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Corso di

DIRITTO CANONICO I

Appunti delle lezioni


11136
Prof. Natale Loda

Anno Accademico 2020-2021

1
I Lezione di Diritto canonico

Il diritto (ius) appartiene al mondo dell’esperienza umana, quindi dell’uomo, laddove lo stesso
vive in modo giuridico, regolarizza i comportamenti. Il diritto è dall’uomo e per l’uomo, senza
essere estraneo allo stesso ed alla sua esperienza.
Ubi societas ibi ius.

Ius è un termine originario ed astratto, ma anche poliedrico ed evanescente che deriverebbe


dalla radice sanscrita vedica1 di yos nel senso di salute, buono stato fisico, e dell’avestico yaoš nel
senso di purità rituale, oppure si potrebbe ricollegare all’indiano antico yúh con il significato di
brodo e corradicale di yáuti, yuvaty nel senso di legare, con lemmi di rielaborazione ulteriore,
probabilmente anche zuvmh (zúmi, lievito) e zwmovò (zomós, brodo), facendo in seguito risaltare
un certo equilibrio dinamico un aggregato di parti ottenuto attraverso un mescolamento. In ambito
giuridico e sociale lo ius diveniva un equilibrio di rapporti di tipo associativo opportuno e
conveniente tra individui o gruppi. Da un concetto astratto di ordine divino che si manifesta nei casi
concreti, determinando la soluzione di controversie e dispute giudiziarie 2. In epoca remota il diritto
era monopolio geloso dei Sacerdoti del Collegio dei pontefici. Solo nel III secolo a.C. Tiberio
Coruncanio (Pontefice massimo di origine plebea) professa lo ius come scienza.
Ancora, si assiste al significato di una connotazione etica della nozione quod iustum est cioè ciò
che è giusto, la parte giusta3.
Ius è l’ordine naturale e giusto, oppure il giusto ordine (non è mai ingiusto come potrebbe avvenire
per la legge), la giusta divisione delle cose del mondo in base ai principi di giustizia distributiva e
commutativa, realizzando un rapporto di uguaglianza tra dato ed avuto secondo la formula:
unicuique suum tribuere. Il diritto è razionale come somma delle esperienze umane, prodotto della
razionalità.
Nelle successive fasi del processo storico, ius venne a determinare una facoltà, un complesso di
rapporti definiti attraverso un comando, modi di agire umani oggettivamente assunti oppure tra loro
connessi. Si potrebbe dire che il jus è la norma regolante i rapporti tra gli uomini fra loro.
Diritto, directum nel latino medievale (di-rectus: reg – rego – regula nel significato di riga,
regola, tracciato in linea retta) indicando il diritto, il giuridico come azione o comportamento retti in
quanto posti in essere secondo un comando, quindi leciti e garantiti.
Diritto in senso generale indica un sistema, un complesso di norme che coordina l’attività di più
soggetti in modo da garantire un ordine stabile e procedure certe nei rapporti sociali. Queste norme
sono giuridiche in quanto dotate di autorità ad esse derivate da un atto normativo. Tale ultimo
elemento distingue il diritto e le norme giuridiche da norme morali o di costume.

Al contrario il termine jus che significa etimologicamente protezione, tutela divina, in


seguito diviene una norma regolante i rapporti tra gli uomini fra loro, il diritto è lo strumenti di
misura del fas e nefas, cioè ciò che è permesso e ciò che non è permesso. Quindi i l termine jus è lo
strumento di misura del fas e nefas, cioè ciò che è permesso e ciò che non è permesso stabilendo e determinando
l’esatto comportamento derivante dallo ius divinum da tenere rispetto ai sacra.
Fas e Nefas: seppure ancora esista una discussione e problematicità in quanto al significato, il termine fas deriverebbe
dal greco faivnw, favoò con una radice connessa al verbo fhmiv cioè parlare, dire di sé, in latino fari con un significato
1
Nella cultura indiana (sanscrita) il termine veda che riporta alla radice ved significa sapere, conoscenza da cui
sembrerebbe nella lingua greca originare il termine widea cioè idea e nella lingua latina video cioè io vedo, vedere (da
cui il termine video) ed in Inglese wit e wisdom.
2
P. CIPRIANO, Fas e Nefas, Roma 1978, p. 20.
3
G. PICCALUGA, Ius: la prospettiva giuridico-alimentare dell’ordine delle cose, in Revista de Ciencias de las
Religiones, Anejos, 2004, XII, p. 89-98, quivi p. 96; A. SCHIAVONE, Ius, L’invenzione del diritto in Occidente,
Torino 2005; J. HERVADA, Cos’è il diritto? La moderna risposta del realismo giuridico, Roma 2013.

2
di manifestarsi, mostrare, dire, quindi il significato di apparizione, manifestazione della volontà divina. Se si ritiene che
il termine fas derivi dal greco qevmiò con la radice che significa porre, stabilire, costituire, si ha il significato
etimologico di statuto come legge sacra e legge divina4, ma anche ius divinum, fatum, iura naturae, ius e la locuzione
predicativa fas est poteva significare possibile est e licet.
Sembra che originariamente il termine fas indicasse una realtà religiosa e giuridica, sotto forma di una legge di
contenuto religioso, una costituzione, in seguito sia divenuto solamente legge divina o ius divinum.
Al contrario il termine jus che significa etimologicamente protezione, tutela divina, in seguito diviene una norma
regolante i rapporti tra gli uomini fra loro 5. Per cui la locuzione binomia ius fasque est esprime due caratteri: il primo
giuridico vero e proprio, il secondo sacrale e religioso. “L’aspetto giuridico legale rapporta la prescrizione e la
posizione di chi compie le azioni contemplate dalla lex alla società che si esprime nella legge, all’organo che emana la
legge stessa; l’aspetto religioso rapporta la posizione dell’agente alla volontà degli dei che la società cerca di
interpretare tramite l’organo religioso emanante la legge”6.
Nel fas esiste una oscillazione tra la doverosità e la permissione, infatti determinati comportamenti sono
considerati leciti in quanto conformi alla volontà degli dei, oppure necessari perché da questi espressamente voluti, per
cui è il diritto religioso comprendente gli atti religiosi e liturgici nel loro aspetto giuridico, fondandosi sulla volontà
degli dei e quindi immutabile da parte degli uomini. L’inosservanza di ciò che è fas diviene offesa agli stessi dei, nefas
che fa incorrere nella reazione della natura stessa e nella reazione e dell’ira degli stessi dei.
Per il fas sembrerebbe esistere una connotazione nella sfera obbligatoria 7, ma anche permissiva8 o di liceità per
determinati atti o comportamenti9, mentre al contrario esiste la stessa obbligatorietà connessa con la sfera del vietato e
del dovere10. Sembrerebbe che il fas indichi la liceità e necessità di determinati comportamenti o atti riguardanti la sola
sfera religiosa.
Fas est/ fas non est e nefas est nell’uso predicativo rispetto alle prescrizioni dello ius divinum riguarda
l’osservanza o la violazione dello stesso, nei confronti dei sacra, attraverso il contatto di luoghi oppure oggetti, ma
anche liceità di determinati atti in ritualità e celebrazioni religiose.
Tale liceità sacrale si rapporta anche alle persone singole, in primo luogo il pater ma anche il dux, oppure categorie di
persone come il patriziato oppure istituti11.
Fas/nefas nel senso di è/non è possibile si riferisce alla realizzabilità di un’azione rapportata all’agente o come liceità di
compiere una determinata azione. Fas est/ fas non est e nefas est nell’uso sostantivale ha un significato fondamentale di
liceità/illiceità in riferimento a singole contingenze, ma anche esiste un significato di dovere morale.
Nefas si può riferire quindi a) al sacrilegio come azioni illecite o infrazioni compiute contro istituti o persone
sacre a Dio, tutelate dagli dei o contro oggetti consacrati ad essi; b) violazione della pietas; c) violazione della natura
contro le leggi della natura stessa e l’armonia naturale che è in tutte le cose animate ed inanimate; d) al peccato, alla
colpa come compimento di delitti particolarmente atroci che ripugnano la coscienza comune 12. Gli dei hanno come loro
tutela lo Stato e la città, la familia, ma anche il culto con la tranquillità di essi, per cui ogni atto pubblico o privato,
famigliare o sociale, ma anche culturale o liturgico determinati dal fas. Se nell’antichità originariamente erano i
Pontifices che rappresentavano gli interessi degli dei rispetto agli uomini, essi esercitavano una direttiva e sorveglianza
generale circa il culto e le sue prescrizioni, determinando sotto forma di pronuncia ciò che fosse fas oppure nefas. Il
trasgressore era considerato empio (sacer)13 e tale compito determinativo era esperito sempre dall’autorità pontificale.
Nel concetto di fas entra la dedicatio nei rapporti di un oggetto che esce dal commercio, divenendo res
religiosa, mentre la consecratio significava che l’oggetto entrava nell’orbita del fas sotto la tutela divina, divenendo
divini iuris res sacra14.
Il giuramento riguardava il fas e produceva effetti sacrali convalidando l’obbligo di prestare la fides confermando nel
caso dei soldati, laddove tale giuramento si chiamava sacramentum, una sudditanza ed obbedienza. Il giuramento
4
Per i Greci il termine qevmisteò diviene sinonimo di legge umana. Si veda C. FERRINI, Fas, in Nuovo Digesto
Italiano, XI, Torino 1938, p. 918-936. F. SINI, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del Diritto internazionale
antico, Sassari 1991; F. SINI, Fas et iurs sinunt (Verg., Georg. 1,269). Contributo allo studio della nozione romana di
Fas, I, Sassari 1984; P. CIPRIANO, Fas e Nefas, Roma 1978, p. 15 e ss.
5
Circa lo Ius si veda: G. PICCALUGA, Ius: la prospettiva giuridico-alimentare dell’ordine delle cose, in Revista de
Ciencias de las Religiones, Anejos, 2004, XII, p. 89-98. Anche se per l’Orestano si tratterebbe di un binomio
pleonastico ed equazione semantica, P. CIPRIANO, p.21.
6
, P. CIPRIANO, p.38.
7
É. BENEVISTE, Le vocabulaire des Institutions indo-européennes, 2, Paris 1969, p. 139.
8
J. PAOLI, Le monde juridique du paganisme Romani……
9
R. ORESTANO, Dal ius al fas. Rapporto tra il diritto divino e umano in Roma dall’età primitiva all’età classica, in
Bollettino dell’Istituto di Diritto Romano 46(1939) p. 238-259. , P. CIPRIANO, p.35 e ss.
10
P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, Torni 1960, p. 326. Si veda anche F. CORDERO, Riti e
sapienza del diritto, Bari 1981, p. 272.
11
P. CIPRIANO, p. 47 e ss.
12
P. CIPRIANO, p. 47 e ss.
13
C. FERRINI, p. 920.
14
C. FERRINI, p. 932-933.

3
invocava come testimoni gli dei e chi giurava il falso era detto impius implicando nei rapporti umani l’infamia che non
era una pena ma la condizione dello spergiuro15.
Se nel diritto romano religioso e giuridico con il termine fas si indicavano molteplici contenuti concetti, questi
erano più ampi della ristretta cristallizzazione effettuata nella moderna deontica e logica giuridica, per cui i lemmi
obbligatorio, permesso e vietato, sembrano essere inadeguati e parziari16.
Nel CIC 83 sotto il lemma fas risaltano i c. 45; 366,2; 396.2; 628.2; 748.2; 762; 952.1; 1177.2; 1285; 1609.4
seppure con significati e contenuti differenti; mentre il binomio nefas est lo ritroviamo nei c. 927; 983.1; 1026; 1190.1.

Carattere essenziale del diritto: il diritto ha un carattere umano ed esistenziale, cioè si inserisce
nell’esperienza di ogni persona. Le due versioni del diritto nell’esperienza di vita dell’uomo sono:
a) Diritto oggettivo come insieme di regole giuridiche o norme giuridiche che prescrivono agli
individui determinati comportamenti (norma agendi); è un comando oggettivo, è l’insieme delle
leggi o norme giuridiche dotate di esistenza soggettiva che coordinano obbligatoriamente
determinate azioni sociali (Codice Civile).
b) Diritto soggettivo il potere o la pretesa di un soggetto di agire per il soddisfacimento di propri
interessi, tale potere è riconosciuto e garantito dall’ordinamento giuridico. Questo potere fa sì che
altri assumano il comportamento prescritto da una norma. Quindi il diritto soggettivo è una facoltà
di fare, omettere oppure esigere, in quanto tale facoltà sia una cosa giusta.
Il diritto è la cosa giusta in quanto la stessa è già attribuita al soggetto, è dovuta in giustizia.
Le cose che possono essere diritti debbono avere una dimensione esterna che fuoriesca dalla sfera
intima del soggetto. Infatti il diritto e la cosa giusta sono la stessa cosa, ma per sapere se qualcosa è
ciò che è giusto, bisogna valutare il titolo ciò da cui ha origine il diritto. Il titolo è quindi ciò che
attribuisce una cosa ad un soggetto: l’uomo in quanto persona possiede un diritto, cioè una cosa che
cada sotto il suo dominio (oppure la signoria) dello stesso soggetto.
L’uomo è persona in quanto domina il proprio essere, è padrona di sé, responsabile dei propri atti
personali perché in forza della sua ragione (intelletto) e volontà decide liberamente, ma è anche
padrone delle cose esterne17.
L’uomo come persona comporta anche una dignità, cioè un modo di essere specifico che fa sì che
comprenda, conosca e compia con la volontà azioni che debbono essere buone, andando verso il suo
fine.

Diritto oggettivo: ciò che si deve fare (law) Diritto soggettivo: ciò che è mio diritto (right)
è l’insieme delle regole o norme giuridiche che prescrivono la pretesa di un soggetto in modo che altri assuma
agli individui determinati comportamenti il comportamento prescritto da una norma
norma agendi = regola dell'agire facultas agendi = facoltà dell'agire
Queste due nozioni sono tra loro strettamente correlate, sono due diversi aspetti di una stessa realtà.
I diritti soggettivi si fondano sui diritti oggettivi

Il diritto è intersoggettivo e riguarda l’uomo che si relaziona. Caratteristiche di tale diritto vi è


Imperatività
obbligatorietà
coercibilità: il diritto raggiunge il suo scopo anche senza la volontaria cooperazione del soggetto
obbligato. L’inosservanza delle proprie disposizioni ha come conseguenza la predisposizione di
15
C. FERRINI, p. 934.
16
P. CATALANO, p. 294 e 325.
17
Si veda la differenza tra l’uomo ed animale in J. HERVADA, Cos’è il diritto? La moderna risposta del realismo
giuridico, Roma 2013, p. 48.

4
misure coercitive che sono dette sanzioni. La coercibilità non è considerato come elemento
costitutivo delle norme giuridiche e fondamento della loro obbligatorietà.

Rapporto giuridico: ogni relazione regolata dal diritto ed è il vincolo che nasce tra due o più
soggetti giuridici detti parti.

Caratteri specifici del diritto (che si esprime in norme giuridiche):

Generalità significa che il diritto (che si esprime in una legge) non è istituito per i singoli individui,
ma per tutti i consociati, o determinati gruppi di consociati.

Astrattezza: significa che il diritto (che si esprime in una legge) non è promulgato per specifiche
situazioni concrete, ma per fattispecie astratte (species facti cioè stato di cose) per situazioni
ipotetiche, con formulazione generale ed astratta.

Certezza del diritto: gli ordinamenti giuridici debbono avere delle leggi stabili ed i singoli
debbono conoscere quali siano i comportamenti leciti o no per potersi regolare in conseguenza.

Diritto divino quale semplice espressione dell’essenza o natura divina, che identifica l’ordine
giuridico discendente da Dio, ma come libera determinazione della volontà di Dio. Si hanno le leggi
di diritto divino positivo dall’AT ma anche dal NT. Tale diritto ha come autore Dio stesso ed
attorno a tale diritto si sviluppa l’organizzazione ecclesiastica. Costituisce il fondamento del diritto
canonico.
Fonte di riferimento del diritto divino è il diritto naturale che dallo stesso è contenuto e giustifica la
legge positiva umana.

Diritto naturale è una porzione del jus divinum che possiede un lumen ex alto cioè posto da Dio e
rivelato per suo tramite attraverso la natura. Il diritto naturale è ogni diritto il cui titolo non è la
volontà dell’uomo ma la natura umana e la sua misura è la natura dell’uomo o delle cose 18. Quindi il
diritto naturale è qualsiasi diritto che l’uomo ha in virtù della sua natura, della sua persona per se
stesso (indipendentemente che lo concedano oppure no i legislatori). Infatti la persona umana è
titolare di diritti di cui la natura è fondamento e criterio di tali diritti. Si potrebbe dire che il diritto
naturale è l’insieme dei principi fondamentali dell’esistenza umana validi per tutti, oppure il
complesso di regole che scaturisce dall’intrinseca natura dei rapporti umani di coesistenza e quindi
non imposto dalla volontà di un legislatore. Trattasi di un diritto che non è prodotto da un uomo, è
indipendente dalla sua volontà in quanto immanente alla sua natura. Sono espressioni del diritto
naturale il dovere di rispettare la vita, di fare il bene e di evitare il male a tributare a ciascuno il suo.
Il diritto naturale è quello che è giusto per sé, ed ha come criterio la natura umana.
Le correnti che fanno riferimento al diritto naturale sono dette giusnaturalismo, elaborato dai
pensatori dei sec. XVI-XVII come Grozio, Locke, Thomasius. Questi Autori vedono il diritto
naturale secondo una visione ateo-panteistica che non è posto da Dio ma si affida al Principe oppure
al potere civile come lettore o come colui che stabilisca quale e cosa sia il diritto naturale. Nasce
così il diritto naturale che si statalizza come illuminismo giuridico.

Secondo Ulpiano (nato a Tiro nell’anno 170 e morto a Roma nel 228 maggiore giurista romano), «il diritto naturale è
quello che la natura ha insegnato a tutti gli esseri animati; ed infatti questo diritto non è proprio del genere umano, bensì
è comune a tutti gli esseri animati che nascono in terra ed in mare, ed anche agli uccelli. Di qui discende l'unione del
maschio e della femmina, che noi chiamiamo matrimonio, di qui la procreazione e l'allevamento dei figli; e infatti
18
Seguire le lezioni della natura anziché le peregrinazioni della cultura: M. ONFRAY, Cosmo, Firenze 2015.

5
vediamo che anche agli altri animali, perfino a quelli selvaggi, si attribuisce la pratica di questo diritto». Questo passo di
Ulpiano sarà inserito nel Digesto di Giustiniano I19 (D. 1, 1, 1, 3) e insieme all'intero Corpus iuris civilis costituirà
oggetto di studio per le scuole giuridiche medievali.
Nel Corpus iuris civilis è possibile rinvenire, accanto alla definizione della legge naturale proposta da Ulpiano, quella
datane dal giureconsulto Paolo, secondo cui il diritto naturale è «quello che è sempre giusto e buono» (Digesto. 1, 1,
11). Nelle Istituzioni, sempre accanto alla definizione ulpianea, ne è riportata un'altra sicuramente risalente al tempo di
Giustiniano I, dato l'uso di terminologie cristiane, secondo cui «le norme giuridiche naturali, che vengono osservate in
modo uguale presso tutte le genti», sono «stabilite da una provvidenza divina» (Institutiones, 1, 2, 11) 20.

Diritto positivo che si distingue dal diritto naturale ed è il diritto posto dall’uomo, o approvato dal
legislatore, la legge positiva, i comandi che insieme formano l’ordinamento giuridico. Pietro
Abelardo definisce il diritto positivo come: “Illud quod ab hominibus institutum”. Il diritto positivo
è un’attribuzione ed opera della volontà dell’uomo. La natura e la materia del diritto positivo è
l’indifferente rispetto alla natura umana21.
Il diritto positivo è formato: a) dalle leggi emanante dall’autorità; b) dalla giurisprudenza dei
giudici; c) dalla consuetudine proveniente dalla comunità.
Il diritto positivo è una vera e propria legge solo se deriva dalla legge naturale. Diversamente è
invalido, infatti: “Non erit Lex sed legis corruptio” (S. Th., q. 95, art. 2). La condizione della
validità del diritto positivo è la sua conformità al diritto naturale.
Secondo alcune teorie provenienti dal positivismo giuridico, il vero diritto propriamente detto
sarebbe solamente il diritto positivo, per cui il diritto naturale sarebbe solamente parte della morale
o non esisterebbe affatto.

S. Tommaso parla di quattro forme di leggi (leggi intese in senso di diritto) 22: 1) il diritto eterno che è la ragione divina
che governa le cose; 2) il diritto naturale che è la manifestazione dell’ordine creato da Dio soprattutto nella creazione e
l’uomo che è dotato di ragione (in quanto partecipa alla ragione eterna) può giudicare liberamente del bene e del male,
trattandosi del bonum faciendum et male vitandum. 3) Il diritto umano che corrisponde al diritto positivo, chiamato
anche lex humanitus posita che consta dei precetti che l’uomo con la sua ragione ricava dal precetto generale allo scopo
di regolare caso per caso le azioni e la sua vita di relazione. L’intera sfera della condotta umana deve necessariamente
19
Giustiniano I (482-565) è colui che per la prima volta innalza e risolleva l’idea romana sentita quasi misticamente
attraverso un soffio di restaurazione e di volontà di grandezza. L’Impero era smembrato, la Chiesa divisa dalle discordie
ed eresie, la corruzione e la caoticità dell’amministrazione portavano ad un fermo della vita sociale, la legislazione era
confusa e farraginosa, le arti decadute e l’economia stremata. Nonostante tutte queste difficoltà egli cercò di perseguire
l’idea cristiana attraverso i suoi ideali di unità politica, religiosa, legislativa e amministrativa. Riteneva che il potere
politico derivava da Dio, quindi l’Imperatore rappresentante di Dio in terra, potesse creare e interpretare la legge,
divenendo egli stesso legge (Si veda per tutti: R. FARINA, L’Impero e l’Imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea.
La prima Teologia politica del Cristianesimo, Zürich 1966 (Bibliotheca Theologica Salesiana, Fontes, 2). AA. VV., Il
mondo del Diritto nell’epoca giustinianea: caratteri e problematiche, Ravenna 1985; R. BONINI, Introduzione allo
studio dell’età giustinianea, Bologna 1985). Nella sua opera legislativa Giustiniano seguì la più rigorosa ortodossia,
mentre nel campo dell’amministrazione pubblica operò vaste riforme con una severa opera normativa e di controllo
(queste espressioni ed i tratti biografici sono ripresi da R. ORESTANO, Giustiniano, in Novissimo Digesto Italiano,
Torino 1961, VII, p. 1111-1112. B. BIONDI, Giustiniano primo principe e legislatore cattolico, Milano 1936; E.
ALBERTARIO, Introduzione storica allo studio del diritto romano giustinianeo, Milano 1935; AA. VV., L’Imperatore
Giustiniano: storia e mito. Giornata di studio a Ravenna 14-16 ottobre 1976, Milano 1978; per una lettura più
aggiornata della figura di Giustiniano: C. CAPIZZI, Giustiniano I tra politica e religione, Soveria Mannelli 1994; J.
MOORHEAD, Giustinian, London 1994; P. MARAVAL, L’Empereur Giustinien, Paris 1999; G. TATE, Justinien:
l’épopée dans l’Empire d’Orient, Paris 2004; J.A.S. EVANS, The Emperor Justinian and the Byzantine Empire,
London 2005; M. MEIR, Giustiniano, Bologna 2007).
20
Nella compilazione giustinianea si hanno le Institutiones, opera pubblicata nel 533 che voleva essere elementare
comprensione della materia del diritto, ispirandosi al modello delle Institutiones di Gaio in quattro libri. Si esprimeva il
diritto in vigore con brevi notizie storiche sul diritto precedente, costituendo un manuale e nello stesso tempo un
Codice, attribuendo allo stesso forza legislativa (IUSTINIANUS I, Justinian’s Institutes, London 1987; IUSTINIANUS
I, A Companion to Justinian’s Institutes, London 1998; V. DEVILLA, Institutiones Iustiniani, in Novissimo Digesto
Italiano, VIII, Torino 1962, p. 771-773).
21
J. HERVADA, Cos’è il diritto? La moderna risposta del realismo giuridico, Roma 2013, p. 54.
22
S. TOMMASO D’AQUINO, La Summa Teologica, Prima secundae, q. 90, I costitutivi essenziali della Legge,
Bologna 1996, p. 701 e ss.

6
ricondursi alla sfera del diritto naturale come riferimento per i casi concreti. 4) Diritto divino positivo dato da Dio
direttamente agli uomini mediante la legge eterna che viene partecipata in grado più alto verso il fine soprannaturale.

Si possono distinguere:
Diritto divino naturale che è il diritto deducibile dalla stessa dignità dell’uomo creato ad
immagine di Dio; si richiama quindi alla concezione della persona e della sua dignità che richiede
diritti e doveri vincolanti.
Diritto divino positivo che è il diritto che deriva dalla Rivelazione; è l’insieme dei fattori giuridici
che riguardano l’elevazione dell’uomo all’ordine soprannaturale. Nasce dalla redenzione che
continua ad operare in virtù dell’efficacia dei mezzi della salvezza presenti ed istituzionalizzati
nella Chiesa.
Diritto positivo canonico che sono le leggi che la Chiesa si dà per la sua vita nel tempo, e si
configura come esplicitazione del diritto divino naturale e rivelato.

