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Lezione 5

Ripresa principio di ragionevolezza: la Corte Cost può sindacare le scelte del legislatore dal
punto di vista del rispetto del principio di eguaglianza e dunque può valutare la
ragionevolezza delle scelte del legislatore e quindi delle leggi. Quindi la corte cost dal
principio di eguaglianza ha desunto un altro principio, che è quello della ragionevolezza che
utilizza come canone per valutare la legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi
forza di legge.
Quindi la questione può essere messa nei seguenti termini: la Cost prevede il principio di
eguaglianza, esso s’impone alla scelte del legislatore, la Corte desume dall’eguaglianza la
ragionevolezza. La questione si complica se si considera che la Corte cost ha utilizzato il
principio d’eguaglianza in modo sempre più frequente per sindacare le scelte del
legislatore, tanto che il principio di ragionevolezza ha assunto autonomia rispetto al
principio d’eguaglianza.
La sent 48/2008 della Corte cost dice che la ragionevolezza informa il godimento di tutte le
posizioni soggettive. Questo da l’idea di come la ragionevolezza sia usata in modo
particolarmente ampio in Cost e come l’utilizzo di questo principio possa consentire alla
Corte d’intervenire in maniera incisa sulle scelte del legislatore.
Il canone della ragionevolezza è un canone indeterminato, così come lo è l’eguaglianza, ma
questa è in costituzione, mentre la ragionevolezza è un concetto indeterminato che non è
neanche espressamente previsto in Costituzione, in che aumenta la discrezionalità
dell’intervento della Corte cost, perché essa arriva ad utilizzare nella sua giurisprudenza un
principio non espressamente previsto in Cost, indeterminato che la corte desume da un
altro principio interminato previsto in Cost.
 Quali sono i meccanismi attraverso i quali la Corte ha valutato se una legge
spettasse il principio di ragionevolezza o meno?
Sono nel tempo cambiati (questi meccanismi). Inizialmente il giudizio di ragionevolezza
della Corte cost, era il c.d. giudizio di ragionevolezza in senso stretto (e ciò da l’idea di
un tentativo di circoscrivere la ragionevolezza) o il c.d. giudizio ternario .
Ripasso diritto costituzionale 1: esiste un giudizio di legittimità costituzionale, la corte
costi quando giudica sulla legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente
forza di legge valuta un oggetto, cioè la norma impugnata, rispetto ad un parametro,
cioè la norma costituzionale o la norma interposta che si assume sia stata lesa. Quindi il
parametro che funge da elemento rispetto al quale va verificata le legittimità
costituzionale.
Nel giudizio di ragionevolezza in senso stretto o giudizio ternario, c’è un oggetto, un
parametro e un tertium comparationis, cioè un’altra disposizione normativa che
disciplina un caso analogo a quello disciplinato dalla norma oggetto, cioè dalla norma
soggetta al controllo di costituzionalità.
Si usa il tertium comparationis perché aiuta a verificare se la disciplina che è oggetto del
controllo di costituzionalità e che serve a regolare una determinata fattispecie, è simile,
quanto non lo è, ad un’altra disciplina che si occupa di regolare un fenomeno simile.
Quindi se i due fenomeni sono simili e le discipline sono simili, probabilmente è
ragionevole. Se due fenomeni sono diversi, le discipline sono diverse, probabilmente è
ragionevole (disciplinare fenomeni uguali in maniera uguale e fenomeni diversi in
maniera diversa).
Il tertium comparationis consente di fare un’altra valutazione se due fenomeni simili
hanno disciplina diverse, allora non è ragionevole. Quando la Corte utilizzava il giudizio
di ragionevolezza in senso stretto, la Corte utilizzava un elemento di raffronto, cioè una
norma che utilizzava un caso omogeneo a quello soggetto al controllo di
costituzionalità. Questo costringeva la Corte costituzionale a valutare la ragionevolezza,
ma indicando degli elementi con un minimo di oggettività, perché comunque bisognava
trovare un tertium comparationis e provare a fare una valutazione comparativa tra due
discipline diverse su due oggetti diversi. Quindi questo costringeva la Corte a trovare un
elemento oggettivo nel suo giudizio di ragionevolezza.
Da questo tipo di giudizio (ragionevolezza in senso stretto) la Corte passa gradualmente
ad un altro modo di valutare la ragionevolezza, cioè il c.d. giudizio di razionalità della
legge.
