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SEZIONE TERZA

L’ANTIGIURIDICITA’

LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE E LE ALTRE CAUSE CHE ESCLUDONO LA PUNIBILITA’ DI


UN FATTO TIPICO

TIPICITA’ E ANTIGIURIDICITA’ NELLA STRUTTURA DELL’ILLECITO PENALE: RAPPORTI


FRA NORMA DI DIVIETO E NORME PERMISSIVE
L’accertamento dell’antigiuridicità, presuppone, da un lato, l’esistenza di un fatto che presenti tutti i
requisiti, oggettivi e psicologici, descritti nella fattispecie legale di un reato e dall’altro, l’inesistenza di
situazioni o circostanze a cui l’ordinamento giuridico attribuisca una efficacia giustificante. In presenza di
situazioni o circostanze del genere, il fatto tipico, pur restando tale, tuttavia non è antigiuridico, per effetto di
una norma permissiva che lo autorizza o lo impone; con la conseguente elisione dell’applicabilità, in concerto,
della norma di divieto.
I rapporti fra norma permissiva e norma di divieto sono contrassegnati dal fatto che l’eventuale operare
della norma “permissiva” non modifica, né limita, la materia del divieto, ma soltanto ne esclude l’applicabilità
ai casi concreti, in cui ricorra anche l’ipotesi prevista dalla norma permissiva. Il principio fondamentale,
sottesa a tutte le ipotesi di giustificazione di un fatto tipico è dunque il principio di non contraddizione (e di
unità) in virtù del quale l’ordinamento non può, da un lato, riconoscere l’esistenza di un diritto e, dall’altro,
sanzionare penalmente le condotte in cui il suo esercizio si concreta.
Ogni norma permissiva, in sostanza, viene a trovarsi in una situazione di conflitto con la norma di divieto e,
in tale conflitto, la prima è destinata a prevalere, in quanto presenta, rispetto alla seconda, un elemento
specializzante: essa, infatti, disciplina, sostanzialmente, i casi in cui, oltre a tutti gli elementi descritti dalla
singola norma incriminatrice, sono altresì presenti quelli descritti dalla norma permissiva.
La fonte delle singole fattispecie permissive può essere rinvenuta non solo nell’ambito del diritto penale,
ma anche in altri settori dell’ordinamento. Si capisce, quindi, perché è impossibile fornire un catalogo
esaustivo delle cause di giustificazione che, al contrario, corrispondono a un elenco “aperto”, a cui il legislatore
può aggiungere nuove voci e che può, inoltre, essere arricchito per via interpretativa.
Secondo l’opinione della dottrina dominante, infatti, in materia di cause di giustificazione non vige il
divieto di applicazione per analogia: e ciò per almeno due buone ragioni.
In primo luogo, le disposizioni, su cui si fondano le ipotesi di non punibilità in questione, non sono
propriamente norme penali, ma costituiscono norme dell’ordinamento giuridico generale, di cui esprimono
principi validi anche al di là dello stretto ambito del diritto penale. In secondo luogo, perchè il divieto di
applicazione analogica è tendenzialmente inoperante in bonam partem, vale a dire in relazione alle norme che
prevedono cause di non punibilità del fatto previsto come reato, o ipotesi di attenuazione della pena.
All’esclusione del divieto di analogia discende anche la possibilità di riconoscere l’esistenza di cause di
giustificazione non previste espressamente dalla legge, ma individuate in via interpretativa. Un esempio
caratteristico è costituito dal cd diritto di cronaca, che la giurisprudenza ormai pacificamente riconosce, a
determinate condizioni, come causa di liceità del diritto di diffamazione a mezzo stampa.

LE “CAUSE DI ESCLUSIONE DELLA PENA” O “ESIMENTI”


Fiore sostiene che il livello intermedio tra tipicità e colpevolezza sia costituito non dalla categoria
dell’antigiuridicità, bensì dalla più ampia categoria delle esimenti (situazioni in cui un soggetto, per vari
motivi, è considerato non punibile) che può essere suddivisa in tre sottogruppi: le cause di giustificazione;
le scusanti; i limiti istituzionali della punibilità.
●Nella categoria delle esimenti rientrano, in primo luogo, le cause di giustificazione (o scriminanti),
cioè quelle situazioni in presenza delle quali viene meno il contrasto tra il fatto (che astrattamente corrisponde
alla fattispecie del reato) e l'ordinamento giuridico. È evidente allora che impropriamente il legislatore le
denomina “cause di esclusione della pena” perché in realtà viene meno tutto il reato, e non la sola pena.
Attorno alle cause di giustificazione esiste un dibattito, incentrato sulla loro collocazione nell'ambito
della struttura del reato. In particolare, si fronteggiano due diverse teorie: la teoria tripartita e del
reato la teoria degli elementi negativi del fatto.
La teoria tripartita del reato considera le scriminanti come elementi positivi del fatto, cioè elementi esterni ed
ulteriori rispetto alla fattispecie di reato, in presenza dei quali viene esclusa l’illiceità del fatto. Ne consegue
che le cause di giustificazione fanno venire meno l'antigiuridicità del fatto, sicchè il fatto, pur essendo tipico,
va esente da pena in quanto autorizzato o imposto da diversa norma dell'ordinamento che rende il fatto stesso
non antigiuridico.
La teoria degli elementi negativi del fatto, invece, considera le scriminanti come elementi negativi di esso, cioè
elementi interni alla fattispecie di reato, in presenza dei quali viene meno la sussistenza della condotta tipica.
La dottrina ha cercato di individuare la ratio delle cause di giustificazione, il che è indispensabile per
due ragioni: 1) innanzitutto per ragioni interpretative, per individuare cioè l'esatto significato di ciascuna
norma; 2) in secondo luogo ai fini di un'applicazione analogica ai casi non espressamente previsti (qualora si
acceda alla tesi secondo cui le cause di giustificazione possono trovare applicazione analogica).
Le principali opinioni dottrinarie in materia di cause di giustificazione sono sostanzialmente riconducibili a
due correnti di pensiero: le teorie moniste e quelle pluraliste.
Le teorie moniste hanno cercato di individuare un fondamento unitario per tutte le cause di giustificazione
previste dal codice. In particolare, alcuni sostengono che le cause di giustificazione inciderebbero
sull'elemento soggettivo, escludendo il dolo, cioè lo scopo o il movente criminoso. Tuttavia si è obiettato che le
cause di giustificazione si applicano oggettivamente, cioè anche quando il soggetto agente avesse comunque
l’intenzione di compiere quel determinato fatto. Ad esempio se Tizio vuole uccidere Caio e, per farlo, aspetta
appositamente di essere aggredito, si applica ugualmente la scriminante della legittima difesa.
Altri autori hanno individuato tale ratio nel principio del mezzo adeguato per il raggiungimento di uno scopo
approvato dall'ordinamento. Altri ancora nella prevalenza del vantaggio sul danno oppure nel bilanciamento
tra beni in conflitto.
Nei confronti dell'indirizzo monista si è mossa sostanzialmente l'obiezione per cui le cause di giustificazione
sono molte e tutte diverse tra loro e cercare un fondamento unitario a tutte quante equivale comunque a darne
una spiegazione parziale.
Le teorie pluraliste, invece, hanno cercato di individuare per ogni norma una ratio diversa. L'opinione
prevalente riconduce la ratio delle cause di giustificazione a due principi di fondo:
- alcune scriminanti sono riconducibili al principio dell'interesse prevalente cioè, sono previste dalla
legge perché nel caso di specie il legislatore ha considerato prevalente l'interesse di colui che ha
commesso il fatto sull'interesse del danneggiato. Ad esempio nella legittima difesa il legislatore
preferisce prendere in considerazione l'interesse di chi, per difendersi, ha commesso il fatto, piuttosto
che quello di chi ha subito l'azione.
- altre scriminanti sono riconducibili al principio dell'interesse mancante cioè, sono previste dalla legge
perché nel caso di specie, manca l'interesse del legislatore a punire quella condotta. A questa ratio
sono riconducibili solo il consenso dell'avente diritto e lo stato di necessità; così, se Tizio uccide Caio
per la necessità di difendersi, lo stato non ha più interesse a punire Tizio, perché non ci sarebbe
nessuna ragione di applicare la pena, né di tipo preventivo, né di tipo punitivo.
Ciò premesso, in ordine alla funzione delle cause di giustificazione Fiore elabora la teoria della cd.
non impedibilità del reato che individua come dato comune a tutte le ipotesi generalmente configurate
come cause di giustificazione il fatto che il realizzarsi del diritto obiettivo passa necessariamente attraverso il
compimento, da parte dell’agente, di un fatto preveduto dalla legge come reato. In altre parole, esiste un
diritto soggettivo in tutti i casi di scriminanti previsti dalla legge e questo diritto non può essere esercitato se
non attraverso la commissione di un reato, per cui la ratio va ricercata nella non impedibilità del reato. Vi
rientrano la legittima difesa, lo stato di necessità, l'esercizio di un diritto, il consenso dell'avente diritto,
l'adempimento di un dovere, l'uso legittimo delle armi.
Per quanto concerne le caratteristiche della disciplina delle cause di giustificazione va osservato che:
1) eliminano l'antigiuridicità del fatto, nel senso che il fatto commesso non è un reato (è questa la più
importante differenza rispetto alle altre due figure successive); 2) il fatto rimane lecito per qualsiasi settore
dell’ordinamento e pertanto non potrà produrre alcun effetto sanzionatorio a carico dell’autore, anche in
ambito non penale (sarà quindi esclusa l’applicabilità di pene o misure di sicurezza, l’obbligo del risarcimento
del danno, la possibilità di applicare sanzioni disciplinari o amministrative di qualsiasi genere); 3) non può
costituire presupposto per un reato accessorio; 4) la non punibilità si estende a tutti coloro che hanno
partecipato al fatto.
●Un secondo gruppo di esimenti è costituito dalle scusanti (o cause di esclusione della
colpevolezza). Si tratta di situazioni che, pur non potendosi ritenere pienamente conformi alle esigenze
dell’ordinamento giuridico, vengono ritenute non punibili secondo una logica di inesigibilità della pretesa
normativa. Si pensi ad esempio alla non punibilità di chi redige una falsa perizia per salvare l’onore di un
prossimo congiunto. È evidente, quindi, la differenza fra cause di giustificazione e scusanti: nelle cause di
giustificazione viene meno l'antigiuridicità del fatto; nelle scusanti, invece, non viene meno l'antigiuridicità del
fatto che rimane pur sempre illecito, ma la colpevolezza perché nessun rimprovero può essere mosso all'autore
del fatto, a cui l'ordinamento ritiene di non poter chiedere nulla di più, dato cher le circostanze erano tali da
rendere inesigibile un comportamento diverso.
Per quanto concerne le caratteristiche della disciplina delle esimenti va osservato che: 1) escludono la
colpevolezza; 2) l’illiceità del fatto non può dirsi esclusa alla stregua dell’intero ordinamento giuridico, tant’è
vero che non si esclude la responsabilità civile per il fatto commesso e neppure la punibilità di terzi che
abbiano eventualmente concorso nel reato; 3) possono costituire presupposto per un reato accessorio; 4)
avendo carattere soggettivo la non punibilità opera solo a favore del soggetto cui si riferisce, ma non si estende
al coautore del fatto .
●Un terzo ed ultimo gruppo di esimenti è costituito dai limiti istituzionali della punibilità (cause di
esenzione della pena, o cause di non punibilità). Si tratta di circostanze che lasciano sussistere sia
l'antigiuridicità che la colpevolezza; solo che il legislatore, per ragioni di tipo giuridico, o pratico, o per
l'esigenza di salvaguardare particolari controinteressi coinvolti nella fattispecie, decide di non applicare la
pena. È il caso del furto commesso da un figlio ai danni del genitore (articolo 649); in tal caso il fatto continua
a rimanere antigiuridico, né viene meno la colpevolezza; ma il legislatore non irroga la sanzione.
Il fatto, quindi, è illecito e l’autore non viene neanche “scusato”. Ne consegue che: 1) escludono la
colpevolezza; 2) l’illiceità del fatto non può dirsi esclusa alla stregua dell’intero ordinamento giuridico, tant’è
vero che non si esclude la responsabilità civile per il fatto commesso e neppure la punibilità di terzi che
abbiano eventualmente concorso nel reato; 3) possono costituire presupposto per un reato accessorio; 4)
avendo carattere soggettivo la non punibilità opera solo a favore del soggetto cui si riferisce, ma non si estende
al coautore del fatto .
Dal punto di vista della sistematica del reato, le esimenti diverse dalle cause di giustificazione devono
dunque essere collocate in uno spazio intermedio fra l’antigiuridicità e la colpevolezza, poiché, da un lato, non
escludono l’illiceità del fatto alla stregua dell’intero ordinamento giuridico; e, dall’altro, non hanno ancora
alcun rapporto con i giudizi individualizzanti che contrassegnano il momento della colpevolezza. La
dimensione della colpevolezza è infatti contrassegnata da giudizi e valutazioni individualizzanti, riferite cioè al
singolo autore che sembrano del tutto estranee alla ratio di queste ipotesi di esclusione della pena. Ed invero,
nelle ipotesi in esame si tratta pur sempre di una inesigibilità che non si radica nella soggettività del singolo
autore, bensì in una condizione soggettiva tale da rendere inesigibile da chiunque una condotta conforme al
diritto. Esse escludono la rilevanza del fatto tipico, solo per quanto concerne l’inapplicabilità di una pena o di
una misura di sicurezza, ma lasciano impregiudicate sia le conseguenze giuridiche di esso in altri settori
dell’ordinamento, sia taluni aspetti di rilevanza intrasistematica che conseguono alla commissione di un fatto
tipico e antigiuridico (reato accessorio e responsabilità del concorrente).
In sintesi:
a) in presenza di una causa di giustificazione il fatto è lecito
b) in presenza di una causa di esclusione della pena il fatto è illecito ma il soggetto viene scusato
c) in presenza di una causa di esenzione della pena (o di non punibilità) il fatto è illecito e il soggetto non viene
scusato, ma la pena non viene irrogata per ragioni di politica criminale.
NOTA
●Le “cause di esclusione della pena” o esimenti: tutte le situazioni che ricadono sotto la disciplina dell’artt. 59
e 119.
●Le cause di non punibilità: il caso fortuito, la forza maggiore, l’errore, il reato impossibile (art. 49).