L’Antigone di Sofocle (rappresentato per la prima volta nel 442 a.C.)


Sofocle (nato nel 497/496 a.C. a Colono presso Atene ed ivi morto nel 406/405 a.C) certamente non era un filosofo, ma
attraverso le tragedie proponeva dei quesiti e dava insegnamenti al popolo greco del secolo V a. C. In questa tragedia
emerge il contrasto fra il diritto e le leggi ed i decreti scritti dell'autorità sovrana e il diritto superiore, non scritto, che
proviene dalla divinità, insieme ad Eraclito che riteneva che «tutte le leggi umane si nutrono della sola legge divina». Il
rapporto antinomico fra il diritto e le leggi ed il decreto dell'autorità umana (il νόμος o nόmos) e il diritto non scritto (le
«leggi non scritte») discendenti dalla volontà divina (gli ἄγραπτα νόμιμα o ágrapta nόmima) costituiscono il filo
conduttore dell'Antigone.
La tragedia prende le mosse davanti alle mura di Tebe e vede guerreggiare fra loro i fratelli di Antigone e Ismene,
Eteocle (sostenitore del re di Tebe, Creonte questi fratello di Giocasta e padre di Emone, promesso sposo di Antigone) e
Polinice (avversario del re). Periti entrambi e rimaste le sorelle Antigone e Ismene «prive» dei fratelli «ché in un giorno
solo mutua mano li spense», Antigone, venuta a conoscenza del decreto di Creonte che concedeva a Eteocle degna
sepoltura, perché caduto in difesa della patria, sarà seppellito con tutti gli onori rendendolo «onorato fra i morti di
laggiù». Polinice viene condannato a rimanere «illacrimato, insepolto, tesoro dolcissimo agli uccelli che lo spiano per il
gusto di cibo che darà», «pasto ad uccelli e cani, vergogna a vedersi» (vv. 205-206). E per essere sicuro che nessuno osi
contravvenire ai suoi ordini, Creonte dispone alcune sentinelle a guardia del cadavere, e commina la pena di morte ai
trasgressori, che avessero reso degna sepoltura a questi dannati23. Antigone deciderà, per amore del fratello Polinice e in
disaccordo con la sorella Ismene che invece vuole obbedire a Creonte, di contravvenire al decreto, seppellendo
segretamente Polinice.
Quando Antigone viene scoperta, è condotta al cospetto di Creonte che brevemente le domanda se fosse a
conoscenza del «bando, col divieto»; ricevuta una risposta affermativa e destata la meraviglia del re, ella pronunzia le
famose parole:
«A proclamarmi questo non fu Zeus, né la compagna degl’Inferi, Dice, fissò mai leggi simili fra gli uomini. Né
davo tanta forza ai tuoi decreti, che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, e innate, degli dèi. Non sono d’oggi,
non di ieri, vivono sempre [eterne], nessuno sa quando comparvero né di dove» . Affermata con animo risoluto e
guerriero il suo monito duraturo, la sua disobbedienza civile, Antigone affronta serena la morte.
Il tema delle «leggi non scritte» è ripresentato da Sofocle anche nell'Edipo re, ove si parla di leggi «eccelse, generate
nell'etere celeste, di cui solo padre è l'Olimpo», diritto che «non la natura mortale degli uomini ha prodotto» e che «mai
l'oblio addormenterà».
Antigone rappresenta in tale tragedia il diritto, mentre Creonte rappresenta la legge, per cui il diritto senza la legge è
cieca conservazione; e la legge senza diritto è puro potere dispotico, una tirannia24.
In Antigone non vi è solo un conflitto sostanziale tra giusto ed ingiusto, tra ciò che è comandato dagli dei e ciò che
invece è contenuto nel decreto legge di Creonte, si tratta dello strumento di denuncia della legge ingiusta. Si tratta anche
di un conflitto di competenze: quella del potere politico attribuito agli uomini che deve sottostare al diritto degli dei, ed
il diritto divino è riservato agli dei25. La denuncia di Antigone rivolta a Creonte che è tutt’uno con il potere politico, è

23
In merito alla questione della sepoltura dei traditori, rigorosamente proibita in territorio attico, pare che tale divieto
non necessariamente sarebbe dovuto giungere «all’estremo di proibire o di impedire la sepoltura ad una considerevole
distanza dalla città», così M.C. NUSSBAUM, La fragilità del bene, Il Mulino, Bologna 1996, p. 139.
24
G. ZAGREBELSKY, Il diritto di Antigone e la legge di Creonte, in I. DIONIGI (a cura di), La legge sovrana, Milano
2006, p. 21 e secondo tale Autore dovrebbe chiedersi la ragione per la quale la «città è con Antigone e non con lui; [...]
Antigone, dal canto suo, deve rendersi cosciente delle conseguenze, per sé e per gli altri, della violazione della legge.
L’uno e l’altro devono aprirsi». Si delinea così una nuova prospettiva, che dà luce e respiro, che ammette, anzi richiede,
«il darsi da fare per sfuggire alla morte e aprire una possibilità di vita. Di più: un darsi da fare insieme», p. 31-44.
25
F. OST, Mosè, Eschilo, Sofocle. All’origine dell’immaginario giuridico, Bologna 2007, p. 179.

7
quella che lui abbia prevaricato la sua legittima sfera di azione di sovrano e capo della polis spingendosi oltre il confine
delimitato dal diritto degli dei, invadendo un campo che per principio non gli appartiene.

Diritto universale: sebbene per la canonistica sia molto difficile stabilire i confini tra i due settori
all’interno del Corpus Iuris commune che appartiene a tutta la Chiesa di Cristo, laddove nella
formula in quibus et ex quibus vengono ricomprese tutte le norme canoniche (presenti nel CIC,
CCEO e PB) che siano di diritto divino e naturale, ma anche ecclesiastico comuni a tutte le Chiese
particolari26.
Il Corpus Iuris Canonici è composto dal CIC 1983 + CCEO + la Costituzione Apostolica Pastor
Bonus del 28.06.1988 quale “comunione che in un certo senso tiene insieme tutta la Chiesa (PB n.
2) e come principale strumento del Romano Pontefice (si veda Sacri Canones)”27.
Il Diritto universale comprende tutte quelle norme (primarie o secondarie, scritte o non scritte) che
valgono per tutta la Chiesa, indipendentemente dal fatto che per loro natura obblighino tutti i
Christifideles o solamente alcune categorie degli stessi. Nel contesto della communio Ecclesiarum il
diritto universale è garante dell’unità della comunione, senza ridurla ad uniformità.

Diritto comune che si trova nel diritto universale, obbliga una certa categoria di Chiese. Nel
contesto di tale communio ecclesiarum il diritto comune che fa parte del diritto universale, è garante
sempre dell’unità, senza ridurla ad uniformità.
Il c. 1493 §1 CCEO da il concetto di diritto comune: comprendente le leggi in senso stretto e più
ampiamente quelle norme che non rientrano nel rango di leggi che possono valere sia per tutta la
Chiesa che per le Chiese orientali cattoliche, emanate da parte dell’autorità suprema che di altra
autorità competenti ad emanare norme che non sono leggi per tutte le Chiese orientali cattoliche
come Direttori, regolamenti ed istruzioni28, ed alle legittime consuetudini della Chiesa universale,
quindi le leggi e legittime consuetudini comuni a tutte le chiese orientali.
Il CCEO è un codice unico, unito e comune di tutte e ciascuna delle Chiese orientali cattoliche, di
qualsiasi status giuridico sui iuris, laddove ognuna di queste Chiese è tenuta a promulgare il proprio
diritto particolare. Il CCEO secondo il principio di sussidiarietà contiene solamente quelle leggi che
a giudizio del Supremo legislatore sono comuni a tutte le Chiese orientali cattoliche (sui iuris),
lasciando ampio spazio di determinazione, che si realizza con il diritto particolare. Per cui le norme
del Codice unico e comune, pur provvedendo alle legittime diversità delle Chiese sui iuris non si
oppongono al patrimonio ecclesiastico di queste Chiese sui iuris, ma lo salvaguardano e lo
valorizzano29.

Diritto particolare è quello che non vale per tutta la Chiesa a motivo della limitazione territoriale o
personale, oppure a causa di una limitazione sia territoriale che personale.
Nel contesto della communio Ecclesiarum il diritto particolare deve garantire la pluralità senza
cadere nel particolarismo o settarismo.
Il c. 1493 §2 CCEO definisce il diritto particolare30 intendendo le leggi, le legittime consuetudini,
gli statuti e le altre norme del diritto che riguardano ogni singola Chiesa sui iuris.
Il diritto particolare viene stabilito dalle autorità competenti di ogni Chiesa sui iuris:
- per il patriarcato il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale ex c. 110 §1;

26
P. VALDRINI, Unité et pluralité des ensembles legislatifs. Droit universel et Droit particulier d’après le code de
droit canoique latin, in Ius Ecclesiae 9(1997), p. 3-17. L. GEROSA, Chiesa universale – Chiesa particolari. Profili
canonistici di un rapporto di reciproca immanenza, in Rivista Teologica di Lugano 3(1998), p. 633-643. K.
BHARANIKULANGARA, Particular Law of the Eastern Catholic Churches, New York 1996.
27
AAS 80(1988) p. 841-930.
28
Nuntia 18(1984) p. 77.
29
Nuntia 18(1984) p. 77.
30
Nuntia 3(1976) p. 6.

8
- per la Chiesa Arcivescovile maggiore il Sinodo dei Vescovi della Chiesa arcivescovile maggiore
ex c. 152;
- per le Chiese metropolitane sui iuris dal Consiglio dei Gerarchi ex c. 167 §1;
- per le altre Chiese sui iuris dal Gerarca che presiede la Chiesa sui iuris con il consenso della Sede
Apostolica ex c. 176.
Il CCEO rimanda a norme di diritto particolare in oltre 170 canoni relativamente a temi quali
l’elezione del Patriarca, i suoi diritti ed obblighi, il Sinodo della Chiesa patriarcale, circa le Chiese
metropolitane sui iuris le elezioni dei Vescovi ed i diritti e doveri dei medesimi, circa le parrocchie
ed i parroci, i diritti e doveri dei Chierici, l’amministrazione dei Sacramenti e l’organizzazione
giudiziaria.
Attualmente solo la Chiesa patriarcale Melkita e la Chiesa patriarcale maronita e la Chiesa
Arcivescovile maggiore siro-malabarese hanno provveduto in merito con la promulgazione di
norme di diritto particolare31.
Si ricorda come per diritto particolare si ritengono anche le leggi speciali circa una Chiesa sui iuris
approvate o stabilite dal Romano Pontefice (c. 178 §2; 159; 182 §3) o dalla Suprema autorità della
Chiesa (c. 56; 58) e dalla Sede Apostolica ( c. 29 §1; 30; 554 §2; c. 888 §3; 1388).
Con l’espressione diritto particolare si intendono le leggi ed i decreti, promulgati dal Vescovo
eparchiale, i Typicon e gli Statuti dei monasteri e degli Istituti religiosi, le norme liturgiche e le
prescrizioni dei libri liturgici di ogni Chiesa sui iuris. Infine per diritto particolare si intendono le
convenzioni e le intese stipulate tra le diverse Chiese sui iuris.

La legge: è un comando, solamente un comando. La norma giuridica (in greco kanon)32


indica il modello che costituisce un punto di riferimento e di misurazione di un opera in
costruzione. In senso traslato è passato a significare regola fino a divenire sinonimo di legge.33 Il
diritto si incontra con la legge o la norma: mentre il diritto che è ragione ed è descrizione di una
regola fisico-morale e precede la legge, la legge che è la regola medesima è un comando, solamente
un comando ed un contenuto. La natura giuridica della legge risiede nel fatto che genera un dovere
di giustizia legale; vale a dire che la legge indica la posizione e l'attività di ciascuno in ordine al
bene comune della polis, in maniera tale che rispettare la situazione e l'attività degli altri e assumere
la propria responsabilità è un atto giusto34.

La legge, secondo il noto detto di S. Tommaso d’Aquino, è “ordinatio rationis ad bonum


commune et ab eo, qui curam communitatis habet, promulgata” (I. a - II. ae, Q. CX, art. 4, ad 1).
La legge è un comando dell’autorità pubblica (meglio legislativa) che ha la cura della
comunità e stabilisce le norme di condotta (proibitive o permissive) poste da chi detiene il potere.
La legge deve essere razionale, ragionevole: se il diritto è il contenitore, la legge è il
contenuto a servizio del diritto, quindi è causa e misura del diritto 35. Solamente essendo conforme al
criterio di ragionevolezza (cioè secondo ragione), sul quale si fonda la giuridicità della norma, la
legge svolge il suo servizio. Tale ragionevolezza richiede al legislatore nella sua discrezionalità ad

31
G. MORI – D. SALACHAS, Ordinamenti giuridici delle Chiese cattoliche orientali, Bologna 2000, p. 37-39. Le
droit particulier de l’ Église Maronite, del 4 giugno 1996, in Revue patriarcale, Porte-Parole du Patriarcat Maronite,
67(1996).
32
Kanon vedasi in seguito.
33
C. SARTEA, Norma, in F. D’AGOSTINO – A.C. AMATO MANGIAMELI (cur.), Cento e una voce di teoria del
diritto, p. 162-164.
34
J. HERVADA, Le radici sacramentali del Diritto Canonico, in Ius Ecclesiae 17(2005) p. 629-658, qui p. 637.
35
Per E. KANT la legge si identifica con il principio oggettivo del volere, il cui valore dipende esclusivamente dal
principio della volontà in base al quale è stata posta. La legge pratica è un imperativo categorico il cui contenuto è
determinato sulla base di un principio a priori ed in accordo con la ragione pratica universale; è dunque non una
legislazione della volontà, ma del volere di ogni essere ragionevole in quanto volontà universalmente legislatrice. Così
F. MACIOCE, Legge, in F. D’AGOSTINO – A.C. AMATO MANGIAMELI (cur.), Cento e una voce di teoria del
diritto, p. 150-152.

9
essere sempre sottomesso al rispetto dei supremi principi giuridici. Per cui la razionalità riguarda la
coerenza con l’ordine divino naturale e positivo, in armonia con il resto dell’ordinamento. Quindi
l’ordinazione della ragione significa che tale proposizione della ragione pratica è destinata ad
indirizzare le azioni delle persone. La legge è l’ordinazione razionale o ragionevole delle condotte
in quanto la legge ha come funzione propria di ordinare razionalmente le condotte umane, ed è
quindi una regola obbligatoria che ha carattere generale (a differenza dei precetti o delle ordinanze
che si rivolgono singolarmente ad una persona oppure ad un gruppo determinato)36.
Il carattere razionale della norma esige a) rettitudine, che non sia cioè contraria all’ordine morale; b)
opportunità cioè ordinata al bene comune per la quale è stata pensata; c) possibilità, dovendo poter
essere osservata da tutti i destinatari.
La legge, come detto è una regola di condotta per gli appartenenti ad una società il cui fine è il bene
comune, tecnicamente si tratta di un enunciato normativo (come comando dell’autorità costituita)
che contiene appunto delle norme la cui osservanza è imposta collettivamente ai consociati.
Altra caratteristica della legge che emerge è la stabilità: cioè deve essere emanata e
promulgata dalla pubblica autorità legislativa che ha la cura della comunità.
La legge regola ed ordina le relazioni tra tutti gli uomini di una certa comunità, per cui deve
essere intimata, è una norma obbligatoria per la vita della societas. La legge stabilisce ciò che in
giustizia ogni uomo deve alla società (si tratta qui della giustizia legale che consiste nel rispetto
delle leggi), la quale a sua volta ha dei doveri verso i consociati appartenenti, laddove i beni devono
essere da tutti goduti secondo criteri giusti e regole legittimamente stabilite. Tali beni della societas
debbono essere distribuiti: in tal caso si parla di giustizia distributiva.
La finalità della legge è il bene comune (altrimenti la legge sarebbe ingiusta), quale regola e
misura della condotta, dovendo perseguire l’utilità generale.
La legge è causa del diritto, cioè un mezzo attraverso il quale le cose vengono attribuite ad
un soggetto, ma anche è misura del diritto essendo norma o regola del diritto, in altre parole regola
i diritti ed i modi di usarli stabilendone i limiti, i presupposti di capacità ecc.

La legge naturale: la libertà dell’uomo si sviluppa per e nell’essere proprio dell’uomo, per
cui lo stesso è libero. Ma la libertà si realizza nello sviluppo secondo la natura umana che è
normativa per l’attuazione libera dell’uomo e che realizza lo stesso e lo perfeziona. La ragione
umana conosce la natura dell’uomo ed il suo dettame è la legge naturale. Quindi si chiama legge
naturale l’insieme dei dettami o delle regole imperative della ragione umana che comanda, proibisce
o permette alcune condotte per la loro conformità oppure discordanza con la natura dell’uomo, cioè
il suo essere o i suoi fini naturali37.
L’attività che sia conforme ai fini dell’uomo esprimentesi nelle inclinazioni naturali è in tal modo
confacente con la legge naturale. Si può conoscere la legge naturale, conoscendo le inclinazioni
naturali dell’uomo: a) istinto di autoconservazione, quindi vita ed integrità fisica, morale, spirituale,
la salute; b) inclinazione al matrimonio finalizzato alla procreazione ed educazione della prole; c)
relazione con Dio da cui discende la pietas ed i diritti conseguenti; d) diritto al lavoro; e) diritti
politici, di associazione; f) la comunicazione interpersonale, includendo la verità, l’onore, la buona
fama; g) autocoscienza di essere parte di una cultura, nelle sue forme da cui scaturiscono i diritti
all’educazione38.

Kanon il termine indica uno “strumento” o bastone, canna o pertica, per misurare oggetti o
distanze. Nelle Chiese Orientali indivise i Sacri Canones erano formati da un insieme di regole di
massima autorità comprendenti i Canoni apostolici, le decisioni dei Concili Ecumenici e dei Padri
della Chiesa, compresi i Concili locali quando fossero assunte le loro norme da un Concilio

36
P. GROSSI, Metodologie giuridiche della modernità, Milano 2007, p. 16 e ss.
37
J. HERVADA, Cos’è il diritto? La moderna risposta del realismo giuridico, Roma 2013, p. 105.
38
J. HERVADA, Cos’è il diritto? La moderna risposta del realismo giuridico, Roma 2013, p. 106.

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ecumenico. Per le Chiese orientali ortodosse nei tempi odierni i Sacri Canones sono le norme
regolatrici dei diversi aspetti della vita ecclesiale qualunque sia l’autorità ecclesiastica che li abbia
emanati, assumendo quindi un contenuto eterogeneo senza organicità o sistematicità, con differente
natura.
Nell’antichità l’alveo dei Sacri Canones era 1) la fede, 2) la predicazione, 3) il martirio e 4)
la testimonianza della Chiesa quale sua forma esterna, con espressioni e frasi che erano analogiche
alla espressione dogmatica, per cui il fondamento e motivazione si rinveniva nella fede della Chiesa
(infatti le frasi dogmatiche esprimono la Fede della Chiesa mentre le norme canoniche esprimono la
Fede che si rispecchia nella pratica della Chiesa). Il martirio era considerato il canone per
eccellenza della vita della Chiesa, il metro per la comprensione della verità di tutti i canoni che sono
stati in seguito stabiliti nella vita della Chiesa39.
Fino al settimo secolo sono stati celebrati quattro Concili ecumenici con 66 canoni mentre con il
Concilio Trullano vennero emanati 102 canoni riferentisi ai casi generali di peccati individuali,
manifestazioni del comportamento sociale del clero dei laici, con una convalida e consacrazione di
un numero rilevante di prescrizioni di precedenti Concili locali e decisioni di singoli Padri su temi
morali, tanto che si ritiene sia questa la prima strutturazione sistematica di un Diritto Canonico.
L’autorità di questo Corpo canonico fu grandissima e somma in quanto tale corpus ha sanzionato
dai Concili Ecumenico accettati da più di dodici secoli da tutte le Chiese della Tradizione ortodossa,
senza che vi sia stato dal VII Concilio ecumenico in poi, un altro organo legislativo nella Chiesa
capace della stessa autorità e dello stesso valore magisteriale 40. Attualmente sotto la dicitura Sacri
Canones nell’Ortodossia, come detto, è ricompreso vario materiale normativo con natura molto
differente41. I “sacri canoni” hanno carattere di norme generali con un riconoscimento sinonimico di
“diritto”.
I sacri canones rappresentano ciò che è giusto in sé cioè regola giusta, conveniente, quale principio
che si deve osservare e regola di comportamento, implicante il complesso di verità della Fede ed il
conseguente insieme di regole comportamentali e disciplinari dei fedeli cristiani.
I “sacri canoni” hanno carattere di norme generali con un riconoscimento sinonimico ed analogico
di “diritto”, per cui i Sacri canoni costituiscono un ordo, un’ordinatio, un ordinamento che è
momento essenziale della Legge. Si giustifica così l’assunto che la Lex è un ordine dell’autorità che
si deve osservare (Voluntas principis legis habet vigorem, Ulp. D. I,4,1), espressione di un potere
legislativo solamente terreno ma che debba riferirsi sempre e solo ai Sacri Canones.
Lo scopo e l’obiettivo a cui mirano i canoni è la “terapia delle anime ed il medicamento delle
passioni”42 secondo un carattere medico e curativo (terapia e guarigione) non solamente legale e
giuridico. I canoni sono anche condizione dell’ascesi, presupposti dell’ascetico-dinamica, non
convenzionale e formale alla vita della Chiesa, nel cammino e conquista spirituale. Occorre notare
come al di là di una medesima semantica si sia però verificato un allontanamento dello spirito e
concezione tra i Canoni delle Chiese ortodosse e la codificazione della Chiesa cattolica nel CIC e
nel CCEO.

I Sacri Canones:
a) secondo la fides sono ordo e misura della stessa Fede;
b) rispetto ai sacramenti sono misura degli stessi nella celebrazione e vita della Chiesa;
c) la Gerarchia, provengono dalla SS. Trinità come dono dello SS. Santo verso l’autorità gerarchica
stessa.
I Canones o meglio i Sacri canones hanno la funzione di tutela e protezione della communio
insieme nella salvaguardia partecipativa dei fedeli ponendo un senso e significato del diritto
39
Così C. YANNARAS, La libertà dell’ethos, alle radici della crisi morale in occidente, Bologna 1984. L’A. prosegue
dicendo come nei primi tre secoli non sia esistito il bisogno di una sicura definizione dei limiti della vita ecclesiale,
come limiti oggettivi che potessero assicurare la visibile unità della vita del Corpo della Chiesa.
40
B. PETRÀ, Tra cielo e terra. Introduzione alla teologia morale ortodossa contemporanea, Bologna 1991, p. 79.
41
Si veda la problematica in O. CLÉMENT, Tous preparons ensemble le Concile, in Synodika 1(1976), p. 104-125.
42
Così si esprime il c. 2 del Conclio Trullano.

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canonico quale giustizia informata alla carità secondo lo spirito del Vangelo. I canones partecipano
alla definizione e statuizione della formula Salus animarum suprema Lex, che seppure nel CCEO
non sia espressa è tuttavia implicitamente e “coattivamente” presupposta.
Infine, ci soccorre per una opportuna considerazione dei Sacri Canones il Discorso di presentazione
del CCEO da parte del S. Padre n. 10:
“Se ogni legge, secondo il noto detto di S. Tommaso d’Aquino, è “ordinatio rationis ad bonum commune et ab eo, qui
curam communitatis habet, promulgata” (I. a - II. ae, Q. CX, art. 4, ad 1), questo è vero soprattutto e in maniera
eminente per i canoni che regolano la disciplina ecclesiastica. Si tratta, nel vero senso del termine, di “sacri canones”,
come tutto l’Oriente li ha sempre chiamati nella indubbia fede che è sacro tutto ciò che stabiliscono i Sacri Pastori,
rivestiti del potere, conferito loro da Cristo ed esercitato sotto la guida dello Spirito Santo, per il bene delle anime di
tutti coloro, che santificati dal Battesimo costituiscono la Chiesa come una e santa. Seppure nei Codici vi sono molte
“leges mere ecclesiasticae”, come si esprime un Canone in entrambi i Codici (can. 1490; CIC can. 11), pertanto
sostituibili con altre dal Legislatore legittimo, la ragione di essere di esse è tutta “sacra”, e anche se esse appartengono
alla “ordinatio rationis” umana, sono state formulate non solo dopo molto pensare, ma anche nella incessante preghiera
di tutta la Chiesa. Grande saggezza si deve supporre in ognuna delle norme del Codice. Esse, infatti, sono state studiate
a lungo e da ogni punto di vista, con la cooperazione di tutta la gerarchia delle chiese orientali alla luce della quasi
bimillenaria tradizione, sancita dai primi “sacri canones” fino ai decreti del Concilio Vaticano II” 43.

L’interpretazione dei canoni deve essere compiuta secondo la normativa espressa nei canoni 16-22
CIC e can. 1498-1504 CCEO, soprattutto emerge il dettato del can. 19 che differisce dal can. 1501
CCEO.
Si aggiunge come l’interpretazione e l’esegesi dei canoni passi oltre gli strumenti consueti,
attraverso i canoni dei Sinodi e dei Santi Padri. Si deve aggiungere quindi certamente
l’interpretazione a) letterale, giuridico e testuale; b) allegorica; c) morale; d) anagogica che
letteralmente significa “essere condotti in alto”, comprendendo una dimensione che sia anche
spirituale, mistica e contemplativa, propria dei Sacri Canones.