La Corte non si occupa più di trovare un tertium comparationis. Il giudizio sulla
ragionevolezza diventa un controllo sulla razionalità interna di quella legge soggetta al
giudizio della Corte, quindi il controllo della Corte non è più un controllo tra norme
(oggetto e tertium comparationis), ma è un giudizio sull’oggetto, un giudizio all’interno
della disciplina contenuta nell’oggetto. Quindi è concentrata solo sull’oggetto. È un
controllo sulla non contraddittorietà dell’oggetto, quindi della norma impugnata,
oppure sulla logicità di quella norma impugnata.
Una logicità o una non contraddittorietà che vengono valutate sia all’interno della
legge, nel suo complesso, cioè se la norma impugnata è coerente con il testo normativo
che la contiene.
Questa logicità viene valutata, controllata sia all’interno della legge, cioè all’interno di
quella data legge nella quale la norma impugnata si trova, sia come controllo intra ius,
considerando la collocazione, la logicità di quella norma all’interno del complesso delle
disposizioni in quel dato settore giuridico.
Quindi il controllo è fatto sia all’interno della legge, sia all’interno di quel settore
dell’ordinamento che riguarda l’oggetto, quindi c’è un controllo intra legem e intra ius,
però è un controllo che perde il tertium camparationis.
Con questo controllo la Corte prova a ricostruire la ratio della legge (perché c’è quella
norma, perché è stata scritta così) e verifica se quella norma corrisponda alla ratio della
legge. Si tratta di un’operazione discrezionale, sia per il tipo di controllo rispetto al
tertium comparationis, sia perché è la stessa Corte a provare a ricostruire la ratio della
Legge (altra operazione interpretativa che fa la Corte).
Questo modo di giudicare la ragionevolezza aumenta l’ampiezza della discrezionalità
della decisione della Corte costituzionale. La Corte fa un’operazione interpretativa
interna alla disciplina impugnata.
Questo modo di valutare la ragionevolezza consente anche di valutare la legittimità
costituzionale rispetto all’evoluzione dell’ordinamento e della società. Perché se la
Corte opera questo controllo in questo modo, cioè valutando la ragionevolezza
all’interno della legge, all’interno dell’ordinamento, questo significa che la Corte fa un
controllo che tiene conto anche del modo in cui cambia l’ordinamento e dunque
verifica se la quella norma s’inserisce ancora armonicamente in quel contesto, ma
questo consente alla Corte anche di valutare se quella norma è ancora coerente con i
mutamenti sociali che hanno riguardato la collettività, perché in fondo c’è un’attività
ermeneutica della Corte in questo meccanismo di controllo.
Anche questo ha aumentato la discrezionalità della Corte che in qualche modo “legge” i
mutamenti della società.
Ma la giurisprudenza della corte e il modo in cui essa controlla la sussistenza del
principio di ragionevolezza nel tempo è cambiata ulteriormente.
La corte fa un bilanciamento di diritti e interessi. Con il bilanciamento d’interessi la
Corte valuta la ragionevolezza considerando che ci sono diritti e interessi anche
confliggenti rispetto alla convivenza dei quali occorre trovare un punto di equilibrio. La
Corte dice che devono essere interessi di rango costituzionale che a sua volta si può
prestare ad un’interpretazione che amplia o meno il novero degli interessi riconducibili
a questo giudizio.
La Corte individua questi interessi e valuta come vengono bilanciati, cioè valuta se si
può limitare un interesse costituzionale, ciò può essere fatto solo se serve a tutelare un
altro interesse costituzionale purchè le limitazioni siano adottate nel rispetto del
principio di proporzionalità, cioè ci sia proporzione tra il vantaggio per un
interesse/diritto costituzionale e uno svantaggio per l’altro interesse/diritto
costituzionale.
Quando si è cercato di comprendere cosa s’intendesse per inviolabilità, si è accennato
al nucleo essenziale/duro dei diritti.
La Corte cost dice le limitazioni devono essere proporzionate purchè non s’intacchi il
nucleo essenziale dei diritti.
Si possono limitare questi diritti/interessi purchè si bilanci con altri diritti e interessi in
maniera proporzionata. Siamo partiti dal principio di eguaglianza, da questo la Corte ne
ha desunto il principio di ragionevolezza, dalla giurisprudenza sul principio di
ragionevolezza arriva il principio di proporzionalità, che non c’è in Cost, ma nella
giurisprudenza della corte CEDU, c’è nella giurisprudenza del Tribunale Federale
tedesco. Ancora una volta il dialogo tra le Corti influenza il modo in cui decidono le
altre Corti.