REGOLA DELLA “RILEVANZA OGGETTIVA” DELLE CIRCOSTANZE DI ESCLUSIONE DELLA


PENA (art. 59 co. 1 c.p.) E IL PROBLEMA DELL’ELEMENTO SOGGETTIVO DELLE ESIMENTI
L’art. 59 co. 1 c.p. recita: “Le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore
dell’agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti”.
Questa disposizione, dunque, assoggetta le c.d. “circostanze di esclusione della pena” (o esimenti) alla
regola della rilevanza oggettiva. Ciò significa che la punibilità del fatto rimane esclusa, in presenza degli
elementi oggettivi della situazione esimente, anche se l’agente non se li rappresenti affatto o sia convinto della
loro inesistenza (per l’applicabilità delle cause di non punibilità non si richiede la consapevolezza dell’agente
circa l’esistenza dei presupposti oggettivi dell’esimente). Così, ad esempio, non può essere punito Tizio che per
difendersi, uccida il suo aggressore senza sapere che questi stava per estrarre una pistola e ucciderlo.
Sulla base di tali considerazioni, la dottrina dominante sostiene l’irrilevanza degli elementi
soggettivi delle esimenti.
Altra parte della dottrina, compreso Moccia, invece, rifacendosi all’esperienza tedesca, afferma che
una condotta può risultare giustificata, allorché non solo il disvalore di evento, ma anche il
disvalore di azione del fatto tipico risultino neutralizzati dagli elementi della fattispecie
giustificante. Le cause di giustificazione sono, quindi, caratterizzate dalla presenza di elementi oggettivi ed
elementi soggettivi, intesi sia come conoscenza dei presupposti di fatto della giustificazione che come
realizzazione della finalità richiesta dalla norma autorizzativa. Così, ad esempio, per la legittima difesa e lo
stato di necessità, l’agente deve conoscere la situazione giustificante, cioè l’attualità del pericolo di un’offesa
ingiusta o di un danno grave alla persona, e deve agire con la volontà di difendersi o di salvare sé o altri.
Queste conclusioni appaiono obbligate dal momento che se sono presenti oggettivamente circostanze
giustificanti, ma l’agente non ne è a conoscenza, egli agisce per la realizzazione di un evento che, nella
situazione da lui prevista, è disapprovata dal diritto, in quanto lesiva di beni giuridici. Si pensi, ad esempio, al
caso in cui un ladro si introduca in una casa nel momento in cui il marito picchia la moglie.
In effetti, la tipicità di un fatto per risultare giustificata necessita della presenza di elementi sia di valore
oggettivo che di valore soggettivo. Pertanto, se per paralizzare il disvalore d’evento è necessario che sia
presente oggettivamente la situazione giustificante (cd. valore d’evento), affinchè cada anche il disvalore
d’azione occorre che l’agente si renda conto di agire in una situazione scriminante e soprattutto realizzi la
condotta tipica per adempiere alle specifiche finalità giustificanti (cd. valore d’azione). Peraltro, la
valorizzazione degli elementi soggettivi delle scriminanti non sembra porsi in contrasto con la struttura del
reato, in quanto lascia intatta la distinzione tra le categorie dell’antigiuridicità e della colpevolezza o
responsabilità. Difatti, compito della prima resta la valutazione oggettiva di contrarietà della condotta con
l’intero ordinamento giuridico, mentre alla seconda continua a spettare il compito di valutare l’illecito
complessivo in rapporto al singolo autore del fatto. Secondo quest’orientamento la disposizione di cui all’art.
59, comma 1, non esclude la necessaria presenza degli elementi soggettivi della fattispecie scriminante, in
quanto si limita a ribadire l’irrilevanza del putativo, rendendo operante la scriminante, completa nei suoi
elementi oggettivi e soggettivi, a prescindere dall’opinione che il soggetto agente abbia sulla liceità della
propria condotta. In sostanza, la disposizione si riferisce non tanto alla situazione scriminante, che deve essere
conosciuta dall’agente, quanto piuttosto alla norma scriminante. Così, ad esempio, in tema di legittima difesa
il soggetto deve agire per difendersi, conoscendo la situazione di pericolo effettivamente presente, non
sapendo però che la sua condotta risulta scriminata.
Quanto, poi, al trattamento sanzionatorio da riservare ad un illecito caratterizzato dalla presenza del
solo disvalore d’azione, una parte della dottrina (quella tedesca) propende per una punizione a titolo di reato
consumato, sulla base della non conformità al tipo giustificante del concreto accadimento, altra parte
(Moccia), invece, sostiene che l’agente sia punibile a titolo di tentativo, in quanto, il fatto antigiuridico,
mancando del disvalore d’evento, è di grado attenuato, per cui la sanzione dovrà essere inferiore a quella
normalmente prevista per il reato consumato.
Più complessa è la soluzione della questione quando la struttura dell’esimente è contrassegnata da un
elemento di carattere soggettivo, in assenza del quale è la stessa “circostanza di esclusione della pena” che
viene a mancare, e non semplicemente la percezione di essa da parte dell’agente. Si pensi ai casi in cui
l’essenza stessa della causa di non punibilità risiede nello “scopo” dell’azione, ad es. il “fine di adempiere un
dovere del proprio ufficio”, nell’art. 53 c.p., ma anche alle ipotesi di “costrizione ad agire”, di cui agli artt. 52 e
54 c.p., in cui la legge, nel delineare la fattispecie, sembra voler attribuire rilevanza, non solo ai dati oggettivi,
ma anche a quelli di carattere soggettivo (riferimento al dato psicologico-motivazionale), per il configurarsi
dell’esimente. In questi casi la rilevanza degli elementi soggettivi delle cause di giustificazione è del tutto
evidente.
Tuttavia, si è osservato che le conoscenze e le motivazioni dell’agente risultano naturalmente irrilevanti in
relazione a quelle esimenti la cui ratio si fonda su valutazioni di mera opportunità e prescinde per definizione
dal disvalore della condotta: non v’è dubbio che il furto fra prossimi congiunti (art. 649 c.p.) resti non
punibile, indipendentemente dal fatto che l’autore si rappresenti o meno i presupposti oggettivi della causa di
non punibilità.
Irrilevante è anche l’eventuale concorrere di uno scopo, o motivazione individuale, con quello che
costituisce il nucleo dell’elemento “soggettivo” della causa di non punibilità. Il pubblico ufficiale che faccia uso
delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica contro una folla in tumulto, resterà non punibile ex art. 53 c.p.
anche se la sua reazione sia intimamente sostenuta da personali ideologie.
Naturalmente, spetta all’interprete individuare, in concreto, quando si è di fronte alla mancanza di un
elemento soggettivo della fattispecie scriminante – e quindi alla “oggettiva” inesistenza della stessa causa di
non punibilità – e quando, invece, si tratti semplicemente di applicare la regola dell’art. 59 co. 1 c.p.