L’ordinamento giuridico
Si è detto che il diritto è ragione, cioè ciò che è attribuito ad un soggetto persona, quindi la causa
giusta il suo di ognuno, ancora si è detto che la legge invece è un comando che è una regola di
condotta obbligatoria, che nel suo insieme strutturato forma l’ordinamento giuridico.
Vi sono differenti dottrine circa l’ordinamento giuridico: quella detta a) istituzionale che fa
riferimento a Santi Romano e quella b) normativa che ha il suo esponente in Hans Kelsen.
Secondo la dottrina istituzionale la società e l’ordinamento giuridico si trovano in un rapporto di
mutua implicazione: da qui il brocardo ubi societas ibi ius. Il diritto è il prodotto nevessario di ogni
organizzazione sociale. Oltre all’ordinamento statuale vi sono numerosi complessi normativi che
disciplinano altri aspetti della vita sociale44. Si tenga presente che tale visione sembra per taluni
ampliare eccessivamente la nozione di ordinamento giuridico45.
La dottrina c.d. normativa ritiene il diritto come unico ordinamento legislativo che coincide con la
forma – stato, in quanto solo lo Stato può garantire coercitivamente l’osservanza delle norme.
L’unico ordinamento propriamente giuridico è lo Stato, mentre tutti gli altri ordinamenti legislativi
non posseggono giuridicità riservata al solo ordinamento statuale. Secondo tale visione il diritto si
identifica con la legge e la norma46.
Le caratteristiche di un ordinamento giuridico sono: 1) l’esclusività in quanto originario e
non mutua né deriva da altri ordinamenti la propria validità, ma è fondamentale e fondativo; 2)
completezza in quanto regola tutte le situazioni giuridiche evitando le lacune; 3) coerenza perché
43
Si veda il “Discorso del Santo Padre alla presentazione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali alla XXVIII
Congregazione Generale del Sinodo dei Vescovi il 25 ottobre 1990”, in Nuntia 31(1990), p. 21.
44
T. GROPPI – A. SIMONCINI, Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti, Introduzione, p. 10-11.
45
G. SARACENI, Ordinamento giuridico, in F. D’AGOSTINO – A.C. AMATO MANGIAMELI (cur.), Cento e una
voce di teoria del diritto, p. 171-172.
46
G. SARACENI, Ordinamento giuridico, in F. D’AGOSTINO – A.C. AMATO MANGIAMELI (cur.), Cento e una
voce di teoria del diritto, p. 171-172.

12
non contiene norme antinomiche in quanto non impongano comportamenti incompatibili per i
destinatari47.
Si è detto che il diritto è ragione, cioè ciò che è attribuito ad un soggetto persona, quindi la causa
giusta, il suo di ognuno; ancora si è detto che la legge invece è un comando che è una regola di
condotta obbligatoria; infine la giustizia che è la misura del diritto.
La giustizia: si è detto che il diritto è una cosa giusta attribuita ad una persona, allora la giustizia è
la conseguenza e dipendenza del diritto.
Stabilisce infatti Giustiniano: Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi
(la giustizia consiste nel costante e perpetuo proposito di attribuire a ciascuno il suo diritto) 48, o
come scritto da uno dei più grandi Giuristi romani Ulpiano: “Iustitia est constans et perpetua
voluntas ius suum cuique tribuendi. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere,
suum cuique tribuere” (“la giustizia consiste nella costante e perpetua volontà di attribuire a
ciascuno il suo diritto. Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non recare danno ad
altri, attribuire a ciascuno il suo”)49.
La giustizia segue e dipende dal diritto e deve dare a ciascuno il suo, trattando allo stesso modo ciò
in cui le persone sono uguali ed in modo differente ma proporzionale ciò in cui sono diverse.
Occorre sottolineare che la giustizia non conferisce o crea diritti, ma dà ciò che spetta a ciascuno o
ciò che corrisponde al diritto, né più né meno50.
Dall’applicazione della legge nasce la giustizia, secondo le virtù della prudenza che interpreta tali
leggi.

47
G. SARACENI, Ordinamento giuridico, in F. D’AGOSTINO – A.C. AMATO MANGIAMELI (cur.), Cento e una
voce di teoria del diritto, p. 171-172.
48
IUSTINIANUS, Institutiones, Libro I, Titolo I, n. 1.
49
ULPIANUS, D. I.1.10,1. In tal senso anche TOMMASO D’AQUINO, S. Th., II-II, q. 57 art.1.
50
J. HERVADA, Cos’è il diritto? La moderna risposta del realismo giuridico, Roma 2013, p. 39.

13
DIRITTO, PERSONA, SOCIETA’

1. Interrogativi sul Diritto


Il diritto si intreccia con la nostra vita in maniera costante e difussa, senza saperlo e senza pensarci,
compiamo atti dall’evidente struttura giuridica. Noi viviamo il diritto e nel diritto senza averne una
conoscenza precisa.
Duplice immagine del diritto:
 valenza negativa: come una rete di divieti, impostazioni, obblighi che tutto sorretto dalla
sanzione.
 Valenza positiva: come un’indispensabile condizione per lo sviluppo della vita sociale,
un’espressione di giustizia che promuove i diritti della persona , la libertà

2. Perché l'uomo ricorre al diritto ?

2.1. Con il diritto l’uomo regola molti aspetti della vita


L’uomo regola mediante norme giuridiche molti aspetti della sua esistenza;
attraverso norme non necessariamente scritte, vengono definiti i diritti delle persone.
- La proprietà: il proprietario ha diritto di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed
esclusivo.
- Le successioni: si intende del fenomeno di subentrare di un soggetto ad un altro nella titolarità
di uno o più diritti.
- Le associazioni: come un’unione intenzionale di più fedeli che perseguono uno scopo ecclesiale
comune.
- I processi: sono forniti quegli strumenti giuridici che sono ritenuti idonei
ad assicurare una congrua soluzione dei conflitti intersoggettivi o a correggere devianze particolari.

2.2. Il diritto risponde a bisogni fondamentali dell’esistenza dell’uomo


L’uomo crea questi isitituti per soddisfare le esigenze
- di sicurezza: per garantire successione, associazione, processo, testamento
- di cooperazione:
- di durata: nel rispetto delle volontà dopo la morte
Queste esigenza trovano nel diritto una risposta efficace rispetto ad altre risposte (che possono
venire dall’amicizia e dalla carità....)
Perché il diritto impone regole comuni a tutti i soggetti,
chiede regolarità nei comportamenti e nei rapporti,
impone un ordine di vita e dei criteri di giudizio funzionali al soddisfacimento
delle esigenze comuni e oggettive, non vincolati alle diversità soggettive.

2.3. La persona umana come fondamento del diritto


Fondamento e fine del diritto, è la persona umana. La persona è il fondamento ontologico della
giuridicità.
Antimonio Rosmini: “La persona umana è l’essenza del diritto”
Tesi classica: “Hominum causa omne ius constitutum est”, ossia tutto il diritto è stato costituito
→ a causa degli uomini (gli uomini sono causa originante del diritto)
→ per soddisfare l’uomo (l’uomo è la causa finale)

3. Dove si fonda l'obbligatorietà delle norme giuridiche ?


Il diritto è (di sua natura) imperativo. I suoi enunciati, in sé, hanno forza obbligatoria e vincolante

14
Da dove deriva questa obbligatorietà (che è diversa dall’obbedienza → aspetto soggettivo).

3.1. Il fondamento dell'obbligatorietà non può risiedere nel semplice enunciato prescrittivo
che costituisce la norma:
la qualità imperativa dell’enunciato non rende il comando accettabile e legittimo, e quindi giuridico,
perché può esere ingiusto.

3.2. Il fondamento dell'obbligatorietà non risiede neanche nella sanzione.


Per sanzione si intende la reazione del gruppo sociale contro il comportamento di uno dei
consociati,

sanzione negativa: disapprovazione sanzione positiva: approvazione


un male che viene inflitto per la violazione di una - rafforzano l’osservanza delle norme ricorrendo a premi
norma o incentivi
- viene rafforzata l’osservanza scoraggiando
l’inosservanza

Abbiamo due correnti di pensiero che dibattono il rapporto diritto/sanzioni:


 la sanzione giuridico (carattere di coazione) è una componente interna alla struttura della norma
giuridica.
Le norme vanno considerate giuridiche non in quanto giuste, ma in quanto valide,
cioè in quanto inserite in un ordinamento coercitivo attraverso l'uso della sanzione
ne garantisce l'obbligatorietà (Kelsen).
 la sanzione non è una caratteristica di tutte le norme giuridiche ma solo di alcune soltanto (Hart).
Il sistema di garanzie che ogni ordinamento giuridico prevede per assicurare la propria efficacia, più
che elemento essenziale del diritto, appare come una conseguenza della sua obbligatorietà. In
particolare il sistema coercitivo è posto al servizio della effettività del diritto, non della sua validità
e obbligatorietà.

3.3. L’obbligatorietà fondata sull’ordinamento (formalismo giuridico)


l'obbligatorietà della norma deriva dal fatto che essa appartiene ad un determinato ordinamento
giuridico,
da questo è prodotta, applicata e garantita, acquistando in esso validità restrittiva. Verificata
l'appartenenza della norma all'ordinamento, la norma è da ritenersi valida, che significa che essa è
vincolante.

3.4. l'obbligatorietà fondamenta sull'autorità (autorevolezza) del legislatore.


L’autorevolezza che gli deriva dalla stima e fiducia in lui, dalla sagezza e prudenza dimostrate
nell’esercizio del potere normativo, però vale solo per chi accetta qull’autorità, è più l’obbedienza
alla norma
Es. (sul monte Sinai, Dio è legislatore)
L’obbligatorietà delle norme dipende dalla validità della loro giustificazione

3.5 La giustizia: fondamento ontologico del diritto e dell’obbligatorietà delle norme giuridiche
Sergio Cotta: (dasein-esserci-, Mit-sein-conesserci, co-esistenza, relazionalità – questo è il
fondamento del diritto): egli approfondisce la riflessione ontologica che è la relazionalità degli
individui come la condizione dell’esistenza umana. “Nella co-esistenza il diritto trova il criterio di
valore capace di giustificare in ultima istanza le sue norme e renderle così obbligatorie, sottraendole
all’arbitrio della volontà e della potenza
Limite: possono essere diversi generi di relazioni (amicali, economiche, politiche, giudiche, morali)
Dunque la giustizia dà a ciascuno il suo (ciò che è dovuto).

15
La giustizia è il fondamento ontologico del diritto e il criterio di giustificazione oggettiva dei
vari ordinamenti e norme, ai quali conferisce (o nega) obbligatorietà. La giustizia allora è la
ragione ultima della obbligatorietà delle norme. Le norme sono obbligatorie perché sono
determinazioni di ciò che è giusto.
La persona dell’uomo è il diritto umano sussistente!!! (Rosmini)

4. Diritto e morale
Il pensiero moderno- contemporaneo, il diritto come indipendente dalla morale e non obbligante in
coscienza.
Il pensiero moderno- contemporaneo vuole separare il diritto dalla morale, si trova la conflittualità
tra diritto e morale.(es. legge circa l'aborto);
sul versante morale: relativismo etico, sul versante giuridico: positivismo giuridico (formalismo
giuridico).

Giovanni Paolo II, nell’enciclica ”Evangelium vitae” (25/03/1995), in cui espone gli elementi
fondamentali del rapporto tra legge civile e legge morale. Condannando il relativismo etico e il
positivismo giuridico
dall'enciclica risultano le seguenti posizioni: 1) moralità del diritto;
2) primato della morale sul diritto;
3) subordinazione del diritto alla morale.

Il dato storico del rapporto diritto- morale


antichità greca Il diritto è tale perché è giusto. C’è stretto legame. La giustizia non è il dover essere del diritto ma
il suo stesso essere, la verità del suo concetto. Il diritto ha qualità morale
antichità Il diritto entro la morale. Il diritto ha caratterizzazione morale.
romana “Il diritto è l’arte del buono e del bello” (Ulpiano)
pensiero “Non è da considerarsi legge, una norma che non è giusta (S. Agostino)
cristiano “Oggetto del diritto è la giustizia” (S. Tommaso) Il diritto è tale perché è giusto.
Nella concezione cristiana la “rettitudine” giuridica trova il suo compimento nella carità, che
ormai acquista il primato sulla stessa giustizia.
epoca Separazione tra diritto e morale,
moderna a causa di: nascita dello stato moderno, laico, pluriconfessionale,
secolarizzazione, nuova concezione della libertà, della soggettività.

4.3 rapporto tra ordine giuridico e ordine morale:


- i due ordini sono distinti, ma non separati;
- l'ordine giuridico non può prescindere dall'ordine morale;
- l'ordine giuridico è subordinato all'ordine morale
(nel senso che vi è un minimo etico nel quale morale e diritto vengono a coincidere)

ordine giuridico:
① concerne solo quei comportamenti umani socialmente rilevanti cioé gli aspetti riguardano la
società che vengono regolati giuridicamente allo scopo di assicurare a ciascuna persona e alla
società una pacifica e umana coesistenza.
② si riferisce comportamenti umani visibili, verificabili, concretamente percettibile, intersoggettivi
Però non trascura l’interiore ma non prende in considerazione gli elementi interiori
③ ha una struttura imperativa e per lo più sanzionatoria.
④ persegue immediatamente il bene comune.

Ordine morale:
① qualsiasi espressione della vita umana, individuale e sociale, interiore, esteriore e occulta,
cioè prende in considerazione tutti i comportamenti umani

16
② l'agire dell'uomo determinato dall'assenso della sua coscienza (nei confronti di tali assenso non
sia dissenso);
③ l’attuarsi ed il realizzarsi della persona in ciò che essa è ed ha.

L’imperativo giuridico congiunge la libertà del soggetto ai comportamenti relazionali dalle norme,
l’imperativo morale congiunge la libertà della persona ai valori.

4.3.3. c’è subordinazione dell’ordine giuridico a quello morale (il minimo etico).
Il compito dell’ordine giuridico è diverso e di ambito più limitato rispetto all’ordine morale.
La legge si ispira allo scopo sia di integrare gli uomini nella società,
sia di garantire la sussistenza del convivere sociale
ma legge positiva non può proivire tutti i vizi, solo quelli che ledono più gravemente la giustizia e la
vita sociale
per migliorare la società facendo crescere nei suoi membri la progressiva condivisione negli stessi
valori

5. Giustizia
S. Agostino: “È difficile comprendere la giustizia”.
La modernità ha reso difficile la costruzione di una teoria della giustizia,
non è più pensabile come un ordine obiettivo
La post-modernità deve recuperare questo principio di giustizia
perché esiste uno strettissimo legame tra DIRITTO e GIUSTIZIA.

5.1 Il diritto può essere definito come: "Ordine di giustizia tra gli uomini".
ordine si intende l'armonico rapportarsi gli uomini tra loro e in riferimento al fine.
giustizia comporta "dare a ciascuno ciò che gli spetta".
- soggetto della relazione è sempre la persona umana.
- il dovuto (ciò che spetta ciascuno) è la dignità di persona ed il suo riconoscimento;
- l'obbligatorietà del dovuto (il dare) si fonda sulla stessa persona come soggetto in relazione;
tra gli uomini: è principio del convivere sociale

Ordinamento giuridico:
L'ordinamento di una determinata convivenza sociale, (obiettivo, ordine di una data società)
operato dalla legittima autorità (obbligatorietà, dipende dalla fonte positiva, istituzionale)
seconda la giustizia (che deve diffondersi tutti gli ambienti dell’ordinamento)
finalizzato immediatamente al bene comune e
ultimamente alla promozione integrale della persona umana

Bene comune :
- Jacques Maritain: il bene comune è la buona vita umana della moltitudine
- Antonio Rosmini: il fine remoto e principale della società civile è la perfezione morale della
persona, mentre il fine prossimo è il bene pubblico o comune.
- Gaudium et Spes: l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai singoli
membri e ai gruppi, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente (n. 26).

Conclusioni:

il diritto è
1) umano: diritto appartiene al mondo dell’uomo, l’uomo sta al centro dell’esperienza
giuridica,
ogni diritto esiste dall’uomo e per l’uomo

17
‘’persona umana è l’essenza del diritto’’ (A.Rosmini) l’uomo è fondamento ontologico
2) intersoggettivo: riguarda l’uomo in relazione ai fini di una pacifica e ordinata convivenza
imperativo e obbligatorio e vincolante: Coercibilità del diritto
(però sanzione non è il fondamento dell’obbligatorietà del dirittto)
3) immagine negativa(rete di leggi, di divieti, di comandi, obblighi) e positiva(il mio diritto):
diritto oggettivo e soggettivo sono 2 versioni del diritto nell’esperienza di vita
4) Ogni relazione regolata dal giudizio costituisce un rapporto giuridico
(l’uomo sia come soggetto- persona fisica, che soggetto giuridico).
5) Carattere di generalità : la legge non è istituita per i singoli ma per tutti i consociati
6) Carattere di astrattezza : non per situazioni specifiche, ma per fattispacie e astratte,
cioé per situazioni individuate ipoteticamente, la formulazione è generale e astratta
7) Carattere di certezza: i singoli devono sapere in anticipo, per potersi regolare di
conseguenza,
quali sono i comportamenti giuridicamente leciti o illeciti

Dunque il diritto non può essere ridotto a norma.


Esso è attività, esperienza giuridica.
“l’esperienza giuridica si allarga sino a comprendere tutto l’uomo’’ (Giuseppe Capograssi)

IL DIRITTTO CANONICO

Nella presentazione del Codex Canonum Orientalium Ecclesarum durante la ventottesima


Congregazione Generale del Sinodo dei Vescovi del 1990, il Pontefice Giovanni Paolo II ha
dichiarato che il CCEO insieme al Codex Iuris Canonici del 1983 e la Costituzione Apostolica
Pastor Bonus del 1988 sulla Curia Romana, formano un unico Corpus Iuris Canonici nella Chiesa
universale51.
La Chiesa cattolica con il suo Coruis Iuris Canonici (CIC e CCEO e PB) ha una sua
legislazione completa che permette riunita da un unico Spirito, di “respirare con due polmoni,
dell’Oriente e dell’Occidente e ardere nella carità di Cristo con un cuore composto da due
ventricoli”52.
Si è raggiunto attraverso la codificazione del CIC 83 e CCEO e PB quella completezza giuridica
che racchiude differenti profili: da quello tecnico – teologico/ecclesiologico a quello pratico –
operativo pastorale53. Ecco emergere la necessità di una lettura intercodiciale, che non è certamente
mero irenismo, oppure appiattimento e formale comparazione, ma presuppone un approfondimento,
certamente secondo nuovi accenti e necessità che abbiano presente da una parte le tecniche
giuridiche, anche comparativistiche, ma soprattutto la base teologico- ecclesiologica che favorisca
una vera crescita ed interdipendenza ecclesiale tesa verso una maggiore comunione che è vera
risposta e proposta pastorale.
Le norme anteriori sia del CIC 1917 fino al CIC 83 ma anche quelle dei quattro m.p. propri per le
Chiese orientali54 fino al CCEO che non corrispondevano più alle nuove situazioni ecclesiali, sono

51
Si veda Nuntia 31(1990) 10-16 e la traduzione italiana 17-23; Apollinaris 63(1990) 467-474; P. A. BONNET – C.
GULLO (cur.), La Curia romana nella Cost. Ap. ‘Pastor Bonus’, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990.
52
GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Sacri Canones, in AAS 82(1990) 1033-1044.
53
N. ALVAREZ DE LAS ASTURIAS, Derecho canonico y codificacion. Alcance y limites de la asuncion de una
tecnica, in Ius Canonicum 51(2011) 105-136.
54
Il m.p. Crebrae Allatae sunt, del 2 maggio 1949, in AAS 41(1949) 89-119; il m.p. Sollecitudinem Nostram del l 6
gennaio 1951, in AAS 42(1950) 5-120; m.p. Postquam Apostolicis Litteris del 21 novembre 1952 in AAS 44(1952) 65-
152; il m.p. Cleri Sanctitati del 25 marzo 1958 in AAS 49(1957) 433-603.

18
state abrogate, cercando di tener presente insieme alla fedeltà alle genuine tradizioni, le mutazioni
ecclesiali ed il contesto della Chiesa universale soprattutto il Concilio Vaticano II.55
In questo Corpus Iuris Canonici moderno, unico ed organico ordinamento giuridico, vive ed
opera un’unica comunità ecclesiale che è quella cattolica, anche se con proprie e differenti norme,
che non sono antagoniste, ma armoniche ed armonizzabili, che realizzano una vera uguaglianza
nella dignità e nell’azione per i Christifideles ex c. 208 CIC e c. 11 CCEO, cooperando tutti
all’edificazione del Corpo di Cristo.
La Chiesa una, santa cattolica ed apostolica ha un suo ordinamento e disciplina, un suo Corpus
Iuris Canonici, laddove è espresso primariamente il suo diritto costituzionale, comune a tutti i
Christifideles.
Il primo problema che potrebbe emergere riguarda la coniugazione dell’unicità di questo Corpus
Iuris Canonici con una duplicità codiciale, avendo presente il c. 1 CIC 1983 ed il c. 1 CCEO che
limitano l’ambito giurisdizionale di ogni Codice nella propria sfera. Esiste un unico ordinamento
canonico primario superiore, il Corpus iuris Canonici, ed il CIC e CCEO presi singolarmente,
avendo una fondazione di carattere funzionale non ecclesiologico in senso stretto ed autonomo,
costituirebbero un ordinamento canonico non secondario, ma determinato e completo nei confronti
dei Christifideles latini oppure orientales a cui si riferisce56.
Occorre chiarire che esiste la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, che possiede il suo diritto
costituzionale. Nel CIC e CCEO vi sono canoni in comune nonché identici ad entrambi i codici che
variano talora solo nella terminologia adottata. Si pensi ai canoni che definiscono l’autorità della
Chiesa, il Romano Pontefice, i Vescovi, il Concilio Ecumenico i c. 241-330 CIC e c. 42-54 CCEO;
ancora le norme relative ai Christifideles c. 224-231 CIC e c. 400-409 CCEO. Tale affermazione è
suffragata dal fatto che la costituzione della Ecclesia Universa con le Chiese dell’Oriente ed
Occidente si fondi sulla koinonia e che in tale comunione le Chiese possono reggersi secondo una
propria normativa, formando sempre nel contempo l’ una et unica Ecclesia Christi ribadito nel c. 7
§2 e can. 204 §2 CIC57.
Il CIC e CCEO in quanto promulgati dal medesimo ed unico Supremo legislatore nelle materie
identiche o almeno somiglianti, fanno sì che il Codice successivo nel tempo, cioè il CCEO potrebbe
essere considerato come riferimento di luogo parallelo per il CIC. Viceversa, non si esclude che
anche il CIC possa in determinati casi di materie identiche o somiglianti essere luogo parallelo per il
CCEO. Tale operazione può attuarsi con le norme parallele del CIC e CCEO in quanto la mens del
Legislatore, potrebbe emergere più chiaramente nella legislazione posteriore58.

55
I. ŽUŽEK, Riflessioni circa la Costituzione Apostolica “Sacri Canones”(18 ottobre 1990), in Apollinaris 65(1992),
53-64.
56
P. GEFAELL, Rapporti tra i due “Codici” dell’unico “Corpus Iuris Canonici”, in J.I. ARRIETA – G.P. MILANO
(cur.), Metodo, Fonti e Soggetti del Diritto Canonico, Atti del Convegno Internazionale di Studi ‘La scienza canonistica
nella seconda metà del ’90. Fondamenti, metodi e prospettive in D’Avack, Lombardia, Gismondi e Corecco’, Roma 13-
16 novembre 1996, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, 654-669; D. SALACHAS – K. NITKIEWICZ,
Inter-ecclesial Relations Between Eastern and Latin Catholics. A Canonical – Pastoral Handbook, Canon Law Society
of America, Washington 2009.
57
J.M.R. TILLARD, Église des Églises. L’ecclésiologie de communion, Cerf, Paris 1987; ASSOCIAZIONE
CANONISTICA ITALIANA, Comunione e disciplina ecclesiale, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991;
R. SOBANSKI, “Communio”: principio di dinamicità del diritto ecclesiale, in La Chiesa e il suo diritto. Realtà
teologica e giuridica del Diritto ecclesiale, Giappichelli, Torino 1993, 111-113, quivi 28 e ss. P.A. BONNET,
Comunione ecclesiale e diritto, in Comunione ecclesiale, diritto e potere. Studi di Diritto canonico, Giappichelli,
Torino 1993, 9-51. E. TEJERO, Il “Mysterium Salutis” e la “Communio”: valori fondanti dell’ordine canonico
dell’antichità, in C.J. ERRAZURIZ – L. NAVARRO (cur.), Il concetto di Diritto canonico. Storia e prospettive,
Giuffrè, Milano 2000, 3-45, anche in Ius Canonicum 39(1999), 441-472. M. SIKIRIĆ, La communio quale fondamento
e principio formale del Diritto canonico. Studio teologico-giuridico, Antonianum, Roma 2001. J. RIGAL,
L’Ecclésiologie de Comunion. Son évolution historique et ses fondaments, Cerf, Paris 2002.
58
Si cita ad esempio: A. WUYTS, Le Nouveau Droit matrimonial des Orientaux, in Nouvelle Revue Théologique
71(1949) 829-839. R. PUZA, L’avenir de la codification: application et interprétation de la loi selon la théorie de
l’interprétation mobile, in Revue de Droit Canonique 51(2001) 335-346.