Quindi con il bilanciamento d’interessi si arriva ad un altro principio all’interno della
giurisprudenza della Corte: il principio di razionalità. Questo modo di valutare la
ragionevolezza/proporzionalità, cioè attraverso il bilanciamento degli interessi è un
modo ampiamento discrezionale.
Gli interessi devono essere individuati dalla Corte, come il bilanciamento (anche se
avrebbe dovuto individuarlo il legislatore) e quanto sia giustificabile questo
bilanciamento, lo si valuta sulla base del principio di proporzionalità che valuta la corte.
Quindi la Corte, attraverso questo meccanismo più recente di valutazione del rispetto
del principio di ragionevolezza, assume una discrezionalità piuttosto ampia nel
sindacare le scelte del legislatore.
Se però il meccanismo che viene utilizzato per valutare se le scelte del legislatore sono
ragionevoli è questo, l’altra conseguenza è che le decisioni della Corte Cost, diventano
meno prevedibili, perché sono decisioni che riguardano sempre in maniera più specifica
quel caso rimesso all’attenzione della Corte e che la Corte risolve con un’operazione
fortemente discrezionale o con ampi margini di discrezionalità. È difficile a monte
prevedere se la Corte dichiarerà l’illegittimità costituzionale o meno di quella norma.
Quindi anche per il legislatore sarà difficile prevedere le decisioni della Corte e
orientare le sue scelte legislative, cioè i bilanciamento dovrebbe farlo il legislatore, ma
se il giudizio attraverso il quale la Corte arriva a giudicare la ragionevolezza è di questo
tipo, anche per il legislatore diventa difficile trovare un punto d’equilibrio che
probabilmente trovi d’accordo la Corte.
Quindi questo meccanismo aumenta l’ambito di discrezionalità a favore della Corte cost
e rende meno prevedibile le sue pronunce, quindi diventa una giurisprudenza anche
molto più casistica e quindi meno prevedibile.
ACCEZIONE FORMALE DI EGUAGLIANZA
Il primo comma dell’art 3 è quello che possiamo ricondurre all’accezione formale
d’eguaglianza e elenca 6 di divieti di discriminazione.
I divieti di discriminazione:
1) La razza: nell’evoluzione medico scientifica il concetto di razza per gli esseri umani è
rigettato dalla comunità medico scientifica, cioè la distinzione tra razze tra gli
uomini non è una distinzione scientifica, anche nel dibattito pubblico si parla di
sopprimere o intervenire sull’art 3 relativamente al termine razza. I costituenti
hanno volutamente utilizzato il termine razza per ciò che successe durante e prima
della seconda guerra mondiale con i campi di sterminio, per la presenza in Italia
delle leggi razziali. È un termine fortemente simbolico, volto ad impedire che si
possano ripetere alcuni fenomeni della storia. Si può intervenire ma senza far venir
meno quella tutela che l’art 3 con quel termine vuole garantire, perché ciò
rischierebbe di far venir meno il divieto di discriminazione contenuto in Cost. La
previsione del divieto di discriminazione per razza è un divieto che non ammette
deroghe, non c’è nessun elemento di proporzionalità e ragionevolezza che possa
consentire un trattamento differenziato rispetto alla razza. Il divieto è così
protettivo che risulta difficile intervenire su quella disposizione senza rischiare di
diminuire la tutela che essa offre.
2) La lingua: non c’è scritto in Cost che la lingua della repubblica italiana è l’italiano,
l’art 6 della Cost dice : “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze
linguistiche”. Da questa disposizione che tutela le minoranze linguistiche, si
comprende che esiste una maggioranza linguistica che è quella che parla l’italiano.
Ma non c’è una disposizione costituzionale specifica che dica che l’italiano è la
lingua ufficiale della Repubblica, ma lo interpretiamo dall’art 6 della Cost. L’art 6
significa anche che esiste una tutela per chi non parla l’italiano e che la diversità
linguistica dei cittadini italiani (se leggiamo in combinato l’art 3 e l’art 6) non può
comportare alcuna discriminazione. Quindi non si possono discriminare i cittadini
italiani per il solo fatto che parli una lingua diversa dall’italiano. Pensiamo alle
minoranze linguistiche presenti (c’è ne sono tante) in Alto-Adige, alla Valla D’Aosta,
queste vengono comunque tutelate. Quindi l’ordinamento italiano tutela le
minoranze linguistiche e l’eventuale differenza linguistica non può essere utilizzata
come elemento di discriminazione, anzi l’art 3 prevede un divieto di discriminazione
in base alla lingua.
