come i crediti per retribuzioni, i crediti tributari ecc.
Si tratta di una valutazione che spetta solo al legislatore; i privati non possono creare privilegi non previsti dalla legge.
Naturalmente, è necessario un ordine di preferenza: l’ordine ha messo al primo posto i crediti derivanti da rapporto
di lavoro.

Si distingue un privilegio generale, che ha riguardo a tutti i beni mobili del debitore, e un privilegio speciale, che
riguarda determinati beni, sia mobili, sia immobili.
Il privilegio generale non si riferisce a questo o a quel bene, e non si può esercitare in pregiudizio di diritti spettanti a
terzi. Non è quindi un diritto sulle cose del debitore, ma solo la pretesa a una particolare protezione del credito.
Il privilegio speciale invece funziona come un diritto reale limitato; si esercita su determinati beni, ed è sempre
giustificato da una particolare relazione tra il credito e il bene che è oggetto del privilegio: per esempio, il credito del
trasportatore ha privilegio sulle cose trasportate finché non sono consegnate. Il privilegio speciale comprende un
diritto di seguito: il privilegio sui beni mobili si può esercitare anche se i beni sono stati venduti dopo il sorgere del
privilegio salvi gli effetti dell’acquisto del possesso di buona fede a norma dell’art. 1153.

C’è quindi un’analogia tra privilegio speciale e diritti reali di garanzia, che richiede la soluzione di eventuali conflitti: il
pegno prevale sul privilegio speciale mobiliare, mentre il privilegio sugli immobili prevale rispetto all’ipoteca.

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5. Le garanzie del credito.
Si parla di garanzie del credito per indicare tutti quei meccanismi che hanno la funzione di procurare al creditore un
mezzo di sicura soddisfazione del credito nel caso in cui l’adempimento spontaneo non si verifichi.
Si distinguono correntemente due ordini di garanzie:
• Le garanzie personali (come la fideiussione): lo scopo di garanzia si raggiunge affiancando al debitore un
garante, cioè un altro obbligato, a cui il creditore possa richiedere l’adempimento del debito, e i cui beni
offrono un’ulteriore garanzia patrimoniale
• Le garanzie reali (il pegno e l’ipoteca): la garanzia si fa specifica e significa che al creditore è attribuito un
potere di espropriare un determinato bene, e di soddisfarsi con diritto di preferenza sul ricavato della
vendita, anche se la proprietà del bene sia passata ad altri.
La fonte di questi diritti è però anche l’autonomia dei privati: l’offerta e la richiesta di garanzie sono fra gli strumenti
con cui si negozia la concessione del credito. Inoltre, i diritti reali di garanzia possono essere costituiti anche su beni
di proprietà di persona diversa dal debitore.
La costituzione di un diritto reale di garanzia determina un’alterazione delle possibilità di soddisfazione di tutti i
creditori del costituente. Di qui l’esigenza di una conoscibilità da parte dei terzi, che si realizza, nel pegno, con la
trasmissione del possesso, e nell’ipoteca, con l’iscrizione in un pubblico registro.

6. Il pegno e l’ipoteca.
Il pegno è un diritto di garanzia su cose mobili, su universalità di mobili, su crediti, o su diritti aventi per oggetto beni
mobili, che si costituisce tramite un contratto di pegno: si tratta di un contratto reale, la cui perfezione richiede cioè
la consegna della cosa, o del documento che ne conferisce la disponibilità.
Cosa o documento possono essere consegnati ad un terzo designato dalle parti o rimanere in custodia a entrambe le
parti; essenziale per la sicurezza della garanzia è che il costituente sia nell’impossibilità di disporne senza la
cooperazione del creditore.
Il creditore che riceve la cosa deve custodirla, e non può disporne né farne uso; però, se il pegno ha per oggetto
denaro o altre cose fungibili, il ricevente è solo obbligato a restituire altrettante cose della stessa specie o qualità
(c.d. pegno irregolare).

I diritti del creditore pignoratizio sono:


• far vendere la cosa;
• farsi pagare con prelazione sulla cosa ricevuta in pegno;
• Di chiedere al giudice che la cosa gli venga assegnata in pagamento fino a concorrenza del debito, a seguito
di stima;
• Di far suoi i frutti, salvo patto contrario, imputandoli prima alle spese e agli interessi, e poi al capitale;
• nel pegno di crediti, il creditore pignoratizio può riscuotere il credito e, se il suo credito è scaduto, può
trattenere il denaro ricevuto quanto basta per soddisfarsi (vado in banca, riscuoto il credito; se il mio
debitore ha fatto scadere il termine mi tengo i soldi che mi soddisfano l’inadempimento).

Il D.L. n.59 del 2016 ha introdotto il “pegno non possessorio”. La finalità del pegno non possessorio è quella di
consentire agli imprenditori di concedere in garanzia beni mobili (o crediti) inerenti alla loro attività di impresa senza
che questi siano sottratti alla loro destinazione economico-produttiva. Il vincolo di garanzia, pur non limitando
immediatamente la facoltà di godimento e il potere di disposizione del costituente (può vendere il bene per
soddisfarsi del proprio credito, qualora il debitore sia inadempiente) resta assicurato grazie ad un meccanismo di
surrogazione c.d. reale: il pegno si trasferisce, rispettivamente, sul prodotto risultante dalla trasformazione, sul
corrispettivo della cessione del bene gravato o sul bene sostitutivo acquistato con tale corrispettivo.

Aspetto fondamentale di questo meccanismo è che il trasferimento della garanzia pignoratizia non comporta la
costituzione di una nuova garanzia, bensì si caratterizza per la permanenza dello stesso diritto di garanzia originario,
sia pure a fronte del mutamento del suo sostrato oggettivo.
Il pegno non possessorio può essere costituito, per debiti propri o di terzi, solo da imprenditori iscritti nel registro
delle imprese ed esclusivamente a garanzia di crediti derivanti o inerenti all’esercizio dell’impresa.
La garanzia pignoratizia può gravare soltanto su beni mobili, anche immateriali, destinati all’esercizio di impresa, a
esclusione dei beni mobili registrati, e su crediti derivanti dall’esercizio d’impresa o ad esso inerenti.
Il titolo per la costituzione della garanzia pignoratizia è un contratto, da stipularsi in forma scritta a pena di nullità.
Il pegno non possessorio ha effetto verso i terzi esclusivamente con l’iscrizione nel “registro dei pegni non
possessori”.

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Il creditore, previa intimazione notificata al debitore e all’eventuale terzo concedente il pegno, e previo avviso scritto
agli eventuali titolari di un pegno non possessorio trascritto, ha facoltà di procedere:
- alla vendita dei beni oggetto del pegno, trattenendo il corrispettivo a soddisfacimento del credito e restituendo
l’eccedenza.
- all’escussione o alla cessione dei crediti oggetto di pegno
- alla locazione del bene oggetto del pegno, imputando i canoni a soddisfacimento del credito; tale facoltà spetta solo
laddove sia prevista nel contratto di pegno e venga iscritta nel registro delle imprese
- all’appropriazione dei beni oggetto del pegno fino a concorrenza della somma garantita, purché tale facoltà sia prevista
nel contratto di pegno e iscritta nel registro delle imprese

L’ipoteca può avere per oggetto i beni immobili, l’usufrutto di beni immobili, la superficie, l’enfiteusi, i beni mobili
registrati e le rendite dello Stato.
L’iscrizione nel pubblico registro non determina solo l’opponibilità del diritto del creditore, ma la stessa costituzione
del vincolo (pubblicità costitutiva).
L’ipoteca nasce quindi attraverso una fattispecie complessa, nella quale si possono distinguere due momenti:
l’esistenza del titolo per la costituzione e la costituzione tramite iscrizione.
Quanto al titolo, il diritto a iscrivere ipoteca può nascere da:
• Atti che, a norma di legge, danno senz’altro diritto alla costituzione dell’ipoteca (ipoteca legale): così
l’alienazione di un immobile dà diritto all’alienante di iscrivere ipoteca sopra gli immobili alienati per i crediti
che gli derivano dall’atto di alienazione; la divisione dà diritto ai coeredi, soci e altri condividenti, di iscrivere
ipoteca sugli immobili assegnati ad altri condividenti a garanzia del pagamento dei conguagli
• Ogni sentenza di condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione o al
risarcimento dei danni (ipoteca giudiziale sui beni del debitore)
• Concessione volontaria che può consistere sia in un contratto, sia in una dichiarazione unilaterale tra vivi
con la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata o verificata giudizialmente.

Quando uno dei fatti che abbiamo elencato si verifica, non esiste ipoteca ma diritto a iscrivere l’ipoteca; l’ipoteca
nasce con la successiva iscrizione. L’iscrizione si fa nell’ufficio dei registri immobiliari del luogo dove l’immobile è
situato e ha effetto per un periodo di vent’anni. Se il creditore non rinnova l’ipoteca prima che scada il termine,
l’effetto dell’iscrizione cessa: rimane il diritto a iscrivere, ma il grado della nuova ipoteca è quello che deriva dalla
data della seconda iscrizione.

Si parla di grado: l’ipoteca “prende grado dal momento della sua iscrizione”. I creditori ipotecari, insomma, sono in
coda: chi sta davanti ha preferenza su chi sta dietro, e il criterio proporzionale si applica solo tra creditori che hanno
lo stesso “grado”.
Sono possibili dei movimenti da un grado all’altro; i creditori possono scambiarsi il grado (si parla di permuta del
grado).
È poi prevista una surrogazione legale nel grado, a favore di un creditore che sia rimasto insoddisfatto (surroga del
creditore perdente: art. 2856): Tizio e Caio creditori hanno ipoteca l’uno prima dell’altro sul bene A. Tizio ha anche
ipoteca sul bene B, e qui è preceduto da Sempronio. Espropriato il bene A, Tizio è soddisfatto, Caio rimane a bocca
asciutta. Caio può allora surrogarsi a Tizio nell’ipoteca su B, scavalcando Sempronio, purché nel tempo l’iscrizione a
favore di Caio su A sia anteriore all’iscrizione a favore di Sempronio su B.
L’ipoteca attribuisce un diritto di espropriare i beni anche se la proprietà è passata a terzi. La posizione del terzo
acquirente (di bene ipotecato) ha tre possibilità:
• Pagare i creditori iscritti
• Rilasciare i beni stessi, in modo da non sopportare gli oneri dell’esecuzione forzata
• Liberare il bene dall’ipoteca offrendo ai creditori una somma pari al prezzo stipulato per l’acquisto; se il
prezzo non è stato determinato, o l’acquisto non è avvenuto a titolo oneroso, un valore da lui stesso
dichiarato. L’offerta non può essere inferiore al valore stabilito come base per le vendite a incanto.

Cause di estinzione (art. 2878). Si deve distinguere il diritto a iscrivere ipoteca, dal vincolo che nasce con l’iscrizione.
• Se si estingue il credito garantito o se si conclude l’esecuzione forzata e viene ordinata la cancellazione
dell’ipoteca, cadono insieme il vincolo e il titolo a costituirlo; così pure, se il creditore rinuncia all’ipoteca
rinuncia anche al diritto di costituirla.
• La cancellazione e la mancata rinnovazione fanno venir meno il diritto reale di garanzia, ma non
impediscono una nuova iscrizione, se rimane il titolo per costituire ipoteca.

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• Quanto alla prescrizione, occorre distinguere: tra le parti, la prescrizione del credito determina l’estinzione
dell’obbligazione e quindi l’estinzione dell’ipoteca. Verso il terzo acquirente, la prescrizione ventennale fa
estinguere l’ipoteca anche se il credito è ancora in vita.

Una regola comune al pegno e all’ipoteca è scritta nell’art. 2744. Si tratta del divieto di patto commissorio, secondo
cui è nullo ogni patto con il quale si conviene che la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi in proprietà
al creditore in caso di mancato pagamento. La ratio della norma è di evitare che chi dà credito abusi dello stato di
bisogno del debitore, e il divieto ha carattere di principio generale, che si applica anche ad altre fattispecie.

7. La fideiussione.
La garanzia reale è solida ma macchinosa, anche dal punto di vista dell’esecuzione. Un modo più agile di offrire
garanzia, per avere credito è quello di affiancare al debitore un garante, che assume personalmente il debito.
Lo strumento principe della garanzia personale è il contratto di fideiussione; un soggetto (fideiussore) garantisce
l’adempimento di un’obbligazione altrui obbligandosi personalmente verso il creditore e quindi rispondendone con
tutti i suoi beni presenti e futuri.
Parti del contratto sono il fideiussore e il creditore. La fideiussione può essere assunta anche se il debitore principale
non ne ha conoscenza.
Non è prevista una forma particolare, ma il Codice civile stabilisce che la fideiussione debba risultare da una
dichiarazione espressa.
Poiché causa del contratto è la garanzia di un’obbligazione altrui, questa deve esistere; se il titolo dell’obbligazione
garantita è invalido, invalida è la fideiussione, tranne nel caso che esso sia invalido poiché assunto da un incapace
legale.

L’effetto della fideiussione è di rendere il fideiussore e il debitore obbligati in solido verso il creditore garantito. Le
parti però (cioè il fideiussore e il creditore) possono pattuire il cosiddetto “beneficio di escussione”: il garante non è
tenuto a pagare prima che il creditore abbia “escusso” il debitore principale, cioè deve agire prima contro di lui per
ottenere soddisfazione; il fideiussore però ha l’onere, se convenuto in giudizio dal creditore, di indicare i beni del
debitore da sottoporre a esecuzione.
La solidarietà opera anche tra più fideiussori, cosicché ciascuno garantisce per l’intero, salvo, anche qui, che sia stato
pattuito il “beneficio della divisione”.
Il fideiussore che ha pagato è surrogato nei diritti del creditore verso il debitore principale, poi ha diritto ad
esercitare una sua azione di regresso sia verso il creditore sia verso gli altri fideiussori; l’azione di regresso
comprende il capitale, gli interessi dal giorno del pagamento e le spese sostenute.

Il mandato di credito è un contratto con cui un soggetto dà incarico a un altro, che accetta, di far credito a un terzo.
La dichiarazione del mandante si chiama lettera di credito, o credenziale. Chi accetta il mandato si obbliga a fare
credito in nome e per conto proprio; chi ha dato l’incarico assume gli obblighi di un fideiussore.

Nella prassi bancaria si è affermata la c.d. fideiussione omnibus: un fideiussore presta garanzia non per uno o più
debiti determinati, ma per tutte le obbligazioni presenti e future del debitore verso la banca.
Il problema della fideiussione omnibus riguarda la determinatezza dell’oggetto che è solo determinabile in relazione
ai futuri rapporti tra banca e debitore.

Ai margini della fideiussione si colloca il c.d. contratto autonomo di garanzia. Lo schema di base è quello della
fideiussione bancaria. Nel contratto di fideiussione viene inserita una clausola di “pagamento a prima richiesta”: essa
consente al creditore di esigere dal fideiussore (cioè dalla banca) il pagamento immediato, senza che possa opporre
le eccezioni che avrebbe potuto sollevare il debitore garantito.
La garanzia fornita dalla banca crea in tal modo un rapporto tra garante e creditore, autonomo rispetto al rapporto
tra debitore e creditore: si perde quindi la caratteristica della accessorietà. Si tratta di uno schema non previsto dal
Codice civile, che la giurisprudenza considera valido ma qualifica come contratto atipico.

Sostanzialmente fuori dall’ambito della garanzia si colloca infine l’anticresi. L’anticresi è definita come il contratto col
quale il debitore (o un terzo) si obbliga a consegnare un immobile al creditore a garanzia del credito; il creditore
percepisce i frutti dell’immobile imputandoli agli interessi, se dovuti, altrimenti al capitale.
Il contratto di anticresi deve essere redatto per iscritto a pena di nullità; per essere opponibile ai terzi deve essere
trascritto.

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8. I mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale.
Il diritto del creditore di soddisfarsi su tutti i beni del debitore non costituisce un vincolo immediato sui beni né un
limite alla libertà contrattuale del debitore. L’autonomia del debitore non è però protetta senza limiti. Il creditore è
tutelato quando il debitore mette in pericolo la garanzia generica. I rimedi che la legge offre al creditore per
“conservare” la garanzia patrimoniale sono:
• l’azione surrogatoria: l’art. 2900 prevede che il creditore possa “esercitare i diritti e le azioni che spettano
verso i terzi al proprio debitore e che questi trascura di esercitare”. Questo potere di sostituzione
(surrogazione appunto) è però riconosciuto al creditore solo “per assicurare che siano soddisfatte o
conservate le sue ragioni”. Lo scopo dell’azione è, dunque, quello di evitare un pregiudizio per la garanzia
del creditore derivante dall’inerzia del debitore: in altre parole il contegno del debitore deve essere tale da
provocare o aggravare la incapienza del suo patrimonio o da rendere più oneroso o difficoltoso il
soddisfacimento coattivo delle ragioni del creditore. Si pensi, ad esempio, a crediti che il debitore trascuri di
riscuotere, ben sapendo che le somme saranno aggredite dai suoi creditori.
La surrogazione può avvenire in tutti i diritti e le azioni a carattere patrimoniale, salvo quelli che, per loro
natura o per disposizione di legge, non possono essere esercitati se non dal loro titolare.
Effetto dell’azione del creditore è un acquisto al patrimonio del debitore, e quindi la conservazione della
garanzia anche a favore di altri creditori.
• l’azione revocatoria: l’art. 2901 attribuisce al creditore il potere di chiedere “che siano dichiarati inefficaci
nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio, con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue
ragioni”. Qui, il controllo sull’autonomia del debitore riguarda positive decisioni del debitore circa i suoi
interessi, e precisamente atti di disposizione, con cui il debitore altera la consistenza del proprio patrimonio.
Di qui la prima condizione per l’esercizio dell’azione: gli atti del debitore debbono essere tali da recare
pregiudizio alle ragioni del creditore o perché diminuiscono l’attivo su cui i creditori possono contare (come
la donazione) o perché rendono più difficile ed incerta l’eventuale esecuzione (come la vendita di un
immobile, che è un cespite attivo ben aggredibile, mentre il denaro del prezzo può essere fatto facilmente
sparire). Non è soggetto a revoca l’adempimento di un debito scaduto.
Ma non basta:
a) è necessaria la cosiddetta frode del debitore, cioè la conoscenza del pregiudizio che l’atto arrecava
ai creditori; se l’atto è anteriore al sorgere del credito di chi agisce, occorrerà dimostrare che l’atto
era stato dolosamente preordinato allo scopo di sottrarre il bene alla garanzia.
b) Se l’atto è a titolo oneroso, anche il terzo deve essere stato partecipe della frode. Sono in ogni caso
protetti gli ulteriori terzi che abbiano acquistato i loro diritti in buona fede a titolo oneroso.
Sono in ogni caso protetti gli ulteriori terzi, cioè gli aventi causa dal terzo cui il debitore ha alienato,
che abbiano acquistato il loro diritti in buona fede e a titolo oneroso.
Attenzione, infine, all’effetto della revocatoria: l’atto è dichiarato inefficace nei confronti del creditore che agisce.
Dunque, l’atto, che è valido, resta anche efficace sia tra le parti, sia verso i terzi e anche verso i creditori che non
hanno agito. È semplicemente inopponibile al creditore, il quale cioè può far valere le sue ragioni come se l’atto non
fosse stato compiuto: dunque può promuovere nei confronti dei terzi acquirenti (perché sono loro i proprietari) le
azioni esecutive e conservative. L’azione si prescrive in cinque anni dalla data dell’atto.
La revocatoria che abbiamo qui studiato si chiama revocatoria ordinaria. Il creditore che sia pregiudicato da un atto
del debitore di costituzione di un vincolo di indisponibilità o di alienazione, avente per oggetto beni immobili o beni
mobili registrati, compiuto a titolo gratuito e successivamente al sorgere del credito, può procedere a esecuzione
forzata rispetto sul bene oggetto dell’atto del debitore ancorché non abbia preventivamente ottenuto sentenza
dichiarativa di inefficacia, se trascrive il pignoramento nel termine di un anno dalla data in cui l’atto è stato trascritto.
Quanto, infine, al sequestro conservativo: si tratta di una misura preventiva, che il creditore può chiedere al giudice
quando esistano ragioni oggettive per temere la perdita delle garanzie del credito. Il sequestro ha lo scopo di
impedire l’alienazione dei beni e gli altri atti di disposizione: gli atti di alienazione sono inefficaci nei confronti del
creditore sequestrante.

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Parte Quarta: L’ATTIVITA’ GIURIDICA


Sezione Prima: IL CONTRATTO IN GENERALE
CAP. 19.
L’AUTONOMIA CONTRATTUALE
1. Il contratto realtà e definizione.
la definizione di contratto dell’art. 1321: “è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un
rapporto giuridico patrimoniale”; qualsiasi accordo è qualificabile come contratto se il rapporto su cui verte ha
carattere patrimoniale, il che si verifica in sostanza ogni volta che un accordo abbia ad oggetto un bene in senso
ampio: cose, denaro, prestazioni.

L’ambito di fenomeni riuniti nella nozione giuridica di contratto coincide quindi con tutta la gamma di accordi che
anima la vita economica. L’idea di “vita economica”, peraltro, non va limitata alle attività che hanno scopo di profitto.
Il contratto è lo strumento con cui si costituiscono le basi economiche e organizzative per attività di ordine culturale,
politico, religioso (si pensi soltanto al contratto di associazione); è lo strumento con cui si regolano interessi
economici legati ai rapporti familiari e personali (si pensi alle convenzioni matrimoniali); è il canale per la
sistemazione pacifica di interessi patrimoniali nelle vicende della successione ereditaria (la divisione); è uno dei mezzi
possibili per risolvere una lite (la transazione); è insomma lo strumento principe dell’autonomia nel campo degli
interessi patrimoniali.

I requisiti essenziali del contratto sono: l’accordo, l’oggetto, la forma, la causa.

2. Funzione ed efficacia del contratto.


Il contratto è lo strumento con cui si realizza l’autoregolazione degli interessi in campo patrimoniale. La funzione del
contratto in sé e per sé è riassunta in due norme:
• l’art. 1321 definisce il contratto come un accordo che ha questa funzione: “costituire, regolare o estinguere
(...) un rapporto giuridico patrimoniale” tra le parti.
• La funzione spiega e definisce anche l’efficacia del contratto, descritta dall’art. 1372: “il contratto ha forza di
legge tra le parti”. La formula è estremamente suggestiva, perché dà il senso dell’esercizio della autonomia,
cioè della possibilità di “darsi legge” nei propri rapporti, e qui in particolare nei propri rapporti patrimoniali.
Effetto del contratto è, dunque, di regolare: di stabilire cioè un certo regolamento di interessi.
Possiamo distinguere due modi elementari di operare del contratto: la funzione/efficacia traslativa e quella
obbligatoria.
Le due modalità si possono osservare riunite, ad esempio, nel contratto di compravendita, che da un lato trasferisce
la proprietà della cosa dall’altro fa nascere obbligazioni a carico del venditore (consegnare la cosa) e del compratore
(pagare il prezzo). Anche un diritto reale limitato può essere costituito per contratto (es:servitù).

Se guardiamo alla fattispecie, cioè all’accordo contrattuale, il contratto ci appare come un atto giuridico, formato con
il consenso di due o più parti (cosiddetto contratto-atto).
Da questo punto di vista, la nostra attenzione dovrà rivolgersi ai problemi della formazione, della interpretazione,
della validità del contratto, per studiare presupposti e requisiti, contenuto e vizi dell’atto di autonomia contrattuale.
Se invece guardiamo alle conseguenze giuridiche dell’accordo, viene in evidenza il regolamento di interessi che ne
nasce, e quindi il rapporto contrattuale che si stabilisce fra le parti (cosiddetto contratto-rapporto).

3. Il contratto come atto giuridico.


Il contratto è un accordo. Se consultiamo il dizionario, l’accordo è definito con espressioni come “conformità di
voleri”, “incontro di volontà”. Però occorre tener presente che il contratto è un fatto giuridico di cui l’ordinamento si
occupa: e quindi l’accordo è un fatto osservabile e accertabile, cioè una condotta di due o più contraenti.
Dunque, l’accordo non è “l’incontro” di due interne volontà, ma la convergenza di dichiarazioni o manifestazioni di
volontà i cui significati combaciano.
L’elemento dell’accordo fa del contratto un atto giuridico bi- o plurilaterale, cioè che si compone di manifestazioni di
volontà di due o più parti. Per tale carattere il contratto si distingue dagli atti unilaterali.
È da sottolineare che la distinzione poggia sull’idea di parte (una, due o più) e non di persona o soggetto.
Si intende, cioè, riferirsi alla dualità o pluralità di centri di interesse. Per esempio, se più comproprietari vendono la

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cosa di proprietà comune, essi, tutti insieme, rappresentano la parte venditrice. Se invece due o più comproprietari
danno una disdetta, compiono un atto unilaterale.
La distinzione tra contratto e atto unilaterale è quindi tutt’altro che formale. Nel contratto ci sono due o più parti,
che portano interessi distinti. Il contratto è destinato a comporre questi interessi e a soddisfarli entrambi.
Ma in ogni aspetto e momento della vita del contratto le parti possono presentarsi, e di regola si presentano, come
due controinteressati, cioè titolari di interessi in conflitto.
Il legislatore, quindi, deve porsi costantemente il problema, di stabilire regole che assicurino una equilibrata
protezione delle due parti.

L’art. 1324 dispone che le regole dettate per i contratti possono valere anche per gli atti unilaterali tra vivi che hanno
contenuto patrimoniale “in quanto compatibili”: vale a dire che molte regole dettate per i contratti hanno senso solo
perché il contratto ha due o più parti, due o più controinteressati.
Ciò rende importante la distinzione tra atti unilaterali ricettizi (cioè diretti a un destinatario determinato, come ad
esempio una dichiarazione di recesso, una intimazione a pagare) e non ricettizi (come per esempio una dichiarazione
di voto). Nei primi, il destinatario dell’atto assume il ruolo di controinteressato (pur non essendo parte dell’atto) e a
lui si applicheranno quelle regole che, nella disciplina del contratto, presuppongono una “controparte”.

4. Il principio di buona fede.


Tra le norme che riguardano il contratto in generale si deve fare riferimento alle clausole generali che impongono la
buona fede.
È un dovere di correttezza (o buona fede oggettiva) che la legge impone, sulla base del solo fatto che tra due soggetti
si sia avviata una trattativa, e che obbliga a tenere una condotta da persone oneste e leali sia nell’iniziare e nel
condurre la contrattazione, sia nel recedere dalle trattative, sia nella stessa conclusione del contratto.
La legge prevede un dovere reciproco di informazione con riguardo ad eventuali vizi del contratto (art. 1338).

La violazione del dovere di correttezza in sede di contrattazione non incide di per sé sulla validità del contratto (salvo
i casi in cui costituisca un elemento di una fattispecie che la legge prende in considerazione come vizio: per esempio,
nel dolo). La condotta di malafede è però fonte di una particolare responsabilità per i danni eventualmente cagionati
all’altra parte, che abbia confidato nella validità del contratto, o che abbia subito un pregiudizio per effetto della
malafede della controparte: la c.d. responsabilità precontrattuale.
La buona fede è anche il criterio fondamentale per l’interpretazione del contratto, cioè per quell’operazione con cui
si stabilisce il significato delle manifestazioni di volontà che formano l’accordo contrattuale. Le dichiarazioni che le
parti si scambiano vanno intese così come le intenderebbe una persona onesta e leale. Ciascuna parte non può
pretendere di attribuire alle proprie o alle altrui parole (o comportamenti) un significato a lei favorevole, ma diverso
da quello che darebbe una persona onesta.

Questa tendenza si completa e si rafforza con la norma dell’art. 1375, che impone alle parti una condotta di buona
fede nell’esecuzione del contratto. Il contenuto normativo della disposizione è di grande rilevanza: essa significa che
al di là di quanto espressamente previsto nelle clausole contrattuali, o di quanto ricavabile da specifiche previsioni
normative, un contratto obbliga i contraenti a comportarsi in tutto e per tutto, nello svolgimento del loro rapporto,
come persone oneste e leali: in questo senso, la buona fede è una fonte di integrazione degli effetti del contratto.

Le tre clausole rappresentano le espressioni più evidenti di un principio generale, che pone la buona fede a
fondamento e criterio di disciplina di tutta la materia contrattuale sia dal punto di vista dell’atto che da quello del
rapporto.

5. L’autonomia contrattuale e i suoi limiti.


L’autonomia contrattuale è la traduzione in linguaggio giuridico di quello che, in senso ampio, possiamo chiamare
liberalismo economico: questo principio vuole che le finalità verso cui destinare capitali e lavoro e i modi per
conseguirle, siano lasciati alla libera scelta dei singoli e dei gruppi.

L’idea della assoluta signoria del privato sulle risorse economiche e sul loro impiego ha più volte ceduto alla necessità
di realizzare o garantire interessi generali o collettivi che non sembravano potersi soddisfare attraverso gli
aggiustamenti spontanei del laissez faire.
Sinteticamente si possono indicare tre vettori di questa evoluzione:
a. Tutela di interessi tenuti prevalenti rispetto alla libertà di mercato: la Costituzione (art. 41), nel tutelare la
libertà di iniziativa economica, dispone che essa non possa “svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in

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modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. In armonia con questo principio,
prevalgono sull’autonomia contrattuale diversi interessi come lo sviluppo ordinato delle aree urbane, la
distribuzione di servizi essenziali (sanità, istruzione, ecc.), la tutela dell’ambiente, ecc.
b. Tutela della libera concorrenza. In un mercato lasciato senza altra regola che la libertà di concorrenza, si
sviluppa un fenomeno di concentrazione di imprese nelle mani di pochi soggetti economici in modo da
distruggere la concorrenza stessa. Di qui la necessità di un intervento statuale, diretto a limitare con norme
legislative la concentrazione di imprese, e a vigilare sulla formazione di grandi gruppi (cosiddetta normativa
e Autorità Antitrust, cap. 33).
c. Tutela delle “parti deboli” nel mercato. Nel mercato si affrontano soggetti più forti e soggetti più deboli.
Lasciare “soccombere” il più debole in certi casi è criterio di salute del mercato (come quando si lascia fallire
un’impresa non competitiva) in certi altri è una scelta contraria a giustizia (come quando si lasciava il
lavoratore privato di tutela contro il licenziamento immotivato) o contraria a esigenze di chiarezza e
trasparenza che, se non rispettate, fanno sì che la cattiva produzione scacci la buona (come avviene se non
si protegge adeguatamente il consumatore di prodotti o l’utente di servizi). Un ruolo in questo senso
svolgono anche gli strumenti di controllo del mercato con riguardo a particolari beni: per esempio, i prezzi di
vendita di alcuni beni di grande consumo (es. alcuni generi alimentari) e le tariffe di servizi (es. telefono e
trasporti pubblici) sono determinati periodicamente dal Comitato interministeriale prezzi (Cip).

Da tutte queste esperienze viene una tendenza a stabilire dei limiti all’autonomia contrattuale.

6. La “forza di legge” del contratto.


Il principio di autonomia ha due facce: se a ciascuno è riservata la possibilità di decidere circa i propri interessi,
nessuno può disporre degli interessi di un altro soggetto. Qualsiasi modificazione della sfera giuridica di un soggetto
richiede il suo consenso.
Il principio si legge “a rovescio” nell’art. 1372: Il contratto ha forza di legge tra le parti e non produce, di regola,
effetti per i terzi: ognuno è signore dei propri interessi, e perciò, ognuno può disporre soltanto dei propri interessi. Le
conseguenze sono molteplici: come nessuno può disporre degli interessi altrui, così nessuno può ingerirsi negli affari
altrui se non ne ha il potere. Neppure un vantaggio economico può essere imposto: per questo, la donazione è un
contratto e non un atto unilaterale, e così pure la remissione del debito, che invece è atto unilaterale, perde efficacia
se è rifiutata dal debitore.

7. La libertà di contrarre.
Aspetto essenziale dell’autonomia è la libertà di concludere o non concludere un contratto. Ne è applicazione, la
revoca della proposta o dell’accettazione del contratto fino al momento della conclusione.
Poiché la libertà è la regola, bisogna aver presenti le eccezioni, che si verificano quando una persona è obbligata a
contrarre.

Ciò può avvenire per determinazione di legge (obbligo legale a contrarre) o per un vincolo assunto in base a
precedente contratto (obbligo convenzionale a contrarre). La prima ipotesi si verifica, per esempio, per le imprese
che esercitano la loro attività in regime di monopolio legale, come le imprese che esercitano servizi pubblici di
trasporto. Sono obbligate a contrarre anche le imprese assicuratrici che ricevono la proposta di un contratto di
assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile. Un obbligo convenzionale di contrarre nasce dal contratto
preliminare con il quale le due parti si obbligano a concludere un contratto definitivo; o ancora, dal contratto di
mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è obbligato a ritrasferire al mandante quanto acquistato quanto
acquistato per suo conto.
A tutti i casi di obbligo di contrarre si riferisce l’art. 2932, che ne prevede la esecuzione coattiva in forma specifica:
nessuno può essere costretto a consentire al contratto; ma il giudice, su domanda della parte interessata, può
emettere una sentenza costitutiva che produce gli effetti del contratto non concluso.
Il divieto convenzionale di contrarre, come il divieto di alienazione, ha invece solo l’effetto di obbligare chi lo viola a
risarcire il danno (salva la risoluzione del contratto).

8. Autonomia contrattuale e contenuto del contratto.


Gli schemi di accordo e di rapporto contrattuale sono inventati dalla realtà, non dal legislatore. Il legislatore
predispone dei modelli di contratto raccogliendo dalla realtà le funzioni e gli schemi di rapporto più importanti e
frequenti. Sono questi i contratti tipici o nominati.
La disciplina del tipo contrattuale è una cornice, che solo in parte prevede norme inderogabili. Dentro la cornice, le
parti possono determinare liberamente il contenuto del contratto, nei limiti imposti dalla legge. I patti con cui le parti

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stabiliscono punto per punto il contenuto del contratto si chiamano clausole.
Se le esigenze reali dell’accordo sono tali da non corrispondere ad uno dei “tipi” predisposti dal legislatore, è libero il
campo alla costruzione di contratti diversi, non conosciuti o non regolati dalla legge (contratti atipici o innominati).
Lo stesso art. 1322, al secondo comma, riconosce infatti ai privati la libertà di concludere anche contratti che non
appartengono ai tipi previsti dalla legge, purché diretti a realizzare un interesse meritevole di tutela (meritevole di
tutela è un limite che esclude solo i contratti illeciti).
Solo in certi settori di interesse l’ordinamento giuridico si orienta a non lasciare campo libero all’inventiva dei privati,
e crea quindi un sistema caratterizzato da una più o meno rigida tipicità delle convenzioni ammesse.
Per esempio, abbiamo visto che i diritti reali su cosa altrui sono un numero chiuso: non esiste la possibilità di crearne
di nuovi attraverso i contratti.
Una particolare categoria di contratti innominati è quella dei contratti misti, che risultano dalla combinazione di
elementi propri a diversi contratti tipici. Ad esempio, il contratto di albergo combina elementi della locazione, della
somministrazione, del deposito.
Anche i contratti atipici sono soggetti ajmlle norme generali dettate per tutti i contratti nel Titolo II del Libro IV.

I limiti alla libertà di determinare il contenuto del contratto possono avere origine legale o convenzionale.
Molti contratti hanno un contenuto rigidamente determinato dalla legge in alcune sue parti. Per esempio, nel
contratto di locazione di immobili urbani sono regolati in modo inderogabile la durata, e i casi di recesso. In altre
ipotesi è solo un elemento del contratto, una clausola, che viene imposta dalla legge.

Quando una o più clausole di un contratto sono imposte da norme imperative (cioè inderogabili) la clausola difforme
inserita nel contratto dai privati è nulla, ed è sostituita di diritto da quella imposta, così che il contratto resta valido
ma con un contenuto diverso da quello voluto dalle parti.
Un limite convenzionale alla libertà di cui parliamo deriva dal contratto normativo, che è quel contratto con cui si
stabilisce il contenuto dei contratti che in futuro si potranno concludere fra le parti. A differenza del contratto
preliminare, il contratto normativo non obbliga a contrarre, ma solo a inserire, nei futuri contratti, determinate
clausole. L’esempio più importante è quello dei contratti collettivi di lavoro.

CAP. 20.
GLI ELEMENTI DEL CONTRATTO
1. I requisiti del contratto. L’accordo.
I 4 requisiti del contratto: accordo tra le parti, causa, oggetto, forma.
La mancanza, l’illiceità, il vizio di uno dei requisiti sono le cause della nullità o dell’annullabilità del contratto.
Il requisito dell’accordo si può scomporre in due aspetti: i soggetti e la volontà da questi manifestata.
Il contratto si regge sulle parti, e i soggetti debbono essere dotati delle qualità che la legge richiede per poter essere
titolari dei rapporti che derivano dal contratto (capacità giuridica generale ed eventualmente specifica per un
determinato tipo di rapporto) e poter validamente manifestare la volontà di contrarre (capacità d’agire).
Molto è da dire circa la volontà contrattuale e circa la convergenza delle manifestazioni di volontà nell’accordo
contrattuale.

2. La manifestazione della volontà contrattuale.


Un qualche mezzo di manifestazione, un qualche segno, ci deve essere: la tradizione chiama forma del contratto
qualsiasi mezzo con cui la libertà si manifesta.
La manifestazione di volontà può anzitutto essere: espressa o tacita.
Si ha manifestazione espressa quando la volontà è dichiarata, cioè comunicata con parole, per iscritto oppure
oralmente. Manifestazione espressa in questo senso è anche quella che si affida a gesti, che nell’uso equivalgono a
parole: per esempio, alzare la mano ad un’asta pubblica; il gesto esprime la volontà perché è un segno diretto a
comunicare volontà.

Si ha invece manifestazione tacita quando non si impiegano segnali che abbiano lo scopo di comunicare la volontà,
ma ci si comporta in un modo che implica la volontà di contrarre. Per esempio, se in un supermercato raccolgo nel
cestino dei prodotti e mi presento alla cassa, il mio comportamento è segno che intendo comprare.
Ciò che conta è che la condotta tenuta abbia oggettivamente (cioè secondo quanto comunemente si intende) quel
significato. Se io salgo sul treno significa che intendo accettare l’offerta di trasporto fatta dall’azienda ferroviaria (c.d.
comportamento concludente); io non posso pretendere che la mia condotta non implichi la conclusione del
contratto, e perciò, se non ho il biglietto sono un contraente che non ha adempiuto.

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Questo criterio rende molto ampio il campo della manifestazione tacita. Se, per esempio, più persone si comportano
come soci, perché esercitano in comune un’attività economica e ne dividono gli utili, si considera esistente tra loro
un contratto di società (c.d. società di fatto): con la conseguenza che divideranno anche le perdite, e saranno
solidamente responsabili verso i creditori.
Un particolare caso di manifestazione tacita è il rinnovo tacito dei contratti che durano nel tempo, quando manca la
dichiarazione di recesso entro il termine previsto.

3. La conclusione del contratto.


Il legislatore usa uno schema costante per affrontare i problemi relativi alla conclusione del contratto distinguendo
due ruoli delle parti: proponente e accettante, e considera l’accordo come uno scambio di due dichiarazioni di
volontà: la proposta e l’accettazione.
La proposta è la dichiarazione con cui la parte che assume l’iniziativa offre all’altra la conclusione del contratto.
L’accettazione è la dichiarazione con cui la parte che riceve proposta dà il suo consenso al contratto così come risulta
dall’offerta.

La proposta ha questo effetto: espone il proponente all’accettazione, nel senso che se l’altra parte accetta, il
contratto si conclude. Per valere come proposta (e produrre l’effetto indicato) la dichiarazione di chi offre la
conclusione del contratto deve contenere tutti gli elementi essenziali del contratto che si vuole concludere e
manifestare una volontà attuale di contrarre. Altrimenti non si tratta di proposta, ma piuttosto di invito a proporre, e
se l’altra parte vuole concludere il contratto deve assumere la posizione del proponente.

L’accettazione, a sua volta, deve corrispondere esattamente alla proposta; se anche in parte è diversa, non vale
come accettazione, ma come controproposta: i ruoli si scambiano, e il contratto non è concluso finché la parte, che
per prima aveva assunto l’iniziativa, non ha accettato la controproposta.

La distinzione tra proposta e invito a proporre è particolarmente interessante nel caso di offerta al pubblico, cioè di
un’offerta che non è rivolta a una persona determinata, ma a tutti, o a persone con certi requisiti, ecc. L’offerta è una
vera proposta contrattuale, dispone l’art. 1336, se contiene gli estremi essenziali del contratto salvo che risulti
diversamente dalle circostanze o dagli usi. I negozianti, ad esempio, sostengono che gli usi consentono loro di poter
rifiutare di servire un cliente sgradito. Sono riserve discutibili.

Non sempre lo schema proposta-accettazione riflette la realtà. Anzitutto, ci sono casi in cui l’accordo risulta da una
dichiarazione congiunta o contestuale delle parti e non è possibile distinguere la posizione di chi prende l’iniziativa e
di chi accetta. Lo scambio di dichiarazioni si verifica, in altri casi, in modo praticamente simultaneo; così, nei contratti
conclusi a voce, o per telefono.

L’art. 1326 risolve il problema del momento di conclusione del contratto con la seguente regola: “il contratto è
concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte”.
Secondo l’art. 1335: la conoscenza si presume nel momento in cui la dichiarazione giunge all’indirizzo del
destinatario. Questi può dare la prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne conoscenza. Si
tratta però di un onere probatorio rigoroso (es: ricovero in ospedale).

L’art. 1334 estende lo stesso criterio agli atti unilaterali ricettizi (diretti ad un destinatario determinato).
Si afferma così un vero e proprio principio generale, detto principio di cognizione, per il quale un atto diretto ad una
persona determinata ha effetto nel momento in cui quest’ultima ne ha conoscenza.

Lo schema dell’art. 1326 e le regole fin qui studiate, non valgono per tutti i contratti, ma per quelli che si concludono
con il solo consenso (contratti consensuali).
Vi sono invece contratti che si concludono solo con la consegna della cosa o delle cose cui il contratto si riferisce
(contratti reali, mutuo, comodato, deposito, pegno); il consenso delle parti è sempre necessario, ma non è
sufficiente: perciò anche il momento della conclusione coincide, qui, con quello della consegna. (Ad esempio il
contratto di mutuo con una banca non si conclude quando accetta la mia richiesta, ma quando consegna i soldi).

Poiché il contratto richiede l’accordo delle parti, l’accettazione, anche se tacita, dev’essere manifestata. Il silenzio
non vale accettazione. Questa regola, che ha valore di principio generale, è stata espressa nella disciplina dei

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contratti a distanza: in caso di fornitura non richiesta, il consumatore non è tenuto ad alcuna prestazione; l’assenza
di risposta non significa consenso. Il consumatore non è neppure obbligato a restituire la fornitura non richiesta: se il
fornitore lo vorrà, la manderà a ritirare a sue spese.

Non sempre però il contratto si conclude con lo scambio di due dichiarazioni di volontà: in alcuni casi la dichiarazione
di accettazione può mancare.
• Esecuzione prima della risposta: su richiesta dello stesso proponente, o per natura dell’affare, è possibile che chi riceve
la proposta debba eseguire la sua prestazione, senza preventiva accettazione del contratto: in questi casi, la condotta
della parte che esegue il contratto tiene luogo di espressa accettazione; il proponente però ha diritto di ricevere un
pronto avviso della iniziata esecuzione.
• Contratto con obbligazioni per il solo proponente: l’accettazione può del tutto mancare nel caso in cui una parte
proponga all’altra un contratto da cui derivano obbligazioni per il solo proponente: come, per esempio, l’offerta di una
fideiussione fatta al creditore da chi si propone come fideiussore. In questi casi la proposta è irrevocabile appena sia
giunta a conoscenza della parte cui è destinata e il contratto è concluso se la parte che ha ricevuto la proposta non
rifiuta entro il termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi.

Fino al momento in cui il contratto è concluso, le parti possono revocare sia la proposta che l’accettazione. Anche per la
revoca si applica il principio della cognizione: essa ha effetto quando giunge a conoscenza dell’altra parte.
La proposta può essere resa irrevocabile:
• per iniziativa dello stesso proponente, che dichiari di tenere ferma la proposta per un certo tempo (proposta ferma);
• per effetto di un patto di opzione tra le due parti, le quali si accordano nel senso che una di esse rimane vincolata alla
propria dichiarazione, per un certo tempo, mentre l’altra rimane libera di accettare o meno.

In tutti i casi in cui la proposta è irrevocabile, anche la morte o la sopravvenuta incapacità del proponente non
tolgono efficacia alla proposta. In caso di morte, il contratto si conclude vincolando gli eredi; in caso di sopravvenuta
incapacità, è vincolato l’incapace, come se il contratto fosse stato concluso dal contraente quando ancora era capace
(naturalmente, la regola non si applica quando il contratto fosse concluso in considerazione di particolari qualità
della persona come un contratto di lavoro, di opera o di mandato). Anche fuori dai casi di irrevocabilità, la proposta
rimane efficace oltre la morte, o nonostante la sopravvenuta incapacità del proponente, se questi è un imprenditore,
e la proposta riguardava l’esercizio d’impresa.

Una particolare ipotesi di formazione dell’accordo è l’adesione ad un contratto aperto, come per esempio l’adesione
a un’associazione o ad una cooperativa: il nuovo contraente non fa che dare il proprio consenso ad un contenuto
contrattuale predisposto dai contraenti originari. La proposta è, in tal caso, la richiesta di “iscrizione”.

4. Le trattative e la responsabilità precontrattuale.


L’art. 1337 impone alle parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, il dovere di
comportarsi secondo buona fede (b.f. oggettiva). La violazione di questi obblighi costituisce un illecito, le cui
conseguenze – il risarcimento del danno – sono indicate come responsabilità precontrattuale.
L’art. 1338 prevede un caso specifico di responsabilità precontrattuale: esiste una causa di invalidità del contratto;
una delle parti ne è a conoscenza, ma non ne informa l’altra; una volta accertata la nullità o pronunciato
l’annullamento, la parte che era in buona fede ha diritto al risarcimento del danno. Il risarcimento potrà riguardare il
danno risentito per aver confidato nella validità del contratto: cioè le perdite (es. le spese affrontate per avviare e
proseguire la trattativa) e il mancato guadagno (es. le occasioni perdute) che non si sarebbero verificati se la parte
non si fosse impegnata in quella contrattazione che non ha avuto buon esito; a questo danno ci si riferisce con
l’espressione “interesse negativo”. Un altro esempio, non previsto dalla legge, riguarda la rottura delle trattative: la
libertà contrattuale vuole che le parti possano sempre rifiutarsi di concludere il contratto. Tuttavia, se una parte
ingaggia trattative solo per distogliere l’altra da un affare, e quindi ritirarsi, la sua condotta è scorretta.

5. Il contratto preliminare.
Può succedere che le parti abbiano interesse a vincolarsi l’una verso l’altra, per avere la sicurezza che l’affare è in
porto, senza tuttavia arrivare alla conclusione del contratto.
Si può in questo caso concludere un contratto preliminare, con il quale le parti assumono, l’una verso l’altra, l’obbligo
di stipulare entro un dato termine un contratto definitivo.

In senso proprio, il contratto preliminare è quell’accordo con cui le parti si obbligano a stipulare in data successiva un
contratto dal quale soltanto nasceranno gli effetti propri al tipo di contratto in questione. Dunque, in senso proprio, il
contratto preliminare è un contratto a effetti obbligatori, dal quale nasce un obbligo a contrarre, cioè a stipulare un

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contratto di un dato tipo.
Comunemente, però, il nome preliminare è usato per indicare un contratto che contiene il definitivo consenso delle
parti, ma che, mandando della forma richiesta non per la validità, ma per altri fini (come per esempio la trascrizione),
dovrà essere riprodotto. Ad esempio, si usa chiamare preliminare di compravendita il contratto di compravendita di
un immobile concluso tra le parti per scrittura privata, con l’impegno di riprodurlo davanti al notaio ai fini della
trascrizione. A differenza de vero preliminare, questo preliminare improprio produce senz’altro tutti gli effetti del
contratto che le parti intendono concludere, in più fa nascere un obbligo a riprodurre il consenso in altra forma.

Il codice regola solo la forma del contratto preliminare (proprio), disponendo che questo contratto sia nullo se non è
fatto nella stessa forma che la legge prescrive per il contratto definitivo.
Se una delle parti rifiuta di stipulare il contratto definitivo, l’altra può rivolgersi al giudice e chiedere una sentenza
costitutiva che produca gli effetti del contratto non concluso (esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre).
Si tratta di una sentenza costitutiva, che modifica la situazione giuridica delle parti nel senso e nei modi in cui
l’avrebbe modificata il contratto definitivo.

Benché il contratto preliminare abbia in sé e per sé soltanto un’efficacia obbligatoria, il legislatore ha introdotto la
trascrizione per quei preliminari che abbiano come oggetto il futuro trasferimento della proprietà o la costituzione di
diritti reali limitati su beni immobili. Questa trascrizione serve come una prenotazione; serve cioè ad anticipare alla
data in cui il contratto preliminare è stato trascritto l’opponibilità del contratto definitivo o della sentenza costitutiva
emessa; cosicché se chi ha promesso di vendere dovesse alienare il bene ad un terzo, la controparte del preliminare
può far valere il suo diritto ad acquistare la proprietà con contratto definitivo o con sentenza costitutiva anche contro
il terzo che ha nel frattempo acquistato il bene.
L’effetto della trascrizione del preliminare è però limitato nel tempo: esso cade, e si considera come mai prodotto, se
il contratto definitivo o la domanda rivolta al giudice per ottenere la sentenza non sono a loro volta trascritti entro un
anno dalla data in cui era prevista la stipulazione del contratto definitivo e comunque non oltre tre anni dalla
trascrizione preliminare.

L’uso del preliminare improprio è dovuto anche al fatto che il trasferimento della proprietà è soggetto a dei costi, sia
fiscali, sia professionali (l’atto notarile necessario per la trascrizione), soprattutto nelle vendite immobiliari. Risulta
quindi conveniente, quando si compra per rivendere, concludere l’affare con la semplice scrittura privata, inserendo
una clausola che impegna il venditore a riprodurre il consenso anche verso eventuali sub acquirenti. In questo modo
si realizza una circolazione “sommersa” della proprietà, che viene alla luce solo quando il venditore e un certo
acquirente, vanno dal notaio, dove stipulano l’atto come una vendita diretta dall’uno all’altro, “cancellando” tutti i
passaggi intermedi.
Se chi ha sottoscritto il contratto preliminare si rifiuta di riprodurre il consenso in forma d’atto pubblico, il rimedio è
quello della domanda di verificazione della scrittura privata.

La minuta o puntualizzazione si ha quando le parti, senza voler assumere l’obbligo di contrarre, vogliono “fermare”
per iscritto l’accordo che hanno raggiunto su certi punti, e continuare la trattativa su altri aspetti del contratto.
Il contratto normativo non obbliga le parti a contrarre, ma ad inserire nei futuri contratti, che si trovino a stipulare,
determinate clausole.

6. Contratti di serie e contratti del consumatore.


Ogni giorno, un enorme massa di contratti si stipula senza che il loro contenuto sia stato discusso o negoziato tra le
parti. Qualsiasi fornitura di beni o servizi si attua attraverso contratti di serie, nei quali di regola è esclusa tutta la fase
delle trattative e si differenzia nettamente il ruolo giocato dalle parti: una che predispone internamente il contenuto
del contratto, l’altra che si limita a dare il suo consenso al contratto predisposto.
L’esigenza che riguarda questo modo di procedere è di ottenere una uniformità in massa di rapporti contrattuali, sia
per consentirne una veloce, talora istantanea stipulazione sia, per poterne prevedere i costi, tanto in termini di
prestazioni, quanto in termini di litigiosità.

Il Codice civile chiama “condizioni generali di contratto” le clausole contrattuali uniformi che caratterizzano i
contratti di serie, e che una parte predispone per inserirle in un tot. numero di contratti con cui esercita la sua
attività (art. 1341). La norma prevede che nei contratti conclusi con questa modalità, le clausole predisposte da una
parte entrino nel contratto se l’altra parte le ha conosciute o se avrebbe potuto conoscerle usando l’ordinaria
diligenza. La prima parte della regola si spiega secondo un criterio di autoresponsabilità: se, conoscendo
effettivamente il contenuto del contratto predisposto dalla mia controparte, accetto, significa che ho

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responsabilmente deciso di dare il mio consenso. La seconda parte: la conoscibilità, equivale a conoscenza;
stipulando un contratto, accetto non solo le clausole che conoscevo ma anche quelle che mi erano sconosciute, se
solo avessi potuto conoscerle con normale diligenza. Chi predispone il contratto non ha l’onere di procurare
l’effettiva conoscenza, ma solo quello di assicurare una ragionevole possibilità di conoscere le condizioni generali.

Per le clausole che stabiliscono particolari vantaggi per il predisponente o particolari oneri per l’altra parte (clausole
vessatorie) si prevede che non abbiano effetto se non sono specificamente approvate per iscritto.
L’elenco è ritenuto tassativo.
In questo caso, l’onere del predisponente è più grave: deve curare che l’altra parte abbia preso visione di queste
clausole e le abbia approvate per iscritto.
C’è poi un altro onere generale del predisponente: quello di formulare con chiarezza le condizioni di contratto.
Infatti, secondo l’art. 1370, nel dubbio, le clausole predisposte da una delle parti si devono interpretare nel senso più
favorevole all’altra parte.

La disciplina fin qui descritta risale al 1942 e, siccome non era più adeguata ad una moderna esigenza di protezione
del consumatore, nel 1993 una Direttiva CEE ha prescritto ai paesi membri di disciplinare in modo uniforme le
“clausole vessatorie” nei contratti tra “professionisti” e “consumatori”. In attuazione della Direttiva, il legislatore ha
inizialmente novellato il codice inserendo un intero “Capo” intitolato “Dei contratti del consumatore”.

Successivamente, nel 2005, tramite un d.lgs., ha provveduto ad emanare il “codice del consumo”, ove si trova oggi
quasi integralmente collocato il diritto positivo dei consumatori. Il codice ha abrogato pressoché tutti i provvedimenti
normativi precedentemente in vigore in materia di consumatori. Il solo art. vigente dell’originario Capo è il 1469bis,
che dispone che “le disposizioni del presente titolo (Dei contratti in generale) si applicano ai contratti del
consumatore, ove non derogate dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli al consumatore.”
I contratti del consumatore sono quelli conclusi tra un professionista (operatore economico professionale: persona
fisica o giuridica, pubblica o privata) e un consumatore (persona fisica, destinatario finale dell’attività produttiva).

Nell’ambito dei contratti del consumatore (quelli tra professionista e consumatore), si considerano vessatorie tutte
quelle clausole che determinano a carico del consumatore, in maniera contraria alla buona fede, un significativo
squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Le clausole vessatorie ai sensi della disciplina in esame sono nulle e, pertanto, inefficaci (ma il contratto in generale
resta valido ed efficace), ma vanno fatte delle precisazioni:
• Lo squilibrio che rende vessatoria una clausola non deve riguardare il corrispettivo (prezzo o tariffa ingiusti) o la scelta
del bene o del servizio offerto. In questo caso il rischio del cattivo affare ricade sul consumatore, purché quegli elementi
siano stati individuati in modo chiaro e comprensibile: secondo un principio di trasparenza.
• Il legislatore ha poi ritenute di ridurre la litigiosità limitando la necessità di una valutazione caso per caso. A questo fine il
codice contiene un’elencazione, non tassativa, di clausole per le quali vige una presunzione di vessatorietà.
• Nessuna clausola può ritenersi vessatoria se è stata oggetto di trattativa individuale, ovvero non deve esserci stato
alcuno scambio di specifica proposta e accettazione in termini di effettiva conoscenza e consenso.
• Un gruppo più ristretto di clausole che sono nulle, e quindi inefficaci anche se sono state oggetto di trattativa. Si tratta
della clausola che esclude o limita la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del
consumatore; della clausola che esclude o limita le azioni del consumatore contro il professionista inadempiente; della
clausola che estende l’adesione del consumatore a clausole che questi non poteva conoscere prima del contratto.

Le norme fin qui descritte offrono una tutela del singolo contraente che si trovi ad aver stipulato un contratto con
clausole vessatorie. Uno strumento di prevenzione e tutela dell’interesse diffuso alla correttezza dei contratti di
consumo è invece offerto dall’azioni inibitoria: le associazioni rappresentative dei consumatori e dei professionisti e
le Camere di commercio possono chiedere al giudice che inibisca l’uso delle condizioni di cui sia accertata la
vessatorietà. Altra forma di tutela, di carattere amministrativo, è la possibilità per l’Autorità garante della
concorrenza e del mercato di dichiarare la vessatorietà di clausole impiegate nei contratti conclusi mediante
adesione a condizioni generali di contratto o con la sottoscrizione di moduli, modelli o formulari.

L’art. 48 del “codice del consumo” elenca una serie di informazioni che il professionista, prima che il consumatore sia
vincolato dal contratto, è tenuto a fornire, in modo “chiaro e comprensibile”, alla controparte, salvo che si tratti di
elementi che risultino “già apparenti dal contesto”.

Forti esigenze di tutela del consumatore si presentano anche nel campo dell’e-commerce.

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7. La causa del contratto. I motivi.
La libertà contrattuale dei privati è riconosciuta sulla base di una premessa: il contratto deve essere diretto a
realizzare interessi meritevoli di tutela; deve avere, cioè, una funzione economico-sociale lecita.
Nei contratti tipici o nominati, questa condizione è senz’altro presente in astratto.
Ad esempio: nel contratto di compravendita la funzione economico-sociale è lo scambio di beni con denaro.
Quel che osserviamo nei contratti tipici, vale per tutti i contratti. Un contratto innominato o atipico è diretto a
realizzare un assetto di interessi che il legislatore non ha previsto. La prima volta che un contratto “nuovo” compare
sulla scena giuridica, osservando quel contratto concreto potremo capirne la funzione, la logica caratteristica,
ripetibile, che si riprodurrà in tutte le operazioni simili.
I giuristi chiamano “causa” la logica interna al contratto, che lo caratterizza e ne giustifica i diversi effetti.
Il Codice civile indica la causa tra i requisiti essenziali del contratto: non può mancare, e dev’essere lecita. Nell’uso
moderno del termine, i giuristi lo traducono prevalentemente così: funzione economico-sociale del contratto.