LA DISCIPLINA DELLE ESIMENTI “PUTATIVE”.


L’art. 59 ult. co. c.p. dispone: “Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della
pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la
punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
La norma pone, dunque, un rapporto di equivalenza tra la scriminante effettiva e la scriminante putativa,
cioè scriminante per errore ritenuta esistente, in quanto, in entrambe le ipotesi, viene esclusa la punibilità
dell'autore del fatto tipico.
È pacifico, innanzi tutto, che l’errore contemplato dall’art. 59 ult. co. c.p., non riguarda i casi in cui l’agente
supponga come esistente una “circostanza di esclusione della pena” che in realtà non è affatto prevista dalla
legge, ovvero attribuisca ad una esimente, effettivamente prevista, limiti di applicabilità diversi o più ampi. In
queste ipotesi l’errore sull’esimente configura come un errore (indiretto) sul divieto, che esclude la
colpevolezza solo ove si tratti di errore inevitabile ex art 5 c.p. e non ricade, pertanto, nell’ambito di
applicazione dell’art. 59 ult. co. c.p. Si pensi al caso del soggetto che ritenga, per errore sul precetto, che la
provocazione costituisca causa di giustificazione e non una mera causa di attenuazione della pena.
La scriminante putativa si riferisce esclusivamente alle ipotesi in cui il soggetto suppone
(erroneamente) l’esistenza dei presupposti di fatto di una esimente: si rappresenta, cioè, per
errore, una situazione di fatto tale che, astrattamente considerata, renderebbe il fatto da lui commesso
inquadrabile in una ipotesi esimente (la rilevanza dell’errore non è però limitata ai casi di errore sulle cause di
giustificazione; essa si estende anche alle altre ipotesi di esimenti). Esempio: Caio, in una strada buia, scambia
l’amico che scherzosamente gli si avvicina agitando un bastone per un aggressore e lo ferisce; il figlio compie
un furo ai danni del padre putativo.
In tutte queste situazioni dev’essere esclusa la colpevolezza dell’agente: pur essendo il fatto tipico e
antigiuridico, tuttavia l’agente, da un punto di vista soggettivo, agisce nella stessa condizione in cui si
troverebbe se sussistessero i presupposti di applicazione della scusante o della diversa ipotesi di esenzione
della pena, quindi, manca la colpevolezza dolosa. Tant’è vero che ove l’errore fosse evitabile ovvero
dovuto a colpa dell’agente questo risponde a titolo di colpa, se il fatto è previsto dalla legge
come delitto colposo. Ad esempio Tizio, camminando di notte lungo una strada solitaria, viene avvicinato
da un estraneo che gli vuole chiedere una informazione; essendo un tipo particolarmente autosuggestionabile
crede di essere aggredito e lo uccide. In questo caso la scriminante della legittima difesa non esiste, perché
Tizio erroneamente crede di essere aggredito; tuttavia sarebbe eccessivo incriminare costui per omicidio,
perché manca il dolo, cioè la volontà di uccidere; quindi, dal momento che l'intenzione di Tizio era unicamente
quella di difendersi; la fattispecie viene inquadrata nell'ambito dell'omicidio colposo.
Se l’ambito di applicabilità dell’art. 59 ult. co. c.p. può dirsi sostanzialmente pacifico, alquanto controversa
è invece la sua collocazione sistematica all’interno della struttura del reato. Va detto, al riguardo,
che la dottrina dominante tende ad assimilare l’errore sulle circostanze di esclusione della pena
all’errore sul fatto ex art. 47 c.p., ma fra le due ipotesi, in realtà, esiste solo una analogia di disciplina; esse
però differiscono per quanto concerne i rapporti con gli elementi costitutivi del reato. In particolare, non
sembra da condividere l’opinione secondo cui l’errore sulle esimenti esclude il dolo dell’agente. Nell’ipotesi
dell’art. 47 l’agente non sa quel che fa e questo significa che manca il dolo; nell’ipotesi dell’art. 59 l’agente sa
benissimo cosa sta facendo, ma erroneamente crede che gli sia permesso farlo. Chi agisce nell’erronea
supposizione che esistano i presupposti di fatto di una esimente, prevede e vuole gli elementi oggettivi del
fatto tipico poiché si rappresenta condotta, rapporto di causalità ed evento; e “vuole” altresì la lesione di beni
che con il suo fatto realizza. Ciò che egli erroneamente “suppone” è che il fatto tipico sia permesso; che cioè il
divieto non si applichi, in virtù delle circostanze che egli crede esistenti.
Non è dunque il dolo ad essere escluso; lo è, però, la colpevolezza del soggetto, il cui atteggiamento è,
semmai, analogo a quello di chi versa in errore sulla legge penale. Entrambi si trovano, infatti, in una
posizione in cui non sono motivabili dalla norma di divieto: l’uno perché non ne conosce l’esistenza; l’altro
perché crede che l’efficacia del divieto sia paralizzata da una norma permissiva.
Da quanto detto risultano evidenti le differenze di struttura fra errore sul fatto ed errore
sull’antigiuridicità, nonchè il differente rapporto in cui le due ipotesi si trovano con gli elementi costitutivi
del reato.
Anche per quanto concerne la disciplina dell’errore “determinato da colpa”, le analogie fra i due casi sono
soltanto apparenti. Nell’errore sul fatto ciò che si punisce è un vero e proprio reato colposo: la condotta di chi
realizza, attraverso una violazione della diligenza oggettiva, un evento lesivo che non ha né preveduto né
voluto. Si pensi, al cacciatore che uccida un compagno di battuta sparando con eccessiva precipitazione in
direzione di un cespuglio dietro il quale credeva ci fosse un animale. Nell’erronea supposizione di un esimente,
l’eventuale punibilità concerne invece sempre un fatto volontario e l’oggetto del giudizio di colpevolezza è
costituito dal processo motivazionale che ha prodotto il dolo del fatto, a cui si riferisce, appunto,
l’apprezzamento dell’eventuale violazione della diligenza oggettiva (se l’errore è inevitabile si esclude la
colpevolezza dolosa; se l’errore è evitabile si esclude altresì la colpevolezza dolosa, perché il soggetto risponde
a titolo di colpa; in ciò consiste la differenza rispetto alla disciplina di cui all’art. 5 che in caso di errore
evitabile non esclude la punibilità a titolo di colpa dolosa).

LE SINGOLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE

IL CONSENSO DELL’AVENTE DIRITTO (ART. 50 CP).