19
Occorre altresì ribadire come in tale interpretazione intracodiciale le norme non debbano essere
contrastanti o diverse, e se penali o limitanti l’esercizio di diritti o contenenti eccezioni della Legge,
non si interpretino estensivamente ma più favorevolmente. Anche in tale caso occorre far
riferimento alla finalità della salus animarum59.
Per poter valutare correttamente ed inserire il CIC 83 nel contesto della Chiesa occorre tener
presente l’elemento ecclesiologico, della tradizione, ma anche quello storico, declinato insieme al
paradigma della cultura, necessitando percorrere in una specie di cammino che individui le tappe di
formazione del diritto Canonico. Tale percorso ecclesiologico di produzione legislativo-canonica
richiede di uscire da una frammentazione o lettura giuridico-positivistica per entrare in un’ottica
ecclesiale e specialmente ecclesiologica. In tal senso il Diritto Canonico ha ricevuto la sua nuova
sistematica giuridica, alla luce del Concilio Vaticano II, per cui la nostra ricerca avrà il suo
compimento dal CIC 1917 ed il CIC 1983 insieme ai quattro motu proprio delle Chiese orientali ed
il CCEO del 1990.

Per un ulteriore visione e valore dei Canoni ci si deve riferire al Discorso di Paolo VI
rivolto al Tribunale della Rota romana laddove parlando del diritto canonico e dei canoni, così si è
espresso:
“Se il diritto canonico ha il suo fondamento in Cristo, Verbo incarnato, e pertanto ha valore
di segno e di strumento di salvezza, ciò avviene per opera dello Spirito che gli conferisce forza
e vigore; bisogna adunque che esso esprima la vita dello Spirito, produca i frutti dello Spirito,
riveli l’immagine di Cristo. Per questo è un diritto gerarchico, un vincolo di comunione, un
diritto missionario, uno strumento di grazie, un diritto della Chiesa 60.
Il Diritto canonico ha una natura sacramentale come la Chiesa a) in senso generale, laddove
la stessa è nello stesso tempo visibile e spirituale, strumento dove la sua indole sacra si attuano
attraverso i Sacramenti (LG 11). Son questi infatti che passa l’azione salvifica di Cristo (LG 8); b)
in senso stretto laddove la struttura organica della Chiesa e strutturano la Chiesa nel suo aspetto
istituzionale e spirituale guidato dallo Spirito Santo (LG 12).
Il Diritto canonico è vincolo di Comunione.
Il Diritto canonico è un diritto missionario.

Il Diritto canonico ed i sacri canoni:


a) hanno “valore di segno e strumento di salvezza”, per analogia con la Chiesa hanno natura
sacramentale:
a.1) in senso ampio, occorre partire dalla nozione di Chiesa-sacramento. La Chiesa visibile e
spirituale sono una realtà complessa dove l’elemento visibile costituisce lo strumento attraverso
cui passa l’azione salvifica di Cristo ex LG 8a. L’ordinamento canonico ed i Sacri canoni in
quanto parte integrante della Chiesa, assume un carattere sacramentale di questa e contribuisce a
mediare la salvezza.
a.2) In senso stretto: la struttura organica della Chiesa e la sua indole sacra vengono attuate per
mezzo di Sacramenti ex LG n. 11 che iniziano, confermano e manifestano la comunione
ecclesiastica ed hanno una propria dimensione sociale e stanno all’origine delle relazioni
giuridiche che derivano dalla loro ricezione. Compito dei canoni è quello di esprimere gli
elementi normativi della molteplice azione dello Spirito Santo laddove cresce e nasce la
communio Fidelium componendo in unità i suoi differenti aspetti del mistero ecclesiale: dalla
dimensione umana e quella divina, dimensione giuridica e pneumatologica attuandosi così la
struttura organica della Chiesa.

59
O. GIACCHI, Diritto canonico e dogmatica giuridica moderna, in Chiesa e Stato nella esperienza giuridica (1933-
1980) I, La Chiesa e il suo dDiritto, Religione e Società, Giuffrè, Milano 1982, 69-107.
60
Insegnamenti di Paolo VI, 1973/XI, Città del Vaticano 1974, p. 129-130. Si veda: L.J. PATSAVOS, Spiritual
Dimensions of the Holy Canons, Brookline 2003.

20
b) Il Diritto Canonico ed i Sacri canoni provengono dall’autorità gerarchica, illuminata dallo
Spirito Santo (LG 12).
c) Il Diritto Canonico ed i Sacri canones sono vincolo di comunione, aspetto sacramentale
della vita della Chiesa.
d) I Sacri canoni sono realizzatori della missione della Chiesa (LG 1 e 13).
e) Il Diritto canonico è gerarchico.

Per il Diritto canonico: si hanno tre definizioni:

R. Naz: “l’insieme delle leggi proposte, elaborate o approvate dall’autorità competente della
Chiesa, in vista di assicurare il buon ordine della società ecclesiastica e di dirigere l’attività del
Fedeli verso il duplice fine che la Chiesa persegue: il bene della comunità cattolica e la felicità
eterna”.

P. Ciprotti: “Il complesso delle norme giuridiche stabilite, direttamente o indirettamente, dalla
Chiesa per mezzo dei suoi organi, per regolare materie di sua competenza”.

P. Lombardia: “Si denomina diritto canonico, l’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica, cioè
l’insieme dei fattori che danno alla Chiesa la struttura di una società giuridicamente organizzata.
Con l’espressione diritto canonico ci si riferisce anche alla scienza che studia l’ordinamento
canonico e alla disciplina che lo insegna nelle aule universitarie”.
Quindi secondo questo Autore (Università di Navarra, Pamplona) il diritto essendo l’ordine giusto
della società, laddove le relazioni giuridiche sono improntate alla giustizia ed i soggetti aggregati si
attengono a questa giustizia, tanto più nella Chiesa che ha una natura giuridica propria, il Diritto
canonico deve essere elaborato secondo i tratti che la caratterizzano.
Il fondamento del Diritto canonico (J. Hervada) è nella Chiesa come societas (infatti la Chiesa è il
nuovo Popolo di Dio, nuovo Israele, il Corpo di Cristo) e nella giustizia (che permea tutte le realtà
ecclesiali).

21
DIRITTO E CHIESA

L’esperienza giuridica nella Chiesa antica


L’organizzazione istituzionale e l’elaborazione di regole positive sia strutturali che di
comportamento, cominciano a fare la loro apparizione nei secoli II e III. In questo periodo si
approfondiscono e si consolidano tutti quegli elementi che imprimono alla Chiesa la sua identità. Il
processo d’istituzionalizzazione si fa sempre più marcato attorno alle istituzioni fondamentali di
origine cristico-apostolica: la Parola, i sacramenti e in particolare l’eucaristia, il ministero ordinato,
la realizzazione della Chiesa nelle Chiese locali. L’immagine e la realtà di Chiesa erano espresse dai
cristiani della Chiesa antica con il concetto neotestamentario di koinonia (comunione).
La Chiesa costituisce una comunione a partire dell’eucaristia, dove coloro che insieme prendono
parte al corpo e al sangue di Cristo, oltre che essere uniti con il Signore, sono uniti tra loro in una
relazione di comunione. La comunione si rende percepibile anzitutto nella Chiesa locale che celebra
l’eucaristia, presieduta dal vescovo. Si manifesta anche nella Chiesa universale, come comunione
nella fede e nella carità.
Nella Chiesa antica non troviamo un pensiero giuridico elaborato, ma un vissuto giuridico di natura
costitutiva oltre che normativa. Siamo di fronte a una fraternità ordinata, il cui ordine non deriva da
una generica socialità, ma dal ministero e dalla comunione. Comunione è il vincolo di unione dei
fedeli tra di loro, con i vescovi e con il papa, ma anche dei vescovi tra loro e con il successore di
Pietro. Comunione è il nesso che collega le Chiese particolari tra loro e con la Chiesa universale.
Comunione è più che affinità di pensiero o affetto d’amicizia: dice che la Chiesa è un’unità
organica, con una struttura giuridica ancorata alla sua peculiare natura.

La fondazione del diritto della Chiesa: le ricerche dei teologi e dei canonisti
Nel corso dei secoli sono sorti orientamenti di pensiero che hanno, di volta in volta, messo in
discussione l’aspetto istituzionale della Chiesa e di conseguenza la stessa autorità ecclesiastica, la
forza vincolante della tradizione disciplinare, l’organizzazione giuridica.
Un primo orientamento di pensiero è quello di tendenza protestante che ha trovato la sua
formulazione più radicale in Rudolph Sohm. Secondo lo studioso protestante il diritto non è
conforme alla natura della Chiesa, anzi in contraddizione con essa e quindi inaccettabile. Le tesi di
Sohm poggiano su due presupposti: la concezione positivistica estrema del diritto ridotto a comando
di un’autorità rinforzato da una sanzione e la convinzione che la Chiesa antica si sia realizzata come
organismo esclusivamente carismatico, privo del diritto.
Nel confutare Sohm, Von Harnack dice che diritto, carisma e istituzioni non si escludono né si
oppongono.
Tra le correnti di pensiero che fondano il diritto nelle categorie teologiche va segnalata la posizione
di quegli studiosi che giungono a considerare la scienza canonica non come scienza giuridica
collocata nell’orizzonte razionale, bensì come scienza teologica. Inoltre definiscono il diritto a
partire dalla categoria ecclesiologica della comunione, che instaura rapporti intersoggettivi e
strutturali originali, propri della costituzione della Chiesa e conoscibili solo attraverso la fede. Per
questi studiosi la scienza canonica è una disciplina teologica, con metodo giuridico.

Di particolare rilievo il pensiero del canonista tedesco Klaus Morsdorf. Per dimostrare
l’infondatezza del pensiero di Sohm, Morsdorf, dopo aver richiamato il mistero dell’incarnazione,
presenta la Chiesa come nuovo popolo di Dio, come comunità che continua nella storia l’azione
salvifica di Cristo. Nella configurazione sacramentale della Chiesa trova senso e fondamento la sua
struttura giuridica. La necessità e l’essenzialità del diritto per la Chiesa, precisa Morsdorf, è ancora
più evidente se si considera che i due elementi costitutivi della Chiesa, la Parola e il sacramento,

22
hanno carattere giuridico. Gesù ha annunciato la parola di Dio in modo autoritativo. Il suo annuncio
è formale e obbligatorio. I destinatari dell’annuncio sono tenuti all’obbedienza. Anche oggi tale
annuncio è formale e obbligatorio, e quindi in sé giuridico, in quanto si compie in nome e per
mandato del Signore: chi accoglie la Parola, accoglie Cristo e a lui obbedisce. Per il canonista
tedesco il diritto è attivo anche nei sacramenti, nei quali la Parola si compie. Parola e sacramento
hanno effetto formale giuridico. Morsdorf dimostra in questo modo come la dottrina di Sohm sia
sbagliata, in quanto il diritto canonico non è contradditorio con l’essenza sacramentale della Chiesa,
anzi è esigito dagli stessi elementi che la strutturano: la Parola e il sacramento.
I discepoli di Morsdorf, in particolare Eugenio Corecco e Antonio Maria Varela, hanno
approfondito notevolmente la categoria della communio (nel concetto di comunione convergono le
categorie di popolo di Dio, corpo mistico, Parola e sacramento), giungendo ad individuare in essa lo
statuto ontologico del diritto canonico. La communio rappresenta, per il diritto canonico, la realtà da
realizzare e, nello stesso tempo, il modo secondo cui esso deve strutturarsi per realizzarla. Il diritto
canonico è a servizio della comunione ecclesiale.

Jean Gaudemet osserva che tra teologia e diritto canonico vi siano strettissime relazioni. Il
diritto canonico sta di fronte alla teologia e in una certa dipendenza, giacché da essa deriva
l’ispirazione e molti suoi contenuti. Il diritto non è parte della teologia ma al contempo non è
indipendente da essa; entrambi sono autonomi e con finalità differenti.
Altri studiosi come Pedro Lombardia sostengono come il diritto sia l’ordine giusto della
società, o meglio, le relazioni giuridiche sono relazioni improntate a giustizia, cioè rapporti sociali
in cui i soggetti sono connessi dal punto di vista della giustizia. Il fondamento del diritto canonico si
ritrova nelle dimensioni di socialità e di giustizia contenute nell’essenza di tutte le realtà ecclesiali.
Il diritto, inteso come ordine sociale giusto del popolo di Dio, è connaturale alla Chiesa e svolge nei
suoi confronti una funzione strutturante.
Altre concezioni sostengono che il diritto proviene dalla: sacra scrittura, teologia, pastorale,
tradizione, ecclesiologia, teso alla salus animarum, animato dalla carità e ordinante al bonum
ecclesiae.

Specificità e caratteristiche del diritto canonico


Si è già visto come secondo Paolo VI il diritto canonico, fondato nel Verbo incarnato, ha
valore di segno e strumento di salvezza, il che equivale a dire che il diritto canonico ha natura
sacramentale, come la Chiesa. Come intendere questa caratteristica del diritto canonico?
“Se il diritto canonico ha il suo fondamento in Cristo, Verbo incarnato, e pertanto ha valore
di segno e di strumento di salvezza, ciò avviene per opera dello Spirito che gli conferisce forza
e vigore; bisogna adunque che esso esprima la vita dello Spirito, produca i frutti dello Spirito,
riveli l’immagine di Cristo. Per questo è un diritto gerarchico, un vincolo di comunione, un
diritto missionario, uno strumento di grazie, un diritto della Chiesa”61.

In senso generale la natura sacramentale del diritto canonico va compresa a partire dalla
nozione di Chiesa sacramento. La Chiesa visibile e quella spirituale non sono due res, ma un’unica
complessa realtà, nella quale l’elemento visibile costituisce lo strumento attraverso cui passa
l’azione salvifica di Cristo. L’ordinamento canonico, in quanto parte integrante della Chiesa,
assume il carattere sacramentale di questa e contribuisce a mediare la salvezza. Il principio
sacramentale, con le sue esigenze di visibilità, socialità e certezza, conferisce alla Chiesa una
dimensione umana e storica. Ciò vale in particolare per il diritto canonico, che nella Chiesa realizza
in un modo tutto peculiare tali esigenze. In senso più ristretto, la qualità della sacra mentalità viene
a significare che la struttura organica della Chiesa e la sua indole sacra vengono attuate per mezzo
61
Insegnamenti di Paolo VI, 1973/XI, Città del Vaticano 1974, p. 129-130. Si veda: L.J. PATSAVOS, Spiritual
Dimensions of the Holy Canons, Brookline 2003.

23
dei sacramenti. Il Canone 840 infatti specifica come i sacramenti “concorrono a iniziare,
confermare e manifestare la comunione ecclesiastica”.
Dall’insieme risulta che i sacramenti strutturano la Chiesa nel suo aspetto istituzionale e
attualizzano permanentemente questa struttura nella vita pellegrinante del popolo di Dio in questo
mondo. In riferimento all’azione dello Spirito Santo va ricordato che lo stesso Spirito non solo per
mezzo dei sacramenti e dei ministeri santifica il popolo di Dio e lo guida, ma distribuendo a
ciascuno i propri doni come piace a lui, dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali.
Compito del diritto è di esprimere gli elementi normativi della molteplice azione dello Spirito
Santo. Attraverso l’azione dello Spirito Santo nasce e cresce la communio fidelium.

Caratteristiche del Diritto canonico:

È un diritto gerarchico. Questa espressione mette in luce che la legge ecclesiastica proviene
dall’autorità propria di chi ha nella Chiesa la potestà di governare. La promulgazione dei due
Codici, latino e orientale, è stato un atto legislativo eseguito dal romano pontefice nella sua qualità
di vescovo della Chiesa di Roma, capo del collegio dei vescovi, vicario di Cristo e pastore qui in
terra della Chiesa universale.

È vincolo di comunione. In campo canonico il concetto di comunione è stato assunto con due
livelli di significato: qualificazione della comunione quale principio formale dell’ordinamento
canonico e valorizzazione della comunione per la soluzione di questioni specifiche. Nel Codice di
diritto canonico della Chiesa latina, il libro II è quello che maggiormente esprime, nella sua
struttura e attraverso i suoi canoni, la dottrina della Chiesa come comunione. Il soggetto
fondamentale del libro II è la communitas christifidelium, il popolo convocato da Dio e
organicamente strutturato. Il canone 205 evidenzia come le componenti essenziali della comunione
ecclesiale sono: la condivisione della stessa fede, la partecipazione agli stessi sacramenti, l’adesione
e l’obbedienza ai pastori. Tale comunione attraversa tutta la Chiesa ed è manifestata dall’unione
collegiale dei vescovi tra loro e con il papa. In campo canonico il concetto di comunione è stato
assunto con due livelli di significato: qualificazione della comunione quale principio formale
dell’ordinamento canonico e valorizzazione della comunione per la soluzione di questioni
specifiche.

È un diritto missionario. Nella visione cristiana della salvezza, il disegno del Padre di far
partecipare gli uomini alla sua vita divina, riguarda tutta l’umanità. Tra Dio e l’uomo si instaura una
relazione che è ad un tempo di natura religiosa, etica e giuridica. A partire da questo dato è possibile
configurare, dentro il tessuto della relazionalità universale tra gli uomini, un diritto,
antropologicamente e teologicamente fondato, di ogni uomo di essere introdotto nella verità portata
da Cristo. Alimentato da questo humus il cristiano, la comunità cristiana, sono chiamati ad operare
giuridicamente a favore di tutti gli uomini. Questa visione missionaria del diritto, consente di
mettere in luce il fatto che il diritto deve contribuire al dinamismo della Chiesa, chiamata ad essere
sacramento di salvezza per tutti i popoli. Proprio questo dinamismo e il rispetto delle diverse
tradizioni ha portato al formarsi di più riti, differenti tra loro per la liturgia, per la disciplina e per il

24
patrimonio teologico-spirituale. Questa pluralità diversificata è vera ricchezza, che non
compromette l’unità della Chiesa, ma manifesta il suo essere comunione.

Strumento di grazie: occorre partire dall’unione tra l’elemento giuridico da quello teologico e
religioso, ancorato al diritto proprio della vita della Chiesa: è uno degli elementi costitutivi del
Mysterium Ecclesiae, realtà visibile che contiene una realtà soprannaturale interna e invisibile. Il
rapporto organico tra diritto canonico e il Mysterium Ecclesiae, dà senso a tutto il sistema canonico
dove ogni attività legislativa ecclesiale serve alla missione di trasmissione della fede, indirizzandosi
verso la salus animarum. Il diritto canonico e l’attività legislativa nella Chiesa è la disposizione,
mediante i mezzi giuridici, della vita del Popolo di Dio, nella realizzazione della fede. Il diritto della
Chiesa è una parte della Legge Nuova (Legge evangelica) o lex gratiae (distinta dalla lex naturae e
conseguentemente dà origine a un ordine giuridico che non è quello della civitas terrena) 62,
appartiene al piano della salvezza (economia della salvezza), visto che la legge suprema della
Chiesa è la salvezza delle anime63. Quindi il diritto canonico quale segno della dimensione salvifica,
inerisce la vita ordinaria e soprannaturale dei fedeli, soprattutto attraverso la carità; è per sua natura
“interiormente pastorale” nello stesso tempo è strumento di grazia per la vita della Chiesa.

Lo stile del diritto canonico


Il diritto canonico differisce dai diritti degli Stati per i contenuti e per le caratteristiche della
sua legislazione. Esso è e resta un diritto sacro, un diritto destinato a perseguire la salvezza delle
persone mediante strumenti specifici. Di qui deriva quello che può essere chiamato lo stile del
diritto della Chiesa.

Il diritto canonico è per sua natura pastorale.


Tra diritto e pastorale, in quanto discipline teologiche, non mancano le convergenze. Ambedue
ricevono dalla fede i principi e i criteri della loro azione e ambedue si adoperano affinché il vangelo
si esprima nella sua verità perenne attraverso la storia quotidiana. Il percorso del diritto canonico è
costituito dalle norme che, per la loro stessa natura, esigono l’osservanza determinando l’azione. Il
diritto, una volta accolta la parte di origine divina, è elaborato e vissuto nella comunità credente, la
quale, forte della sua unità e tradizione, è chiamata ad essere attenta all’uomo nelle sue concrete
circostanze. Inoltre il percorso della pastorale non può ignorare la giustizia e la verità. La
dimensione di giustizia viene offerta alla pastorale dal diritto. In altri termini: la disciplina canonica
non è fine a se stessa ma va vista in collegamento con il mistero di Cristo e della Chiesa.

L’equità canonica
Chi scorre le leggi canoniche rimane colpito dal loro senso dell’equilibrio e della misura,
cioè dell’equità. Sono riconducibili alla caratteristica dell’equità canonica numerosi istituti accolti
dai due Codici, come: la dispensa, il privilegio, la consuetudine, la forma straordinaria della
celebrazione del matrimonio, etc. Inoltre numerosi canoni del Codice latino rinviano esplicitamente,
per la loro applicazione, all’equità.
L’equità canonica ispira tutta la legislazione vigente. L’equità è intesa non solo come strumento di
correzione della legge quando questa diventa ingiusta o troppo rigorosa nelle circostanze concrete
(come ritenevano gli antichi), ma come principio che deve ispirare tutti coloro che sono coinvolti
nell’attività giuridica: il legislatore che emana le leggi, l’interprete che le spiega, il fedele che le
applica, il giudice che le utilizza per dirimere le controversie. L’equità canonica è chiamata ad
62
J. HERVADA, Le radici sacramentali del Diritto Canonico, in Ius Ecclesiae 17(2005) p. 629-658.
63
Si veda PAOLO VI, Allocuzione alla Rota Romana (28 gennaio 1978), in AAS 70(1978), pag. 182.

25
identificarsi con lo spirito del vangelo, diventando perciò un principio ispiratore fondamentale della
vita giuridica della Chiesa. Ovviamente la concezione dell’equità canonica non va confusa con
l’opinione di chi ritiene che il diritto canonico diviene umano soltanto quando non vengono
applicati i suoi canoni o non si ricorre a sanzioni penali.
La realizzazione della giustizia nella Chiesa è un’esigenza profondamente pastorale. La giustizia è
anche realizzazione della carità come ricorda Paolo: “Pieno compimento della legge è l’amore” e a
cui fa eco sant’Agostino: “Grande carità, è grande giustizia; carità perfetta, è perfetta giustizia”.
Tutto questo evidenzia anche il carattere misericordioso del diritto della Chiesa, che è riassunto
perfettamente da san Tommaso: “La misericordia non toglie la giustizia, ma è in qualche modo suo
coronamento”.

Circa il Diritto della Chiesa rileva Gaetano Lo Castro che la questione “è stata però
generalmente trattata alla luce di un’idea insufficiente ed inadeguata del diritto, inteso generalmente
come norma, come volontà imperativa, che per essere tale deve potere essere portato a compimento
anche attraverso la forza; un’idea tipica delle correnti positivistiche moderne, che ebbero la loro
migliore manifestazione nelle codificazioni contemporanee, alla quale d’altronde non rimase
estranea la codificazione canonica”, ed ancora “si è per tale via dimenticata o, quanto meno, si è
messa la sordina all’idea del diritto come ricerca del giusto nel caso concreto, come risposta da dare
al bisogno imperituro di giustizia che è proprio dell’uomo fuori dalla Chiesa e nella Chiesa; un’idea
alla cui affermazione la Chiesa, con il suo radicamento nel disegno salvifico di Dio, con la sua
conseguente raffinata capacità di leggere nel mistero dell’uomo e di individuarne i bisogni più
profondi, può dare ed ha dato nel corso dei secoli un contributo poderoso al suo interno e nella
società nella quale si è trovata ad operare, in tal modo favorendo una vita giuridica più consona alle
esigenze intime dell’uomo”64.
Un’irripetibile peculiarità che il diritto penale canonico come diritto strumentale e pertanto
elastico, offre al Giudice è l’applicazione dell’equità canonica.
L’aequitas canonica è un criterio, un principio, un atteggiamento, istituto proprio del cuore
della Chiesa una delle espressioni più alte della carità pastorale 65 per raggiungere la salus
animarum. Il tratto distintivo dell’equità canonica è la sua chiamata per invocare la Legge non
secondo la sua lettera ma secondo il suo spirito con la prevalenza del particolare sul generale, il
primato del caso concreto sull’astrattezza della regola, quando sia in gioco la salus animarum.
L’equità canonica impedisce al diritto codificato di degenerare in chiusura, sordità e
deformazione66.
Mentre il diritto divino è interpretato e compreso dal magistero, il diritto umano è
contrassegnato dalla elasticità della regola giuridica, per cui al giudice compete (si tratterebbe di un
obbligo) applicare l’equità canonica.
Nel can. 19 CIC 83 (che riproduce il can. 20 CIC 17) emerge l’equità come base nella teoria
delle fonti, occorre però rimarcare il suo necessario collegamento stretto con il can. 1752 CIC 83
che suggella ed esprime tutta la normativa canonica. Quindi il can. 19 CIC deve essere interpretato
unitamente al can. 1752 CIC.
L’equità canonica è 1) principio fondamentale e prodotto incomparabile dello ius Ecclesiae;
2) ha proprie funzioni, in primo luogo interpretare la norma scritta, supplire della norma mancante e
sostituire la norma inadeguata quando possa profilarsi nella concretezza un caso di periculum

64
G. LO CASTRO, Responsabilità e pena nel diritto della Chiesa. Premesse antropologiche, in Il mistero del diritto,
vol. III, L’uomo, il diritto, la giustizia, Torino 2012, pp. 197-198.
65
Così Paolo VI nel Discorso alla Rota Romana dell’8.2.1973 in AAS 65(1973), p. 95-103. A. SCASSO, L’aequitas
canonica nel pensiero di Paolo VI, Roma 1998. G. BREGNOTTO, L’”aequitas canonica”. Studio e analisi del
concetto negli scritti di Enrico da Susa (Cardinal Ostiense), Roma 1999. O. ÉCHAPPÉ, À propos de l’équité en Droit
canonique, in L’Annéè Canonique 41(1999), p. 181-192; M.C. RUSCAZIO, Equità e diritto vivente: teoria e prassi
dell’ordinamento ecclesiale, in AA. VV., ‘Aequitas sive Deus’, Studi in onore di Rinaldo Bertolino, I, Torino 2011, p.
463-485; P. GROSSI, Aequitas canonica, nel Vol., Scritti canonistici, Milano 2013, p. 211-228.
66
P. GROSSI, p. 221.