3) Sesso: il divieto di distinzioni basate sul sesso è da intendersi nel suo significato
biologico, cioè non c’è distinzione tra maschi e femmine, quindi non sono ammesse
discriminazioni, ma sono ammessi trattamenti differenziati. È la stessa costituzione
che li prevede. Eguaglianza non significa guardare tutti nella stessa maniera, ma
significa trattare situazioni uguali in modo uguale e situazioni diverse in maniera
diversa. La stessa cost prevede la tutela per la mamma lavoratrice, ovviamente ci
sono delle condizioni oggettive di differenze che giustificano l’intervento
differenziale. La questione più delicata guardando l’evoluzione della società è capire
se senza distinzioni di sesso si riferisca solamente alla differenza di genere, o anche
all’orientamento sessuale delle persone.
4) Religione: la Cost italiana è una cost laica, ma è una laicità che tiene conto del
fenomeno religioso, diverse disposizioni costituzionale sono riservate al fenomeno
religioso, quindi la Cost ita non è indifferente e non ha neanche un atteggiamento
ostile rispetto al fenomeno religioso. Ma l’art 3 nello specifico vieta di discriminare
le persone sulla base del credo religioso. La stessa cost prevede un trattamento
differenziato sul piano dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose perché i
rapporti tra Stato e Chiesa cattolica si basano sull’art 7 Cost e i rapporti tra lo Stato e
le confessioni acattoliche si basano sull’art 8 della Cost. Questo potrebbe avere
anche dei riflessi sulla condizione del fedele di una regione rispetto a quello di
un’altra, ma in linea di principio la Cost vieta di discriminare in base al credo
religioso.
5) Opinioni politiche: cioè non dovrebbe essere possibile nessuna discriminazione in
base all’orientamento politico delle persone. Se guardassimo all’orientamento
partitico, qualche elemento di discriminazione potrebbe essere giustificabile (es.
partito che vorrebbe far risorgere il partito fascista). A parte questo non vi è
margine per una differenziazione nel trattamento delle persone sulla base delle
opinioni politiche
6) Condizioni personali e sociali : le distinzioni personali e sociali però esistono, sono
un dato di fatto, ad es. persone che hanno maggiori disponibilità economiche e
persone che non le hanno, persone che hanno un titolo di studio e persone che non
hanno potuto studiare. Queste sono condizioni oggettive. La Cost vieta che queste
condizioni di per se siano un elemento di discriminazione. Ad es. la tutela alla salute
è riconosciuta a tutti. Quindi quello che la condizione chiede è che queste condizioni
oggettivamente esistenti valgano come elemento giuridico di discriminazione,
almeno per quanto riguarda l’aspetto formale dell’eguaglianza.
Questo elenco può essere integrato alla luce dei divieti di discriminazione previsti
dall’ordinamento dell’UE che a sua volta prevede dei divieti di discriminazione:
 in base all’etnia (etnia e razza sono due cose diverse) quindi subentra e si amplia
il divieto di discriminazione per questo aspetto
 le discriminazioni patrimoniali e anche per questo aspetto il divieto di
discriminazione si amplia
 l’orientamento sessuale, quando la Cost parla di divieto di discriminazione per
sesso, presumibilmente si riferisce alla distinzione di genere, ma l’orientamento
sessuale è contenuto come divieto di discriminazione nell’ordinamento dell’UE e
attraverso questo entra nell’ordinamento italiano, sebbene non direttamente
riconducibile all’art 3 della Cost
DISTINZIONE TRA DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE DIRETTA E INDIRETTA
Discriminazione diretta è il trattamento differenziato di due soggetti che sono nella
medesima condizione
Discriminazione indiretta perché esistono anche regole che apparentemente sono neutrali,
ma non tenendo conto delle condizioni peculiari dei soggetti a cui vanno riferite, di fatto
creano una discriminazione, cioè sono più vantaggiose per alcuni soggetti e meno per altri.