La menzione della causa tra gli elementi essenziali del contratto significa anzitutto che nel nostro ordinamento la
funzione giuridica del contratto (trasferire diritti o creare obbligazioni) deve sempre essere collegata ad una funzione
economico-sociale.
Un trasferimento “nudo”, senza un perché, una ragione non è per noi un trasferimento valido: manca la causa.
In tempi più recenti, la giurisprudenza ha rivisto la nozione di causa del contratto, precisando che occorre tenere in
considerazione anche il concreto assetto di interessi realizzato dalle parti. Ferma restando cioè la nozione di causa
intesa come funzione economico-sociale, assume rilevanza anche la causa in concreto, ossia la ragione concreta del
contratto (da non confondere coi motivi), la funzione individuale del singolo, specifico contratto concluso dalle parti.

La funzione è praticamente rilevante, come requisito del contratto, nei casi di mancanza o illeceità della causa.
La causa manca quando il contratto non può fin dall’origine produrre uno o più dei suoi effetti essenziali, perché ne
mancano i presupposti giuridici. Per esempio, il contratto di assicurazione è nullo se il rischio non è mai esistito, o ha
cessato di esistere prima della conclusione del contratto (come se assicuro contro l’incendio una casa già distrutta da
un terremoto).
Osserviamo per ora che è diffusa l’opinione secondo cui una funzione contraria alla legge potrebbe esistere solo in
un contratto atipico, perché nei contratti tipici gli elementi essenziali, e quindi anche la causa, sono determinati dallo
stesso legislatore.
Il legislatore parla di causa illecita per il contratto in frode alla legge, nel quale una funzione, di per sé lecita, viene
distorta in concreto per servire a scopi pratici disapprovati dalla legge.

Distinzione della causa dal motivo: la causa è la funzione costante, tipica, del contratto, che si conosce nel complesso
dei suoi effetti essenziali; il motivo è la ragione individuale soggettiva che spinge la parte a utilizzare quel
determinato schema.
Per esempio, nella vendita, funzione tipica è lo scambio di un bene con un prezzo, mentre il motivo per cui una parte
vende è vario, così come il motivo per cui una parte compra.
La distinzione è importante perché il legislatore non dà rilevanza ai motivi nell’ambito del contratto, salvo nel caso
del motivo illecito comune a entrambe le parti.

8. Classificazione dei contratti in base alla causa.


In base alla causa di distinguono diverse categorie di contratti. Una prima distinzione è quella tra contratti a
prestazioni corrispettive e contratti unilaterali.
Nei contratti a prestazioni corrispettive (come la vendita, la locazione, ecc.) la causa sta nella funzione di scambio tra
due prestazioni, che si giustificano perciò l’una con l’altra. Questo rapporto di reciprocità tra le due prestazioni è
chiamato sinallagma (parola greca che significa relazione di scambio) e contratti sinallagmatici si dicono appunto i
contratti a prestazioni corrispettive.

Il sinallagma può mancare fin dall’origine; si parla allora di difetto genetico della causa, come nel caso in cui una
persona si trovi a comprare un bene che aveva già acquistato ad altro titolo (per successione, usucapione, ecc.).
Se invece il rapporto tra le due prestazioni si altera in un momento successivo si parla di difetto funzionale della
causa. La disfunzione riguarda non più l’atto – che si è costituito con tutti i requisiti previsti dalla legge – ma il
rapporto contrattuale. Così, per esempio, può accadere che una delle parti non adempia alla sua prestazione, oppure
che una delle prestazioni diventi impossibile per una causa non imputabile al debitore, o ancora che la ragione di
scambio sia alterata perché una prestazione diviene eccessivamente onerosa rispetto all’altra. Sono questi i tre casi
di risoluzione del contratto.

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Nei contratti unilaterali, invece, le prestazioni sono a carico di una sola parte. Essi sono soggetti a regole particolari:
per esempio, quella già vista in tema di conclusione del contratto quando la parte obbligata sia anche la proponente.

La distinzione, in realtà, non è esaustiva perché esistono contratti che non hanno funzione di scambio, ma di
collaborazione tra più soggetti (es. il contratto di società). Tuttavia, il rapporto che si instaura tra le parti ha qualche
caratteristica che richiama l’idea di corrispettività, nel senso che se viene meno la prestazione dovuta da un soggetto
verso gli altri, anche i suoi diritti vengono meno.

Tra i contratti a prestazioni corrispettive si distinguono i contratti aleatori e i contratti commutativi.


Si intende per contratto aleatorio un contratto nel quale una parte è senz’altro gravata da una prestazione, mentre
per l’altra parte rimane incerto se una prestazione dovrà o meno essere eseguita, cosicché lo scambio è
caratterizzato da un rischio o alea.
Per esempio, sono contratti aleatori le scommesse autorizzate (Totocalcio, Enalotto), i giuochi autorizzati (come i
quiz televisivi), le lotterie autorizzate. Ancora, può configurarsi come contratto aleatorio la vendita di cosa futura (es.
alberi o frutti di un fondo).
Si classifica aleatorio spesso il contratto di assicurazione, perché l’assicuratore potrà trovarsi o meno obbligato a
pagare, mentre l’assicurato paga sempre il premio: ma lo scambio primario è in realtà tra premio e copertura
assicurativa.
Nel contratto commutativo, invece, lo scambio tra le prestazioni non si lega ad elementi di rischio, ma è previsto sulla
base di un rapporto di corrispettività economica: il quadro delle prestazioni convenute a carico di ciascuna delle parti
è certo e soggetto soltanto al normale rischio economico.

Una seconda distinzione è quella tra contratti a titolo oneroso e a titolo gratuito.
Nei contratti a titolo oneroso ciascuna parte, mentre ricava un vantaggio da contratto, sopporta anche un sacrificio.
Nei contratti a titolo gratuito, il sacrificio è di una sola parte.
La distinzione può sembrare uguale a quella tra contratti a prestazioni corrispettive e contratti unilaterali, ma si fa
osservare che ci può contratto a titolo oneroso in cui manca il legame di corrispettività: così il mandato oneroso ha la
sua causa nella fiducia, non nello scambio. Un altro caso ibrido è quello del mutuo oneroso (prestito di denaro con
interessi): il contratto si presenta come unilaterale, perché tutte le obbligazioni sono a carico del mutuatario, ma a
ben vedere realizza uno scambio tra godimento del denaro e pagamento dell’interesse e quindi è un contratto a
prestazioni corrispettive, e così è trattato dalla legge.

I contratti a titolo gratuito hanno ciascuno una propria causa, che giustifica la prestazione unilaterale; si tratta in
pratica della funzione economico-sociale della stessa prestazione, cioè l’interesse che essa soddisfa.

9. L’oggetto.
Il codice non da una definizione di oggetto, ma ne stabilisce i requisiti. Dev’essere: possibile, lecito, determinato o
determinabile (art. 1346). Se si guarda oltre questo articolo, il linguaggio del codice sembra oscillare.

In certe norme, sembra che oggetto sia il contenuto complessivo del contratto; in altre, si parla di oggetto ma si
sottolinea la funzione.

Quanto ai requisiti, la possibilità dell’oggetto equivale sostanzialmente alla possibilità delle prestazioni; solo
l’oggettiva e assoluta impossibilità rende nullo il contratto (esempio, è impossibile il trasferimento di proprietà di un
unicorno, ossia di una cosa mai esistita).
Il contratto però può avere ad oggetto il trasferimento della proprietà (oggetto della compravendita) di cose future
(il vino che produrrò ad ottobre) o la cessione di diritti futuri (diritti d’autore del libro che sto scrivendo), salvi i
particolari divieti della legge (vietata, ad esempio, la donazione di cose future).
Nella alienazione di cose future, il trasferimento della proprietà si verifica automaticamente quando la cosa viene ad
esistenza.

L’oggetto del contratto è lecito quando la prestazione non è contraria alla legge.
Illecito è, perciò, l’oggetto contrario a norme imperative (inderogabili) all’ordine pubblico (principi fondamentali dello
Stato) o al buon costume.

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L’oggetto infine deve essere determinato o determinabile. Nei contratti obbligatori, dovrà essere definita la
prestazione dedotta in obbligazione.
La determinazione può dipendere dal contesto del contratto, ed essere il risultato di un lavoro di interpretazione, o
può essere consentita da altre circostanze. Per esempio, nel preliminare di compravendita di un appartamento, in cui
le parti abbiano trascurato di identificare l’immobile con i dati catastali o almeno la via e il numero civico, potrebbero
risultare dl contratto elementi sufficienti a una sicura individuazione.
Determinabile è l’oggetto quando esistono criteri che ne consentono la determinazione. Così per il prezzo della
vendita l’art. 1474 prevede che, anche se le parti non lo hanno precisato né hanno stabilito come precisarlo, si possa
ricorrere a vari criteri: il prezzo normalmente praticato dal venditore o i listini di borsa o un “giusto prezzo” stabilito
da un terzo nominato dal Tribunale. Le parti stesse possono preferire un criterio di determinazione e una indicazione
rigida: per esempio, le clausole-oro, per sottrarre agli effetti della svalutazione il debito in denaro.

10. La forma.
Il quarto requisito previsto è la forma: “quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità”.
Nessun contratto può essere privo di “forma”, se usiamo questo termine in senso ampio: cioè di un mezzo, di un
“segno” che manifesti la volontà delle parti.
L’art. 1325 usa il termine “forma” per indicare i casi in cui è necessaria la forma scritta. E stabilisce un principio: la
forma è vincolata – cioè deve seguire particolari requisiti – solo nei casi stabiliti espressamente dalla legge. Dunque,
la forma dei contratti è di regola libera.
La libertà della forma può sembrare fonte di litigiosità, ma è la chiave della semplicità nella formazione dei contratti,
e quindi della velocità di circolazione nel traffico contrattuale.
È la libertà della forma che consente di risolvere molte situazioni affermando l’esistenza di impegni contrattuali
assunti verbalmente, per telefono, tacitamente, o con il c.d. “comportamento concludente”.

Una forma determinata è necessaria per la validità dell’atto (c.d. forma ad substantiam la cui mancanza è causa di
nullità) solo nei casi previsti dall’ art. 1350, il quale richiede la forma scritta per gli atti che hanno ad oggetto diritti
reali o diritti di godimento ultranovennali su beni immobili; la legge richiede poi l’atto pubblico per la donazione, per
le convenzioni matrimoniali e per la costituzione di società per azioni, in accomandita per azioni o a responsabilità
limitata.

In altri casi la forma scritta non è richiesta a pena di nullità, ma solo per la prova in giudizio (ad probationem): così
per l’assicurazione e la transazione; il contratto, allora non può essere provato per testimoni né per semplici
presunzioni, ma è valido: e la cosa è tutt’altro che indifferente, perché a) la forma scritta per la prova può risultare
anche da una dichiarazione collegata al contratto, che si è concluso verbalmente; b)ed essendo valido la parte
interessata può farlo valere deferendo all’altra il giuramento.

Una forma determinata può essere richiesta per il contratto anche a seguito di un precedente accordo tra le parti
(forma convenzionale). La forma convenzionale si presume voluta per la validità del contratto (non solo per la prova);
dunque il contratto concluso senza la forma pattiziamente prescritta è nullo.
Un modo particolare che la legge usa per stabilire la forma di certi atti è quello “per relationem”, cioè facendo rinvio
alla forma richiesta per un atto di cui il primo è strumento. Così la forma del contratto preliminare è quella richiesta
per il contratto definitivo; tra gli atti unilaterali, la forma della procura segue quella del contratto per il quale è
rilasciata.

11. Gli elementi accidentali. Condizione, termine, onere.


È uso accostare e contrapporre agli “elementi essenziali” del contratto, gli “elementi accidentali” cioè la condizione, il
termine, il modus o l’onere. È un linguaggio improprio. Altro non sono che clausole contrattuali: fanno parte del
contenuto dell’accordo, ma solo in modo eventuale.
Funzione comune alle tre clausole è quella di collegare gli effetti del contratto ad avvenimenti estranei che incidono
sull’interesse delle parti a vincolarsi (condizione) o collocando l’efficacia del contratto nel tempo, fissandone un inizio
o una durata e una fine (termine) o, infine, collegando la libertà verso un donatario con un obbligo a suo carico che
serve a realizzare un particolare interesse del donante (onere).

L’art. 1353 definisce la condizione come una clausola in cui le parti possono “subordinare l’efficacia o la risoluzione
(ovvero lo scioglimento) del contratto o di un singolo patto a un avvenimento futuro e incerto”.
Si distingue perciò la condizione sospensiva (che sospende gli effetti del contratto fino al verificarsi di un dato
avvenimento: es. ti vendo il mio appartamento se ottengo il trasferimento da Roma a Milano) dalla condizione

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risolutiva (che scioglie il vincolo contrattuale, facendo venire meno gli effetti del contratto se accade un dato
avvenimento, es.: ti vendo il mio appartamento ma, se mio fratello sarà trasferito da Milano a Roma, il contratto si
scioglierà).
Gli effetti della condizione retroagiscono, di regola, al momento della conclusione del contratto: una volta che la
condizione si sia verificata, la situazione giuridica che ne deriva si considera stabilita fin dal momento in cui il
contratto è stato concluso.
La legge chiama situazione di pendenza della condizione la situazione delle parti nel periodo di incertezza.
L’acquirente sotto condizione sospensiva e l’alienante sotto condizione risolutiva sono, durante la pendenza, in una
posizione simile: non hanno acquistato il diritto, ma potrebbero acquistarlo, e anzi risultare, dopo, titolari fin dal
momento del contratto. È una situazione di aspettativa che la legge tutela, riconoscendo a queste parti il potere di
compiere “atti conservativi” (cioè necessari per evitare la distruzione, il danneggiamento, o la perdita della cosa).
L’aspettativa è poi protetta imponendo all’altra parte un dovere di comportarsi secondo buona fede (b.f. ogg.) per
non pregiudicare le ragioni dell’altra parte; e, in particolare, se l’evento previsto non si verifica per causa imputabile a
quella parte, la condizione di considera avverata secondo il modello della fictio iuris.
Si può dire che durante la pendenza entrambe le parti hanno un “diritto” sottoposto a condizione: la condizione che
sospende l’acquisto di una parte funziona, dal punto di vista dell’altra, come una condizione risolutiva.
Il Codice civile sancisce che le parti possano disporre del diritto subordinato a condizione, ma, logicamente, anche gli
effetti dell’atto di disposizione sono subordinati a quella condizione.

Condizione impossibile: se sospensiva, rende nullo il contratto perché equivale all’impossibilità che il contratto abbia
mai effetto; se risolutiva, si considera non apposta perché equivale alla certezza che il contratto non sarà mai sciolto.
Condizione illecita, invece – cioè contraria a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume – rende nullo il
contratto al quale è apposta, tanto se sospensiva, quanto se risolutiva.

La giurisprudenza ritiene che la volontà delle parti di subordinare l’efficacia del contratto a un evento futuro ed
incerto possa essere manifestata tacitamente (condizione tacita).

Ci sono casi in cui le circostanze di fatto nelle quali, o in vista delle quali, un contratto viene stipulato non riguardano
soltanto i motivi individuali delle parti, ma appaiono come il presupposto oggettivo che giustifica l’intera operazione
economica (c.d. presupposizione); se tale presupposto vene a mancare, il contratto non ha più senso. Esempio: se io
prenoto un balcone che ha vista sulla strada dove avverrà la parata di New York, nei giorni in cui avverrà la parata, e
poi la parata cambia itinerario, non ha senso che il contratto rimanga efficace, vincolandomi a pagare un balcone che
guarda sul normale traffico stradale. Se ne parlerà a proposito della risoluzione (cap. 23).

Se il verificarsi dell’evento dedotto in condizione non dipende dalla volontà di una delle parti, bensì dal caso o dalla
volontà dei terzi (es. se il valore del titolo arriverà a 10 euro), la condizione è casuale. La condizione è mista se, a
realizzare l’evento, concorrono sia il caso o la volontà di un terzo, sia la volontà di una delle parti (es. se mi sposerò).
Se l’avverarsi della condizione dipende soltanto dalla volontà di una delle parti, la condizione si dice potestativa,
perché attribuisce a una delle parti il potere di influire sugli effetti del contratto (es. se cambierò lavoro, se cederò
l’azienda). Non deve però trattarsi di un puro arbitrio dell’alienante o dell’obbligato sotto condizione (es. se mi
piacerà, se vorrò, condizione meramente potestativa), in quanto ciò negherebbe la volontà di vincolarsi: l’alienazione
del diritto o dell’obbligo sarebbe nulla.

Si è parlato della condizione come di una clausola contrattuale. In alcuni casi è la legge a subordinare l’efficacia del
contratto al verificarsi di un determinato fatto: ad esempio, quando per i contratti stipulati dalla Pubblica
Amministrazione si prevede un’approvazione di un’autorità di controllo. Si parla in tal caso di condizione legale o di
condicio iuris.

Il termine è la clausola con cui si fissa nel tempo l’inizio o la cessazione degli effetti del contratto.
Esso può essere iniziale (dies a quo) o finale (dies a quem), stabilire cioè il principio o la cessazione degli effetti del
contratto. Il termine di cui si sta parlando si dice termine del contratto ed è da distinguere dal termine che designa il
momento in cui l’obbligazione dev’essere adempiuta (termine di adempimento).
Funzione del termine è quella di delimitare nel tempo gli effetti del contratto: la scadenza del termine non ha
efficacia retroattiva; gli effetti del contratto cominciano, o cessano, dal momento in cui il termine scade. Diversa è
quindi la situazione esistente fra il tempo della conclusione del contratto e il tempo previsto per la scadenza del
termine: la legge parla anche qui di pendenza, ma, al contrario della condizione, si tratta dell’attesa di un evento
certo.

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Una conseguenza pratica di ciò è che se il debitore paga un debito anticipatamente, non può chiedere la restituzione
di ciò che ha pagato: se invece fosse pagato un debito sottoposto a condizione, il debitore può richiedere la
restituzione perché la condizione potrebbe anche non verificarsi mai.
La scadenza del termine essenziale determina lo scioglimento del contratto.

L’onere è un obbligo imposto al beneficiario che è tenuto ad adempierlo (si ricordi che la donazione è un contratto e
il donatario potrebbe non accettare) nei limiti del valore della cosa donata. Per esempio, il proprietario di un antico
palazzo ne fa dono all’Università a patto che venga restaurato e sia poi destinato a biblioteca della Facoltà di
giurisprudenza. L’onere non muta la causa del contratto, che resta la liberalità e non diventa lo scambio. L’atto di
donazione potrebbe in questo modo prevedere la risoluzione per inadempimento.

CAP. 21.
L’EFFICACIA DEL CONTRATTO
1. La forza di legge.
Nel momento in cui un contratto è concluso, nasce tra i contraenti un vincolo: le parti sono “legate” dal contratto, e
non possono liberarsi se non nei casi e nei modi previsti dalla legge. Il contratto è “fonte” di una “legge privata” che
ha, per le parti, la forza prescrittiva propria delle norme giuridiche. Perciò il Codice civile detta una norma che
proclama (art. 1372): “il contratto ha forza di legge tra le parti”.

2. Vincolo e recesso.
La forza di legge riconosciuta al contratto implica che le parti non possono sciogliersi con decisione unilaterale dagli
obblighi derivanti dal contratto. Il diritto di recesso può però essere attribuito dalla legge o dallo stesso contratto.
La facoltà di recesso è un diritto potestativo che, se fatto valere, provoca lo scioglimento del vincolo contrattuale, e il
venir meno dei diritti ed obblighi nascenti dal contratto. Ipotesi di recesso sono anche la revoca del mandato da
parte del mandante e la rinuncia da parte del mandatario.
La facoltà di recedere è talvolta limitata: si richiede l’esistenza di gravi motivi (così per il conduttore nella locazione di
immobili urbani, quando le parti non abbiano previsto un libero recesso) o di giusta causa o giustificato motivo
(come il licenziamento, che è un recesso del datore di lavoro).

Il recesso previsto nel contratto si deve esercitare prima che il contratto abbia avuto un principio di esecuzione. La
regola non vale nei contratti di durata, in cui la prestazione deve essere ripetuta nel tempo o è continuativa. In questi
casi il recesso ha funzione di consentire a una parte di far cessare gli effetti del contratto a partire dal momento di
recesso e il mancato esercizio del potere di recesso può costituire rinnovazione tacita del contratto.
Il recesso può essere collegato a un corrispettivo, cioè a una prestazione in denaro a carico del recedente: in tal caso
il recesso ha effetto solo con il pagamento, salvo patto contrario.
Anche la caparra può avere funzione di corrispettivo all’eventuale recesso (caparra penitenziale). Se chi recede è la
parte che ha dato la caparra, la perde, se è la parte che l’ha ricevuta, deve restituire il doppio.

Il codice del consumo (d. lgs. 2005) ha introdotto una regolamentazione unitaria del recesso applicabile ai contratti
del consumatore.
La facoltà di recesso riconosciuta al consumatore è un diritto potestativo irrinunciabile, il cui esercizio non è
subordinato ad alcuna giustificazione. La facoltà di recesso può essere esercitata entro 14 giorni dal giorno di
conclusione del contratto, nel caso di contratto di servizi, e dal giorno in cui il consumatore acquisisce il possesso del
bene, nel caso di contratto di vendita.
La tutela è rafforzata imponendo al professionista uno specifico obbligo di informazione circa il diritto di recesso di
cui può giovarsi il consumatore e, in particolare, i tempi e le modalità con cui va esercitato. Il professionista è
obbligato a fornire tali informazioni per iscritto o su altro supporto durevole e deve consegnare al consumatore un
modulo da usare per il recesso. In caso di violazione di tale obbligo, il periodo di recesso si allunga a dodici mesi dopo
la fine del periodo di recesso iniziale.

3. I diversi tipi di efficacia.


L’accordo tra le parti può avere funzione (ed efficacia) traslativa e funzione (ed efficacia) obbligatoria.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
I contratti a funzione traslativa sono indicati dal codice come contratti con effetti reali, e sono quei contratti che
hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un
diritto reale o il trasferimento di un altro diritto (es. di credito).

Per questi tipi di contratti vige il principio consensualistico: il diritto si trasferisce e si acquista per effetto del consenso
delle parti legittimamente manifestato. Con questo principio, il solo accordo ha la “forza” di trasferire la proprietà:
l’acquirente è proprietario dal momento della conclusione del contratto, purché il consenso sia “legittimamente
manifestato” (cioè espresso nella forma richiesta).
Una regola del genere esige però dei correttivi che assicurino la certezza delle situazioni giuridiche, secondo quanto
abbiamo già detto riguardo alla pubblicità degli atti giuridici. A ciò provvedono quelle regole che risolvono conflitti tra
più acquirenti dello stesso bene, facendo prevalere il diritto di chi per primo acquista il possesso di una cosa mobile,
o di chi per prima trascrive l’atto di acquisto di un bene immobile o mobile registrato, o ancora di chi per primo
notifica la cessione al debitore ceduto
Nell’ambito dei contratti traslativi di proprietà, il principio si applica all’alienazione di una cosa specifica o di una
massa determinata di cose. Non si applica al trasferimento di cosa generica: la proprietà si trasmette solo con
l’individuazione. L’operazione deve essere fatta d’accordo tra le parti o nei modi da esse stabiliti. Se le cose devono
essere trasportate, l’individuazione avviene mediante consegna al portatore.

Il legislatore non detta norme generali per i contratti a efficacia obbligatoria: i loro effetti sono regolati secondo le
norme previste per i singoli contratti e dalle norme generali sulle obbligazioni. L’art. 1380 però, risolve il conflitto tra
più persone che hanno acquistato dallo stesso autore un diritto personale di godimento relativo alla stessa cosa:
prevale chi per primo ha conseguito il godimento e, se nessuno lo ha conseguito, chi ha titolo di data certa anteriore.
È spesso rilevante la distinzione tra contratti a efficacia immediata e i contratti di durata, i cui effetti si prolungano
nel tempo perché l’esecuzione è continuata (es. contratto di locazione) o differita (es. vendita a termine) o periodica.

4.1 L’interpretazione del contratto.


Il contenuto dell’accordo si determina anzitutto attraverso l’interpretazione del contratto. Cioè attribuire un
significato a due manifestazioni di volontà che – si suppone, e si dovrà accertare – si sono “incontrate” nell’accordo.

Art. 1362: nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi
al senso letterale delle parole. L’espressione “comune intenzione” può essere male intesa; può cioè far credere che il
problema sia quello di ricercare una qualche volontà interna che sia “comune” alle due parti.
Scopo dell’interpretazione non è la ricerca di un’interna volontà delle parti, ma piuttosto la determinazione della
volontà manifestata attraverso le parole o gli altri segni, cioè del significato che quelle parole o quegli altri segni
potevano avere in relazione al tempo, al luogo e alle circostanze in cui sono stati usati.
“Comune intenzione” è coincidenza o corrispondenza di significato tra le manifestazioni delle volontà delle parti.

I criteri interpretativi sono in gran parte extra-legali: se ho stretto la mano, non occorre la legge per dire cosa questo
gesto significa.

La regola-base dell’interpretazione è l’art. 1366: il contratto deve essere interpretato secondo buona fede.
Ciò vuol dire che al testo del contratto, o alle dichiarazioni che le parti si scambiano, o anche ai comportamenti con
cui tacitamente si manifesta l’accordo, dev’essere dato quel significato che ad essi darebbe una persona corretta e
leale. La regola rappresenta una prima applicazione del principio dell’affidamento; chi riceve una dichiarazione, e in
buona fede regola i suoi atti in conformità a quanto gli viene dichiarato, merita tutela.

L’art. 1362, avverte che non si deve dare un peso esclusivo al significato letterale delle parole ma occorre tener
conto del contesto. Occorre inoltre tener conto di tutto il comportamento della controparte.

Non sempre i criteri qui indicati risolvono i problemi. A volte, il contratto, o singole clausole, possono rimanere
oggettivamente di dubbio significato. La legge reagisce a questa difficoltà con alcuni criteri che hanno lo scopo di
sciogliere il dubbio, attribuendo al contratto uno dei due o più significati possibili (interpretazione oggettiva).
Così, si attribuisce, a una espressione dubbia di significato, il significato che le espressioni hanno secondo gli usi
interpretativi, o il significato più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto, o il significato meno conveniente
a chi ha disposto la clausola, o, come regola finale se le altre falliscono, il significato che realizza un equo
contemperamento degli interessi delle due parti o il minimo sacrificio per l’obbligato.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
È tuttavia possibile che, compiuta l’interpretazione, si debba constatare che le due manifestazioni non convergono in
un accordo e, quindi, che il consenso non si è formato. Da questo punto di vista, l’interpretazione può precedere
l’accertamento della conclusione del contratto, anzi talvolta ne è lo strumento.

4.2 L’integrazione del contratto.


Tra volontà manifestata ed effetti del contratto si deve realizzare una corrispondenza, non una puntuale ed esclusiva
coincidenza. NB: l’edificio del contratto corrisponde allo schizzo, al disegno essenziale della volontà; ma tutta la
ricchezza dei particolari si può sviluppare integrando o anche correggendo i contenuti della volontà manifestata dalle
parti. Questa operazione presuppone di aver interpretato il contratto.

Si può definire integrazione del contratto quel procedimento che, sulla base dell’accordo manifestato dalle parti, ne
completa il contenuto o ne determina compiutamente gli effetti.
Un primo modo di integrazione consiste nell’applicare quelle regole che prevedono l’inserimento nel contratto di
clausole, che entrano a far parte dell’accordo come se le parti le avessero effettivamente stipulate.
Questa integrazione può avere carattere dispositivo (si applica se le parti non hanno stipulato diversamente) o
imperativo (si applica anche contro una diversa stipulazione delle parti).
Dispositiva è la regola dell’art. 1340 secondo cui s’intendono inserite nel contratto le clausole d’uso a meno che non
risulti che esse non sono state volute dalle parti.
Imperativa è l’integrazione prevista dall’art. 1339, il quale prevede che le clausole o i prezzi di beni o servizi, imposti
dalla legge o da contratti collettivi con efficacia erga omnes siano inseriti di diritto nel contratto, anche in
sostituzione di clausole difformi pattuite tra le parti. La sostituzione fa sì che il contratto, benché contenga una
clausola nulla, rimanga valido con il contenuto imposto dalla legge.

Un secondo aspetto dell’integrazione deriva dall’art. 1347: gli effetti del contratto non si limitano a quanto le parti
abbiano espressamente pattuito, ma si estendono a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, gli usi e
l’equità. L’ordine delle tre fonti d’integrazione stabilisce una graduatoria di applicazione: prima il giudice deve
ricorrere alla legge, poi agli usi, poi all’equità. Solo la legge ha la forza di correggere la volontà dei privati, cioè di
imporsi non nel silenzio, ma contro una espressa determinazione. In particolare solo le norme inderogabili che
limitano l’autonomia privata in ragione di interessi della collettività o per dare una super protezione a interessi
“deboli”.

La lite che nasce da un contratto innominato “è una controversia che non può essere decisa con precisa disposizione”.
Si applicano allora (analogia) le “disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe”.
Il giudice può ricorrere alla disciplina dei contratti nominati ricercando, nel contratto atipico, elementi di somiglianza
con l’uno o l’altro contratto espressamente regolati. Se il contratto innominato non presenta analogia con contratti
tipici, il giudice terrà conto degli usi e infine ricorrerà all’equità.

La prima regola da tenere presente, e che vale per tutti i contratti nominati o innominati, è quella dell’art. 1375, che
impone l’esecuzione del contratto secondo “buona fede”, in modo corretto e leale. Il criterio della buona fede
diventa, così, uno strumento di integrazione del contratto.

Il contratto deve essere eseguito con correttezza e lealtà, secondo il principio di buona fede che già dominava la fase
di formazione dell’accordo e i criteri di interpretazione del contratto.

5. L’efficacia del contratto rispetto ai terzi.


Il contratto “non produce effetti rispetto ai terzi” se non nei casi previsti dalla legge: nel senso che il contratto non
può produrre effetti diretti nella sfera giuridica dei terzi (principio della relatività degli effetti del contratto).
Se però, il contratto trasferisce da Tizio a Caio un diritto, il cambiamento del titolare, che ha fonte nel contratto e ne
è l’effetto diretto, è un mutamento della situazione giuridica che riguarda indirettamente anche i terzi.
Si producono così effetti riflessi del contratto verso i terzi, nei confronti dei quali si possono far valere gli effetti del
contratto (opponibilità).

Un’eccezione al principio di relatività si profila nel contratto a favore di terzi.


Si tratta del contratto con cui una parte (promittente) si obbliga nei confronti dell’altra (stipulante) a eseguire una
prestazione a favore di un terzo. Esempio tipico è quello del contratto di assicurazione sulla vita.
Il comma 2° dell’art. 1411 precisa che, salvo il patto contrario, il terzo acquista il diritto per effetto della stipulazione,
anche se ovviamente può rifiutare. L’accettazione espressa del terzo non è condizione necessaria per l’efficacia del

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
contratto nei suoi confronti: basta il non-rifiuto. L’accettazione rende irrevocabile la stipulazione a favore
dell’accettante.
Nel contratto a favore di terzo non si ha un doppio trasferimento di diritti, da una parte all’altra e poi al terzo
nominato o al terzo beneficiario ma una attribuzione diretta al terzo per effetto del contratto.
Altre eccezioni sono, ad esempio, l’effetto della novazione verso i creditori solidali e, nel mandato senza
rappresentanza, l’acquisto diretto di diritti sui beni mobili da parte del mandante.

Non è invece un’eccezione a tal principio il contratto per persona da nominare, che si ha quando una parte, al
momento della conclusione, si riserva di “nominare successivamente” la persona che deve acquistare i diritti e
assumere gli obblighi nascenti dal contratto stesso. Qui l’accordo è efficace nei confronti del terzo solo per effetto di
una sua manifestazione di volontà. In caso di mancata nomina del terzo, il contratto produce i suoi effetti tra i
contraenti originari.

6. Cessione del contratto e subcontratto.


La cessione del contratto consiste in un altro contratto tra un cedente e un cessionario. Riguarda di regola un
rapporto a prestazioni corrispettive e implica perciò una successione nel debito e, quindi, opera soltanto con il
consenso dell’altra parte, cioè del contraente ceduto. È però possibile che il consenso alla cessione sia espresso fin
dall’origine con una clausola che preveda la cedibilità del contratto per volontà unilaterale di una delle parti; in tal
caso la cessione è opponibile secondo regole simili a quelle che valgono per la cessione del credito.
L’effetto della successione nel contratto può poi verificarsi, in alcune ipotesi, senza o contro la volontà di entrambe le
parti come, per esempio, quando una locazione di un’abitazione viene assegnata dal giudice, in sede di separazione,
al coniuge del conduttore (cessione legale).

Ipotesi diverse sono quelle in cui l’alienazione di un bene ha per effetto la successione nei contratti stipulati
dall’alienante in qualità di titolare del bene stesso (esempio, la vendita del bene locato non fa cessare il contratto di
locazione e di conseguenza l’acquirente succede all’alienante nella posizione di locatore). Nel caso in cui oggetto di
alienazione sia un’azienda (complesso di beni e servizi organizzati per l’esercizio d’impresa), l’acquirente subentra in
tutti i contratti stipulati dal titolare dell’azienda alienata, che non abbiano carattere personale.

Subcontratto: costituisce una situazione nuova, derivata da quella esistente, tra una delle parti e un terzo; ad
esempio, il conduttore di un immobile, rimanendo legato al contratto di locazione, stipula con un terzo una
sublocazione, con cui gli cede il godimento dell’immobile dietro pagamento di un canone.
Qui il problema è duplice.
a. Anzitutto, occorre stabilire se il contratto originario attribuisca una tale facoltà al contraente, o sia
necessario il consenso dell’altra parte. In alcuni casi la legge prevede che non è necessario il consenso
dell’altra parte, in altri invece sì.
b. Si tratta poi di vedere se il subcontratto faccia nascere rapporti diretti tra il primo contraente e il terzo
subcontraente.

7. La rappresentanza. La procura.
La rappresentanza è considerata un particolare modo di produzione degli effetti del contratto: il rappresentante,
usando il suo potere di sostituirsi al rappresentato, manifesta una volontà e forma un accordo che produce effetti
nella sfera giuridica di quest’ultimo (che è parte sostanziale del contratto).
L’art. 1387 menziona anzitutto la rappresentanza legale, ma l’attenzione è rivolta al potere di rappresentanza
“conferito dall’interessato”, e all’atto di procura.

La procura è un atto unilaterale rivolto ai terzi, costitutivo del potere di rappresentanza. La forma richiesta per la
procura è la forma prescritta per l’atto che il rappresentante dovrà compiere.
La procura tacita può ricavarsi dal comportamento dei soggetti o dalla situazione di fatto: esempio del commesso
posto al banco di vendita, e la tradizionale ricostruzione degli atti quotidiani compiuti dal minore.

Parte sostanziale del contratto è il rappresentato; suo è l’esercizio di autonomia privata e sua dev’essere la capacità
d’agire richiesta per l’atto. Parte formale è il rappresentante, che deve manifestare la volontà di contrarre e perciò
deve essere capace di intendere e di volere, in misura proporzionata alla natura dell’atto.
La qualità di parte formale del rappresentante ha conseguenze pratiche: se c’è un problema, per esempio, di errore o
di mala fede nella conclusione, si guarda al rappresentante, a meno che egli non funzioni solo come un nuncio, cioè si
limita a trasmettere una volontà altrui.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Se il rappresentante eccede i limiti della procura o è del tutto sprovvisto di procura (c.d. falso procuratore), siamo nel
caso di eccesso di potere; manca la legittimazione e solo la ratifica può determinare l’efficacia del contratto nei
confronti del rappresentato.
La ratifica può essere espressa o tacita. La prima consiste in una dichiarazione, che abbia la forma richiesta per la
procura. La seconda consiste nella spontanea esecuzione del contratto.
In mancanza di ratifica il contratto è inefficace; nei confronti del rappresentato, mancava il potere di rappresentanza;
nei confronti del rappresentante, che non ha agito in nome proprio.
Resta solo una responsabilità precontrattuale del falso rappresentante, il quale ha il dovere di correttezza e deve
quindi risarcire i danni risentiti all’altra parte per aver confidato senza colpa nella efficacia del contratto.
Nel caso in cui il rappresentante, con un proprio comportamento, abbia dato causa ad un apparente legittimazione,
egli subisce gli effetti dell’atto concluso dal falso procuratore (“apparenza imputabile”).

La violazione della regola per cui il rappresentante deve agire nell’interesse del rappresentato, costituisce un abuso
del potere: il potere c’è, ma è stato in modo deviante dallo scopo. Il contratto non è dunque inefficace dall’origine e,
anzi, produce i suoi effetti, ma è dato al rappresentato il potere di chiedere l’annullamento. Sono le ipotesi di
conflitto di interessi e di contratto con sé stesso.

La procura è di regola revocabile, ma la revoca va portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; altrimenti il
contratto produce effetti nei confronti del “non più rappresentato”: si tratta di un prolungamento dell’efficacia della
procura, imposto a tutela dell’affidamento dei terzi.

8. La simulazione del contratto.


Può succede che le parti, nel concludere un contratto, siano d’accordo per escludere che esso produca effetti:
intendono far apparire che un contratto è stato da loro concluso, senza che questo regoli effettivamente il loro
rapporto. Questa operazione di chiama simulazione del contratto.
In effetti, spesso questa pratica è inquinata da uno scopo illecito o di frode alla legge, ma non sempre.

La simulazione del contratto è un’operazione che richiede la stipulazione di un contratto e un accordo in base al
quale quel contratto è solo “apparente”, cioè destinato a non avere effetto tra le parti (c.d. accordo simulatorio).
La simulazione può comprendere anche un ulteriore accordo, cioè quello diretto a concludere un contratto “vero”,
che le parti vogliono mantenere nascosto (contratto dissimulato) dietro lo schermo di quello apparente. In questo
caso si parla di simulazione relativa, in contrasto con la simulazione assoluta di cui si è parlato prima.
Esempio di simulazione assoluta è la vendita simulata di un bene fatta per evitare che i creditori possano iniziare
l’esecuzione, mentre un esempio di simulazione relativa è quello che riguarda il prezzo della vendita immobiliare che
viene fatto apparire diverso da quello convenuto, per sfuggire all’imposta di registro.

Un particolare tipo di simulazione relativa è l’interposizione fittizia di persona, in cui si simula l’acquisto di un bene
(poniamo di Tizio) da parte di Caio, mentre il vero acquirente è Sempronio. Questa simulazione richiede l’accordo di
tre persone: l’alienante, il simulato acquirente e il vero acquirente. Se l’accordo fosse solo fra Sempronio e Caio, non
avrebbe efficacia nei confronti di Tizio, e quindi la vendita produrrebbe tutti i suoi effetti tra Tizio e Caio.
Caio sarebbe solo legato da un patto di fiducia con Sempronio, con effetti obbligatori.
Gli effetti della simulazione nei rapporti tra le parti sono l’attuazione di ciò che le parti hanno concordato, e cioè:
a. Che il contratto simulato non abbia effetto nei loro rapporti
b. Che quando esiste un contratto diverso da quello apparente, si producano tra le parti gli effetti del contratto dissimulato

Quando lo scopo non è lecito il contratto dissimulato è nullo.


Anche quando lo scopo è del tutto degno, la simulazione fa nascere un problema di tutela dei terzi.
La tutela dei terzi è assicurata dal codice con uno sforzo di equilibrata protezione degli affidamenti:
a. I terzi, pregiudicati dalla simulazione, possono farla valere nei confronti delle parti. Per esempio, io ho comperato da
Tizio, simulato alienante, e rivendico il bene da Caio simulato acquirente.
b. Né le parti, né gli aventi causa o i creditori del simulato alienante possono opporre la simulazione ai terzi che, in buona
fede (soggettiva), hanno acquistato diritti dal titolare apparente (salvi gli effetti della trascrizione).
c. Non può essere opposta la simulazione ai creditori del simulato acquirente che abbiano in buona fede (soggettiva)
iniziato l’esecuzione forzata: ho comperato da Tizio, simulato alienante, ma Sempronio, creditore di Caio, simulato
acquirente, ha in buona fede pignorato il bene.
d. In applicazione della regola vista al punto a), i creditori del simulato alienante possono far valere la simulazione che
pregiudica i loro diritti. Ma ci sono anche i creditori del simulato acquirente, che possono aver fatto conto su quel bene:
se hanno costituito ipoteca o pegno, o iniziata l’esecuzione, si cade nei casi b) e c); se sono creditori non assistiti da

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
particolari garanzie reali o personali, soccombono di fronte ai creditori del simulato alienante il cui credito sia però
anteriore alla simulata alienazione.

La protezione dei terzi si completa con la regola sulla prova: è sempre ammissibile, da parte loro, la prova per
testimoni della simulazione.

9. Uso indiretto e fiducia.


Operazione diversa dalla simulazione è l’uso indiretto del contratto: certi risultati, vengono raggiunti indirettamente
usando un contratto con uno schema causale diverso. Espressamente previsto è il caso in cui la donazione si realizza
indirettamente, cioè tramite un contratto diverso, come ad esempio la vendita a prezzo simbolico. L’uso indiretto
non è simulazione.

Una particolare ipotesi di uso indiretto nei contratti si vede nel caso della fiducia: un contratto, che ha l’effetto di
trasferire la proprietà, vien accompagnato da un patto con cui si impone all’acquirente di conservare il bene per
restituirlo all’alienante o ad altra persona.
Si considerano due ipotesi:
a. “Fiducia cum creditore”. Una persona è disposta a farmi un prestito, ma vuole essere fortemente garantita:
gli vendo allora un bene, ma con il patto che, appena potrò restituirgli il prestito me lo restituirà.
Lo scopo pratico è quello di mutuo con garanzia reale, ma viene raggiunto attraverso uno strumento con
effetti giuridici eccedenti: la proprietà della cosa si trasferisce al creditore. Si distingue dal patto
commissorio.
b. “Fiducia cum amico”. Tizio, assumendo una funzione pubblica, non vuole più figurare come proprietario di
certi beni: li trasferisce perciò a un congiunto, con l’intesa che gli amministri ed eventualmente li disponga
nell’interesse e secondo le indicazioni di Tizio e restituisca a richiesta i beni stessi o il loro prezzo, se sono
stati venduti. Principio dell’efficacia esclusivamente obbligatoria della fiducia.
Il fiduciario è nella piena titolarità del diritto, con il solo limite di un obbligo che lo lega al fiduciante: questo
ha solo una pretesa verso il fiduciario. Perciò, se il fiduciario vende i beni violando la fiducia, gli atti di
vendita sono efficaci, ma costituiscono un illecito contrattuale rispetto al fiduciante, che ha diritto al
risarcimento. Egualmente, i creditori del fiduciario possono avvalersi del bene: anche qui, se l’esecuzione
avverrà, il fiduciario dovrà risarcire il danno.

CAP. 22
VALIDITÀ E INVALIDITÀ DEL CONTRATTO
1. Le vicende del vincolo contrattuale.
Il contratto crea un vincolo che lega le parti. Il vincolo contrattuale può tuttavia:
• Non formarsi affatto, perché manca uno dei requisiti essenziali;
• Formarsi in modo fragile, perché i requisiti del contratto sono presenti ma difettosi;
• Formarsi bene, ma rompersi successivamente per fatti sopravvenuti che incidono sul rapporto contrattuale.
Nelle prime due ipotesi la ragione che impedisce o vizia il formarsi del vincolo è un guasto del contratto-atto, cioè del
titolo. Nella terza ipotesi la ragione che determina la rottura del vincolo riguarda lo svolgersi del rapporto: non incide
sul titolo, ma direttamente e soltanto sugli effetti.

Le prime due ipotesi si riconoscono nei casi di invalidità la terza nei casi di scioglimento
Dicendo che un contratto è valido diciamo che si è formato in modo conforme a quanto prescrive la legge e quindi
che il contratto è idoneo a produrre effetti. Per converso, dicendo che un contratto è invalido diciamo che il
contratto è inidoneo a produrre effetti (nullo) o che è inidoneo a produrre effetti stabili (annullabile).
Non si deve quindi confondere la validità e l’invalidità con l’efficacia e l’inefficacia. Dall’invalidità deriva (in caso di
nullità) o può derivare (nel caso di annullabilità) l’inefficacia, ma:
a. Un contratto valido può essere inefficace (perché, ad esempio, sottoposto a condizione sospensiva o a
termine iniziale, o perché stipulato da un soggetto che non ha il potere di compierlo) o diventare inefficace
(perché scatta una condizione risolutiva o un termine finale, o perché si cade in una ipotesi di scioglimento).
b. Un contratto invalido può essere efficacie (così il contratto annullabile finché non viene annullato).

Lo scioglimento del vincolo contrattuale non suppone alcuna idea di inidoneità del contratto, il quale è valido, ma
cessa di produrre effetti per:
a. Concorde volontà dalle parti tramite un nuovo accordo che libera le parti dal vincolo precedente

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
b. Recesso di una delle parti nei casi stabiliti dalla legge o dallo stesso contratto
c. Risoluzione del contratto (inadempimento, impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità sopravvenuta).

2. Nullità e annullabilità.
In certi casi il legislatore valuta il contratto come assolutamente inidoneo a produrre effetti, e di conseguenza,
dispone che non produca alcun effetto fin dall’origine e, di regola, che questa inidoneità non abbia rimedio:
caratteristiche fondamentali della nullità.
In altri casi invece, il legislatore evita una conclusione così radicale: ritiene più opportuno disporre che il contratto
produca i suoi effetti, ma che sia dato a una delle parti il potere di chiedere al giudice di toglierli di mezzo; la
situazione è perciò sanabile. Dunque, il contratto è inidoneo a produrre effetti definitivi, produce effetti fragili:
caratteristiche fondamentali dell’annullabilità.

Secondo l’art.1418, il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga
diversamente.
Più precisamente, la nullità consegue a:
• la mancanza di uno dei requisiti elencati dall’art. 1325;
• l’illeceità del contratto, che si produce per illeceità della causa, illeceità dell’oggetto, illeceità del motivo
(nell’art. 1345), illeceità della condizione;
• altri casi stabiliti dalla legge.
La nullità ha un fondamento generale, e si produce ogni volta che tale situazione si realizza.

Il codice non da una definizione generale dell’annullabilità, come fa per la nullità. Prevede singole e tassative cause di
annullamento: difetti di requisiti essenziali del contratto (capacità e volontà) e altri casi come l’abuso della
rappresentanza ed alcuni divieti di comprare.

3. I principali casi di nullità.


Mancanza degli elementi essenziali: il primo tra gli elementi essenziali del contratto è l’accordo, che può mancare
sotto due punti di vista: i soggetti contraenti e la volontà da questi manifestata.
• Dal primo punto di vista, un difetto radicale si verifica non solo quando il soggetto manchi del tutto (come
quando il contratto è concluso in nome di una persona inesistente o defunta), ma anche quando uno dei
contraenti difetta di capacità giuridica, in particolare della capacità speciale richiesta per assumere i diritti e
gli obblighi derivanti dal contratto.
• Dal secondo punto di vista, il contratto è nullo quando manca una dichiarazione di volontà minimamente
attendibile (ad esempio, il contratto stipulato per effetto di violenza fisica, vale a dire per una materiale
costrizione a fare la dichiarazione o il contratto concluso per scherzo).
L’incapacità di intendere e di volere è causa di annullamento a norma dell’art. 428. Quando invece manca
ogni possibilità di qualificare la condotta dell’incapace come manifestazione di volontà a contrarre, si deve
ritenere radicalmente nullo il contratto (es: bambino di pochi anni).
• La mancanza dell’accordo come causa di nullità riguarda un contratto concluso, e non si deve confondere
con la mancata formazione dell’accordo contrattuale. Si parla di inesistenza del contratto quando c’è palese
difformità tra proposta e accettazione, per cui il contratto non si può neanche ritenere concluso: in questo
caso si tratta di accertare la mancata conclusione, non la nullità.
• Abbiamo già indicato qualche esempio di mancanza della causa, come il caso dell’assicurazione contro un
rischio inesistente. Un altro esempio è quello del contratto concluso con lo scopo di costituire
un’obbligazione civile al posto di un’obbligazione naturale, come quando un convivente vuole assumere un
debito di mantenimento verso la convivente: la giurisprudenza tende a ritenere nullo tale contratto.
• Anche per la mancanza dell’oggetto si può richiamare quanto si è detto a proposito dei requisiti del
contratto, sia circa l’oggetto impossibile o inesistente, sia circa l’oggetto indeterminabile. Abbiamo detto
che non sempre quando le parti mancano di determinare l’oggetto e di stabilire i criteri per la
determinazione, si produce nullità: per esempio, per il prezzo di vendita, si può avere una determinazione
del giudice nei casi dettati dal codice.
Produce nullità, infine, la mancanza della forma richiesta per la validità dell’atto, non invece la mancanza
della forma richiesta solo per la prova.

Il contratto è illecito quando è illecito uno dei suoi elementi essenziali (causa, oggetto) oppure quando è illecito il
motivo comune a entrambe le parti o la condizione.

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Come si è già detto, i parametri di illeceità sono il contrasto con norme imperative, con l’ordine pubblico, con il buon
costume. Il codice fa salvi gli altri casi di nullità “stabiliti dalla legge”: i casi in cui è testualmente prevista.

L’ordine pubblico è un’espressione che abbiamo già trovato come limite all’efficacia di norme e atti stranieri, ora
ritorna come limite alla validità dei contratti. È una formula che vuole indicare le linee fondamentali e inderogabili
dell’ordinamento giuridico, insomma, i principi che si ricavano da tutto il sistema, e che non possono essere derogati
dalla volontà privata.
La nozione di buon costume fa invece riferimento ai valori della morale corrente. Non solo sessuale: qualcuno
considera contrario al buon costume il consenso dato per interventi medici rischiosi non giustificati da necessità di
cura o da gravi motivi psicologici.

Non è sempre facile distinguere l’illeceità della causa e dell’oggetto. In particolare, l’illeceità della causa può non
implicare illeceità dell’oggetto (nella prostituzione, ad esempio, non è la condotta illecita, ma lo scambio tra rapporto
sessuale e denaro); invece illeceità dell’oggetto implica illeceità della causa in concreto, anche se il contratto
corrisponde a un tipo di per sé lecito.

Quanto al motivo, art. 1345, secondo cui il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo
esclusivamente per un motivo illecito comune a entrambe. La parte che non è spinta dal motivo illecito è protetta.

Se al contratto è apposta una condizione illecita, diviene illecito. Se la condizione riguarda un singolo patto, si applica
la norma sulla nullità parziale.

Il codice estende l’illeceità della causa anche al caso in cui il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di
una norma imperativa. Esempio classico è quello della vendita con patto di riscatto diretta a eludere il divieto del
patto commissorio.
Nel linguaggio del codice, la frode alla legge sembra un vizio della causa dell’atto: una funzione in astratto lecita che
viene piegata in concreto per un fine contrario alla legge.
Dalla frode alla legge si distingue la frode ai creditori, cioè l’atto con il quale il debitore pregiudica le ragioni dei
creditori (per esempio, alienando un immobile per sottrarlo ai creditori, visto che il denaro è più facile da far
scomparire): il rimedio è la inopponibilità del contratto ai creditori, che si ottiene mediante l’azione revocatoria.

4. Le causa di annullamento. L’incapacità.


L’art. 1425 prevede l’annullabilità del contratto per incapacità legale (minore, interdetto, minore emancipato e
inabilitato per gli atti di straordinaria amministrazione compiuti senza l’assistenza del curatore, soggetto sottoposto
ad amministrazione di sostegno per gli atti compiuti in violazione delle regole contenute nel provvedimento del
giudice che istituiva la figura dell’amministratore di sostegno).
L’annullabilità deriva direttamente dalla mancanza della capacità legale, cioè di quella “patente” di accesso al traffico
giuridico che si acquista con la maggior età. La capacità di fatto dell’interdetto o del minore non ha quindi rilevanza
salvo il caso del minore che usa raggiri per nascondere la sua età.

L’annullabilità è la conseguenza prevista anche per difetti dell’atto compiuto dai rappresentanti legali dell’incapace
che non rispettano le norme che prevedono la necessità dell’autorizzazione giudiziale per gli atti di straordinaria
amministrazione.

Sempre l’art. 1425 prevede, al secondo comma, l’annullabilità per incapacità di intendere o di volere, rinviando però
all’art. 428, il quale, nel primo comma, prevede che un atto giuridico sia annullabile quando sussistano due
presupposti:
a. L’autore dell’atto sia stato, per qualunque causa anche transitoria, incapace di intendere o di volere al
momento della conclusione del contratto.
b. Dall’atto derivi un grave pregiudizio per l’incapace; quindi, non basta dimostrare che l’incapace non avrebbe
dato il consenso se fosse stato lucido, occorre dimostrare che è stato gravemente pregiudicato dall’atto. Se
io ubriaco rilascio una procura per vendere casa mia a buon prezzo, l’atto è valido.
Il secondo comma dell’art. 428 prevede, per i contratti, il requisito della malafede dell’altro contraente, che può
risultare dallo stesso pregiudizio, o dalla qualità del contratto, o altrimenti.
Il primo comma dell’art. 428 si riferisce agli atti patrimoniali tra vivi, esclusi i contratti. Quest’ultimi sono regolati dal
secondo comma dell’articolo, che prevede che per l’annullamento del contratto concluso da un incapace naturale
non è necessario un pregiudizio, ma solo lo stato di incapacità e la malafede dell’altra parte, che ne approfitta.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Il significato della norma è semplice: la persona che, in buona fede soggettiva, conclude un contratto con l’incapace è
protetta perché legittimamente ritiene attendibile la dichiarazione dell’incapace; si tutela il suo affidamento.
La tutela è rafforzata dalla regola secondo cui la buona fede si presume e quindi è l’altra parte a dover provare che la
controparte era a conoscenza della propria incapacità.
Nel caso di incapacità legale, una protezione della buona fede della controparte non ha fondamento, perché lo stato
di incapacità è facilmente conoscibile. L’ignoranza perciò, se esiste, è sempre ritenuta colpevole, perché dovuta a
negligenza, e non costituisce buona fede.
Se un minore, con raggiri (non solo dicendo che è maggiorenne), si fa credere maggiore d’età, il contratto non è
annullabile: ragionevole protezione dell’altra parte, anche perché il minore dimostra così di essere furbo abbastanza
da poter contrarre.

5. I vizi del consenso.


Art. 1427 indica i vizi del consenso: il consenso è stato dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo.
C’è stato dunque un consenso, ma frutto di un processo viziato: la parte si trova legata a un contratto al quale non
avrebbe consentito se non si fosse verificato un suo errore, l’altrui violenza, o il dolo della controparte.

L’errore non è definito dal codice; viene inteso come “falsa rappresentazione della realtà”.
Il codice considera due tipi di errore:
• errore-vizio, ossia il caso in cui una persona viene indotta a contrarre (si decide) a causa di errore, cioè un errore che
vizia la formazione della volontà.
• errore ostativo, cioè l’errore in cui si inciampa nella manifestazione di volontà o nella sua trasmissione (per esempio:
decido di offrire 120 euro, ma mi sbaglio e scrivo 1200); si forma una coincidenza di dichiarazioni e quindi un accordo
che non corrisponde alla “reale” volontà di chi ha sbagliato: c’è quindi divergenza tra volontà e dichiarazione.

Per produrre annullabilità l’errore deve essere essenziale e riconoscibile dall’altro contraente.

Errore essenziale è un concetto che implica che l’errore sia determinante per il consenso e che riguardi certe
circostanze indicate nell’art. 1429.
L’art. 1429 infatti elenca 4 casi di errore essenziale:
1. Errore sulla natura o sull’oggetto del contratto. L’errore sulla natura riguarda la causa del contratto (credo di
comprare a rate e invece ricevo in locazione); l’oggetto del contratto si identifica con le prestazioni su cui
verte l’accordo (credo di essere ingaggiato come attore e invece sto facendo una serie di foto pubblicitarie).
2. Errore sull’identità dell’oggetto della prestazione (credo di aver comprato l’appartamento che ho visto con il
mediatore e invece il contratto si riferisce a un altro) o su una qualità dell’oggetto che si possa ritenere
determinante per il consenso (credo di avere comprato olio extravergine d’oliva e invece è olio di semi di
girasole). L’errore sul valore: se un’errata valutazione dipende da errore sulla qualità, il contratto è
annullabile; se si valuta male un oggetto di cui si conoscono le qualità, il contratto non è annullabile (se
penso che un quadro valga milioni e poi vale poco non posso chiedere l’annullamento).
3. Errore sull’identità o sulle qualità dell’altro contraente che siano determinanti per il consenso.
4. Errore di diritto che sia stato la ragione unica o principale del contratto. L’ignoranza di una norma giuridica
può essere determinante per il consenso: mi è ignoto che una certa area non è edificabile in base alle leggi
sui suoli.
Tutto ciò significa che ci possono essere casi in cui l’errore è determinante ma non è “essenziale”.
La regola sull’errore essenziale significa che i motivi erronei non sono rilevanti nel contratto (c.d. errore sui motivi).
Si realizza così una tutela della controparte, che non ha l’onere di informarsi sulle particolari ragioni per cui il suo
partner si è deciso al contratto.