26
animae. Viene così superata la rigidità di forme e comandi (questi ultimi non esauriscono il
fenomeno giuridico) per salvaguardare la salute dei Fedeli, il singolo peccatore, evitando il
disordine causato da un delitto (peccato) ed operando la salvezza ecclesiale delle anime. 3) Ancora
l’equità è autonoma ed originale come garanzia ultima di legalità superiore e certezza come
obiettività; 4) ha forza costruttiva consentendo alla norma suprema di non essere vanificata dalle
norme inferiori.

S. Tommaso (traducendo il concetto aristotelico di epikeia) ritiene l’equità canonica come criterio
per correggere la legge quando questa pecchi e si scosti nei casi concreti dalla giustizia naturale che
invece dovrebbe rispecchiare.
Francisco Suarez ritiene che tre siano i casi di applicazione secondo equità: 1) quando la legge per
motivo delle circostanze concrete diviene ingiusta; 2) quando la legge sia troppo rigorosa e quindi
ingiusta perché o fuori tempo o fuori misura; 3) qualora la legge pur se giusta, valutate le
circostanze si possa ritenere che il legislatore non avrebbe voluto insistere nel comando per
benignità. Per tale ultimo autore quindi ogni legge ha in sé il carattere e la condizione implicita che
salvi lo spirito di carità nonché le esigenze spirituali del Vangelo 67. Secondo una nuova
interpretazione l’equità canonica anziché con la semplice giustizia naturale si deve identificare con
lo spirito delle beatitudini, eliminando ogni pericolo per le anime, facendo sì che le leggi canoniche
vengano esse stesse a costituire lo spirito del Vangelo68. Ecco che l’equità canonica come equilibrio
e misura ispirata dallo spirito del Vangelo per la salvezza delle persone, non è solo un principio di
carattere morale o ideale metagiuridico in quanto impossibile da definire in norme concrete di
carattere giuridico, ma una preziosa regola di condotta giuridica, un principio fondamentale per
configurare dall’interno la vita giuridica della Chiesa69.
Ecco che per quanto riguarda l’applicazione dell’equità da parte del Giudice canonico questa
va ben oltre i concetti di mansuetudo, humanitas e misericordia in quanto si oppone alla lettera
della legge ed al rigor iuris o al freddo ossequio delle forme giuridiche o al culto formale della
norma70. Infatti la norma suprema non può essere vanificata dalla rigidità delle norme inferiori
inadeguate a realizzarla nel caso concreto. Il Giudice canonico applicando l’equità non crea la
norma, ma la scopre, la dichiara, la applica, quale meccanismo di autointegrazione tra la norma
superiore e quella inferiore, tra il diritto divino e quello umano71.
Il Giudice canonico nell’applicare l’equità compie una lettura obiettiva della situazione
concreta, quindi non si tratta di operare dei salti disinvolti, o inserire potestà discrezionali, o
sensibilità oppure umanità soggettive, ma di adeguare, scoprire ed applicare la norma del can. 1752
CIC. L’applicazione dell’equità canonica per il Giudice canonico diviene quindi un dovere, a cui
corrisponde un diritto per i Fedeli.
Tramite l’aequitas canonica si conferma il carattere pastorale dell’attività giuridica nella Chiesa72,
laddove “in senso stretto, l’equità non è qualcosa di diverso dalla giustizia né dal diritto, né,
pertanto, va considerata come un limite al rigor iuris, bensì al rigor legis, il che è assai diverso”. In
tal modo, “è fondamentale chiarire che anche quando l’equità viene intesa come qualcosa che va
oltre alle esigenze della giustizia (del resto tanto auspicabile), essa non può essere mai contro la
giustizia”. Di conseguenza, “un punto fermo che può fungere da riferimento sicuro è la semplice,
67
Si veda: F.J. URRUTIA, Equità canonica, in AA. VV. Nuovo Dizionario di Diritto Canonico, Cinisello Balsamo
1993, p. 447-450; F.J. URRUTIA, Aequitas canonica in Periodica 73(1984), p. 33-84 e F.J. URRUTIA, Apollinaris
63(1990) p. 205-239, anche se si rileva come questo Autore abbia continuato a porre il problema sterile delle possibili
origini romane.
68
Una legge canonica in materia penale deve contenere in sé l’equilibrio e la misura che provenga non solamente dalla
giustizia informata alla carità, ma pure dallo spirito evangelico delle beatitudini. E se la legge canonica si spostasse da
questi assi portanti necessiterebbe di una correzione nella sua applicazione. Così F.J. URRUTIA, Equità canonica,
p.450.
69
Paolo VI nel Discorso alla Rota Romana dell’8.2.1973 in AAS 65(1973), p. 95-103.
70
P. GROSSI, p. 219.
71
P. GROSSI, p. 2223 e ss.
72
Cfr. PAULUS VI, Allocutio ad Romanam Rotam, 8 februarii 1973, 100.

27
ma non perciò meno vera, idea che ciò che è ingiusto non può essere né equo né pastorale. In
definitiva, non v’è ragione alcuna che giustifichi la confusione dell’equità canonica con un
superficiale «pastoralismo»”73.

73
E. BAURA, Pastorale e diritto nella Chiesa, in PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Vent’anni di
esperienza canonica, 1983-2003. Atti della Giornata Accademica tenutasi nel XX anniversario della promulgazione del
Codice di Diritto Canonico. Aula del Sinodo in Vaticano, 24 gennaio 2003, Città del Vaticano 2003, p. 178-180. Si
ricorda l’ “opportuno soffermarsi a riflettere su di un equivoco, forse comprensibile ma non per questo meno dannoso,
che purtroppo condiziona non di rado la visione della pastoralità del diritto ecclesiale. Tale distorsione consiste
nell’attribuire portata ed intenti pastorali unicamente a quegli aspetti di moderazione e di umanità che sono
immediatamente collegabili con l’aequitas canonica; ritenere cioè che solo le eccezioni alle leggi, l’eventuale non
ricorso ai processi ed alle sanzioni canoniche, lo snellimento delle formalità giuridiche abbiano vera rilevanza pastorale.
Si dimentica così che anche la giustizia e lo stretto diritto – e di conseguenza le norme generali, i processi, le sanzioni e
le altre manifestazioni tipiche della giuridicità, qualora si rendano necessarie – sono richiesti nella Chiesa per il bene
delle anime e sono pertanto realtà intrinsecamente pastorali”, così IOANNES PAULUS II, Allocutio ad Romanam Rotam,
18 ianuarii 1990, p. 873.

28
LE FONTI DEL DIRITTO CANONICO

Nel linguaggio delle scienze giuridiche il termine “fonte” (che significa sorgente, origine, causa)
viene usato in senso metaforico e l’espressione “fonti del diritto” indica sia i fatti o gli organi che
producono le norme o regole di condotta (fontes essendi), sia i documenti e le raccolte che
consentono di conoscere le norme vigenti in un determinato momento storico (fontes cognoscendi).

Ius divinum e ius humanum nell’ordinamento della Chiesa


Il complesso delle strutture e delle norme che determina l’ordinamento della Chiesa e regola la
condotta dei suoi membri trae origine da più realtà. Nell’ordinamento della Chiesa compaiono
elementi di diritto divino (ius divinum) che hanno origine da Dio ed elementi di diritto umano (ius
humanum) che hanno origine dalle realtà sociali contingenti con le quali il diritto divino entra in
relazione. Non è possibile distinguere lo ius divinum dallo ius humanum in quanto la Chiesa
possiede lo ius divinum attraverso forme storiche contingenti di mediazione. È nello ius divinum
così inteso che troviamo i contenuti essenziali della costituzione della Chiesa e le norme
fondamentali che costituiscono la parte immutabile dell’ordinamento canonico.
La teologia cattolica considera ius divinum non solo le istituzioni che possono essere ricondotte ad
una parola o ad un’azione di Gesù verificabili sul piano storico, ma anche quelle che rientrano nelle
autentiche possibilità date da Gesù alla sua Chiesa (ad esempio la successione apostolica).

Fin dalla sua fondazione la Chiesa ha avuto un diritto, anche se questo non ha assunto la forma
che ha attualmente. Tutte le comunità sono ugualmente impegnate, nel vincolo della comunione,a
essere la Chiesa del Signore. La comunione non è un vago affetto, ma una realtà organica
espressa in forma visibile. Attraverso quel gesto, le Chiese di Paolo e Barnaba e le Chiese di
Giacomo, Cefa e Giovanni, pur nelle loro diversità, sono da considerare unite tra loro nella
comunione.
⇒ Il giuridico ecclesiale non si presenta come un comando di un’autorità rinforzata dalla sanzione,
ma è connesso con l’ambito morale e religioso, ha l’origine e senso in Dio e nella sua rivelazione,
nella storia e in Cristo.

Le fonti dello ius divinum sono:


1) La sacra Scrittura: le strutture e le norme di diritto divino sono contenute nella rivelazione
trasmessa dagli apostoli. Sono presenti “nelle parole e azioni” con le quali Dio si rivelò
all’antico popolo (AT) e “nelle parole e opere” con le quali Gesù manifestò il Padre suo e se
stesso (NT). Nei libri del NT si trovano scritti che hanno valore normativo per la Chiesa di
tutti i tempi, in quanto libri ispirati e contenenti l’insegnamento degli apostoli; si possono
individuare norme di diritto divino, norme di diritto divino-apostolico, norme di diritto
apostolico, norme proprie della tradizione ecclesiale.

L’esperienza giuridica nell’AT


I principi organizzativi del popolo dell’AT e l’ordine della sua convivenza erano sostanzialmente stabiliti
dall’alleanza e dalla legge. La Legge costituiva lo statuto dell’alleanza, era il suo contenuto fondamentale,
l’osservanza della legge dava unità di coesione al popolo e la comunione con Dio

29
3 elementi importanti: 1) nesso tra alleanza e legge (sia verso Dio che verso i fratelli)
2) carattere misecordiosa della legislazione
3) Dio promette una nuova alleanza
All'ordinamento dell'antico Israele si sentirà legata da Chiesa delle origini, che si considerava il compimento di
Israele, il nuovo popolo di Dio.

L’esperienza guiridica nel NT


La prima lettera alla comunità di Corinto (1 Cor 1,5-7; 12; 14)
- la loro esperienza ha una fisionomia più complessa,
la comunità cristiana ha più fonti: Dio, il Cristo, gli Apostoli, le leggi morali, coloro che sono rivestiti di autorità.
- gli scritti di primi 2 secoli (Vangeli, lettere...) non si leggono come fonti giuridiche nel senso moderno
del termine, non è un comando di un’autorità rinforzata da una sanzione
- la comunione sta al fondamento della nuova identità di vita cristiana
Paolo precisa che la Chiesa è comunione che si esprime in una comunità articolata come un corpo vivente,
la cui legge fondamentale è la complementarità nell’amore fra le varie membra
e la convergenza per la crescita comune nel cristo risorto.
- Paolo non si limita a risolvere casi individui ma fissa norme generali
- Paolo vuole che ‘’quanto scrive sia riconosciuto come comando del Signore, ‘’perché Dio non è un Dio di disordine,
ma di pace’’ (1Cor. 14,33)

2) La tradizione: la Parola di Dio è affidata alla Chiesa, affinché, assistita dallo Spirito di Gesù
risorto, la trasmetta nel tempo e nello spazio. Ha così inizio il processo di “Tradizione” della
rivelazione. La Tradizione apostolica, con i contenuti da credere, consegna ai credenti di
tutti i tempi anche delle tradizioni pratiche, fra le quali rivestono particolare importanza le
istituzioni della Chiesa apostolica riguardanti le strutture di governo e i mezzi di
santificazione. Si hanno così le tradizioni pratiche e istituzionali concernenti gli ordinamenti
per la vita comunitaria, per la disciplina interna e per le funzioni ministeriali.

Atteggiamento di Paolo riguarda la legge :


in Paolo si riscontra un duplice atteggiamento verso la legge:
- da una parte antilegale,
- dall’altra si mostra favorevole alla legge.
Paolo distingue tra: - la Torah (Legge) come rivelazione divina, comunicata attraverso la Bibbia;
- la Torah (legge) come istituzione che regola la vita degli israeliti.
Paolo non contesta mai la Torah come rivelazione, ma è contro la Torah come istituzione.

① P. Albert Vanhoye: afferma che S.Paolo ha dato alle sue comunità un’organizzazione giuridica
S. Paolo afferma che alla base del giusto rapporto con Dio c’è il fondamento della giustificazione. La salvezza non
viene dalla legge e dalle sue opere, ma dalla fede nel Signore Gesù. Le leggi che regolano la vita della comunità di
Corinto vengono condannate non perché disciplinano la vita della comunità ma “pretende” la salvezza da Dio.

P. Vanhoye individua la presenza delle norme giuridiche nei scritti di Paolo: (1Cor.)
cap. 11° consuetudine delle chiese di Dio riguarda un comportamento esterno delle donne nell’asseblea
cap.14° usi dei carismi riguardano l’organizzazione sociale della chiesa
cap. 7° 8° 10° norme relative ai matrimoni e alle carni immolate
cap.5° i rapporti con i fratelli e sancisce l’esclusione dalla comunità, si tratta di una norma provvista di sanzione
distingue : norme di origine divina (ordino, non io, ma il Signore) l’indissolubilità del matrimonio

30
norme di origine già diventate tradizione vivente (ho trasmesso ciò che ho ricevuto) l’Eucaristia
norme di origine paolina (io dico, non il Siognore) riguarda il matrimonio misto
norme comuni alle altre chiese (come tutte le comunità dei fedeli, donne nell’assemblea.....)
norme proveniente della comunità

② Prof. Romano Penna:


paolo non assume l’atteggiamento del legislatore, non esprime in termini giuridici, ma in termini familiari con
l’atteggiamento di padre/madre della comunità
la polemica di S. Paolo contro la legge, và letta in un’ottica antropologica e non storico-salvifica. Paolo se la prende per
il fatto che la legge impedisce ad Israele di scorgere a nuova manifestazione della volontà misericordiosa di Dio Padre
in Cristo Gesù.

③ Prof. Agostino Montan: questi due pareri si completano vicenda.


Il primo (Vanhoye) considera l'autorità e il potere che competono a Paolo in quanto apostolo dei gentili;
il secondo (Penna) è attento all'esercizio responsabile dell'autorità.
Paolo si esprime in termini di esortazioni più che di comando, egli si intende il suo ministero pastorale come
in’educazione, però per le chiese a cui non bastavano le esortazioni, comanda, ordina come un giudizio.
Dunque Paolo conosceva il diritto e le procedure della Sinagoga, abbia avuto una solida formazione giuridica

LE FONTI del CIC

«Nel linguaggio delle scienze giuridiche il termine “fonte” (= sorgente; origine, causa) viene usato in senso
metaforico e l’espressione “fonti del diritto” indica sia i fatti o gli organi che producono le norme o regole
di condotta (= fontes essendi), sia i documenti e le regole che consentono di conoscere le norme vigenti in
un determinato momento storico (= fontes cognoscendi)»74.

Nei sec. I e II si struttura un apparato normativo proprio delle prime comunità cristiane:
- 49 d.C. - concilio di Gerusalemme segna la rottura col mondo giudaico (carne immolata)
- la fede nel Cristo risorto imprime una identità nuova e forte alla chiesa nascente
- nasce e si consolida la regula fidei
- importanza dei sacramenti (battesimo, dono dello Spirito Santo)
- fondamentale è l’Eucaristia : elemento di (che fa) comunione.
- collaborazione tra le chiese (sistema sinodale contro le controversie)
Nei sec. II e III:
- si sviluppa la liturgia cristiana
- si potenzia la comunione tra i fedeli, tra questi e le autorità (vescovi e papa),
tra le chiese particolari e la chiesa universale.
- si rafforza la koinonia (comunione) a partire dall’Eucaristia.

Fonti comuni dell’antico ordinamento canonico

a) I Concili Ecumenici

74
A. Montan, Introduzione al diritto canonico, , Roma 2° ed. 2010, 53.

31
I Concili ecumenici nella Chiesa appaiono nel II secolo in Oriente (mentre in Occidente
furono convocati solamente nel secolo seguente). I Concili Ecumenici erano così chiamati in quanto
aperti alla partecipazione dei Vescovi di tutto il mondo, anche se la presenza di Vescovi occidentali
fu scarsa, sostituiti da legati che erano inviati di volta in volta dal Vescovo di Roma che quasi
sempre assumevano la presidenza dell’Assemblea conciliare. Lo svolgimento degli stessi dapprima
in territorio bizantino fece in modo che nascesse una prassi amministrativa condivisa da tutte le
Chiese orientali fino allo sviluppo di un patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare che
appartiene ancora aggi alle Chiese cattoliche orientali ma anche a quelle ortodosse.

Concilio Niceno I (anno 325 convocato dall’Imperatore Costantino) fu il primo concilio Ecumenico
nella storia della Chiesa. Condannò l’eresia di Ario detta Ariana proclamando il 19 luglio 325 il
Symbolum fidei cioè il Credo, ed emanò 20 canoni.
L’arianesimo è una eresia trinitaria introdotta dal presbitero di Alessandria Ario (256-336) nella quale si affermava la
differenza di natura tra il Padre e Figlio. Il Padre è unico ed ingenerato e senza principio, mentre il Figlio si pone come
creato prima del tempo e quindi inferiore a lui. La figliolanza divina di Cristo sussiste non per natura ma per adozione o
grazia. In tale concilio nel c. VIII si condannano i novaziani o catari che derivavano da Novaziano presbitero romano
della metà del secolo III che diede origine ad una Chiesa scismatica costituendo una comunità di soli “puri” e “santi”.
Coloro che chiedevano di far parte di questa Chiesa venivano ribattezzati ed era negata la riconciliazione agli apostati
ed a quanti erano incorsi in peccati capitali. Tale setta raccolse l’adesione di numerosi montanisti e la sua presenza è
attestata fino al VII secolo.
Per quanto riguarda le disposizioni e la normativa si nota come si consolidi l’ufficio episcopale (c. 4 circa le modalità
per l’ordinazione di un Vescovo), e l’origine di quello che poi diverrà l’istituto patriarcale. Nel c. 5 oltre a confermare
l’autorità goduta dai Vescovi di Roma ed Alessandria e di alcuni privilegi appartenenti alle sedi di Antiochia e
Gerusalemme, viene disposto che per la consacrazione di un Vescovi necessiti il consenso del rispettivo metropolita e
quello espresso secondo maggioranza dagli altri Vescovi della provincia ecclesiastica. Vengono poste alcune norme sul
clero in genere, specificando come tutti debbano rimanere assegnati alla Chiese del cui servizio sono stati ordinati, pena
l’esclusione della comunione.

Concilio Costantinopolitano I (anno 381 convocato dall’Imperatore Teodosio I) emanò solamente


7 canoni condannando i macedoniani e le loro idee eretiche. Furono presenti a tale Concilio S.
Gregorio Nazianzeno e S. Cirillo di Gerusalemme. Il Macedonianesimo fu un pensiero eterodosso
che faceva capo al vescovo di Costantinopoli Macedonio, deposto nel 360, nel quale si affermava il
carattere creaturale dello Spirito santo il quale sarebbe diverso dagli angeli solamente per grado.
Ulteriori nomi dati ai macedoniani sono: pneumatomachi e avversari dello spirito.
Anche in tale parte si ha riferimento all’ufficio episcopale, introducendo il duplice principio della
giurisdizione territoriale e dell’amministrazione sinodale. Ogni Vescovo deve esercitare il ministero
solamente nella propria Diocesi, mentre per quanto riguarda le questioni di una singola Provincia
queste saranno regolate dal relativo Sinodo. Si noti come si statuisce che il Vescovo di
Costantinopoli, Nuova Roma, abbia il primato di onore dopo il Vescovo di Roma, introducendo ora
un nuovo criterio che è politico, mentre precedentemente era stato usato quello religioso che faceva
riferimento all’origine apostolica diretta o indiretta delle sedi stesse.

Concilio di Efeso (anno 431 con l’Imperatore Teodosio II) emanò 8 canoni e condannò Nestorio,
Patriarca di Costantinopoli (428) e la sua teoria della Christotokos affermando invece che Maria è
Theotokos (Madre di Dio). Nestorio distingueva nettamente in Cristo le proprietà umane e divine, e
preferiva parlare di “Maria Madre di Cristo”. Questa cristologia si rivelò infelice anche per la
mancanza di concetti strumentali adeguati. Dopo la condanna del Concilio di Efeso i sostenitori
portarono alle estreme conseguenze tale dottrina fino all’affermazione che in Cristo esistono due
nature e due persone, umana e divina, senza unione ipostatica. Il nestorianesimo si sviluppò in
Mesopotamia, soprattutto in Persia , Estremo Oriente e Cina.
Le disposizioni di tale Concilio confermano il principio secondo cui ogni provincia ecclesiastica
debba mantenere i propri diritti, soprattutto relativamente alla questione della consacrazione di
nuovi Vescovi. Come prima applicazione di questa normativa si concede ai Vescovi della Chiesa di
Cipro quell’autonomia che precedentemente avevano già goduto ma che per vari motivi era stata

32
riassorbita dalla Chiesa di Antiochia. Ancora relativamente alle provincie si stabiliva che nessuno
dei Vescovi potesse appropriarsi di una certa qual provincia che non fosse già dall’inizio sotto la
sua autorità oppure dei suoi predecessori75.

Concilio di Calcedonia (del 451, Imperatore Marciano), che emanò 30 canoni e condannò i
Monofisiti (resta importante la discussione circa il can. 28 concernente il primato di onore che la
Sede Romana non accettò). Il monofisismo (da mono più physis significante una natura) indica la
dottrina in base alla quale Cristo risulta dalla composizione di due nature umana e divina, le quali
non sussistono distinte. Secondo i monofisiti, dopo l’incarnazione esiste un’unica natura, tanto che
il corpo di Cristo non era come il nostro ma divinizzato. Tale dottrina fu presente
nell’insegnamento della scuola teologica di Alessandria e venne divulgata dal monaco Eutiche e
condannata a Calcedonia. si ricorda come però non tutti coloro che rifiutarono la formula
calcedonese furono però monofisiti (copti, giacobiti [seguaci di Giacomo Bar Adai, Vescovo
monofisita di Edessa dal 541 al 578 che consolidò la Chiesa monofisita in Siria e nei paesi
viciniori], armeni ecc.).
Per quanto riguarda la normativa si confermano le prerogative di Costantinopoli che già erano state
attribuite dal Concilio di Costantinopoli del 381, con privilegi civili uguali a quelli dell’antica città
imperiale di Roma estendendoli anche al campo ecclesiastico essendo la seconda dopo Roma. Ecco
che i Metropoliti delle provincie ecclesiastiche afferenti a quell’area orientale verranno ordinati
dalla Sede santissima della Chiesa di Costantinopoli. I Metropoliti potranno con i Vescovi della
provincia ordinare i Vescovi della stessa provincia, secondo il dettato dei sacri canoni. Ulteriori
disposizioni riguardavano l’ordinazione diaconale per le donne, i monaci che dovevano essere
sottomessi ai Vescovi, la residenza stabile, la dedizione al digiuno ed alla preghiera, e la non
intromissione negli affari ecclesiastici o civili76.

Concilio Costantinopolitano II (anno 553 con Giustiniano I) non emanò alcun canone disciplinare,
emanò le condanne contro i Tre Capitoli e le scomuniche di Ario, Eunomio, Macedonio,
Apollinare, Nestorio, Eutiche, Origene ed altri eretici nel can. XI e soprattutto Teodoro di
Mopsuestia e la sua dottrina esposta nel can. XII.

Concilio Costantinopolitano III (anno 680-681, Imperatore Costantino IV Pogonato) non emanò
alcun canone disciplinare.