In quali rapporti va fatta valere il principio d’eguaglianza?
L’eguaglianza deve valere nei rapporti verticali (cittadini-poteri pubblici). I poteri pubblici
hanno l’obbligo di rispettare il principio d’eguaglianza. È un obbligo che s’impone ai
pubblici poteri.
Nei rapporti orizzontali (tra persone), cioè personali è più complicato imporre, cioè che la
Cost imponga il principio d’eguaglianza, ciò significherebbe entrare nella vita privata, nelle
scelte dei singoli, non sarebbe molto democratico. Però se si sposta la visuale dai rapporti
personali, a quelli lavorativi professionali, la questione potrebbe cambiare. Innanzitutto ci
sono imprese che forniscono un servizio pubblico o un servizio di pubblico interesse e lo
forniscono anche grazie ad una concessione pubblica. A questi soggetti è richiesto un
comportamento che non discrimini gli utenti, salvo che non ci siano delle giustificazioni, e
comportamenti che non discriminino i dipendenti. Questo significa che una capacità
d’incidere sul rispetto del principio d’eguaglianza può riguardare anche i rapporti di lavoro
e quindi può imporsi agli imprenditori nei confronti dei dipendenti, oppure i divieti di
discriminazione potrebbero anche riguardare le organizzazioni di tendenza, ad es. le
associazioni, dipende però dall’impostazione dell’organizzazione.
PRINCIPIO D’EGUAGLIANZA SOSTANZIALE
Il secondo comma dell’art 3 fa riferimento ad un’accezione diversa d’eguaglianza, che è
l’eguaglianza sostanziale.
Art 3 co.2 : È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Nota: rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale. C’è un collegamento con il
divieto di discriminazione in condizioni personali e sociali
Quale sia l’esatto portato del principio d’eguaglianza sostanziale non è chiaramente
definito. La dottrina costituzionalistica ha dato concezioni differenti del principio
d’eguaglianza sostanziale.
In questo caso si parla di Repubblica e non di Stato, quando si parla Repubblica si chiamano
in causa tutte le forze che compongono la Repubblica, almeno tutte le forze pubbliche,
cioè Stato, Regioni, enti locali.
Il compito è quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale.
Nel primo comma si legge: tutti i cittadini hanno pari dignitàisogna sociale e sono eguali
senza distinzioni.
Nel secondo comma si legge : è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli.
Nel primo caso abbiamo dei divieti, bisogna non fare, in modo da trattare tutti nella stessa
maniera, in modo da evitare discriminazioni.
Nel secondo caso si ha il compito di fare qualcosa, la Repubblica deve intervenire.
È come se il secondo comma imponga all’ordinamento una sorta di programma di
trasformazione sociale, si chiede alla Repubblica d’intervenire per rimuovere gli ostacoli
che impediscono l’evoluzione/la crescita dei cittadini.
Qualche costituzionalista (Lavagna) all’indomani dell’entrata in vigore della Cost, disse c’è
un programma di cambiamento sociale e l’obiettivo è lo Stato socialista. In realtà se si
pensa a quelli che sono stati gli ordinamenti socialisti in senso proprio, come l’Unione
Sovietica, concretizzare un ordinamento di quel tipo significherebbe svuotare l’eguaglianza
sostanziale, ma garantire totalmente l’eguaglianza formale. Sebbene l’ideologia socialista
sia stata alla base del compromesso che ha portato all’approvazione della Cost, la Cost non
è una costituzione socialista, è una cost sociale.
L’altra idea (di Rescigno) che potrebbe dare una concretizzazione al programma dell’art 3 è
quello del livellamento delle chanches, cioè la Repubblica interviene al fine di livellare le
disuguaglianze e mettere tutti nelle condizioni di partenza per raggiungere i propri
obiettivi. Quindi eliminare le disuguaglianze e consentire a tutti di avere le stesse
possibilità. Poi se raggiungeranno o meno gli obiettivi tutto dipenderà dalla volontà, dalle
capacità di ciascuno, ma non dalle disuguaglianze di partenza.