Il secondo requisito è quello della riconoscibilità dell’errore. L’errore si considera riconoscibile quando, in relazione al
contenuto e alle circostanze del contratto, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo.
L’annullabilità per errore è infine limitata dall’art. 1432, il quale prevede che la parte in errore non possa domandare
l’annullamento del contratto se l’altra offre tempestivamente si eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle
modalità del contratto che la prima intendeva concludere.

Il Codice civile parla poi della violenza morale. Manca una definizione del legislatore, ma dalla lettura del codice si
evince che l’espressione indica la minaccia, portata dall’altra parte o anche da un terzo, per estorcere il consenso del
contratto.
La minaccia deve avere alcune caratteristiche indicate nell’art. 1435: deve essere tale da fare impressione su una

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni a un male ingiusto. Si ha riguardo all’età, al sesso e alla
condizione della persona.
È ingiusto quel male che lede un interesse giuridicamente protetto e che non trova giustificazione in una norma
giuridica. Ingiusta può essere l’azione minacciata, in sé e per sé (ti diffamerò se non concludi questo affare); ma
ingiusto può essere anche lo scopo per cui si minaccia un’azione in sé lecita (se non mi vendi casa tua chiederò il tuo
fallimento). Perciò l’ingiustizia può sussistere anche quando si minaccia di far valere un diritto per conseguire
vantaggi ingiusti.
La gravità della minaccia sussiste anche quando il male riguarda la persona o i beni del coniuge, di un ascendente o di
un discendente del contraente. Se il male minacciato riguarda altre persone l’annullamento è rimesso alla
valutazione del giudice.
L’elemento della minaccia vale anche a distinguere la fattispecie della violenza dal timore, che non è causa di
annullamento del contratto a meno che la controparte si accorge del timore e se ne approfitta, violando il dovere di
correttezza nelle trattative: la parte in malafede potrà essere obbligata al risarcimento del danno.
Il timore è quella situazione psicologica in cui si trova una persona che immagina un male che la potrà colpire. Se è
indotto dall’esterno, cioè se nasce per effetto della minaccia, siamo nel campo della violenza.
Se invece il timore non è in relazione con una minaccia altrui allora l’alterazione psicologica non è rilevante come
vizio del volere nell’ambito del contratto.

Il dolo è il raggiro usato da una parte per carpire il consenso dell’altra inducendola a contrarre.
Raggiro significa che una parte si sia data positivamente da fare per ingannare l’altra: non basta, per esempio, il
silenzio (reticenza) su difetti della cosa venduta (qui la conseguenza sarà la garanzia per i vizi della cosa e non
l’annullamento del contratto); né è in dolo il contraente che si accorge di un errore dell’altra parte ma non la
informa: qui ci potrà essere annullamento per errore (se essenziale) e risarcimento del danno per responsabilità
precontrattuale.
Anche un certo imbonimento si ritiene, per tradizione, accettabile negli scambi; ognuno sa che deve fare la tara su
quello che racconta all’altra parte: un tempo questo “piccolo inganno” si chiamava bonus malus.

L’art. 1439 limita la rilevanza del dolo, in conformità con l’idea di vizio del volere, al caso in cui sia determinante, nel
senso che, senza raggiri, l’altra parte non avrebbe contratto; se il raggiro ha solo indotto la parte ingannata a
contrarre a condizioni diverse il contratto è valido, ma il contraente risponde dei danni.
Un altro limite stabilito dall’art. 1439 è che se l’autore dei raggiri è un terzo, il contratto è annullabile solo se la
controparte ne era a conoscenza e ne ha tratto vantaggio.

6. La tutela dell’affidamento.
Abbiamo visto, osservando i vizi del consenso, il realizzarsi sempre un attento equilibrio di due interessi contrapposti.
Da un lato l’interesse della parte, il cui consenso è viziato, a non vedersi legata a vincoli contrattuali che non
corrispondo alla propria volontà; è quindi lo stesso principio dell’autonomia che si invoca: nessuna modificazione
della sfera giuridica può prodursi, per un soggetto, senza il suo consenso (tutela della volontà). Dall’altro lato, c’è
l’interesse del contraente che ha regolato i suoi atti facendo affidamento sulla dichiarazione ricevuta

Il tentativo di equilibrare queste due esigenze si riassume nella formula della tutela dell’affidamento.
Nella disciplina dei vizi del volere, il principio dell’affidamento si vede all’opera nella regola che limita la rilevanza
dell’errore all’errore essenziale ed esclude l’errore sui motivi; nella regola che dà rilevanza solo all’errore riconoscibile;
nella regola che limita la rilevanza del dolo del terzo.
Nella incapacità legale il principio fa capolino solo alla norma sui raggiri del minore, per la buona ragione che negli
altri casi l’esigenza non si pone in quanto i soggetti incapaci sono facilmente riconoscibili grazie alle trascrizioni.
Nell’incapacità legale solo la malafede della controparte consente l’azione; se quindi io, ad esempio, faccio un
contratto con un anziano, non rendendomi conto che egli non si rende conto di ciò che sta facendo, il contratto non
è impugnabile.
La tendenza è accentuata dalla giurisprudenza, che considera applicabile l’art. 428 solo a contratti conclusi in uno
stato di completo obnubilamento (che, se palese, dovrebbe portare alla nullità del contratto).

Quanto agli altri casi di annullamento, nel contratto concluso da un procuratore in conflitto di interessi con il
rappresentato si ha annullabilità solo se il conflitto sia conosciuto o conoscibile al terzo. Nel contratto con sé stesso
invece, per evitare l’annullamento occorre che il rappresentante sia stato autorizzato a contrarre con sé stesso.

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Al principio di tutela dell’affidamento si ispira poi la soluzione dei problemi relativi alla posizione dei terzi aventi
causa da chi acquista in forza di un contratto annullabile.

7. Le azioni di nullità e annullamento.


Esiste un rapporto stretto fra le cause di invalidità che abbiamo studiato, e i diversi rimedi che il legislatore propone.
In ogni caso di invalidità c’è un interesse leso.

Artt. 1419 e ss.: azione di nullità.


Artt. 1441 e ss.: azione di annullamento.
Di regola, la nullità è assoluta, cioè può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, e può essere rilevata
d’ufficio, mentre l’annullabilità è relativa, cioè può essere fatta valere solo dalla parte che ne ha interesse.
Questa differenza fa notare che l’annullabilità è stabilita dalla legge nell’interesse della parte che si trova ad aver
concluso il contratto per effetto di un vizio del volere o in stato di incapacità, mentre la nullità è stabilita in viste di
esigenze di carattere generale.

Nell’ambito del contratto, la regola ha poche eccezioni. La nullità relativa è prevista, a favore del solo cliente, per i
contratti bancari conclusi da violazione delle norme sulla trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i
clienti. L’annullabilità è assoluta nel caso di incapacità derivante da interdizione legale.

Nel caso di annullabilità, la parte che potrebbe chiedere l’annullamento può anche produrre la convalida del
contratto tramite un atto unilaterale che contenga la menzione del contratto, della causa di annullabilità, e la
dichiarazione che si intende convalidarlo.
La convalida può anche avvenire tacitamente quando la parte, a conoscenza del vizio, esegue volontariamente il
contratto. In tutti e due i casi, ovviamente, la parte deve essere in condizione di concludere il contratto: se era
incapace al tempo della stipulazione, non deve più esserlo al tempo della convalida.
Nella nullità non è ammessa convalida, sia perché la convalida non può riparare il difetto originario, sia perché la
parte non può decidere in una situazione che supera il suo interesse.
È prevista invece la possibilità che il contratto nullo produca gli effetti di un contratto diverso di cui abbia i requisiti di
forma e di sostanza (conversione). La conversione non richiede una dichiarazione di volontà delle parti, ma opera
soltanto a condizione che il contratto valido, risultante dalla conversione, possa considerarsi espressione
dell’autonomia delle parti: occorre insomma che si possa ritenere che, conoscendo le cause di nullità, essi avrebbero
concluso quel diverso contratto cui la legge riconosce validità.
Vi sono però casi in cui la legge dispone la conversione.
In questi casi, la conversione si avvicina al quel tipo di operazione che la legge fa quando sostituisce di diritto clausole
nulle con clausole imposte: in questo secondo caso, però, la nullità del contratto stipulato era solo parziale.
Del tutto automatica è anche la conversione formale del contratto: un atto formato da un pubblico ufficiale, ma
incompetente o incapace, non può valere come atto pubblico, ma resta valido come scrittura privata, se è
sottoscritto dalle parti.

La conversione del contratto è una delle applicazioni di un più generale principio di conservazione del contratto, in
base al quale il legislatore tende, finché possibile, a dare efficacia alle decisioni assunte dai privati: in questa linea si
possono leggere le norme in tema di nullità parziale, di annullabilità dei contratti plurilaterali, le norme in materia di
interpretazione oggettiva del contratto e le norme in tema di clausole vessatorie nei contratti di adesione e nei
contratti del consumatore.

Il rapporto tra invalidità e inefficacia del contratto è diverso nelle due forme di invalidità.
La nullità è la conseguenza giuridica del fatto previsto, non della sentenza: questa infatti si limita a dichiarare la
nullità.
Invece, se si verifica uno dei casi che provocano annullabilità, l’annullamento è l’effetto della sentenza e va
domandato e pronunciato, tramite tale sentenza.
Dunque, se un contratto è nullo manca fin dall’origine il titolo per il trasferimento di diritti o per le obbligazioni
previste; questi effetti non si verificano e, se le prestazioni sono state eseguite, esse si considerano prive di
fondamento. Mentre, se un contratto è annullabile, il titolo dei trasferimenti e delle obbligazioni disposte c’è, fino a
che non viene tolto di mezzo. Una volta cancellato il titolo con l’annullamento, viene meno il fondamento sul quale si
sostenevano gli effetti del contratto: si dice perciò che l’annullamento ha efficacia retroattiva.
La differenza viene riassunta dicendo che la sentenza di nullità è dichiarativa (accerta una situazione esistente),

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
mentre quella di annullabilità è costitutiva (produce un mutamento, eliminando un contratto fino ad allora efficace).
Questo diverso funzionamento delle due forme di invalidità si rafforza con le norme sulla prescrizione.

L’azione di nullità non si prescrive: la mancanza di titolo può essere accertata senza limiti di tempo.
L’azione di annullamento si prescrive in 5 anni a partire dalla cessazione dell’incapacità legale, della cessazione della
violenza o della scoperta dell’errore o del dolo e, negli altri casi, dalla conclusione del contratto. Trascorso questo
periodo gli effetti diventano definitivi. Solo se il contratto non è stato eseguito, la parte, che avrebbe potuto chiedere
l’annullamento ma ha lasciato passare il termine di prescrizione, può ancora respingere la richiesta di adempimento
con una eccezione di annullabilità.

La differenza tra le due azioni si completa con la diversa soluzione del problema della opponibilità nei confronti dei
terzi.
L’annullamento (che non dipenda da incapacità legale) non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede
(soggettiva) e a titolo oneroso, salvi gli effetti della trascrizione della domanda. Tutela della buona fede soggettiva.

Esempio: Supponiamo che uno dei miei molti creditori, minacciandomi una esecuzione forzata, mi estorca il consenso per
vendergli a poco prezzo un terreno, e supponiamo che io chieda e ottenga una sentenza di annullamento per violenza. Nel
frattempo, il mio creditore aveva rivenduto il terreno a un terzo, il quale l’aveva acquistato in buona fede e a titolo oneroso. Il
terzo rimane proprietario anche se il titolo del suo dante cause è venuto meno. L’unica possibilità di far cadere anche l’acquisto
del terzo sarebbe che: io avessi trascritto la domanda di annullamento prima che il terzo trascrivesse il suo acquisto. Il terzo allora,
che va a trascrivere, trova contro il suo dante causa la trascrizione della mia domanda e non è più in buona fede.

Il fondamento della regola è la tutela dell’affidamento e per questo la regola non opera quando l’interesse protetto è
di natura tale da escludere la tutela dell’affidamento, come nel caso di annullamento per incapacità legale.
Si capisce dunque, come mai una norma generale di salvaguardia del terzo non esiste nel caso della nullità: chi non è
titolare di un diritto non può trasmetterlo ad altri.
Una eccezione a questo principio si verifica nell’acquisto di immobili o mobili registrati, quando ci sia un divario di più
di 5 anni tra la trascrizione dell’atto e la successiva trascrizione della domanda diretta a ottenere la dichiarazione di
nullità o l’annullamento per incapacità legale (pubblicità sanante).
L’art. 1419 considera il caso in cui la nullità riguardi solo una parte del contratto o singole clausole (nullità parziale): la
regola è che tutto il contratto sia nullo, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza la parte colpita da
nullità. Poiché la norma fa riferimento a una ipotetica volontà di entrambi i contraenti, si tratterà, in sostanza, di
capire che il contratto privo della parte nulla realizza egualmente gli interessi che entrambe le parti si proponevano
di raggiungere, o se invece divenga privo di senso o squilibrato a favore di una parte.
Questa regola non si applica quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative.

7.1 Le nullità “speciali” o “protettive”.


Lo schema dell’invalidità fondato sul binomio nullità-annullabilità, e i rispettivi, differenti modi di operare, vanno
ripensati alla luce della legislazione speciale, soprattutto di origine comunitaria, che si caratterizza per una spiccata
tendenza protettiva nei confronti di determinate categorie di “contraenti deboli”.
Si tratta delle c.d. nullità di protezione, nelle quali lo strumento della nullità si atteggia come rimedio duttile e
flessibile, che si conforma agli interessi del contraente “debole” nei contratti caratterizzati dalla c.d. asimmetria di
potere contrattuale.
L’intento protettivo nei confronti del contraente debole si realizza attraverso meccanismi che tendono ad assicurare
il mantenimento del contratto piuttosto che la sua demolizione, ma sempre nel rispetto dell’interesse della parte cui
si dirige la protezione. Ciò avviene, anzitutto, ove la nullità colpisca l’intero contratto, attraverso la regola che limita
la legittimazione al solo contraente protetto dalla disciplina imperativa violata.
In secondo luogo, il potere del giudice di rilevare la nullità può esercitarsi solo a favore del contrente “debole”, e
comunque nel rispetto di un suo eventuale interesse alla prosecuzione del rapporto.

In presenza di clausole nulle, il medesimo intento protettivo si esprime privilegiando la conservazione del contratto,
con contenuto modificato, attraverso la sostituzione o l’integrazione della clausola nulla con quella imperativa
violata.

8. Il contratto iniquo. La rescissione.


Il diritto dei contratti si regge sull’idea di autonomia.

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In certi casi però la determinazione del corrispettivo in denaro di beni e servizi non è libera, ma deve obbedire a
criteri normativi. Un più ampio principio di equilibrio regola i contratti del consumatore escludendo l’efficacia di
quelle clausole che determinano a carico del consumatore un “significativo squilibrio”.
Di regola, il privato corre il rischio della poca convenienza economica dei propri affari, fino a che non si verifichi una
delle ipotesi in cui la legge considera viziata la formazione dell’atto di autonomia.

Dal punto di vista dell’invalidità, l’iniquità del contratto non ha grande rilievo.
Anzitutto, un soggetto capace di agire è considerato in grado di valutare i propri interessi e di decidere in proposito.
Un rimedio all’incompetenza o all’ingenuità non può venire neppure dalla regola sull’incapacità di intendere o di
volere; la giurisprudenza, infatti, ne dà un’interpretazione molto stretta, in omaggio al principio di certezza delle
contrattazioni: per esempio, un anziano disorientato dal valore attuale della moneta che vende un pianoforte per 20
euro non potrebbe chiedere l’annullamento a norma dell’art. 428, se non dimostrando di essere stato in uno stato di
completo obnubilamento.
Quanto ai vizi sul volere, il principio per cui ciascuno corre il rischio delle proprie valutazione economiche trova
conferma in quanto si è già detto a proposito dell’errore sul valore.
Solo quando lo squilibrio economico sia dovuto a dolo è possibile chiedere quantomeno il rimedio del risarcimento
del danno, ma si dovrà provare che la parte non avrebbe contratto se non fosse stata raggirata.

Un limitato rimedio all’iniquità dello scambio è offerto dalla rescissione, che però dà rilievo allo squilibrio delle
prestazioni solo se sussiste un altro presupposto, e cioè l’approfittamento dello stato di pericolo o di bisogno in cui si
trovi una delle parti.
È rescindibile anzitutto il contratto con cui una parte ha assunto obbligazioni a condizioni inique, per la necessità,
nota alla controparte, di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (esempio il padrone di
una barca chiede 1milione per salvare un bambino in acqua a 10 metri di distanza).
Lo stato di pericolo già esistente e oggettivo distingue la fattispecie qui considerata da quella della violenza.

Rescindibile è pure il contratto concluso a condizioni inique per lo stato di bisogno di una parte, del quale l’altra abbia
approfittato per trarne vantaggio; ma qui non basta una qualsiasi sproporzione, occorre che la lesione ecceda la
metà del valore che la prestazione della parte danneggiata aveva al momento del contratto. Così, nell’esempio di
prima dell’anziano che vende il pianoforte a 20 euro, se si potesse provare che questo prezzo, sicuramente inferiore
alla metà del valore del piano, è stato pattuito perché il venditore aveva bisogno di denaro, e il compratore lo sapeva
e ne ha approfittato, si potrebbe ottenere la rescissione del contratto.
Non è mai rescindibile per causa di lesione un contratto aleatorio.
Attenzione: stato di bisogno indica una condizione economica, non la necessità di procurarsi una cosa (se sono senza
benzina e pago 100 euro un litro, il contratto è valido).
Si è detto che il legislatore limita la tutela contro l’iniquità del contratto per ragioni di certezza. Di ciò dà conferma
l’art. 1449: l’azione di rescissione si prescrive nel breve termine di un anno (a meno che il fatto non costituisca reato),
e dopo quell’anno viene meno anche la possibilità di eccepire la rescindibilità.
Inoltre, il convenuto può evitare la rescissione offrendo di riportare il contratto a equità.
La rescissione non opera come una forma di invalidità dell’atto, ma piuttosto si avvicina a uno scioglimento del
rapporto: infatti non pregiudica i diritti acquistati da terzi, salvi solo gli effetti della trascrizione della domanda.

CAP. 23
LO SCIGLIMENTO DEL CONTRATTO
1. Lo scioglimento del contratto.
L’art. 1372, dopo aver proclamato che il contratto ha forza di legge tra le parti, sancisce che non può essere sciolto se
non per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge.
Conviene ricordare il duplice aspetto del contratto: atto e rapporto. Dall’atto, cioè dall’accordo manifestato, nasce il
rapporto contrattuale, vale a dire i diritti e gli obblighi delle parti. Ebbene, questi diritti e obblighi possono non
nascere mai, o nascere precari, se l’atto è nullo o annullabile: il difetto del titolo impedisce o incrina la costituzione
del rapporto. Possono invece nascere, perché l’atto, il titolo è idoneo a produrre stabilmente i suoi effetti, ma venir
meno per una ragione che riguarda direttamente ed esclusivamente il rapporto stesso.
Nel primo ordine di casi diciamo che il contratto (contratto-atto) è invalido, nel secondo ordine di casi diciamo che il
contratto (contratto-rapporto) si scioglie.
Si parla di scioglimento o di risoluzione del contratto quando gli effetti del contratto vengono a cessare per cause che
non riguardano il titolo ma che ineriscono allo svolgimento del rapporto contrattuale.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Lo scioglimento del contratto può derivare, anzitutto dalla stessa volontà delle parti.
Il mutuo consenso è un successivo accordo delle parti di sciogliere il contratto; è a sua volta un contratto.
Il contratto, poi, può contenere clausole che ne prevedono lo scioglimento, come la condizione risolutiva e la
clausola risolutiva espressa.
Stessa funzione ha, nei contratti di durata, la clausola che prevede il recesso di una delle parti e casi di scioglimento
sono tutti quelli in cui è previsto un potere di recesso, o di revoca, o rinuncia.
La risoluzione del contratto è un modo di scioglimento del contratto che riguarda i contratti a prestazioni
corrispettive.
Nel rapporto che nasce da questi contratti può verificarsi un difetto funzionale del sinallagma. Questa disfunzione
può verificarsi in tre casi: inadempimento, impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità.

Comuni alle tre ipotesi sono gli effetti dello scioglimento del contratto, che la legge disciplina espressamente solo
con riguardo alla risoluzione per inadempimento.
La risoluzione del contratto ha effetto retroattivo tra le parti. Se però il contratto è ad esecuzione periodica o
continuata, l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite.
La risoluzione è inopponibile ai terzi e quindi non pregiudica i diritti da loro acquistati, senza distinzione riguarda alla
posizione dei terzi, questa volta, di buona o mala fede e di titolo oneroso o gratuito.
Comune è anche la regola sulla risoluzione del contratto plurilaterale, che riprende la formula usata a proposti
dell’annullamento e della nullità: il venir meno del rapporto verso uno dei contraenti non determina la risoluzione
dell’intero contratto salvo che la partecipazione mancata debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale.

2. La risoluzione per inadempimento.


Quando una delle parti è inadempiente l’altra può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto,
salvo, in ogni caso il risarcimento del danno.
Infatti, non è del tutto giusto dire che l’inadempimento è causa di risoluzione: è più preciso dire che l’inadempimento
di una parte attribuisce all’altra parte il diritto potestativo di risolvere il contratto.
Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo
all’interesse dell’altra; non basta l’inesatto adempimento, che è sempre fonte di responsabilità, a mettere in moto la
risoluzione: questa richiede che l’interesse di una delle parti sia seriamente insoddisfatto.

La scelta di chiedere l’adempimento è reversibile: anche dopo aver promosso il giudizio di condanna dell’altra parte,
l’attore può chiedere la risoluzione.
La scelta della risoluzione è irreversibile: neanche la parte inadempiente può adempiere dopo che è stata domandata
la risoluzione.

I contraenti possono prevedere espressamente nel contratto che l’inadempimento di una o più obbligazioni precisate
sia causa di risoluzione (clausola risolutiva espressa). In tal caso, la risoluzione opera di diritto, cioè senza la necessità
dei procedimenti che tra poco vedremo; ma poiché la clausola è stabilita nell’interesse della parte che dovrebbe
ricevere la prestazione, la risoluzione si verifica solo quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi
della clausola.

L’interesse ad ottenere l’adempimento si ritiene venuto meno quando per la prestazione di una delle parti fosse
fissato un termine che dovesse considerarsi essenziale (es. la consegna dell’abito di nozze) nell’interesse dell’altra.
Il carattere essenziale del termine dipende dalla natura della prestazione o dal complesso del contratto e può non
essere enunciato espressamente; tantomeno è necessario che la risoluzione sia pattuita espressamente.
Se la parte interessata vuole esigere l’esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia entro 3
giorni: in mancanza il contratto si intende risoluto di diritto.

Fuori dalle ultime due ipotesi, il diritto di determinare la risoluzione si può esercitare in due modi.
Con una domanda giudiziale, la parte adempiente può chiedere al giudice di risolvere il contratto ed eventualmente
di condannare l’altra parte a restituire la prestazione ricevuta, salvo sempre il risarcimento del danno.
In via extragiudiziale (c.d. procedimento monitorio) è possibile ottenere la risoluzione attraverso una diffida ad
adempiere, cioè un atto scritto con cui si intima all’altra parte di adempiere entro un termine adeguato, non inferiore
a 15 giorni, con dichiarazione che, trascorso tale termine, il contratto si intenderà senz’altro risoluto: il contratto si
scioglie di diritto se l’altra parte non adempie entro la scadenza. Attenzione: se manca quest’ultima dichiarazione, la
sola intimazione di adempiere sostituisce l’altra parte in mora, ma non porta alla risoluzione.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
La parte inadempiente deve comunque risarcire il danno: il danno cagionato dal ritardo, nel caso adempia
tardivamente; il danno risentito per inadempimento, se l’interessato agisce per l’adempimento che successivamente
risulti impossibile; il danno derivante dalla risoluzione del contratto, se l’interessato sceglie questa strada.

Le parti di un contratto sinallagmatico possono anche “giocare in difesa”: ciascuna di esse può rifiutarsi di adempiere
la sua obbligazione, se l’altra parte non adempie, o non offre di adempiere, contemporaneamente la propria;
l’inadempimento è opposto come eccezione alla pretesa dell’altra parte (eccezione di inadempimento).
L’eccezione non può essere opposta se sono stabiliti due termini diversi per le due prestazioni o se, avuto a riguardo
le circostanze, il rifiuto è contrario a buona fede.

Le parti possono pattuire che non siano opponibili eccezioni alla pretesa di adempimento: solve et repete, cioè prima
paga e poi chiedi la restituzione; non ha effetto per le eccezioni di nullità, annullabilità, rescissione.

3. Clausola penale e caparra.


Si ha clausola penale quando il contratto prevede che, se una certa prestazione non sarà compiuta (o non sarà
compiuta puntualmente), la parte inadempiente debba senz’altro pagare una determinata somma.
Funzione della clausola è di sollevare la parte che subisce l’inadempimento dall’onere di provare il danno. La clausola
è intesa quindi come una liquidazione anticipata del danno, tanto che il creditore non può pretendere il risarcimento
di un danno maggiore. Il debitore è protetto contro una penale eccessiva.

La caparra confirmatoria è una somma di denaro o di una quantità di cose fungibili che viene versata da una parte
all’altra alla conclusione del contratto, a conferma della serietà dell’impegno. Se il contratto è regolarmente
adempiuto, la caparra funziona come un anticipo del pagamento. Se invece chi ha versato la caparra non adempie,
l’altra parte ha diritto di recedere dal contratto trattenendo la caparra. Ma se è chi riceve la caparra a non
adempiere, è la parte che la ha versata a poter recedere, esigendo dall’altra il doppio della somma versata.

4. La risoluzione per impossibilità sopravvenuta.


L’impossibilità sopravvenuta libera il debitore quando sia dovuta a un fatto a lui non imputabile (come nelle
obbligazioni).
Nell’ambito di un contratto sinallagmatico, ciò determina il venir meno di una delle prestazioni e quindi la caduta del
rapporto di corrispettività facendo sì che l’altra prestazione non si giustifichi più. Perciò provoca automaticamente la
risoluzione. La parte liberata per effetto dell’impossibilità sopravvenuta non può più pretendere la prestazione
dell’altra. Se poi l’ha ricevuta, si tratta di una prestazione non dovuta (si ricordi che la risoluzione ha effetto
retroattivo), che deve essere restituita secondo le norme che regolano la ripetizione dell’indebito oggettivo. La
retroattività non vale per le prestazioni già eseguite nell’ambito di un contratto ad esecuzione periodica o
continuata.

Una possibilità di scelta è lasciata all’altra parte in caso di impossibilità parziale.


Si ricorderà che l’ipotesi è disciplinata, con riguardo all’obbligazione, dall’art. 1258, il quale prevede che il debitore si
liberi eseguendo la prestazione nella parte che è rimasta possibile. Ma la corrispettività economica, in un contratto
sinallagmatico, è alterata: e allora la legge dà all’altra parte un potere di scelta, tra chiedere una riduzione della
prestazione dovuta o recedere dal contratto quando non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.

L’impossibilità temporanea può determinare lo scioglimento del rapporto.


L’obbligazione si estingue anche per effetto di impossibilità temporanea quando, in relazione al titolo
dell’obbligazione o alla natura della prestazione, il creditore (nel contratto: la controparte) non abbia più interesse a
riceverla una volta ridivenuta possibile.

5. La risoluzione per eccessiva onerosità.


Il sinallagma si altera anche quando, successivamente alla conclusione del contratto, il rapporto originario dei valori
viene a mutare, così che una prestazione diventa eccessivamente onerosa rispetto all’altra.
La questione non si pone ai contratti a esecuzione immediata: qui l’operazione economica si esaurisce con lo
scambio.
Il rimedio è dunque limitato ai contratti ad esecuzione differita oppure ad esecuzione continuata o periodica.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Anzitutto, la legge considera come causa di risoluzione solo l’eccessiva onerosità indotta dal verificarsi di avvenimenti
straordinari e imprevedibili.
Infine, la sopravvenuta onerosità deve superare la normale alea del contratto, cioè quel rischio che normalmente si
assume una parte in relazione alla natura del contratto. Il richiamo all’alea normale non va confuso con la regola che
esclude la risoluzione per eccessiva onerosità nel caso dei contratti aleatori. L’alea norma sussiste anche all’interno
dei contratti commutativi, cioè che attuano uno scambio tra prestazioni sulla base di una corrispettività economica
determinata.

La risoluzione per eccessiva onerosità può essere evitata dalla parte contro cui è domandata tramite l’offerta di
modificare la condizioni del contratto secondo equità.

Per le obbligazioni che nascono da contratto unilaterale, l’eccessiva onerosità non libera il debitore, ma gli dà diritto
di chiedere una riduzione della prestazione o una modificazione delle modalità di esecuzione, tanto da ridurla ad
equità.

6. La presupposizione.
Un’ipotesi di scioglimento del contratto, non espressamente prevista dalla legge, ma elaborata dalla giurisprudenza e
dalla dottrina è il c.d. principio della presupposizione. Si tratta di un principio per il quale il vincolo contrattuale
sarebbe legato a una situazione di fatto che funge da presupposto del regolamento di interessi stabilito dalle parti: il
vincolo, quindi, dovrebbe cadere quando la sopravvenienza di diverse circostanze fa venire meno quel presupposto.
Come esempio, si può ricordare il caso della vendita immobiliare stipulata sul presupposto, comune ad entrambi i
contraenti, della edificabilità del terreno compravenduto, che è invece destinato del comune ad altro.
Il giudice può stabilire se il mutamento delle circostanze abbia prodotto una situazione incompatibile con
l’esecuzione del contratto, nella quale pretendere l’adempimento sarebbe contrario a correttezza.
La presupposizione, intesa come base oggettiva del contratto, non va confusa con la presupposizione in senso
soggettivo, cioè con il fatto che la volontà contrattuale di una delle parti muovesse dal convincimento che una certa
situazione di fatto fosse destinata a persistere, o che un avvenimento futuro dovesse senz’altro verificarsi. Infatti, in
questo caso, la sopravvenienza di circostanze impreviste non fa che rivelare un errore di previsione delle parti: nella
gran parte dei casi si tratterà di un errore sui motivi.
Il ricorso alla presupposizione non è necessario nel caso in cui si possa ritenere pattuita una condizione tacita, che si
ricostruisce attraverso l’interpretazione del contratto.

Sezione Seconda: I SINGOLI CONTRATTI


CAP. 24.
I CONTRATTI DI ALIENAZIONE
2. La vendita.
La più antica forma di scambio è la permuta, cioè lo scambio in natura, di bene contro bene.
Da quando è stata introdotta la moneta come merce di scambio, il contratto più diffuso è la vendita: il suo carattere
distintivo è la funzione di scambio tramite un prezzo.
L’art. 1470 del cc: la vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o di un altro
diritto verso il corrispettivo di un prezzo.
Quindi, ogni contratto con cui si trasferisce un diritto verso corrispettivo di un prezzo è vendita (non solo proprietà).

La vendita è sempre destinata a produrre un effetto traslativo: ma non sempre questo effetto è immediato.
In base al principio consensualistico, sappiamo che il diritto si trasferisce al momento della conclusione del contratto
quando la vendita ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata o di un diritto reale su cosa
altrui o di altro diritto. La vendita è quindi un contratto a effetti reali (effetto traslativo).

La vendita non ha efficacia reale (è un contratto a effetti obbligatori) quando riguarda cose determinate solo nel
genere (la proprietà si trasmette con l’individuazione), cose future, cose altrui e nella vendita con riserva della
proprietà.

Obbligazioni del compratore:


a. pagamento del prezzo nel tempo e nel luogo fissati dal contratto;
b. pagamento degli interessi se il prezzo non è immediatamente esigibile;

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
c. sopporta le spese della vendita, se non è pattuito diversamente.

L’art. 1476 elenca le obbligazioni principali del venditore:


a. consegnare la cosa comprata, nella vendita ad effetti reali;
b. far acquistare la proprietà della cosa o il diritto, nella vendita ad effetti obbligatori;
c. garantire il compratore dall’evizione e dai vizi della cosa.
L’obbligazione di consegna si adempie trasferendo al compratore il possesso della cosa, in modo effettivo o
simbolico. Un modo particolare di consegna è il costituto possessorio: il venditore trattiene la cosa pressò di sé
dichiarando di detenerla (anziché possederla) in vece del compratore (che costituisce come possessore).
La consegna deve comprendere pertinenze, accessori, frutti maturati dopo la vendita; inoltre, il venditore deve
consegnare i titoli e i documenti relativi alla proprietà e all’uso della cosa venduta, come per esempio il libretto di
circolazione dell’automobile. L’obbligazione di consegnare una cosa determinata include l’obbligo di custodirla fino
alla consegna.

Vendita di cosa futura è, per esempio, la vendita di appartamenti in un edificio in costruzione, o del vino prodotto
alla prossima vendemmia. La proprietà passa solo nel momento in cui la cosa viene ad esistenza, e s’intende che il
venditore è obbligato a fare quanto necessario perché ciò avvenga.
La vendita di cosa futura può configurarsi sia come un contratto commutativo sia come un contratto aleatorio. Nel
primo caso il compratore non corre il rischio della mancata realizzazione della “speranza”: se la cosa non viene ad
esistenza il contratto è inefficace. Il compratore corre soltanto il rischio della “normale alea” del contratto. Nel
secondo caso, il compratore corre il rischio che la cosa non venga ad esistenza e compra “la speranza”: il contratto
rimane efficace (escluso l’effetto traslativo/reale) anche se la cosa non viene ad esistenza, e il compratore è
obbligato a pagare il prezzo convenuto.

Particolare tutela è inoltre accordata alla persona fisica che sia acquirente di immobili da costruire: il costruttore è tenuto a
procurare alla controparte una fideiussione di importo pari alle somme versate o da versare prima del trasferimento della
proprietà, e una polizza assicurativa decennale a copertura dei danni materiali e diretti all’immobile, compresi i danni a terzi,
rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 1669.

Si ha vendita di cosa altrui quando una persona vende (in proprio nome) una cosa di cui non è proprietario, o di cui
non è interamente proprietario. Questo tipo di vendita consente al venditore di “giocare in anticipo” su acquisti
imminenti o che egli comunque conta di poter fare e, talvolta, di procurarsi il capitale necessario a comprare ciò che
ha già venduto. Esempio: Tizio sa che l’imprenditore Caio ha un tot di prodotti invenduti; Tizio allora li vende ai suoi
clienti e, poi, con gli ordini al sicuro, compra da Caio.
La vendita di cosa altrui è valida perché non manca nessun requisito essenziale. Manca piuttosto un requisito di
efficacia, poiché il venditore non ha il potere di disporre (difetto di legittimazione): perciò il contratto produce solo
effetti obbligatori immediati; tra questi l’obbligo del venditore di procurare l’acquisto di proprietà.
L’effetto traslativo si produce automaticamente, quando il venditore acquista la proprietà dal titolare della cosa
venduta.
Quanto alla protezione del compratore si distinguono due ipotesi:
• Se il compratore era a conoscenza dell’altruità della cosa, la vendita di cosa altrui si regola come un comune
contratto obbligatorio: se il venditore non riesce a procurare l’acquisto, si ha inadempimento, al quale può
far seguito la risoluzione secondo le regole studiate.
• Se il compratore ignorava che la cosa non era di proprietà del venditore, ha a sua disposizione una
“risoluzione speciale” perché non deve attendere il verificarsi dell’inadempimento, ma può chiedere subito
la risoluzione del contratto, salvo che nel frattempo il venditore non gliene abbia fatto acquistare la
proprietà.

Il venditore ha infine, come abbiamo detto, l’obbligo di garantire il compratore dall’evizione e dai vizi della cosa
venduta.
Si ha evizione quando un terzo fa valere un diritto di proprietà (evizione totale) o un altro diritto reale (evizione
parziale) sulla cosa venduta e, vincendo, sottrae la cosa al compratore o ne limita il godimento.
L’evizione si realizza per effetto di un’azione di rivendica o per effetto di azione confessoria. Il pericolo di rivendica
consente al compratore di sospendere il pagamento del prezzo, se al tempo della vendita ignorava il pericolo. Se poi
il compratore subisce l’evizione totale, il venditore è tenuto a risarcirlo del danno secondo le regole che valgono per
la vendita di cosa altrui.
La garanzia è perduta se il compratore, convenuto in giudizio, non chiama in causa il venditore.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Se la cosa è parzialmente evitta il contratto si risolve o il prezzo si riduce, salvo il risarcimento del danno, secondo il
criterio che vale per la vendita di cose parzialmente altrui.
La garanzia per evizione è un effetto naturale del contratto di compravendita: si applica anche se le parti non lo
prevedono, ma sono libere di escluderla.

La garanzia per i vizi della cosa venduta protegge il compratore contro i vizi materiali della cosa, che la rendano
inidonea all’uso cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore. La garanzia riguarda i vizi occulti,
cioè quei difetti che il compratore non conosceva e non avrebbe potuto facilmente conoscere; ma anche i vizi
conoscibili sono coperti dalla garanzia se il venditore ha dichiarato che la cosa è esente da vizi.
Anche la garanzia per vizi è un effetto naturale del contratto. La garanzia può essere esclusa o limitata, ma il patto
non ha effetto se il venditore ha in mala fede taciuto al compratore i vizi della cosa.

L’effetto della garanzia è quello di consentire al compratore una scelta, fra la risoluzione del contratto (se chiesta in
giudizio, azione redibitoria) o la riduzione del prezzo (se chiesta in giudizio azione quanti minoris, o estimatoria). La
scelta è irrevocabile se è fatta con domanda giudiziale.
Quale che sia la strada seguita, il compratore ha diritto anche al risarcimento del danno, se il venditore non prova di
aver ignorato senza colpa i vizi della cosa: il risarcimento si estende ai danni derivati dai vizi della cosa (es. un
incidente provocato da freni rotti). Il venditore ha quindi l’obbligo di controllare, nei limiti dell’ordinaria diligenza,
che la cosa venduta si immune da vizi.

La garanzia per i vizi e mancanza di qualità è soggetta a termini brevi: il compratore decade dal diritto, se non
denunzia i vizi al venditore entro 8 giorni dalla scoperta; fatta la denuncia c’è un anno di tempo dalla consegna per
esercitare il diritto (si prescrive). La denuncia non è necessaria se il venditore ha riconosciuto l’esistenza del vizio.
Per quanto riguarda la mancanza di qualità promesse ovvero essenziali per l’uso cui la cosa è destinata, la tutela del
compratore è affidata ai rimedi previsti per l’inadempimento.

Con l’emanazione del “codice del consumo”, per i contratti conclusi dal consumatore (inteso come persona fisica,
destinatario finale dell’attività produttiva di beni e servizi, acquirente di un “professionista”) sono state introdotte
molte novità.
Importanza fondamentale, anzitutto, ha la configurazione nel nostro ordinamento il principio di conformità al
contratto, che determina il superamento della tradizionale distinzione tra vizi e mancanza di qualità. L’art. 129 del
codice del consumo espressamente impone al venditore l’obbligo di consegnare al consumatore beni conformi alle
pattuizioni contrattuali; il primo comma del successivo art. 130 sancisce la responsabilità del primo nei confronti del
secondo per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene.
Ciò premesso, meritano di essere segnalati i seguenti profili della disciplina.
• Per bene di consumo si intende qualsiasi bene mobile anche da assemblare, salve alcune eccezioni.
• L’art. 129 comma 2 fonda una presunzione di conformità al contratto sulla presenza di una serie di indici, tra
i quali la sussistenza della qualità e delle prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo e, se del caso, delle
dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche dei beni secondo quanto detto dal venditore, dal produttore, dal
suo agente o dal suo rappresentante, in particolare nella pubblicità o sull’etichettatura.
• La rilevanza del difetto di conformità è esclusa se, al momento della conclusione del contratto, il
consumatore ne era a conoscenza o avrebbe dovuto esserlo secondo l’ordinaria diligenza, oppure se il
difetto è conseguenza di istruzioni o materiali forniti dallo stesso consumatore.
• L’art. 130 incide sul quadro dei rimedi a disposizione del consumatore: questi, se il difetto di conformità
sussiste al momento della consegna potrà senza spese a suo carico chiedere al venditore la riparazione o la
sostituzione. Tuttavia, il diritto di scelta viene meno nel caso in cui il rimedio prescelto sia oggettivamente
impossibile o, in rapporto all’altro, eccessivamente oneroso.
• Nel caso che, sia la riparazione, sia la sostituzione siano impossibili, o in sé stesse eccessivamente onerose,
oppure, che il venditore non abbia soddisfatto in un congruo tempo la richiesta fattagli, o ancora, che a
seguito della riparazione o sostituzione il consumatore abbia subito ulteriori inconvenienti, alla scelta tra la
riparazione e la sostituzione subentra quella tra congrua riduzione del prezzo e risoluzione del contratto.
• Il legislatore consente alle parti di negoziare la soluzione che preferiscono. Infatti, dopo che il consumatore
abbia denunziato il difetto di conformità, il venditore è libero di proporre qualsiasi rimedio disponibile.
• In coerenza col principio generale dell’art. 1455, neppure al consumatore è riconosciuto il diritto alla
risoluzione quando tale difetto di conformità sia di lieve entità: se non è stato possibile o è eccessivamente
oneroso ottenere la riparazione o la sostituzione del bene, si dovrà accontentare della congrua riduzione del
prezzo.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
• Il difetto di conformità del bene determina la responsabilità del venditore soltanto se si manifesta entro due
anni dalla consegna. Inoltre, il consumatore decade dalla tutela se non denunzia il vizio entro due mesi dalla
scoperta; tuttavia, la denuncia non è necessaria e, dunque, la decadenza non opera se il venditore ha
riconosciuto l’esistenza del difetto o lo ha occultato.
L’intera disciplina che si è descritta è estesa anche ai contratti di permuta, di somministrazione, di appalto, di opera e
a tutti gli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre.

Occorre infine avvertire, che per i contratti di vendita di merci tra soggetti che abbiano sede d’affari in Stati diversi,
vige un diritto uniforme stabilito dalla Convenzione di Vienna.

Una clausola particolare del contratto di compravendita è la vendita con patto di riscatto: il venditore si riserva il
potere (diritto potestativo) di riacquistare la proprietà della cosa mediante:
a. Dichiarazione unilaterale comunicata al compratore entro un termine fissato, che non può essere maggiore
di due anni nella vendita di mobili e di 5 nella vendita di immobili;
b. Restituzione del prezzo pagato, oltre ai rimborsi per spese e riparazioni necessarie o utili; ogni patto che
preveda la restituzione di una somma superiore è nullo per la parte eccedente.
Anche i successivi acquirenti subiscono l’effetto del riscatto, se il patto è loro opponibile: il che, nel caso degli
immobili, si ottiene con la trascrizione della clausola.

La vendita con patto di riscatto è talvolta usata a scopo di garanzia: Tizio, anziché ricevere da Caio una somma a
titolo di mutuo, vende a Caio un bene e ne riceve il prezzo: se, nel termine fissato, sarà in grado di restituire la
somma, eserciterà il riscatto, altrimenti il bene rimarrà a Caio.
Questo uso del patto di riscatto può costituire un caso di frode alla legge, in quanto sia diretto a eludere il divieto del
patto commissorio.

Patto di retrovendita: patto con cui compratore e venditore assumono l’obbligo di contrarre una nuova
compravendita, che faccia riacquistare al venditore la proprietà della cosa venduta. È un contratto preliminare: il
diritto di riacquistare non ha, in questo caso, carattere di diritto potestativo, ma di una pretesa cui sta a fronte
l’obbligo dell’altra parte.

Vendita a rate con riserva di proprietà. I caratteri essenziali sono i seguenti:


a. Concluso il contratto, la proprietà non passa immediatamente al compratore, ma rimane al venditore fino al
pagamento dell’ultima rata di prezzo: è una eccezione al principio consensualistico.
b. La cosa viene però consegnata al compratore, il quale ne acquista immediatamente il godimento.
c. Il rischio di perimento fortuito della cosa è a carico del detentore (compratore); se la cosa viene rotta senza
sua colpa, dovrà comunque pagare fino all’ultima rata.
d. Il compratore che non paga determina la risoluzione del contratto; a meno che non paghi una sola rata, che
non superi l’ottava parte del prezzo. La risoluzione determina l’obbligo del venditore di restituire le rate,
salvo il diritto a un equo compenso per l’uso della cosa, oltre il risarcimento del danno.

Non tutte le vendite a rate sono con riserva di proprietà: questa modalità della vendita non è implicita nella
rateazione del prezzo, ma deve essere espressamente stipulata.

3. La somministrazione.
Somministrazione: contratto con il quale una parte si obbliga, verso il corrispettivo di un prezzo, a eseguire a favore
dell’altra, prestazioni periodiche o continuative di cose. Nella vita di ogni giorno assume nome diversi come
“fornitura”. Due esempi sono la fornitura di gas e luce, e le forniture periodiche di merci per le aziende.
Catering: contratto a cavallo tra l’appalto di servizi e la somministrazione, che ha per oggetto la fornitura di pasti
preconfezionati e di alimenti in genere.

La somministrazione va distinta dalla vendita a consegne differite (es. un’opera di libri che si vende in molti volumi).
Qui la periodicità è solo un modo di esecuzione: funzione del contratto è lo scambio fra l’intera cosa venduta e un
prezzo globale, e non la soddisfazione di un fabbisogno che si proietta nel tempo.
Si tratta quindi di un contratto ad esecuzione differita, mentre la somministrazione è un contratto ad esecuzione
continuata o periodica.

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Viene in genere riportato al contratto di somministrazione anche il contratto di concessione di vendita, con il quale
una parte (concessionario) si impegna ad acquistare e a rivendere esclusivamente i prodotti (es. automobili) di una
determinata impresa.

3.1. Il contratto di subfornitura.


Il contratto di subfornitura è il contratto con cui un imprenditore (subfornitore) si impegna ad effettuare, per conto
di un’impresa (committente), lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime fornite dalla committente
medesima, o si impegna a fornire all’impresa committente prodotti o servizi destinati ad essere utilizzati nell’ambito
dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi,
conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente.
Si possono però rilevare alcune particolarità.
• Il contratto di subfornitura può essere concluso solo da due imprenditori. È, perciò, esclusa l’applicazione
delle tutele riconosciute al consumatore.
• L’oggetto del contratto è vario, in quanto può consistere sia in un dare sia in un fare.
• Ciò che caratterizza la fattispecie è la situazione di dipendenza economica del subfornitore. Il subfornitore si
trova, nei confronti del committente, in una situazione simile a quella in cui si trova il consumatore di fronte
all’imprenditore (solitamente il committente è una grande impresa, mentre il fornitore una medio-piccola).
La disciplina del contratto di subfornitura ha quindi di mira soprattutto il riequilibrio della posizione delle
due parti.

In primo luogo, è imposto l’obbligo della forma scritta a pena di nullità. Nel contratto devono sempre essere
specificati i requisiti specifici del bene o del servizio richiesti con l’individuazione delle caratteristiche costruttive o
funzionali, il prezzo pattuito, i termini e le modalità di consegna, di collaudo e di pagamento.
Alcune clausole in passato assai frequenti sono considerate nulle: così il patto che riserva a una delle parti (nella
pratica al committente) la facoltà di variare unilateralmente una o più clausole del contratto, o che attribuisce a una
parte il diritto di recedere senza preavviso dal contratto e altre.

Un testo di legge del 1998 vieta l’abuso di dipendenza economica.


Secondo la legge si ha dipendenza economica quando un’impresa è in grado di determinare un eccessivo squilibrio di
diritti e obblighi, mentre l’abuso consiste nell’approfittare di questo vantaggio.

4. Il contratto estimatorio.
Il contratto estimatorio ha lo scopo di attribuire al commerciante la disponibilità materiale e il potere di vendere,
senza però trasferirgli senz'altro la proprietà delle cose, senza perciò imporgli il pagamento del prezzo.
Il contratto si conclude quando una parte consegna all'altra una o più cose mobili (contratto reale).
È utile in certi tipi di commercio al dettaglio in cui la “durata del prodotto” è brevissima (es. i giornali).
Il consegnatario si obbliga a pagare il prezzo salvo che restituisca le cose che ha ricevuto entro il termine stabilito (se
vende i giornali, paga solo il prezzo di quelli venduti e non di quelli restituiti). Nel frattempo, egli può solo disporre
delle cose, e in tal caso, mancando la restituzione, dovrà pagare il prezzo delle cose vendute.

5. L’affiliazione commerciale (franchising).


Il contratto di franchising ha la funzione economica di stabilire una rete di distribuzione con caratteristiche
organizzative e segni distintivi omogenei, ma gestita da imprenditori indipendenti dal produttore.
Si avrà in apparenza una sola grande organizzazione, mentre in realtà una pluralità di imprese di distribuzione
(franchisee) che opera in base ad un contratto che le collega ad un produttore (franchisor).
Il nostro legislatore lo ha qualificato contratto di affiliazione commerciale definendolo come il contratto che
intercorre tra due parti economicamente e giuridicamente indipendenti con cui una concede all’altra dietro
corrispettivo la disponibilità di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi,
denominazioni commerciali, insegne, diritti d’autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica o
commerciale.
Esige la forma scritta a pena di nullità, oltre ad avere durata minima pari a tre anni.
L’affiliazione può essere pattuita a tempo indeterminato o determinato: in tal caso la durata non può essere inferiore
a tre anni.

6. Cessione dei crediti d’impresa (factoring).

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Il factoring è, essenzialmente, un’operazione fondata sulla cessione di crediti: un imprenditore si accorda con un
altro (factor) per cedere a quest'ultimo la massa dei crediti via via derivanti dall'attività di impresa, dietro il
pagamento di una determinata percentuale delle somme da riscuotere. La sua funzione economica è quella di evitare
a un imprenditore i costi di esazione dei singoli crediti e di assicurargli una liquidità costante.
Un testo legislativo del 1991 ha disciplinato il contratto, abbandonando il termine factoring e scegliendo
l’espressione cessione dei crediti di impresa.
II cedente deve essere un imprenditore, mentre il cessionario deve essere una società o ente, pubblico o privato,
avente personalità giuridica, il cui atto costitutivo prevede espressamente come oggetto l’acquisto dei crediti di
impresa. Inoltre, la società deve avere un capitale non inferiore a dieci volte il capitale minimo prescritto per le SPA.
La legge precisa che possono essere ceduti anche crediti futuri, cioè crediti che sorgeranno da contratti ancora da
stipulare, purché in un periodo non superiore ai 24 mesi.
Se la cessione dei crediti avviene in assenza dei presupposti appena indicati, ad essa si applicherà la disciplina
ordinaria del cc.
Il legislatore ha tenuto poi conto che l’attività dei factors si configura come attività di intermediazione nel mercato
dei capitali e pertanto le imprese di factoring sono sottoposte alla vigilanza della Banca d’Italia e devono iscriversi in
un apposito albo istituito presso la stessa.
II cedente garantisce la solvibilità del debitore; la cessione del credito avviene perciò pro solvendo, dato che il factor
di norma accetta la cessione pro soluto solo in casi particolari (crediti verso lo Stato).
L'opponibilità si ottiene con il pagamento del corrispettivo, avente data certa ed opera verso:
• gli aventi causa dal cedente,
• il creditore del cedente che abbia pignorato il credito in data successiva al pagamento del cessonario,
• il fallimento del cedente dichiarato dopo la data del pagamento.

7. I contratti di rendita.
L’alienazione di un bene o la cessione di un capitale può trovare corrispettivo anche nella prestazione di una rendita
da parte dell’acquirente. Gli schemi contrattuali previsti dal nostro legislatore sono due: la rendita perpetua e la
rendita vitalizia. Il primo contratto consiste nell’alienazione di un immobile o nella cessione di un capitale in cambio
del diritto di esigere in perpetuo la prestazione periodica di una somma di denaro o di una certa quantità di cose
fungibili. La legge, tuttavia, prevede un diritto di riscatto, in modo che l’acquirente-debitore possa liberarsi
dall’obbligazione pagando la somma che risulta dalla capitalizzazione della rendita annua sulla base dell’interesse
legale.
Per quando riguarda la vitalizia: cedendo un bene o un capitale, l’alienante si assicura un reddito per il resto della sua
vita. Il contratto è aleatorio (manca l’aspetto della distribuzione dei rischi), visto che la durata della vita dell’alienante
è incerta, e con essa l’entità della prestazione dell’acquirente.

CAP. 25.
I CONTRATTI Dl UTILIZZAZIONE
1. La locazione.
Non sempre un soggetto è disposto a pagare un prezzo per acquistare la proprietà di un bene.
L'art. 1571 definisce la locazione come il contratto con il quale una parte (il locatore) si obbliga a far godere all'altra
(il conduttore) una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo.
La locazione è ancora considerata come un genere di contratto all'interno del quale vanno distinti due tipi di
contratto specifici: locazione (in senso stretto) e affitto. In realtà locazione e affitto sono, anche nella disciplina del
codice, contratti molto diversi tra loro.

La disciplina che troviamo oggi nel codice ha piena applicazione solo per quei contratti che non sono regolati da leggi
speciali (come la locazione di beni mobili, la locazione di immobili non urbani per abitazione, l’affitto di aziende).
Invece, quando una legge speciale esiste si ricorre alla disciplina del codice solo quando un problema non è
diversamente regolato dalla legge speciale, o quando la legge stessa rinvia alle norme generali.

Dalla locazione di cose mobili (nolo o noleggio) si deve distinguere il noleggio in senso tecnico (riguarda navi e
aeromobili), in cui il noleggiante conserva la disponibilità della cosa e si impegna a farne uso secondo le indicazioni
del noleggiatore.

L’obbligazione fondamentale che il locatore assume è far godere la cosa al conduttore. Di qui si possono dedurre i tre
obblighi principali elencati nell’art. 1575:

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
• Obbligo di consegna in buono stato; non è adempiuto se la cosa è affetta da vizi che ne diminuiscono in
modo apprezzabile l'idoneità all'uso: il conduttore può chiedere la risoluzione o la riduzione del prezzo,
salvo che si tratti di vizi da lui conosciuti o facilmente riconoscibili. Il locatore risponde dei danni derivanti
dai vizi (es. incidente causa di freni rotti) se non prova di averne senza colpa ignorato l’esistenza: la buona
fede, dunque, qui non si presume.
• Obbligo di manutenzione; impone al locatore di eseguire tutte le riparazioni necessarie, eccetto quelle di
piccola manutenzione che sono a carico del conduttore: solo per le cose mobili tutta l’ordinaria
manutenzione è a carico del conduttore. Il conduttore deve avvisare il locatore della necessità di riparazioni
e se si tratta di riparazioni urgenti le può eseguire direttamente salvo rimborso.
• Obbligo di garanzia del pacifico godimento riguarda le molestie di diritto, cioè quelle provocate da terzi che
pretendono di avere diritti sulla cosa e perciò limitano il godimento del conduttore. Per le molestie di fatto,
cioè i terzi che non pretendono di avere diritti (es. vicini rumorosi) il locatore non garantisce; resta libero il
conduttore di agire in nome proprio contro i terzi (azioni possessorie, divieto di immissioni).
Garanzia significa che il locatore deve assumere la lite, se chiamato in causa nel processo; se l’azione del
terzo ha successo, il conduttore potrà risolvere il contratto o chiedere la riduzione del corrispettivo.

Gli obblighi del conduttore sono invece:


• Pagamento del corrispettivo (art. 1571);
• Prendere in consegna la cosa e osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene per l'uso
determinato nel contratto o per l’uso che può desumersi altrimenti dalle circostanze (art. 1587).
• A locazione finita, deve restituire la cosa al locatore nello stato medesimo in cui l'ha ricevuta, salvo il
deterioramento o il consumo risultante dall’uso volto in conformità al contratto. L’obbligo di restituzione
comprende quello di custodia, e perciò il conduttore è responsabile della perdita o del deterioramento della
cosa quando non provi che siano accaduti per causa a lui non imputabile. Se una persona, da lui ammessa
all’uso e godimento della cosa, la danneggia o la distrugge, il conduttore non può ritenersi esonerato da
responsabilità perché il fatto è compiuto da un terzo; assume la responsabilità oggettiva dei danni da questa
causati. L’obbligo di custodia è importante per i danni cagionati dalla cosa a terzi.

Salvo patto contrario, il conduttore ha facoltà di dare in sublocazione la cosa, mentre non può cedere il contratto
senza il consenso del locatore. Al locatore è data azione diretta contro il sublocatore per esigere il prezzo della
sublocazione e per l’adempimento di tutte le altre obbligazioni derivanti dal contratto di sublocazione.

Esiste un limite massimo assoluto della locazione, posto a tutela della libertà dei beni: trent'anni.
La durata della locazione non è mai indeterminata. Infatti, se le parti non stipulano un termine finale, la durata del
contratto si intende convenuta secondo certi criteri fissati dal codice, o dalla legge nel caso di immobili urbani.
Tuttavia, la distinzione tra locazione a tempo determinato (cioè con termine stipulato dalle parti) o senza
determinazione convenzionale di tempo (cioè senza il termine stipulato dalle parti), è importante. Nel primo caso, la
locazione cessa alla scadenza senza necessità di disdetta, ma il contratto si intende tacitamente rinnovato se,
scaduto il termine, il conduttore è lasciato nella detenzione della cosa locata. Nel secondo caso, il contratto cessa
solo se, prima della scadenza stabilita dal codice o dalla legge, viene comunicata la disdetta: perciò, la mancata
disdetta vale come rinnovazione tacita del contratto.

Art. 1599: se la cosa locata viene alienata, la locazione è opponibile al terzo acquirente, se ha data certa anteriore
all’alienazione.