La scriminante del consenso dell'avente diritto è regolata dall'art. 50 c.p. a norma del quale: “Non è
punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne”.
Il fondamento specifico di tale ipotesi di non punibilità viene generalmente indicato nel venir meno
dell’interesse, da parte dell’ordinamento, alla tutela di un bene giuridico, alla cui integrità lo stesso titolare del
bene non mostra di aver interesse. Esempio: Tizio presta il suo consenso alla distruzione di un piccolo
manufatto di sua proprietà perché Caio possa raggiungere con un escavatore il suo fondo allo scopo di
eseguirvi dei lavori.
La causa di giustificazione del consenso dell'avente diritto (che esclude l'antigiuridicità del fatto tipico)
deve essere distinta dalle ipotesi in cui il consenso esclude la stessa tipicità del fatto; il che avviene
quando la fattispecie incriminatrice prevede come elemento costitutivo della tipicità il dissenso o la mancanza
di assenso del soggetto passivo, sicchè l'eventuale consenso renderebbe inesistente il fatto tipico e non ne
escluderebbe solo l'antigiuridicità (il contenuto di offesa del fatto consiste proprio nel suo realizzarsi contro la
volontà del titolare del bene. Per esempio nel caso della violenza carnale il consenso non fa venir meno il
reato, ma il fatto tipico; in altre parole in tal caso non abbiamo un fatto di reato, non punibile per la presenza
di una scriminante, bensì una fattispecie assolutamente diversa rispetto a quella tipica della violenza carnale;
la stessa cosa avviene per la violazione di domicilio; il consenso a far entrare un estraneo in casa non esclude il
reato, ma il fatto tipico. Avere un rapporto sessuale, o entrare in casa d'altri, infatti, non sono fatti proibiti
dall’ordinamento; sono invece di per sé neutri. Se però il rapporto sessuale, o l'entrare nella casa altrui, sono
realizzati nonostante il dissenso, allora il fatto diventa un reato.
Da un punto di vista soggettivo, per avere efficacia scriminante il consenso: deve essere prestato da un
soggetto capace di intendere e di volere, anche se in determinati casi può essere richiesta anche una
specifica capacità di agire( per consentire validamente alla lesione di diritti patrimoniali, ad esempio, si ritiene
necessario che il titolare del bene abbia compiuto la maggiore età); deve essere stato prestato liberamente;
deve essere immune da errore, cioè non deve essere prestato per effetto di un inganno, perpetrato
dall’autore del fatto o da terzi, né deve essere comunque viziato da un errore di chi presta il consenso; deve
provenire dal titolare del diritto la cui lesione si autorizza o da chi lo rappresenta; se più sono i titolari
del diritto, il consenso deve essere prestato da tutti.
Da un punto di vista oggettivo per avere efficacia scriminante il consenso deve sussistere al
momento del fatto e deve avere ad oggetto un diritto disponibile. Sono considerati disponibili: i
diritti che attengono ai beni individuali; i diritti inerenti alla sfera della personalità (onore, libertà personale,
diritto alla riservatezza); è, altresì, disponibile il diritto all'integrità fisica nei limiti consentiti dall'art. 5 cc e,
cioè, ove l'atto di disposizione non cagioni una riduzione permanente dell'integrità ed ove non sia altrimenti
contrario alla legge, all'ordine pubblico e al buon costume. Ne consegue che il consenso scriminante ad atti che
incidano sulla integrità fisica è ammesso solo entro i limiti di cui all'art. 5 cc; oltre tale soglia il fatto costituirà
sempre reato.
Il consenso non necessita di forme particolari di manifestazione essendo ammissibile anche un consenso
espresso per comportamento concludente (c.d. consenso tacito).
Diverse dal consenso tacito, sono le fattispecie del consenso putativo e del consenso presunto. Il consenso
putativo è quello supposto dall'autore del fatto di reato sulla base di presupposti oggettivi che lo abbiano
indotto a tale erronea supposizione. In tal caso, ove l'erronea supposizione del consenso non sia addebitabile
neppure a titolo di colpa, il consenso putativo sarà assimilato al consenso effettivo ex art. 59 ultimo comma
c.p.; qualora, invece, l'erronea supposizione sia colposa, l'autore sarà punibile a titolo di colpa ove il reato
preveda tale titolo di responsabilità. Si pensi ad esempio alla moglie che regali gli abiti smessi del marito a un
mendicante o chi si impossessa dei frutti caduti da un albero abitualmente non raccolti dal proprietario.
La fattispecie del consenso presunto si verifica, invece, allorchè l'autore del fatto tipico di reato è
consapevole dell'insussistenza di un consenso del titolare del diritto e, tuttavia, compie il fatto nella
convinzione della natura vantaggiosa del fatto stesso per il titolare del diritto violato (teoria oggettiva) o nella
convinzione che il consenso sarebbe stato prestato dal titolare ove ne avesse avuta la possibilità (teoria
soggettiva). Si pensi ad esempio a chi si introduce nell’abitazione del vicino per spegnere l’inizio di un
incendio.

L’ESERCIZIO DI UN DIRITTO E L’ADEMPIMENTO DI UN DOVERE (ART. 51 CP).


La scriminante dell’esercizio di un diritto è regolata dall'art. 50 c.p. a norma del quale: “L’esercizio
di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della
pubblica Autorità, esclude la punibilità”.
La norma, che deve essere considerata una norma penale in bianco in quanto implica necessariamente il
rinvio ad una fonte normativa diversa da cui il diritto o il dovere giuridico derivano, si rifà al principio di non
contraddizione, in virtù del quale l’ordinamento non può, da un lato, riconoscere l’esistenza di un diritto e,
dall’altro, sanzionare penalmente le condotte in cui il suo esercizio si concreta. Ogni norma permissiva, in
sostanza, viene a trovarsi in una situazione di conflitto con la norma che contiene il divieto penalmente
sanzionato. In tale conflitto, la norma permissiva è destinata a prevalere, in quanto presenta, rispetto alla
norma di divieto, un elemento specializzante (cd. principio di specialità): essa, infatti, disciplina,
sostanzialmente, i casi in cui, oltre a tutti gli elementi descritti dalla singola norma incriminatrice, sono altresì
presenti quelli descritti dalla norma permissiva.
Il termine diritto va riferito non solo ai diritti soggettivi, ma a qualsiasi posizione di potere riconosciuta
dall’ordinamento: diritto potestativo, facoltà, potestà, ecc. Quanto alla fonte del diritto, questa non è soggetta
al principio di legalità, in quanto l’articolo 51 si limita a riconoscere diritti presenti in altre branche
dell’ordinamento; e dunque il diritto può nascere anche da regolamenti, consuetudini, contratti, atti
amministrativi, o dal diritto straniero, ecc.
L'art. 51 c.p. contempla, oltre alla scriminante dell'esercizio del diritto, la causa di giustificazione
dell'adempimento del dovere.
"L'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica
autorità, esclude la punibilità (1). Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell'Autorità, del reato
risponde sempre il p.u. che ha dato l'ordine (2). Risponde del reato, altresì, chi ha eseguito l'ordine, salvo
che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo (3). Non è punibile chi esegue
l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine (4)".
Stando al 1° comma è esclusa la punibilità di chi realizza il fatto tipico nell'adempimento di un dovere
derivante da norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità.
Anche in questo caso si fa ricorso al principio di non contraddizione per giustificare la condotta dell’agente,
non potendo uno stesso fatto essere punito da una norma e imposto da un’altra. Gli esempi classici sono quelli
del boia che esegue una condanna a morte, del soldato che uccide in guerra, ma anche del poliziotto che
procede ad un arresto (privando quindi un soggetto della libertà personale, fatto che di per sé costituirebbe
reato), o del testimone che riferendo i fatti a cui ha assistito lede l'onore di una persona.
Le fonti del dovere sono:
- la norma giuridica nozione che comprende non solo la legge statale, ma anche gli atti ad essa
equiparati (legge regionale, regolamento, consuetudine), nonché le norme di diritto internazionale
destinate ad operare nel nostro ordinamento;
- un ordine dell’autorità che, per assumere efficacia esimente:
1) deve costituire manifestazione di volontà emanata nell’ambito di un rapporto di gerarchia previsto
dal diritto pubblico, non essendo in alcun modo rilevante un ordine proveniente da soggetti privati,
quand’anche dotati di una “autorità”, per altro verso legalmente riconosciuta (es. datore di lavoro).
Per quanto riguarda la qualificazione del soggetto che impartisce l'ordine, è altresì necessario, secondo
parte della dottrina, che si tratti di un pubblico ufficiale; secondo altra parte della dottrina è, invece,
sufficiente che si tratti di un incaricato di pubblico servizio o di un esercente un servizio di pubblica
necessità.
2) deve essere legittimo, sia dal punto di vista formale che dal punto di vista sostanziale. L’ordine è
formalmente legittimo quando il superiore è competente ad emanarlo, l’inferiore competente ad
eseguirlo e quando è stato dato nelle forme prescritte. La legittimità sostanziale dell’ordine
dipende invece dall’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto previsti dalla legge.
Ove l'ordine sia illegittimo, risponderanno sia l’inferiore che il superiore. In tal caso, occorre però
distinguere se si tratti di illegittimità formale o di legittimità sostanziale e se il destinatario dell'ordine possa o
meno sindacare la sua legittimità.
Vi sono però due casi in cui chi riceve l’ordine, nonostante l’illegittimità di esso, non risponde (nel qual
caso risponde solo il superiore):
1) il sindacato sulla legittimità formale dell'ordine è sempre ammesso, il subordinato, cioè, ha sempre la
possibilità di disattendere l’ordine quando sia illegittimo per ragioni di forma o per incompetenza dell’autorità
che lo ha emanato (esempio: un colonnello dell’aviazione che impartisca un ordine ad un soldato di fanteria) o
per incompetenza di chi dovrebbe eseguire l’ordine e, quindi, dovrà rispondere del fatto di reato in
concorso con chi ha dato l'ordine, salvo che, per errore di fatto ha creduto di obbedire ad un
ordine legittimo (comma 3);
2) con riferimento alla legittimità sostanziale, invece, quando l’inferiore per legge non abbia facoltà
di sindacato sulla legittimità dell'ordine (si tratta di quegli ordini impartiti nell'ambito di ordinamenti
di tipo militare, come carabinieri, vigili del fuoco, soldati) andrà esclusa l'antigiuridicità del fatto, salvo
che sussista la manifesta criminosità dell'ordine (esempio: un superiore che ordina di far fuoco su dei
cittadini inermi). Si desume, a contrario, che solo nelle ipotesi in cui la criminosità dell’ordine non sia
manifesta, l’inferiore può invocarne, a propria scusa l’insindacabilità. Anche nel caso in cui l'ordine sia
manifestamente criminoso, non risponderà penalmente del fatto commesso chi abbia, per errore sul fatto,
ritenuto di eseguire un ordine legittimo.