Concilio Trullano (così chiamato in quanto si è celebrato nella sala del trullo [cupola] del palazzo
imperiale, detto anche “quinsesto”, convocato dall’imperatore Giustiniano II Rinotmeto nel 691) 77.
Emanò 102 canoni e costituisce una sorta di legislazione generale per il mondo ortodosso-bizantino.
Infatti si ha in tale assise la ripresa di tutto il diritto anteriore ricevuto in Oriente con i Concili
africani e quello di Sardica sul ruolo della Sede romana e diviene il fondamento di tutta la
legislazione canonica bizantina.(V. Peri dimostra come tale Concilio sia stato accettato da Roma
con un accordo tra il Papa Costantino (era della Siria e fu Pontefice dal 25.03.708 al 9.04.715) e
l’Imperatore Giustiniano II a Nicomedia nel 71178).
75
V. PARLATO, La politica di accentramento effettuata dal Patriarca di Costantinopoli e conseguente lesione
dell’autonomia degli altri Patriarchi orientali nel IX secolo, in Kanon 5(1981), p. 79-84.
76
Circa il riconoscimento ed il valore di tale Concilio, si veda: V. PARLATO, La “conferma” pontificia delle
deliberazioni del Concilio di Calcedonia, in AA. VV., Studi in onore di Pietro Agostino d’Avack, III, Milano 1976, p.
499-524.
77
Si veda NEDUNGATT G.- FEATHERSTONE M., The Council in Trullo Revisited, Roma 1995 (Kanonika 6); V.
LAURENT, L’oevre canonique du Concile in Trullo (691-693), Source primaire du Droit de l’Église Orientale, in
Revue des Etudes Byzantines 23(1965), p. 7-42.
78
PERI V., Il numero dei concili ecumenici nella tradizione cattolica moderna, in Aevum 37(1963), p. 430-510; PERI
V., I Concili e le Chiese. Ricerca storica sulla tradizione di universalità dei Sinodi Ecumenici , Roma 1965; PERI V.,
C’è un Concilio ecumenico ottavo? in Annuarium Historiae Conciliorum 8(1976), p. 53-79; IDEM, Vent’anni dopo.
Ancora sul numero dei Concili Ecumenici, in Rivista di Storia e Letteratura Religiosa, 23(1987), p. 289-300.

33
Nel c. 95 si condanna il Montanesimo che prende il nome da Montano un neofita dalla Frigia del II secolo, presentatosi
come profeta e chiamato ad inaugurare per la Chiesa l’era dello Spirito Santo. Due discepole Priscilla e Massimilla si
associarono come profetesse. Il montanesimo da un punto di vista dogmatico si rivela ortodosso, va ricercato nelle
attese escatologiche collegate ad un entusiasmo religioso ed a un rigoroso tenore di vita. La nuova profezia (era questo
un altro nome del montanesimo) rigettava l’autorità dei Vescovi e negava la Chiesa istituzionale. A questo movimento
aderì anche Tertulliano.
Come detto siamo in presenza di un compendio della legislazione canonica promulgata
antecedentemente dai Concili ecumenici e dai Sinodi particolari. Tale raccolta non presenta un
ordine sistematico con una distribuzione frammentata delle norme. L’organizzazione ecclesiastica si
rifà a quella civile. In primo luogo è stabilita una precedenza tra le sedi vescovili e viene
regolamentata: Roma, Costantinopoli. Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Circa la disciplina si
prescrive che nessun suddiacono, diacono o presbitero possa contrarre matrimonio dopo aver
ricevuto la sacra ordinazione e che nessun Vescovo dopo la consacrazione possa continuare a
coabitare con la propria moglie. Si noti come tale prescrizione innovi le precedenti prescrizioni
risultando sempre però meno restrittivo di quanto già praticato dalla Chiesa di Roma circa la prassi
celibataria del clero. Ulteriori canoni trattano le modalità di accoglienza per coloro che si
convertono alla fede, dei beni ecclesiastici, delle norme liturgiche e della vita matrimoniale e
monastica.

Concilio Niceno II (anno 787, Imperatore Costantino VI) emanò 22 canoni ristabilendo
l’iconodulia sconfessando l’iconoclasmo. La dottrina ed il movimento di pensiero dell’iconoclastia
(eikon più klaein significa rompere l’immagine) sorse nel secolo VIII con una contrarietà al culto
delle immagini. I periodi più intensi vanno dal 754 al 787 e dall’ 813 all’843. Tale concilio ha
definito i criteri del vero Concilio79: si formano differenti affermazioni di principio che stabiliscono
un quadro essenziale per riconoscere il carattere della “ecumenicità” di un Concilio: cooperazione
del Vescovo di Roma attraverso i legati ed il consenso dei Patriarchi orientali; conformità della
dottrina con quella stabilita ed approvata dai precedenti Concili ecumenici, portata universale delle
definizioni dottrinali e della normativa disciplinare, infine ricezione da parte di tutte le Chiese.

Costantinopolitano IV (anno 869 con Imperatore Basilio I) che emanò 27 canoni. In tale assise si
sancì la sentenza di Papa Adriano II contro Fozio Patriarca di Bisanzio e pur essendo ritenuto valido
dalla Chiesa Cattolica, non figura però in nessuna collezione Bizantina.

b) Atti dei Sinodi particolari: è questa una seconda fonte dell’antico ordinamento canonico
orientale. Tale normativa riguarda gli atti di una singola provincia ecclesiastica oppure di una
Chiesa che avesse una certa importanza. Tali canoni avevano valore solo per quelle Chiese, tranne il
caso che un Concilio in seguito non avesse fatto propria quella normativa.

c) Canoni dei nostri Santi Padri: testi differenti non solamente giuridici ma anche spirituali che
furono riferimento per la loro autorevolezza alla vita cristiana divenendo custodi, interpreti del
patrimonio cristiano in materia teologico, morale, spirituale e disciplinare. Seppure non si sia in
presenza di un valore giuridico in senso stretto, si ha un insieme di materiali che formeranno la
“Tradizione”. Infatti tale materiale confluirà e verrò fatto proprio anche dai Concili.

PERI V., La synergie entre le Pape et le Concile Oecuménique, in Irénikon 56(1983), p. 162-193, anche se si deve
79

notare come nel Costantinopolitano I sia avvenuto senza la neppur minima collaborazione con Roma, anzi addirittura
una certa contrarietà come emerge nel Sinodo Romano del 382.

34
d) Legislazione imperiale: è questa una ulteriore fonte normativa, in quanto l’Imperatore
interveniva quale “isapostolos” nell’amministrazione ecclesiastica.

Per rendere più fluido l’argomento delle fonti del Diritto Canonico latino, si cercherà di
dividere il periodo storico che ha visto il suo sviluppo per poter meglio comprendere tutte le
componenti che lo hanno determinato. Il modo sintetico di presentare i documenti è il risultato di
una scelta per non appesantire lo scritto di contenuti grevi.
1. Periodo dello Ius antiquum o Diritto dei canoni, dagli inizi fino al 1140.
2. Periodo dello Ius novum o Diritto canonico classico, dal 1140 al 1563.
3. Periodo dello Ius novissimum o Diritto canonico tridentino dal 1563 al 1917.
4. Periodo della Codificazione dal 1917 è tutt’ora in corso80.

PERIODO DELLO IUS ANTIQUUM O DIRITTO DEI CANONI, DAGLI INIZI FINO ALL’ANNO 1140

Il primo periodo, che anche quello più lungo, è caratterizzato da alterne vicende storiche che
sono legate alla complessa evoluzione del sistema ecclesiastico e che ha portato alla produzione di
norme consuetudinarie, canoni conciliari, decretali pontificie e lettere episcopali.
Sono da considerarsi in questo periodo le opere dette pseudo – apostoliche e da cui le
successive opere prendono le mosse:
1) Didaché o Doctrina duodecim Apostolorum opera della fine del I secolo o dell’inizio del II.
Contiene materiale catechetico e liturgico.
2) Traditio Apostolica è del III secolo, anche se il testo è andato perduto ma esiste una traduzione
latina contenuta nel Codex Veronensis. L’opera è divisa in 43 capitoli e contiene l’organizzazione
della chiesa del III secolo.
3) Didascalia Apostolorum o Didaskalia, collezione del 230 composta da un vescovo in Siria.
Anche la presente collezione è andata perduta ma si conserva una traduzione latina nello stesso
Codex Veronensis. Il testo contiene norme riguardanti i compiti dei fedeli, dei vescovi, dei diaconi e
delle diaconesse.
4) Canones ecclesiastici Sanctorum Apostolorum è stata redatta intorno al 300 in Sirio o in Egitto.
Esiste l’originale in lingua greca, contiene delle norme che riguardano la morale e la disciplina.
5) Canones Apostolici o 85 Canones apostolici probabilmente scritta verso la fine del IV secolo, in
Siria. Contiene canoni dei primi concili e norme disciplinari.
6) Testamentum Domini nostri Iesu Christi, autore sconosciuto della seconda metà del V secolo. Lo
scritto è in lingua greca e l’originale è andato perduto, ma si conserva una traduzione in siriaco
contenuta nell’Octateuchus Clementis. Contiene norme sulla liturgia e sulla gerarchia.
Abbiamo alcune collezioni che manipolate, adattate o riunite riprendono collezioni precedenti:
1) Constitutiones Apostolicae o Apostolorum, documento in lingua greca probabilmente scritto in
Cilicia verso la fine del IV secolo. Dal punto di vista contenutistico il documento riprende anche i
Canones Apostolici.
2) Collectio latina Codicis Veronensis, scoperta nel XIX secolo e contiene varie raccolte di
traduzioni delle collezioni pseudo-apostoliche.
3) Octateuchus Clementis, anche questa è una traduzione siriaca del VII- VIII secolo e contiene
varie collezioni.
4) Collezione anonima o Collezione copta, l’originale, che si ritiene fosse in greco, è andato perduto
ma esistono varie traduzioni.
Dello stesso stile ma, possiamo dire, di minore importanza, le opere di seguito elencate:

80
Cfr. P. ERDÖ, Storia delle fonti del diritto canonico, Venezia, 2008, 14-16.

35
1) Constitutiones per Hippolytum, redatta in Siria nel V secolo.
2) Canones Hippolyti, scritti tra il 341 e il 360 in Egitto, l’originale è andato perduto ma esistono
delle traduzioni.
3) Canones Paenitentiales Apostolorum risale al IV secolo, scritta in greco.
4) Didascalia Araba et Aethiopica, questa collezione contiene materiale che deriva dalle
Constitutiones Apostolicae.
5) Capitula excerpta ex Constitutionibus apostolicis, opera del XI secolo, anche questa collezione
contiene materiale che deriva dalle Constitutiones Apostolicae.
Le collezioni degli antichi concili entrano in primo piano in questo elenco perché proprio
attraverso questi la trattazione del tema acquisisce maggiore completezza. I documenti conciliari
sono di diversa tipologia: Disposizioni, Canoni, Acta o protocolli conciliari, Discorsi conciliari,
Lettere conciliari, Anathemata, Articoli di fede ed elenchi dei firmatari, tutti documenti di primaria
importanza, anche se non tutti ci sono stati tramandati integri, capaci di testimoniare, se ce ne fosse
bisogno, la necessità di norme atte a veicolare il primo comando del Signore che è l’amore.

Collezioni orientali.
1) Syntagma canonum, scritto in greco fra il 342 e il 381 contiene vari canoni dei concili.
2) Collezioni africane.
3) Breviarium Hipponense comprende soprattutto i canoni del concilio di Ippona del 393.
4) Codex Apiarii causae, composto nel 419 contiene gli atti relativi al processo contro il sacerdote
Apiario.
5) Registri Ecclesiae Carthaginensis excerpta, è composta di varie versioni contenenti sempre atti
conciliari.

Collezioni galliche.
1) Collectio Concilii Arelatensis II, composta tra il 442 e il 506 in Francia.
2) Statuta Ecclesiae antiqua, pare che anche, quest’opera, sia stata composta tra il 442 e il 506 in
Marsiglia.
3) Collectio Andegavensis prima, contiene atti conciliari risalenti alla seconda metà del V secolo.

Collezioni italiane.
1) Vetus Romana, opera della fine del IV o inizi del V secolo.
2) Versio italica o Prisca, probabilmente redatta tra il 495 e il 513.

Attività legislativa dei Papi e gli inizi di collezioni di decretali. Papa Damaso (363-384) è colui che
inaugura le decretali e dalla metà del IV secolo è attestata l’esistenza della Cancelleria papale
capace di conservare gli scritti dei papi.
1) Canones urbicani probabilmente redatti in Gallia e contengono documenti papali fra il 401 e il
432.
2) Epistolae decretales, redatta in Roma, anche questa collezione contiene decretali papali inerenti
il periodo che va dal 401 al 432.
3) Decretali di Leone Magno, del V secolo.

Dal VI all’VIII secolo l’effervescenza della produzione di collezioni ha portato la nascita di


opere legislative atte a veicolare la scienza giuridica canonica.
Di questo periodo le collezioni bizantine:
1) Collectio 60 titulorum del 535 è la prima ad essere redatta in modo sistematico nasce due anni
dopo i Digesta opera, quest’ultima, importante perché promulgata da un istituzione l’imperatore
Giustiniano I (527-565) che ha organizzato la complessa materia di norme dell’impero romano per
organizzarle in modo sistematico in 50 libri.

36
2) Collectio 50 titulorum o Synagogé del 550 si conosce anche il nome del redattore Giovanni
Scolastico, anche questa collezione risulta molto importante perché segue l’esempio del predatore
del Digesto lo stesso autore scrisse una seconda versione della stessa collectio nel 570.
3) Collectio Trullana, quest’opera fu ritenuta nei secoli molto importante perché nata da un concilio
quello Trullano del 692, infatti oltre ai 102 canoni propri di questo concilio l’opera contiene altri
canoni riconosciuti come norme dalla chiesa di Costantinopoli.
4)Collectio tripartita o Paratitla è una compilazione, per usare un termine moderno di diritto
ecclesiastico infatti contiene norme di diritto civile, contiene norme elencate in modo sistematico e
la compilazione è del VI secolo.

Le collezioni Africane:
1) Breviatio canonum Fulgentii Ferrandi, prende il nome dal suo autore il diacono Fulgenzio
Ferrando che fece questa compilazione nel 546. si chiama breviario proprio perche non contiene
tutte le norme per intero ma solo il riassunto.
2) Concordia canonum Cresconii, testo che risale al VI o VII secolo e contiene testi dei canoni
conciliari e decretali.

Collezioni Italiane:
1) Collezioni romane, contengono canoni dei concili e decretali papali, tra queste possiamo
distinguere:
Collectio Frisingensis questa collezione prende il nome dal luogo dove è stata ritrovata cioè a
Frisinga, redatta tra il 495 e l’inizio del 500.
Collectio Quesneliana, prende il nome dal primo redattore Pascasio Quesnel, anche questa
collezione si può collocare tra la fine del 400 e l’inizio del 500 scritta a Roma.
Collectio Dionysiana, è la collezione più importante di questo periodo redatta da un monaco scita
Dionisio Esiguo. L’opera si divide in due parti: Liber canonum e il Liber decretalium. Il Liber
canonum contiene i canoni dei concili orientali ed è stata redatta in tre diverse versioni la prima
risale al 500. Il Liber decretalium contiene ben trentotto decretali di vari papi.

Altre collezioni italiane:


Collectio Sanblasiana.
Collectio Vaticana.
Collectio Teatina o Collectio Ingilrami.
Collectio Thessalonicensis.
Collectio Avellana.
Collectio Codicis Parisiensis.
Collectio Theodosii diaconi.
Collectio Wirceburgensis.
Collectio Colbertina.

Collezioni Spagnole:
1) Liber Complutensis, redatto nella prima metà del VI secolo, il testo è andato perduto.
2) Collectio Novariensis composta nel 550, contiene canoni conciliari.
3) Capitula Martini Bracarensis risalente al 563 contiene il testo dei canoni non in modo esteso ma
sintetico.
4) La Collectio Hispana, è la seconda grande e più importante collezione ma non si conoscono con
esattezza ne l’autore ne tantomeno l’anno di redazione. Da questa collezione ne sarebbero derivate
altre: Recensio Iuliana, la Vulgata, gli Excerpta Hispanae, la Collectio Hispana systematica e le
Tabulae Hispanae.

Collezioni Galliche:

37
Vetus gallica è praticamente l’unica collezione sistematica composta probabilmente a Lione circa
nel 600, ma della Vetus gallica esistono altre tre versioni redatte in periodi successivi e
contestualmente aggiornate.

Collezioni Britanniche:
Collectio Hibernensis compilata nel 700, e si distingue dalle altre collectiones per il suo modo
particolare di trattare la materia sistematica.

Libri penitenziali. Di notevole importanza per l’argomento trattato sono i libri penitenziali, nati in
Irlanda e in Scozia e poi dal VII secolo diffusi anche nel continente. La particolarità di questi si
evidenzia nel fatto che nascono presso i conventi dove la disciplina e la penitenza erano proprie
della mentalità celtica e germanica. Così si diffusero essendo patrimonio che accomuna insieme il
diritto, la morale e la fede, ecco perché rientrano a pieno titolo tra le fonti del diritto canonico. Tra
le collezioni di questo periodo è da ricordare la Collectio Herovalliana della metà dell VIII secolo.
Di importanza rilevante sono i libri penitenziali nel periodo della Riforma Carolingia metà del VIII
fine del IX secolo.
1) Paenitentiale Haltigari, redatto nel 829, contiene testi patristici, canoni, frammenti di decretali e
un tariffario che indica proprio le tariffe penitenziali.
2) Paenitentiale quadripartitum composto nel IX secolo contiene testi di morale, norme
penitenziali, decretali e scritti dei Padri della chiesa.
3) Paenitentiale Pseudo-Theodori, è stato scritto verso la metà dell’800 contiene materiale dei
concili.
4) Libri penitenziali di Hrabanus Maurus, sono due libri che prendono il nome del vescovo di
Mainz. Il primo libro è dell’842 e il secondo dell’853 e contengono materiale derivante dai concili e
decretali.
5) Capitula Theodulfi, anche quest’opera prende il nome dal vescovo che l’ha scritta. Composta tra
il 798 e l’818.

Sempre del periodo della riforma Carolingia, altre collezioni si distinguono per il consolidamento
della disciplina ecclesiastica:
1) Collectio Dionysio – Hadriana, fu riscritta nel 774 la Collectio Dionysiana e ampliata. Fu il papa
Adriano I (772-795) a commissionarla e da cui prende il nome. Nonostante questo però non venne
mai promulgata, rimando per questo opera di privati. Non contenendo però materiale dei concili
provinciali, regionali non era esauriente così si cominciò a studiare accanto a questa testo anche la
Collectio Hispana che conteneva un gran numero di materiale proveniente dai concili provinciali,
nacque così la Collectio Hadriano-Hispana.
2) Collectio Dacheriana, da non confondere con i Canones Dacheriani. La Collectio venne scritta a
Lione circa nell’800. Contiene circa 400 canoni dei concili.
3) Capitularia Ansegiisi, scritto dell’829 che contiene oltre a leggi ecclesiastiche anche leggi civili
queste sono dette Capitularia carolingi.
E’ importante da tenere presente in questo periodo anche le false collezioni che nel IX secolo,
quando ormai la riforma carolingia andava perdendo il suo vigore, hanno avuto una certa
evoluzione per risolvere problemi interni alla chiesa ma anche problemi che riguardavano la chiesa
e lo stato. Tra queste possiamo citare: Collectio Augustodunensis, Capitula Angilramni e
Capitularia Benedicti Levitae.

Ma nel IX secolo abbiamo anche collezioni autentiche tra queste è di rilevante importana la
Collectio Pseudo-Isidoriana, scritta tra l’847 e l’852. Al suo interno contiene, oltre ad altre
falsificazioni, anche la Donatio Constantini.

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È il periodo questo anche dei Capitula espiscoporum, o Statuta diocesana sono delle brevi
disposizioni destinate alle diocesi di appartenenza, generalmente sono composizioni redatte dai
vescovi oppure sono frutto dei sinodi diocesani. Tra questi: Capitula Theodulfi episcopi, opera che
risale al VIII secolo; Capitula Hincmari Remensis, documento dell’852 ma con aggiunte anche
postume.
Il periodo che va dal X al XI secolo è caratterizzato da collezioni che per la loro composizione
sono destinate a contenere il diritto universale della chiesa e altre che contengono solo norme per un
determinato territorio.

Le italiane: Collectio Anselmo dedicata, dedicata al vescovo di Milano Anselmo II l’opera è del 882
ed è divisa in modo sistematico in dodici libri. Collectio in quinque libris, composta tra il 1015 e il
1020 è divisa in cinque libri.

Le collezioni francesi: Collectio canonum Abbonis abbatis Floriacensis, composta tra il 988 e il
996 sono contenute più che altro norme monastiche.

Le opere nate in Germania: Collectio Remedio Curiensi adscripta, è un opera scritta dopo l’883 e
visto che contiene materiale del luogo dove è stata scritta la sua diffusione fu limitata. Libri duo De
synodalibus causis, opera del 906.

Risultano anche di importanza particolare i libri penitenziali di questo periodo: Series Pseudo-
Romana, che risulta essere un contenitore dove sono raggruppati altri libri, ma nome a parte non
contiene libri di origine romana o pontificia. Consideriamo in questo gruppo anche i libri
penitenziali anglosassoni.

Decretum di Burcardo di Worms, scritto tra il 1008 e il 1023, divisa in 20 libri e possiamo dire che
contiene la normativa canonica per intero.

Collectio duodecim partium, composta tra il 1020 e il 1050 divisa in 12 parti è stata scritta in
Germania.
Le collezioni della Riforma Gregoriana, che partono dall’XI secolo, hanno lo scopo precipuo
di porre la Chiesa al di sopra di tutti i poteri temporali.

Breviarium cardinali Attonis, composta circa nel 1075 e che consta di 300 capitoli, il luogo dove è
stata redatta è Roma.
Dictatus papae, del 1075 pare che l’autore sia stato proprio l’energico papa San Gregorio VII. È
composta di 27 brevi tesi sulla supremazia della chiesa.
Collectio 74 titulorum, opera redatta tra il 1050 e il 1076, composta da 315 capitoli a Roma.
Collectio Anselmi Lucensis, è del 1083 a Roma, è composta da 12-13 libri.
Collectio canonum cardinalis Deusdedit, scritta tra il 1083 e il 1086 a Roma.
Liber de vita christiana, composta tra il 1089 e il 1095 a Roma.
Liber Tarraconensis, scritta tra il 1085 il 1090 in Francia o in Spagna ed è composta da sette libri.
Polycarpus, composto tra il 1104 e il 1106 a Roma.
Collectio Veronensis, della fine dell’IX secolo divisa in 247 capitoli.
Collectio in 183 titulos digesta, opera scritta tra il 1063 e il 1080.
Collectio regesto Farfensi inserta, composta tra il 1099 e il 1100 e si compone di cinque libri.
Le collezioni di Sant’Ivo di Chartres. Sant’Ivo è uno dei grandi canonisti di questo periodo ed ha al
suo attivo tre importanti opere scritte tra il 1093 e il 1095: Collectio Tripartita, si chiama così
proprio perché è divisa in tre parti, la prima parte contiene 655 decretali, la seconda parte 789
frammenti di testi di concili e la terza parte è composta da 861 testi; Decretum di Ivo composto da

39
17 parti di cui molto materiale dipende dal Decreto di Burcardo; La terza opera è la Panormia, una
sintesi di fonti divisi in otto libri.

IL PERIODO DELLO IUS NOVUM O DIRITTO CANONICO CLASSICO, DALL’ANNO 1140 AL 1563

In primissimo piano tra le collezioni del periodo che va dal 1140 e il 1563 è da evidenziare
sicuramente il Decretum Gratiani che probabilmente è stato scritto tra 1140 e il 1152 dal monco
Graziano. Se il maestro Irnerio inaugurò un metodo per l’insegnamento del diritto civile in modo
sistematico, il maestro Graziano sviluppò il metodo della dialettica applicata al diritto della chiesa.
L’opera di Graziano si chiama proprio Concordia discordantium canonum. È importante il Decreto
di Graziano perché le collezioni finora esaminate sono tutte testi di contenuto: si raccolgono le
autorità, i canoni, i documenti dei concili, ecc., mentre quello del maestro Graziano è un testo di
metodo. Dunque con il magister Graziano nasce una vera e propria nuova disciplina che è la scienza
del diritto canonico. Il Decreto nonostante la sua importanza non è mai stato promulgato da nessun
pontefice rimane per questo un’opera di privati. Graziano non scrive però un codice di diritto
canonico ed è errato pensare che la scienza canonistica nasca con un codice. Infatti, l’autore è un
maestro, mentre un codice richiede un legislatore. In secondo luogo proprio dallo stesso titolo
“Concordia discordantium canonum” emergono quali sono gli intenti ed i limiti di Graziano: egli
non tratta di tutto il diritto della chiesa ma solo di quei canoni discordanti cioè di quei canoni e di
quelle questioni che non hanno una soluzione e propone un metodo di solutio oppositorum che si
chiama concordia. Il Decreto contiene in 3800 capitoli ed è diviso in tre parti: la prima parte
contiene 101 Distinctiones ed è la parte più scientifica, egli, oltre ad elencare le fonti canoniche e
creare per esse una gerarchia, pone dei ragionamenti sulle stesse autorità che permettono al giurista
di comprendere il metodo adottato per stabilire la concordia. La seconda parte è divisa in 36
Causae suddivise in Quaestiones. La terza ed ultima parte si articola in cinque Distinctiones ed è
anche la parte più incompleta. Nonostante il testo del Decreto non fosse mai stato promulgato fu
adottato come testo fondamentale delle lezioni di Diritto canonico alla scuola di Bologna e in altre
scuole.
La produzione di decretali da parte dei papi dopo il decreto di Graziano è di molto aumentata
e così le collezioni che le contengono, di questo periodo distinguiamo alcune collezioni che
pongono le decretali così come nascono in modo cronologico e poi le collezioni sistematiche: il loro
contenuto è stato riassunto, ordinato e ripartito in temi con l’aggiunta di titoli per indicare
l’argomento.