2. La locazione di immobili urbani.


Con la legge 27 luglio 1978 si riforma l’intera disciplina introducendo il criterio dell’”equo canone.
Il 9 dicembre 1998 viene approvata la legge n. 431 che riforma il settore della locazione abitativa lasciando in vigore
la legge del ’78 per le locazioni non abitative.
Una regola è anzitutto dettata per tutti i contratti di locazione immobiliare ad uso abitativo: è richiesta la forma
scritta a pena nullità. Lo scopo della norma è di far “emergere” i contratti di locazione, togliendo alle parti, e
soprattutto al locatore, la possibilità di far valere un accordo verbale, o un accordo verbale di contenuto diverso da
quello che risulta dal contratto sottoscritto.
La legge distingue poi due modi di stipulazione di un contratto:
• Modalità privatistica. Se il contratto è stipulato dalle due parti senza interventi di controllo, il contenuto
dell'accordo è rimesso all'autonomia dei contraenti salvi alcuni rilevanti limiti legali:
a) durata minima del contratto non inferiore ai 4 anni.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
b) alla prima scadenza è previsto il rinnovo automatico per ulteriori 4 anni, con facoltà di diniego da
parte del locatore, alla prima scadenza, limitata solo ai casi dell’art. 3 della legge, tra i quali si può
ricordare: l’intenzione del locatore di adibire l’immobile ad uso proprio o dei propri congiunti entro
il 2° grado, o ad attività di utilità sociale; la circostanza che il conduttore disponga di un alloggio
libero e idoneo nello stesso comune; necessità di ripristino di immobile gravemente danneggiato o
distrutto; l’intenzione di vendere a terzi se il locatore non ha altre proprietà di immobili ad uso
abitativo oltre alla casa di residenza. L’eventuale illegittimo esercizio della facoltà di diniego obbliga
al risarcimento del danno.
c) Il conduttore ha libera facoltà di diniego del rinnovo e può recedere dal contratto in qualsiasi
momento, per gravi motivi, con preavviso di sei mesi.
d) Il conduttore gode del diritto di prelazione nel caso in cui il locatore annunci l’intenzione di vendere
ai fini del diniego di rinnovo del contratto e del diritto al ripristino del rapporto di locazione se il
locatore, pur avendo esercitato il diritto di diniego, non lo adibisca entro 12 mesi agli usi previsti
per giustificare il suo diniego.
• Modalità assistista. I limiti e le regole sopra esposti possono essere derogati dalle parti, di comune accordo,
solo ricorrendo ad una diversa modalità di stipulazione, che prevede:
e) La predeterminazione di condizioni contrattuali (es. parametri massimi e minimi per il canone), in
base ad accordi di tipo parasindacale stipulati dalle organizzazioni della proprietà edilizia e degli
inquilini maggiormente rappresentative, basati a loro volta su una “convenzione nazionale”. Tale
procedura si applica anche per definire modelli di contratto di locazione di natura transitoria (es.
stagionale) o per quelli rivolti a esigenze abitative degli studenti universitari.
f) Una durata del contratto non inferiore a tre anni, con rinnovo per altri tre o, in caso di disaccordo
tra le parti, con proroga di diritto per altri due anni: anche in questo caso, il locatore può negare il
rinnovo, ma solo se intende vendere o eseguire le opere di ripristino ristrutturazione previste
nell’art. 3.

Infine, una particolare attenzione è stata rivolta dal legislatore al problema cronologico degli accordi simulati in frode
al fisco e dei patti in frode alla legge.
Anzitutto, è nullo ogni patto diretto a stabilire un canone diverso dal contratto scritto e registrato.
È nullo anche ogni patto volto ad attribuire al locatore un canone superiore a quello previsto dai contratti-tipo, o a
derogare i limiti di durata.
Se avesse accettato patti di questo contenuto, l’inquilino avrebbe avuto a disposizione due azioni: entro sei mesi
dalla riconsegna dell’immobile, ha diritto di chiedere la restituzione delle somme versate; ma anche durante il
rapporto, può chiedere davanti al giudice che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi alla legge.
Quest’ultima possibilità è prevista anche per il caso di contratto “in nero”, quando cioè il locatore abbia preteso di
instaurare un rapporto di locazione “di fatto”, senza la stipulazione nella forma scritta richiesta per la validità.
Questo patto è nullo per mancanza di forma. Tuttavia, il conduttore può chiedere al giudice che il rapporto sia
costituito giudizialmente tra le parti sulla base della relazione di fatto: in questo caso il canone di locazione è quello
equo previsto dagli accordi tra le organizzazioni parasindacali di proprietari e inquilini o quello per gli studenti.

ln caso di morte del conduttore, gli succedono nel contratto il coniuge, la persona unità civilmente, gli eredi, i parenti
e affini con lui abitualmente conviventi. La regola è stata estesa al convivente more uxorio (convivente di fatto) che
ha facoltà di succedergli nel contratto.
ln caso di separazione giudiziale o di divorzio, succede al conduttore il coniuge, se il giudice gli ha assegnato
l'abitazione. Ciò avviene anche in caso di convivenza di fatto. In caso di separazione consensuale o di nullità
matrimoniale, la successione è pure prevista, se i coniugi hanno così convenuto.
È poi nulla la clausola che prevede la risoluzione del contratto in caso di alienazione della cosa locata.

Nel caso di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione l'interesse maggiormente tutelato è la continuità
dell'attività produttiva.
II canone è lasciato alla libera contrattazione, ma non posso essere previste variazioni per i primi tre anni del
rapporto; successivamente, le variazioni devono essere contenute nel limite del 75% rispetto all’aumento dell’indice
dei prezzi al consumo.
Il conduttore ha diritto a una indennità per la perdita dell'avviamento quando il rapporto contrattuale cessa per
cause diverse dal suo inadempimento o recesso.
La durata della locazione non può essere di regola inferiore a 6 anni; 9 anni è il limite minimo per l’attività
alberghiera che non abbia per sua natura carattere transitorio. Il conduttore può recedere dal contratto, anche qui,
per gravi motivi o quando la facoltà è prevista nel contratto. Il locatore può intimare la disdetta, prima della

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
scadenza, solo per gravi motivi tassativamente indicati nell’art. 29: per esempio, quando voglia esercitare una attività
industriale o commerciale nell’immobile locato, o quando voglia adibire l’immobile ad abitazione propria o del
coniuge o di parenti in linea retta entro il 2°grado.

Il conduttore infine ha due importanti prerogative:


1. può sublocare l'immobile e anche cedere il contratto a terzi senza il consenso del locatore, se insieme dà in
affitto o cede l'azienda;
2. ha il diritto di prelazione.
In caso di alienazione tra vivi a titolo oneroso, il locatore deve darne comunicazione al conduttore con un atto
notificato a mezzo di ufficiale giudiziario. Il conduttore può esercitare, entro 60 giorni, il diritto di acquistare
l’immobile alle condizioni indicate nella notificazione. In mancanza della notificazione, il conduttore può riscattare
l’immobile dall’acquirente e da ogni altro successivo avente causa entro 6 mesi dalla trascrizione del contratto.

3. Il leasing.
Quando spira il termine di un contratto di locazione, il conduttore non può far altro che restituire il bene al locatore.
Il leasing è un contratto di locazione con facoltà di riscatto del bene locato, sulla base di una cifra stabilita al
momento della stipula del contratto. Il quadro normativo del leasing è mutato di recente: con un testo legislativo del
2017 è stata introdotta una regolamentazione di ordine generale del contratto di leasing.

La figura di maggior rilievo è il leasing finanziario, in cui rimane lo schema base della locazione (cessione del
godimento dietro corrispettivo) che però viene usato per realizzare una operazione di finanziamento dell’utilizzatore.
In questa operazione intervengono tre soggetti: il concedente (banca o intermediario finanziario), l’utilizzatore è il
fornitore del bene il cui godimento è oggetto del contratto.
Esempio: un imprenditore ha bisogno di rinnovare i suoi macchinari; si accorda con la Y s.p.a., specializzata in
operazioni di finanziamento in leasing, e le indica quali macchinari intende rinnovare e qual è l’impresa fornitrice che
meglio corrisponde alle sue esigenze; il concedente (Y s.p.a.) acquista i macchinari al fornitore indicato, anticipando il
capitale necessario e si accorda perché siano istallati presso l’utilizzatore in cambio di un corrispettivo periodico per
un tempo convenuto: al termine, l’utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene per un prezzo
prestabilito, oppure, in caso di mancato esercizio di tale diritto, è tenuto a restituire il bene.

Il concedente è proprietario del bene concesso in leasing, e perciò è al sicuro nel caso di fallimento dell’utilizzatore,
mentre, se avesse prestato i soldi all’utilizzatore con un mutuo, correrebbe il rischio dell’insolvenza.
Il profitto del finanziatore risulta dal corrispettivo pattuito e dall’eventuale prezzo finale. Il vantaggio del finanziato è
di non anticipare capitale e di potere, alla scadenza, rinnovare ancora i macchinari con un nuovo leasing o scegliere
una delle altre strade; inoltre sussiste un vantaggio fiscale, dato che i canoni possono essere imputati al passivo
dell’impresa.
L’utilizzatore si assume il rischio per il perimento e il deterioramento del bene, come nella vendita con riserva di
proprietà.

Un’altra forma di leasing è quella del leasing operativo, che, a differenza del leasing finanziario, presenta due
soggetti. Il leasing operativo è in contratto con cui:
a. una parte concede all’altra, verso il corrispettivo di un canone periodico e per tempo determinato,
l’utilizzazione di un bene
b. e si conviene che, al termine del contratto, l’utilizzatore potrà scegliere se restituire la cosa, o rinnovare il
contratto sostituendo il bene o acquistare la proprietà della cosa.
L’ultimo comma dell’art. 1526, scritto in tema di vendita con riserva di proprietà, prevede che questo contratto possa
essere configurato come una locazione in cui sia convenuto che, al termine, la proprietà della cosa sia acquistata dal
conduttore per effetto del pagamento dei canoni pattuiti: contratto misto.

4. L’affitto e i contratti agrari.


La natura del bene che è oggetto del contratto distingue l'affitto dalla locazione.
L'affitto ha per oggetto il godimento di una cosa produttiva mobile o immobile; attribuisce all'affittuario il diritto di
fare propri i frutti e gli altri proventi della cosa, ma lo obbliga a curarne la gestione in conformità alla destinazione
economica della cosa.
Come affitto si costruisce il contratto con cui si scambia, per un corrispettivo, il godimento di una azienda, cioè di un
complesso di beni organizzati per l’esercizio.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
L’affittuario è sempre un imprenditore; la sua gestione implica un’attività economica.

Il problema della gestione rende il contratto legato alla fiducia del locatore nell’affittuario. Non basta che l’affittuario
paghi il canone; occorre che sia capace di curare la gestione della cosa. Perciò, il locatore può in ogni tempo
controllare l’attività dell’affittuario e poi chiedere la risoluzione del contratto se non vengono osservate le regole
della buona tecnica o viene mutata la destinazione economica del bene; per la stessa ragione, l’interdizione,
l’inabilitazione, l’insolvenza dell’affittuario sono causa di risoluzione del contratto. Ancora alla fiducia è da ricondurre
il divieto di subaffittare senza consenso del locatore.

Con l’espressione “contratti agrari” ci si riferisce a un gruppo di contratti caratterizzati dallo scopo di consentire a un
soggetto, non proprietario, l’utilizzazione del fondo agricolo a fini d’impresa. Tradizionalmente diversi tipi di contratto
potevano essere stipulati al fine indicato (mezzadria, colonia parziaria), ma dal 1964 il legislatore ha eliminato ogni
tipo di rapporto, tra proprietario e imprenditore non proprietario, diverso dall’affitto. Le ragioni di questa tendenza si
possono riassumere nell’esigenza di sottrarre l’agricoltore a forme di dipendenza verso il proprietario terriero non
più adeguate agli attuali rapporti sociali.
Oggi, perciò, l’unico contratto di nuova stipulazione ammesso in agricoltura è l’affitto, regolato da un testo legislativo
del 1982.
Quanto ai contratti di mezzadria e di colonia, sopravvivono in quanto il rapporto tra agricoltore e proprietario non sia
convertito in affitto. La conversione, a richiesta del coltivatore, è previsto da un testo legislativo del 1990, il quale ha
stabilito che la conversione avviene automaticamente, quando il coltivatore comunica alla controparte l’interesse di
avvalersene.
Non è invece possibile stipulare nuovi contratti di mezzadria o di colonia. La violazione del divieto determina la nullità
del contratto, che però è soggetto a conversione legale in affitto.

Norme speciali regolano la materia dell’affitto di fondi rustici. La legge 1982 riprende la distinzione tra affitto a
coltivatore diretto e affitto a soggetti diversi. Anzitutto, con riferimento all’affitto a coltivatore diretto è fissato l’equo
canone. La durata del contratto non può essere inferiore a 15 anni, e, alla prima scadenza, è prorogata a richiesta
dell’affittuario per altri 3 anni.
Nasce qui la tendenza a convertire i diritti personali derivanti da contratti in diritto di proprietà. Strumento
caratteristico è il diritto di prelazione: in caso di alienazione del fondo per atti tra vivi a titolo oneroso, l’affittuario
coltivatore diretto ha preferenza nell’acquisto a parità di condizioni. Il proprietario ha l’obbligo di notificare al
coltivatore diretto la sua concreta intenzione di vendere. In caso di vendita conclusa in violazione di tal diritto, il
coltivatore può riscattare il fondo dal terzo acquirente entro un anno dalla trascrizione del contratto.

5. Il comodato e il prestito d’uso.


L’art. 1803 del Codice civile ci offre la nozione di comodato: è il contratto col quale una parte consegna all'altra una
cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l'obbligo di restituire la cosa
ricevuta.
La funzione è quella di realizzare una concessione gratuita dell'uso di una cosa. Il carattere gratuito è essenziale: se
fosse pattuito un consenso si tratterebbe di locazione.
Anche la finalità di uso della cosa, che ve restituita nella sua integrità, è essenziale al comodato. Si parla al riguardo di
“prestito d’uso”, distinto dal “prestito di consumo”, che si realizza nel mutuo.
Perciò, oggetto del comodato è una cosa che le parti considerano infungibile. Di regola, ciò suppone che si tratti di
una cosa inconsumabile. Ma se, per esempio, per allestire una vetrina io mi faccio prestare u sacco di caffè, siamo
sempre nell’ambito del comodato perché l’uso esclude il consumo, e io sono obbligato a restituire quel sacco di
caffè.
Il comodato è un contratto reale (si conclude con la consegna della cosa).

Dalla consegna della cosa nasce l'obbligo del comodatario di custodire e conservare la cosa con la diligenza del buon
padre di famiglia e di servirsene solo per l'uso determinato dal contratto o dalla natura della cosa.
È escluso un subcomodato senza consenso del comodante.
ln caso di inadempimento, il comodante può richiedere l'immediata restituzione della cosa, oltre al risarcimento del
danno.
Il comodatario risponde, ovviamente, della perdita o della distruzione dovuta alla sua negligenza; ma in alcuni casi
sopporta anche il rischio della perdita fortuita o dovuta a causa a lui non imputabile: così, se l’ha impegnata per uso
diverso da quello previsto o se è in ritardo nella restituzione.
Ci può anche essere un termine a favore del comodatario per la restituzione, stabilito nel contratto o risultante

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
dall’uso cui la cosa è destinata: in tal caso il comodante non po' chiedere la restituzione quando gli pare, ma solo
dopo la scadenza, salvo che sopraggiunga un urgente e imprevedibile bisogno.
Esiste un’obbligazione a carico del comodante: egli è tenuto al risarcimento dei danni derivanti dai vizi della cosa, se,
conoscendoli, non abbia avvertito il comodatario (perciò si parla di contratto unilaterale imperfetto).

6. Il mutuo o prestito di consumo.


Il mutuo è un “prestito di consumo” che ha lo scopo di ottenere la disponibilità di una certa somma di denaro o di
altre cose fungibili, con l'obbligo di restituire altrettanto della stessa specie e qualità.
Anche il mutuo è un contratto reale, che si perfeziona con la consegna; prima della consegna, l’accordo tra le parti
produce solo una promessa di mutuo, che obbliga alla consegna. Chi ha promesso di dare a mutuo, però, può
rifiutare l’adempimento della sua obbligazione, se le condizioni patrimoniali dell’altro contraente sono divenute tali
da rendere notevolmente difficile la restituzione, salvo gli siano offerte idonee garanzie.
La causa e l'oggetto del mutuo hanno per logica la conseguenza l'efficacia reale del contratto; le cose non vanno al
mutuatario perché le conservi: esse si confondono con il patrimonio del mutuatario, il quale ne acquista la proprietà,
con l'obbligo di restituire altrettanto alla scadenza.
Quanto alle obbligazioni, oltre quella fondamentale di restituzione, è “effetto naturale” del mutuo l’obbligo di pagare
gli interessi (le parti possono anche stipulare un mutuo gratuito).
Dal punto di vista formale, il mutuo è un contratto con obbligazioni da una sola parte.
Dal punto di vista economico, però, è un contratto a prestazioni corrispettive, perché il mutuante concede per un
certo tempo la disponibilità del denaro o altre cose fungibili e riceve gli interessi.
Infatti, il mancato pagamento degli interessi dà diritto al mutuante di chiedere la risoluzione del contratto.
Risoluzione si ha anche in caso di mancato pagamento di una sola rata di restituzione.
Come nel comodato, però, è a carico del mutuante la responsabilità per i danni derivanti dai vizi delle cose date a
prestito.

CAP. 26.
I CONTRATTI Dl PRESTAZIONE D'OPERA O Dl SERVIZI
1. L’appalto e il contratto d’opera.
Lo scambio può avere ad oggetto anche un fare: il compimento di un’opera (una strada, una casa, ecc.) o di un
servizio (la pulizia, manutenzione, ecc.) verso un corrispettivo. Questo genere di scambio si articola in diverse
fattispecie, ciascuna delle quali è regolata da una specifica disciplina.

La figura più importante di scambio di un fare contro prezzo è quella che il legislatore regola come contratto
d’appalto (art. 1665): una parte (appaltatore) si obbliga al compimento di un’opera o di un servizio, e l’altra
(committente) si obbliga a versare un corrispettivo in denaro.

Si ha appalto, però, solo quando il compimento dell'opera (o servizio) è assunto con organizzazione dei mezzi
necessari e con gestione a proprio rischio. Appaltatore può dunque essere solo un imprenditore perché:
• deve disporre di una “organizzazione di mezzi”, cioè dei capitali, delle risorse materiali, del personale
necessari per portare a compimento l’opera promessa, e
• deve assumere “a proprio rischio” la gestione dell’attività produttiva, cioè assume il rischio economico della
(eventuale) inefficienza della sua stessa organizzazione rispetto all’impegno assunto.

L'appalto è una figura molto ampia quanto ad oggetto: può essere, ad esempio, la costruzione di un immobile, la
pulizia di un ospedale e via dicendo. In tutti questi casi bisogna fare attenzione al confine con altri contratti. Ad
esempio, l’appalto si distingue dalla vendita perché ha come oggetto un facere, e non un dare. La distinzione risulta
però delicata con la vendita di cosa futura: si ha vendita di cosa futura quando il produttore offre in vendita e si
impegna a tal fine a realizzare un prodotto in conformità ad un tipo o ad un modello di propria fabbricazione; si ha
invece appalto quando il prodotto rappresenti un quid novi rispetto alla normale serie produttiva.
Norme particolari valgono per gli appalti relativi all’esecuzione di opere pubbliche o nei quali sia comunque
committente un ente pubblico.

La legge non stabilisce una particolare forma per il contratto d’appalto. Naturalmente, l’uso della forma scritta è però
l’ipotesi di fatto più frequente.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
La legge stabilisce che l’appaltatore non può dare in subappalto l’esecuzione dell’opera o del servizio, se non è
autorizzato dal committente (art. 1656). La ragione della norma risiede nella necessità di evitare che dietro
l’appaltatore possano celarsi imprese non gradite al committente.

ln caso di morte dell'appaltatore (art. 1674), il contratto non si scioglie automaticamente perché è possibile che
l’impresa sia portata avanti da parte degli eredi. Ma la fiducia prevale sulla continuità dell’impresa: il committente
può recedere se gli eredi dell’appaltatore non danno affidamento per la buona esecuzione dell’opera o del servizio.
La disciplina degli effetti dell’appalto è poi tutta orientata a equilibrare gli interessi delle due parti.
L'appaltatore è protetto contro l'eventualità che circostanze sopravvenute alterino i termini economici dello scambio;
egli corre il rischio di ciò che poteva prevedere, non degli imprevisti.
Perciò, se per effetto di circostanze imprevedibili si verificano variazioni nel prezzo di materiali e mano d’opera,
l’appaltatore può chiedere una revisione del prezzo. Regola spesso superata dalla predisposizione di clausole di
revisione dei prezzi.
Gli interessi delle due parti sono attentamente equilibrati anche riguardo al problema delle variazioni introdotte
rispetto al progetto originario; il codice regola distintamente tre casi: le variazioni concordate dalle parti, le variazioni
necessarie per l’esecuzione a regola d’arte e le variazioni ordinate dal committente.

L’interesse del committente alla corrispondenza tra risultato promesso ed effettivamente prodotto è tutelato in
diversi momenti.
Il codice prevede anzitutto un diritto di verifica dell'opera nel corso dell'esecuzione: il committente può controllare lo
svolgimento dei lavori; se accerta che l’opera non procede secondo i patti, può intimare all'appaltatore di
conformarsi, entro un congruo termine, alle condizioni contrattuali; se il termine trascorre inutilmente, il contratto è
risoluto di diritto, salvo il risarcimento del danno subito dal committente.
Di verifica parla il codice anche per il controllo finale, comunemente detto collaudo. Occorre tenere presente che
l’appaltatore ha diritto al pagamento del corrispettivo, salvo diversa pattuizione, quando l’opera è accettata dal
committente.
L’accettazione risulta da ciò, che il committente riceve la consegna senza sollevare riserve, sia quando il collaudo è
stato eseguito, sia quando non si è proceduto alla verifica. L’opera si ritiene accettata anche quando l’appaltatore
abbia invitato il committente a fare la verifica e questi l’abbia tralasciata o l’abbia eseguita, e abbia poi trascurato di
comunicarne il risultato.

Se l'opera non corrisponde a quanto previsto dal contratto, l'appaltatore è tenuto a garanzia per difformità o vizi:
naturalmente, se l'opera è stata accettata, la garanzia si limita alle difformità o ai vizi non riconoscibili dal
committente o dolosamente taciuti dall’appaltatore. La garanzia opera in modo analogo alla vendita: c’è un termine
di decadenza che si evita solo con la denuncia dei vizi entro 2 mesi dalla scoperta, un termine di prescrizione breve,
di due anni dalla consegna. Termini particolari valgono nel caso di rovina o di difetti dell'immobile: se il vizio si
manifesta entro 10 anni dalla consegna, il committente ha diritto a garanzia purché ne faccia denuncia entro un anno
dalla scoperta; l'azione si prescrive entro un anno dalla denunzia.

Da ricordare infine la speciale tutela dei dipendenti dell'appaltatore: essi hanno azione diretta contro il committente,
per le somme loro dovute a titolo di retribuzione, fino a concorrenza di quanto il committente deve all'appaltatore.
La norma deroga, in tal modo, al principio fondamentale per cui il contratto ha effetto solo tra le parti.

Se una parte si obbliga ad eseguire un'opera o un servizio in favore di un'altra verso corrispettivo, con assunzione di
rischio, ma senza organizzazione di impresa si cade nel caso di lavoro autonomo (artt. 2222 e ss.).

2. Il trasporto.
Il trasporto è un appalto avente ad oggetto il servizio di trasportare. In particolare, il codice sancisce che è il
contratto con cui una parte (il vettore) si obbliga, verso un corrispettivo, a trasferire persone o cose da un luogo
all'altro.
Anche qui, però, la diversità dell’oggetto ha influenza sulla causa. Nel caso di trasporto di cose, il mittente affida le
cose al vettore, che perciò ne assume la custodia e risponde quindi della perdita o dell'avaria dal momento in cui le
riceve al momento in cui le riconsegna. Nel trasporto di persone la funzione di custodia manca, ma si risponde dei
danni eventualmente subiti dal trasportato, o dal suo bagaglio.

Il contratto di trasporto è legato all'esercizio di servizi pubblici di trasporto da parte della azienda delle Ferrovie dello
Stato, di aziende comunali, o di imprese che operano per concessione amministrativa. ln questi casi vale l’obbligo a

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contrarre e la regola della parità di trattamento tra gli utenti: speciali concessioni possono essere ammesse, ma
vanno applicate a parità di condizioni a chiunque ne faccia richiesta. Il contratto si conclude per condizioni generali
(come per i contratti del consumatore).

Nel trasporto di persone, trasportare significa far arrivare sani e salvi senza danni. Il sinistro o la perdita del bagaglio
determinano una responsabilità da inadempimento: il trasportato non ha l’onere di provare la colpa del vettore, ma
solo il titolo (cioè il contratto), il danno, e il nesso di causalità. È il vettore che deve dare la prova liberatoria; e non
basta che provi di essere stato mediamente diligente, ma deve provare di aver adottato tutte le misure idonee a
evitare il danno.
Eventuali clausole di esonero dalla responsabilità per sinistri sono nulle. (non per perdita!)

La stessa responsabilità si ha anche nel trasporto gratuito. Deve trattarsi però di un contratto di trasporto, in cui ci sia
stato lo scambio di un consenso diretto a stabilire un obbligo del vettore.
Un trasporto di cortesia (autostop), invece, è regolato dalle norme sulla responsabilità extracontrattuale: il vettore
risponde anche della colpa più lieve, ma il trasportato ha l’onere di provarla.

Nel contratto di trasporto di cose il mittente stipula con il vettore la consegna delle cose a un destinatario. Le parti
del contratto sono le prime due, ma si tratta di un contratto a favore di terzi; secondo quanto abbiamo studiato,
perciò, il mittente può sospendere il trasporto, chiedere la restituzione, indicare un diverso destinatario (salvi i danni
e le spese nel rapporto col vettore), ma solo fino al momento in cui il destinatario richiede la consegna al vettore e
mostra così di accettare la designazione.

3. Il mandato.
Il Codice civile (art. 1703) sancisce che il mandato è il contratto con il quale una parte (mandatario) si obbliga a
compiere uno o più atti giuridici per conto dell'altra (mandante).
L'oggetto della prestazione è quindi compiere uno o più atti giuridici ed elemento chiave della funzione di tale
contratto è la fiducia tra mandante e mandatario: il mandante si “affida” al mandatario per il compimento di un
affare. Si spiega così la revocabilità del mandato e il carattere personale del rapporto, che risulta sia dalla regola sulla
estinzione del mandato per morte, interdizione, inabilitazione del mandatario, sia dall’espressa disciplina dei casi in
cui il mandatario si faccia sostituire nell’esecuzione del mandato.

L'interesse del mandante governa l'esecuzione del contratto; ma l'interesse del mandatario può essere importante
sotto due punti di vista.
Anzitutto, il mandato si presume oneroso e il mandante ha sempre il potere di revocare il mandato, ma se non c'è
una giusta causa è tenuto a risarcire il danno al mandatario.
Se invece esiste uno specifico interesse del mandatario alla esecuzione del mandato, allora, se non c'è giusta causa,
la revoca non estingue il contratto: il mandante non ha il potere di revoca.

Non bisogna anzitutto confondere il mandato con la procura; bisogna tenere distinti due aspetti: il rapporto tra
l'interessato e il sostituto, il rapporto verso i terzi.
Tra le parti, il rapporto per cui una parte è obbligata a compiere atti nell’interesse dell’altra nasce da contratto.
Ma qualunque incarico, qualsiasi facoltà d’agire o dovere di agire, stabilito per contratto, non ha effetti verso terzi.
Ai terzi può essere rivolto un atto diretto a investire il sostituto del potere di agire con effetti diretti sulla sfera
dell’interessato: è la procura.
Dal solo mandato non nasce un potere verso i terzi, cioè una rappresentanza.
Se una procura accompagna il contratto di mandato, quest’ultimo è con rappresentanza, e il mandatario, obbligato
dal mandato ad agire per conto del mandante, avrà anche il potere di agire in nome di lui e con effetti diretti nella
sfera giuridica del mandante.

Nel mandato senza rappresentanza, perciò, il mandatario agisce in proprio nome acquistando i diritti e assumendo gli
obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi (anche se questi hanno conoscenza del mandato).
Da questa promessa dovrebbe derivare, in teoria, un generale obbligo del mandatario di ritrasferire al mandante
quanto acquistato. Ma la disciplina del mandato segue questo principio solo per i beni immobili (e mobili registrati).
Per quanto il mandato abbia ad oggetto l’acquisto di beni mobili, invece, la legge attribuisce al mandante l'azione di
rivendicazione, mostrando di considerarlo proprietario dei beni anche senza il ritrasferimento.
Il mandatario è poi obbligato a eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia; deve attenersi alle
istruzioni ricevute ed ha il dovere di informare il mandante di ogni novità rilevante per il mandato.

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Infine, ha un dovere di custodia delle cose che riceve per conto del mandante.
Il mandante invece è tenuto a fornire i mezzi necessari per l'esecuzione del mandato e per l’adempimento delle
obbligazioni assunte in proprio nome dal mandatario, a rimborsare le spese e le anticipazioni e a risarcire i danni che
derivino al mandatario dall'esecuzione del mandato.
Il mandatario può soddisfarsi sulle somme riscosse per conto del mandante, fino a concorrenza dei suoi crediti verso
quest’ultimo.
Il mandato si estingue anche per rinunzia del mandatario; se non c'è giusta causa questi ha l'obbligo di risarcimento
danni.

4. La commissione e la spedizione.
La commissione è un mandato che ha per oggetto l'acquisto e la vendita di beni per conto del committente e in
nome del commissionario. Quest'ultimo assume le obbligazioni proprie al mandatario. Ad esempio, un produttore e
un altro soggetto che, spesso con propria organizzazione d’impresa, cura la collocazione sul mercato dei prodotti

In più, egli assume di regola il c.d. “star del credere”: risponde cioè nei confronti del committente per l’esecuzione
dell’affare. Tale responsabilità deriva dal contratto anche nel silenzio delle parti, se risulta dagli usi. Il commissionario
che assume lo star del credere ha diritto a una maggiore provvigione, anch’essa determinata o per patto espresso, o
in base agli usi, o, in mancanza, dal giudice secondo equità.

La spedizione è un mandato con cui una parte (spedizioniere) assume l'obbligo di concludere in nome proprio e per
conto dell'altra parte (mandante) un contratto di trasporto e di compiere le operazioni accessorie (carico, scarico,
ecc.). Non bisogna confondere lo spedizioniere con il vettore, che è il soggetto con il quale lo spedizioniere conclude
il contratto per conto del mandante. Nella pratica, però, potrebbero ovviamente essere lo stesso soggetto.
Anche per gli obblighi dello spedizioniere si può fare riferimento, in gran parte, alla posizione del mandatario.

5. L’agenzia.
Fra i tipi contrattuali in cui è presente la funzione economica di intermediazione, particolare rilievo pratico ha
l'agenzia.
Le parti del contratto sono l'agente e il preponente. L'agente si impegna a un fare, cioè ad assumere stabilmente
l'incarico di promuovere, per conto del preponente, la conclusione di contratti in una zona determinata; il preponente
si obbliga essenzialmente a una retribuzione che si chiama provvigione.

L’intermediazione si realizza anche con la mediazione. Ma il mediatore è un intermediario occasionale, senza un


vincolo stabile con l’altra parte, vincolo che è invece caratteristico dell’agenzia. Nel linguaggio di tutti i giorni si
chiamano “agenzie” organizzazioni che nulla hanno a che fare con il contratto di agenzia (imprese di mediazione).

L'agente è spesso chiamato rappresentante, ma occorre specificare che solo se il rappresentante svolge la propria
attività in piena autonomia, cioè senza subordinazione, assumendosi il rischio della organizzazione necessaria, si può
qualificare come agente in senso stretto.
Viene in evidenza così che l’agente è normalmente un imprenditore, perché esercita un’attività economica
(intermediazione) organizzata, a proprio rischio; anche se tale attività si svolge sulla base di un legame stabile con
una o più imprese di cui l’agente promuove gli affari.

L'agente si limita a promuovere la conclusione di contratti, mettendo in contatto il cliente e il preponente; se viene
attribuito il compito di stipulare, allora l'agenzia si combina al mandato con rappresentanza.

Per il contratto di agenzia è prevista la forma scritta ai fini della prova (ad probationem tantum). Inoltre, ciascuna
parte ha il diritto irrinunciabile di ottenere dall’altra un documento sottoscritto che riproduce il contenuto del
contratto.

Il contratto di agenzia si caratterizza inoltre per il diritto di esclusiva, che è un effetto naturale del contratto (le parti
possono escluderlo). L’esclusiva riguarda entrambe le parti: il preponente non può valersi contemporaneamente di
più agenti nella stessa zona e l’agente non può assumere eguale incarico per altre imprese dello stesso ramo di affari
(sempre nella stessa zona).
Gli obblighi dell'agente, sono simili a quelli del mandatario: oltre all'obbligo generale di tutelare gli interessi del
preponente e di agire con lealtà e buona fede, la legge prevede espressamente ed inderogabilmente l’obbligo di

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rispettare le istruzioni ricevute ed un dovere di informazione nei confronti del preponente; fa poi rinvio agli obblighi
del commissionario: all’agente, però, non si applica la regola dello “star del credere”.
I diritti dell’agente, e gli obblighi del preponente, riguardano soprattutto la provvigione: essa va corrisposta per tutti
gli affari conclusi per effetto dell’intervento dell’agente stesso.
Anche il preponente deve agire con lealtà e buona fede nei rapporti con l'agente. Egli deve mettere a disposizione
dell'agente la documentazione relativa ai beni o servizi trattati e fornire allo stesso informazioni necessarie
all'esecuzione del contratto. Inoltre, il preponente deve avvertire l’agente qualora preveda che il volume delle
operazioni sarà notevolmente inferiore a quello che l’agente avrebbe potuto ragionevolmente attendersi, nonché,
entro un termine ragionevole, informarlo dell’accettazione o del rifiuto di un affare procuratogli.
Infine, l'agente ha diritto a un'indennità di fine rapporto, qualora abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia
sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente ricavi ancora, da tale fatto, sostanziali
vantaggi.
Tra l’agente e il preponente può essere stipulato un patto di non concorrenza. Esso deve essere stipulato per iscritto,
non avere una durata superiore a due anni e riguardare la zona, la clientela e i beni o servizi cui si riferiva il contratto
di agenzia; l’accettazione del patto comporta, a favore dell’agente, il diritto ad una specifica indennità alla cessazione
del rapporto.

Le regole finora viste si applicano anche agli agenti di assicurazione, ma in quanto non siano derogate dalla disciplina
degli accordi collettivi, o dagli usi, e siano compatibili con la natura dell’attività assicurativa.

6. La mediazione.
Il capo XI comincia con una definizione del mediatore: è colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione
di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione di dipendenza o di rappresentanza
(art. 1754); il suo diritto di provvigione sussiste, verso ciascuna delle parti poste in relazione, se l'affare è concluso
per mezzo del suo intervento.
Il diritto alla provvigione nasce quindi da una situazione di fatto: l’intervento del mediatore che abbia per effetto la
conclusione dell’affare. Non è necessario un accordo preventivo tra ciascuna parte e il mediatore. Decisivo per il
sorgere del diritto è, dunque, il nesso di causalità tra l'opera del mediatore e la conclusione del contratto, non il
preventivo accordo delle parti con il mediatore (accordo che, se sussiste, configura un vero e proprio contratto di
mediazione). Il nesso di casualità sussiste anche quando le parti usano accorgimenti per estromettere il mediatore.

Il mediatore è una figura imparziale, un vero intermediario, ed è questa sua posizione che giustifica la pretesa al
compenso verso entrambe le parti. Se una persona si adopera a far concludere un affare in base a un rapporto che la
lega ad una delle parti, non è mediatore.

Interponendosi tra le parti, il mediatore assume anche alcune responsabilità:


• Dovere di informazione verso le parti, relativo a tutte le circostanze che possono influire sulla convenienza
dell'affare.
• Risponde dell'autenticità della sottoscrizione delle scritture e dell'ultima girata dei titoli trasmessi.
• Se non manifesta ad un contraente il nome dell'altro, risponde dell'esecuzione del contratto. Questa ipotesi
prevede due diverse possibilità: a) il nome del contraente non viene rivelato, e allora solo il mediatore è
responsabile dell’esecuzione del contratto (interposizione reale di persona); b) si stipula un contratto per
persona da nominare, e allora, avvenuta la nomina, il mediatore “esce” dal contratto e le parti sono in
diretto rapporto tra loro; il mediatore rimane però responsabile in solido con il contraente nominato.
Il mediatore deve presentare la segnalazione certificata di inizio di attività alla Camera di commercio che, dopo aver
verificato il possesso dei requisiti, procede con l'iscrizione del mediatore nel registro delle imprese (se si tratta di
imprese). I soli mediatori iscritti nel registro delle imprese hanno diritto di ottenere la provvigione.

Una figura particolare di mediatore è quella del c.d. broker di assicurazioni, che mette in relazione soggetti
interessati alla copertura dei rischi con imprese di assicurazione o riassicurazione. Il broker consiglia e indirizza i suoi
clienti nella scelta dell’assicuratore e nella determinazione delle clausole del contratto.

7. Il deposito.
Il Codice civile definisce il deposito come il contratto con il quale una parte riceve dall'altra una cosa mobile con
l'obbligo di custodirla e di restituirla in natura.
Il contratto ha struttura k, cioè si conclude solo con la consegna.

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Anche la custodia di un immobile è un interesse che si può tutelare con un contratto: si tratterà però di un contratto
di lavoro, o di appalto, o di opera, con cui il custode si impegna a una certa vigilanza e ad altre “cure” dell’immobile
custodito. Il deposito vero e proprio è caratterizzato invece dal ricevere la cosa presso di sé, in uno spazio di cui il
depositario dispone e del quale ha controllo: e perciò riguarda le cose mobili.
Il deposito è naturalmente gratuito: occorre una espressa pattuizione del compenso, salvo che dalla qualità
professionale del depositario o da altre circostanze si debba desumere di carattere oneroso.
La funzione di custodia e l’obbligo di restituzione in natura implicano che la cosa, oggetto del deposito, sia
infungibile, di per sé o perché così considerata dalle parti.
Il depositario, che custodisce la cosa, non può servirsene, né darla in deposito ad altri.

Obbligo del depositario è custodire la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia; restituirla appena il
depositante ne faccia richiesta, salvo il caso in cui il contratto sia concluso anche nell'interesse del depositario. Il
depositario, però, può richiedere, in qualunque momento, che il depositante riprenda la cosa, salvo che non sia
convenuto un termine nell’interesse del depositante.
Obbligo del depositante è di rimborsare il depositario delle spese fatte per conservare la cosa, e tenerlo indenne dalle
perdite causate dal deposito; infine pagare il compenso, se pattuito.

Nel c.d. deposito irregolare, oggetto del contratto è il denaro o una quantità di cose fungibili. Al depositario viene
attribuita la facoltà di servirsi delle cose depositate, e perciò gli conferisce la proprietà, come nel mutuo, con
l'obbligo di restituire la somma ricevuta, o altrettante cose della stessa specie e qualità.
A questo tipo di contratto si applicano le norme del mutuo, in quanto applicabili. La funzione è però diversa: se io
deposito i miei soldi in banca, lo scopo del contratto non è quello di fornire alla banca la disponibilità del denaro, ma
di mettere al sicuro una somma; accetto però che la banca se ne serva, essendo sicuro che la solvibilità della banca
mi garantisce la restituzione.

Il codice regola poi, negli artt. Seguenti, il deposito in albergo, con norme che si estendono anche a locali assimilabili
(es. ristoranti). Il rapporto di deposito si costituisce anche per cose portate in albergo: la responsabilità è limitata al
valore della cosa fino all'equivalente di cento volte il prezzo di locazione dell'alloggio per una giornata. Se
l'albergatore si rifiuta illegittimamente di custodire delle cose lasciate in custodia la responsabilità è illimitata.
Esiste anche il deposito nei magazzini generali, nei quali si conservano merci in transito. I magazzini generali sono
gestiti da imprese particolarmente attrezzate e provviste di autorizzazione governativa: trattandosi di un servizio
pubblico, esse hanno l'obbligo di contrattare in base a tariffe predeterminate.

8. Il sequestro convenzionale.
Due parti che sono in lite con riguardo ad una cosa o anche un intero patrimonio, possono accordarsi tra loro per
affidare il bene ad un terzo che si impegna a custodirlo finché la lite non sia risolta e a restituirlo poi alla parte che ne
avrà diritto. Il contratto è “naturalmente” oneroso: la gratuità va pattuita espressamente.
Questo contratto tipico si chiama sequestro convenzionale e realizza, in via convenzionale, una funzione di tutela dei
diritti che è propria del sequestro giudiziario: che serve a sottrarre d’autorità i ben oggetto della lita alla disponibilità
di uno dei contendenti. Questo contratto richiama le norme del deposito e del mandato.

CAP. 27.
I CONTRATTI PER LA SOLUZIONE Dl CONTROVERSIE
1. La transazione.
La transazione, per i giuristi, è un particolare tipo di contratto, che svolge la funzione indicata nell'art. 1965: porre
fine a una lite già incominciata fra le parti o prevenire una lite che può sorgere tra loro, tramite reciproche
concessioni.
L’aspetto delle reciproche concessioni è essenziale alla causa della transazione. Perciò, gli artt. 1965 e ss. si applicano
solo quando entrambe le parti sostengono un sacrificio per appianare la loro controversia, o perché ciascuna rinunzia
parzialmente alle sue pretese, o perché l’una rinunzia totalmente, ma in cambio di vantaggi.
Una rinunzia da una parte senza concessioni dall’altra non è una transazione. Le reciproche concessioni possono
riguardare “rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti” (1965).

La funzione della transazione si giustifica sulla base della disponibilità degli interessi sui quali si transige. Le parti,
quindi, devono avere la capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite

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È nulla la transazione che abbia ad oggetto diritti indisponibili: come i diritti relativi allo stato delle persone.
È nulla anche la transazione che riguarda un contratto illecito.

La transazione non richiede una particolare forma per la validità: deve però essere provata per iscritto (la forma è
richiesta solo ad probationem tantum). La forma scritta è, tuttavia, richiesta a pena di nullità se la transazione
riguarda, per esempio, la proprietà o diritti reali su beni immobili.
Conclusa la transazione le parti non possono riaprire la controversa davanti al giudice. Questo effetto preclusivo è
rafforzato dalla legge che esclude la stessa possibilità di impugnare la transazione per errore di diritto e per lesione.
La transazione può essere annullata per errore di fatto sulla questione che è oggetto della lite, se l’errore riguarda la
nullità del titolo cui si riferisce la transazione, la falsità dei documenti, l’esistenza di una sentenza passata in
giudicato, l’esistenza di documenti posteriormente scoperti.

2. Le convenzioni d’arbitrato.
Tradizionalmente si considerava tra i contratti tipici anche il compromesso.
Nell'ambito della convenzione d'arbitrato rientrano:
• Il compromesso è quel contratto con cui le parti si obbligano a far decidere da arbitri la lite tra loro insorta,
riguarda cioè controversie già insorte;
• La clausola compromissoria riguarda la deperibilità della decisione delle controversie che potranno sorgere
dal contratto;
• la convenzione d’arbitrato in materia non contrattuale è quell’accordo con cui le parti possono stabilire che
siano decise da arbitri le controversie future relative a uno o più rapporti non contrattuali determinati.

Tutte e tre le modalità devono riguardare diritti disponibili e richiedono la forma scritta a pena la nullità.

3. La cessione dei beni ai creditori.


Una persona gravata dai debiti, per evitare l'esecuzione forzata dei suoi beni può stipulare un contratto con il quale
“incarica i suoi creditori o alcuni di essi di liquidare tutte o alcune sue attività e di ripartirne tra loro il ricavato in
soddisfacimento dei loro crediti” (art. 1977).

È sempre necessaria la forma scritta pena nullità (art. 1978). Il debitore perde la disponibilità dei beni ceduti, ma
conserva un potere di controllo sulla gestione, e ha diritto al rendiconto; può sempre recedere dal contratto offrendo
il pagamento dei debiti con gli interessi (art. 1985).

I creditori assumono l'amministrazione dei beni e non possono agire esecutivamente su altri beni prima di avere
liquidato quelli ceduti. Venduti i beni, ripartiscono tra loro il ricavato in proporzione dei rispettivi crediti. Fatto il
riparto tra i creditori, il debitore è liberato nei limiti di quanto i creditori hanno ricevuto (art. 1984).

Sezione Terza: FONTI NON CONTRATTUALI DI OBBLIGAZIONE


CAP. 28.
“ATTI E FATTI” DIVERSI DAL CONTRATTO
1. Premessa.
Il Titolo III del Libro IV (obbligazioni) contiene la disciplina “dei singoli contratti”.
I 5 Titoli successivi (dall’art. 1987 al 2042) raccolgono tutti gli “altri fatti o atti” leciti che sono fonti di obbligazione
secondo l'art. 1173. Il titolo IX chiude l’intero Libro con la disciplina dei fatti illeciti, cioè dell’altra grande fonte di
obbligazione prevista dall’articolo citato.
Gli istituti civilistici da conoscere prima di svolgere il tema dell’illecito sono quattro: le promesse unilaterali, la
gestione di affari, il pagamento dell’indebito, l’arricchimento senza giusta causa.

2. Le promesse unilaterali.
Il Titolo IV, dedicato alle promesse unilaterali, si apre con un principio che già conosciamo: la promessa unilaterale di
una prestazione non produce effetti obbligatori fuori dai casi ammessi dalla legge. Si tratta dunque di fonti tipiche di
obbligazione, rispetto alle quali non esiste quella libertà di invenzione di atti diversi dai tipi previsti dalla legge (come
invece accade nei contratti). In senso stretto, sono promesse unilaterali solo quelle regolate in questa zona del

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codice: promessa di pagamento, ricognizione di debito, promessa al pubblico, oltre ai titoli di credito, che hanno
struttura di promessa.
Ricordiamo che nel contratto con obbligazioni del solo proponente la proposta è irrevocabile appena giunge a
conoscenza del destinatario, e produce l’effetto obbligatorio senza necessità di espressa accettazione dell’altra
parte; ma, lo schema dell’accordo viene “salvato” attribuendo al silenzio valore di accettazione tacita.

Promessa di pagamento e ricognizione di debito sono due semplici dichiarazioni unilaterali, con cui il dichiarante
promette di pagare una determinata somma, o si riconosce debitore di una determinata somma. Benché si
classifichino tra le fonti dell’obbligazione, il loro effetto non è quello di far nasce un debito che non esisteva. Il debito
esiste in quanto esista un “rapporto fondamentale”, cioè un rapporto che sta alla base della promessa di pagare o del
riconoscimento. La dichiarazione ha l’effetto di dispensare colui, a favore del quale è fatta, dall’onere di provare il
rapporto fondamentale, cioè del titolo del credito che si presume esistente; spetta all’altra parte che si è dichiarata
debitrice, o che ha promesso il pagamento, dimostrare che la causa manca o è illecita: si parla di astrazione
processuale della causa, ma si tratta solo di un caso di inversione dell’onere della prova.

Promessa al pubblico è una dichiarazione unilaterale rivolta al pubblico con cui una persona promette una
prestazione a favore di chi si trovi in una determinata situazione o compia una determinata azione (es. la promessa di
una ricompensa per chi dia notizie di una persona scomparsa o ritrovi una cosa perduta). La promessa è vincolante
appena è resa pubblica. Una revoca è possibile, ma solo per giusta causa e in ogni caso non ha effetto se la
situazione o l’azione prevista nella promessa si sono verificate.

3. La gestione di affari.
Di regola una persona non può ingerirsi di sua iniziativa negli di affari di un'altra neppure per procurare un vantaggio
all’interessato: sarebbe tra l’altro priva di effetti nei confronti dell’interessato. Esiste però un'ingerenza legittima, ed
efficace nei confronti dell’interessato, che la legge disciplina nella figura della gestione di affari.
L'art. 2028 prevede che una persona, senza esservi obbligata, assuma scientemente la gestione di un affare altrui, e
dispone che questa persona sia tenuta a continuare e a condurre a termine la gestione “finché l'interessato non sia in
grado di provvedervi da sé stesso”.
Ecco, dunque, una prima condizione: il titolare degli interessi deve trovarsi in una situazione che gli impedisce di
provvedere da sé (la absentia domini ad es. lontananza, malattia, ecc.).
Gli altri presupposti risultano dall’art. 2031, che impone degli obblighi a carico dell’interessato solo quando la
gestione si stata utilmente iniziata, anche se il risultato finale non sia positivo, e non sia avvenuta contro il divieto
dell’interessato.

Gli esempi di gestione degli affari altrui sono molto vari: si va dal caso in cui si allaga la casa di una persona in vacanza,
e i vicini intervengono incaricando un’impresa di provvedere alle riparazioni urgenti, al caso di chi soccorre una
persona ferita e chiama l’ambulanza, e molti altri simili.

La gestione è fonte di obbligazioni per entrambi le parti, gestore e interessato.


Il gestore, oltre all’obbligo di continuare la gestione, “è soggetto alle stesse obbligazioni che deriverebbero da un
mandato”, con un’attenuazione, però, della responsabilità per danni, in considerazione delle circostanze che lo hanno
indotto a ingerirsi.
L’interessato (dominus), alle condizioni viste, deve adempiere le obbligazioni assunte in nome di lui dal gestore, e
tenere indenne il gestore da quelle assunte in nome proprio, oltre a rimborsargli tutte le spese necessarie o utili.

4. Il pagamento dell’indebito.
Nel pagamento dell’indebito e nell’arricchimento senza causa trova diretta applicazione un principio che già
conosciamo: ogni spostamento di ricchezza deve essere giustificato, deve la giusta causa dell’attribuzione
patrimoniale; se questa manca, si ha un arricchimento a spese altrui, al quale il diritto rimedia imponendo un obbligo
di restituzione.
L'espressione "pagamento dell'indebito" si riferisce a tutti i casi in cui viene eseguita una prestazione non dovuta.
Il Codice civile distingue immediatamente due fattispecie:
1. Indebito oggettivo [“chi ha eseguito un pagamento non dovuto (né da lui né da altri)”]: si verifica quando ,
alla base del pagamento, non c’è un rapporto obbligatorio che lo giustifichi. Accade, ad esempio, quando
viene pagato un debito derivante da un contratto nullo, o che poi viene annullato, o quando viene pagato
un debito derivante da un contratto che successivamente viene risoluto, o quando viene pagato un debito
sottoposto a condizione sospensiva.

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2. Indebito soggettivo [“chi ha pagato un debito altrui (cioè non dovuto da chi ha pagato, ma dovuto da
altri)”]: quando si paga per errore un debito altrui. Il debito c'è e la prestazione è oggettivamente dovuta,
ma non da chi paga, perché il debito non è suo. La legge chiede che il pagamento sia dovuto ad errore
scusabile, ovvero che non dipenda da scarsa diligenza di chi paga. Se l’errore è inescusabile, prevale la tutela
dell’affidamento del creditore che ha ricevuto, e si ritiene estinto il debito: il creditore non deve restituire, e
chi ha pagato subentra nei diritti del creditore. Si ricordi che è sempre possibile pagare volontariamente un
debito altrui, ma qui si sta parlando di fatto che avviene per errore.

ln entrambi i casi nasce per il percipiente un obbligo di restituzione. Tuttavia, il creditore che riceve una prestazione
soggettivamente non dovuta non è obbligato alla restituzione se si è privato in buona fede del titolo e delle garanzie
del titolo.
Quanto all’oggetto della restituzione, se si tratta di prestazione di denaro, o di cose fungibili, il percipiente deve
restituire l’equivalente; se ha ricevuto in mala fede, deve frutti e interessi dal giorno del pagamento (2033); se in
buona fede, invece, solo dal giorno della domanda.
Nel caso in cui sia stata ricevuta indebitamente una cosa determinata, il ricevente è obbligato a restituirla, e risponde
anche del perimento fortuito se l’ha ricevuta in mala fede; se l’ha perduta o consumata in buona fede, risponde
soltanto nei limiti del suo arricchimento.
La diversità di trattamento tra il ricevente in buona fede e quello in mala fede si conferma nel caso di alienazione.
Il ricevente di buona fede che, perdurando la buona fede, abbia alienato la cosa, deve restituire il corrispettivo. In
caso di alienazione gratuita, nulla è dovuto dall’alienante: l’obbligo restitutorio verso chi ha pagato l’indebito si
trasferisce su chi ha acquistato la cosa, ma nei limiti dell’arricchimento.
Se invece il ricevente era in mala fede, o se la buona fede era venuta meno all’atto di alienazione, l’obbligo
restitutorio ha per oggetto la cosa in natura o il suo valore, non il corrispettivo ricevuto; ma il soggetto che ha pagato
può scegliere di pretendere il corrispettivo (lo farà, se maggiore), che può essere richiesto anche all’acquirente.
In caso di alienazione gratuita, primo obbligato alla restituzione è l’alienante; se questi viene inutilmente escusso,
l’acquirente è tenuto nei limiti dell’arricchimento.

Non ci sono norme che regolino la restituzione della prestazione non dovuta di fare: secondo la prevalente
giurisprudenza, si può applicare a questa ipotesi l’art. 2033, con riferimento al valore patrimoniale della prestazione.
Non sempre il pagamento non dovuto dà diritto alla restituzione.
Anzitutto, il codice stabilisce che “non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in
esecuzione di doveri morali e sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace”. Si tratta delle c.d.
“obbligazioni naturali”.
La norma significa che tutte quelle relazioni tra persone che, secondo un comune apprezzamento, fanno nascere
doveri, non sono irrilevanti per il diritto; i vincoli morali o sociali non si traducono in obblighi giuridici, ma sono
considerati dal diritto come idonei a “giustificare” spostamenti patrimoniali: quanto è dato in adempimento di un
dovere morale e sociale non è giuridicamente dovuto, ma non è giuridicamente privo di causa, e perciò non è
ripetibile. La legge prevede espressamente questo tipo di disciplina, ad esempio, per il debito prescritto.
Un esempio che sta assumendo sempre maggiore importanza è quello della famiglia di fatto, cioè della coppia non
coniugata che vive però rapporti di tipo coniugale. La famiglia di fatto è una formazione sociale compresa tra quelle
che la Costituzione valorizza all’art. 2; i vincoli che in questa formazione si costituiscono sono fonte di doveri morali e
sociali (di assistenza, di mantenimento dopo che la coppia si è sciolta, ecc.): quindi, seppure non c’è una pretesa
giuridica all’adempimento di questi doveri; tuttavia, le prestazioni compiute spontaneamente sono giustificate e non
vanno restituite.

L’altro caso in cui non c’è ripetizione è quello della prestazione non dovuta perché contraria al buon costume.
Poniamo che io mi accordi con un impiegato pubblico perché acceleri una mia pratica, e gli prometta un milione di
euro. Il contratto è nullo, e la prestazione non dovuta; però, se ho pagato, non potrò ottenere che un giudice dello
Stato tuteli il mio interesse alla restituzione.

5. L’arricchimento ingiustificato.
L'arricchimento senza causa (artt. 2041 e ss.) è una fattispecie formulata dal codice in termini molto generali, tanto
da corrispondere al principio già indicato: se una persona, senza una causa che lo giustifichi, si arricchisce a spese di
un’altra, è tenuta a indennizzare chi si è impoverito, nei limiti dell’arricchimento.
Perché nasca obbligazione, occorre che tra l’impoverimento di una parte e l’arricchimento dell’altra sussista una
derivazione causale diretta.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Qualcuno interpreta l’espressione “senza giusta causa” come la mancanza di un titolo che renda la prestazione
dovuta al soggetto arricchito, altri come mancanza di “giustificazione” dell’arricchimento, che rimanderebbe al
giudice una valutazione equitativa del rapporto tra soggetto impoverito e soggetto arricchito.
Il codice stabilisce che l’azione non è proponibile quando il danneggiato può esercitarne un’altra per farsi
indennizzare del pregiudizio subito (carattere sussidiario dell’azione).
L'obbligazione ha ad oggetto un indennizzo e non il risarcimento, perché la fattispecie non consiste in un illecito, che
obblighi a risarcire il danno; l'indennizzo è limitato al vantaggio economico conseguito dalla parte che si è arricchita,
anche se il pregiudizio subito dall'altra è superiore.

CAP. 29.
I TITOLI Dl CREDITO
1. Le esigenze del commercio e la nascita dei titoli di credito.
Il credito è un bene giuridico. Ben difficilmente un credito potrà essere oggetto di una vera e propria circolazione
attraverso lo strumento della cessione del credito. Ecco perché nacquero i titoli di credito, che consentono al credito
di circolare con la stessa facilità, rapidità e certezza di un bene mobile. Le principali caratteristiche dei titoli di credito
sono incorporazione, letteralità e autonomia.

2. L’incorporazione.
La difficoltà di consentire al credito di circolare in modo analogo ai beni mobili è data dal fatto che il credito,
a differenza dei primi, non è un bene materiale. Il problema è stato risolto con questa soluzione: creare un
documento che rappresentasse (non la fonte del diritto di credito, ma) il credito stesso.
Credito e documento diventano una cosa sola: il proprietario del documento è il titolare del diritto di credito.
Si parla, a questo proposito, di incorporazione per indicare che il diritto di credito è incorporato nel documento e non
può essere scisso da questo: il diritto di credito non può circolare separatamente dal documento e può essere
esercitato dal titolare solo se costui ha con sé il documento in cui il credito è incorporato.
Alla circolazione dei titoli di credito si applica il noto principio del “possesso vale titolo”, cosicché chi acquista il
possesso del titolo di credito in buona fede e nel rispetto delle norme che ne disciplinano la circolazione acquista la
titolarità del diritto anche se il suo dante causa non ne era il vero titolare. Il debitore accorto, all’atto del pagamento,
deve pertanto pretendere la restituzione del titolo al momento del pagamento per evitare di essere costretto a
pagare una seconda volta.