LA DIFESA LEGITTIMA (ART. 52 CP).


L'art. 52 cp è atto di recente modificato dalla l. 36/2019.
Il comma 1 ribadisce ciò che già scriveva il testo originario e cioè che non sia punibile chi ha
commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od
altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata
all'offesa.
●Si comprende come la scriminante della legittima difesa ruoti intorno ai poli del pericolo attuale e
dell'offesa ingiusta.
- Il pericolo deve essere attuale cioè essere già in corso di attuazione nel momento della reazione;
infatti senza questa condizione si deve ritenere la difesa privata come non necessaria e pertanto
illegittima. Di conseguenza la difesa legittima non potrà configurarsi nel caso in cui l'offesa riguardi il
futuro o si sia già esaurita. Il giudizio circa l'esistenza del pericolo va fatto su basi rigorosamente
oggettive e, quindi, tenendo in considerazione tutte le circostanze del caso concreto (anche se
conosciute successivamente al fatto), purché presenti al momento della condotta offensiva; queste
debbono apparire idonee, secondo la migliore scienza ed esperienza, a provocare o ad aggravare quegli
eventi lesivi che si vogliono scongiurare attraverso l'azione difensiva.
- L'offesa minacciata deve essere:
1) ingiusta, cioè configurare una situazione soggettiva contraria al diritto;
2) arrecata a un diritto proprio o altrui, avente ad oggetto beni non soltanto di natura personale
(vita, integrità fisica, libertà, onore ecc.), ma anche patrimoniale (proprietà o altri diritti reali, possesso,
diritti di godimento);
3) conseguire ad una condotta umana o a un fatto di animali o cose sulle quali un
soggetto abbia il potere di signoria (non è invocabile, dunque, la legittima difesa avverso atti o
fatti di animali o cose prive di un dominus);
4) non deve, poi, essere stata volontariamente causata in quanto, secondo la giurisprudenza
della Suprema Corte, ove la stessa sia addebitabile al soggetto che pone in essere la reazione, ciò
significa che difetta il presupposto della necessità della condotta difensiva atteso che la situazione di
pericolo è stata determinata proprio dall'aggredito. La legittima difesa torna, tuttavia, a scriminare ove
l'offesa sia assolutamente sproporzionata ed imprevedibile rispetto all'azione che l'abbia provocata.
●Affinchè l'offesa realizzata attraverso l'azione difensiva possa essere giustificata sono necessari, accanto ai
requisiti del pericolo attuale e dell'offesa ingiusta, anche precisi requisiti della reazione e cioè la
"necessità" e la "proporzione fra difesa e offesa".
La reazione dell'agente deve apparire necessaria per salvaguardare il bene posto in pericolo e pertanto deve
essere inevitabile; tale giudizio non può essere assoluto, bensì relativo, e ciò comporta che la valutazione della
necessità di difesa dovrà avvenire in considerazione di tutte le circostanze del caso concreto. L’applicazione
della scriminante deve, quindi, essere esclusa quando all’autore si offrivano valide alternative, diverse dal
compimento del fatto tipico, per neutralizzare l’aggressione (il soggetto aggredito ha la possibilità di difendersi
senza offendere l'aggressore oppure, ove ciò non sia possibile, allorché la difesa possa essere realizzata con una
offesa meno grave di quella arrecata.
In tale prospettiva, si è posta la questione dei rapporti tra la scriminante della legittima difesa e la
fuga (c.d. commodus discessus); se, cioè, sia astrattamente ipotizzabile il ricorrere della causa di
giustificazione ove l'aggredito abbia a disposizione la possibilità alternativa della fuga.
Non sembra siano da condividere, perché eccessive, le due opposte soluzioni: di riconoscere la legittima difesa,
anche quando la fuga sia possibile ma sarebbe percepita come atto di viltà; di escludere sempre la legittima
difesa perché in presenza della possibilità di fuga verrebbe meno il requisito della necessità e la fuga sarebbe,
anzi, doverosa.
Va invece accolta una soluzione intermedia che esclude l'applicazione della scriminante allorché la fuga appaia
agevole, non rischiosa per l'aggredito o per i terzi, non particolarmente vergognosa. Viceversa la scriminante
andrebbe riconosciuta allorché la fuga esporrebbe l'aggredito o altri a probabili offese di una certa gravità
(rischiare l'infarto o l'aborto; rischiare di investire alcuni passanti in conseguenza di una precipitosa fuga in
macchina) o possieda connotati particolarmente negativi assumendo il valore di un deplorevole cedimento alla
delinquenza (nel caso in cui, ad esempio, l'aggredito sia un militare o un rappresentante della pubblica
autorità o anche quando, pur essendo un privato, la fuga assuma il significato di una sottomissione vergognosa
tale da consolidare il predominio di un malavitoso in una piccola comunità).
●Ulteriore fondamentale presupposto ai fini della scriminante della legittima difesa è quello
della proporzionalità tra offesa e reazione.
Originariamente la relazione di proporzionalità era valutata con riferimento agli strumenti difensivi a
disposizione dell'aggredito, sicchè, a prescindere dalla comparazione tra i beni, si riteneva che, in caso di
offesa ingiusta, ricorresse la legittima difesa, qualsivoglia fosse il grado d'offesa arrecato all'aggressore, ove
l'aggredito avesse a disposizione un solo strumento di difesa e tale strumento fosse suscettibile di determinare
offese di rilevante intensità.
Oggi, la dottrina dominante ritiene che sia sempre necessario effettuare una comparazione in concreto
tra fra il bene dell'aggredito (posto in pericolo dall'aggressore) e quello dell'aggressore
(sacrificato dalla reazione difensiva), nonchè in ordine al grado della lesione minacciata ed il grado della
lesione arrecata con la reazione difensiva medesima. Ove manchi la proporzione tra reazione ed offesa si
configurerà la fattispecie dell'eccesso colposo ove tale sproporzione sia dovuta ad errore nella valutazione della
situazione o nell'uso del mezzo difensivo; ove la sproporzione sia consapevolmente posta in essere, invece, la
sussistenza dell'offesa ingiusta sarà solo il pretesto per delinquere e l'autore della reazione sarà punito a titolo
di dolo.
Con la riforma del 2019 la cd. legittima difesa domiciliare gode di una rafforzata presunzione di
proporzione tra difesa e offesa, mentre la legittima difesa domiciliare di una inedita presunzione assoluta.
Nel 2006, la legge n. 59 ha aggiunto due commi all'art. 52, introducendo una sorta di «presunzione legale
del requisito della proporzione» che scatterebbe in presenza di talune condizioni espressamente e
tassativamente indicate.
In particolare, il secondo comma prevedeva che: “Nei casi previsti dall’art. 614, primo e secondo comma
(violazione di domicilio), sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se
taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati abitazione (altrui o altro luogo di privata
dimora) usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
a) La propria o la altrui incolumità;
b) I beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione”.
Questa disciplina veniva poi estesa, dal terzo comma, anche al caso in cui “il fatto sia avvenuto
all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o
imprenditoriale”.
La norma, quindi, poneva in favore dell'aggredito una presunzione di proporzionalità della reazione a
patto che sussistessero i presupposti di fatto indicati nella stessa disposizione e, cioè: 1) che l’aggressione sia
rivolta a difendere l’incolumità propria o altrui ovvero beni propri o altrui; 2) che il fatto si sia svolto in un
luogo di privata dimora (o luoghi ad esso equiparati); 3) che il soggetto che ponga in essere la reazione
legittima si trovi nel luogo dell'aggressione legittimamente; 4) che detenga lo strumento con il quale pone in
essere la reazione legittimamente; 5) che non vi sia stata desistenza e che vi sia ancora il pericolo
d'aggressione.
In caso di aggressione rivolta a difendere beni propri o altrui la presunzione legislativa di proporzione era,
altresì, subordinata alla mancata desistenza ed alla sussistenza di un pericolo di aggressione. Ove per
desistenza da parte dell’aggressore si intende l’abbandono dell’originario intento aggressivo e per pericolo di
aggressione l’esistenza di una minaccia per l’incolumità fisica che si aggiunge all’aggressione dei beni, per cui
sarà solo il luogo in cui avviene il fatto a far presumere l’esistenza di una proporzione tra offesa e difesa.
Ora, è evidente che la riforma del 2006 incideva soltanto sul requisito della proporzione, non facendo venir
meno l'esigenza di accertare la presenza di tutti gli altri requisiti di liceità della condotta difensiva previsti
dall'art. 52, 1° co. e, in particolare, il requisito della "necessità". Ed invero, la difesa doveva comunque essere
necessaria, il che era stato escluso tutte le volte in cui esistevano alternative lecite o meno lesive, ovvero il
pericolo di offesa non era attuale al momento del fatto (classico il caso del ladro in fuga, attinto alle spalle da
un colpo d’arma da fuoco.
Si pensi ad esempio a chi, imbattendosi in un intruso che sta per colpirlo con un pugno al volto, spari con
un’arma e lo uccida. In una simile ipotesi l’art. 52, co. 2, lett. a) c.p. stabilisce, in deroga al primo comma, una
presunzione di proporzione tra beni di rango diverso (la vita dell’intruso, sacrificata, e l’incolumità personale
della vittima della violazione di domicilio); senonché la legittima difesa può essere invocata solo se si dimostra
la necessità della difesa: ad esempio, l’inesistenza di un commodus discessus o l’impossibilità di difendersi
attraverso una colluttazione fisica, senza ricorso all’arma da fuoco, ovvero limitandosi a minacciarne l’uso. La
nuova presunzione interessa la legittima difesa tout court e, quindi, anche il requisito della necessità della
difesa, che si riteneva lecita solo quando non ci si poteva difendere in modo lecito (ad es., chiamando la polizia
o uscendo dalla porta sul retro) o in modo meno lesivo (ad es., lottando a mani nude, piuttosto che sparando).
Nel 2019, il legislatore con la legge n. 36 ha esteso l’ambito di applicazione della legittima difesa operando
in due direzioni:
- rafforzando la presunzione di proporzione tra difesa e offesa;
- introducendo una presunzione – tout court – di legittima difesa (cioè di tutti i requisiti della
scriminante, compresa la necessità della difesa).
La novella ha infatti introdotto l'avverbio "sempre" nella norma: sarà consentito in ogni situazione
scriminare la condotta della persona, legittimamente presente nell'abitazione, oppure nel luogo privato in cui
si esercita un'attività commerciale professionale o imprenditoriale, che usa un'arma legittimamente detenuta o
altro mezzo idoneo per difendere la propria o altrui incolumità e i beni propri o altrui, quando non vi è
desistenza e vi è pericolo d'aggressione.
Il legislatore peraltro ha introdotto un quarto comma all'art. 52 c.p., a norma del quale, nei casi
summenzionati, “agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione
posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più
persone”.
A seguito della riforma del 2019, quindi, la legittima difesa potrà essere invocata anche in assenza del requisito
della necessità, presunto ex lege. La legge cioè considera lecita l’uccisione dell’intruso, fronteggiato nel salotto
di casa, anche se si tratta di un’uccisione non necessaria (ad esempio perché si tratta di un ragazzino, di un
anziano o di uno sbandato, magari ubriaco) e chi è legittimamente presente nel domicilio può respingere
l’intrusione senza utilizzare la forza letale.
Il legislatore del 2019 ha peraltro modificato anche l'art. 55 cp, cioè l'eccesso colposo della legittima
difesa, che rendeva punibile la difesa ove per colpa sopraggiunta del reagente, la reazione risultasse
esuberante rispetto allo scopo di difendere un diritto contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta.
Ora "la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha
agito approfittando di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da
ostacolare la pubblica o privata difesa ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di
pericolo in atto”.
Ciò confermerebbe che da un lato, la legittima difesa domiciliare non è affatto "sempre" legittima, restando
escluso l'eccesso doloso di legittima difesa; dall'altro, l'eccesso colposo di legittima difesa domiciliare scrimina
sussistendone gli altri requisiti solo quando vi sia un pericolo per la incolumità personale.
Si segnala, infine, che nella novella del 2019 il legislatore interviene anche sui riflessi civilistici della
legittima difesa, così da evitare che colui che agisce nella propria abitazione per difendere se o altri sia
responsabile del danno cagionato.
L'art. 2044 c.c., ritoccato dalla nuova legge, stabilisce che la responsabilità di ha compiuto il fatto sia esclusa
nei casi di cui all'art. 52 (commi secondo, terzo e l'aggiunto quarto) c.p. come modificato.
Si è, quindi, esteso alla legittima difesa domiciliare la esenzione da responsabilità risarcitoria già
prevista dall'art. 2044 c.c. per la legittima difesa;
Nei casi di eccesso colposo, invece, colui che ha commesso il fatto per salvaguardare la propria o altrui
incolumità dovrà al danneggiato un'indennità la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice, il
quale dovrà tenere conto della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posta
in essere dal danneggiato stesso.
La legittima difesa putativa si verifica allorchè l'autore del fatto ponga in essere una reazione nella
supposizione erronea della sussistenza di un pericolo d'offesa ingiusta per un bene proprio o altrui. In tal caso,
la giurisprudenza ha precisato che, ai fini dell'operatività della scriminante putativa, è necessario che la
convinzione in ordine alla sua ricorrenza sia giustificata da fatti materiali e non origini da una mera percezione
soggettiva disancorata da presupposti concreti.
Problemi ulteriori sono, poi, posti dall'eventualità dell'aberratio ictus nella reazione legittima. La
questione è quella di individuare le conseguenze penali di un errore nella reazione dell'aggredito che destini la
propria reazione legittima su un soggetto diverso da quello che abbia posto in essere l'ingiusta offesa. In tal
caso, si è esclusa l'applicabilità dell'art. 82 cp e dell'art. 52 cp. Si ritiene, invece, che l'aggredito non risponda
del fatto penale tipico posto in essere ai danni del terzo non aggressore ove la condotta dell'aggredito non sia
qualificabile come colposa. Ove, invece, nella condotta dell'aggredito sia ravvisabile il requisito della
colpevolezza, il fatto penalmente rilevante gli sarà attribuito con tale titolo di responsabilità ove la fattispecie
astratta preveda la punibilità del fatto anche a tale titolo.