Intanto si vengono a creare le “Quinque conmpilationes antique” con l’esigenza di mettere insieme
il materiale composto dopo il decreto di Graziano. Abbiamo così cinque “compilatio” debitamente
numerate e classificate:
1) Compilatio prima, composta tra il 1187 e il 1191 è anche conosciuta come Breviarium
extravagantium. Diviso in cinque libri con titolo che ne esprime anche il contenuto: Iudex,
iudicium, clerus, connubia e crimen.
2) Compilatio secunda, è stata composta dopo la Compilatio tertia si è chiamata seconda perché
contiene decretali che la Compilatio tertia non aveva incluso. Contiene infatti le decretali dei papi
Clemente III (1187-1191), di Celestino III (1191-1198).
3) Compilatio tertia, questa collezione è stata promulgata da papa Innocenzo III (1198-1216) con la
Bolla Devotioni81, e contiene le decretali che questo papa ha prodotto negli anni del suo pontificato
81
Cfr.: F. DOTTI, Diritti della difesa e contradditorio: garanzia di un giusto processo? Spunti per una riflessione
comparata del processo canonico e statale, Tesi Gregoriana serie diritto canonico 69, Editrice Pontificia Università

40
fino al 1209. Potremmo dire che questa è la prima Collectio autentica della storia. È importante per
ragioni di completezza citare anche la Constitutiones Concilii Lateranensis IV dove vennero riuniti i
71 canoni che il Concilio Lateranense IV aveva prodotto nel 1215.
4) Compilatio quarta, contiene le conclusioni del Concilio Lateranense IV e le decretali di
Innocenzo III dal 1209 al 1215.
5) Compilatio quinta, anche la presente compilazione fu promulgata da un papa: Onorio III (1216-
1227) il 2 maggio 1226 con la Bolla Novae causarum82. Contiene la decretali di papa Onorio III e la
Costitutio dell’imperatore Federico II.

Con il Decrtetum Gratiani la scuola di Bologna ha il testo di metodo, invece come testo di
contenuto la scuola recepisce il Liber Extra di papa Gregorio IX (1227-1241) promulgato il 5
settembre 1234 con la bolla Rex Pacificus83. Quest’opera è divisa in cinque libri minuziosamente
composta da San Raimondo da Peñafort. Il testo precisa l’esclusività, cioè bisognava utilizzare solo
il Liber extra, è chiaro che stiamo parlando del testo di contenuto. Infatti il Decreto di Graziano è
immune dalla esclusività continua per questo ad essere utilizzato.

Dopo il Liber extra la produzione di decretali e documenti conciliari certo non si arrestò, anzi. Così
al Liber extra si aggiunse un’appendice con le produzioni normative formatesi dopo. Altri papi
scelsero di compilare delle collezioni per inviarle alle università, generalmente di Bologna e Parigi,
questo era un modo per espandere la conoscenza sulle “leggi” emanate. Contiamo, in appendice al
Liber extra, le decretali di Innocenzo IV (1243-1254), a lui dobbiamo la produzione di tre collezioni
autentiche promulgate rispettivamente: 25 agosto 1245, 21 aprile 1246 e 9 settembre 1253. La
collezione di Gregorio X (1271-1276) promulgata il 1° novembre 1274. In fine la collezione di
Niccolò III (1277-1280) promulgata il 23 marzo 1280.

Liber sextus, opera promulgata da papa Bonifacio VIII (1294-1303) il nome deriva dal fatto di voler
continuare il Liber extra con l’aggiunta di un altro libro: il sesto. Anche il Liber sextus è diviso in
cinque libri e contiene le decretali da papa Gregorio IX a papa Bonifacio VIII e i documenti
prodotti al concilio di Lione.

Le Clementinae, documento che prende il nome da papa Clemente V (1305-1314) anche è stato
promulgato da papa Giovanni XXII (1316-1334) nel 1317. Si compone di cinque libri e contiene le
decretali di papa Clemente V e documenti del concilio di Vienne (1311-1312).

Le Extravagantes Iohannis XXII, è una collezione che non è stata mai promulgata per questo è
privata e contiene decretali di papa Giovanni XXII (1316-1334). Si deve al tipografico Jean
Chappuis il ritrovamento di questo documento che egli stesso includerà in quello che chiamerà
Corpus Iuris Canonici.

Le Extravagantes communes, anche questa collezione è stata ripresa da Chappuis e aggiunta nella
più grande collezione che egli ha chiamato Corpus Iuris Canonici. Anche quest’ultima collezione,
del 1500 – 1503, contiene decretali dei romani pontefici.
In tal modo si chiude il momento principale di nascita e di evoluzione della scienza del diritto
canonico: il maestro Graziano, il metodo di San Raimondo da Peñafort, concezione del Romano

Gregoriana, Roma 2005, 55.


82
Cfr.: F. DOTTI, Diritti della difesa e contradditorio: garanzia di un giusto processo? Spunti per una riflessione
comparata del processo canonico e statale, Tesi Gregoriana serie diritto canonico 69, Editrice Pontificia Università
Gregoriana, Roma 2005, 55.
83
GREGORIO PP. IX, Bolla: Rex Pacificus 5 settembre 1234, Bullarium Diplomatum et Privilegiorum Sanctorum
Romanorum Pontificum, Taurinensis Editio, tomo III, n. bolla XLI, 1858, 485.

41
Pontefice come legislatore universale e la volontà del Romano Pontefice di dare, attraverso
collezioni pontificie autentiche, testi di portata universale.
Tutto il materiale prodotto però doveva essere utilizzabile così il tipografico Jean Chappuis,
imitando la compilazione Giustinianea del Corpus Iuris Civilis, presentò il Corpus Iuris Canonici
tra il 1500 e il 1503. Erano contenuti nel Corpus:
1) il Decretum Gratiani del 1140;
2) il Liber extra collezione ufficiale promulgata da papa Gregorio IX nel 1234;
3) il Liber sextus collezione ufficiale promulgata da papa Bonifacio VIII nel 1298;
4) le Clementinae collezione ufficiale promulgata da papa Giovanni XXII nel 1317;
5) le Extravagantes Iohannis XXII del 1325 – 1500;
6) le Extravagantes communes, del 1500-1503.
Chiaramente l’opera del Corpus Iuris Canonici non era ufficiale. Però era un opera meritoria
così papa San Pio V (1566-1572) nel 1566 istituiva una commissione formata da periti nella materia
canonica chiamati “correctores” proprio con il compito di preparare un corpo di leggi per la Chiesa.
San Pio V non vide conclusa l’opera dei correctores e fu il suo successore Gregorio XIII (1572-
1585) il primo luglio 1580 con la bolla Cum pro munere84 ad approvarne l’opera e nel 1582
ordinava la stampa dell’editio romana del Corpus Iuris Canonici e l’applicazione del testo
legislativo all’intera Chiesa.
Dal 1500 in poi troviamo una fase di decadenza della produzione e diffusione del diritto
dovute anche a questioni urgenti che attirarono l’attenzione come ad esempio: la Riforma
protestante, la nascita di stati nazionali e confessionali, relazioni stato – chiesa, ecc. Questo Corpus
Iuris Canonici è rimasto in vigore nella Chiesa fino al 1917 quando fu promulgato il Codex Iuris
Canonici.

PERIODO DELLO IUS NOVISSIMUM O DIRITTO CANONICO TRIDENTINO DAL 1563 AL 1917

Di grande importanza è il concilio di Trento (1545-1563) la sua conclusione aprì per la Chiesa
un lungo periodo di applicazione di ciò che il concilio stesso aveva prodotto e per assicurare che i
documenti conciliari fossero applicati papa Pio IV( 1560-1565) nel 1564 85 istituì la Sacra
Congregatio Cardinalium Concilii Tridentini interpretum con lo specifico compito di interpretare e
portare in piena attuazione le delibere del concilio 86. Anche le altre congregazioni svolgevano
attività e creavano documenti: decreti, istruzioni, risoluzioni e dichiarazioni 87. Questi, sono stati
raccolti e pubblicati in modo distinto dalle Congregazioni romane: la Sacra Congregatio de
Propaganda Fide88, Sacra Congregatio Sanctae Inquisitionis Haereticae pravitatis 89, Sacra
Congregatio Rituum90, Sacra Congregatio Indulgentiarum et Reliquiarum91, Sacra Congregatio
Negotiis Religiosorum Sodalium Praeposita92.
84
L. GEROSA, Diritto Canonico fonti e metodo, Milano 1996, 27.
85
PIO PP. IV, Motu Proprio: Alias nos 2 agosto 1564, Bullarium Diplomatum et Privilegiorum Sanctorum Romanorum
Pontificum, Taurinensis Editio, tomo VII, n. bolla XCIX, 1862, 300-301.
86
Vennero pubblicati i documenti della congregazione: The thesaurus resolutionum Sacrae Congregationis Concilii,
quae consentaneae ad Tridentinorum Patrum decreta aliasque canonici iuris sanctiones prodierunt, I-V Urbini, 1739-
1740, VI-CLXVII Romae,1741-1908.
87
Cfr. C. LEFEBVRE-M. PACAUT-L. CHEVAILLER, L’époque moderne (1563-1789). Les sources du droit et la seconde
centralisation romain, Paris, Cujas, 1976. Per avere una panoramica sulla Curia romana, cfr.: N. del Re, La Curia
romana. Lineamenti storico – giuridici, Roma, 1970; P. A. BONNET-C. GULLO (a cura di), La Curia romana nella Cost.
Ap. “Pastor bonus”, studi giuridici, Città del Vaticano, 1990.
88
Bullarium pontificium sacrae congregationis de propaganda fide, I-VIII, Romae, Typis Collegii Urbani, 1839-1858.
89
L. VON PASTOR, Decreta generalia S. Officii, historisches Jahrbuch, XXXII, 1912, 492-549.
90
Decreta authetica Congregationis Sacrorum Rituum, I-V, Romae, 1898; VI Romae 1912; VII, Romae 1927.
91
A. PRINZIVALLI, Resolutiones seu Decreta authentica Sacrae Congregationis Indulgentiis Sacrisque Reliquiis
praepositae ab anno 1668 ad annum 1861, Romae –Bruxellis, 1862.
92
A. BIZZARRI, Collectanea in usum secretariae S. congregationis Episcoporum et Regularium, romae, 1885.

42
Gli interventi pontifici in questo periodo sono determinati da testi legislativi come: lettera
enciclica, motu proprio, bolla, breve, costituzione, chirografo, allocuzione e dichiarazione.
Le collezioni così lasciano il posto ai Bollari, anche questi sono un modo per divulgare le
norme giuridiche del Romano Pontefice. I Bollari sono raccolte di Bolle papali messe in ordine
cronologico. Il nome Bullarium pare sia stato inventato da Learzio Cherubini (morto nel 1626)
quando per primo pubblicò una serie di libri contenenti le bolle papali del periodo che va da papa
San Gregorio VII (1073-1085) a papa Sisto V (1585-1590) con il nome di Bullarium, sive Collectio
diversa rum Constitutionum multorum Pontificum. Autori successivi aggiunsero altre bolle papali a
questa serie. Il nome di Bullarium Romano lo dobbiamo a Geronimo Mainardi che nel 1733 estese
l’opera del Bullarium di Cherubini recanti tutti gli atti dei papi fino al 1758, i libri furono pubblicati
tra il 1733 e il 1743. A Charles Cocquelines dobbiamo l’aggiunta al Bullarium di Cherubini di bolle
papali del periodo che va dal 440 al 1669. Scaturì un opera di ben trentadue volumi con documenti
pontifici dal 440 al 1758 e fu chiamato Magnum Bullarium Romanum. In seguito venne continuato
fino al 1830. Questi però nonostante contengano documenti pontifici, sono opere di privati invece
papa Benedetto XVI (1740-1748) ha pubblicato un suo Bullarium in quattro volumi ma solo il
primo di questi ha promulgato. Arriviamo così alla metà del XIX con la pubblicazione dei cinque
volumi degli Acta ex iis decerpta, quae apud Sanctam Sedem geruntur, per avere poi la
pubblicazione della serie semi ufficiale degli Acta Sanctae Sedis una raccolta di materiale prodotto
della Sede del Romano Pontefice, che va dal 1865 al 1908. Fu san Pio X (1903-1914) a volere
cominciare un vero e proprio bollettino ufficiale della Santa Sede: gli Acta Apostolicae Sedis,
questa raccolta pubblicata con ufficialità nel 1909 è ancora in atto e le disposizioni del diritto
universale sono promulgate proprio negli Acta Apostolicae Sedis93. Sono da considerare di pari
passo anche le collezioni dei Concili che raccolgono il materiale in modo cronologico ma intero94.

Il PERIODO DELLA “CODIFICAZIONE” DEL 1917


La codificazione del 1917 è stata voluta da papa san Pio X (1903-1914), è merito suo se dal
1904, cioè da quando istituì una commissione 95 con il preciso compito di stilare un codice per la
chiesa, si è cominciato a vedere il diritto nella chiesa con un ottica diversa, non più solo una
composizione di testi di leggi lunghe e articolate, poste in modo cronologico ma riprendendo quello
che già a livello civile si era istaurato, un corpo di leggi con delle caratteristiche tecniche che sono
rimaste stabili da allora: unità sistematica, semplicità, brevità e chiarezza. Le biografie di papa Pio
X rilevano non solo il suo zelo pastorale e la passione per il diritto canonico ma anche il suo essere
pratico nelle scelte, come chi dal diritto vuole trarre una risposta immediata ed efficace, ecco il
legame tra il Pontefice e il codice96. Pio X sintetizza con precisione e illustra ai suoi collaboratori
quello che il nuovo Codice doveva essere: “estendere in brevi articoli le prescrizioni del Diritto

93
Codex Iuris Canonici, 1983, can. 8 §1: «Leges ecclesiasticae universales promulgantur per editionem in Actorum
Apostolicae Sedis commentario officiali, nisi in casibus particularibus alius promulgandi modus fuerit praescriptus, et
vim suam exserunt tantum expletis tribus mensibus a die qui Actorum numero appositus est, nisi ex natura rei illico
ligent aut in ipsa lege brevior aut longior vacatio specialiter et expresse fuerit statuta».
94
Tra questi i più importanti sono: I. HARDOUIN, Acta conciliorum et epistolae decretales ac Constitutiones Summorum
Pontificum usque ad annum 1714, I-XII Parisiis, 1714-1715; J. D. MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima
collectio, Expensis Antonii Zatta, Firenze, 1762. E. SCHWARTZ I STRAUB, Acta concilio rum oecumenicorum, Beroli,
1922; I. ALBERIGO - I. A. DOSSETTI - P. P. JOANNUO - C. LEONARDI - P. PRODI , Conciliorum Oecumenicorum Decreta,
a cura dell’Istituto per le scienze religiose edizione bilingue, 2 ed., Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.
95
PIO PP. X, Motu Proprio: Arduum sane munus 19 marzo 1904, in ASS XXXVI, 1903-1904, 549-551.
96
Cfr.: C. FANTAPPIÈ, Pio X e il “Codex Iuris Canonici”, in L’eredità giuridica di San Pio X, a cura di A. Cattaneo,
Marcianum Press, Venezia, 2006, 157; G. DALLA TORRE, Pio X e il Codice di diritto canonico, in Archivio Giuridico,
CCXXI/1, 2001, 60.

43
secondo i vari argomenti e abbandonare tutto quello che fu abrogato, nel riformare e
nell’aggiungere ciò che manca nella legislazione ecclesiastica”97.
Ma si produrrebbe un’omissione se alla descrizione della volontà pratica di Pio X, di redigere
un Codice per la Chiesa, non si ricordasse che questa volontà già era presente qualche anno prima in
un contest ecclesiale. Il beato papa Pio IX (1846-1878) quando indì il Concilio Vaticano I (1869-
1870) accolse le richieste di molti Vescovi che avevano fatto presente la necessità di una nuova
collezione canonica esclusiva capace di mettere ordine all’interno di un sistema di leggi e norme
giuridiche accumulate nel corso dei secoli98. Ma purtroppo il Concilio Vaticano I dovette
sospendere le attività per lo scoppio della guerra franco-prussiana, e la presa di Roma e l’idea del
codice svanì con esso.
Il lavoro della Commissione fu frenetico ma nonostante questo occorreva tempo per costruire
il codice e farsi spazio tra l’enorme mole di leggi che la commissione era chiamata a studiare.
Intanto Pio X nel 1914 morì e l’opera da lui iniziata fu continuata dal suo successore Benedetto XV
(1914-1922) a lui si deve la promulgazione del Codice di Diritto Canonico con la Costituzione
Apostolica Providentissima Mater Ecclesia99, composto da ben 2414 canoni.
Per arrivare alla pubblicazione, dunque, ci sono voluti ben tredici anni di continue ricerche e
sintesi, possiamo dire che l’autore materiale, il “tecnico” del Codice fu il cardinal Pietro Gasparri
(1852-1934) che con perizia riuscì a reperire, studiare, analizzare, scegliere e in fine portare a
codificazione la Legge della Chiesa100. Ma tutto l’episcopato fu chiamato a collaborare in
quest’opera di codificazione convogliando così le attese, le richieste, le proposte per scrivere il
Codice di Diritto Canonico101: collezione legislativa ufficiale, universale unica ed esclusiva della
Chiesa latina.

LE QUESTIONI PREVIE ALLA CODIFICAZIONE DEL 1983

Benedetto XV (1914-1922), pubblicando il codice che sarebbe stato ricordato come Pio-
Benedettino in ricordo dei due papi coinvolti nell’opera, si preoccupò anche del fatto che il neonato
codice potesse andare incontro all’essere obsoleto. Così il 15 settembre del 1917 con il Motu
Proprio Cum iuris canonici102 costituisce e da il potere alla Pontificia Commissione per
l’Interpretazione Autentica del Codice di Diritto Canonico di provvedere, sostituendo o
aggiungendo, i canoni superati103. Ciò però risultò presto un mezzo inadeguato e il passare degli
97
Il Pro-memoria di Pio X al Segretario della Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari, mons. Pietro
Gasparri, sulla codificazione del diritto canonico 11 marzo 1904, è tratto dall’Archivio Storico del Consiglio per gli
Affari Pubblici della Chiesa (Città del Vaticano), Stati ecclesiastici, fasc. 429, ff. 30-33; anche C. FANTAPPIÈ, Gli inizi
della codificazione pio-benedettina alla luce di nuovi documenti, in Il diritto ecclesiastico, CXIII, 2002, 81.
98
A. MONTAN, Introduzione al diritto canonico, Scuola tipografica S. Pio X, Roma, 2° ed. 2010, 151.
99
BENEDETTO PP. XV, Costituzione Apostolica: Providentissima Mater Ecclesia 27 maggio 1917, in AAS IX pars II,
1917, 5-456.
100
Cfr.: Codex iuris canonici Pii X pontificis maximi iussa digestus, Benedicti papae XV auctoritate promulgatus,
praefatione, fontium adnotatione et indice analytico-alphabetico ab E.mo Petro Card. Gasparri auctus, Typ. Pol. Vat.,
1974; P. GASPARRI – I. SERÉDI, Codicis iuris canonici fontes, I-IX, Romae, 1923-1939.
101
R. CARD. MERRY DEL VAL, Lettera circolare: Pergratum mihi 25 marzo 1904, in ASS XXXVI, 1903-1904, 603-604.
102
BENEDETTO PP. XV, Motu Proprio: Cum iuris canonici 15 settembre 1917, in AAS IX, 1917 parte I, 483-484.
103
Dal 1917 ad oggi il nome della Pontificia Commissione ha avuto vari cambiamenti per ciò che riguarda il nome,
infatti:
a) il 15 settembre 1917 papa Benedetto XV costituisce con il Motu Proprio Cum iuris canonici la Pontificia
Commissione per l’Interpretazione Autentica del Codice di Diritto Canonico. (BENEDETTO PP. XV, Motu Proprio: Cum
iuris canonici 15 settembre 1917, in AAS IX, 1917 parte I, 483-484).

44
anni dimostrava l’inadeguatezza del codice Pio-Benedettino. Papa san Giovanni XXIII (1958-
1963), dopo solo qualche mese dalla sua elezione, sbalordì tutti con questo suo discorso:
«Venerabili Fratelli e Diletti Figli Nostri! Pronunciamo innanzi a voi, certo tremando un poco di
commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della duplice
celebrazione: di un Sinodo Diocesano per l'Urbe, e di un Concilio Ecumenico per la Chiesa universale.
Per voi, Venerabili Fratelli e Diletti Figli Nostri, non occorrono illustrazioni copiose circa la significazione
storica e giuridica di queste due proposte. Esse condurranno felicemente all'auspicato e atteso
aggiornamento del Codice di Diritto Canonico, che dovrebbe accompagnare e coronare questi due saggi di
pratica applicazione dei provvedimenti di ecclesiastica disciplina, che lo Spirito del Signore Ci verrà
suggerendo lungo la via. La prossima promulgazione del Codice di Diritto Orientale ci dà il preannunzio di
questi avvenimenti»104.

Chiaramente la sorpresa, nei cardinali, non tanto era data, dalla notizia dell’aggiornamento del
Codice o delle celebrazione del Sinodo Diocesano o dalla promulgazione del Codice di diritto
orientale, piuttosto dalla notizia di voler celebrare un Concilio Ecumenico per la Chiesa Universale.
Ma questa allocuzione, per la nostra trattazione, risulta importante perché sottolinea il fatto che a
soli quarantadue anni il corpo normativo del 1917, a detta del papa, andava aggiornato. Il concilio si
aprì l’11 ottobre 1962 e già il 28 marzo 1963 papa san Giovanni XXIII istituì ufficialmente la
Pontificia Commissione per la Revisione del Codice di Diritto Canonico 105 composta da cardinali e
presieduta dal Cardinal Pietro Ciriaci106. Questa Pontificia Commissione, che prende il posto della
Pontificia Commissione per l’Interpretazione Autentica del Codice di Diritto Canonico voluto da
papa Benedetto XV, si riunì una sola volta, il 12 novembre 1963, per decidere sulla trattazione
dell’argomento, ma invece di iniziare i lavori, i componenti decisero di rinviarli a dopo la
conclusione dell’assise Ecumenica. Il Concilio fu chiuso ufficialmente il 7 dicembre 1965, ma già il
17 aprile 1964107, papa Paolo VI (1963-1978) aggiunse alla composta commissione altri settanta
consultori, periti in diritto canonico, teologia, e altre materie ausiliarie. Ma in sostanza i lavori non

b) Il 28 marzo 1963 papa Giovanni XXIII cambia il nome alla precedente Commissione chiamandola Pontificia
Commissione per la Revisione del Codice di Diritto Canonico. (GIOVANNI PP. XXIII, Diarium Romanae Curiae,
Costituzione della Pontificia Commissione per la revisione del Codice di Diritto Canonico, 28 marzo 1963 in AAS LV,
1963, 363-364).
c) L’11 luglio 1967 papa Paolo VI costituisce una nuova Commissione: la Pontificia Commissione per l’Interpretazione
Autentica dei Decreti del Concilio Vaticano II. (PAOLO PP. VI, Diarium Romanae Curiae, nomine 11 luglio 1967, in
AAS LIX 1967, 1003).
d) Il 2 gennaio 1984 papa Giovanni Paolo II con il Motu Proprio Recognito Iuris Canonici Codice costituisce la
Pontificia Commissione per l’Interpretazione Autentica del Codice di Diritto Canonico. (GIOVANNI PAOLO PP. II, Motu
Proprio Recognito Iuris Canonici Codice, 2 gennaio 1984, in AAS LXXVI 1984, 433-434). Con la costituzione di questa
Pontificia Commissione hanno cessato di esistere la Pontificia Commissione per la Revisione del Codice di Diritto
Canonico e la Pontificia Commissione per l’Interpretazione Autentica dei Decreti del Concilio Vaticano II.
e) Il 28 giugno 1988 papa Giovanni Paolo II con la Costituzione Apostolica Pastor Bonus riordina la Curia Romana e in
questo processo anche la Pontificia Commissione per l’interpretazione Autentica del Codice di Diritto Canonico cambia
nome e viene elevata a Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi (GIOVANNI PAOLO PP II,
Costituzione Apostolica Pastor Bonus, 28 giugno 1988, in AAS LXXX, 1988, 901-902).

104
GIOVANNI PP. XXIII, Sollemnis allocutio ad em.os patres cardinales in urbe præsentes habita, die XXV ianuarii
anno MXMLIX, in cœnobio monachorum benedictinorum ad S. Pauli extra mœnia, post missarum sollemnia, quibus
beatissimus Pater in patriarchali basilica ostiensi interfuerat, in AAS LI, 1959, 68-69.
105
GIOVANNI PP. XXIII, Diarium Romanae Curiae, Costituzione della Pontificia Commissione per la revisione del
Codice di Diritto Canonico, 28 marzo 1963 in AAS LV, 1963, 363-364
106
GIOVANNI PP. XXIII, Diarium Romanae Curiae, Costituzione della Pontificia Commissione per la revisione del
Codice di Diritto Canonico, 28 marzo 1963 in AAS LV, 1963, 363-364. Come presidente della Pontificia Commissione
alla morte del Cardinal Ciriaci avvenuta il 30 dicembre 1966, il papa nominò il 21 febbraio 1967 l’Arcivescovo (creato
cardinale il 26 giugno 1967) Pericle Felici che mantenne questa carica fino alla sua morte avvenuta il 22 marzo 1982,
sia lui che il cardinal Ciriaci non videro la pubblicazione del Codice. Solo a Codice pubblicato e cioè il 18 gennaio 1984
Giovanni Paolo II nominò presidente, l’Arcivescovo Rosalio Josè Castillo Lara (creato cardinale il 25 maggio 1985).
107
PAOLO PP. VI, Diarium Romanae Curiae, nomine 17 aprile 1964, in AAS LVI , 1964, 473-474. Commissione che il
28 marzo 1963 aveva cambiato nome in: Pontificia Commissione per la Revisone del Codice di Diritto Canonico.