Tuttavia, può accadere che la titolarità del titolo di credito ed il suo possesso non coincidano. La regola è che il
possessore di un titolo ha diritto alla prestazione in esso indicata e, il debitore che senza dolo o colpa grave adempie
nei confronti del possessore è liberato anche se costui non è l’effettivo titolare.
Il possesso del titolo di credito conferisce la legittimazione all’esercizio del diritto di credito in esso incorporato;
questa regola sacrifica l’effettivo titolare di fronte ad un possessore di malafede.

3. La letteralità.
Ciò che risulta dal titolo è tutto ciò che si può legittimamente pretendere.
Letteralità significa che il contenuto del diritto di credito è esattamente quello che risulta dal tenore letterale del titolo
che Io incorpora (non si può mettere in discussione ciò che è scritto nel titolo).
Non sempre è possibile richiamare in un titolo di credito l’intero contenuto del diritto in esso incorporato; la
letteralità può essere completa, come nella cambiale, dove è riportato l’intero contenuto del diritto di credito, o
incompleta, come nelle azioni di società, che, pur riportando gli elementi più importanti, richiamano però in modo
diretto o indiretto altri documenti che meglio specificano il contenuto del diritto incorporato nel titolo.

4. L’autonomia.
Chi acquista un titolo di credito non succede nella posizione del suo dante causa, ma acquista a titolo originario.
Ogni volta che il titolo viene trasferito, l’acquirente diviene dunque titolare di un diritto caratterizzato dalla
autonomia rispetto al diritto di tutti i suoi predecessori.
Ciò comporta che il terzo acquirente è messo al riparo da tutte le possibili eccezioni personali che il debitore avrebbe
potuto opporre ai precedenti possessori: se un precedente titolare aveva concesso al debitore una dilazione di
pagamento (che non risulta dal titolo), quest’ultimo non può far valere nei confronti del nuovo acquirente la
concessione della dilazione e, se è scaduto il termine che risulta dal titolo, deve pagare immediatamente.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
5. Titoli causali e titoli astratti.
Nei titoli astratti (come ad es. la cambiale) non si fa alcun riferimento alla causa che ha generato l'obbligazione; se un
soggetto acquista un bene e, anziché pagare immediatamente il venditore, gli rilascia una cambiale, quest’ultima non
contiene neppure un cenno al contratto di compravendita. Ciò comporta che il rapporto sottostante non può
esplicare alcuna influenza sul contenuto del diritto di credito incorporato nel titolo.
Il debitore, dunque, non può riferirsi al rapporto sottostante (ad es. eccependo la nullità del contratto di
compravendita) per rifiutare l’adempimento al soggetto che gli presenti il titolo di credito, ma deve pagarlo. L’unica
eccezione è rappresentata dall’ipotesi in cui il titolo venga presentato al primo prenditore (nell’esempio appena
formulato, l’alienante).

I titoli causali (es. la polizza di carico) invece, fanno riferimento alla causa di emissione del titolo; le eccezioni relative
al negozio che ha dato origine al titolo di credito sono pertanto opponibili a tutti i successivi acquirenti del titolo
stesso.

6. La circolazione dei titoli di credito.


ln base al modo di circolazione del titolo si distinguono:
a. Titoli al portatore: circolano semplicemente con la consegna del titolo (trasferimento del possesso).
b. Titoli all'ordine (es. cambiale, assegno): si trasferiscono con la consegna del titolo accompagnata dalla
girata.
Il titolo, fin dalla sua origine, è intestato ad un certo soggetto. Al momento del trasferimento del titolo
questo soggetto (girante) deve impartire al debitore un ordine (scritto e sottoscritto dallo stesso girante)
con il quale gli indica di effettuare la prestazione a favore del soggetto al quale il titolo viene trasferito
(giratario): questa è la girata.
Il possessore del titolo è legittimato all’esercizio del diritto in esso contenuto solo in base ad una serie
continua di girate: non vi devono essere “salti” nella serie di girate: se il titolo è stato trasferito più volte, è necessario
che l’originario titolare abbia firmato la prima girata e che ogni girata successiva alla prima sia firmata dalla persona che
nella girata precedente figurava come giratario (girata piena).
La girata può essere in bianco quando consiste nella semplice apposizione della firma del girante senza
l'indicazione del giratario. Il titolo girato in bianco può circolare come un titolo al portatore.
La girata per l'incasso si limita a legittimare il giratario ad incassa in nome e per conto del girante; la girata a
titolo di pegno attribuisce al giratario la legittimazione all'esercizio del titolo, ma non gli consente di girare a
sua volta il titolo.
c. Titoli nominativi: sin dall'origine il titolo è intestato ad un certo soggetto e l’intestazione è contenuta nel
titolo e in un registro nelle mani dell'emittente. Questi titoli si trasferiscono con la consegna del titolo e con
la doppia annotazione (sul titolo e sul registro dell’emittente) o con il rilascio di un nuovo titolo da parte
dell’emittente o ancora mediante una girata piena, datata e autenticata.

7. La classificazione dei titoli di credito.


I titoli di credito possono essere inoltre distinti in:
• Titoli di credito in senso stretto, i titoli nei quali il diritto incorporato consiste nella prestazione di una
somma di denaro (ad es: cambiale, assegno, titoli del debito pubblico).
• Titoli di credito in senso ampio, nei quali si possono distinguere altre figure:
a. Titoli rappresentativi di merci incorporano il diritto alla consegna delle merci specificate nel titolo stesso.
La fede di deposito; la polizza di carico, la lettera di vettura rappresentano le merci oggetto del trasporto. Questi
titoli incorporano il diritto alla custodia delle merci e il diritto alla loro riconsegna. Con il trasferimento del titolo, si
trasferisce anche la merce specificata nel titolo.
b. Titoli di partecipazione che attribuiscono diritti e poteri di diversa natura, conferendo al titolare un vero e proprio
status giuridico come, ad esempio, quello di socio in una s.p.a.

Sempre nell’ambito della categoria dei titoli di credito devono poi tenersi distinti: i titoli pubblici, ovvero quelli
emessi dallo Stato o da altri enti pubblici (es. BPT o i CCT), dai titoli privati, ovvero quelli emessi da soggetti privati
(es. cambiali, assegni, azioni delle società) e i titoli singoli, che vengono emessi separatamente e si differenziano tra
loro (cambiale, assegno, che vengono formati di volta in volta a seconda delle necessità), dai titoli di massa, che
vengono invece emessi in serie ed hanno identico contenuto (le azioni o le obbligazioni di società).

8. Le eccezioni opponibili al possessore del titolo.


Le eccezioni che il debitore può opporre al possessore de titolo possono essere:

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
• Eccezioni reali, che si possono opporre a qualunque possessore:
a) relative alla forma del titolo, che possono essere opposte se manca un requisito formale che la legge
richiede perché un documento possa essere considerato un titolo di credito;
b) fondate sul contesto letterale del titolo (è un’applicazione del principio della letteralità);
c) di falsità della firma, di difetto di capacità o di rappresentanza al momento dell’emissione;
d) derivanti dalla mancanza delle condizioni necessarie per l'esercizio dell'azione (come, ad es. la
prescrizione).
• Eccezioni personali che riguardano i rapporti tra debitore e possessore; così, ad esempio, il debitore al quale
sia domandato il pagamento di una somma di denaro potrà opporre in compensazione un credito che vanti
nei confronti del possessore.
Può accadere che il possessore di un titolo, sapendo che il debitore potrebbe opporgli eccezioni di natura personale,
cerchi di evitare tale situazione cedendo ad un terzo (con cui sia d’accordo) il titolo; se si verificasse questo caso,
però, il debitore avrebbe un efficace mezzo di tutela (c.d. exceptio doli generalis) in quanto potrà opporre a questo
terzo in mala fede anche le eccezioni personali che avrebbe potuto opporre al precedente possessore.

9. L’ammortamento.
In caso di smarrimento, sottrazione o distruzione del documento, il possessore si troverebbe nell’impossibilità di
ottenere la prestazione dal debitore. La legge prevede però una particolare procedura che consente di ovviare a
questo inconveniente: l’ammortamento. Con questa procedura il titolo smarrito, sottratto o distrutto viene privato
della sua efficacia ed in capo all’ex possessore viene ricostituita a legittimazione ad esigere la prestazione dal
debitore.
La procedura prevede adeguate cautele in conseguenza del fatto che il titolo, se sottratto o smarrito, potrebbe
continuare a circolare e finire nelle mani di terzi in buona fede. L'ex possessore deve presentare un ricorso al
Presidente del Tribunale che deve pronunciare decreto di ammortamento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e
notificato al debitore. Trascorsi 30 giorni senza che sia fatta opposizione dal detentore del titolo, si compie la
procedura di ammortamento e l’ex possessore può pretendere il pagamento od ottenere un duplicato del titolo.
L’ammortamento non è di norma consentito per i titoli al portatore. Qualora il titolo al portatore sia andato smarrito
o sia stato sottratto al suo possessore, questo deve fornire la prova di ciò ed avrà diritto alla prestazione solo dopo
che sia decorso il termine di prescrizione del titolo; se il debitore esegue la prestazione prima che sia decorso tale
termine è liberato, salvo che si provi che conoscesse il vizio del possesso di chi gli aveva presentato il titolo.
Se il titolo al portatore è distrutto, il possessore può ottenere un duplicato ove provi l’avvenuta distruzione; in caso
contrario si applica la procedura esposta per lo smarrimento o la sottrazione.

10. La smaterializzazione dei titoli di credito.


Negli ultimi anni si è sviluppato un fenomeno che ha riguardato i titoli di massa. Per ottenere una circolazione più
rapida e sicura si è sviluppato un sistema che prevede una circolazione dei titoli basata sulla registrazione elettronica
delle operazioni di trasferimento, senza necessità che abbia luogo una consegna materiale del documento tra i
soggetti che partecipano all'operazione.
Oggi, chi possiede, ad esempio, titoli azionari quotati in borsa non tiene nulla in casa; i suoi titoli sono depositati
presso un intermediario finanziario. Tutte le operazioni relative ai titoli che circolano con questo sistema avvengono
tramite ordini elettronici. Si è parlato quindi di smaterializzazione dei titoli, tipico aspetto della new economy.

11. I titoli atipici.


I titoli atipici sono quei titoli che non corrispondono a nessuna delle figure espressamente previste e disciplinate dal
legislatore. L'unico importante limite all’esercizio dell’autonomia privata è stato posto in merito ai titoli al portatore
che prevedano il pagamento di una somma di denaro: l’emissione del titolo deve essere espressamente prevista
dalla legge (vincolo di legalità). La ratio di tale vincolo è che permettere la libera emissione di titoli al portatore
contenenti l’obbligo di pagare una somma di denaro consentirebbe la creazione di una “moneta parallela”, rispetto a
quella dello Stato, col rischio che la moneta circolante aumenti senza il controllo delle autorità statali.
Tra i contratti atipici si ricordano i certificati dei fondi comuni d’investimento.

12. Documenti di legittimazione e titoli impropri.


Nei documenti di legittimazione e nei titoli impropri non si verifica l’incorporazione del diritto nel documento che
caratterizza i titoli di credito. I primi servono ad identificare il soggetto che abbia diritto ad una determinata
prestazione (es: il biglietto del cinema o del teatro, il biglietto del treno, il biglietto del parcheggio ecc.).

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
I secondi sono documenti che servono a rendere più spedita la circolazione del diritto in quanto non richiedono le
formalità della cessione del credito; gli effetti del trasferimento rimangono quelli della cessione del credito. Il
trasferimento del titolo improprio produce la cessione del diritto, con la conseguenza che il debitore della
prestazione può opporre al cessionario tutte le eccezioni che poteva opporre al cedente. Es: vaglia postale.
II. LA CAMBIALE
13. Caratteri e funzione.
Nel nostro ordinamento esistono due tipi di cambiale: la cambiale tratta ed il vaglia cambiario (detto anche pagherò
cambiario).

Nella cambiale tratta un soggetto (traente) ordina ad un altro (trattario) di pagare ad un terzo soggetto una
determinata somma di denaro. Lo schema triangolare è analogo a quella della delegazione; così anche per la
cambiale tratta si distingue tra rapporto di valuta, che sussiste tra il traente ed il (primo) prenditore, e rapporto di
provvista, che intercorre tra il traente e il trattario. Nel vaglia cambiario, invece, un soggetto (emittente) promette di
pagare una somma di denaro al prenditore o al soggetto al quale sia stato trasferito il titolo di credito.

La cambiale possiede (oltre all’incorporazione del credito) diverse caratteristiche, alcune delle quali sono comuni a
tutti i titoli di credito, altre sono ad essa peculiari.
• È dotata della c.d. letteralità completa: tutti gli elementi del diritto di credito sono e devono essere
contenuti nel testo della cambiale.
• È dotata del requisito dell'autonomia.
• È dotata di astrattezza. Nella cambiale non si fa menzione, né ha alcun rilievo, al rapporto sottostante. Tale
caratteristica è così accentuata che l’ordine di pagare (o la promessa di pagare) deve essere incondizionato;
ciò vuol dire che se sul documento viene apposta una clausola che condizioni in qualsiasi modo il
pagamento, il titolo non può valere come cambiale. L’astrattezza comporta che il rapporto sottostante
all’emissione è irrilevante, tranne che per l’ipotesi in cui il pagamento sia domandato direttamente da una
delle parti del rapporto sottostante. In questo caso, il debitore può rifiutare il pagamento, opponendo tutte
le eccezioni che traggono origine dal rapporto sottostante. L’astrattezza opera, dunque, solo rispetto ai terzi
prenditori della cambiale.
Addirittura, la cambiale può essere emessa anche senza che il traente sia o voglia divenire debitore del
primo prenditore (c.d. cambiale di favore): un mio amico mi domanda di fargli credito ed io non sono in
grado di prestare del denaro, gli rilascio una cambiale che potrà girare a un suo creditore.
• È un titolo all’ordine.
• È un titolo esecutivo: il possessore, in caso di inadempimento del debitore, non è tenuto ad instaurare alcun
giudizio diretto ad ottenere la condanna del debitore inadempiente, potendo direttamente promuovere nei
suoi confronti una procedura esecutiva. Per aver efficacia di titolo esecutivo, deve essere regolarmente
bollata fin dal momento della sua emissione.
• È un titolo formale: per valere come cambiale il titolo deve essere redatto osservando tutti i requisiti
essenziali prescritti dalla legge cambiaria.

14. I requisiti formali della cambiale.


La cambiale è di solito formata utilizzando un apposito modulo messo in vendita dallo Stato il cui prezzo comprende
anche l’imposta di bollo. Si può formare una cambiale anche utilizzando un semplice foglio di carta, avendo però
l’accortezza di assolvere gli obblighi di natura fiscale. Se questi obblighi non sono assolti fin dall’origine, la cambiale è
valida, ma non ha efficacia di titolo esecutivo; è pero necessario regolarizzare la cambiale con i bolli.
Deve essere redatta per iscritto. I requisiti formali della cambiale sono: denominazione di cambiale, ordine o
promessa di pagare, nome del trattario (se la cambiale è tratta), nome del prenditore, data di emissione,
sottoscrizione del traente o emittente.
Importante è anche la scadenza che può essere:
1. a giorno fisso (scade in un giorno preciso, es. 15 maggio 2018);
2. a certo tempo data (scade dopo un periodo determinato a partire dalla data d’emissione);
3. a vista (quando è pagabile in ogni momento);
4. a certo tempo vista (scade dopo un certo periodo di tempo a partire dal momento in cui è stata presentata
al debitore, es. dopo un mese dalla presentazione del titolo).

15. La cambiale in bianco.


I requisiti formali della cambiale devono sussistere al momento in cui la cambiale sia presentata per il pagamento.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Al momento dell'emissione è sufficiente che il documento contenga la denominazione di cambiale e la sottoscrizione
del traente o dell'emittente, potendo gli altri elementi essere inseriti in un secondo tempo: in questo caso, si parla di
cambiale in bianco. Nel caso in cui la cambiale venga completata violando gli accordi; la legge prevede una regola
destinata a tutelare i terzi che acquistino il titolo successivamente all’abusivo riempimento: l’eccezione di abusivo
riempimento della cambiale, non può essere opposta al portatore a meno che costui abbia acquistato la cambiale in
mala fede o con colpa grave.

16. Capacità e rappresentanza.


La valida assunzione di un'obbligazione cambiaria è sottoposta alle note regole sulla capacità; in particolare l'atto va
inquadrato tra quelli di straordinaria amministrazione. In tema di rappresentanza: chi sottoscrive una cambiale in
veste di rappresentante essendo privo del relativo potere o eccedendo i poteri che gli siano stati conferiti, è
obbligato cambiariamente come se avesse firmato in proprio.

17. L’accettazione della cambiale tratta.


Lo schema della cambiale tratta prevede che il traente ordini al trattario di pagare una certa somma ad un terzo;
l’ordine non obbliga il trattario nei confronti dei prenditori neppure nel caso in cui egli sia già il debitore del traente.
Affinché possa essere considerato obbligato nei confronti dei prenditori, è necessario che il trattario esprima la sua
accettazione, che deve essere riportata sul titolo e dev’essere incondizionata. Se la cambiale tratta non è ancora
stata accettata, qualsiasi prenditore può presentarla al trattario per ottenere la sua accettazione; se questa viene
rifiutata il portatore può agire con l’azione di regresso nei confronti del traente e degli eventuali giranti, senza dovere
attendere la scadenza.

18. La girata.
La cambiale, essendo un titolo all'ordine, circola mediante girata, che non può essere condizionata.
La girata può essere piena o in bianco, ma è nulla quella parziale.
Oltre a trasferire il titolo, la girata produce l’effetto di rendere il girante responsabile nei confronti del giratario e dei
successivi prenditori della cambiale per il pagamento e per l’accettazione.
Questo comporta che più la cambiale circola più si rafforza il credito, in quanto alla responsabilità del debitore
originario si somma quella di tutti i giranti.
Il girante può tuttavia impedire la produzione di questo effetto apponendo alla girata una clausola che escluda la sua
responsabilità.
Il girante può anche apporre una diversa clausola con cui vieta una successiva girata: in questo caso il giratario può, a
sua volta, girare la cambiale, ma il girante che abbia apposto il divieto non risponde verso colo ai quali la cambiale sia
stata ulteriormente girata.

19. L’avvallo.
L'obbligazione cambiaria può essere garantita con una particolare garanzia personale denominata avallo.
L'avallo produce un'obbligazione di garanzia, che ha natura di obbligazione cambiaria.
Ciò significa che l’avallo è caratterizzato da una forte autonomia rispetto all’obbligazione garantita, tanto che se
quest’ultima è nulla (ad eccezione del caso che la nullità dell’obbligazione garantita derivi da un vizio di forma),
l’obbligazione dell’avvallante rimane valida.
L’avallo vien apposto dall’avallante sulla cambiale e, in genere, contiene l’indicazione del nome del soggetto
garantito (l’avallato), che può essere un qualsiasi obbligato cambiario: il traente, il trattario, l’emittente del vaglia
cambiario, un girante, o anche un altro avallante.
Se manca l'indicazione dell'avallato, la legge prescrive che l'avallo si intende dato per il traente (della cambiale tratta)
o per l’emittente (del vaglia cambiario).
L'avallante risulta essere obbligato in solido con l'avallato; con il pagamento l’avallante acquista i diritti inerenti alla
cambiale nei confronti dell’avallato e di coloro che sono obbligati cambiariamente verso quest’ultimo.

20. Il pagamento, il protesto e le azioni cambiarie.


Non tutti gli obbligati cambiari si trovano sullo stesso piano.
Sono obbligati principali:
a. il trattario che abbia accettato (cambiale tratta);
b. l'emittente del vaglia cambiario;
c. gli avallanti del trattario accettante o dell'emittente.
Sono obbligati in via di regresso:

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
a. il traente (cambiale tratta);
b. i giranti;
c. gli avallanti del traente o dei giranti.
Il pagamento va richiesto in primo luogo ad un obbligato principale. Se questo paga per intero ha diritto alla
consegna della cambiale. Il portatore non può rifiutare un adempimento parziale; in questo caso il soggetto che paga
può pretendere che il parziale pagamento venga annotato sulla cambiale oppure che gli sia rilasciata una quietanza.

Nel caso di mancato pagamento, il portatore della cambiale può agire nei confronti di un obbligato in via di regresso;
per questo motivo si distingue l'azione cambiaria diretta (esercitata nei confronti degli obbligati principali) e l'azione
cambiaria di regresso (promossa contro un obbligato in via di regresso).
In alcuni casi non è neppure necessario attendere la scadenza del titolo ed il suo mancato pagamento; il regresso
può essere infatti esercitato prima della scadenza se il trattario ha rifiutato, in tutto o in parte, l'accettazione.

Per esercitare l'azione di regresso è necessario che si sia prima proceduto alla c.d. levata del protesto.
Il protesto è un atto pubblico che viene redatto da un notaio o da un ufficiale giudiziario, con il quale si constata in
forma solenne il rifiuto del pagamento o dell’accettazione della cambiale.
Una volta levato il protesto, il portatore della cambiale può agire, a sua scelta, verso uno qualunque degli obbligati in
via di regresso. L’obbligato di regresso che soddisfi il portatore della cambiale può agire a sua volta contro gli
obbligati a lui precedenti.
L'azione cambiaria si prescrive in tre anni dalla data della scadenza; quella di regresso in termini più brevi.

III. L’ ASSEGNO
23. Caratteri e funzione.
L’assegno è un titolo di credito che contiene un ordine o una promessa di pagamento; ma, a differenza della cambiale
(strumento di credito), esso è mezzo di pagamento. La cambiale è generalmente emessa per dilazionare un
pagamento, mentre l’assegno è destinato ad un incasso pressoché imminente al portatore.
Oggi è sostituito da forme di pagamento più moderne, più sicure e più semplici: carte di credito, mezzi elettronici di
pagamento e il più largo utilizzo di strumenti alternativi di pagamento hanno avviato l’assegno al declino.

24. L’assegno bancario.


il sottoscrittore (traente) ordina ad una banca (trattario) di pagare una certa somma a favore di un determinato
soggetto. La banca stipula con il proprio cliente (traente) una convenzione d’assegno, con la quale lo autorizza a
emettere assegni bancari (libretto di assegni). L’assegno bancario può essere emesso all’ordine o al portatore.
Gli assegni di importo uguale o superiore a 1000 euro devono recare l’indicazione del nome o della ragione sociale
del beneficiario e la clausola di non trasferibilità.

Tra la banca e il traente deve sussistere un rapporto di provvista preesistente all’emissione dell’assegno; il traente
deve avere fondi disponibili presso la banca sulla quale l’assegno è tratto (in quanto depositante o creditore della
banca). Se non esiste la provvista, l’assegno è vuoto.

L’assegno bancario è, per sua natura, pagabile a vista ed ogni disposizione contraria si ha per non scritta.
È diffusa la prassi di emettere assegni postdatati, cioè recanti una data posteriore a quella della effettiva emissione.
La legge prescrive che l’assegno postdatato che sia presentato al pagamento prima del giorno indicato come data di
emissione, risulta ugualmente pagabile nel giorno della presentazione: il traente che, senza un adeguato rapporto di
provvista, abbia emesso un assegno postdatato confidando nel fatto che sarebbe stato incassato solo dopo un certo
tempo potrebbe trovarsi nella posizione di chi ha emesso un assegno a vuoto.

La banca trattaria non può non accettare l’assegno. Se la banca rifiutasse ingiustificatamente il pagamento di un
assegno, sarebbe contrattualmente responsabile nei confronti del traente per i danni che costui abbia patito in
seguito all’illegittimo rifiuto del pagamento.

L’assegno bancario è destinato ad una circolazione di breve durata. La legge prescrive che l’assegno debba essere
presentato al pagamento entro un breve termine (8 o 15 giorni). L’assegno può essere pagato dalla banca anche
dopo che sia trascorso tale termine se il traente non abbia dato l’ordine di non pagare.
Sull’assegno possono essere apposte particolari clausole:
• l’assegno “non trasferibile” (destinato a non circolare): può essere pagato solo al prenditore o accreditato sul suo c/c;

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• l’assegno “sbarrato” può essere pagato solo ad un banchiere o ad un cliente della banca trattaria;
• l’assegno “da accreditare” non è pagabile in contanti, ma solo tramite accredito dell’importo sul conto del presentatore.

25. L’assegno circolare.


L’assegno circolare è un titolo all’ordine (mai al portatore) che contiene la promessa incondizionata di una banca di
pagare a vista una somma determinata.
L’assegno può essere emesso unicamente per le somme che la banca abbia a disposizione al momento
dell’emissione. Normalmente viene rilasciato da una banca su richiesta di un cliente ad essa legato da un rapporto di
provvista. Questo è più facilmente accettato quale mezzo di pagamento rispetto all’assegno bancario: il prenditore sa
che i rischi di non ottenere il pagamento sono praticamente nulli.

Sezione Quarta: L’ILLECITO CIVILE


CAP. 30.
FATTI ILLECITI E RESPONSABILITA' CIVILE
1. Problemi e funzioni della responsabilità civile.
Di fronte ad un danno concreto che capita di subire le domande cui rispondere sono sostanzialmente:
1. Qualcuno deve pagare o il danno resta a mio carico? È il problema del danno risarcibile, che nel nostro
codice si riassume con l’idea di danno ingiusto. Ad es: violinista perde il mignolo, ma un cantante?
2. Se qualcuno deve pagare, chi, e in base a quali criteri? Se il danno va trasferito dal danneggiato ad altri
soggetti, occorre stabilire con che criteri si individua il soggetto a cui accollare il risarcimento. È il problema
dei criteri di imputazione dell’illecito, ovvero della responsabilità soggettiva o oggettiva.
3. Quanto dovrà essere pagato? Per rispondere a questa domanda bisogna considerare due aspetti.
a) il primo è quello di stabilire un confine alle conseguenze di cui si può chiedere conto ad un
danneggiante: sul piano naturalistico, ogni vento prolunga le sue conseguenze all’infinito, ma sul
piano giuridico occorre trovare un criterio per delimitare le conseguenze trasferibili a carico di un
responsabile: è il problema della causalità.
b) Il secondo è di stabilire criteri per valutare il danno subito e tradurlo in quantità monetaria;
problema di più facile soluzione nel caso di perdite materiali, già più difficile nel caso di perdite di
capacità di lavoro o di guadagno, di opportunità sociali, economiche, ecc. È il problema della
valutazione del danno.

Il perno del discorso è la funzione della responsabilità civile, cioè dell’obbligo del risarcimento.
Il risarcimento del danno ha da sempre un'evidente funzione riparatoria. In passato, tuttavia, la funzione riparatoria
era quasi sovrastata dalla funzione sanzionatoria, in base al quale il danno doveva essere risarcito se era frutto di una
condotta oggettivamente antigiuridica e soggettivamente colpevole.
Lo spostamento graduale del nostro sistema verso una prevalente funzione riparatoria si osserva sotto due punti di
vista:
a) Responsabilità fondata, non più sull'illeceità della condotta (paghi perché il danno deriva dalla violazione di
un tuo dovere), ma sull'illiceità della lesione provocata (paghi perché hai pregiudicato un interesse protetto
dalla legge);
b) Responsabilità fondata, non più sulla colpa (responsabilità soggettiva), ma su criteri diversi dalla colpa
(responsabilità oggettiva).
La responsabilità civile può infine svolgere una funzione preventiva, quando il sistema è abbastanza efficiente da
determinare una dissuasione dai comportamenti nocivi e una spinta verso comportamenti virtuosi almeno su una
base di calcolo dei maggiori costi del risarcimento rispetto ai vantaggi del comportamento dannoso.

2. Le fonti di responsabilità.
Nel nostro sistema, la fonte primaria di responsabilità per danni è l'illecito civile, che consiste in un atto o fatto lesivo
di un interesse particolare protetto da una norma giuridica, e dal quale derivi un pregiudizio per il soggetto leso.
L’atto illecito in senso ampio è un atto che lede degli interessi protetti da una norma giuridica, che siano questi
particolari o generali.
Si distinguono due fattispecie fondamentali di illecito:
• Inadempimento dell'obbligazione, regolato agli artt. 1218 e ss. che disciplinano il caso in cui:
a. Esista tra due parti un rapporto obbligatorio;

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
b. Si verifichi un inadempimento imputabile al debitore;
c. Dal quale derivi un danno al creditore.
• Fatto illecito regolato agli artt. 2043 e ss. definito come "qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad
altri un danno ingiusto". La responsabilità non nasce da un rapporto già sussistente ma dal fatto dannoso.

Tradizionalmente, le due fattispecie fondamentali di illecito sono indicate come illecito contrattuale (fonte di
responsabilità contrattuale) e illecito extracontrattuale (fonte di responsabilità extracontrattuale).
Questa terminologia può essere forviante in quanto la responsabilità contrattuale è, in realtà, quella che deriva
dall’inadempimento di qualsiasi obbligazione, che nasca da contratto, o da altri fatti o atti, o anche da fatto illecito.

A queste due fattispecie fondamentali si aggiunge anche l'illecito precontrattuale: si tratta della violazione
dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nelle trattative contrattuali. Qui, tra le parti c’è una relazione
particolare, dovuta al fatto della contrattazione in corso, non c'è però un'obbligazione vera e propria e si propende
ad applicare in questo caso le regole sui fatti illeciti (responsabilità extracontrattuale).

3. La regola dell’art. 2043.


La funzione di selezione dei danni risarcibili viene dunque a cadere sulle norme che disciplinano il fatto illecito.
Art. 2043, risarcimento per fatto illecito: “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto,
obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Secondo l'art. 2043 è risarcibile il danno ingiusto legato al fatto commesso da un nesso di causalità (espresso
nell’aggettivo “cagionato”).
La responsabilità del danno è accollata a chi ha commesso il fatto con dolo (colpevolezza e volontà) o con colpa
(negligenza), a condizione che fosse capace di intendere e di volere (imputabilità: art. 2046).
Si ricavano così i tradizionali elementi dell'illecito:
• Elementi oggettivi (che riguardano il fatto e le sue conseguenze) sono il danno ingiusto e il nesso di causalità
tra fatto e danno prodotto;
• Elementi soggettivi (che riguardano il soggetto responsabile), sono l’imputabilità e la colpevolezza.

4. Gli elementi oggettivi dell’illecito: il danno ingiusto.


L'espressione "danno ingiusto", dell'art 2043, si presta a diverse interpretazioni
a. Significato tradizionale: ingiusto richiama l’antico significato di iniustum (ius=diritto), ovvero ciò che è contra
ius; dunque, è ciò che compio violando il diritto altrui e non in base ad un mio diritto: se danneggio una cosa
altrui, il mio atto è contra ius; ma se lo faccio per fuggire da un incendio, il mio atto è iure. Ecco perché i
giuristi si riferiscono a questo requisito dell’illecito con il termine antigiuridicità. Ma nel corso del tempo, il
modo di intendere la norma ha subito due evoluzioni combinate tra loro.
b. Dall’antigiuridicità del comportamento lesivo all’antigiuridicità della lesione. Nella concezione tradizionale
l'antigiuridicità del comportamento supponeva la violazione di un dovere, ma col tempo, la funzione
sanzionatoria è stata quasi del tutto soppressa da quella riparatoria. La ratio della riparazione diviene
prevalente: ciò che interessa non è più l’esistenza di una condotta riprovevole, ma l’esistenza di una
condotta che lede ingiustificatamente un interesse altrui. La valutazione di antigiuridicità o ingiustizia verte
direttamente sul danno sofferto dal soggetto leso.
c. Ampliamento dell'area del "danno ingiusto". La relazione tra ingiustizia e violazione del dovere faceva sì che
fosse ritenuto ingiusto solo quel danno che una persona subiva per la lesione di un diritto soggettivo
assoluto, mentre i diritti relativi (credito) si ritenevano tutelati dalla disciplina dell’inadempimento, e
dunque solo nei rapporti tra creditore e debitore. Col passare del tempo questa rigida frontiera fu superata
in due direzioni.
I. Tutela aquilana del credito. Un soggetto terzo potrebbe determinare con la sua condotta la
lesione dell’interesse del creditore.
Es: in un incidente stradale viene ferito o ucciso un atleta.
La giurisprudenza afferma il principio per cui il creditore, leso da un terzo nella possibilità di
esigere una prestazione infungibile (legata alle particolari attitudini del debitore), può chiedere
un risarcimento al danneggiante a titolo di responsabilità extracontrattuale, se viene provato il
nesso causale. Es: lavoratore attratto dagli stipendi più alti di un’altra azienda.
II. Tutela aquiliana di situazioni diverse dal diritto soggettivo.
- Per quanto riguarda l’interesse legittimo, si ammetteva la risarcibilità nei rapporti tra privati. La
Cassazione, nel 1999, ha affermato il principio secondo cui anche la Pubblica Amministrazione

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
risponde verso il privato per la lesione di un interesse legittimo dovuta da atti amministrativi
illegittimi.
- Quanto agli interessi diffusi, una tutela risarcitoria si profila nella disciplina legislativa del danno
ambientale quando la lesione riguardi beni che non sono oggetto di proprietà pubblica né
privata.
- In ambito vicino alla tutela aquilana del credito si registra l’estensione della risarcibilità alla
lesione delle c.d. aspettative legittime. Si tratta di quei casi in cui il danno non consiste nella
perdita di una prestazione cui il soggetto avesse attuale diritto, ma di prestazioni su cui il
soggetto leso potesse legittimamente confidare. Così, ad esempio, il venir meno di sovvenzioni
che il genitore, vittima di un incidente, fosse solito corrispondere al figlio maggiorenne in
maniera costante e durevole.
- Infine, anche la lesione del possesso è stata ritenuta costituire danno ingiusto ai sensi dell’art.
2043. Ad es: richiesta di risarcimento dei danni derivanti da immissioni.

Occorre guardare anche alla posizione del danneggiante: il pregiudizio può derivare da un atto che questi ha diritto di
compiere, o dall’adempimento di un dovere, o da comportamenti che non possono comunque essere ritenuti illeciti.
Spesso, perciò, la valutazione dell’antigiuridicità del danno è il risultato di un confronto tra due interessi entrambi
protetti.

Tuttavia, spesso anche gli interessi più sicuramente protetti, come la vita e l’integrità fisica, cedono di fronte
all'esistenza di una causa di giustificazione: per esempio, nel caso di legittima difesa o di uno stato di necessità.
Si ha legittima difesa quando il comportamento lesivo è tenuto per difendere sé o altri da un’aggressione
obiettivamente ingiusta; la causa di giustificazione sussiste se il pericolo di offesa ingiusta è attuale, e se la reazione è
proporzionata all’offesa:
Lo stato di necessità si ha quando il comportamento lesivo sia l’unico modo di salvare sé o altri dal pericolo attuale di
un danno grave alla persona, non determinato dall’altrui aggressione. Esclude la responsabilità ma determina
l’obbligo di pagare un’indennità al danneggiato.
A questo punto, si capisce che la definizione che si può dare di danno ingiusto, “lesione di un interesse protetto dalla
legge”.

5. (segue) il nesso causale.


Il danno deve essere stato cagionato dal fatto illecito. L'art 2056 fa rinvio all'art. 1223, scritto in materia di
inadempimento dell'obbligazione che richiede, per la risarcibilità del danno derivante da inadempimento, un nesso di
causalità tra l'illecito e il pregiudizio.
Il danno deve essere cioè essere, secondo questo articolo, “conseguenza immediata e diretta dell'illecito”. Si ricorda
però che si è parlato del fatto che questa frase non è considerata in modo letterale da dottrina e giurisprudenza, ma
prevale un criterio di causalità adeguata, per cui si considerano provocati dall’illecito solo quei danni che possano
considerarsi conseguenze dell’illeceità secondo una valutazione dei rapporti tra cause ed effetti condotta in basse al
criterio di ciò che normalmente accade.

Merita attenzione qui il modo in cui la legge risolve il problema del danno che sia stato provocato da più soggetti. La
proporzione in cui l’uno o l’altro abbia contribuito può essere o meno determinabile, ma la legge non vuole che di
questo problema si faccia carico il danneggiato. Stabilisce perciò un regime di solidarietà nel debito: il danneggiato
può chiedere l’intero a qualunque soggetto responsabile e poi, tra loro (e solo tra loro) si distribuirà il carico della
responsabilità “nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall’entità delle conseguenze che ne
sono derivate”.

6. Gli elementi soggettivi. Imputabilità e correttezza.


La legge prende in considerazione il comportamento di una persona, per addossare all’autore una responsabilità.
Secondo l'art. 2046 (imputabilità del fatto dannoso), non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non
aveva la capacità di intendere o di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato di incapacità derivi
da sua colpa.
Non è imputabile quindi chi non possiede la capacità di fatto (naturale); possono essere imputati perciò anche un
minore o un interdetto, se capaci di fatto.
L’incapacità non esclude l’imputabilità quando è dovuta a colpa del soggetto; io dopo aver bevuto fracasso il bar.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Non è giusto, però, che i danni provocati da una persona in condizioni di incapacità siano considerati una pura e
semplice disgrazia per chi li subisce. La legge prevede la responsabilità indiretta di chi è tenuto alla sorveglianza
dell'incapace salva la prova di non aver potuto impedire il fatto (2047). Se chi ha subito il danno non può comunque
ottenere il risarcimento (perché il responsabile non può pagare o perché nessuno era tenuto a sorveglianza), il
giudice può condannare l'autore del danno a un'equa indennità, tenuto conto della condizione economica delle parti.

L'art. 2043 collega la responsabilità ad un atto doloso o colposo. Sono le due modalità possibili di colpevolezza.
Il codice penale considera colposo un evento dannoso che si verifica “a causa di negligenza o imprudenza o imperizia,
ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti ordini o discipline”; doloso è invece l'evento “dall'agente preveduto e
voluto come conseguenza della propria azione od omissione”; non è necessario che l’atto sia compiuto con lo scopo
di recare danno: basta che chi agisce sia consapevole delle conseguenze dannose della sua condotta e le accetti,
compiendo ugualmente quell’azione.

Il rapporto tra colpa e negligenza è già stato osservato in materia di adempimento dell’obbligazione. Nella
responsabilità per fatto illecito, il criterio della diligenza media vale come minimo, al di sotto del quale c’è colpa. Ciò
che conta è la diligenza dovuta nelle particolari circostanze del fatto e questa può essere anche di grado più alto di
quanto comunemente si pratica: qualche volta, perciò, si risponde anche per la colpa c.d. lievissima.

7. La responsabilità oggettiva.
Il nostro codice conosce altri criteri di imputazione della responsabilità. Per esempio, si collega la responsabilità per i
danni provocati da minori o interdetti alla responsabilità genitoriale o alla analoga posizione del tutore; si fanno
sostenere i rischi di un’attività a chi ne trae vantaggio; si accollano alla proprietà i danni derivanti da cose.
Tutte queste norme rendono in varia misura irrilevante la colpa e realizzano una responsabilità oggettiva.
Si sottolinea però una differenza: per imporre a un soggetto la responsabilità di un danno in base a un suo rapporto
con l’autore di un illecito, o in base al solo fatto che egli svolga un’attività, o in base al controllo che egli ha di certi
beni, è necessaria una previsione legale: si cade cioè in un sistema di casi tipici.
Alcune norme possono essere raggruppate perché seguono, anziché il criterio della colpa, quello del rischio.
L’art. 2049 accolla a “padroni e committenti” la responsabilità per i “danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici
e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. Sulla base di questa norma si afferma una regola
generale di responsabilità del datore di lavoro per il fatto illecito del dipendente. Non solo: la norma non prevede
prova liberatoria, cioè non consente al padrone di liberarsi da responsabilità provando di aver usato ogni cura nel
dirigere e sorvegliare l’attività dei dipendenti.
È una attribuzione di pura responsabilità oggettiva fondata sul principio del rischio.

L’art. 2050 obbliga chi svolge attività pericolose a risarcire i danni che ne derivano, e gli consente di liberarsi solo
provando di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. Tuttavia, si tratta di una prova difficile e
complessa, tanto che di fatto la prova liberatoria finisce per lo più con l’essere quella del caso fortuito (un evento non
prevedibile né evitabile), o del fatto dello stesso soggetto leso o di un terzo.
Il legislatore del ’42 tendeva a individuare certe attività, pericolose per loro natura (fabbricazione di esplosivi) o per la
natura dei mezzi impiegati (pesticidi, solventi ecc.). La norma dell’art. 2050 diventa così una regola sulla
responsabilità per i pericoli, e pure per i danni che di fatto comunque derivano da un’attività e in ispecie da
un’attività produttiva.
*****
Nella rovina di edificio, o di altra costruzione, il rischio è legato alla proprietà; il proprietario si libera solo
dimostrando che la rovina non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione. Non è una prova della
diligenza.

Nel caso della circolazione di veicoli, la responsabilità del conducente è sostanzialmente oggettiva: è a suo carico la
prova di aver fatto il possibile per evitare il danno e, addirittura, egli risponde anche se il danno deriva da difetto di
costruzione e manutenzione (per esempio per colpa del produttore, contro cui il conducente si rivarrà). Pure
oggettiva è la responsabilità del proprietario per i danni causati dal conducente; il rischio è legato al controllo
dell’uso del veicolo, per cui il proprietario non è responsabile quando il veicolo circola contro la sua volontà (se però
lascio le chiavi dentro non posso dire che uno circola contro la mia volontà, in questo caso “riappare” il criterio della
diligenza).

La norma dell’art. 2050 in materia di attività pericoloso è stata utilizzata per ascrivere una responsabilità oggettiva ai
produttori per i danni provocati da prodotti difettosi. La disciplina è ora regolata nel “codice del consumo”.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Il principio fondamentale è quello della responsabilità del produttore per i danni cagionati da difetti del prodotto e in
ispecie per la morte o le lesioni dell’integrità fisica, la distruzione o il deterioramento di cosa diversa dal prodotto
stesso.
La responsabilità sussiste verso chiunque riceva il danno, ed è di natura oggettiva.
Infatti, il danneggiato deve solo provare il danno, il difetto e il nesso di causalità tra difetto e danno. Il produttore può
liberarsi solo provando:
a. che le circostanze escludono il nesso di causalità tra la produzione e il danno: di non aver messo in
circolazione il prodotto o che il difetto non esisteva quando il prodotto è stato messo in circolazione;
b. che il difetto è dovuto dall'osservanza di una norma imperativa o di un provvedimento vincolante emesso in
ottemperanza a una norma imperativa;
c. che il prodotto non poteva essere considerato difettoso date l'attuale livello di conoscenze scientifiche.

Il codice definisce la nozione di prodotto (=ogni bene mobile, anche se incorporato in altro mobile o immobile), i
connotati del prodotto difettoso (=che non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere) e la nozione di
produttore.
Quando il produttore non sia individuato è sottoposto alla stessa responsabilità il distributore, se non comunica al
danneggiato entro tre mesi l’identità e il domicilio del produttore.

8. La responsabilità per fatto altrui.


L’interesse del danneggiato al risarcimento è talvolta protetto accollando la responsabilità per i danni derivanti da un
fatto illecito non già, o non soltanto, all’autore, ma ad un soggetto diverso che porta le conseguenze di un
comportamento altrui. Si parla, perciò, di responsabilità indiretta.
Due casi sono quelli già citati: il datore di lavoro che risponde per i danni provocati dal fatto illecito dei dipendenti e il
proprietario del veicolo che risponde per i danni provocati dal conducente.

Su ragioni diverse si fonda la responsabilità dei genitori e dei tutori per i danni provocati dal fatto illecito del minore
non emancipato o dell’interdetto, che abiti con essi.
Si considera, in questa norma, l’ipotesi in cui l’incapace legale sia imputabile. La responsabilità del genitore o del
tutore non si fonda quindi sulla sorveglianza, ma, più genericamente, sulla posizione di responsabilità, cioè sul fatto
che il soggetto legalmente incapace è in qualche misura soggetto ai genitori (o al tutore) che ne guidano la condotta.
Infatti, come prova liberatoria si ammette che i genitori dimostrino di avere dato al minore un’educazione
conveniente e di averne vigilato le attività in conformità con le loro condizioni e occupazioni.

Sulla vigilanza vera e propria, invece, è fondata la responsabilità di chi è tenuto alla sorveglianza di una persona
incapace di intendere o di volere, che non è, personalmente responsabile: qui, la prova di non aver potuto impedire il
fatto suppone di aver mantenuto il costante controllo sull’attività dell’incapace, ed è del tutto esclusa in ogni caso in
cui l’illecito sia stato commesso dall’incapace lasciato solo.

9. Il danno.
L’art. 2043 non definisce però il concetto di danno.
Il termine “danno” è pure suscettibile di diverse interpretazioni.
Nel linguaggio giuridico il termine “danno” è usato con diversi significati:
a. come equivalente a “lesione di un interesse”, oppure
b. nel senso più ristretto di “pregiudizio (patrimoniale o morale) derivante dalla lesione di un interesse”.
Ad esempio, se io pubblico senza consenso la foto di una persona, ledo per ciò stesso un interesse protetto dalla
legge. Da questa lesione potranno derivare o non derivare conseguenze dannose, pregiudizi di ordine economico,
poniamo, la perdita di un’occasione di lavoro, o di ordine puramente morale, poniamo l’umiliazione.

A un danno di natura patrimoniale si riferisce l’art. 2056, che stabilisce i criteri di valutazione del danno, e fa rinvio
agli artt. 1223 ss., nei quali il danno è considerato come perdita o mancato guadagno: dunque come un pregiudizio
economico.
L’art. 2059, poi, dispone che il danno “non patrimoniale” possa essere risarcito solo nei casi stabiliti dalla legge: si
tratta principalmente dell’art. 185 del c.p., il quale prescrive che ogni danno, “patrimoniale o non patrimoniale”,
debba essere risarcito quando la condotta lesiva che lo ha cagionato costituisca fattispecie di reato.
L’espressione “danno non patrimoniale”, usata nell’art. 185, è stata per lungo tempo intesa non come qualsiasi
danno diverso dal pregiudizio economico, ma solo del danno morale, cioè la sofferenza psicofisica subita dalla vittima

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
del reato. Quindi, l’art. 2059 era inteso come una norma che regola il problema della risarcibilità del c.d. “danno
morale soggettivo”, e non di tutti i possibili pregiudizi di natura non patrimoniale.

Su queste basi normative si sviluppava la concezione tradizionale del danno, secondo cui:
a. carattere normale del danno risarcibile è la patrimonialità: il danno, di cui l’art. 2043 impone il risarcimento,
è il danno patrimoniale, che consiste in un pregiudizio economico;
b. non è necessario che l’interesse leso abbia carattere patrimoniale, ma è necessario che la lesione abbia
conseguenze negative di ordine patrimoniale;
c. queste si concretano in una differenza tra lo stato patrimoniale del soggetto leso conseguente all’illecito e lo
stato patrimoniale di cui il soggetto avrebbe goduto se l’illecito non si fosse verificato; tale differenza può
consistere in una diminuzione dei valori patrimoniali, o nel mancato acquisto di valori che sarebbero entrati
nel patrimonio senza l’influenza del fatto illecito (c.d. danno e mergente e lucro cessante)
d. solo nel caso in cui l’illecito costituisca fattispecie di reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, inteso
come danno morale soggettivo.

La lesione dei diritti all’immagine, all’onore, alla riservatezza, all’identità personale si concreta in un danno risarcibile
solo nel caso in cui dall’illecito derivino pregiudizi di ordine economico, oppure, se il fatto costituisce reato, nei limiti
incerti e ristretti del danno morale.
In assenza di tali conseguenze, il soggetto leso potrebbe giovarsi solo della tutela inibitoria, e di alcune forme di
riparazione specifica.
Anche nel campo delle lesioni dell’integrità fisica o alla salute il criterio tradizionale non poteva dirsi soddisfacente, in
quanto il soggetto leso poteva ottenere un risarcimento solo in quanto la menomazione dell’integrità fisica avesse
determinato un pregiudizio economico, e dunque una perdita (es. spese mediche) o un effettivo mancato guadagno.
Il sistema si prestava a ingiustizie.

Giurisprudenza e dottrina hanno battuto diverse vie per affermare la risarcibilità della lesione dell’integrità fisica o
psichica in sé e per sé considerata, indipendentemente dalle sue conseguenze di carattere economico; la risarcibilità
cioè del danno biologico. La svolta è avvenuta con una sentenza della Corte costituzionale (1986), la quale ha sancito
che il danno alla salute è risarcibile in quanto trattasi di lesione di un diritto fondamentale protetto dalla Costituzione
(art. 32), ammettendo la piena risarcibilità del danno biologico, da intendersi come danno all’integrità psico-fisica
della persona, a fianco al risarcimento del danno patrimoniale (danno emergente, lucro cessante) e del danno morale
soggettivo quando il fatto costituisca reato.

Il danno biologico è stato poi fatto oggetto di definizioni legali. Una prima sua definizione è oggi fornita dal Codice
delle assicurazioni: si tratta della “lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona
suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti
dinamico-relazionali della vita del danneggiato”. Il danno biologico deve essere oggetto di accertamento medico
legale.

Il riconoscimento legislativo del danno biologico ha in parte ridimensionato i problemi legati alle incertezze della
figura in relazione ai limiti imposti dall’art. 2059. Compare la categoria del “danno esistenziale”, che si tratterebbe di
quel pregiudizio che ostacola le attività realizzatrici della persona umana.

Nel 2003, la Cassazione ha definitivamente superato la tradizionale lettura restrittiva dell’art. 2059 e ne ha proposto
una interpretazione diversa, in base alla quale, il risarcimento del danno non patrimoniale è possibile, oltre che nei
casi previsti dalla legge (es. art 185 c.p.), ogni volta che il danno sia conseguenza della lesione di diritti inviolabili della
persona umana. Essendo infatti tali diritti tutelati dalla Costituzione, il risarcimento del danno che ne consegue non è
soggetto al limite restrittivo stabilito dall’art. 2059.

Nel 2018, la Cassazione ha precisato che in presenza di un danno alla salute, o di un danno da lesione di diritto
inviolabile della persona, può essere riconosciuto anche il risarcimento dei danni rappresentati dalla sofferenza
interiore (es. dolore, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione).
Per quanto riguarda il danno dinamico-relazionale, si tratta di un danno già ricompreso nel risarcimento del danno
alla salute, per cui costituisce duplicazione risarcitoria riconoscere una somma di denaro per il danno biologico e un
ulteriore somma per i pregiudizi delle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla
perdita anatomica o funzionale. A meno che il fatto abbia determinato conseguenze del tutto anomale ed
imprevedibili sul piano delle relazioni e delle attività realizzatrici della persona.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
In presenza di un danno da lesione di diritti inviolabili della persona, il danno dinamico-relazionale va
autonomamente risarcito.

Con le pronunce del 2008, la Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che anche nell’ambito della
responsabilità contrattuale possono essere risarcite le conseguenze non patrimoniali derivanti dall’inadempimento.
Una tale possibilità è data quando l’inadempimento dell’obbligazione abbia leso un diritto inviolabile della persona
del creditore.

Il tema della risarcibilità del danno non patrimoniale si pone anche nell’ipotesi in cui le vittime dell’illecito siano i
familiari della persona lesa, in particolare in caso di morte di quest’ultima. La questione, fortemente dibattuta,
sembra essere risolta con questi principi:
• la morte provoca una perdita, di natura patrimoniale e non patrimoniale, ai congiunti: il risarcimento non va
riconosciuto agli eredi in quanto tali, bensì a quelli tra i congiunti che abbiano subito un pregiudizio effettivo. Va
ammessa la risarcibilità del danno non patrimoniale sofferto iure proprio dai congiunti, consistente nel dolore per la
scomparsa della vittima e, nelle eventuali compromissioni dell’integrità psicofisica da loro stessi risentite.
• I congiungi sono legittimati ad invocare iure hereditas il risarcimento del danno non patrimoniale sofferto in vita dal
defunto ed entrato a far parte del patrimonio di quest’ultimo prima della sua morte, a condizione che sia intercorso un
apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse.
• La lesione dell’integrità fisica con esito letale intervenuto immediatamente o a breve distanza di tempo dall’evento
lesivo non è invece configurabile quale danno non patrimoniale della vittima, risarcibile iure hereditas e favore dei suoi
eredi. La morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma incide sul diverso bene giuridico
della vita; tuttavia, la morte estingue la personalità e quindi la capacità giuridica ad essere titolare di rapporti giuridici.

È stata poi introdotta la figura del danno ambientale. La materia è disciplinata nel Codice dell’ambiente.
La disciplina in esame si applica alle attività che provochino un danno ambientale, definito come “qualsiasi
deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da
quest’ultima”, o qualsiasi minaccia imminente di tale danno. Una responsabilità oggettiva è posta in capo a colore
che esercitano una serie di attività elencate espressamente quali la gestione di rifiuti, lo scarico di sostanze inquinanti
ecc. Coloro che producono un danno nell’esercizio di altre attività, rispondono solo in caso di dolo o colpa. La
legittimazione ad agire è attribuita solo al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.
L’autore del danno è obbligato ad adottare le misure di riparazione previste dalla legge, e solo quando l’adozione di
tali misure risulti in tutto o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e
modalità prescritti, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare determina i costi delle attività
necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione e agisce nei confronti del soggetto obbligato per ottenere
il pagamento delle somme corrispondenti.
La lesione, riferita all’ambiente può riguardare beni di proprietà dello Stato o di privati, che già avrebbero titolo al
risarcimento. Oppure, può riguardare beni che non sono oggetto di proprietà (l’aria, le acque del mare) e risolversi
nella lesione di interessi diffusi che ricevono così una (indiretta) tutela.

10. Il risarcimento.
La funzione principale della responsabilità è quella di riparare il danno. L’obbligo che grava sul danneggiante ha
dunque per oggetto il risarcimento, ma in un senso più ampio, che comprende tutte le forme possibili di riparazione
del danno. Esse sono:
• il risarcimento per equivalente, che consiste in una somma di denaro tale da riparare il pregiudizio
patrimoniale risento dal danneggiato, trasferendogli in moneta un eguale valore;
• il risarcimento in forma specifica, il cui scopo è ripristinare la situazione così come sarebbe se l'illecito non si
fosse mai verificato.

Il risarcimento di carattere pecuniario può essere determinato nel suo ammontare solo sulla base di una valutazione
del danno sofferto dal soggetto leso, che ne stabilisca l’entità in termini economici.
L’art. 2056, a proposito della valutazione dei danni conseguenti al fatto illecito, fa rinvio agli artt. 1223, 1226, 1227. Si
tratta:
a. della regola-base, che prevede la risarcibilità sia delle perdite patrimoniali che del mancato guadagno, e che
stabilisce il requisito di causalità di cui si è parlato (1223);
b. della norma che rimette al giudice la valutazione equitativa del danno quando non ne possa essere provato
il preciso ammontare (1226);

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
c. dei due criteri in base ai quali ha rilevanza la condotta del danneggiato, che abbia concorso con sua colpa a
determinare il danno, o che non abbia usato la diligenza ordinaria per evitare i danni (1227).
L’art. 2056 non fa rinvio all’art. 1225, che distingue il caso di dolo da quello di colpa del debitore, e stabilisce che, se
manca il dolo, il risarcimento sia limitato ai danni prevedibili: nel caso del fatto illecito, quindi, è dovuto il
risarcimento di tutti i danni, prevedibili e imprevedibili, anche quando la responsabilità segua al fatto colposo del
danneggiante.

Il “lucro cessante”, che corrisponde al “mancato guadagno” dell’art. 1226, è sempre rimesso alla valutazione
equitativa del giudice, ma il ricorso all’equità è comunque particolarmente frequente.

Per quanto riguarda la valutazione del danno, alcuni criteri si sono affermati nel corso degli anni.
1. L’ammontare del risarcimento del danno biologico, che richiede l’accertamento medico-legale, si determina sulla base
di criteri standard, come il calcolo basato sui punti di invalidità.
Per la concreta liquidazione del danno, ai punti di invalidità viene poi applicato il sistema tabellare, ossia metodi di
calcolo basati su apposite tabelle con cui viene attribuito un valore a ogni punto di invalidità.
2. Il giudice può aumentare gli importi previsti nelle tabelle quando la menomazione psico-fisica abbia inciso in maniera
rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali della vita della persona. L’ammontare del risarcimento può essere
aumentato fino ad un massimo del 30%.
3. Per la liquidazione del danno morale soggettivo, il Giudice deve procedere ad una effettiva personalizzazione del
risarcimento, che tenga conto della gravità del fatto e della effettiva consistenza delle sofferenze psichiche e fisiche
subite dal danneggiato.