Un’altra lettura dell’art 3 è quella che prevede un programma di trasformazione e il
compito della Repubblica è il soddisfacimento dei diritti sociali. Cioè il compito della
Repubblica è garantire a tutti i cittadini il soddisfacimento dei diritti sociali anche laddove il
legislatore non dovesse intervenire. Se il legislatore non dovesse intervenire, a soddisfare i
diritti sociali dovrebbe essere la magistratura (in parte è ciò che accade)
Questo meccanismo è rischioso perché rischia di scavalcare il rapporto rappresentativo,
rapporto sul quale si basa la democrazia, cioè il ruolo del Parlamento come rappresentante
del popolo.
Un’altra lettura dell’art 3 : nel primo comma ci sono i divieti di discriminazione, tra questi
divieti c’è il divieto di discriminare in base alle condizioni personali e sociali, però
differenze sociali e personali ci sono nella società, è inevitabile. Queste incidono sulle
persone e sulla tutela dei loro diritti. D’altro canto il secondo comma dice che la
Repubblica ha un compito d’intervento, cioè quello di rimuovere gli ostacoli. È possibile
allora che l’art 3 sia quella disposizione che giustifica le c.d. azioni positive, cioè l’intervento
pubblico a beneficio di alcune categorie e non di tutti. Cioè un intervento a beneficio di
alcune categorie svantaggiate o anche di categorie sotto rappresentate, es. famiglie a
reddito basso, che ovviamente non sono nelle stesse condizioni personali e sociali di una
famiglia a reddito alto. Un es. di sotto rappresentazione è la donna in alcuni contesti, come
quelli politici o nei consigli di amministrazione, o comunque in tutte quelle posizioni in cui
c’è una rappresentanza di genere che non corrisponde alla presenza di quel genere in quel
contesto. Es. In una società di 100 persone, 50 uomini e 50 donne, tutti gli amministratori
sono uomini.
L’idea è che il secondo comma dell’art 3 giustifichi degli interventi del legislatore nei
confronti di determinate categorie sotto rappresentate o svantaggiate. Questa idea ha un
pregio: non rimette l’intervento alla magistratura, ma al legislatore che deve decidere le
azioni da fare, che tipo di azione e nei confronti di quali categorie. Quindi è una scelta
politica che si muove sul crinale del rapporto tra rappresentanti e rappresentati.
D’altro canto il paradosso delle azioni positive è che potrebbero contrastare con i divieti di
discriminazione di cui al primo comma.
Questa soluzione consente di giustificare alcune decisioni politiche che intervengono sulla
tutela dei diritti delle persone e che altrimenti non sapremmo come giustificare, cioè se ci
fosse solo il primo comma dell’art 1, sicuramente le azioni positive sarebbero
discriminatorie, si possono giustificare ai sensi del comma 2 dell’art 3.
Allo stesso modo questo secondo comma consente di giustificare, almeno in parte, gli
interventi della magistratura e le decisioni della Corte Cost che può dichiarare
l’incostituzionalità delle leggi che contrastino con l’art 3. La Corte Cost può censurare tutte
quelle leggi che violino di discriminazione di cui al primo comma dell’art 3, ma se l’art 3 al
secondo comma richiede alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli, questo secondo comma
mette nelle mani della Corte Cost anche il compito e la possibilità di censurare quegli
interventi normativi che siano in contrasto con il secondo comma, che non rimuovono gli
ostacoli, ma li mantengono, li preservano, li rafforzano. Rescigno dice che l’art 3 è una
disposizione costituzionale, con un contenuto giuridico, ma è prima ancora una
disposizione costituzionale con un contenuto etico e morale perché richiede ai poteri dello
Stato di fare delle scelte giuridiche che siano coerenti con quell’orientamento etico morale
che dal secondo comma dell’art 3 si può desumere, cioè l’intervento volto al superamento
degli ostacoli di ordine economico e sociale, il superamento di quegli ostacoli che limitano
l’eguaglianza di quelle persone.
L’obbligo d’intervenire per rimuovere quegli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo
della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione
politica, economica e sociale del Paese, cioè quelle misure che giuridicamente sono prese
nell’ottica di concretizzare quella sorta di contenuto etico, politico, morale che c’è nel
secondo comma, potrebbero essere giustificate anche se in qualche modo sono
contrastanti con i divieti di discriminazione. Viceversa quelle misure adottate che invece
non rimuovessero quegli ostacoli, anzi per evitare d’interferire con il divieto di
discriminazione potrebbero aumentare quelle diseguaglianze, quelle potrebbero essere
dichiarate incostituzionali perché contrastano con quel contenuto etico politico che il
secondo comma dell’art 3 manifesta.

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