L’USO LEGITTIMO DELLE ARMI (ART. 53 CP)


La scriminante dell'uso legittimo delle armi è disciplinata dall'art. 53 c.p. a norma del quale: "Ferme le
disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere
un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione
fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza
all'Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione,
disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.
La stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli
presti assistenza. La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l'uso delle armi o di un altro mezzo
di coazione fisica."
Innanzitutto è evidente che la norma abbia carattere sussidiario: essa, cioè, può trovare applicazione solo
quando non siano presenti gli estremi costitutivi dell’esercizio del diritto, dell’adempimento del dovere o della
legittima difesa.
Si tratta di una scriminante propria, ossia operante esclusivamente: 1) per i pubblici ufficiali che
istituzionalmente e per legge hanno in dotazione armi o altri mezzi di coazione fisica, cioè, essenzialmente,
agli appartenenti alle forze dell’ordine e alle polizie locali; 2) per le persone che “legalmente richieste dal
pubblico ufficiale, gli prestino assistenza.
Il riferimento specifico al pubblico ufficiale come destinatario della causa di giustificazione impone che
l’uso dell’arma sia teso all’ adempimento di un dovere del proprio ufficio oppure ad eliminare l’ostacolo che si
contrappone tra il pubblico ufficiale e il dovere stesso. Essa dunque non opera se il soggetto ha agito per un
fine privato o nell’esercizio di una facoltà, e non di un dovere. I mezzi di coazione devono essere inoltre quelli
indicati dalle disposizioni di servizio o comunque strumentali rispetto alla realizzazione del dovere.
Due sono le ipotesi in cui è considerato legittimo ricorrere all’uso delle armi: quando il pubblico ufficiale
deve respingere una violenza – che può essere tanto diretta contro il pubblico ufficiale quanto contro cose
o persone che egli ha il dovere istituzionale di proteggere– o vincere una resistenza. È, conseguentemente,
controversa la possibilità di includere fra le situazioni rilevanti per l’art. 53 c.p. la c.d. resistenza passiva,
che non si concreta nell’opposizione di ostacoli, ma nel rimanere inerti, ovvero la fuga, poiché essa non lede o
pone in pericolo beni primari, e comunque tali da prevalere sul diritto alla vita. L’opinione dominante è,
comunque, per la soluzione positiva, saldamente ancorandola, però, al requisito della proporzione. La
resistenza passiva e la fuga, perciò, legittimano l’impiego della forza e, al limite, anche l’uso delle armi, purché
esso si ispiri a regole di cautela e di moderazione, che evitino la lesione di beni fondamentali della persona.
Requisiti indispensabili sono la necessità e la proporzionalità.
Necessità significa che la violenza da respingere e la resistenza da vincere devono essere di portata tale da
essere obbligato il ricorso alle armi. Se l’ostacolo è superabile facendo ricorso ad altri mezzi o misure, questi
debbono essere senz’altro preferiti. In definitiva, il ricorso alle armi deve costituire l’extrema ratio.
La proporzionalità, invece, richiede una valutazione caso per caso degli interessi contrapposti in
considerazione della condotta del pubblico ufficiale rispetto al pericolo derivante dalla violenza o resistenza.