Sulla base dei criteri ora indicati avviene la liquidazione del risarcimento, cioè la determinazione dell’ammontare
pecuniario del risarcimento dovuto.
La liquidazione può essere convenzionale o giudiziale. Il suo effetto è di mutare la natura del debito del
danneggiante. Il debito nascente da fatto illecito ha ad oggetto la riparazione del danno, ed è perciò un debito di
valore, anche se destinato a esprimersi in termini monetari; diviene debito di valuta, soggetto al principio
nominalistico, solo con la liquidazione. Da quel momento, si tratta di un qualsiasi debito in denaro, che è soggetto
anche alla prescrizione ordinaria decennale anziché a quella più breve stabilita per la pretesa al risarcimento.
Quanto al risarcimento in forma specifica, ne distinguiamo due sottospecie:
a) la vera e propria reintegrazione in forma specifica, che consiste nel materiale ripristino dello stato di cose alterato
dall’illecito: come dare una cosa eguale a quella distrutta; forme diverse di riparazione in forma specifica, previste dalla
legge, tendono a riparare il danno nel modo più efficace in ragione della natura dell’illecito, anche se le conseguenze
dell’illecito non possono essere cancellate: così la pubblicazione della sentenza di condanna, la rettifica di notizie
illecitamente diffuse dalla stampa;
b) il risarcimento pecuniario in forma specifica, che consiste nel pagamento di una somma di denaro, corrispondente alla
somma necessaria a ripristinare la situazione materiale alterata dall’illecito. La differenza, rispetto al risarcimento per
equivalente, sta nel sistema di calcolo della somma dovuta, che assume a base non il valore perduto dal danneggiato,
ma il costo del ripristino materiale
La possibilità di chiedere il risarcimento in forma specifica anziché il risarcimento per equivalente è garantita al
danneggiato dal codice, ma con un limite: il giudice può disporre che il risarcimento sia determinato solo per
equivalente se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il danneggiante.
Una forma particolare di riparazione pecuniaria è prevista dalla legge sulla stampa: nel caso di diffamazione il
danneggiato può ottenere, oltre al risarcimento dei danni patrimoniali e morali, una somma a titolo di riparazione
commisurata alla gravità dell’offesa e dalla diffusione dello stampato.
In altri ordinamenti, esiste la possibilità di condannare il danneggiante a pagare una somma di denaro, non in
funzione di risarcimento del danno patrimoniale effettivamente subito dal soggetto leso, ma in funzione di
“esempio”, cioè di sanzione per il danneggiante e di mezzo di dissuasione, per lui, a ripetere la lesione, e per altri a
compierla: si parla di “danni punitivi”.
La possibilità che anche nel nostro ordinamento che il giudice condanni il danneggiante al pagamento di danni
punitivi trova ostacolo nella funzione che viene data tradizionalmente dalla giurisprudenza alla responsabilità civile,
ovvero una funzione prevalentemente riparatoria. Le Sezioni Unite hanno affermato la riconoscibilità, nel nostro
ordinamento, di una sentenza straniera che preveda una condanna a titolo punitivo, a condizione però che tale
sentenza sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di
condanna, la prevedibilità della stessa e i limiti quantitativi.

A proposito del danno provocato da un incapace naturale abbiamo incontrato la nozione di indennità. Il termine ha
un significato diverso di risarcimento: indica un’integrale riparazione del danno arrecato. L’indennità è invece una
prestazione che ha lo scopo di compensare il pregiudizio patrimoniale sofferto dal danneggiato, ma non deve

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
corrispondere esattamente al danno subito; è determinata con criteri di equità che tengono conto anche delle
condizioni delle parti e delle circostanze.
Può essere utile osservare che di indennizzo si parla anche fuori dall’ambito dell’illecito, per esempio,
nell’arricchimento ingiustificato e in alcuni casi in cui si prevede un obbligo di riparare i danni determinati da un atto
lecito, come la “adeguata indennità” dovuta a chi esercita il diritto di accesso al fondo altrui per costruire o riparare
un muro o altra opera comune, ovvero per riprendere una cosa propria.

11. Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.


Abbiamo ormai tutti gli elementi necessari per ricostruire il quadro dell’illecito nella sua completezza.
Conosciamo, infatti, i due grandi gruppi di norme che regolano l’illecito nell’ambito di un rapporto obbligatorio (c.d.
responsabilità contrattuale) e fuori da ogni rapporto esistente (c.d. responsabilità extracontrattuale o aquiliana). Gli
elementi comuni sono i concetti di dolo e colpa, l’idea di danno, e buona parte dei criteri di valutazione del danno,
quelli cioè che sono scritti a proposito dell’inadempimento e ripresi, per rinvio, dall’art. 2056.

Segnaliamo ora le differenze di disciplina tra le due forme di responsabilità:


• diversa nei due istituti è la distribuzione dell’onere della prova. Nell’illecito c.d. contrattuale, l’attore deve provare di
avere un credito esigibile: dunque, deve provare il titolo (la fonte dell’obbligazione) e la scadenza del debito; è invece il
debitore che deve provare di avere adempito diligentemente, o di non aver potuto adempiere per una causa a lui non
imputabile. Nella responsabilità extracontrattuale, invece, fatto costitutivo dell’obbligazione è l’illecito, e spetta perciò al
danneggiato che avanzi la sua pretesa a norma dell’art. 2043, di provare il fatto dannoso, il danno, il dolo o la colpa del
danneggiante.
La differenza ora descritta si offusca in tutti i casi di responsabilità oggettiva, in cui il danneggiato dovrà solo provare il
fatto dannoso e il nesso di causalità, mentre spetta al danneggiante l’onere di una prova liberatoria, il cui oggetto viene
definito in vario modo: “non aver potuto impedire il fatto” (art. 2048), “aver adottato misure idonee a evitare il danno”
(art. 2050), il “caso fortuito” (2051), ecc.;
• diversa è la prescrizione, che, nell’inadempimento, è quella ordinaria decennale o quella più breve stabilita per certi
contratti: nel fatto illecito, invece, è di cinque anni, ma di soli due anni nella responsabilità per circolazione dei veicoli;
• la norma sulla reintegrazione in forma specifica è scritta solo in tema di fatti illeciti. Ma la legge prevede l’esecuzione
forzata in forma specifica degli obblighi di dare, di fare, di concludere un contratto e di non fare: non si tratta di riparare
un danno, ma di realizzare la situazione che si sarebbe avuta con l’adempimento.

Parte Quinta: I PROTAGONISTI DELLA VITA ECONOMICA


Sezione Terza: GLI INTERMEDIARI
CAP. 39.
LA BANCA E I CONTRATTI DI BANCA
1. L’ordinamento bancario e le operazioni di banca in generale.
Il legislatore è intervenuto massicciamente nel settore del credito, prendendo posizione, anche a livello
costituzionale, per tutelare ed anzi incoraggiare il risparmio in tutte le sue forme, e con leggi ordinarie (Testo unico in
materia bancaria e creditizia) per disciplinare, coordinare e controllare l’esercizio del credito.
L’attività bancaria consiste da un lato nella raccolta del risparmio tra il pubblico (depositi), e dall’altro nell’esercizio
del credito, tramite concessione di finanziamenti, sotto ogni forma.
Le banche sono quelle imprese che esercitano l’attività bancaria. L’attività bancaria è soggetta ad autorizzazione,
rilasciata dalla Banca centrale europea, su proposta della Banca d’Italia.
La banca è assoggettata ad un regime di vigilanza. A livello europeo è stato istituito il Meccanismo di Vigilanza Unico
(MVU), comprendente la BCE e le autorità di vigilanza nazionali dei Paesi partecipanti.

Le operazioni bancarie: passive, con cui le banche assumono debiti verso la clientela raccogliendo i depositi effettuati
da questa; attive, con cui le banche diventano creditrici dei clienti cui concedono i prestiti; accessorie, consistono nei
servizi che le banche forniscono alla propria clientela utilizzando la propria organizzazione.

Le norme dedicate alla Trasparenza delle operazioni contrattuali impongono alle banche:
a. di rendere note in modo chiaro le condizioni offerte alla propria clientela (tassi d’interesse, prezzi ecc);
b. di stipulare i relativi contratti in forma scritta, a pena di nullità, e di consegnarne copia al cliente in modo
che le singole clausole siano pienamente conoscibili dai clienti.
Nei contratti a tempo indeterminato, la possibilità di variare in senso sfavorevole al cliente il tasso d’interesse e ogni
altro prezzo e condizione deve essere espressamente indicata nel contratto con la clausola specificamente approvata

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
dal cliente. Negli altri contratti di durata, la facoltà di modifica unilaterale del contratto può essere convenuta
esclusivamente per le clausole che non abbiano ad oggetto i tassi d’interesse.
Le modifiche unilaterali delle condizioni contrattuali devono essere espressamente comunicate al cliente in forma
scritta con la formula: “Proposta di modifica unilaterale del contratto”, e preavviso minimo di due mesi.
Ai contratti bancari si applica le disciplina dei contratti tra professionista e consumatore (clausole vessatorie).

Il cliente ha diritto di recedere da un contratto a tempo indeterminato senza penalità e senza spese, salve quelle
ipotesi espressamente individuate dal Comitato Interministeriale per il credito e il risparmio.

2. I singoli contratti bancari: il deposito di denaro e di titoli in amministrazione.


Deposito di denaro: strumento tramite il quale da un lato la banca realizza la raccolta del risparmio e d’altro lato il
cliente mette al sicuro il suo denaro, con la possibilità, di regola, di riottenerne con prontezza la disponibilità e di
incassare anche degli interessi.
È molto frequente il deposito regolato in conto corrente che consente al cliente di disporre in qualsiasi momento del
denaro tramite prelievi e versamenti.

Se la banca rilascia un libretto di deposito a risparmio, i versamenti e i prelevamenti si devono annotare sul libretto e
le annotazioni fanno piena prova delle operazioni nei rapporti tra banca e depositante.
a. al portatore: chiunque possiede il libretto medesimo può esigere la somma depositata. La banca che senza
dolo o colpa grave adempie la prestazione nei confronti del possessore è liberata anche se questi non è il
depositante.
b. nominativo: se intestato ad il nome di una determinata persona, e solo quest’ultima può riscuotere
l’importo che risulta dal libretto. È oggi ammessa esclusivamente solo l’emissione di questo tipo di libretti.
La banca può assumere, verso compenso, il deposito di titoli in amministrazione: deve quindi custodire titoli,
esigerne gli interessi o i dividendi, curare le riscossioni per conto del depositante e provvedere alla tutela dei diritti
inerenti ai titoli: le somme riscosse devono essere accreditate al depositante.

3. Il servizio delle casette di sicurezza.


La banca mette a disposizione del cliente una cassetta metallica (cassetta di sicurezza), a sua volta collocata in
appositi locali blindati, in cui è possibile riporre beni di valore. La cassetta può venire aperta solo con il concorso sia
della banca sia del cliente, ma il contenuto della cassetta rimane comunque segreto di fronte alla banca, che deve
lasciare da solo il cliente mentre deposita o preleva i beni custoditi.
La banca risponde verso l’utente per l’idoneità e la custodia dei locali e per l’integrità della cassetta (ad. es: forzata).

4. L’apertura di credito.
È uno dei modi tramite il quale la banca esercita il credito, erogando prestiti alle imprese o alle famiglie.
La banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di denaro per un dato periodo di tempo o a
tempo indeterminato. Di solito è in conto corrente, con la conseguenza che il cliente può utilizzare più volte il
credito, e può con successivi versamenti ripristinare la sua disponibilità.
Può essere data una garanzia reale o personale: la garanzia non si estingue per il fatto che ad un certo punto
l’accreditato cessi di essere debitore della banca, in quanto sia stata ripristinata la disponibilità iniziale.
Se l’apertura è a tempo determinato, la banca non può recedere se non per giusta causa: se invece a tempo
indeterminato, ciascuna delle parti può recedere con preavviso di 15 giorni.

5. L’anticipazione bancaria.
Una banca può rendersi disponibile a prestare ad un imprenditore o ad un cliente una somma di denaro solo in
garanzia un pegno su titoli o merci. La somma prestata dalla banca rappresenta una certa % del valore dei beni dati
in garanzia, questa proporzione deve rimanere costante per tutta la durata del rapporto. Il cliente può restituire alla
banca una parte della somma utilizzata e può ritirare in misura proporzionale una parte dei titoli o delle merci.
Se il valore della garanzia diminuisce di almeno un decimo rispetto a quello stimato al momento del contratto, la
banca può chiedere un supplemento di garanzia e se questo non viene dato la banca può procedere alla vendita dei
titoli o delle merci. Di regola, la banca non può disporre delle cose ricevute in pegno.
Si ha pegno irregolare quando a garanzia del credito sono vincolati titoli o merci per i quali sia stata conferita alla
banca la facoltà di disporne.

6. Lo sconto bancario.

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Il soggetto titolare del credito può essere disposto a rinunciare ad avere in futuro la totalità del suo credito, pur di
avere a disposizione immediatamente una somma corrispondente ad una parte del suo credito. Lo sconto è il
contratto col quale il cliente cede alla banca un credito verso terzi non ancora scaduto e la banca anticipa al cliente
l’importo del credito, previa deduzione dell’interesse. L’interesse che la banca deduce dall’importo del credito viene
calcolato in relazione al periodo fra l’anticipazione dell’importo e la scadenza del credito. La cessione del credito è
fatta “salvo buon fine”: la banca si riserva la possibilità di agire verso il cliente cedente, se il debitore ceduto dovesse
risultare insolvente.
7. Il conto corrente di corrispondenza.
Nel caso in cui il conto sia intestato a più persone, gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei
saldi del conto. Se l’operazione regolata in conto corrente è a tempo indeterminato, ciascuna parte può recedere dal
contratto dando il preavviso previsto dagli usi o, in mancanza, entro quindici giorni.
Il conto corrente di corrispondenza è un contratto atipico con il quale il cliente incarica la banca di compiere per suo
conto una serie di operazioni bancarie (servizio di cassa), quali pagamenti o riscossioni di crediti.

CAP. 40.
I CONTRATTI DI BORSA
1. La borsa.
Le “Borse valori” sono quei mercati regolamentati in cui si scambiano gli strumenti finanziari: valuta, azioni, titoli...
Nella Borsa possono essere scambiati soltanto i titoli ammessi alle quotazioni: i titoli pubblici lo sono di diritto.
I titoli possono essere scambiati solo con l’intervento di intermediari specializzati: banche e società di
intermediazione mobiliare (SIM) autorizzate a svolgere servizi o attività d’investimento.

Il mercato della borsa è sottoposto al controllo della CONSOB. Per quanto concerne l’attività di vigilanza sui servizi e
le attività d’investimento, la competenza della CONSOB concorre con quella della Banca d’Italia. La CONSOB vigila
sulla trasparenza e la correttezza dei comportamenti, mentre alla Banca d’Italia spetta il controllo sul contenimento
del rischio, la stabilità patrimoniale e la sana e prudente gestione degli intermediari.

Nei contratti di borsa si trasferiscono dagli alienanti agli acquirenti titoli di serie e “cose generiche”, la cui proprietà
passa all’acquirente solo al momento della consegna. Si distinguono:
a. i contratti “per contanti”: i titoli e il prezzo devono essere scambiati entro il terzo giorno di borsa aperta successivo alla
stipulazione;
b. i contratti “a termine”: l’esecuzione è rinviata ad un momento successivo alla conclusione del contratto;
c. i contratti “a premio”: una delle parti si assicura alcune particolari facoltà da esercitare alla scadenza.
I contratti di borsa sono a) la vendita a termine e b) il riporto.

La vendita a termine di titoli di credito è il contratto con cui il venditore si impegna a trasferire al compratore una
data quantità di titoli di credito alo scadere di un certo termine, mentre l’acquirente si impegna a pagare alla stessa
scadenza il prezzo corrente alla data di conclusione del contratto: ne consegue che se medio tempore il prezzo di
mercato è in rialzo, ci guadagna il compratore. Alla scadenza prevista le parti non danno effettivamente esecuzione al
contratto, con la consegna dei titoli e il pagamento del prezzo, ma si limitano a liquidare la differenza, il contratto ha
la funzione di consentire la speculazione sulla differenza di prezzo tra le due date (contratto differenziale).

Il riporto è il contratto con cui un soggetto (riportato) trasferisce in proprietà all’altro contraente (riportatore) una
data quantità di titoli di credito di una data specie verso il pagamento di un prezzo, ed il riportatore assume l’obbligo
di trasferire al riportato, alla scadenza del termine convenuto, la proprietà di altrettanti titoli della stessa specie,
verso rimborso del prezzo, che può essere maggiore, inferiore (deporto) o uguale a quello originario.
Talora, questo contratto, (riporto di banca) consente al possessore di titoli di ottenere un finanziamento da una
banca a condizioni migliori di quelle ottenibili normalmente sul mercato, alienando i titoli stessi: l’alienazione dei
titoli costituisce, per il riportatore, la garanzia per il finanziamento stesso e la maggiorazione di corrispettivo pattuita
(riporto) costituisce la retribuzione del finanziamento stesso.
Il contratto può essere stipulato nell’interesse del riportatore, il quale voglia ad esempio esercitare il diritto di voto in
un’assemblea inerente ai titoli oggetto del riporto: in questi casi la diminuzione di corrispettivo pattuita (deporto)
costituisce la retribuzione per l’utilizzo dei titoli.
In borsa, il contratto viene ad assumere una funzione speculativa sulle variazioni delle quotazioni tra il momento
dell’inizio del riporto e quello della sua estinzione: chi prevede un rialzo del prezzo dei titoli, contrae al riporto: chi
viceversa prevede una flessione del mercato contrae al deporto. Il riporto è un contratto reale: si perfeziona con la
consegna dei titoli.

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I contratti di borsa devono essere redatti per iscritto. In caso di inosservanza della forma prescritta, sono nulli.
La nullità può essere fatta valere solo dal cliente.

2. Il mercato finanziario.
Il soggetto che ha a disposizione dei risparmi inutilizzati si trova nella condizione di poter effettuare degli
investimenti di natura finanziaria. In materia di intermediazione finanziaria è stato emanato il Testo Unico.
Per strumenti finanziari si intendono principalmente: “valori mobiliari” vale a dire: azioni, obbligazioni o altri titoli di
debito; quote dei c.d. organismi di investimento collettivo del risparmio; strumenti di mercato monetario (buoni del
Tesoro).

La gestione del risparmio può svolgersi in modo personalizzato per il singolo risparmiatore. In tal caso l’esercizio
professionale nei confronti del pubblico dei servizi e delle attività d’investimenti è riservato alle imprese
d’investimento e alle banche.
è Imprese d’investimento: SIM le quali per esercitare i servizi d’investimento devono essere autorizzate dalla
CONSOB ed essere iscritte in un apposito albo.
I servizi e le attività d’investimento comprendono: negoziazione per conto proprio di strumenti finanziari,
l’esecuzione di ordini per conto dei clienti, la sottoscrizione e/o il collocamento, la gestione dei portafogli.

La gestione del risparmio può essere collettiva, viene quindi svolta unitariamente a favore di più clienti i cui risparmi
siano stati preventivamente raccolti. Più specificatamente si intende il servizio riservato a SGR, SICAV e le SICAF che si
realizza attraverso la gestione di “organismi” di investimento collettivo del risparmio (OICR) e dei relativi rischi.
a. OICR aperto: i partecipanti hanno il diritto di chiedere il rimborso delle quote o azioni a valere sul
patrimonio dello stesso;
b. OICR chiuso: gli OICR diversi da quelli aperti.

Gli OICR italiani comprendono i fondi comuni d’investimento, le SICAV e le SICAF.


Il fondo comune d’investimento è costituito in forma di patrimonio autonomo, suddiviso in quote. Tra i soggetti che
possono rivestire la qualità di gestore del fondo vanno ricordate le SGR. Ciascun fondo comune d’investimento
costituisce patrimonio autonomo sul quale non sono ammesse azioni dei creditori della società di gestione o
nell’interesse della stessa. Le azioni dei creditori dei singoli investitori sono ammesse soltanto sulle quote di
partecipazione dei medesimi. La società di gestione non può in alcun caso utilizzare, nell’interesse proprio o dei terzi,
i beni di pertinenza dei fondi gestiti.
è Società d’investimento a capitale variabile (SICAV): OICR aperto costituito in forma di spa a capitale
variabile, con sede legale e direzione generale in Italia, avente per oggetto esclusivo l’investimento
collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta delle proprie azioni.
è Società d’investimento a capitale fisso (SICAF): l’OICR chiuso costituito in forma di spa a capitale fisso, con
sede legale e direzione generale in Italia, avente per oggetto esclusivo l’investimento collettivo del
patrimonio raccolto mediante l’offerta di proprie azioni e di altri strumenti finanziari partecipativi.
Nel caso dei fondi comuni d’investimento il risparmiatore rimane all’esterno dell’organismo di gestione, mentre nelle
SICAV e nelle SICAF il risparmiatore entra nella struttura dell’organismo di gestione, diventa azionista della società
che gestisce l’investimento.

I fondi pensione sono un’altra forma di organismo di investimento collettivo del risparmio. Essi mirano ad assicurare
a lavoratori, dipendenti o autonomi, trattamenti pensionistici complementari. Il patrimonio del Fondo si costituisce
con le contribuzioni dei datori di lavoro e/o con le contribuzioni dei lavoratori.

Per “offerta al pubblico di prodotti finanziari” si intende l’offerta, che gli intermediari finanziari rivolgono al pubblico
dei risparmiatori ad investire i loro risparmi in azioni, obbligazioni di società, titolo del debito pubblico ecc.

Per offerte pubbliche d’acquisto o di scambio si intende ogni offerta, invito a offrire o messaggio promozionale
finalizzati all’acquisto o allo scambio di prodotti finanziari e rivolti ad un dato numero di soggetti, nonché di un
determinato ammontare stabiliti con regolamento della CONSOB. Con le opa, un soggetto chiede di acquistare, da
chiunque li detenga, determinati strumenti finanziari. Di solito con l’opa si mira a concentrare nelle mani di un solo
azionista un pacchetto di azioni attualmente distribuite fra tanti azionisti diversi, ossia ad assumere il controllo di una
società per azioni. La decisione di promuovere un’offerta pubblica di acquisto o di scambio è comunicata alla

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CONSOB e contestualmente resi pubblici. Il documento d’offerta destinato a pubblicazione viene approvato se
idoneo a consentire ai destinatari di pervenire ad un fondato giudizio sull’offerta.
Oltre all’opa volontaria la legge regola anche le offerte pubbliche d’acquisto obbligatorie, merita qui di essere
segnalata la disciplina dell’offerta pubblica di acquisto volontaria: chiunque venga a detenere una partecipazione
superiore al 30%, deve promuovere una offerta pubblica di acquisto sulla totalità dei titoli ammessi alla negoziazione.
CAP. 41.
LE ASSICURAZIONI
1. Le imprese di assicurazioni.
La loro funzione di base richiede la raccolta, sul mercato, di grandi quantità di danaro attraverso il cumulo dei premi
di assicurazione; una parte di questa raccolta copre costi e profitti della stessa; una parte va adeguatamente investita
per garantire la solidità dell’impresa; ma una parte ritorna al mercato, erogata a taluni soggetti in presenza di
determinati eventi dannosi specificati nel contratto di assicurazione.

L’assicuratore è necessariamente un imprenditore. L’impresa di assicurazione può essere esercitata soltanto da enti
pubblici, da società per azioni o da società cooperative. Le imprese di assicurazione sono soggette a controllo da
parte del Ministero delle attività produttive.

2. Il contratto di assicurazione.
L’attività degli istituti assicurativi consiste nell’accollarsi, verso il corrispettivo di una somma di danaro, i rischi che
corrono gli assicurati di subire un danno.
L’art. 1882 definisce l’assicurazione come il contratto con il quale una parte [l’assicuratore] verso pagamento di una
somma di denaro [premio] si obbliga a tenere indenne l’assicurato del danno ad esso prodotto da un sinistro, ovvero
a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana.
Il codice fonde, in una stessa nozione di contratto, due tipi di accordo difficilmente riconducibili ad una causa
unitaria. Indica dunque i due grandi rami dell’assicurazione: contro i danni e sulla vita.
Sia nel ramo danni, sia nel ramo vita, l’assicurazione si sostiene sulla base di un calcolo statistico che consente
all’assicuratore di prevedere i costi della sua attività.
Il contratto di assicurazione si definisce tradizionalmente come contratto aleatorio. Ciò si può vedere nel fatto che il
singolo contratto si fonda su un rischio (sull’incertezza circa il verificarsi di un evento): da questo punto di vista è
aleatorio. Dal punto di vista dell’assicuratore l’alea è assorbita dalla legge dei grandi numeri, in modo tale, per lui,
che il rapporto economico tra rischio assunto e premio riscosso è certo (commutativo).
Il contratto di assicurazione è un contratto consensuale di cui è prevista la forma scritta ai fini della prova. La forma
più frequente è quella del modulo o formulario, configurato formalmente come proposta del cliente che chiede di
essere assicurato. Il documento rilasciato dall’assicuratore, e che prova l’esistenza del rapporto, si chiama polizza.

L’esistenza del rischio è un elemento essenziale della causa del contratto di assicurazione e dell’equilibrio tra le
prestazioni. Se il rischio non esiste al momento della conclusione del contratto del contratto, questo è nullo per
difetto di causa.
Il rischio può poi venir meno durante lo svolgimento del contratto. In tal caso il contratto si scioglie, ma l’assicuratore
ha diritto al pagamento dei premi finché la cessazione del rischio non gli sia comunicata o non venga comunque a sua
conoscenza. Sono dovuti per l’intero i premi relativi al periodo in corso, perché il calcolo economico dell’assicuratore
ne ha tenuto già conto. Se il rischio si attenua, l’assicuratore può esigere solo il minor premio, ma se valuta poco
conveniente il contratto così modificato, può recedere.
L’aggravamento del rischio determina un potere di scelta per l’assicuratore: o aumentare il premio, o recedere.
Principio indennitario: in conformità con la funzione dell’assicurazione, tenere indenne l’assicurato da una perdita,
l’assicurazione non può risolversi in guadagno.

Per grandi impegni assicurativi, l’impresa di assicurazione può trasferire il rischio su un altro assicuratore stipulando
una riassicurazione che obbliga il secondo assicuratore a tenere indenne l’impresa riassicurata di quanto dovrà
pagare in adempimento del contratto di assicurazione.

3. L’assicurazione contro danni.


L’assicurazione contro i danni è quella che copre il rischio per sinistri che determinano la perdita di un cespite
patrimoniale attualmente esistente, o, di un profitto sperato.

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L’indennizzo non può superare il danno sofferto (c.d. principio indennitario). Se l’assicurazione copre soltanto una
parte del valore del bene, l’assicurato non consegue l’intero ammontare del danno sofferto; si applica la c.d regola
proporzionale.

L’art. 1916 dispone a favore dell’assicuratore, che paga per un sinistro verificatosi per il fatto di un terzo, la
surrogazione nei diritti che l’assicurato può far valere nei confronti del terzo responsabile: si evita così che
l’assicurato sia due volte indennizzato e che l’adempimento dell’assicuratore si risolva a favore del terzo.
4. L’assicurazione contro la responsabilità civile.
L’assicuratore si impegna a tenere indenne l’assicurato dalle conseguenze patrimoniali di un atto illecito.
L’assicuratore è obbligato verso l’assicurato al rimborso di quanto questi debba pagare al danneggiato; può pagare
direttamente al danneggiato, e deve farlo se l’assicurato stesso lo richiede; non è obbligato direttamente verso il
danneggiato.
R.C.A (responsabilità civile automobilistica): si tratta di un’assicurazione obbligatoria, tutti i veicoli a motore muniti di
targa circolanti su strada (mare), devono essere coperti da un’assicurazione stipulata con un’impresa autorizzata
all’esercizio di questa specie di assicurazione. In caso di sinistro il danneggiato ha azione diretta contro l’assicuratore
del responsabile civile. Per poter agire giudizialmente il danneggiato ha l’onere di chiedere all’assicuratore il
risarcimento con raccomandata A.R (termine 60 gg, 90 gg per danni alla persona).

Nel caso in cui il sinistro sia occorso tra due veicoli a motore con conseguente danno dei veicoli medesimi o dei
relativi conducenti e non abbia prodotto danni alla persona del conducente non responsabile superiori ad un’entità
determinata, il danneggiato per poter agire giudizialmente deve prima chiedere il risarcimento direttamente al
proprio assicuratore, contro il quale potrà proporre azione diretta, una volta che sia spirato il termine suddetto o che
risulti comunque insoddisfatta la sua richiesta risarcitoria. L’assicuratore del danneggiato è tenuto a pagare per conto
dell’impresa di assicurazione del veicolo responsabile, salva la successiva regolazione dei rapporti tra le imprese
medesime alla luce del grado di responsabilità delle parti. Il terzo traportato ha azione diretta nei confronti
dell’assicuratore del veicolo a bordo del quale si trovava, a prescindere dalla responsabilità del conducente dello
stesso.

5. L’assicurazione sulla vita.


Si caratterizza per una funzione previdenziale. Il contratto di assicurazione sulla vita prevede l’obbligo
dell’assicuratore di pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un certo evento connesso con la vita umana.

Si distingue tra:
a. Assicurazione per il caso di morte. Il pagamento del capitale o della rendita è collegato al verificarsi della
morte dell’assicurato o di un terzo: il consenso del terzo deve essere provato per iscritto. Il suicidio
dell’assicurato non fa sorgere il diritto alla prestazione se è avvenuto entro i due anni dalla stipulazione;
b. Assicurazione per il caso di vita. Può prevedere il pagamento di un capitale oppure di una rendita per
l’ipotesi in cui l’assicurato o un terzo sia ancora in vita dopo un certo numero di anni;
La designazione del beneficiario può avvenire nel contratto o con successiva dichiarazione scritta all’assicuratore o
per testamento. È sempre revocabile dallo stipulante, salvo che egli stesso per iscritto la dichiari irrevocabile; in tal
caso la revoca è impedita dall’accettazione del beneficiario, a meno che non si cada nei casi di indegnità,
ingratitudine, o sopravvenienza dei figli.
Il terzo beneficiario acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione: è per questo motivo che i creditori
dell’assicurato non possono rivalersi sulla somma dovuta dall’assicuratore.

Se non viene pagato il premio relativo al primo anno, l’assicuratore può agire per l’esecuzione, in quanto il premio
del primo anno si ritiene devoluto a compensare le spese. Per gli anni successivi, il mancato pagamento determina la
risoluzione di diritto, e i premi pagati restano all’assicuratore, salvo che non sussistano le condizioni per il riscatto
della polizza o per la riduzione della somma assicurata.

Sezione Quinta: I CONSUMATORI E GLI UTENTI


CAP. 43.
LA TUTELA DEL CONSUMATORE
1. Le direttive europee e l’evoluzione legislativa italiana.
Le esigenze di tutela del consumatore sono alla base di interventi legislativi successivi, promossi dalla C.E.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
L’obiettivo sta nel creare un mercato rassicurante e leale quanto all’etica dei rapporti con i fruitori di beni e servizi,
ma soprattutto un mercato strutturato in maniera razionale e moderna.

In Italia, il complesso delle normative di tutela del consumatore è raccolto all’interno del “codice del consumo”.
Un particolare rilievo assume la disciplina delle clausole abusive: qui, il legislatore si occupa di impedire, con la
sanzione civilistica individuale dell’inefficacia, ma anche con strumenti inibitori preventivi e generali, che
l’imprenditore possa profittare della debolezza del consumatore o della sua sostanziale mancanza di libertà.
La legge attribuisce l’esercizio dell’azione inibitoria contro l’impiego di clausole abusive non solo alle associazioni
rappresentative dei consumatori, ma anche a quelle rappresentative dei “professionisti”.

2. I diritti dei consumatori e degli utenti.


Per “consumatori” o “utenti” debbono intendersi le persone fisiche che agiscono “per scopi estranei all’attività
imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. Quanto ai diritti:
• Diritto alla tutela della salute: costituzionalmente garantito (art. 32) che compete ad ogni persona, indipendentemente
dal suo ruolo di consumatore o utente.
• Diritto alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi;
• Diritto ad un’adeguata informazione e ad una corretta pubblicità
• Diritto all’esercizio delle pratiche commerciali secondo i principi di buona fede, correttezza e lealtà;
• Diritto all’educazione al consumo;
• Diritto alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi;
• Diritto alla promozione e allo sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli
utenti;
• Diritto all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza;
Sono diritti che possono, in certi casi, costituire oggetto di una pretesa diretta da parte del singolo consumatore o
utente verso la sua controparte in un rapporto contrattuale o extracontrattuale, ma possono riguardare anche la
generalità dei consumatori e configurarsi come interessi collettivi o come interessi diffusi protetti; in altri casi, sono
prerogative generali, che fanno parte dei c.d. diritti sociali, come il diritto allo sviluppo dell’associazionismo.

3. La disciplina delle pratiche commerciali scorrette.


Il “codice del consumo”, detta la disciplina contro le pratiche commerciali scorrette. L’ambito di applicazione,
inizialmente tra professionisti e consumatori, è stato esteso anche alle pratiche commerciali scorrette tra
professionisti e microimprese.
La nozione di pratica commerciale comprende qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione commerciale ivi
compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla
promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori o alle microimprese.
Le pratiche commerciali scorrette sono vietate. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato inibisce la
continuazione ed elimina gli effetti di tali pratiche, e può applicare sanzioni amministrative al professionista che le
abbia poste in essere.

Una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è idonea ad alterare sensibilmente
la capacità del consumatore medio [o della microimpresa] di prendere una decisione consapevole, inducendolo
pertanto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
Il codice del consumo prevede le pratiche commerciali ingannevoli e le pratiche commerciali aggressive.
Le pratiche commerciali ingannevoli si distinguono in azioni ingannevoli e omissioni ingannevoli:
è Le azioni ingannevoli sono quelle che contengono informazioni non vere, o quelle che inducono o sono idonee a indurre
a indurre il consumatore medio (o microimpresa) in errore con riguardo a determinate caratteristiche del prodotto,
qualità del professionista o aspetti dell’operazione commerciale. Esse possono anche consistere nell’ingenerare
confusione con i prodotti e i segni distintivi di un concorrente, ovvero nel mancato rispetto delle regole di codici ci
condotta che il professionista si sia impegnato ad osservare, quando abbia indicato in una pratica commerciale di aver
assunto tale impegno.
è Si ha omissione ingannevole quando il professionista omette di fornire informazioni rilevanti di cui il consumatore medio
(o la microimpresa) ha bisogno per prendere una decisione consapevole, o quando tali informazioni siano occultate, o
presentate in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo, ovvero quando il professionista non indichi
l’intento commerciale della pratica.

Le politiche commerciali aggressive sono quelle che limitano o sono idonee a limitare considerevolmente la libertà di
scelta o di comportamento del consumatore medio (o microimpresa) in relazione al prodotto, mediante molestie,
coercizione o indebito condizionamento.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato

Parte Sesta: FAMIGLIA E SUCCESSIONI


CAP. 44.
IL GRUPPO FAMILIARE
2. I principi costituzionali.
Le norme della Costituzione italiana in merito alla famiglia sono trovano posto nella Parte prima del testo:
• L’art. 29 si apre con il riconoscimento dei “diritti della famiglia legittima” come “società naturale fondata sul
matrimonio”; quest'ultimo è ordinato sull' “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, e la parità tra marito
e moglie può essere limitata solo “a garanzia dell'unità familiare”;
• Nell’art. 30 sono dettati i principi che riguardano doveri e diritti dei genitori e dei figli, sia nel matrimonio
che fuori dal matrimonio; per entrambi i casi vale il “dovere e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed
educare i figli”: compiti ai quali la Repubblica può supplire solo “nei casi di incapacità”; ai figli nati fuori dal
matrimonio è assicurata “ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia
legittima”;
• Nell’art. 31 si fissano i compiti della Repubblica in ordine alla protezione della famiglia come gruppo sociale,
della maternità e dell'infanzia;
Art. 2: la repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali
ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale. Per cui il diritto di famiglia dovrebbe obbedire a due esigenze collegate: da un lato la protezione della
personalità dei singoli anche all’interno del gruppo familiare, dall’altro la difesa della famiglia come luogo e
strumento di espressione della persona.
La famiglia è qualificata come “società naturale” fondata sul matrimonio, ovvero non è un gruppo creato dal diritto:
ma è una forma del vivere sociale radicata nelle strutture reali della società degli uomini; le sue leggi si trovano
anzitutto nel “costume”. La formula dell’art. 29 apre anche a quei mutamenti nella configurazione della
fenomenologia familiare che maturino in ambito sociale nel senso di riconoscere dignità e valore ad altri modelli.

Art. 29, comma 1°: la famiglia, in quanto società naturale, è un gruppo che deve trovare da sé le regole concrete del
suo vivere: né il giudice, né l’amministrazione pubblica, possono decidere, al posto dei coniugi o dei genitori. È il
principio di autonomia della famiglia, che vale sia per le famiglie formalmente costituite, che a quelle di fatto.
Al comma 2°, si afferma poi la regola dell’eguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, anche se la stessa norma
prevede la possibilità di limiti a garanzia dell’unità familiare. L’eguaglianza giuridica può essere limitata solo quando
l’eguaglianza si possa rendere incompatibile con l’unità. Eguaglianza morale significa che la disciplina dei rapporti tra
i coniugi deve essere tale che la dignità di ciascuno sia egualmente protetta.
Per quanto riguarda quello sancito al primo comma dell’art. 30, si tratta di un potere vincolato allo scopo e cioè può
e deve essere esercitato conformemente allo scopo stesso, cioè all’interesse della prole. Si tratta però anche di un
diritto che il genitore può rivendicare. La regola sancita è una solenne affermazione di autonomia educativa.

3. Le relazioni familiari: coniugo, parentela, affinità.


La parola famiglia indica l’insieme delle persone legate tra loro da vincoli di coniugio, parentela e affinità.
Il coniugio è il rapporto che si stabilisce con il matrimonio tra marito e moglie, e che cessa soltanto con Io
scioglimento del matrimonio. Molte disposizioni concernenti il vincolo di coniugio trovano applicazione anche al
legame fra persone unite civilmente.
La parentela è il vincolo che unisce tra loro le persone che discendono da uno stesso stipite: si distingue una
parentela in linea retta (persone che discendono l’una dall’altra) e in linea collaterale (tra persone che hanno un
ascendente comune, ma non discendono l’una dall’altra).
È dunque il legame primario di discendenza il nodo che forma le reti di parentela.
Anche dopo la riforma del 1975 rimaneva una diversa forza dei rapporti di filiazione (legittima, naturale, adottiva) nel
costituire vincoli di parentela. Solo con la legge di riforma della filiazione si è finalmente chiarita espressamente
l’unità e l’estensione della nozione giuridica di parentela, “sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del
matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso”.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato

Della parentela è importante il grado. Nella linea retta ci sono tanti gradi quante le generazioni. Nella linea collaterale
i gradi corrispondono al numero delle generazioni, risalendo da un parente fino allo stipite comune e discendendo
fino all'altro parente: i fratelli sono parenti collaterali di 2° grado; i cugini di quarto grado. Il limite legale di rilevanza
della parentela è il 6° grado.
Parentela e coniugio danno luogo al vincolo di affinità, e quello tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge.
Anche gli effetti giuridici dell’affinità sono di ordine personale e di ordine patrimoniale.
L’affinità non dà alcun titolo alla successione ereditaria: in mancanza di parenti entro il 6° grado, l’eredità si devolve
allo Stato anche in presenza di affini.

4. Il sistema matrimoniale italiano.


Dopo aver regolato la parentela il codice della le norme relative al matrimonio.
Il matrimonio comprende due diversi aspetti: l’atto con cui si costituisce il vincolo coniugale e il rapporto che lega tra
loro i coniugi.
Al matrimonio-atto attiene la disciplina delle condizioni necessarie per contrarre matrimonio, della celebrazione, delle
cause di invalidità e delle impugnazioni.
Al matrimonio-rapporto attiene invece la disciplina dei diritti e doveri dei coniugi, della separazione personale, dello
scioglimento del vincolo, dei rapporti patrimoniali tra coniugi.
Questa distinzione è molto importante per capire il “sistema matrimoniale” italiano.
Fino al 1929 chi professava una fede religiosa doveva celebrare due volte il matrimonio.
Con il Concordato del 1929 tra lo Stato e la Chiesa Cattolica, al matrimonio civile si affianca il matrimonio religioso
con effetti civili (matrimonio concordatario). Si stabilisce infatti che il matrimonio canonico, celerato davanti al
ministro del culto cattolico, acquisti efficacia civile con la trascrizione nei registri dello Stato civile. Lo Stato accetta, in
tal modo, di rendere efficace nel proprio sistema un atto formato secondo le regole di un altro ordinamento (quello
canonico), le quali disciplinano la forma della celebrazione e i requisiti sostanziali dell’atto, cioè le condizioni di
validità e, di conseguenza, le cause di invalidità.
Effetto del matrimonio canonico trascritto è la costituzione di un rapporto di coniugo civile, tale quale si costituisce
per effetto di matrimonio civile. Tale rapporto è regolato solo dalle norme dell’ordinamento statuale. Diritti e doveri
dei coniugi sono quelli stabiliti dal Codice civile: il giudice può disporre l’attenuazione o lo scioglimento del vincolo.
Per il matrimonio per i culti acattolici la legge ammette che la celebrazione possa avvenire ad opera del ministro del
culto, il quale potrà arricchire gli atti formali necessari per il matrimonio civile con quelli propri del rito religioso.
Condizione necessaria alla produzione degli effetti è, anche qui, la trascrizione dell’atto.

5. Il matrimonio nel Codice civile. La disciplina dell’atto.


L'istituto del matrimonio è governato da regole inderogabili, rispondendo ad un criterio di rigida tipicità: non esiste la
possibilità di inventare un matrimonio diverso da quello regolato dalla legge. Infatti, anche eventuali patti aggiunti
sono nulli se volti a derogare ad uno dei qualsiasi effetti giuridici previsti dalla legge; se la deroga è totale si ha
simulazione.

Il matrimonio è:
• Un atto puro, ovvero un atto che non sopporta né condizione né termine. Le eventuali clausole aggiunte si
considerano per non apposte.
• Un atto libero: la libertà patrimoniale è protetta da norme imperative, dirette a evitare che la decisione di
assumere il vincolo coniugale sia non soltanto obbligata, ma comunque condizionata. È, infatti, priva di
effetti obbligatori la promessa di matrimonio. È nulla qualsiasi convenzione, o clausola contrattuale, che
preveda l’obbligo di sposarsi o di non sposarsi.
• Un atto personalissimo, che non ammette sostituzione o rappresentanza né volontaria né legale. Non è
eccezione il matrimonio per procura, celebrato solo in gravi situazioni, come marito in guerra, in quanto
quest’ultimo utilizza solo un nuncio, che lo sostituisce nella espressione formale del consenso.
• Un atto solenne, per il quale la legge prescrive requisiti inderogabili di forma; come la partecipazione all'atto
dell'Ufficiale di Stato civile, la cui dichiarazione integra quella di consenso degli sposi. La mancanza di
celebrazione davanti un pubblico ufficiale è causa di inesistenza e non di mera nullità del matrimonio.
• Un atto pubblico, che combina la manifestazione della volontà degli sposi con le dichiarazioni di un pubblico
ufficiale.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
L’atto di matrimonio ha particolare valore dal punto di vista della prova. La celebrazione del matrimonio può essere
provata solo attraverso l'esibizione dell'atto di matrimonio, raccolto nei registri di stato civile. La mancanza dell’atto-
documento equivale al difetto di un presupposto sostanziale dello stato di coniuge.
Solo in caso di smarrimento o di distruzione dei registri, la prova può essere data con ogni mezzo ordinario.
Eccezione è il caso in cui sia discussa la legittimità del figlio di due persone che abbiano pubblicamente vissuto come
marito e moglie e siano morti entrambi; in questo caso, anche se manca l’atto, il legame coniugale tra i due genitori è
ritenuto esistete sulla base del possesso di stato, cioè quando sia provato che quelle due persone avessero nome,
modo di vita e fama di marito e moglie.

Le pubblicazioni servono a dare modo, a chi sia a conoscenza di impedimenti, di farli valere prima che il matrimonio
sia celebrato, con l'opposizione; l'avvenuta pubblicazione non è però un requisito di validità del matrimonio.

La capacità di sposarsi si acquista con la maggiore età. Tuttavia, un minore che abbia compiuto i 16 anni, può
chiedere al Tribunale di essere ammesso a contrarre matrimonio, per gravi motivi. Non può concludere matrimonio
l'interdetto; sono capaci invece l'inabilitato ed il soggetto sottoposto ad amministrazione di sostegno.
Nella sezione intitolata “della nullità del matrimonio” sono raccolti sia i casi che corrispondono a quelli di nullità del
contratto (es. mancanza di capacità giuridica), sia i casi che corrispondono ad ipotesi di nullità nell’ambito del
contratto (es. i vizi del consenso). Per tutti si usa il termine “impugnazione”, e per tutti si parla di matrimonio
“dichiarato nullo”.
Se però si guarda alla disciplina dell’azione, si possono rilevare importanti differenze tra i vari gruppi di casi:
• Vi sono fattispecie in cui il matrimonio nullo può essere impugnato da “tutti coloro che abbiano un interesse
legittimo e attuale” (nullità assoluta).
Si tratta: a) del matrimonio concluso da persona già coniugata; b) del matrimonio contratto da soggetti
legati da parentela in linea retta, o in linea collaterale fino al terzo grado (zio-nipote), da affinità in linea
retta o in linea collaterale di secondo grado (cognati), o da legami connessi all’adozione; c) del matrimonio
contratto tra persone delle quali l’una sia stata condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge
dell’altra.
• In altre fattispecie, come il difetto di età, la nullità non è assoluta, ma la legittimazione è estesa: possono
agire gli sposi, i loro genitori, il pubblico ministero.
• Vi sono infine i casi di nullità relativa, in cui l'azione spetta solo a uno dei coniugi: per esempio se si tratta di
far valere l'incapacità naturale, la violenza o l'errore essenziale.
Da questo punto di vista, la disciplina dell’impugnazione si avvicina a volte a quella dell’azione di nullità, a volte a
quella dell’azione di annullamento.

La distinzione tra due gradi di invalidità è poi confermata da un’altra differenza.


In alcuni casi, l’invalidità è insanabile: così ad esempio nell’ipotesi di matrimonio concluso tra soggetti legati da
vincoli di parentela, o da persona già legata a valido matrimonio.
In altri casi invece l’invalidità è sanabile attraverso la coabitazione dei coniugi, che perduri almeno un anno dopo la
cessazione del vizio: così nel caso di interdizione (dopo la revoca del provvedimento), di incapacità naturale, di
violenza ed errore, di simulazione. Nel caso di matrimonio concluso da minore senza la prescritta autorizzazione,
l’azione può essere preclusa anche senza coabitazione.

L’impugnazione per incapacità naturale richiede solo la prova dell’incapacità di intendere o di volere, per qualunque
causa anche transitoria, al momento della celebrazione.

Dei vizi del volere, sono causa di annullamento del matrimonio la violenza, il timore e l’errore. Non è previsto il dolo.
Un vizio previsto solo per il matrimonio è quello del timore di eccezionale gravità, che differisce dalla violenza perché
non è determinato da specifici comportamenti di minaccia diretti a “costringere” al matrimonio, ma ad esempio dal
timore per le reazioni della propria comunità religiosa, eccetera.
L’errore sull’identità della persona dell’altro coniuge deve consistere in un vero e proprio scambio di persona.
L’errore sulle qualità personali dell’altro coniuge deve cadere su alcune qualità espressamente previste dal codice,
come l’esistenza di una malattia fisica o psichica o di una deviazione sessuale tale da impedire lo svolgimento della
vita coniugale, eccetera.

Una particolare ipotesi di impugnazione è infine quella della simulazione, che spesso si verifica allo scopo di far
acquistare la cittadinanza italiana a cittadini stranieri, o di godere di pensioni, o di trattamenti assistenziali, ecc. La
simulazione è definita come l’accordo con cui gli sposi convengono di non adempiere agli obblighi e di non esercitare

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
i diritti che nascono dal matrimonio; deve trattarsi di tutti i diritti e obblighi, se si escludesse solo un aspetto il
matrimonio sarebbe valido e il patto accessorio nullo.

L’annullamento del matrimonio dovrebbe avere, in teoria, efficacia retroattiva. Tuttavia, questa conseguenza è
esclusa dal legislatore:
a. Nei rapporti tra coniugi, solo in caso di matrimonio putativo, cioè celebrato in buona fede in quanto almeno
uno dei coniugi avesse consentito al matrimonio ignorandone le cause di invalidità, oppure per effetto di
violenza o timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne agli sposi: gli effetti del matrimonio si
producono rispetto ai coniugi, o al solo coniuge in buona fede, sino alla sentenza che pronunzia la nullità;
b. riguardo ai figli nati o concepiti durante il matrimonio, i quali conservano lo stato di figli legittimi e ciò anche
nel caso di malafede di entrambi i coniugi, purché non nati da incesto;
c. anche riguardo ai figli nati prima del matrimonio ma riconosciuti dai coniugi, purché almeno uno dei coniugi
fosse in buona fede.
Una conseguenza particolare della dichiarazione di nullità del matrimonio è la responsabilità del coniuge, in mala
fede: questi è tenuto a pagare un'indennità che corrisponda almeno al mantenimento per tre anni.

6. (segue) Gli effetti del matrimonio.


I diritti e doveri nascenti dal matrimonio hanno carattere di eguaglianza e reciprocità. Essi sono:
• Doveri personali: fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione e coabitazione.
• Dovere di contribuzione ai bisogni della famiglia in proporzione alle loro capacità di lavoro professionale o
casalingo. Un quadro completo dei rapporti tra coniugi richiede di descrivere il regime patrimoniale della
famiglia, cioè il modo in cui si regola la proprietà e l’amministrazione dei beni dei coniugi.
• La moglie aggiunge al proprio cognome il cognome del marito e Io conserva fino al divorzio o annullamento;
in caso di separazione il giudice può decidere che la moglie possa, o debba, non usare il cognome del
marito.
• Obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente la prole tenendo conto delle capacità,
dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.

L'indirizzo della vita familiare e la fissazione della residenza sono lasciati all'accordo dei coniugi, così come tutte le
decisioni che riguardano i figli, secondo il principio dell’autonomia della famiglia: il gruppo familiare non deve essere
guidato dall’esterno, ma deve trovare dentro di sé i criteri con cui vivere. L’autonomia della famiglia è protetta anche
nel caso di disaccordo tra coniugi: ciascun coniuge può ricorrere al giudice, senza formalità, per risolvere il contrasto,
egli può solo suggerire una soluzione, e può invece decidere solo se entrambi i coniugi rimettono concordemente a
lui la decisione. Il giudice, in caso di disaccordo su decisioni relative alla prole, affida al genitore che gli pare più
idoneo il potere di decidere sulla questione senza tener conto della volontà dell’altro.

La violazione dei doveri coniugali è il presupposto per ottenere, in sede di separazione, l'addebitamento della
pronuncia al coniuge colpevole, con rilevanti conseguenze sfavorevoli di ordine patrimoniale.
I doveri patrimoniali sono coercibili, e cioè il dovere di contribuzione ai bisogni della famiglia e al mantenimento della
prole: il coniuge leso può chiedere al giudice la condanna al pagamento delle somme dovute, anche senza chiedere
la separazione personale.
Per quanto riguarda una violazione o un abuso dei doveri relativi alla prole, che rechi grave pregiudizio al figlio, il
giudice può disporre la decadenza del genitore dalla posizione di responsabilità genitoriale o anche altri
provvedimenti, nel caso in cui il pregiudizio non sia così grave da giustificare la perdita della intera responsabilità
genitoriale.

7. Il regime patrimoniale della famiglia.


Il regime patrimoniale legale della famiglia è la comunione dei beni, legale nel senso che viene applicato
automaticamente quando le parti non provvedano altrimenti.
Oggetto della comunione legale sono soltanto i beni acquistati durante il matrimonio, non invece i beni di cui essi
fossero titolari prima delle nozze, che rimangono in proprietà individuale. Gli acquisti cadono in comunione
indipendentemente dal fatto che siano comprati dai coniugi insieme, o separatamente.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Il codice elenca poi i beni personali dei coniugi, cioè quelli che non cadono nella comunione legale: ad esempio, i beni
acquistati dopo il matrimonio per donazione o per successione; i beni di uso strettamente personale; i beni che
servono per l’esercizio di professione; ecc.

Quanto ai redditi, essi sono oggetto di comunione se risultano non consumati al tempo in cui la comunione si
scioglie. Il reddito corrente non è un bene comune; i coniugi però sono gravati, in proporzione al loro reddito,
dall’obbligo di contribuzione, e devono stabilire d’accordo la quota di redditi da destinare in famiglia.

L’amministrazione ordinaria dei beni comuni spetta a ciascun coniuge disgiuntamente, per l’amministrazione
straordinaria, invece, è necessaria la partecipazione di entrambi: se uno dei coniugi rifiuta il consenso, l’altro può
rivolgersi al giudice per essere autorizzato all’atto nell’interesse della famiglia o della azienda comune.
Quanto all’atto compiuto da uno solo dei coniugi, senza consenso dell’altro, si tratta di un caso di difetto di
legittimazione; la legge però ha stabilito conseguenza giuridiche particolari che non corrispondono ai comuni principi.
Se l’atto riguarda beni immobili o mobili registrati, è efficace ma annullabile, a domanda dell’altro coniuge nel breve
termine di un anno; se invece riguarda beni mobili, è valido ed efficace, ma il coniuge che l’ha compiuto senza
consenso dell’altro, se non può materialmente ricostituire lo stato della comunione (recuperando la cosa o
acquistandone una di eguale genere e qualità) deve pagare l’equivalente in denaro.

Il regime di comunione legale ha l’effetto, oltre di formare una comproprietà, ma di riunire tutti i beni in un
complesso unitario, che ha una certa autonomia patrimoniale nei confronti dei patrimoni personali dei coniugi.
Infatti, per ogni debito assunto dai coniugi insieme, o da uno di loro separatamente ma nell’interesse della famiglia,
rispondono i beni della comunione: su questi il creditore deve far valere le sue ragioni, salva una responsabilità
sussidiaria di ciascun coniuge con tutti i suoi beni personali, ma solo per la metà del credito.
Invece, per i debiti assunti da ciascuno dei coniugi separatamente e non giustificati dall’interesse della famiglia
(obbligazioni personali) risponde il coniuge debitore con i suoi beni personali; il creditore può aggredire i beni della
comunione solo sussidiariamente e fino al valore corrispondente alla quota dell’obbligato; lo stesso vale per i debiti
che ciascuno aveva prima del matrimonio.

La comunione si scioglie in caso di separazione personale, di scioglimento del matrimonio per morte o divorzio, di
annullamento, di accordo dei coniugi che vogliono cambiare il regime patrimoniale, di provvedimento del giudice su
domanda di uno dei due coniugi, in casi previsti dalla legge, di fallimento di uno dei due coniugi.
Lo scioglimento trasforma la comunione legale in una comunione ordinaria. Fase successiva è la divisione dei beni; di
regola, i beni comuni si dividono in parti uguali.

Il regime patrimoniale legale può essere sostituito o modificato attraverso accordi trai coniugi, che la legge chiama
convenzioni matrimoniali: si tratta dell’accordo di separazione dei beni e della comunione convenzionale.
Una terza possibilità è la costruzione di un fondo patrimoniale (non è un regime).

Le convenzioni matrimoniali sono oggetto di alcune regole generali, che valgono per qualsiasi convenzione; ciascuna
convenzione è poi oggetto di una particolare disciplina.
Devono essere stipulato nella forma dell’atto pubblico. La stipulazione può avvenire in ogni tempo, e in ogni tempo la
convenzione può essere modificata.
A tutela dei terzi, sia la stipulazione della convenzione sia le successive modifiche non possono essere opposte ai
terzi se non sono annotate a margine dell’atto di matrimonio. La pubblicità così attuata riguarda il regime
patrimoniale in sé; poi, per gli immobili, i singoli trasferimenti dovrebbero essere fatti oggetto di pubblicità nei
registri immobiliari.
Dunque, la mancanza di ogni annotazione consente al terzo di ritenere che i coniugi siano in regime di comunione
legale; si parla perciò di pubblicità negativa della comunione dei beni.
La capacità matrimoniale, come sappiamo, segue regole diverse da quella contrattuale: anche il minore può sposarsi
con l’autorizzazione del giudice, e l’inabilitato è pienamente capace riguardo alle nozze. Ma per quanto riguarda le
convenzioni matrimoniali, l’incapacità contrattuale rimane; per l’inabilitato essa è superata con l’assistenza del
curatore; per il minore, invece, si prevede che, anche prima delle nozze, possa stipulare le convenzioni con
l’assistenza (non rappresentanza) dei genitori o tutore, oppure, in caso di conflitti famigliari, con l’assistenza di un
curatore speciale.
Le convenzioni matrimoniali non possono derogare ai diritti ed obblighi patrimoniali dei congiunti stabiliti all’art. 143.

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La più praticata delle convenzioni matrimoniali è la separazione dei beni, cioè l’accordo con il quale si esclude la
comunione degli acquisti. Per la semplicità di contenuto della dichiarazione, la legge prevede che la scelta del regime
di separazione possa essere dichiarata anche nell’atto di celebrazione del matrimonio. La regola vale anche in caso di
matrimonio concordatario.
Il modello della comunione legale può essere modificato dai coniugi, in modo da comprendere nella comunione beni
che ne sarebbero esclusi (ad esempio i beni acquistati prima del matrimonio, o i redditi correnti) o viceversa per
riservare alla proprietà individuale beni che farebbero parte della comunione (ad esempio, i risparmi liquidi non
consumati): si costituisce così una comunione convenzionale.
Non è possibile però una comunione totale perché è inderogabile l’esclusione dei beni d’uso strettamente personale,
o destinati alla professione, o provenienti da risarcimento del danno.

Il fondo patrimoniale si costituisce attraverso la destinazione di determinati beni immobili o mobili registrati o titoli di
credito ai bisogni della famiglia. La destinazione può essere fatta d’accordo dai coniugi, o da uno di loro, o da un terzo
per atto unilaterale o per testamento, ed è soggetta alla pubblicità propria delle convenzioni matrimoniali.
L’effetto è di costituire un patrimonio autonomo, del quale sono contitolari i due coniugi, ma che è soggetto a un
vincolo di destinazione.

8. La crisi della famiglia. La separazione personale.


Fino al 1970, la legge italiana non conosceva il divorzio, indissolubilità del matrimonio. Si poteva ottenere soltanto la
separazione legale, cioè un’attenuazione del rapporto tra i coniugi, ma anche questa soluzione era consentita, in
mancanza di accordo tra i coniugi, solo in pochi casi tassativi di colpa.

Nel 1970 cadde il principio di indissolubilità, venne introdotto il divorzio con un referendum popolare.
Nel 1975 la legge di riforma del diritto di famiglia modificava la disciplina della separazione personale, consentendo la
separazione a domanda di uno dei coniugi anche senza la necessità di provare colpe dell’altro.

Nel disegno del legislatore, la rottura del vincolo è un risultato estremo cui si arriva passando attraverso una fase
intermedia, quella della separazione personale.
Normalmente, il primo passo che i coniugi fanno è di tornare a vivere ognuno per proprio conto. Fino a che questa
soluzione rimane un fatto puramente privato, senza che sia avviata una procedura diretta a ottenere un
provvedimento del giudice, lo status giuridico dei coniugi non cambia: si parla perciò di separazione di fatto.
Questa situazione non è però del tutto priva di conseguenze giuridiche, e cioè:
a) se uno dei due coniugi, senza consenso dell’altro, se ne va dalla casa coniugale e rifiuta di tornare, si sospendono i
doveri di assistenza morale e materiale (c.d. allontanamento ingiustificato); l’allontanamento può essere anche
giustificato, quando è una reazione alla violazione dei doveri del matrimonio da parte dell’altro coniuge (violenza,
infedeltà) o quando dall’uno o dall’altro è stata presentata una domanda di separazione;
b) la separazione di fatto è stata equiparata alla separazione legale in qualche aspetto importante, come la successione nel
contratto di locazione;
c) La separazione di fatto iniziata almeno due anni prima del 18/12/1970 vale come causa di divorzio.
Di separazione personale in senso proprio si può parlare invece quando subentra un provvedimento del giudice che pronuncia la
separazione e costituisce il nuovo status dei coniugi, quello di separazione legale.
Alla pronuncia di separazione si può arrivare per due strade diverse: la separazione consensuale e la separazione giudiziale,
entrambe forme di separazione legale frutto di un atto di giurisdizione, volontaria o contenziosa.

La separazione consensuale richiede anzitutto un accordo dei coniugi, che non soltanto manifesti il reciproco consenso alla
separazione, ma che regoli anche il loro rapporti patrimoniali e il problema dell’affidamento dei figli per il tempo successivo alla
separazione. Se sussiste consenso su tutti questi aspetti, i coniugi posso ricorre al giudice chiedendo la separazione.
Il giudice ha il dovere di tentare la conciliazione; se i coniugi rimangono decisi a separarsi, spetta al giudice controllare che i
contenuti dell’accordo non siano contrari all’interesse dei figli e del coniuge più debole.
Il decreto di omologazione rende efficace l’accordo e instaura lo stato di separazione.
Se il giudice accerta che l’interesse dei figli (o quello del coniuge più debole) non è be tutelato, non ha il potere di modificare la
volontà negoziale, ma può rifiutare l’omologazione: spetterà ai coniugi di proporre un nuovo accordo, oppure di chiedere una
separazione giudiziale.
Una legge 10 novembre 2014 (legge di conversione) ha sancito che per tutte le controversie in materia di diritti disponibili, c’è la
possibilità di una negoziazione volontaria assistita da un avvocato. Tutta via questo modo di procedere può essere utilizzato anche
per raggiungere “una soluzione consensuale di separazione personale”.
Un d.l. datato 2014 ha previsto (solo per gli accordi di separazione personale e cessazione degli effetti civili o di scioglimento del
matrimonio) un accordo attraverso separate dichiarazioni dei coniugi rese innanzi al sindaco. Questa modalità è esperibile purché
non vi siano figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi e non si debbano o vogliano concludere “patti di trasferimento
patrimoniale”. Il sindaco, ricevute le dichiarazioni, stende l’accordo di separazione.

159
Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato

Se le parti non riescono ad accordarsi, ciascuna di esse piò chiedere al giudice la separazione giudiziale.
Secondo il codice, la separazione può essere chiesta quando “si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di
uno dei coniugi o di entrambi o coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare
grave pregiudizio all’educazione della prole”.
Il senso della regola è evitare che sia necessario, per ottenere la separazione, dimostrare colpe dell’altro coniuge
(come avveniva fino al 1975).
Con la separazione legale il vincolo matrimoniale non si scioglie, ma il rapporto tra i coniugi viene modificato e
ridotto ad un contenuto minimo:
a) cessano l’obbligo di convivenza, e il dovere di assistenza morale e materiale;
b) si attenua il dovere di fedeltà, che viene limitato all’obbligo di evitare un comportamento di grave offesa dell’altra parte;
c) la moglie separata conserva il cognome del marito, a meno che il giudice la autorizzi a non farne uso, o che vieti di farne
uso su richiesta del marito, quando tale uso sia a lui gravemente pregiudizievole;
d) si scioglie, se sussisteva, la comunione legale;
e) il coniuge che non ha mezzi sufficienti per mantenersi può chiedere che il giudice stabilisca un assegno di mantenimento
o una assegnazione una tantum;
f) i coniugi conservano reciprocamente i diritti successori.
Questi effetti possono modificarsi a sfavore di uno dei coniugi quando la separazione, su domanda dell’altra parte, gli sia
addebitata in ragione del suo comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio.
Il coniuge a cui la separazione è addebitata:
a) non può chiedere il mantenimento, ma solo un assegno alimentare ove dimostri il proprio stato di bisogno;
b) perde i diritti successori, che vengono sostituiti dal solo diritto a chiedere un assegno alimentare a carico dell’eredità, se
già ne godeva prima della morte dell’alimentante.

Le conseguenze della violazione dei doveri coniugali non si esauriscono nell’addebito della separazione.
La giurisprudenza ha ammesso che la violazione degli obblighi suddetti che cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti,
possa integrare gli estremi dell’illecito civile (art. 2043) e dare luogo ad un’autonoma azione rivolta al risarcimento dei danni non
patrimoniali (art. 2059). Deve trattarsi di violazioni dei doveri coniugali che comportino la violazione di diritti fondamentali della
persona dell’altro coniuge quali la dignità.
La disciplina dei provvedimenti giudiziali concernente la prole di genitori separati è stata radicalmente innovata nel 2006:
Essa ha modificato direttamente la disciplina della separazione estendendola anche ai casi di divorzio e di nullità del matrimonio,
nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.
In attuazione della riforma della filiazione, nel 2013, venne emanato un d. lgs. che ha ripreso e riordinato la disciplina
unificandola negli artt. 337 bis-octies. L’art. 337 ter sancisce il diritto del minore di mantenere un rapporto
equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori e ricevere cura, educazione ed istruzione da entrambi; gli
riconosce inoltre il diritto di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo
genitoriale.
Tutti i provvedimenti del giudice relativi ai figli vanno assunti con esclusivo riferimento al loro interesse morale e
materiale. All’interno di questo principio trova spazio l’autonomia dei genitori: il giudice, quindi, prende atto dei loro
accordi, se non contrari all’interesse dei figli.
Il giudice dispone l’ascolto del minore che abbia compiuto dodici anni ed anche di età inferiore ove capace di
discernimento.
Il giudice deve valutare prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori,
determinando i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore. Il giudice ha poi il potere di disporre
l’affidamento esclusivo. L’affidamento dei figli può essere disposto, a richiesta di uno dei genitori, qualora il giudice
ritenga, con provvedimento motivato, che l’affidamento condiviso con l’altro genitore sia contrario all’interesse del
minore.
C’è però una sorta di disincentivo, a garanzia della serietà della domanda: qualora essa risulti manifestatamente
infondata, il comportamento del genitore istante può essere considerato dal giudice come un indice negativo ai fini
dei provvedimenti da adottare nell’interesse dei figli.

La responsabilità genitoriale è affidata a entrambi i genitori. Sempre l’art. 337 ter distingue tra le decisioni di maggior
interesse, che vanno assunte dai genitori di comune accordo, e le decisioni su questioni di ordinaria amministrazione,
rispetto alle quali i genitori possono esercitare separatamente la loro responsabilità.
Al genitore non affidatario spetta comunque un potere di vigilanza e di ricorso al giudice quando ritenga che siano
state assunte decisioni pregiudizievoli all’interesse del figlio.
In ordine al mantenimento dei figli, il giudice fissa la misura ed il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al
mantenimento, oltre alla cura, all’istruzione ed all’educazione dei figli.
Per quanto riguarda i figli maggiorenni non indipendenti economicamente, il giudice può disporre in loro favore un
assegno periodico (art. 337 septies).

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Ai figli maggiorenni portatori di handicap grave si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli
minori.
L’assetto dei rapporti genitori/figli nella separazione e nelle altre situazioni cui si applica la disciplina segue il criterio
del finché la situazione non muti. È così previsto il diritto dei genitori di chiedere in ogni tempo la revisione delle
disposizioni.

Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli.
Il diritto al godimento della casa familiare viene meno: a) quando l’assegnatario non vi abiti o cessi di abitarvi
stabilmente; b) quando conviva more uxorio; c) quando contragga nuovo matrimonio.
In ordine all’opponibilità ai terzi, il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili ed opponibili ai
terzi. Una causa di ridefinizione degli accordi e dei provvedimenti adottati è rappresentata dal mutamento della
residenza o del domicilio da parte di uno dei coniugi che interferisca con le modalità dell’affidamento.
Lo stato di vita separata, benché costituito con sentenza, può cessare per volontà dei coniugi con la riconciliazione.
Non solo: può essere tacita, e cioè risultare dal comportamento dei coniugi separati, che riprendano a convivere
come marito e moglie.

9. Lo scioglimento del matrimonio. Il divorzio.


Il vincolo che nasce dal matrimonio può sciogliersi anzitutto a causa della morte di uno dei coniugi. In un certo senso
il legame coniugale produce effetti che scavalcano la morte, attribuendo al coniuge superstite diritti successori e altri
diritti. Ma con la morte cessa il vincolo ed il coniuge superstite riacquista lo status di non coniugato. Eguale effetto ha
la dichiarazione di morte presunta.
Il vincolo coniugale si scioglie poi per effetto di una sentenza, comunemente chiamata divorzio. La legge italiana non
fa uso della parola “divorzio”, preferendo l’espressione “scioglimento del matrimonio” e, per il matrimonio
concordatario, la formula “cessazione degli effetti civili”.
La sentenza che pronuncia lo scioglimento incide sul c.d. matrimonio-rapporto, facendo cessare e liberando i coniugi
dal loro legame; a differenza di quanto avviene nella dichiarazione di nullità e annullamento, che incidono sul
matrimonio-atto, cioè sul titolo dello stato.
La possibilità, per il giudice dello Stato, di sciogliere il vincolo civile derivante dal matrimonio concordatario si fonda
proprio sul fatto che lo Stato, nel Concordato, ha mantenuto la giurisdizione sul matrimonio-rapporto.
L’art.1 della legge del 1970 dispone che il giudice possa pronunciare il divorzio quando “accerta che la comunione
spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste
dall’art. 3”. Il definitivo venir meno della comunione spirituale e materiale è quindi il fondamento del divorzio.
Questo fondamento però non è lasciato a una libera valutazione caso per caso da parte del giudice, ma può essere
accertato solo in presenza di (uno tra) casi tassativi previsti dalla legge.

Dopo le modifiche introdotte nel 1987, i casi più rilevanti sono.


• La sentenza di separazione giudiziale fra i coniugi passato in giudicato. La legge del 2015 ha abbreviato il termine
precedente (3 anni), prevedendo due diversi termini: dodici mesi in caso di separazione giudiziale e sei mesi in caso di
separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale.
Tali periodi di ininterrotta separazione decorrono dall’udienza di comparizione dei coniugi dinnanzi al presidente del
Tribunale, ovvero dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione
assistita da un avvocato (l. 2014) dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso dinnanzi all’ufficiale
dello stato civile.
• Diverse cause penali, vale a dire: sentenze di condanna penale passate in giudicato anche per i fatti commessi prima del
matrimonio; la condanna dev’essere all’ergastolo o a pene superiori a quindici anni, o a qualsiasi pena per particolari
delitti come quelli contro l’assistenza familiare, o connessi alla prostituzione, o contro la persona del coniuge o dei figli, o
di incesto;
• Altre cause civili, che sono:
- l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio ottenuto all’estero da un coniuge, cittadino straniero, o un nuovo
matrimonio da lui contratto all’estero;
- la non consumazione del matrimonio;
- la sentenza di rettificazione di sesso passata in giudicato:
Non è previsto il divorzio consensuale. Tuttavia, con la riforma dell’87, i coniugi possono proporre una domanda
congiunta di divorzio, indicando anche le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici; la procedura che ne
segue è semplificata: il tribunale, senza udienza pubblica, sente i coniugi, controlla che esistano i presupposti di legge
e che sia ben protetto l’interesse dei figli, e pronuncia il divorzio. A differenza che nella separazione consensuale, qui
è il giudice a stabilire i provvedimenti relativi ai rapporti patrimoniali e ai figli, anche se tiene conto dell’accordo, può
anche in parte disattendere.

161
Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
La legge del novembre 2014 già citata che, come si è detto, prevede sia una possibilità di negoziazione assistita da
avvocato, sia, con maggiore semplificazione, la possibilità di concludere, innanzi al sindaco, con l’assistenza solo
facoltativa di un avvocato, anche un accordo di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio quando
sia “stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero omologata la
separazione consensuale”.

Il venir meno del vincolo coniugale fa cessare gli ultimi residui dei rapporti personali tra i coniugi; in particolare, la
donna perde il cognome del marito, anche se il tribunale può autorizzala a farne quando sussista un interesse suo (es.
notorietà professionale) o dei figli, meritevole di tutela.
Quanto ai rapporti patrimoniali, il coniuge divorziato perde i diritti successori.

I diritti patrimoniali del coniuge divorziati sono però numerosi:


a) il giudice, tenuto conto delle ragioni del divorzio e delle condizioni economiche dei coniugi, può disporre un assegno
periodico, che può essere sostituito, su accordo delle parti, da una somma in unica corresponsione; la sentenza deve
anche stabilire un criterio di adeguamento automatico dell’assegno;
b) dopo la morte, il diritto all’assegno può essere confermato dal giudice a carico dell’eredità;
c) il coniuge divorziato, se non è passato a nuove nozze e se titolare dell’assegno periodico, ha anche diritto, in caso di
morte dell’ex coniuge, alla pensione di riversibilità, sempre che il rapporto di lavoro cui si riferisce la pensione fosse in
tutto o in parte anteriore al divorzio. Se esiste un coniuge superstite a causa di un successivo matrimonio, il divorziato
conserva il diritto ad una quota della pensione. Il coniuge divorziato ha anche diritto ad una quota dell’indennità di fine
rapporto di lavoro.

Per quanto riguarda i rapporti coi figli, si applicano le norme uniformi già esposte sopra, par. 8

10. Le unioni civili.


l. 20 maggio 2016, n. 76, ha istituito “l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale
ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione”.
L’unione civile può essere formata esclusivamente da due persone maggiorenni e dello stesso sesso. La costituzione
ha luogo mediante dichiarazione delle due parti resa di fronte all’ufficiale dello stato civile alla presenza di due
testimoni. La legge prevede una serie di cause impeditive per la sua costituzione:
a) la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un’unione civile;
b) l’interdizione di una delle parti per infermità di mente;
c) la sussistenza tra le parti dei rapporti di parentela, affinità e adozione;
d) la condanna definitiva di una delle parti per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato
o unito civilmente all’altra parte.
In presenza di una di queste, si ha nullità dell’unione civile, la quale può essere impugnata da tutti coloro che vi
abbiano un interesse legittimo e attuale all’impugnazione. L’unione può altresì essere impugnata per incapacità
naturale, per simulazione, per vizi del volere (violenza, timore, errore).

L’unione è ispirata all’eguaglianza dei soggetti della coppia e alla reciprocità dei rispettivi diritti e doveri. Dall’
unione nasce “l’obbligo reciproco”, di carattere personale, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione e alla
coabitazione, oltre che il dovere, di natura economica, per ciascuna delle parti, in relazione alle proprie sostanze e
alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, di contribuire ai “bisogni comuni”. Le parti concordano
l’indirizzo della vita familiare. Di comune accordo è fissata la residenza comune.
Tra i doveri personali delle parti dell’unione non è previsto l’obbligo di fedeltà.
Mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile, le parti dell’unione possono stabilire di assumere, per la durata
dell’unione stessa, un cognome comune, scelto fra uno dei loro cognomi.

La disciplina delle unioni civili si esaurisce nel rapporto di coppia: nulla si dice sul rapporto con eventuali figli.
Le regole in tema di filiazione operano con riguardo al rapporto con colui che, nella coppia unita civilmente, sia il
genitore biologico.
Si pone anzitutto la questione dell’adozione, da parte di ciascun consorte, del figlio dell’altro, e quella della
legittimazione della coppia a chiedere l’adozione di un minore estraneo. È pensabile di applicare alla coppia legata da
unione civile le disposizioni relative alla adozione c.d. in casi particolari.
È stata affermata la possibilità dell’adozione del figlio del partner al ricorrere dell’ipotesi di constatata impossibilità di
affidamento preadottivo anche nel caso di coppia composta da persone dello stesso sesso.

162
Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
La Corte di Cassazione ha affermato che la constatata impossibilità di affidamento preadottivo non presuppone
necessariamente una situazione di abbandono del minore. La corte puntualizza che anche quando la situazione di
abbandono è certamente esclusa per la presenza della relazione tra il minore e il genitore biologico, non vi sono
ostacoli alla pronuncia dell’adozione da parte del partner del genitore biologico, quando sussista in concreto
l’interesse del minore a vedere riconosciuti i legami affettivi sviluppatisi con altri soggetti, che se ne prendano cura.
Le considerazioni appena svolte si riferiscono al caso in cui il figlio di uno dei partner sia concepito naturalmente.

Il regime patrimoniale legale dell’unione civile è quello della comunione dei beni (medesima disciplina dettata con
riferimento al legame coniugale). È fatta salva la possibilità che le parti concludano una diversa “convenzione
patrimoniale”.

Lo scioglimento dell’unione civile ha luogo anzitutto per morte o dichiarazione di morte presunta di una delle parti.
Può inoltre avvenire, su domanda di una delle parti, al ricorrere di talune ipotesi individuate mediante rinvio alla
disciplina sullo scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio:
a) cause relative ai fatti di rilevanza penale;
b) chiesto da una delle parti dell’unione allorché l’altra, di cittadinanza straniera, abbia ottenuto all’estero
l’annullamento dell’unione civile, oppure abbia contratto un nuovo matrimonio o abbia costituito un nuovo
vincolo assimilabile a un’unione civile;
L’unione si scioglie, inoltre, in caso di sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso intervenuta con riguardo a
una delle parti. Il caso di scioglimento più caratteristico è quello in cui una o entrambe le parti manifestino la volontà
di scioglimento dell’unione dinanzi all’ufficiale dello stato civile e, decorsi tre mesi da tale manifestazione, venga
proposta domanda giudiziale di scioglimento.

11. La filiazione. Lo stato di figlio.


La parola “filiazione” indica il rapporto giuridico tra genitore e figlio. Questo rapporto si configurava come un genere
che comprendeva due “stati” di figlio: la filiazione legittima (figlio nato da madre e padre uniti da valido matrimonio),
la filiazione naturale (non coniugati).
L. 10 dicembre 2012, n.219: l’art. 2 ha attribuito un’ampia delega al Governo per adottare uno o più decreti legislativi
di modifica delle disposizioni vigenti in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità “per eliminare
ogni discriminazione tra i figli, anche adottivi, nel rispetto dell’art. 30 Cost.”.

La nuova norma:
a. riprende il testo dell’art. 147 disponendo che il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e
assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni e aspirazioni;
b. afferma il diritto del figlio di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti;
c. afferma il diritto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di
discernimento, ad essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano;
d. riprende il preesistente art. 315 disponendo che il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in
relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia
finché convive con essa.
Nel Codice civile le parole: “figli legittimi” e “figli naturali” sono sostituite dalla seguente: “figli”. Va mantenuta solo la
dizione descrittiva “figli nati nel matrimonio” o “figli nati fuori dal matrimonio”.

Lo stato di figlio non può essere fatto valere, se non con l’allegazione dell’atto di nascita, dal quale risulta la
situazione di una persona riguardo alla paternità e maternità: questo è titolo dello stato di figlio.
Quando nasce un bambino, chi assiste la partoriente ha l’obbligo di fare un’attestazione di avvenuta nascita o parto;
sulla base di questa certificazione si provvede alla dichiarazione di nascita (10 giorni per comune, 3 presso la
direzione sanitaria dell’ospedale). Infine, l’ufficiale di stato civile provvede a firmare l’atto di nascita.
L’atto può contenere o meno l’indicazione della madre e del padre.
L’identità della madre è accertata nell’attestazione di avvenuta nascita, a meno che la donna partoriente dichiari
espressamente a chi l’assiste di non voler essere nominata. Il pieno rapporto di filiazione consegue soltanto alla
formazione dell’atto di nascita.
Per la paternità, nel caso di donna coniugata, la legge prevede un sistema di presunzioni legali che determinano
l’attribuzione della paternità al marito della madre e quindi lo stato di figlio mentre nel caso di donna nubile,
l’indicazione della paternità nell’atto di nascita consegue solo a una dichiarazione del padre o ad un accertamento
giudiziale, che conducono alla formazione di un titolo dello stato di figlio.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Il solo fatto della procreazione non è sufficiente a determinare la costituzione di un rapporto giuridico di filiazione e
di uno “stato” di figlio. Ha però alcuni effetti:
a. la parentela di sangue in linea retta e collaterale è da sé rilevante per quanto riguarda gli impedimenti al matrimonio, e
la sussistenza di un incesto;
b. il fatto della procreazione fa anche nascere un elementare obbligo, sanzionato penalmente, a non lasciare il figlio in
stato di materiale abbandono;
c. È fonte di obblighi economici dei genitori verso i nati fuori del matrimonio quando è loro preclusa la dichiarazione di
paternità o maternità.
In mancanza di un atto di nascita, basta provare il continuo possesso dello stato di figlio: situazione di fatto che fa
ritenere l’esistenza di un rapporto di filiazione. Occorre che il genitore abbia trattato la persona come figlio e che
abbia provveduto in ragione di ciò al mantenimento, all’educazione e al collocamento del figlio stesso; che la persona
sia stata considerata come figlio; che sia stata riconosciuta in detta qualità dalla famiglia.

La dimostrazione che quello stato non corrisponde a verità è ammessa nei casi previsti dalla legge e attraverso le
azioni di stato. Le due azioni fondamentali disciplinate in modo unitario con riferimento allo stato (unico) di figlio, sia
nato nel matrimonio o fuori del matrimonio: reclamo e contestazione dello stato di figlio.
Entrambe possono essere esercitate nei casi di supposizione di parto o di sostituzione di neonato.
L’azione di reclamo può essere esercitata anche in casi diversi:
a. Per reclamare uno stato di figlio nato nel matrimonio da parte di chi risulti figlio di ignoti: l’azione è preclusa se è
intervenuta sentenza di adozione.
b. Per reclamare uno stato di figlio nato nel matrimonio, secondo le regole che governano la presunzione di paternità, da
parte di chi è stato riconosciuto come figlio nato fuori del matrimonio in contrasto con tale presunzoone e da chi fu
iscritto (come figlio nato nel matrimonio) in conformità do altra presunzione di paternità;
c. Per reclamare un diverso stato di figlio quando il precedente è stato comunque rimosso (per contestazione di stato,
disconoscimento della paternità o impugnazione di riconoscimento).

La riforma ha reso completamente libera la prova della filiazione: se mancano l’atto di nascita o il possesso di stato,
l’interessato può agire e provare i presupposti dello stato con ogni mezzo.

11.1. La procreazione assistita.


Le tecniche di procreazione assistita consentono di avviare una gravidanza indipendentemente da un rapporto
sessuale. La PMA si dice:
a. Omologa: quando il figlio è concepito usando i gameti di una coppia richiedente;
b. Eterologa: quando si utilizza il gamete di un soggetto esterno alla coppia.
L’una e l’altra possono realizzarsi con tecniche che prevedono la formazione dell’embrione in utero o in vitro.

Lo scopo della PMA può essere il superamento di infecondità personale o di coppia; anche se si presta scopi vari.

L’Italia ha legiferato per ultima in Europa: legge n.40 del 19 febbraio 2004. Tuttavia, nel corso di un decennio
l’impianto originale della legge è stato demolito e sostituito da una disciplina diversa, immediatamente applicabile.
Le linee originarie:
a. L’accesso alle tecniche è riservato a coppie coniugate o conviventi formate da persone maggiorenni di sesso diverso in
età potenzialmente fertile, entrambe viventi;
b. La PMA era stata ammessa solo a favore di coppie infertili;
c. A tutela dell’embrione la legge consentiva la fecondazione in vitro, ma vietava la crioconservazione e successiva
soppressione di embrioni così formati (art. 14, comma 1°); perciò non si potevano formare embrioni in numero
superiore a quello strettamente necessario per un unico e contemporaneo impianto e comunque non superiore a tre.
d. Vietata era la fecondazione eterologa.

Questo l’intervento delle corti:


a. È caduto il limite alla formazione di embrioni in vitro e al congelamento. L’art. 14 è abrogato nella parte in cui stabilisce
il limite di tre embrioni. La corte ha poi ravvisato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui vieta la crioconservazione
di embrioni formati, ritenendo che il trasferimento degli embrioni debba essere effettuato in ogni caso senza pregiudizio
della salute della donna.
b. Il diritto a ottenere la diagnosi pre-impianto sull’embrione già formato è stato affermato dalla Corte EDU anche riguardo
alla coppia fertile.
c. È caduta di conseguenza l’esclusione delle coppie fertili dalle pratiche di PMA. La Corte costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale della legge nella parte in cui non consente il ricorso alle tecniche di PMA alle coppie fertili
portatrici di malattie genetiche trasmissibili.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
d. L’anno precedente era stato cancellato il divieto di PMA di tipo eterologo. La Corte costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale nella parte in cui è vietato il ricorso a tecniche di PMA eterologa.

Lo stato dei figli nati da PMA segue i criteri comuni: essi sono figli nati nel matrimonio o fuori del matrimonio della
coppia rispettivamente coniugata o non coniugata che ha espresso la volontà di ricorre a tecniche di PMA.

In Italia rimane vietata la “surrogazione” della maternità, cioè la pratica con cui una coppia ricorre a una donna
“terza” per la gestazione e il parto di un bambino concepito con i gameti del partner maschile o anche di un
embrione formato con i gameti della coppia.

12. La filiazione nel matrimonio.


Si tratta dello specifico modo in cui si attribuisce lo stato di figlio “nato nel matrimonio” attraverso due presunzioni
legali: presunzione di concepimento durante il matrimonio e la presunzione di paternità. Il sistema delle due
presunzioni tende a privilegiare lo stato di figlio nato nel matrimonio per ogni figlio che nasce da donna coniugata:
non c’è bisogno di alcun riconoscimento del marito, che è padre di diritto.
Il legislatore ha disposto:
a. Il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio: non è quindi necessario, per attribuire la
paternità (nell’atto di nascita) al marito di una particolare coniugata, che egli dichiari di essere padre;
b. Si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni
dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio; tale
presunzione non opera decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale o dalla
omologazione di separazione consensuale.

Il termine iniziale è il momento delle nozze.


Si ha dunque una fondamentale presunzione legale di paternità al marito che si fonda:
a. Sulla nascita del figlio a partire dalle nozze per tutta la durata del matrimonio.
b. Sul concepimento “in costanza” di matrimonio.
Il termine di trecento giorni rifletto con larghezza il tempo di una gravidanza.
Quanto ai casi di separazione, divorzio, annullamento, la fine della presunzione si anticipa alla data della prima
comparizione dei giudici davanti al giudice, per evitare che durante il giudizio, il marito continui ad essere presunto
padre dei figli eventualmente nati dalla moglie. Il figlio nato oltre i termini della presunzione di concepimento può
sempre provare di essere stato concepito durante il matrimonio (azione di reclamo dello stato di figlio).
La presunzione di paternità è suscettibile di prova contraria, attraverso l’azione di disconoscimento della paternità.
La disciplina dell’azione di disconoscimento è stata completamente ridisegnata dalla riforma della filiazione.
Il nuovo art. 243 bis dispone semplicemente che chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto
di filiazione tra il figlio e il presunto padre.
La sola dichiarazione della madre non esclude la paternità.
La cassazione ha precisato che la presunzione di paternità del marito ha la funzione di integrare l’atto di nascita dal
quale risulti che il figlio è nato da donna coniugata. Perciò la presunzione non sorge quando dallo stesso atto di
nascita risulti che il figlio è stato dichiarato dalla madre come figlio naturale.

Un caso particolare di limitazione dell’azione di disconoscimento riguarda il caso di fecondazione eterologa.

La legittimazione ad agire e i termini dell’azione sono regolati dagli artt. 244-247. Possono agire: il marito entro un
anno dalla nascita (o dalla sua notizia) ovvero dal momento in cui sia venuto a conoscenza della propria impotenza o
dell’adulterio della moglie; il figlio entro un anno dalla maggiore età o dell’avvenuta conoscenza dei fatti sui quali si
basa l’azione; la madre entro sei mesi dalla nascita del figlio o dal momento in cui è venuta a conoscenza della
impotenza del marito. Se ad agire sono la madre o il marito di lei “l’azione non può essere comunque proposta oltre
cinque anni dal giorno della nascita”. Decorso tale termine, si realizza una sorta di “cristallizzazione” dello stato, con
conseguente sacrificio del principio di verità a favore della certezza e stabilità dello stato di figlio.

13. La filiazione fuori del matrimonio.


La situazione di fatto consiste in una procreazione da parte di un uomo e una donna che non sono tra loro sposati.
Un pieno rapporto giuridico di filiazione si costituisce solo per effetto di un atto volontario del genitore (atto di
riconoscimento) o di accertamento ad opera del giudice (dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità). Lo
status di figlio si collega soltanto alla filiazione riconosciuta o giudizialmente accertata. Per la madre non coniugata, la

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
maternità può risultare senza espressa dichiarazione della madre, per effetto della attestazione di avvenuta nascita e
successiva dichiarazione di nascita resa da altri soggetti legittimati.
La procreazione è comunque fonte di responsabilità per i genitori e di reciproci diritti del figlio.

Il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio è una dichiarazione di scienza con la quale una persona dichiara
di essere padre o madre di un’altra persona. È un atto unilaterale, ma può essere fatto congiuntamente dai due
genitori; è atto personalissimo; è un atto puro, che non sopporta condizione o termine; è atto irrevocabile. Sulla base
della dichiarazione si forma l’atto di nascita.

È inammissibile un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio nato nel matrimonio. Occorre prima far cadere lo
stato giuridico esistente e poi fare il riconoscimento. Neppure è possibile un riconoscimento in contrasto con lo stato
di figlio nato fuori del matrimonio.
Il riconoscimento è possibile anche se il padre e la madre, al tempo del concepimento, erano uniti in matrimonio con
persona diversa dall’altro genitore (c.d. “figlio adulterino”).
Riconoscimento dei figli nati da genitori che siano tra loro parenti o affini in linea retta oppure fratelli: è subordinato
alla previa autorizzazione del giudice che decide in base all’esclusivo criterio dell’interesse del figlio e della necessità
di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio giuridico.

Per riconoscere un figlio occorre di regola avere i 16 anni d’età. Si tratta di una capacità d’agire speciale e insieme di
una capacità giuridica speciale. La capacità è stata estesa anche a chi non ha 16 anni, condizionandola alla
autorizzazione del giudice che dovrà valutare le circostanze concrete in vista dell’interesse del minore.

La sola volontà del genitore che riconosce non è sempre sufficiente a produrre l’effetto del riconoscimento: il
consenso del figlio, maggiore dei 14 anni, è condizione di efficacia del riconoscimento. Se il figlio ha meno dei 14
anni, è necessario il consenso del genitore che lo abbia riconosciuto per primo. Il consenso non può essere rifiutato
se risponde all’interesse del figlio. In caso di rifiuto, il genitore che desidera riconoscere il figlio può fare un ricorso al
giudice. Si prevede che al genitore che ha riconosciuto per primo sia notificato il ricorso, e che entro 30 giorni possa
presentare opposizione. Se non lo fa, il giudice decide con una sentenza che tiene luogo del consenso mancante e
che si completa con tutti i provvedimenti necessari in ordine all’affidamento e al mantenimento del figlio e al suo
cognome. Solo una opposizione “palesemente fondata” può evitare questo esito: ma il giudice dovrà comunque
disporre l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di
discernimento. Se l’opposizione non risulta palesemente fondata, prenderà anche i provvedimenti provvisori e
urgenti al fine di instaurare la relazione con il secondo genitore.
Il riconoscimento deve essere posteriore alla nascita o al concepimento; è dunque possibile riconoscere un nascituro;
gli effetti pieni del riconoscimento sono “subordinati all’evento della nascita”, anche se la funzione propria al
genitore può esercitarsi anche nel periodo antecedente.
Può anche essere riconosciuto un figlio premorto.

Il riconoscimento può avvenire:


a. Nell’atto di nascita, con dichiarazione raccolta dall’ufficiale di stato civile
b. Con dichiarazione apposita, ricevuta dall’ufficiale di stato civile, giudice tutelare o da un notaio
c. Con un testamento
Nei primi due casi, il riconoscimento è sempre un atto pubblico; nell’ultimo, può essere anche una scrittura olografa
privata.

Gli effetti del riconoscimento possono essere eliminati solo con l’impugnazione, prevista nei casi di:
a. Difetto di veridicità, contrasto oggettivo con la verità dei fatti;
b. Violenza morale;
c. Interdizione giudiziale.
Non hanno rilevanza l’errore e il dolo; discussa è la rilevanza dell’incapacità naturale.

Si può costituire un rapporto giuridico di filiazione anche contro la volontà del genitore che non riconosce il figlio
tramite l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, che mira a una sentenza di accertamento da
trascrivere nei registri dello stato civile.
Per il caso in cui il genitore “contro” cui si agisce sia defunto e non vi siano eredi da chiamare in giudizio si è disposto
che l’interessato possa chiedere al giudice di nominare un curatore che sarà poi convenuto nel relativo giudizio; si
evita così che il diritto alla propria identità sia non azionabile.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Il figlio nato fuori del matrimonio è pienamente e a tutti gli effetti inserito nella rete di parentela. Il figlio nato fuori
del matrimonio da persona coniugata non può essere immesso nella casa familiare di quest’ultima se non con
autorizzazione del giudice, che può concederla solo se sussiste il consenso del coniuge e dei figli di età superiore ai
sedici anni e il consenso dell’altro genitore.

L’unificazione dello stato dei figli ha determinato una revisione di tutta la disciplina concernente l’attribuzione e
l’esercizio della responsabilità genitoriale in caso di figli nati fuori del matrimonio:
a. Il genitore che ha riconosciuto il figlio è investito della responsabilità genitoriale;
b. Se a riconoscere il figlio sono entrambi i genitori, a entrambi spetta l’esercizio di tale responsabilità;
c. Se uno dei genitori fosse escluso dall’esercizio della responsabilità, egli/ella conserva un potere di vigliare
sull’educazione, l’istruzione e le condizioni di vita del figlio.
Si afferma il diritto del minore a una effettiva “doppia” genitorialità.
Quanto al cognome, in caso di riconoscimento congiunto il figlio assume il cognome del padre. In caso di
riconoscimento separato, assume il cognome di chi lo ha riconosciuto per primo; ma se fosse stato riconosciuto
prima dalla madre, e poi dal padre, il figlio potrà assumere il cognome del padre e scegliere se anteporlo, posporlo o
sostituirlo a quello della madre. Il figlio nato fuori del matrimonio, nell’assumere il cognome del genitore che lo ha
riconosciuto, può ottenere dal giudice di mantenere il cognome già attribuitogli, se questo era diventato ormai un
segno distintivo della sua identità personale.

In tutti quei casi nei quali non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità si apre il
problema della tutela del minore dal punto di vista del suo diritto fondamentale al mantenimento, istruzione ed
educazione e dopo la maggior età per il diritto agli alimenti, a condizione che il diritto al mantenimento sia venuto
meno. Il figlio può allora agire in giudizio per ottenere che il giudice, condanni però il genitore a provvedere per il
mantenimento o gli alimenti. Il fatto della procreazione accettato solo incidentalmente è fonte dell’obbligo
contributivo.

14. L’adozione.
Rapporto giuridico di filiazione che non si fonda sulla procreazione, ma su un provvedimento di giurisdizione
volontaria, si parla di “filiazione civile”.

L’adozione dei minorenni riguarda i minori che siano dichiarati in stato di adottabilità dal Tribunale per i minorenni
perché si trovano in una situazione di abbandono, in quanto privi di assistenza morale e materiale.
Adottanti possono essere di regola solo due coniugi, il cui vincolo abbia dei caratteri di stabilità: essi debbono essere
uniti in matrimonio da almeno tre anni, e non essersi separati neppure di fatto negli ultimi tre anni.
Il singolo invece può adottare solo nei “casi particolari” previsti dall’art. 44.
Gli adottanti devono essere effettivamente idonei e capaci di educare, istruire, e mantenere i minori che intendono
adottare. Una stessa coppia di coniugi può adottare più bambini.
La differenza minima d’età tra adottanti e adottando è di diciotto anni; quella massima di quarantacinque. I limiti
d’età possono essere derogati quando la mancata adozione causerebbe un danno grave e non altrimenti evitabile
all’interesse del minore. L’adozione è, poi, possibile quando il limite massimo sia superato da uno solo degli adottanti
di non più di dieci anni, quando gli adottanti hanno già figli “naturali” o adottivi di cui almeno uno minorenne, o
quando l’adozione riguardi un fratello o una sorella di minore già da loro adottato.
Il minore che ha compiuto il quattordicesimo anno d’età non può essere adottato se non dà il proprio consenso: si
tratta di una vera capacità d’agire speciale. Deve essere personalmente sentito dal giudice anche l’adottando che ha
compiuto dodici anni così come il bambino che non abbia compiuto i dodici anni “in considerazione della sua
capacità di discernimento”.
Questa forma di adozione rescinde completamente i legami con la famiglia d’origine. Il minore invece acquista lo
stato di figlio legittimo degli adottanti ed è inserito nella famiglia degli adottanti in modo equivalente a quello di un
figlio legittimo, non solo nei rapporti con gli adottanti ma anche con i parenti degli adottanti (adozione legittimante).

La legge introduce una disciplina sistematica dell’affidamento dei minori. L’istituto si presta in certi casi a fungere da
vera e propria alternativa all’adozione, soprattutto quando quest’ultimo provvedimento non è di facile attuazione.
Forma particolare di affidamento è quella dell’affidamento preadottivo.

L’adozione dei maggiori d’età: lo scopo non è quello di dare una famiglia all’adottando ma di dare una discendenza.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
I legami con la famiglia d’origine non vengono recisi; l’adottando conserva i suoi diritti verso la famiglia di sangue e
allo stesso tempo acquista verso l’adottante diritti e obblighi equivalenti a quelli di un figlio legittimo. Nessun
rapporto si instaura con i parenti dell’adottante. L’adozione richiede il consenso dell’adottando.
Il limite minimo d’età per l’adottante si ritiene di 36 anni, senza possibilità di deroga.
È vietata l’adozione dei propri figli nati fuori dal matrimonio: lo strumento previsto è il riconoscimento.

Adozione in casi particolari: si tratta di ipotesi in cui non esistono situazioni familiari (orfano di padre e madre, il quale
abbia un parente che desidera adottarlo) che la legge ritiene adatte a giustificare l’adozione, ovvero quando il minore
sia affetto da handicap. In queste ipotesi, l’adozione è consentita anche a chi non è coniugato.
Circa il consenso dell’adottando, valgono le regole già dette, ma si prevede qui che se l’adottando, che può non
essere in stato di abbandono, non ha compiuti i 14 anni, debba essere sentito il suo rappresentante legale.
Riforma del 2001: ha accentuato le garanzie processuali per il minore, per i suoi genitori e parenti entro il 4° grado
che abbiano rapporti significativi con il minore, prevedendo che essi debbano essere avvertiti fin dall’inizio e invitati a
nominare un difensore o dotati di un difensore d’ufficio; ma ha meglio garantito anche i richiedenti, prevedendo che
debbano essere costantemente informati sul procedimento e vincolando i tempi di istruttoria a un termine massimo
di 120 giorni prorogabile non più di una volta.
Il minore deve essere informato della sua condizione adottiva da parte dei genitori. L’identità dei genitori biologici
può essere conosciuta dall’adottato solo dopo che ha compiuto i 25 anni, o dopo la maggior età per gravi ragioni
riguardanti la sua salute fisica o psichica, su autorizzazione del Tribunale per i minorenni.

L’adozione internazionale relativa a minori stranieri e ai provvedimenti di adozione o affidamento emessi da autorità
straniere. La legge italiana tiene fermi i requisiti previsti per i genitori ai fini dell’adozione interna. Chiave del sistema
è la dichiarazione di idoneità della coppia che sia dichiarata disponibile per l’adozione.
Una volta dichiarati idonei, gli aspiranti genitori devono conferire incarico a curare la procedura di adozione ad un
ente autorizzato ad operare in quest’ambito dalla Commissione per le adozioni internazionali.
Concluse le pratiche, l’ente trasmette gli atti alla Commissione, che dichiarerà che l’adozione risponde al superiore
interesse del minore e ne autorizza l’ingresso e la residenza permanente in Italia.
L’adozione pronunciata all’estero produce nell’ordinamento italiano gli effetti della adozione dei minori.

15. La famiglia di fatto.


L’espressione “famiglia di fatto” è entrata nell’uso corrente dei giuristi per indicare se ed in che limiti una convivenza
di tipo coniugale tra un uomo e una donna non uniti in matrimonio possa far nascere tra loro relazioni giuridiche e
divenire rilevante anche di fronte ai terzi.
La rilevanza giuridica si afferma da quando viene riconosciuta la possibilità di comprendere anche la famiglia di fatto
tra le formazioni sociali che l’art. 2 Cost. considera. Questo fondamento fa si che si guardi alla convivenza di fatto
come fonte di doveri morali e sociali di ciascun convivente nei confronti dell’altro, e quindi come fonte di obbligazioni
naturali. Così, il mantenimento spontaneamente prestato da un convivente all’altro è ricostruito dalla giurisprudenza
come adempimento di un’obbligazione naturale.
Il legame di fatto è inoltre valorizzato per escludere che il convivente sia terzo in relazioni che riguardano il partner.

Il legislatore ha espressamente sancito taluni diritti di natura personale e patrimoniale dei conviventi di fatto, indicati
come due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affittivi di coppia e di reciproca assistenza morale e
materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio, o da un’unione civile.
La convivenza deve essere stabile, connotata da rapporti affettivi di coppia, caratterizzata da reciproca assistenza.
Per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica, ossia della comune
dichiarazione con cui si forma, ai soli fini anagrafici, la “famiglia anagrafica”. Agli effetti anagrafici per famiglia si
intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli
affettivi, coabitanti ed aventi dimora nello stesso comune.

Gli effetti della convivenza di fatto secondo la legge. Il legislatore ha stabilito che in caso di malattia o di ricovero, i
conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza, nonché di accesso alle informazioni personali.
Inoltre, ognuno dei conviventi può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati: a) in caso di
malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute; b) in caso di morte,
per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie. La
designazione deve avere luogo in forma scritta e autografa oppure, in caso di impossibilità di redigerla, alla presenza
di un testimone.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
In caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell’individuazione del danno
risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge
superstite.
Nei casi di morte del conduttore o di un suo recesso dal contratto di locazione dalla casa di comune residenza, il
convivente di fatto ha facoltà di succedergli nel contratto.
In caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, il convivente di fatto superstite ha diritto di
continuare ad abitare nella stessa, per un periodo variabile tra i due e i cinque anni, a seconda della durata della
convivenza e dell’eventuale presenza di figli minori o disabili che coabitino insieme al convivente superstite.

Cessazione della convivenza di fatto: il giudice riconosce al convivente che si trovi in stato di bisogno e non sia in
grado di provvedere al proprio mantenimento il diritto agli alimenti, per un periodo proporzionale alla convivenza.

Tramite i contratti di convivenza, i conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita
in comune. Questi devono essere redatti, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata. Il
contratto è affetto da nullità insanabile e assoluta se:
a. stipulato in presenza di un vincolo coniugale, unione civile o di un altro contratto di convivenza;
b. concluso fra due persone che non possono definirsi conviventi di fatto;
c. concluso da minore;
d. concluso da interdetto giudiziale;
e. in caso di condanna di uno dei conviventi per omicidio tentato o consumato sul coniuge dell’altro;
La risoluzione del contratto può avere luogo per accordo delle parti, per recesso unilaterale, per successivo
matrimonio o unione civile tra i conviventi stessi o tra uno di essi e un’altra persona o per morte di una delle parti.

16. Gli alimenti.


Artt. 433 e ss. disciplinano l’obbligo alimentare.
Il primo obbligato agli alimenti è, nei limiti di quanto ha ricevuto, il donatario. La donazione obnuziale e quella
remuneratoria non generano obblighi alimentari. Oltre al coniuge o alla persona unita civilmente, sono obbligati i più
stretti parenti ed affini secondo un ordine che consente a chi è più in basso nella scala di rifiutare la prestazione se
uno degli obbligati che sono più in alto è in condizione di poter somministrare gli alimenti.
Caratteristica fondamentale è lo stato di bisogno: non essere in grado di provvedere al proprio mantenimento.
Alimenti e mantenimento: l’area dei bisogni di cui si tiene conto negli alimenti è quella dei bisogni essenziali, nel
mantenimento invece tutta l’area dei bisogni che normalmente si soddisfano in rapporto alle condizioni economiche
e sociali delle parti.
I genitori sono tenuti a mantenere i figli fino alla maggior età e oltre, fino al termine degli studi.
Per quanto riguarda i coniugi separati il coniuge che non ha mezzi sufficienti può chiedere un assegno di
mantenimento, ma, se la separazione gli è addebitata, non ha diritto che agli alimenti.

CAP. 45.
LE SUCCESSIONI A CAUSA Dl MORTE
1. Gli effetti della morte. La successione.
Catalogare gli effetti della morte non è cosa breve. Vi sono rapporti che si estinguono (come il coniugo); vi sono diritti
che non si trasmettono (come il diritto agli alimenti, il diritto di usufrutto o di abitazione, i diritti legati a contratti che
hanno causa nella fiducia, come il contratto d’opera o di lavoro); vi sono interessi personali la cui cura è rimessa ai
discendenti (come il diritto morale d’autore). La sfera patrimoniale, salvo poche eccezioni di cui diremo, è
considerata oggetto di successione.

Tutto il diritto di successione è retto da due principi fondamentali: la libertà testamentaria e la trasmissione familiare
della ricchezza.
• In base al primo principio si riconosce ad ogni persona il potere di stabilire la sorte dei propri beni per il
tempo in cui avrà cessato di vivere, (art. 587). Riconoscendo e garantendo la successione testamentaria. La
persona detta legge riguardo alla sistemazione dei propri interessi, oltre il confine della vita;
• Il secondo principio si sviluppa in due direzioni:
In mancanza di testamento si fa luogo ad un sistema di successione legittima tra i parenti: le diverse
categorie di successori legittimi, fino al sesto grado di parentela, sono collocate in gradini successivi ai fini

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
della distribuzione delle sostanze del defunto, secondo un criterio-base per cui il più prossimo esclude i più
lontani. Solo se mancano i parenti entro il sesto grado succede lo Stato.
In secondo luogo, anche contro la volontà testamentaria o le liberalità disposte in vita, una quota di beni
(detta indisponibile) è riservata dalla legge ad alcuni stretti congiunti, detti legittimari: il coniuge, i figli, gli
ascendenti in mancanza di figli.
Non tutte le “sostanze” di una persona sono oggetto della normale successione ereditaria. Vi sono cespiti patrimoniali
per i quali il legislatore ha stabilito regole speciali di attribuzione e di distribuzione per il caso di morte.
Le indennità cui il lavoratore dipendente ha diritto in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro sono devolute ai
superstiti secondo regole particolari; regole speciali valgono per la successione nei diritti derivanti dal contratto di
locazione di immobili urbani o di affitto dei fondi rustici; e così via: si realizzano in questo modo fenomeni di
“successione anomala”.

Il sistema del diritto successorio è ritenuto materia di ordine pubblico, indisponibile da parte dei privati. Il legislatore
predispone gli strumenti dell'autonomia: testamento, accettazione o rinunzia all'eredità. Ma fuori da questi canali
non c'è spazio alle scelte private. Una delle regole fondamentali è, infatti, il divieto di patti successori. È patto
successorio vietato, e come tale nullo:
a. Qualsiasi convenzione con cui una persona dispone della propria successione (impegnandosi a lasciare certi
beni a certe persone, a escludere qualcuno, a preferire una persona piuttosto che un'altra ecc.).
b. Qualsiasi atto con cui un soggetto dispone dei diritti che gli potranno spettare in una futura successione
altrui o rinuncia ai medesimi diritti.

Una parziale deroga al divieto di patti successori è la possibilità di regolare con contratto (detto patto di famiglia) il
trasferimento dell'azienda relativa ad una impresa familiare o le partecipazioni societarie di cui l'imprenditore sia
titolare, a favore di uno o più discendenti. Condizione di validità del contratto, oltre la forma dell'atto pubblico, è la
partecipazione all'atto del coniuge e di tutti coloro che sarebbero legittimari.
Questa possibilità non è aperta a chi imprenditore non è.

2. L’oggetto della successione: l’eredità e il legato.


Oggetto della successione a causa di morte è la totalità dei rapporti trasmissibili, attivi e passivi, di cui una persona è
titolare al momento della morte. Tutti questi rapporti, considerati come un insieme, formano l'asse ereditario. Essi
formano l’eredità del de cuius (defunto): in quanto oggetto unitario della successione, sono considerati come
universalità di diritto.
La successione nell'eredità è successione a titolo universale.
Erede è quindi colui che succede al defunto nella totalità dei rapporti che a lui facevano capo, o in una quota
matematica del tutto.
L’erede subentra perciò sia nei rapporti attivi sia nei rapporti passivi. Una volta acquistata l’eredità, beni e debiti di
provenienza ereditaria sono ormai elementi del patrimonio dell’erede, senza distinzione rispetto ai beni e ai debiti di
cui egli fosse già titolare (si verifica insomma la confusione dei patrimoni).

È però possibile che singoli beni del defunto vengano “staccati” dall'eredità e assoggettati a una successione a titolo
particolare. Ciò avviene nel legato, che è l’attribuzione, fatta per testamento, di un bene determinato o di una
quantità di beni fungibili. Si parla di legato ex lege quando una norma giuridica dispone, per il caso di morte, una
successione a titolo particolare in un determinato diritto (l’assegno al coniuge separato con addebito).

3. Apertura della successione. Delazione. Vocazione.


Con la morte della persona si verifica l'apertura della successione. Prima della morte, infatti, l'intero sistema
successorio è del tutto inerte (non si può parlare nemmeno di aspettativa). Con la morte la successione "si apre", nel
senso che prendono vigore le norme che regolano la successione.
La morte fissa definitivamente lo stato dei fatti, da cui dipende la sorte della successione.
È, dunque, possibile parlare di un vero e proprio titolo a succedere per i soggetti indicati dalla legge o dal testamento
come eredi: questo titolo è la vocazione dell’eredità.
Si distingue tra vocazione legittima (quando è prevista dalla legge) e vocazione testamentaria (titolo a succedere è il
testamento).

L'apertura della successione rende efficacie la vocazione: i soggetti che hanno titolo vengono chiamati all'eredità. Ciò
significa che l’eredità è loro offerta o, come dice il codice, si devolve loro; è questa la delazione dell’eredità.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Alla posizione di chiamato legge attribuisce il potere di compiere atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione
temporanea dell'eredità, e di esercitare le azioni possessorie, anche se non è possessore effettivo dei beni.

4. I titoli di successione.
La successione legittima è la successione regolata dalla legge, a cui si fa luogo quando manca in tutto o in parte il
testamento. Successori legittimi sono quei soggetti che, in caso di morte di una persona che non abbia fatto
testamento o che non abbia disposto di tutti i suoi beni, hanno titolo a succedere in base a una delle norme che
regolano la successione legittima.

La legge stabilisce un rapporto di subordinazione della successione legittima alla successione testamentaria: le
regole sulla successione legittima hanno valore di norme suppletive, che si applicano solo in quanto non sia prevista
una soluzione nell’ambito dell’autonomia testamentaria.

La successione testamentaria, invece, è la successione regolata dal testamento, cioè da quell' “atto revocabile con il
quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere di tutte le proprie sostanze o di parte di esse”.
Successione legittima e successione testamentaria possono anche combinarsi: quando il testamento non risolve tutti
i problemi della successione si applicano le regole della successione legittima.
Nasce qui il problema della diseredazione: se cioè sia possibile fare un testamento che abbia contenuto solo
l’esclusione di un successore legittimo (non di un legittimario). È possibile.

I legittimari sono alcuni stretti congiunti: il coniuge o la persona unita civilmente, i figli, gli ascendenti (solo in
mancanza di figli). A questi la legge riserva una quota del patrimonio al netto dei debiti.
Si parla, in questo caso, di successione necessaria (o nella legittima).

5. Capacità di succedere e indegnità.


Primo requisito perché si realizzi la successione è che il chiamato sia capace di succedere e di acquistare l’eredità o il
legato. Ritornano qui le due grandi categorie della capacità: aspetti della capacità giuridica sono la capacità a
succedere e, salvo quanto diremo a suo tempo, la capacità di ricevere per testamento; un aspetto della capacità di
agire è invece la capacità di accettare l’eredità.

Per quanto riguarda le persone fisiche, assume qui rilievo la capacità del nascituro: secondo il codice sono capaci di
succedere tutti coloro che sono nati o concepiti al momento dell’apertura della successione; opera qui la presunzione
di concepimento: si riterrà già concepito al momento della morte chi sia nato entro i 300 giorni da tale data.
Nel caso di vocazione testamentaria, è valida anche l’istituzione di erede o il lascito di un legato a favore di un
beneficiario non ancora concepito, purché figlio di una persona determinata, vivente al tempo della morte del
testatore.

Il Codice civile stabilisce alcuni casi di incompatibilità. Il tutore, il notaio che ha ricevuto testamento, i testimoni, il
redattore di un testamento segreto, non possono ricevere da un determinato testatore o in base a un determinato
testamento. Il divieto determina la nullità della disposizione, estesa anche alle disposizioni fatte in frode a questi
divieti, fatte cioè a favore di persone interposte.

Diversa dall’incapacità è l’indegnità a succedere, che colpisce l’erede (legittimo o testamentario che sia) e il legatario
che abbiano compiuto azioni particolarmente gravi contro il defunto; è inoltre escluso dalla successione del figlio, in
quanto indegno, il genitore che sia decaduto dalla responsabilità genitoriale, salvo che sia stato reintegrato della
responsabilità medesima al momento dell’apertura delle successione.
L’indegno può essere riammesso alla successione se la persona, di cui la successione si tratta, lo “riabilita”
espressamente con atto pubblico, e anche tacitamente con un testamento fatto quando conosceva le cause
dell’indegnità.

Nel 2018 è stato introdotto nel Codice civile l’art. 463 bis, in base al quale sono sospesi dalla successione il coniuge,
anche legalmente separato, nonché la parte dell’unione civile, che sia stato indagato per l’omicidio volontario o
tentato nei confronti dell’altro coniuge o dell’altra parte dell’unione civile, fino al decreto di archiviazione o alla

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
sentenza definitiva di proscioglimento. In caso di sospensione della successione, si fa luogo alla nomina di un
curatore. In caso di condanna, il responsabile è escluso dalla successione.
Tali previsioni trovano applicazione anche nei casi di persona indagata per l’omicidio volontario o tentato nei
confronti di uno o entrambi i genitori, del fratello o della sorella.

6. La vocazione legittima.
L'art. 565 elenca le categorie successibili per vocazione legittima: il coniuge, i discendenti, gli ascendenti, i collaterali,
gli altri parenti ed infine Io Stato. Ricordiamo che la persona unita civilmente al de cuius è in tutto equiparata al
coniuge.
Il codice regola in tre diversi capi la “successione dei parenti”, la “successione del coniuge” e la “successione dello
Stato”.
a. Nell'ambito dei parenti, la posizione più favorita è quella dei figli del defunto, anche adottivi. La presenza dei
figli esclude tutti gli altri parenti in linea retta o collaterali. Con i figli concorre però il coniuge (o la persona
unita civilmente). Da sottolineare che il generico riferimento ai figli adottivi nasconde in realtà diverse
posizioni: nel caso di adozione di maggiori d’età, i figli adottivi rimangono estranei alla successione dei
parenti dell’adottante; la regola non vale invece per l’adozione dei minori d’età.
I figli non riconoscibili sono esclusi dall’eredità. Ad essi però il codice riconosce il diritto a un assegno
vitalizio, pari alla rendita della quota cui avrebbero diritti se la filiazione fosse riconosciuta o dichiarata.
b. La presenza del coniuge (o persona unita civilmente) basta da sola (in mancanza di figli) a escludere tutti i
parenti collaterali oltre il secondo grado; il coniuge concorre invece con i fratelli e gli ascendenti. Al coniuge
è anche riservato il diritto di abitazione nella casa familiare e di uso dei mobili che la corredano.
Il coniuge separato senza addebito conserva i suoi diritti successori, che perde soltanto con sentenza di
divorzio; il coniuge separato con addebito invece ha diritto ad un assegno alimentare, quando già in vita
avesse ottenuto gli alimenti. Il coniuge divorziato se si trova in istato di bisogno può chiedere al giudice di
attribuirgli un assegno a carico dell’eredità, se non risposato.
c. I fratelli e le sorelle concorrono, oltre che con il coniuge (o persona unita civilmente), con i genitori e gli
ascendenti. La presenza di fratelli e sorelle, invece, esclude tutti gli altri collaterali.
I fratelli unilaterali (fratellastri) hanno diritto alla metà della quota che spetta a quelli germani (figli degli
stessi genitori).
d. I parenti collaterali dal terzo al sesto grado succedono solo in mancanza di figli, genitori o ascendenti,
coniuge o fratelli. La successione dei parenti è regolata dal principio: il prossimo esclude il remoto, si regola
la devoluzione dell’eredità a parenti di grado via via più lontano, fino al 6°; dopo succede lo Stato.
e. Lo Stato è un erede particolare, non ha bisogno di accettazione, e non risponde dei debiti ereditari oltre il
valore dei beni acquistati.