STATO DI NECESSITA’ (ART. 54 CP)


La scriminante dello stato di necessità è disciplinata dall'art. 54 c.p.
“Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o
altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, da lui non volontariamente causato, né altrimenti
evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Questa disposizione non si applica a chi ha un
particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. La disposizione della prima parte di questo articolo si
applica anche se lo stato di necessità è determinato dall'altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso
dalla persona minacciata risponde chi l'ha costretta a commetterlo”.
Esempi tipici di applicazione dello stato di necessità sono: il naufrago che per salvarsi respinge un altro
naufrago aggrappatosi alla stessa tavola, incapace di sostenere entrambi; l’alpinista che taglia la corda del
compagno che ha perso la presa e che rischia di trascinarlo con sé; la manovra di emergenza di un
automobilista che per evitare un camion sterza bruscamente investendo un passante; la persona in grave stato
di inedia che ruba per sfamarsi.
Il fondamento della scriminante dello stato di necessità è stato variamente interpretato in dottrina.
Secondo una prima tesi esso consisterebbe nell'inutilità della pena nei riguardi di un soggetto che abbia
commesso il fatto in quanto costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo di un danno grave alla
persona. In tale prospettiva è stato anche osservato che lo stato di necessità non sarebbe una vera e propria
causa di esclusione dell'antigiuridicità ma solo una causa di esclusione della colpevolezza, poiché
lascerebbe intatto il connotato di antigiuridicità del fatto. In altri termini, nei casi di azione compiuta in stato
di necessità, il fondamento della non punibilità, trattandosi comunque di un fatto antigiuridico, andrebbe
cercato nella impossibilità di esigere dall’autore un comportamento conforme al precetto e si risolverebbe,
pertanto, in un elemento negativo della colpevolezza.
Secondo altra parte della dottrina, il fondamento della non punibilità risiederebbe viceversa,
esclusivamente nel principio del bilanciamento degli interessi in conflitto: per cui quando il bene
salvaguardato ha valore superiore rispetto al bene che viene offeso, l’azione coperta da stato di necessità
dovrebbe ritenersi non antigiuridica e quindi giustificata.
Il canone del bilanciamento dei beni non è però idoneo a fondare la non punibilità delle condotte compiute
in stato di necessità, nelle ipotesi normative in cui il rapporto di proporzione fra i beni in conflitto sia, invece, a
favore del bene che viene sacrificato. In questi casi, il fondamento della non punibilità va rinvenuto nella non
esigibilità di una condotta rispettosa del divieto. Peraltro, va precisato che non si tratta di una
inesigibilità psicologica, ma normativa: è l’ordinamento stesso che “autolimita” la sua pretesa, connotandola
normativamente come “non esigibile”.
Sul piano sistematico, le esimenti che si fondano esclusivamente sulla inesigibilità della pretesa normativa,
devono essere collocate non fra le cause di giustificazione, bensì nell’ambito delle “scusanti”. Si consideri
l’esempio dei due naufraghi che si contendono un rottame di legno inidoneo a sostenere il peso di entrambi.
In conclusione, possiamo affermare che le ipotesi di non punibilità che si ricollegano a uno “stato di
necessità” sono riconducibili alla categoria delle cause di giustificazione o delle scusanti, a seconda del
rapporto di proporzione fra beni: sarà una scriminante quando il bene sacrificato è di valore inferiore a quello
da salvare, perché in tal modo viene meno l’illiceità del fatto stesso ("stato di necessità giustificante"); sarà
invece una scusante quando il bene sacrificato sia identico a quello salvato, perché in tal caso viene meno la
sola colpevolezza dell’agente; il fatto quindi rimane illecito ma il soggetto è scusato ("stato di necessità
scusante").
La scriminante dello stato di necessità presenta molte affinità con quella della legittima
difesa, ma se ne differenzia per alcuni aspetti: 1) mentre nella legittima difesa il destinatario della
reazione difensiva è l’offensore, nello stato di necessità la condotta incide su soggetto diverso da quello che ha
determinato la situazione di pericolo; lo stato di necessità è invocabile non per difendere qualunque diritto ma
solo in caso di “danno grave alla persona”; mentre la legittima difesa è riconosciuta all’individuo per la tutela
di qualsiasi “diritto”, lo stato di necessità è invocabile non per difendere qualunque diritto ma solo in caso di
“danno grave alla persona”, propria o altrui; mentre la condotta lesiva posta in essere in stato di necessità
obbliga alla corresponsione, al terzo che subisce il danno, di un indennizzo (e non di un risarcimento), ciò non
è previsto con riferimento alla condotta lesiva posta in essere in situazione di legittima difesa.
L'articolo 54 cp nel disciplinare la scriminante dello stato di necessità, esclude la punibilità di chi abbia
"commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un
danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il
fatto sia proporzionato al pericolo". Dalla lettura della norma si desume che i requisiti perché si possa
invocare lo stato di necessità sono:
- l'esistenza di un pericolo attuale e inevitabile;
- l'esistenza di un pericolo che riguardi un danno grave alla persona.
Al fine dell'operatività della scriminante, la situazione di pericolo che rende l'azione necessitata deve essere
attuale e l'attualità del pericolo deve essere valutata ex ante con riferimento alla situazione in cui versa
l'agente prima di porre in essere la sua condotta offensiva. Il pericolo attiene ad un grave danno alla
persona propria o altrui: non necessariamente ad essere minacciato deve essere il bene vita o l'integrità
fisica; la situazione di pericolo può investire anche altri diritti della personalità come la libertà personale,
l'onore e il decoro.
La norma, poi, prescrive che lo stato di pericolo non deve essere stato volontariamente causato
dall'agente e che non sia altrimenti evitabile, nonché che l'azione lesiva sia necessaria. La causa
di giustificazione dello stato di necessità, quindi, è ravvisabile solo quando non esistano valide alternative alla
commissione del fatto tipico che possano realizzare la medesima funzione di salvaguardia del bene messo in
pericolo (nessun altro mezzo alternativo al compimento del fatto tipico, ed egualmente idoneo a scongiurare il
pericolo, sia concretamente a disposizione dell’agente).
Ulteriore presupposto richiesto, ai fini della configurabilità della scriminante, è la proporzionalità tra
“fatto e pericolo” (nella legittima difesa la proporzione è tra offesa e difesa). La comparazione deve
effettuarsi con riferimento al valore dei beni in conflitto e con riguardo al grado di lesione minacciato e
arrecato.
L’art. 54 co. 2 c.p. esclude l’applicabilità della disposizione contenuta nell’art. 54 co. 1 c.p. “a chi ha un
particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo”. La ratio di questa norma è evidente: ai soggetti su cui
l’ordinamento giuridico fa assegnamento per la salvaguardia di beni primari della collettività o del singolo non
può essere consentito di sottrarsi ai propri doveri d’intervento a cagione dei rischi a cui sarebbero esposti.
Risulta così, indirettamente confermata, fra l’altro, la dimensione interamente normativa della inesigibilità,
nella struttura della esimente ex art. 54 c.p. L’osservanza del precetto rimane esigibile da coloro su cui
incombe un obbligo giuridico di esporsi al pericolo, perché l’ordinamento si attende da essi prestazioni
adeguate all’addestramento e ai mezzi di intervento di cui li fornisce, o dovrebbe fornirsi.
Beninteso, il limite della esigibilità, anche per questi soggetti, non coincide certo con la pretesa di
prestazioni “eroiche”, e tanto meno dell’inutile sacrificio della vita.
L’art. 54 ult. co. c.p. stabilisce: “La disposizione della prima parte di quest’articolo si applica anche se lo
stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia; ma in tal caso, del fatto commesso dalla persona
minacciata risponde chi l’ha costretto a commetterlo”.
La disposizione è analoga a quella contenuta nell’art. 46 co. 2 c.p., in materia di “costringimento fisico”. La
differenza tra violenza fisica e minaccia (alias: violenza morale) impedisce, però, nel caso dell’art. 54 c.p., di
parlare di autore mediato. L’esecutore materiale del fatto, cioè la persona minacciata, ne è infatti, da ogni
punto di vista, anche l’autore, sia pure non punibile: colui che ha posto in essere la minaccia agisce, a sua
volta, come concorrente nel reato, assumendo il ruolo di “determinatore” (in tale ipotesi l'autore del fatto non
risponde del reato del quale, invece, è chiamato a rispondere il soggetto che ha coartato l'autore).
Deve, infine, rilevarsi che lo stato di necessità può essere invocato come scriminante anche con riferimento
ai delitti colposi e, tuttavia, anche in tali casi è necessario che la situazione necessitante non sia stata
volontariamente causata. L’esempio classico è quello del genitore che, alla guida di un’automobile, vede il
figlio di pochi anni camminare pericolosamente su un argine e arresta bruscamente il veicolo, causando un
tamponamento.

L’ECCESSO COLPOSO (ART. 55 CP).


Art. 55 cp: “Quando nel commettere taluno dei fatti preveduti dagli articoli 51, 52, 53 e 54, si eccedono
colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità, si
applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
La figura dell’eccesso colposo, disciplinata dall’art. 55 cp, ricorre quando taluno, in presenza di una
causa di giustificazione, eccede i limiti imposti dalla legge agendo colposamente. Ad esempio
Tizio, aggredito di notte da una persona che lo vuole solo picchiare, lo uccide barbaramente. Si badi che
l'eccesso in questione deve essere colposo; se Tizio, infatti, pur sapendo che Caio voleva solo spaventarlo, lo
uccide deliberatamente, allora il reato è quello di omicidio doloso.
Perché ricorra l’ipotesi prevista dall’art. 55 c.p. è necessaria: 1) la presenza di tutti gli elementi della
scriminante rilevante nel caso specifico; 2) il colposo superamento dei limiti tracciati dalla scriminante; 3) la
punibilità a titolo di colpa della condotta eccedente i limiti.
Più precisamente, ci sono due casi in cui ricorre l'eccesso colposo:
1) quando taluno valuta erroneamente una certa situazione e provoca volontariamente
l'evento (errore nel fine): ad esempio Tizio viene aggredito da Caio che vuole prenderlo a pugni; il primo,
credendo che Caio voglia ucciderlo, lo uccide a sua volta.
2) quando la situazione è valutata esattamente, ma per errore l'evento è più grave di quello
voluto (eccesso nei mezzi): ad esempio Tizio, per difendersi dall'aggressione, picchia Caio producendone,
senza volerlo, la morte.
La natura giuridica di tale fattispecie è oggetto di dibattito in dottrina, la quale si è espressa attraverso
due differenti concezioni.
Una parte della dottrina sostiene che si tratti di un’ipotesi di colpa in senso stretto perché l'azione è
commessa a causa di un errore di valutazione che poteva essere evitato prestando maggiore attenzione; lo
stato soggettivo, cioè, è quello tipico della colpa.
Altra parte della dottrina, invece, annovera l’eccesso colposo fra le ipotesi di colpa impropria, in quanto
l'evento ulteriore è stato in realtà previsto e voluto dall’agente (pertanto, si resterebbe fuori dallo schema
caratteristico del fatto colposo, che è contrassegnato dalla involontarietà dell’evento), ma questi ne risponde a
titolo di colpa.
Si è osservato, però, che la connotazione dell’eccesso colposo come ipotesi di colpa impropria (ma in realtà
dolosa) è esatta con riferimento solo alle situazioni in cui l’agente ha erroneamente valutato una situazione di
fatto (l’eccesso derivi da un errore (colposo) nella valutazione dei limiti dell’intervento necessitato). Solo in
queste ipotesi, infatti, si può dire che l’agente “vuole” l’evento lesivo e che la punibilità “a titolo di colpa” derivi
da una pura opzione normativa. Quando invece si tratti di un uso improprio dei mezzi di azione, lo schema
della condotta, anche soggettivamente, riflette, in realtà, la struttura della responsabilità colposa: l'autore non
vuole il fatto tipico di reato in quanto è convinto della ricorrenza di una causa di giustificazione che, ove
effettivamente esistente, sarebbe stata idonea ad escludere la stessa tipicità del fatto.
In queste ipotesi, in altre parole, l’autore agisce sempre per uno scopo tutelato dall’ordinamento; solo che
nella concretizzazione del suo scopo, agisce, per eccesso di precipitazione o per un’altra causa, in modo
oggettivamente non appropriato alla situazione di fatto, in cui si trova ad operare.
Il dibattito è tutt’altro che sterile ed ha delle importanti conseguenze pratiche. Infatti, se l'eccesso si
considera doloso, vi è compatibilità tra la figura in esame ed il tentativo (v. 56), il concorso di persone nel
reato (v. 110 ss.) e la continuazione (v. 81); se, invece, l'eccesso si considera colposo non vi è compatibilità con
il tentativo e con il concorso di persone nel reato a titolo di dolo (ad esempio nell’ipotesi in cui Caio passi la
pistola a Tizio, il quale uccide Sempronio eccedendo colposamente i limiti della legittima difesa, accedendo
alla tesi del reato colposo Caio non potrà essere imputato di concorso in omicidio), inoltre si applicherà
l’articolo 61 n. 3, cioè l’aggravante di aver agito, nei reati colposi, nonostante la previsione dell’evento.
È comunque opinione pacifica che la disciplina normativa dell’eccesso colposo, pur essendo dettata solo in
relazione agli artt. 51-54 c.p., sia applicabile anche al consenso dell’avente diritto e alle scriminanti speciali
previste in altre parti del codice.
Va osservato, infine, che la differenza tra esimente putativo ed eccesso colposo consiste nel fatto
che nel primo caso il soggetto erroneamente pensa di trovarsi in presenza di c.g., mentre nel secondo caso il
soggetto effettivamente si trova in presenza di c.g., tuttavia eccede quelli che sono i limiti previsti dalla legge.
Il legislatore del 2019 ha peraltro modificato anche l'art. 55 cp, cioè l'eccesso colposo della legittima
difesa, che rendeva punibile la difesa ove per colpa sopraggiunta del reagente, la reazione risultasse
esuberante rispetto allo scopo di difendere un diritto contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta.
Ora "la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha
agito approfittando di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da
ostacolare la pubblica o privata difesa ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di
pericolo in atto”.
Ciò confermerebbe che da un lato, la legittima difesa domiciliare non è affatto "sempre" legittima, restando
escluso l'eccesso doloso di legittima difesa; dall'altro, l'eccesso colposo di legittima difesa domiciliare scrimina
sussistendone gli altri requisiti solo quando vi sia un pericolo per la incolumità personale.

CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE E REATI COLPOSI


In via di principio, le singole cause di giustificazione sono da considerarsi applicabili anche ai reati colposi.
Non solo gli artt. 50-54 c.p., infatti, non distinguono in alcun modo tra fatto doloso e fatto colposo; ma non vi
è alcun dubbio che, anche in relazione a questi ultimi, l’antigiuridicità possa risultare esclusa per il ricorrere
dei presupposti di una causa di giustificazione.
Se, infatti, la presenza dei presupposti di una causa di giustificazione ha l’effetto di rendere non punibile la
condotta dolosa che abbia cagionato una determinata lesione di beni, a maggior ragione gli stessi effetti
giuridici dovranno conseguire, nell’ipotesi in cui, nelle medesime circostanze di fatto, quella lesione di beni si
verifichi come conseguenza di una condotta colposa. Esempio: Tizio, aggredito da Caio estrae una pistola e
dall’arma, maldestramente impugnata, parte un colpo che lo ferisce.
Non solo i casi di colpa incosciente possono venire in considerazione sotto il profilo della giustificazione
dell’azione, ma anche quelli di colpa c.d. cosciente. Si pensi a chi si pone alla guida di un auto che sa dotata di
freni difettosi per trasportare un ferito grave, nonostante ciò comporti un rischio per gli altri utenti della
strada.
Beninteso, l’applicabilità dell’esimente richiede in ogni caso l’esistenza di una proporzione fra i rischi
indotti dalla condotta necessitata e il pericolo che incombe sul bene che la condotta colposa mira a
salvaguardare.
Le ipotesi di fatto colposo giustificato non vanno confuse con i casi di eccesso colposo nelle cause di
giustificazione. L’eccesso colposo presuppone, infatti, un’azione intenzionalmente diretta a una lesione di
beni, che nei risultati appare però sproporzionata, rispetto alle necessità di tutela: o perché l’agente ha
erroneamente valutato la situazione di fatto, o perché ha impropriamente adoperato i mezzi a sua
disposizione. Le cose stanno diversamente, quando l’azione non è affatto diretta intenzionalmente a una
lesione di beni, ma la cagiona, o ne crea il rischio, per effetto di una violazione della diligenza oggettiva.
Controversa in giurisprudenza, ma ammissibile secondo Fiore, è la configurabilità del consenso ex art. 50
c.p., quale causa di giustificazione di una condotta colposa.
Si è obiettato, in particolare, che la struttura del consenso richiederebbe necessariamente una convergenza
della volontà dell’agente con quella del soggetto passivo, in rapporto alla lesione di un bene del secondo: di qui
la impossibilità di attribuire una efficacia esimente al consenso, relativamente a condotte da cui esula, per
definizione, una volontà di lesione. Si dimentica, però, che l’art. 50 c.p. configura il consenso dell’avente
diritto, non solo in rapporto alla lesione di un bene, ma anche con riguardo alla messa in pericolo dello stesso.
Ora, è proprio partendo da ciò, che si comprende come il consenso può funzionare da causa di giustificazione
di una condotta colposa. Chi liberamente acconsente ad una esposizione a rischio, che violi la diligenza
oggettiva, è d’accordo, necessariamente, anche con il verificarsi della lesione, che eventualmente discenda
dalla condotta imprudente posta in essere con il suo consenso. Anche il consenso presunto può assumere un
ruolo per la giustificazione di una condotta che violi la diligenza oggettiva.

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