7. La vocazione testamentaria.
Il Codice civile definisce il testamento come “l'atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà
cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o parte di esse”. Il testamento è dunque anzitutto un atto a contenuto
patrimoniale, che ha la funzione di determinare la sorte delle sostanze del testatore.

Le disposizioni testamentarie che assolvono questa funzione sono (c.d. contenuto tipico del testamento):
• l'istituzione di erede: ciò che lo distingue è l’intento di designare una persona (o più di una) come proprio
“successore”, destinato non a raccogliere un singolo lascito, ma a sostituire il testatore come titolare del
patrimonio, per l’intero o per una quota. L’istituzione di erede può essere esplicitamente formulata, o
risultare da espressioni diverse. Può risultare dal lascito della totalità dei beni o di quote indicate con frazioni
o percentuali, purché sia chiaro che il testatore considera i lasciti come strumentali al fine di attribuire una
quota dell’asse.
• Il legato è il lascito testamentario di un singolo cespite patrimoniale. Distinguiamo:
- il legato di specie: ha per oggetto la proprietà di cosa determinata o un altro diritto (es. credito) del
testatore; l’effetto di questo tipo di legato è la successione del legatario al defunto nella titolarità del
diritto, mentre sorge un obbligo di consegna della cosa a carico dell’erede.
- Il legato di genere: ha per oggetto una somma di denaro, o una quantità di cose fungibili, esistenti o non
esistenti nel patrimonio del testatore; ne nasce un debito a carico dell'onerato e un credito in capo al
legatario.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
- Gli altri legati: il testatore può attribuire per legato un diritto reale limitato su cosa dell'asse; il legato di
debito (il legatario viene liberato da un debito che aveva nei confronti del de cuius, ha l’effetto di
estinguere il credito esistente nel patrimonio del testatore); legato di alimenti.
Il legato può essere a carico di un singolo erede, di più eredi, di tutti i coeredi, o anche di un legatario (sublegato).
Il legato può essere disposto anche a favore di uno degli eredi: si chiama allora prelegato, perché prima della
divisione tra i coeredi va detratto dall’asse, e quindi è a carico di tutti gli eredi, compreso il beneficiario.
Gli eredi rispondono dei legati anche oltre il valore dell’asse ereditario, a meno che non abbiano accettato l’eredità
con beneficio di inventario. Nel caso in cui, dopo l’accettazione dell’eredità, si scopra un testamento di cui non si
aveva notizia, l’erede non è tenuto a pagare i legati oltre il valore dell’asse ereditario.
Se invece è onerato un legatario (sublegato), la responsabilità è limitata al valore del lascito di cui gode l’onerato.
Il beneficiario di un legato non risponde dei debiti del defunto. Può essere però che il legato abbia ad oggetto un
immobile ipotecato a garanzia di un debito del defunto; in questo caso il legatario subisce l’azione esecutiva, ma può
subentrare nei diritti dei creditori verso gli eredi.

L’onere o modo è un obbligo imposto al beneficiario di una liberalità, che limita la disposizione liberale. Il modus si
distingue dal legato perché i beneficiari non sono singoli soggetti determinati. Perciò per l’adempimento dall’onere
può agire qualsiasi interessato. Come modus sono trattate le disposizioni a favore dell’anima e le disposizioni a favore
dei poveri.
Si distingue dalla condizione perché il modus obbliga, ma non sospende l’attribuzione principale. L‘inadempimento
del modus può avere un effetto risolutivo (quasi come la condizione risolutiva) quando il testatore lo abbia previsto,
o quando comunque risulti che l’adempimento dell’onere era stato il solo motivo a determinare la disposizione
principale.

Mentre il legato sopporta sia la condizione sia il termine, l'istituzione di erede può essere sottoposta a condizione
sospensiva o risolutiva, ma non a termine.
Sono considerate come non apposte le condizioni impossibile o illecite, a differenza di quanto accade nel contratto. La
condizione illecita però può costituire il solo motivo che ha indotto il testatore a disporre; in tal caso, la fattispecie
coincide con quella del motivo illecito, che è causa di nullità della disposizione testamentaria quando sia l’unico
determinante. Di alcune condizioni la legge prevede espressamente l’illeceità: così per la condizione di reciprocità
(che limita la libertà testamentaria) e la condizione che impedisce le nozze (che limita la libertà matrimoniale).

Tutte queste disposizioni costituiscono il contenuto tipico del testamento.


La legge però ammette che l’atto di ultima volontà possa regolare interessi non patrimoniali, come quelli relativi al
diritto morale d'autore (divieto di pubblicare scritti) o al riconoscimento del figlio: contenuto atipico del testamento,
estraneo cioè alla funzione primaria dell’atto. Un atto di ultima volontà, che abbia i requisiti formali propri al
testamento, è valido anche se il suo contenuto è solo quello atipico.
Il contenuto atipico, in quanto estraneo alla funzione primaria dell’atto, non sottostà interamente alle regole che
valgono per il testamento in senso stretto: così, il testamento è sempre revocabile, ma il riconoscimento di un figlio
contenuto in un testamento rimane efficace anche se il testamento rimane revocato.

8. Il testamento come atto di ultima volontà.


L’art. 587 definisce il testamento come atto revocabile. La revocabilità è un aspetto essenziale della libertà
testamentaria, principio fondamentale del nostro sistema successorio: fino all’ultimo il testatore può pentirsi delle
sue disposizioni e farle cadere o sostituire.
La revoca può essere espressa, quando consiste in una dichiarazione con cui il testatore manifesta esplicitamente la
volontà di revocare le disposizioni già assunte (come quella contenuta in un testamento successivo o in un atto
ricevuto da notaio in presenza di due testimoni) o tacita, quando risulta da incompatibilità tra le disposizioni di
contenute in un testamento e le disposizioni di un testamento successivo.
Forme di revoca tacita, sono anche la distruzione del testamento olografo o il ritiro del testamento segreto.
La revoca può riguardare anche solo parte del testamento, quindi la successione può essere regolata da più
testamenti. Infine, la legge dispone una revoca di diritto (revocazione) in caso di sopravvenienza di figli: si tratta del
caso in cui nasca un figlio di una persona che, al tempo del testamento, non aveva né figli, né discendenti e del caso
in cui chi ha testato quando non aveva i figli, riconosca poi un figlio. La revocazione opera anche se il figlio
sopraggiunto fosse già concepito al tempo del testamento.
Il testamento è un atto unipersonale, pertanto non è ammesso il testamento congiuntivo (fatto da più persone, in un
unico atto, a favore di terzi beneficiari) né il testamento reciproco (fatto da più persone, in un unico atto, l’una a
favore dell’altra).

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato

Sono legalmente incapaci di testare solo il minore d'età e l'interdetto per l'infermità di mente. Sono invece
legalmente capaci l'inabilitato, il soggetto sottoposto ad amministrazione di sostegno e l'interdetto legale.
Incapace è anche chiunque si trovi, per qualsiasi causa anche transitoria, in condizioni di incapacità di intendere o di
volere nel momento in cui fa testamento.

La forma più semplice di testamento è quella dell'olografo: è un atto scritto di pugno dal testatore, datato e
sottoscritto. Il vantaggio è che solo il testatore ne è a conoscenza, ma lo svantaggio è che può andare distrutto.
Questo pericolo si evita con il testamento pubblico, cioè redatto dal notaio che riceve la dichiarazione del testatore
davanti a due testimoni, le rilegge e le sottoscrive con il testatore e i due testimoni: la copia del testamento è
conservata nell’archivio notarile, in più di vantaggio è anche l’opera del professionista che conosce i problemi tecnici
e può suggerire la più chiara formulazione di volontà.
I vantaggi della riservatezza, della certezza della data e della sicura conservazione si cumulano nel testamento
segreto, scritto a macchina o da persona diversa dal testatore, sottoscritto da lui e consegnato in busta sigillata dal
testatore in persona, davanti a due testimoni e al notaio. Il notaio annota tutto ciò che è accaduto davanti a lui, pone
la data e sottoscrive con il testatore e i testimoni.
Il testamento segreto ritirato conserva la validità se ha i requisiti formali di quello olografo, altrimenti il ritiro equivale
a revoca tacita.
Entrambi questi testamenti non possono essere eseguiti fintanto che non è stata effettuata la pubblicazione davanti
ad un notaio.

L’Italia nel 1973 ha aderito alla Convenzione di Washington sul testamento internazionale. Si tratta di un accordo
diretto a istituire un diritto successorio uniforme all’interno di diversi Stati, in modo da evitare problemi di conflitti di
leggi. Il testamento internazionale deve essere redatto per iscritto, senza necessità di autografia. Quindi alla presenza
di una persona "abilitata" (in Italia il notaio) e di due testimoni, il testatore deve dichiarare che il documento redatto
è il suo testamento; deve poi sottoscriverlo e ricevere poi un attestato dalla persona abilitata.

I c.d. testamenti speciali, previsti solo in caso di: a) malattie contagiose, calamità pubbliche, infortuni; b) durante un
viaggio per mare o in aereo; c) da parte di militari o persone al seguito delle forze armate in tempo di guerra. ln tutti
questi casi sono competenti a redigere il testamento figure come il sindaco, il giudice, un ministro del culto nel caso
a), il comandante della nave o dell'aereo nel caso b), gli ufficiali o cappellani militari nel caso c).
Hanno efficacia temporanea: perdono effetto tre mesi dopo che è cessata la situazione nella quale sono ammessi.

La disciplina dei vizi è un po' diversa da quanto abbiamo già studiato nel contratto.
La distinzione tra nullità e annullabilità si riproduce nel testamento, ma con criteri in parte diversi da quelli del
contratto.
È causa di nullità il difetto di forma (come la mancanza di autografia nell’olografo). La mancanza di data però produce
la sola annullabilità.
Quando sia nullo, per difetti di forma, un testamento segreto, è possibile una conversione formale dell'atto: se il
testamento consegnato al notaio è scritto di pugno dal testatore, datato e sottoscritto, esso vale come testamento
olografo.
È utile distinguere la nullità dall’inesistenza. Infatti, il testamento nullo può essere spontaneamente eseguito, ed in
tal caso la nullità non può essere fatta valere se chi vi ha dato volontaria esecuzione conosceva la causa di nullità.
Invece, un testamento inesistente (come un testamento orale) non consentirebbe l'applicazione di questa regola.
Il testamento può essere nullo anche per l'illiceità. Cause di illiceità delle disposizioni testamentarie, espressamente
previste, sono il motivo illecito, la condizione illecita e l'onere illecito. il motivo illecito rende nullo il testamento solo
se è l'unico che ha determinato il testatore a disporre. La stessa regola è richiamata per la condizione illecita (a
differenza del contratto, non è sempre causa di nullità) e per l’onere illecito.

Si ha fiducia testamentaria quando il testatore nomina erede o legatario un Tizio, che si impegna verso di lui, con
patto fiduciario, a ritrasferire i beni a un’altra persona. Il patto è nullo perché cade sotto il divieto dei patti successori.
La fiducia può essere provata al fine di dimostrare la nullità del testamento, quando sia diretta a eludere la norma
che stabilisce l’incapacità a ricevere per testamento, tramite l’interposizione di persona.

Quanto alle cause di annullabilità, l’intero testamento può cadere per incapacità legale o naturale.
I vizi del volere come cause di annullamento delle disposizioni testamentarie sono tutti e tre previsti.
L’errore che incide sulla formazione della volontà ha però qui più ampia rilevanza che non nel contratto; non si pone

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
un problema di protezione dell’affidamento, né si si riscontrano quelle esigenze di velocità e scurezza del traffico
giuridico che portano il legislatore ad escludere la rilevanza del motivo erroneo nel contratto.
Perciò l’errore sui motivi è causa di annullamento, purché risulti dallo stesso testamento e sia il solo motivo che ha
determinato la volontà di disporre.
Quanto all'errore ostativo, la legge tiene conto dell'eventualità che la volontà del testatore, erroneamente
manifestata, possa essere ricostruita, e prevede quindi che la disposizione testamentaria abbia effetto, quando dal
testamento risultano in modo non equivoco le volontà del testatore.
Per la violenza si fa riferimento alla normativa prevista per il contratto, ma in questo caso si ha maggiore riguardo alla
sensibilità della persona che subisce la minaccia a causa dell’esigenza di protezione dell’ultima volontà del testatore.
Anche il dolo acquista un'estensione maggiore. Oltre che al vero e proprio raggiro, è rilevante il comportamento di
chi si adopera, con suggestioni, per guidare la volontà del testatore in direzioni che altrimenti non seguirebbe
(captazione ).
Rimangono da sottolineare due regole relative alle azioni annullamento e nullità. L'annullabilità è assoluta: l'azione
può essere esperita da chiunque vi abbia un legittimo interesse.
Si ricordi poi la particolare ipotesi di preclusione dell’azione di nullità (e, secondo l’opinione prevalente, di
annullabilità): chi abbia dato spontaneamente esecuzione a una disposizione testamentaria nulla, conoscendo la
causa di nullità, non può far valere l’invalidità.

Il testamento diviene efficace con l’apertura della successione; ma diversa dall’efficacia è la sua eseguibilità, cioè la
possibilità di pretendere l’esecuzione di quanto disposto.
Nel caso del testamento pubblico, efficacia del titolo ed eseguibilità coincidono con l'apertura della successione. Nel
caso del testamento olografo e del testamento segreto, invece, l'eseguibilità è subordinata alla pubblicazione da
parte di un notaio, che richiede la stesura di un verbale, in cui si descrive lo stato del testamento e si riproduce il suo
contenuto; al verbale è unito l’estratto dell’atto di morte o della dichiarazione di morte presunta; copia di tutti gli atti
è trasmessa alla cancelleria del tribunale.

Il testatore può nominare un esecutore testamentario, il cui compito è di curare che siano esattamente attuate le
ultime volontà del defunto.

9. I diritti dei legittimari.


Al coniuge (o la persona unita civilmente), ai figli e, in mancanza di figli, agli ascendenti, la legge riserva una quota
delle sostanze del defunto, da un minimo di metà a un massimo di tre quarti a seconda dei casi, indisponibile da
parte del titolare sia per testamento, sia per donazione tra vivi.
La quota indisponibile è detta legittima; i soggetti cui essa è riservata sono i legittimari; alle regole che li tutelano ci si
riferisce con l’espressione “successione necessaria”.

La quota indisponibile si calcola su una base data dalla somma:


a) Del valore dei beni che il defunto ha lasciato alla morte, detratti i debiti;
b) Del valore dei beni usciti dal patrimonio del defunto durante la vita per effetto di donazioni.
Questa operazione contabile si chiama riunione fittizia.

I legittimari agiscono in riduzione contro le disposizioni che hanno determinato la lesione: e perciò prima contro le
istituzioni d’erede o i legati fatti col testamento (in proporzione al valore di ciascuno) poi contro le donazioni,
risalendo dall’ultima all’indietro. L’azione può portare alla restituzione in natura dei beni acquistati dai legatari o dai
donati o invece il diritto del legittimario di conseguirne il valore in denaro.
Se il donatario ha a sua volta alienato il bene donato, il legittimario deve prima cercare di ottenere dal donatario il
valore del bene, e sole se l’escussione è inutile può chiedere al terzo la restituzione del bene o il suo valore.
Tuttavia, l’azione di restituzione può essere esperita solo se non sono trascorsi vent’anni dalla trascrizione della
donazione, a meno che il coniuge o i parenti in linea retta del donante abbiano notificato e trascritto nei registri
immobiliari (nei confronti del donatario e dei suoi aventi causa) un atto stragiudiziale di opposizione.

Prima condizione, per poter agire in riduzione, è l’imputazione alla quota di legittima dei legati e delle donazioni
ricevute dal legittimario (imputazione ex se).

Una particolare condizione limita il diritto del legittimario ad agire in riduzione contro persone diverse dai coeredi:
egli deve prima accettare l’eredità con beneficio di inventario. Senza l’inventario, i terzi estranei non hanno modo di

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
verificare lo stato patrimoniale dell’eredità (cosa che può fare un chiamato) e quindi l’effettiva sussistenza della
lesione.

Sia la quota indisponibile nel suo insieme, sia le quote che spettano ai singoli legittimari variano a seconda della
composizione del gruppo familiare.
Se il genitore lascia un solo figlio, questi ha diritto a metà dell’attivo; se i figli sono di più, la quota riservata loro è di
due terzi; il coniuge (o la persona unita civilmente), se solo, ha diritto ha metà del patrimonio e alla stessa quota ha
diritto se concorre con gli ascendenti, ai quali va in questo caso un quarto dell’attivo; in caso di concorso di coniuge e
un figlio, ciascuno spetta un terzo; se concorrono più figli e il coniuge, ai figli va la metà, al coniuge un quarto; gli
ascendenti, da soli, hanno diritto a un terzo del patrimonio.

Al coniuge o alla persona unita civilmente spetta, oltre alla quota percentuale dell’attivo, il diritto di abitazione sulla
casa adibita a residenza familiare e il diritto d’uso dei mobili che la corredano. Si tratta di legati ex lege.
Il coniuge separato senza addebito conserva i diritti successori. Se invece gli è stata addebitata la separazione, ha
diritto come legittimario a un assegno vitalizio se godeva degli alimenti al momento della morte.

Il testatore può estromettere i legittimari dall’eredità, rispettando i loro diritti, disponendo in loro favore un legato in
sostituzione di legittima. Si tratta di un lascito a titolo particolare, che dal testamento risulta attribuito in sostituzione
della legittima. Ne deriva una scelta per il legittimario: o rifiutare il legato, e chiedere la legittima, o conseguire il
legato, ma non far valere il diritto alla legittima e non diventare erede.
Diversa è la situazione se il testatore dispone sì di un legato a favore del legittimario, ma non risulta una volontà di
stabilire un’alternativa tra lascito a titolo particolare e diritto alla legittima. In questo caso, vale la regola per cui il
legato deve essere imputato alla quota di legittima e perciò il suo valore riduce, o elimina, la lesione dei diritti del
legittimario: il legato è dunque in conto di legittima.

10. L’acquisto dell’eredità e del legato.


La delazione dell’eredità fa nascere nel chiamato il diritto di accettare.
L’acquisto dell’eredità, però, si consegue solo con l’accettazione, anche se l’effetto retroagisce al momento
dell’apertura della successione.
L’accettazione è un atto unilaterale, puro (non sopporta condizione o termine), non può essere parziale, ed è
irrevocabile.
L’accettazione è espressa quando il chiamato dichiara in un atto scritto di voler accettare l’eredità o quando, sempre
per iscritto, assume il titolo di erede.

La legge prevede alcune ipotesi di accettazione tacita, come, per esempio, nel caso in cui il chiamato compia atti
incompatibili con la volontà di rinunciare.
Di più, anche il solo silenzio del chiamato vale come accettazione, quando egli sia nel possesso dei beni ereditari e
lasci passare tre mesi dalla morte senza fare l’inventario dei beni, o senza rinunciare all’eredità: in questo caso, più
che di accettazione tacita, si deve parlare di presunzione assoluta, o di finzione di accettazione.
La stessa rinunzia, fatta verso corrispettivo, o a favore di alcuni soltanto dei chiamanti, vale come accettazione.

Il diritto di accettare si prescrive nel termine ordinario di dieci anni, che decorre dalla delazione dell’eredità (che
coincide con l’apertura della successione).
L’attesa però può contrastare con gli interessi dei chiamati ulteriori, che verrebbero all’eredità se il primo non
accettasse: il codice dispone che chiunque vi abbia interesse possa chiedere al giudice la fissazione di un termine per
accettare (in sostanza di un termine di decadenza), trascorso il quale il chiamato che non abbia manifestato alcuna
volontà perde il diritto di accettare (c.d. actio interrogatoria).

La rinunzia all’eredità è un atto solenne, che si fa con dichiarazione ricevuta dal notaio o dal cancelliere del Tribunale
competente; è un atto puro; è necessariamente totale (è nulla la rinunzia parziale). L’atto è sempre revocabile, fino a
quando un chiamato ulteriore non abbia accettato. Può essere impugnato, come l’accettazione, solo per violenza o
per dolo. L’effetto della rinunzia è retroattivo: il chiamato rinunziante si considera mai chiamato all’eredità.

Il tempo tra l’apertura della successione e l’accettazione può essere più o meno lungo. Esiste un problema di
amministrazione e tutela del patrimonio dell’ereditario, che la legge risolve in due modi: da un lato attribuisce al
chiamato i poteri di conservazione e la legittimazione alla tutela possessoria; dall’altro prevede che, se il chiamato

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non è nel possesso effettivo dei beni ereditari, il giudice competente per territorio possa nominare un curatore
dell’eredità (eredità giacente).

A differenza dell’eredità, il legato si acquista senza bisogno di una accettazione; il legatario però può rinunziare al
legato, secondo il principio generale per cui nessun mutamento della sfera giuridica di un soggetto può compiersi
contro la sua volontà.
L’effetto traslativo del legato di specie si produce perciò fin dal momento della morte del testatore, e quindi i frutti
sono dovuti al legatario da quel momento. Nei casi di legato di genere e legato di cosa dell’onerato o di terzo, i frutti
o gli interessi sono dovuti dall’onerato solo dal giorno della domanda giudiziale.

11. (segue) Il beneficio di inventario. La separazione dei beni.


La successione a titolo universale fa subentrare l’erede nella totalità o in una quota dei beni e dei debiti che facevano
capo al defunto; la successione determina la confusione dei patrimoni. L’erede risponde dei debiti ereditari con tutti i
suoi beni presenti e futuri; e allo stesso modo risponde per quei debiti nuovi che nascono a suo carico per effetto dei
legati (responsabilità ultra vires).
Il rischio di una responsabilità illimitata per i debiti del defunto potrebbe scoraggiare il chiamato. Si prevede quindi
una via d’uscita, che consenta di assumere la successione senza rischiare le proprie sostanze.
Si tratta dell’accettazione con beneficio di inventario, il quale consiste nel tener distinto il patrimonio del defunto da
quello dell’erede: i beni e i debiti di provenienza ereditaria formano un patrimonio separato, con la conseguenza che
se l’erede aveva crediti o debiti verso il defunto, li conserva, che l’erede risponde dei debiti ereditari solo con i beni
ereditari e che i creditori dell’eredità e i legatari hanno preferenza sui beni ereditari di fronte ai creditori dell’erede (i
quali tuttavia possono, in subordine, cercare di soddisfarsi sui quei beni, che sono pur sempre beni del loro debitore).

Per provvedere al pagamento dei debiti ereditari, e poter poi disporre liberamente dell’eventuale residuo, l’erede ha
tre strade:
a. Pagare i creditori e i legatari via via che si presentano, fino a esaurimento dell’asse; questa strada è preclusa se un
creditore o un legatario fa opposizione;
b. In caso di opposizione, o anche autonomamente, avviare una procedura di liquidazione con l’assistenza di un notaio;
c. Rilasciare tutti i beni ereditari a favore dei creditori e dei legatari.

Solo l’inventario dà ai creditori dell’eredità e ai legatari la certezza sulla consistenza del patrimonio destinato a soddisfare le loro
pretese.
Se il chiamato non è nel possesso dei beni ereditari non esistono termini particolari: può accettare con beneficio di inventario
entro il termine ordinario di prescrizione. Ma una volta fatta la dichiarazione, e divenuto titolare dell’eredità, deve fare
l’inventario entro tre mesi, altrimenti è considerato erede puro e semplice.
Se invece procede all’inventario senza avere ancora accettato, deve accettare entro quaranta giorni, altrimenti perde
il diritto ad accettare.
Se invece è nel possesso dei beni ereditari, egli ha un termine di tre mesi per fare l’inventario; se il termine trascorre
inutilmente, il chiamato è considerato erede puro e semplice. Fatto l’inventario, ha quaranta giorni di tempo per
seguire l’accettazione con beneficio di inventario o per rinunziare. Nel silenzio, è ancora considerato erede puro e
semplice.

L’accettazione con beneficio di inventario richiede l’atto pubblico (redatto da notaio o da cancelliere giudiziario) e
deve essere inserita nel registro delle successioni; in modo che tutti possano sapere che l’eredità è stata accettata in
questo modo, e farsi avanti.
L’accettazione con beneficio di inventario è obbligatoria quando all’eredità sia chiamato un minore d’età, un
interdetto o un inabilitato, una persona giuridica o un’associazione, fondazione o un ente non riconosciuto, mentre
non è obbligatoria quando sia chiamata una società. È invece oggetto di un onere per il legittimario che vuole agire in
riduzione contro persone diverse dai coeredi.

Numerose norme prevedono la decadenza dal beneficio dell’inventario (e conseguente ritorno alla qualifica di erede
puro e semplice): il caso di alienazione dei beni ereditari senza autorizzazione, per omissioni o infedeltà
dell’inventario, per il mancato rispetto delle regole sulla liquidazione.

Nella successione ereditaria, i creditori del defunto e i legatari corrono il rischio della confusione del patrimonio
ereditario con quello personale di un erede che abbia una cattiva situazione patrimoniale.
Per loro la legge predispone il rimedio della separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede.
I creditori e legatari separatisti hanno diritto di prelazione sia di fronte ai creditori personali dell’erede, sia di fronte ai

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creditori ereditari e ai legatari non separatisti; in più essi conservano il diritto di agire anche sui beni personali
dell’erede.

Quanto ai creditori dell’erede, la legge non li tutela di fronte al rischio dell’accettazione di un’eredità dannosa, per la
stessa ragione per cui non li protegge contro altri atti di autonomia che il loro debitore possa compiere
impoverendosi: il creditore che vuole stare tranquillo deve provvedersi di un diritto di garanzia; se non lo fa, corre il
rischio delle vicende patrimoniali del suo debitore.
Una tutela è data invece ai creditori dell’erede che potrebbero trarre vantaggi dall’accettazione dell’eredità, di fronte
al debitore che non si decide. La legge consente ai creditori, di fronte a una rinunzia del debitore all’eredità, di farsi
autorizzare ad accettarla in sua vece, con il solo effetto di potersi soddisfare sui beni ereditari. È una forma di
inefficacia relativa della rinunzia: il chiamato non diviene erede, ma per i suoi creditori è come se lo fosse.

12. (segue) Petizione dell’eredità. Erede apparente.


Può accadere che i beni dell’asse siano in possesso di soggetti che affermano a loro volta un titolo d’erede, o che ne
dispongono senza titolo.
Verso questi possessori, chi si afferma erede può agire con la petizione dell’eredità, azione diretta a far riconoscere la
qualità di erede dell’attore e, di conseguenza, a ottenere la restituzione dei bei ereditari. L’attore non deve provare
di aver titolo di proprietà su singoli beni, ma solo di aver titolo di erede: l’azione è quindi universale (riguarda il
complesso dell’eredità).

Può dunque accadere che un soggetto si trovi, per un certo periodo, ad apparire erede (c.d. erede apparente) senza
averne in realtà titolo. Si apre in tal caso un problema di tutela di terzi, che abbiano acquistato da chi ritenevano
essere erede.
La questione è risolta proteggendo l’affidamento di buona fede limitatamente agli acquisti a titolo oneroso.
Lo stesso possessore può aver ritenuto in buona fede di essere erede: potrà far valere, in tal caso, le regole sul
possesso in buona fede per quanto riguarda i suoi rapporti con il vero erede.

13. La devoluzione dell’eredità; i meccanismi di sostituzione.


Quando il chiamato all’eredità non può o non vuole accettare (perché è premorto, o indegno, perché ha rinunziato, o
ha lasciato scadere il termine di prescrizione o di decadenza del diritto di accettare) il sistema successorio provvede a
mettere l’eredità a disposizione di un altro successibile: questa ulteriore delazione si chiama devoluzione dell’eredità.
I meccanismi di devoluzione sono diversi.

Nel caso di vocazione testamentaria, il primo criterio di devoluzione dell’eredità è la sostituzione volontaria, che può
essere ordinaria o fedecommissaria.
Si ha una sostituzione ordinaria quando il testatore, dopo avere istituito un erede, nomina un sostituto per il casso
che il primo non possa o non voglia accettare. Il testatore può anche sostituire più persone a una sola, o viceversa; in
ogni caso i sostituti devono adempiere agli obblighi (legati, oneri) imposti ai sostituiti, salva diversa disposizione del
testatore.
La sostituzione può essere disposta anche per i legati.
La sostituzione fedecommissaria è invece una sostituzione successiva: il primo chiamato riceve l’eredità con l’obbligo
di conservarla perché, alla sua morte, sia acquistata da un secondo chiamato. La sostituzione fedecommissaria è oggi
ammessa solo per organizzare una più efficace assistenza a un incapace: i genitori, gli ascendenti, o il coniuge
possono lasciare l’eredità al loro congiunto interdetto o minore d’età infermo di mente, e nominare come sostituto,
alla morte dell’incapace, la persona o l’ente che ne avrà avuto cura durante la vita.
Il secondo sistema di devoluzione è la rappresentazione: se il primo chiamato è figlio o fratello o sorella del defunto,
in caso di premorienza, di indegnità, di rinunzia, o di prescrizione o decadenza dal diritto di accettare subentrano nel
luogo e nel grado del primo chiamato i suoi discendenti.
Il sistema opera sia per l’eredità, sia per il legato. I discendenti prendono il posto dell’ascendente nella successione e
succedono direttamente al de cuius: quindi, in caso di premorienza del primo chiamato, i suoi discendenti possono
succedere al nonno, bisnonno, zio o prozio per rappresentazione, anche se hanno rinunziato all’eredità della persona
che sostituiscono o sono incapaci di ricevere o indegni rispetto a quella successione.
Se il primo chiamato è sostituito da più persone, questi dividono tra loro la quota che sarebbe spettata
all’ascendente. Quando vi è rappresentazione, la divisione si fa per stirpi, e all’interno di ogni stirpe per rami.

Si è detto che la delazione attribuisce al chiamato un diritto di accettare. Ebbene, questo diritto fa parte del suo
patrimonio: perciò, se il chiamato muore (dopo la morte del de cuius) senza aver accettato né rinunziato, i suoi eredi

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
potranno esercitare il diritto di accettare, e acquisire, con l’eredità del loro de cuius, anche l’eredità cui questi era
chiamato.
A differenza della rappresentazione, questa volta la successione non è diretta: gli eredi possono accettare l’eredità
lasciata al loro de cuius solo se accettano l’eredità di quest’ultimo.

Il quarto sistema di devoluzione è l’accrescimento delle quote tra coeredi o tra collegatari: se uno dei coeredi o
collegatari non ha potuto o voluto accettare, le quote degli altri si accrescono fino ad assorbire la quota del primo.
I presupposti dell’accrescimento tra coeredi sono:
a) Che più eredi siano stati istituiti nello stesso testamento o senza determinazione di quote, oppure in quote eguali;
b) Che non risulti diversa volontà del testatore (come nel caso di sostituzione volontaria, o di espressa esclusione
dell’accrescimento);
c) Che non sussistano i presupposti per la rappresentazione;
Che non sussistano i presupposti per la trasmissione del diritto di accettare.

Se mancano i presupposti per l’accrescimento, la quota del chiamato all’eredità che non può o non vuole accettare si devolve agli
ulteriori successibili secondo le regole della successione legittima; la quota del legato va a beneficio dell’onerato; anche in questo
caso, rimangono a carico dei subentranti gli obblighi imposti al primo chiamato, salvo quelli a carattere personale.

14. La comunione ereditaria e la divisione.


Tra i coeredi che abbiano accettato l’eredità si stabilisce una situazione di comunione (c.d. comunione incidentale)
destinata a risolversi con la divisione. Nel Libro delle successioni, è ampiamente regolata la divisione tra coeredi, che
funge da modello per tutte le ipotesi di comunione: alla situazione di comunione ereditaria, viceversa, si possono
applicare le norme generali sulla comunione.

Non tutti i cespiti attivi e passivi dell’eredità cadono nella comunione ereditaria. La comunione ereditaria non
comprende i beni che sono oggetto di legati di specie. Restano fuori dalla comunione, inoltre, i debiti di cui il defunto
fosse titolare, o i debiti derivanti da legati in genere, in quanto divisibili: essi si dividono tra i coeredi.
La giurisprudenza sostiene che, a differenza dei debiti, i crediti non si dividano automaticamente fra i coeredi, ma
entrino a far parte della comunione ereditaria.

La comunione ereditaria può estendersi anche a beni che non facevano parte, al momento della morte, del
patrimonio del defunto. Quando i coeredi sono i discendenti e il coniuge del defunto, devono conferire ai coeredi
(cioè alla comunione) ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione, diretta o indiretta (c.d. collazione), salvo che
il defunto li abbia dispensati.
Il legislatore, con questo istituto, tiene conto del fatto che spesso la donazione ai figli e coniuge o alla persona unita
civilmente è in qualche modo una anticipazione dei benefici che deriverebbero dalla successione, con la quale il
donante non intende però alterare l’equilibrio nella distribuzione dei suoi beni ai figli e al coniuge, o alla persona
unita civilmente, dopo la sua morte: e perciò questi devono conferire quanto ricevuto, salvo dispensa.
La collazione può avvenire in natura (il donatario conferisce i beni immobili o il denaro che aveva ricevuto) o per
imputazione (il donatario trattiene quanto ha ricevuto, ma ne computa il valore alla sua quota ereditaria).

Come è regola nella comunione, anche qui ogni coerede può alienare la propria quota. Il coerede che intende
alienare deve comunicare agli altri la sua intenzione e indicare il prezzo della quota. Gli altri eredi hanno un diritto di
prelazione che va esercitato entro due mesi. Se poi è mancata la comunicazione, ciascun erede ha un diritto di
riscatto (c.d. retratto successorio), sia dall’acquirente, sia dai successivi aventi causa, finché dura la comunione
ereditaria.

La divisione può essere chiesta dai coeredi in qualunque momento.


Circa i modi della divisione esistono due possibilità:
a) i coeredi riescono a mettersi d’accordo tra loro e stabiliscono pacificamente la composizione delle porzioni: la divisione
convenzionale, così realizzata, è un contratto tra coeredi, soggetto alle regole comuni, salva una particolare disciplina
dei vizi del volere, che esclude la rilevanza dell’errore e della rescissione;
b) in mancanza di accordo, su domanda anche di uno solo dei coeredi, si procede alla divisione giudiziale: le porzioni,
formate secondo le regole di cui sotto diremo, sono in tal caso assegnate per estrazione a sorte.

Il testatore può stabilire che la divisione si effettui secondo la stima di una persona di sua fiducia, che non sia però né
erede né legatario.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
Può anche determinare lui stesso la composizione delle porzioni, imponendo dei criteri con cui esse debbano essere
formate, o indicando già quali beni debbano essere compresi in ciascuna porzione (c.d. assegni divisionali).
I criteri dettati dal testatore sono vincolanti: se però le quote indicate nell0istituzione degli eredi contrastano con
l’effettivo valore dei beni compresi nell’assegno divisionale, prevale l’indicazione della quota, e quindi le porzioni
vanno formate in modo diverso da quello disposto dal testatore.
Il testatore può addirittura evitare la necessità della divisione, distribuendo lui stesso tra gli eredi tutti i suoi beni,
compresa la quota indisponibile (divisione fatta dal testatore). In questo caso, non sorge la comunione ereditaria, e
ciascun erede acquista fin dall’accettazione la proprietà individuale dei beni a lui lasciati. Se poi il testatore avesse
trascurato qualche bene si applica la regola che vale nel caso di testamento parziale: per i beni non menzionati si
apre una successione legittima.

Nella divisione, ciascuno erede ha diritto di ottenere una parte in natura dei beni mobili e immobili che fanno parte
dell’eredità; se non ci sono beni indivisibili, in ciascuna porzione deve essere compresa una quantità di mobili e
immobili (ed eventualmente crediti) di eguale natura e qualità.
La successione del defunto al coerede, per quei beni, si considera immediata, cioè come se la comunione ereditaria
non ci fosse stata. Infatti, la recessione ha efficacia retroattiva.

La divisione (si aggiunga: consensuale) è soggetta ad azione di annullamento per violenza o per dolo.
La divisione resta annullabile per incapacità legale o naturale. Poi la nullità della divisione può derivare per difetto
della forma scritta laddove nell’asse ereditario siano compresi i beni immobili.

CAP. 46.
LE LIBERTÀ TRA VIVI
1. Dono e liberalità.
Esiste una causa che consiste nell’arricchire un’altra parte per spirito di liberalità (senza esservi tenuta). Questa causa
definisce un atto di autonomia: la donazione.

Giuridicamente, la donazione è un contratto. Poiché la donazione ha un oggetto patrimoniale, dire che è un


contratto significa dire che donante e donatario devono essere d’accordo nel dare e ricevere, e manifestare
reciprocamente questa volontà.
Lo spirito di liberalità non coincide con il mero carattere gratuito del contratto. La gratuità sussiste non appena ad
una prestazione non corrisponda una prestazione. L’atto gratuito può essere atto liberale se è strumento per lo
scopo di arricchimento gratuito. Ma anche l’atto oneroso può avere questa funzione.

Dal punto di vista giuridico, la donazione remuneratoria è pur sempre donazione (la remunerazione è un motivo, ma
non altera la causa dell’atto). Solo quando sia dovuta secondo gli usi, cessa di essere donazione.

2. Disciplina della donazione.


La donazione può avere ad oggetto qualsiasi diritto disponibile cui il donante sia titolare, oppure l’assunzione di
un’obbligazione da parte del donante verso il donatario. È vietata la donazione di beni futuri.
È richiesta la forma dell’atto pubblico a pena di nullità, alla presenza irrinunciabile di due testimoni. Fa eccezione la
“donazione manuale”, vale a dire la donazione di cosa mobile, di modico valore consegnata dal donante all’altro.
La causa tipica della donazione può essere realizzata attraverso schemi di contratto diversi. Se esiste il risultato di
arricchire gratuitamente una delle parti e se sussiste lo spirito di liberalità, si realizza una donazione indiretta: la
qualificazione causale qui è importante perché consente di applicare al contratto concluso regole proprie alla
donazione.
Diversa fattispecie si realizza quando un contratto non liberale concluso tra le parti sia simulato al fine di nascondere
una donazione. La prova della simulazione può servire ad applicare la disciplina propria alle donazioni: qui vale anche
il requisito di forma, essendo l’atto vero una donazione tipica.

La disciplina della donazione:


a. L’incapacità naturale è causa di annullamento della donazione senza che si faccia questione di “grave
pregiudizio” derivante dall’atto o di malafede; la capacità legale invece segue la regola generale, ed è estesa
al minore emancipato e all’inabilitato solo se la donazione è fatta nel contratto di matrimonio.
b. La capacità a ricevere la donazione è estesa ai nascituri, anche non concepiti purché figli di persona
determinata vivente al tempo della donazione.

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c. Incompatibile con la posizione del donatario è quella di tutore o protutore del donante;
d. La donazione può essere impugnata per errore sui motivi, benché sia un contratto, perché lo scopo di
liberalità consente di attenuare la tutela dell’affidamento; anche la regola sul motivo illecito è simile a quella
che vale per il testamento;
e. La donazione può essere limitata da un modus le cui regole simili a quelle dell’onere testamentario;
f. Possibilità di conferma della donazione nulla, sia espressa sia attraverso la volontaria esecuzione da parte
degli eredi dopo la morte del donante;
g. La donazione può essere revocata per la sopravvenienza o l’esistenza non conosciuta al momento della
donazione di un figlio o discendente ovvero per il riconoscimento di un figlio;
h. Le sostituzioni sono ammesse con gli stessi limiti che valgono per gli atti di ultima volontà;
i. La causa di liberalità limita il diritto dell’acquirente alla garanzia per evizione: questa è dovuta solo se
promessa espressamente dal donante, o se dovuta a dolo o fatto personale del donante, o se si tratta di
donazione modale.

Parte Settima: GLI STRUMENTI PROCESSUALI


CAP. 47.
LA GIUSTIZIA CIVILE
1. Introduzione.
Ogni ordinamento giuridico contiene un sistema di norme che disciplinano l’esercizio della giurisdizione, cioè di
quella funzione, propria al giudice, che consiste nell’individuare le norme (generali e astratte) applicabili al caso
portato in giudizio, e nel formulare la regola di diritto (individuale e concreta) che vale per il caso deciso.
Il processo civile è, nel nostro caso, inteso come strumento di tutela dei diritti e degli interessi privati.
Dal 2 giugno 1999 entra in vigore una riforma con la quale viene istituito il giudice unico di primo grado.
Processo giusto, entrato in vigore con la L. costituzionale del 1999, è un giudizio regolato dalla legge, alla quale è
affidato il compito di assicurare alle parti di potersi difendere in contraddittorio l’una con l’altra, in condizione di
parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale, in un processo che abbia tempi ragionevolmente contenuti.

2. Il processo di cognizione in generale.


Nel processo di cognizione il giudice è chiamato a prendere conoscenza dei fatti sui quali si deve svolgere il giudizio e
metterli in relazione con le norme che ad essi si possono applicare e, infine, decidere la causa.
Il processo civile si può immaginare come un dialogo tra: una parte che chiede una sentenza in suo favore, una parte
che resiste (cioè contrasta la domanda dell’attore) e il giudice che deve rispondere accogliendo o rigettando la
domanda.
Chi agisce in giudizio si chiama attore (colui che fa valere dinnanzi al giudice le sue ragioni di fatto e diritto e pone
una questione che si conclude con una richiesta), l’altra parte si chiama convenuto. Il convenuto interloquisce nel
dialogo chiedendo che la domanda sia respinta, oche sia accolta una sua domanda rivolta contro l’attore.

La questione aperta con la domanda giudiziale costituisce il “merito” della causa; esso presenta due aspetti: una
questione di fatto, che riguarda l’esistenza dei fatti posti a fondamento della domanda e una questione di diritto, che
riguarda la “scelta” delle norme applicabili a quella situazione.
Il primo aspetto pone un problema di prova, utile a far sì che il giudice possa convincersi circa l’esistenza o meno dei
fatti addotti; il secondo aspetto pone un problema di sussunzione dei fatti alle norme, e quindi di individuazione delle
norme applicabili, che suppone a sua volta l’interpretazione della legge da parte del giudice.
Da entrambi gli aspetti del “merito” vanno distinte le questioni “di rito”: riguardano la corretta applicazione delle
norme che regolano lo stesso processo.

La questione che il giudice civile, nel processo ordinario di cognizione, è chiamato a conoscere riguarda, di regola, la
tutela di un diritto soggettivo. Il processo si conclude con una decisione che si chiama sentenza. Ne esistono tre:
• la sentenza di condanna: l’attore lamenta che il convenuto ha violato un suo diritto e chiede che il giudice ordini al
convenuto di tenere la condotta necessaria a sanare la violazione;
• la sentenza di accertamento: l’attore ha interesse a stabilire quale sia la vera situazione giuridica nei suoi rapporti con il
convenuto e chiede perciò che il giudice accerti l’esistenza o inesistenza di fatti giuridicamente rilevanti (per esempio,
l’attore chiede che il giudice accerti l’esistenza di uno di quei fatti che sono causa di nullità del contratto concluso tra lui
e il convenuto); l’accertamento può combinarsi con la condanna (per esempio, la domanda diretta a far dichiarare la
nullità del contratto può comprendere la richiesta di una condanna alla restituzione della cosa alienata);

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato

• la sentenza costitutiva: in certi casi, la legge consente a una persona di provocare una modificazione di una situazione
giuridica, ma vuole che ciò avvenga ad opera del giudice, che valuta l’esistenza dei presupposti e pronuncia una
sentenza la quale produce l’effetto voluto dall’attore (per esempio, se un soggetto è obbligato verso di me a
concludere un contratto, e non vuole stipularlo, io posso chiedere al giudice che pronunci una sentenza che produce gli
effetti del contratto non concluso).
Il processo civile funziona di regola sulla base dell’iniziativa di parte, e il giudice risponde accogliendo o rigettando la
domanda dell’attore, non disponendo di una terza soluzione (impugnare la sentenza).

3. I gradi di giurisdizione.
Il “grado” del processo fa riferimento al fatto di poter chiedere a un diverso organo giudiziario un sindacato, di
merito o almeno di legittimità, sulla decisione assunta dal giudice che per primo ha “conosciuto” la causa.
La legge predispone diversi “gradi” di giurisdizione; nel processo civile:
• giudice di primo grado (Tribunale o giudice di pace), quello a cui si deve ricorrere per chiedere il giudizio su
una determinata controversia;
• giudice di secondo grado (Corte d’appello), quello a cui si deve ricorrere per un nuovo giudizio, quando si
ritenga che la sentenza, emessa dal giudice di primo grado, non sia fondata in fatto o in diritto;
• Suprema Corte di Cassazione, per far valere la violazione o la falsa interpretazione della legge da parte del
giudice di secondo grado.
La distribuzione di compiti fra i vari organi giurisdizionali avviene in base alla competenza: cioè il potere di conoscere
una determinata controversia, secondo criteri di valore della causa, di materia, di territorio.

4. Lo svolgimento del processo civile.


Abbiamo tre fasi del processo civile di primo grado:
a. La fase introduttiva.
La domanda in giudizio si prone mediante l’atto di citazione, vale a dire chiamare l’altra parte a comparire in giudizio. La
citazione deve contenere tutte le indicazioni necessarie per definire “la questione” posta dalla domanda e i mezzi di
prova con cui si intende sostenerla: deve contenere l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la
domanda (c.d causa pretendi) e le “relative conclusioni”.
La “comparsa di risposta” è l’atto con cui il convenuto risponde alla chiamata in giudizio: in tale comparsa il convenuto
propone tutte le sue difese, le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni professionali e di merito non rilevabili
d’ufficio, indicando a sua volta i mezzi di prova di cui intende valersi a formulare le conclusioni.
b. La fase istruttoria.
La questione di fatto oggetto del giudizio deve essere “istruita”, “Istruire” significa raccogliere le informazioni, gli
elementi di giudizio sulle questioni di fatto, necessari perché il giudice possa formarsi una convinzione.
In pratica, l’attività di istruzione si risolve in un’attività di acquisizione delle prove proposte, in contraddittorio, dalle
parti. La fase istruttoria si chiude quando il giudice istruttore ritiene di aver raccolto tutti gli elementi necessari.
c. La fase decisoria.
Le parti precisano le loro conclusioni, riassumono le proprie ragioni in comparse conclusionali e si rimettono alla
decisione. Il giudice si ritira in camera di consiglio per la decisione, scioglie le varie questioni e poi scrive e sottoscrive la
sentenza, che contiene quando il giudice dispone (dispositivo) e la motivazione.
La sentenza è poi resa pubblica mediante deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata ed è notificata, su
richiesta della parte interessata, all’altra, che da quando la riceve dispone dei termini previsti per l’impugnazione.

5. L’appello e il ricorso per cassazione.


La parte soccombente nel giudizio di primo grado può impugnare la sentenza proponendo un appello al giudice di
grado immediatamente più elevato; questa va proposta entro un termine che va da 10 giorni a 30 giorni.
Il giudizio di appello è un giudizio sulla sentenza di primo grado.
La parte soccombente in appello può, entro 60 giorni dalla notificazione della sentenza, proporre ricorso alla Corte di
Cassazione. La funzione della Corte è quella di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.
Davanti alla Corte si va solo per impugnare la sentenza d’appello dal punto di vista della violazione o falsa
applicazione di norme sostanziali o processuali. Il ricorso deve dunque fondarsi su una questione di diritto.
Il ricorso per Cassazione è inammissibile:
1. Quando il provvedimento impugnato abbia deciso le questioni di diritto in modo conforme alla
giurisprudenza della Corte e l'esame dei motivi non evidenzino “elementi per confermare o mutare” tale
orientamento.
2. Quando il motivo d’impugnazione sia la “violazione dei principi regolatori del giusto processo” e tale motivo
risulti manifestamente infondato.

Se il ricorso è respinto, la decisione del giudice d’appello non può più essere impugnata e passa in “giudicato”.

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Riassunto libro Iudica Zatti – Linguaggio e regole del diritto privato
La sentenza “fa stato” tra le parti, i loro eredi e aventi causa; ciò significa che:
• La questione decisa non può essere riproposta in giudizio, e la domanda eventuale deve essere respinta senza
esame del merito;
• In ogni altra controversia tra le parti, i loro eredi o aventi causa, in cui la questione decisa con sentenza
definitiva sia pregiudiziale, il giudice non può riesaminare il merito, ma deve decidere sulla base del giudicato.
Se invece, il ricorso è accolto, e la sentenza impugnata viene cassata, la Corte non riesamina il merito della causa, ma
rinvia a tale fine il caso davanti a un giudice di merito dello stesso grado di quello che aveva emesso la decisione
impugnata. Il giudice di rinvio deve decidere nel merito sulla base del principio di diritto che la Corte ha enunciato.

6. Processi “speciali” e sommari di cognizione.


Procedimenti di cognizione che si applicano quando la controversia riguarda particolari tipi di rapporto.
Il modello principale qui è il c.d. “processo del lavoro”. In questo rito, gli atti decisivi per la conduzione della causa, dal
punto di vista delle attività delle parti diventano il ricorso e la discussione orale.

Per le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica è prevista la possibilità di utilizzare il procedimento
sommario di cognizione, salvo che il giudice ritenga che le difese svolte dalle parti nei rispettivi atti richiedano
un’istruzione non sommaria. Qui la domanda è proposta mediante ricorso a cui il convenuto può replicare con una
comparsa di risposta. Il procedimento prevede poi una fase istruttoria deformalizzata, e si chiude con un
provvedimento che ha la forma dell’ordinanza (e non della sentenza), suscettibile di passare in giudicato qualora non
venga appellato.

Altri processi di cognizione hanno in comune il carattere di sommarietà: così nel procedimento per ingiunzione.
Quello per ingiunzione è un procedimento sommario al quale può ricorrere un creditore, che voglia costringere il
debitore all’adempimento o ottenere l’esecuzione forzata, e non abbia ancora un titolo esecutivo. La legge consente
quindi al creditore che disponga di una prova scritta di chiedere con ricorso l’emanazione di un decreto ingiuntivo, ossia
di un decreto con il quale il giudice ordina al debitore di pagare. Il giudice provvede sulla base di un rapido esame, senza
sentire il debitore; questi ricevuta la notificazione del decreto, può pagare oppure fare opposizione entro un breve
termine, aprendo così un giudizio di cognizione ordinario, in cui egli sarà attore. Se non paga e non fa opposizione il
decreto passa in giudicato ed ha valore di titolo esecutivo.
Il procedimento non è previsto solo nel caso in cui il credito abbia ad oggetto una somma di denaro, una quantità di
cose fungibili o una cosa mobile determinata.

7. Il processo di esecuzione.
Ha lo scopo di realizzare coattivamente la soddisfazione di un interesse protetto dal diritto. Per avviare il processo di
esecuzione forzata è necessario disporre di un titolo esecutivo, cioè di un particolare tipo di documento da cui risulti
l’esistenza e il contenuto del diritto.
Titoli esecutivi sono: la sentenza di condanna con efficacia esecutiva, il decreto ingiuntivo, che abbia efficacia esecutiva;
o ancora, per debiti di denaro, la cambiale o altro titolo di credito equiparato, la scrittura privata
autenticata e l’atto pubblico.
L’attore, che disponga di un titolo di questo genere, notifica all’altra parte tramite un ufficiale giudiziario un precetto,
cioè un’intimazione ad adempiere entro un termine non inferiore a 10 giorni, con l’avvertenza che, in caso di mancato
adempimento, procederà ad esecuzione forzata.

8. L’arbitrato.
La giustizia arbitrale è una giustizia non togata e alternativa rispetto a quella ordinaria, nella quale le parti, scegliendo
loro stesse il proprio giudice o i propri giudici privati (gli arbitri), in considerazione della loro perizia e rettitudine,
ottengono una giustizia più rapida, competente e riservata.
L’arbitrato può essere rituale o irrituale e può essere di diritto o d’equità.

L’arbitrato rituale si svolge secondo le regole previste dal Codice di procedura civile. La decisione finale si chiama lodo.
Dalla data della sua ultima sottoscrizione il lodo ha gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria e, una
volta dichiarato esecutivo dal Tribunale, può essere posto in esecuzione.

L’arbitrato irrituale si ha quando le parti hanno mandato agli arbitri di comporre la controversia mediante una
determinazione che esse si impegnano a priori a fare propria. Esso ha natura negoziale, gli arbitri sono dei mandatari e
la decisione, che ha natura di contratto di transazione, coerentemente, è denominata lodo contrattuale.

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L’arbitro che decide una lite in modo irrituale si avvicina alla figura dell’arbitratore, cioè del terzo cui le parti rimettono
la determinazione dell’oggetto della prestazione: questi integra il regolamento contrattuale.

Gli arbitri di regola giudicano applicando il diritto (arbitrato di diritto). Ad essi però le parti possono espressamente
attribuire il potere di integrare le regole di stretto diritto, giudicando secondo i principi dell’equità.
Il potere arbitrale trova la sua fonte nella volontà delle parti e, più precisamente, in una convenzione d’arbitrato.

9. La mediazione civile e commerciale.


La mediazione consiste nell’attività svolta da un terzo imparziale (mediatore) finalizzata ad assistere due o più soggetti
nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia. Il mediatore è privo del potere di
rendere giudizi o decisioni vincolanti.
Per numerose materie il procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Negli altri casi è facoltativa ossia può essere scelta liberamente dalle parti o suggerita dal giudice.
Nel caso in cui si tratta di materie in cui il procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda
giudiziale il giudice condanna al versamento di una somma all’entrata del bilancio dello Stato per la parte costituita in
giudizio che senza giustificato motivo non ha partecipato al procedimento di mediazione.

Qualora l’accordo sia raggiunto, il mediatore forma il procedimento verbale, che deve essere sottoscritto dalle parti e
dal mediatore. Ove tutte le parti aderenti siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia sottoscritto dalle parti e dagli
stessi avvocati costituisce titolo esecutivo e consente l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
In mancanza di accordo, si procederà con la domanda in giudizio. È prevista una sorta di sanzione per la parte che abbia
rifiutato l’accordo proposto dal mediatore il cui contenuto risulti conforme alla decisione definitiva presa dal giudice.
Nel caso in cui l’accordo non sia raggiunto, o quando le parti gliene facciano concorde richiesta, deve formulare una
proposta, e forma quindi il processo verbale con indicazione della proposta stessa. Se il giudizio termina con decisione
conforme alla proposta del mediatore, il giudice esclude possano essere rimborsate le spese sostenute dalla parte
vincitrice che ha rifiutato la proposta, e condanna la parte vincitrice al pagamento delle spese sostenute dalla
controparte, oltre che al versamento nei confronti dello Stato di un’ulteriore somma determinata dalla legge.

È previsto poi che il procedimento di mediazione non possa avere durata superiore a tre mesi, che decorrono dalla data
di deposito della domanda di mediazione. La domanda va rivolta a un organismo di mediazione iscritto nel registro
tenuto presso il Ministero della Giustizia.

10. La negoziazione assistita.


È diretta a risolvere ove possibile le controversie in sede non giudiziale, decongestionando le Corti.
Si prevede la possibilità che i litiganti stipulino la convenzione di negoziazione con la quale convengono di “cooperare in
buona fede e lealtà”, al fine di risolvere in via amichevole una controversia, tramite l’assistenza di avvocati. La
convenzione deve definire l’oggetto della controversia e prevedere un termine finale per la negoziazione.
Non forma oggetto di negoziazione una lite che riguardi diritti indisponibili o materie di lavoro.
La forma è quella di una scrittura privata, formata con l’assistenza di uno o più avvocati che certificano le sottoscrizioni
apposte sotto la propria responsabilità professionale.
A partire dalla comunicazione dell’invito a negoziare si interrompe il decorso della prescrizione ed è impedita
l’eventuale decadenza, ma qualora la negoziazione sia rifiutata o fallisca i termini ricominciano a decorrere.
Accettato l’invito, si passa alla negoziazione, che può concludersi con un accordo o meno. L’accordo deve essere
sottoscritto sia dalle parti sia dagli avvocati, i quali di nuovo certificano le sottoscrizioni, ed è titolo esecutivo e titolo per
l’iscrizione di ipoteca giudiziale. In caso di insuccesso, gli avvocati devono redigere una dichiarazione di mancato
accordo.
La negoziazione assistita è poi prevista in campo familiare per la separazione personale e il divorzio.
La negoziazione obbligatoria è prevista: a) per le questioni riguardanti il risarcimento del danno da circolazione di veicoli
e natanti; b) per le domande di pagamento a qualsiasi titolo di somme inferiori a 50.000 euro; c) per le controversie in
materia di contratti di trasporto o di sub-trasporto.

11. La risoluzione extragiudiziale delle controversie tra consumatori e professionisti.


La disciplina si applica alle procedure volontarie di composizione extragiudiziale per la risoluzione delle controversie
nazionali e transfrontaliere tra consumatori residenti e professionisti stabiliti nell’Ue che concernano obbligazioni
contrattuali derivanti da contratti di vendita o di servizi.
La disciplina prevede regole applicabili agli organismi ADR (Alternative Dispute Resolution). Le procedure ADR devono
consentire la partecipazione alle parti senza obbligo di assistenza legale, essere gratuite o disponibili a costi minimi per i

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consumatori e concludersi entro il termine di 90 giorni, salva la possibilità di una proroga del termine fino a un massimo
di 90 giorni in caso di controversie particolarmente complesse.
Dalla data di ricevimento della domanda da parte dell’organismo ADR, essa produce sulla prescrizione gli effetti della
domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda impedisce altresì la decadenza per una sola volta. Se la procedura
ADR fallisce, i relativi termini di prescrizione e decadenza iniziano a decorrere nuovamente dalla data della
comunicazione alle parti della mancata definizione della controversia.

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