45
iniziarono prima della chiusura del concilio per far sì che la nuova codificazione potesse recepire
tutte le decisioni del concilio stesso. Tutto il pontificato di papa Paolo VI vide la continuazione dei
lavori del codice ma nemmeno lui, in vita, vide la realizzazione di questo progetto, infatti, i lavori
terminarono solo durante il pontificato di papa san Giovanni Paolo II (1978-2005). Da come si può
ben comprendere il processo fu lungo e articolato, coinvolgendo un numero sempre crescente di
persone e organismi capaci di garantire la buona riuscita dell’opera108.

Il Concilio Vaticano II: fonte di rinnovamento del diritto della Chiesa Cattolica

Il Concilio Vaticano II (1962-65) è uno degli avvenimenti più rilevanti della seconda metà del
secolo XX. I suoi atti sono divenuti una fonte assai preziosa per il rinnovamento del diritto e delle
istituzioni della Chiesa cattolica. Necessario punto di riferimento sono i sedici documenti
consegnati dal Concilio alle epoche successive. I documenti sono così distinti:
1) Le quattro costituzioni (le costituzioni sono le norme di cui dipendono tutte le altre norme, come
accade in tutte le legislazioni del mondo) che sono alla base dell’ecclesiologia conciliare:
a) Sacrosanctum Concilium, sulla liturgia;
b) Lumen Gentium, sulla Chiesa
c) Dei Verbum, sulla divina Rivelazione;
d) Gaudium et Spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.

2) I nove Decreti (i decreti in generale sono delle disposizioni dottrinali che riformano e rinnovano
la legislazione con applicazioni pratiche, che spesso hanno addirittura un valore determinatorio):
a) Christus Dominus, sull’ufficio pastorale dei vescovi;
b) Presbyterorum ordinis, sulla vita e sul ministero dei presbiteri;
c) Perfectae Caritatis, sul rinnovamento della vita religiosa;
d) Optatam Totius, sulla formazione dei candidati al sacerdozio;
e) Apostolicam Actuositatem, sull’apostolato dei laici;
f) Ad Gentes, sull’attività missionaria della Chiesa;
g) Orientalium Ecclesiarum, è un decreto determinatorio sulle chiese orientali cattoliche;
h) Unitatis Redintegratio, è un decreto chiarificatore sull’ecumenismo;
i) Inter mirifica, rivolto ai mezzi di comunicazione.

3) Le tre dichiarazioni:
a) Dignitatis Humanae, sulla libertà religiosa;
b) Gravissimum Educationis, sull’educazione cristiana;
c) Nostra Aetate, sulle relazioni con le religioni non cristiane.

Il Concilio Vaticano II non ha lanciato anatemi, non ha proclamato nuovi dogmi. Non ha voluto
innovare sul terreno della fede e dell’espressione dottrinale. Si è qualificato come Concilio
pastorale. Sul piano del diritto e delle istituzioni i risultati non sono stati di grande rilievo, tuttavia il
concilio ha previsto nuove istituzioni come: il collegio dei vescovi, il sinodo dei vescovi, i consigli
presbiterali e i consigli pastorali. Ha inoltre enunciato molti diritti fondamentali dei christifideles,
ha riconosciuto il diritto associativo, ha istituito il diaconato permanente e molto altro.
108
È utile l’approfondimento consultando i testi di: R CASTILLO LARA, Criteri di letture e comprensione del nuovo
Codice, in Apollinaris, LVI, 1983, 345-369; R. METZ, La nouvelle codification du droit de l’Èglise, in RDC XXXIII
1983, 110-168; H. SCHMITZ, Reform des kirchlichen Gesetzbuches ʽCodex iuris canoniciʼ 1963-1978, Canonistica.
Beiträge zum Kirchenrecht, 1, Trier, 1979; F. D’OSTILLO, La storia del nuovo codice di diritto canonico, Revisione,
promulgazione, presentazione, Studi giuridici 6, Città del Vaticano, 1983; W. ONCLIN, Le noveau Code de droit
canonique, in Ephemerides theologicae Lovanienses, LX 1984, 325-345; J. BEYER, Dal Concilio al Codice. Il nuovo
Codice e le istanze del Concilio Vaticano II, (Il Codice del Vaticano II) Bologna, 1984.

46
Una grande riscoperta post-conciliare fu sicuramente il Sinodo dei Vescovi come istituzione
permanente. Fu proprio papa Paolo VI109 che, nella sua lungimiranza, pensò a questa forma di
comunione per rendere saldo e concreto il vincolo tra i vescovi e il Romano Pontefice, per trattare
volta per volta i problemi e le questioni che interessavano la chiesa: «Si tratta, dunque, di un istituto
ecclesiastico centrale, rappresentativo dell’Episcopato, per natura sua perpetuo, che esercita il
proprio ufficio ad intervalli» 110. Il primo Sinodo111, se possiamo dire, della nuova era della Chiesa,
quella cioè del post-concilio, ebbe a cuore la questione del nuovo codice e ne approvò i Principia
quae Codicis Iuris Canonici recognitionem dirigant preparati dalla Pontificia Commissione112.
Questi dieci Principia dovevano essere la base e il fondamento per il lavoro delle diverse
Commissioni113:

Si riportano qui i principi direttivi per la revisione del CIC 1983


a) L’indole giuridica del Codice da conservare in quanto richiesta dalla natura sociale della Chiesa fondata sul
potere di giurisdizione conferito da Cristo alla Gerarchia.
b) Il foro esterno ed interno del Codice: stabilire i loro ambiti per evitare i conflitti specialmente nel campo
sacramentale e penale.
c) Pastoralità e giuridicità del Codice: l’ordinamento giuridico della Chiesa deve aiutare l’uomo al
raggiungimento del suo fine soprannaturale, da qui lo spirito di carità, temperanza, umanità e di moderazione.
d) Revisione del sistema delle facoltà concesse ai Vescovi ed agli altri superiori, stabilendo anche in modo
positivo i diritti e poteri dei Vescovi.
e) Applicazione del principio di sussidiarietà
f) La tutela dei diritti delle persone: quale statuto giuridico comune a tutti i Fedeli in forza della comune
dignità umana e del Battesimo;
g) La procedura ordinaria a tutela dei diritti soggettivi: soprattutto per quanto riguarda la disciplina del
ricorso e dell’appello sia giudiziario sia amministrativo;
h) L’ordinamento territoriale nella Chiesa: mantenimento delle circoscrizioni territoriali , ma pure
superamento per motivi pastorali dello stesso principio;
i) Ricognizione del diritto penale ecclesiastico: fermo restando il potere coattivo della Chiesa occorre che siano
ridotte notevolmente le pene nella Chiesa. In genere le pene dovrebbero essere ferendae sententiae inflitte e
rimesse solo in foro esterno, mentre le pene latae sententiae dovrebbero essere limitate a pochi casi e per delitti
gravissimi;
j) Circa la nuova disposizione sistematica del Codice di Diritto canonico che avverrà in base all’applicazione
di questi principi114.

109
PAOLO PP. VI, Motu Proprio: Apostolica sollicitudo, 15 settembre 1965, in AAS, LVII, 1965, 775-780. Paolo VI
dava l’annuncio del Sinodo dei Vescovi: «La seconda cosa è il preannuncio, che noi stessi siamo lieti di darvi della
istituzione, auspicata da questo Concilio, d’un Sinodo dei Vescovi, che, composto da presuli, nominati per la maggior
parte dalle Conferenze Episcopali, con la nostra approvazione, sarà convocato, secondo i bisogni della Chiesa, dal
Romano Pontefice, per sua consultazione e collaborazione, quando, per il bene generale della Chiesa ciò sembrerà a lui
opportuno. Riteniamo superfluo aggiungere che questa collaborazione dell’episcopato deve tornare di grandissimo
giovamento alla Santa Sede e a tutta la Chiesa, e in particolare modo potrà essere utile al quotidiano lavoro della Curia
Romana, a cui dobbiamo tanta riconoscenza per il suo validissimo aiuto, e di cui, come i vescovi nelle loro diocesi, così
anche noi abbiamo permanentemente bisogno per le nostre sollecitudini apostoliche. Notizie e norme saranno quanto
prima portate a conoscenza di questa assemblea. Noi non abbiamo voluto privarci dell'onore e del piacere di farvi
questa succinta comunicazione per attestarvi ancora una volta personalmente la nostra fiducia, la nostra stima e la nostra
fraternità. Mettiamo sotto la protezione di Maria Santissima questa bella e promettente novità». fine del discorso
inaugurale dell’ultimo periodo del Concilio Vaticano II, 14 settembre 1965.
110
M. C. BRAVI, Il Sinodo dei Vescovi istituzione, fini e natura Indagine teologico giuridica. In tesi Gregoriana serie
Diritto Canonico 2, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1995, 126-127.
111
29 settembre -29 ottobre 1967.
112
Cfr.: J. HERRANZ Génesis del nuevo cuerpo legislativo de la Iglesia en Ius Canonicum 23, 1983, 502; J. I
GUTIÉRREZ, La formazione dei principi per la riforma del “Codex Iuris Canonici”, in I principi per la revisione del
Codice di diritto canonico. La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, a cura di J. Canosa, Milano 2000, 13-23.
113
Principia quae Codicis Iuris Canonici recognitionem dirigant, in Communicationes 1(1969), p. 77-85.
114
Communicationes 2, 1969, 77-85.

47
Uno dei primi argomenti, che la Commissione fu chiamata a trattare, fu la redazione congiunta
o disgiunta dei Codici latino ed orientale, la Lex Ecclesiae Fundamentalis115 come diritto comune ad
entrambi; definire gli ambiti e i compiti della Commissione e la divisone della materia da assegnare
a ciascun gruppo di lavoro. Papa Paolo VI, il 20 novembre 1965116 aprì ufficialmente i lavori di
revisione del codice, indicando le linea guida: una riforma di contenuto capace di orientarsi sulla
base dei documenti prodotti dal Concilio Vaticano II117.

Prendendo in considerazione l’autorevole rivista del Pontificio Consiglio per i Testi


Legislativi Communicationes118 cercheremo di fare una cronotassi degli avvenimenti più
significativi che hanno segnato le tappe del percorso di rielaborazione del Codice di Diritto
Canonico.
Nel mese di gennaio del 1966 in sede della Pontificia Commissione si divisero gli argomenti
da trattare119, è utile considerare questi perché sono legati ancora al codice del 1917, infatti:

Gruppo di studio Codex 1917


1. Normae generales Codicis, 1°Lib.
2. Clerici, 2°Lib.1ªpars
3. Religiosi 2°Lib.2ªpars
4. Laici, 2°Lib.3ªpars
5. Ius Sacramentale, 3°Lib.1ªpars
6. lus Matrimoniali in particulari, 3°Lib.1ªpars
7. Magisterium Ecclesiasticum, 3°Lib.4ªpars
8. Bona temporalia, 3°Lib.6ªpars
9. Ius processuale,  4°Lib.
10. Ius poenale,  5°Lib.,
Seguendo, in linea di massima il codice del 1917, i consultori compresero che le riforme portate
dal Concilio non potevano essere attuate mantenendo con rigido protocollo la struttura del Codice
del 1917, e così si vengono a risolvere degli interrogativi sistematici che si erano posti:

a) Leges liturgicae ut tales extra Codicem disciplinarem maneant, ad mentem can. 2 vigentis
Codicis.
b) Pleraeque normae circa processus beatificationis et canonizationis remitti debent ad leges
alterius ordinis, quae pro iis specialibus processibus condantur.
c) Normae generales respicientes relationes Ecclesiae ad extra seu cum humana consortione —
nempe quoad libertatem Ecclesiae, etc.—in Lege Fundamentali proprium locum habeant (nihil
hic dicitur de quaestione terminologica, utrum scilicet hae normae vocari debeant «ius publicum
externum» an «ius ecclesiasticum externum» vel «ius internationale», etc.).

115
«1. Quaestio utrum unus an duo Codices faciendi sunt, unus prc Orientalibus et alter pro aliis praemisso Codice
quodam Fundamentali. 2. Redactio alicuius Ordinis, indicantis modum quo Comissio eiusque organa procederent. 3.
Divisio laboris, magni quidem, pro recognitione Codicis, variis subcommissionibus, quae simul agerent, constituendis».
Communicationes 1, 1969, 37. Solo per rendere l’idea la Lex Ecclesiae Funadmentalis si può paragonare alla Carta
Costituzionale su cui si basa l’ordinamento. Ma nonostante furono elaborati vari progetti, questa non venne mai
promulgata, anche perché molte delle sue norme sono poi state recepite nel Codice di Diritto Canonico.
116
PAOLO PP. VI, Allocutiones V: Ad E.mos Patres Cardinales et ad Consultores Pontificii Consilii Codici Iuris
Canonici recognoscendo 20 novembre 1965, in AAS LVII, 1965, 985-989.
117
La riforma, non semplicemente una revisione, doveva essere intrinseca alla chiesa stessa, infatti, durante il concilio
ma soprattutto nel post-concilio alcuni avrebbero voluto un cambiamento di visione orientando la chiesa più sulla carità
che sulla giuridicità. Sulla riforma del Codice: «Si è avvertita […] la necessità di una nuova codificazione. Questa non
può tuttavia limitarsi a una pura e semplice revisione delle norme ora in vigore, ma deve soddisfare in pieno il nuovo
spirito e muoversi verso nuovi orizzonti aperti largamente dalla grande Assise Ecumenica» P. FELICI, Responsiones ad
animadversiones circa «Principia quae Codicis I. C. recognitionem dirigant» in Communicationes I, 1969, 94.
118
Questa rivista semestrale viene pubblicata dal 1969.
119
Communicationes 1, 1969, 44.

48
d) In parte ubi de Populo Dei agatur, ponendum est statutum personale omnium christifidelium
atque iura et officia quae diversis fidelium speciebus competunt iuxta earum respectivas
missiones ecclesiales; haec tamen statuta, iura personalia tantum continentia, apte distinguantur
oportet a facultatibus necessariis ad rite exercenda diversa munera vel officia ecclesiastica.
e) Praesens structura libri III Codicis, qui sub rubrica «de rebus» materias inter se valde diversas
complectitur, servari non posse videtur120.
Il Cambiamento di rotta verso una nuova forma di struttura porta già nel maggio del 1968 la
Pontificia Commissione ad approvare lo schema provvisorio del nuovo codice:

Liber I - Legislatio de fontibus iuris atque de actibus administrativis qui influunt in conditionem
iuridicam personarum.
Liber II - Legislatio de Populo Dei in genere et in specie: …
Liber III - Legislatio de tribus muneribus Ecclesiae: …
Liber IV - Legislatio de bonis Ecclesiæ temporalibus seu de iure patrimoniali Ecclesiæ.
Liber V - Legislatio de iure poenali.
Liber VI - Legislatio de tutela iurium in Ecclesia121: …
Il corposo numero dei Consultori, coetus studii, ha reso possibile uno studio approfondito
delle intenzioni dei padri conciliari e, prendendo dalla tradizione canonista la materia, ha potuto
tradurre in norma la tradizione della chiesa. A questo gruppo di persone 122 fu assegnato il lavoro di
perfezionamento del nuovo codice. I Consultori erano divisi in vari gruppi, in questi il numero era
variabile ma un Consultore nel gruppo era anche Relatore e un altro era scelto per il compito di
Segretario. I membri si riunivano due volte all’anno per decidere insieme sul lavoro che ognuno di
loro singolarmente aveva prodotto durante il periodo.
Nel 1970 papa Paolo VI approvando lo schema provvisorio del 1968 in linea di massima
faceva però ancora riferimento ad un intervento da parte delle Conferenze episcopali:
«La Commissione per la revisione del diritto canonico continua con alacrità il suo studio per la preparazione
di schemi di canoni. È un lavoro attento, paziente di esame, di ricerca, di consultazione, di approfondimento,
sotto ogni aspetto, dei problemi che la nuova codificazione deve affrontare, nel contesto della ecclesiologia
del Vaticano II, dei riflessi pastorali che essa ha nel mondo di oggi, dello sviluppo e del progresso delle
scienze giuridiche. Dopo l'approvazione dei principi direttivi della nuova legislazione e del suo ordine
sistematico, alcuni schemi sono già nella fase terminale, sicché fra non molto avrà inizio l'esame da parte
innanzitutto dell'episcopato. Infatti la nuova legge del Popolo di Dio pur dovendo essere promulgata dal
Papa, è sommamente conveniente che abbia l'apporto preziosissimo dei Pastori della Chiesa, i quali a loro
volta saranno interpreti del sentimento del Popolo di Dio. Il lavoro di consultazione e di riesame richiederà
senza dubbio non poco tempo ancora: ma è un tempo preziosamente speso, non solo perché mediante la
consultazione la legge diventerà potenzialmente più efficacie, ma anche perché si potranno così maturare i
tempi per l'accoglimento più fruttuoso della nuova legislazione, che dovrà essere per chi crede ed ama Cristo
e la Chiesa lex vitae et disciplinae, senza la quale lo stesso Spirito può venir estinto»123.
La consapevolezza del dovere e la responsabilità di promulgare il nuovo codice il più
possibile condiviso e per questo accettato spinse papa Paolo VI a partecipare di questa
responsabilità l’intero episcopato e così l’intera chiesa. Questo fu un processo lungo e, infatti, solo
nel 1977 fu approvato lo schema provvisorio:

Liber Primus Normae generales


Liber Secundus De Populo Dei
Liber Tertius De Ecclesiae munere docendi
Liber Quartus De Ecclesiae munere sanctificandi
120
Communicationes 1, 1969, 106.
121
Communicationes 1, 1969, 111-113.
122
I lavori di revisione hanno visto la presenza di 93 cardinali, 185 consultori (62 vescovi, 64 sacerdoti diocesani, 45
religiosi, 14 laici) e circa 266 giorni di lavoro ininterrotti. Communicationes 12, 1980, 220.
123
Paolo PP. VI, Allocutiones V Eminentissimis Sacri Collegii Cardinalium Patribus, Summo Pontifici die Eius
nominali felicia ac fausta ominantibus, 23 giugno 1970, in AAS LXII, 1970, 518.

49
Liber Quintus De iure patrimoniali Ecclesiae
Liber Sextus De sanctionibus in Ecclesia
Liber Septimus De tutela iurium seu processibus124.
Nel 1979 uno schema più o meno simile fu ripresentato e approvato ma lo schema che alla
fine, il 25 gennaio 1983, ne uscì fu il seguente:

Liber Primus De normis generalibus


Liber Secundus De Populo Dei
Liber Tertius De Ecclesiae munere docendi
Liber Quartus De Ecclesiae munere sanctificandi
Liber Quintus De bonis Ecclesiae temporalibus
Liber Sextus De sanctionibus in Ecclesia
Liber Septimus De processibus125.
Riepilogando, l’intero periodo di lavoro della riforma del Codice di Diritto Canonico
possiamo così sintetizzarlo:

1. Annuncio dell’aggiornamento del Codice di Diritto Canonico 25 gennaio 1959;


2. 28 marzo 1963 papa san Giovanni XXIII istituì ufficialmente la Pontificia Commissione per
la Revisione del Codice di Diritto Canonico;
3. Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962 – 7 dicembre 1965;
4. Periodo della redazione 1966-1976;
5. Periodo della fase consultiva 1976-1978;
6. Periodo della fase revisionale 1978-1980;
7. Periodo della fase deliberativa: conclusa il 22 aprile 1982 con la consegna al Romano
Pontefice dello schema definitivo;
8. Promulgazione del Codice di Diritto Canonico: 25 gennaio 1983 attraverso la pubblicazione
sugli Acta Apostolicae Sedis.
Il Concilio, dunque, come riferimento essenziale per l’avvio, il proseguimento e la conclusione
dei lavori del nuovo Codice. Anche il cambiamento di visione è essenziale:

«Infatti, non si parte più dal vertice della piramide gerarchica, ma dall’uguaglianza fondamentale tra
i battezzati. Solo dopo si procede alle determinazioni derivanti dalla diversità funzionale dovuta alla
condizione laicale o clericale»126.
Penso che questa nuova visione, che parte dalla piattaforma comune dell’uguaglianza, pensiero
proprio del Concilio Vaticano II127, abbia influito positivamente al felice accoglimento del nuovo
Codice nell’intera Chiesa.

Il Codex Iuris Canonici della Chiesa latina (25 gennaio 1983)


Il Codex Iuris Canonici riguarda solo le chiese di rito latino e può essere definito come parte
di un corpus contenente le norme della legislazione canonica. Il Codice latino si intitola, come
quello del 1917, Codex Iuris Canonici ed è stato promulgato in lingua latina attraverso il
commentario ufficiale della Santa Sede, Acta Apostolicae Sedis. Le formule di legge contenute nel
Codice sono denominate canoni. Caratteristica fondamentale del Codice di diritto canonico è di

124
Communicationes 9(1977), p. 229.
125
GIOVANNI PAOLO PP. II, Codex Iuris Canonici, in AAS LXXV, pars II, 1983, 305 - 317. 
126
F. J. URRUTIA S. I., Il nuovo codice del postconcilio, in La Civiltà Cattolica, 134(1983)I, p. 443.
127
Solo per rendere l’idea cfr.: CONCILIUM ŒCUMENICORUM VATICANUM II,
Costituzione: Lumen Gentium, 21 novembre 1964, in AAS LVII 1965, numero 23, 27-29;
Decreto: Christus Dominus, 28 ottobre 1965, in AAS LVIII 1966, numero 11, 677-678;
Decreto: Ad Gentes, 7 dicembre 1965, in AAS LVIII 1966, numero 5, 951-952 e anche il numero 20, 970-972.

50
costituire un corpo organico con valore normativo ed è diretto a regolare in forma vincolante un
vasto campo di relazioni ecclesiali.

Il Codice latino si compone di 1752 canoni distribuiti in sette libri:


1) Norme generali;
2) Il popolo di Dio;
3) La funzione di insegnare della Chiesa;
4) La funzione di santificare della Chiesa;
5) I beni temporali della Chiesa;
6) Le sanzioni nella Chiesa;
7) I processi.
Lo schema del Codice del 1983 è molto simile a quello del 1917, l’unica sostanziale novità è che i
libri III°, IV° e V° del nuovo Codice contengono la normativa del libro III° del Codice del 1917 che
si intitolava “De rebus” e cioè “le cose”. Però le novità maggiori del Codice del 1983 sono quelle di
cercare di tradurre in linguaggio canonistico l’ecclesiologia conciliare.

Il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium (18 ottobre 1990)

Il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium riguarda solo le Chiese cattoliche orientali e


cioè quelle Chiese che, dopo periodi più o meno lunghi e più o meno intensi di separazione dalla
Chiesa di Roma, furono da questa, espressamente o tacitamente, riconosciute, ristabilendo così la
comunione piena. Il codice dei canoni delle Chiese orientali, prima di essere promulgato, ha seguito
un iter di oltre sessant’anni. Le Chiese orientali sono Chiese cattoliche che, come la Chiesa cattolica
latina, hanno riti liturgici propri, un patrimonio teologico e spirituale particolare, una disciplina
ecclesiastica specifica. Le Chiese cattoliche orientali e la Chiesa cattolica latina costituiscono la
Chiesa cattolica.
Sensibilizzazione verso le Chiese orientali
La promulgazione del CCEO, con la Costituzione Apostolica Sacri Canones del 18 ottobre 1990 e la sua
entrata in vigore il 1° ottobre 1991, ha portato ad un approdo post tot et tantos labores di una navigazione complessa e
tormentata in favore delle Chiese Cattoliche Orientali. Dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, la pubblicazione del
Codex Iuris Canonici per la Chiesa Latina il 25 gennaio 1983 (con la Costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges)
il CCEO è stato finalizzato al completamento di una struttura giuridica visibile ed organizzata in un complesso
comunionale quale la Chiesa universale.
Infatti, tutta la Chiesa (occidentale ed orientale) si è data un Corpus Iuris Canonici che comprende il Codex Iuris
Canonici per la Chiesa Latina ed il Codex Canonunm Ecclesiarum Orientalium per le Chiese Orientali Cattoliche,
insieme alla Costituzione apostolica Pastor Bonus del 28 giugno 1988 sulla Curia Romana per la Chiesa Universale
(AAS, 80 (1988), p. 841-934).
Per quanto riguarda uno sguardo e sensibilizzazione verso le Chiese Orientali occorre ricordare come il
Sommo Pontefice in occasione della Presentazione del CCEO durante la XXVIII Congregazione generale del Sinodo
dei Vescovi il 25 ottobre 1990, così si è espresso:
“Quando ho promulgato il Codice di Diritto Canonico per la Chiesa latina, ero consapevole che non tutto era stato fatto
per instaurare nella Chiesa universale un tale ordine mancava un riordinamento della Curia Romana, e mancava, si può
dire da molti secoli un Codice contenente il diritto comune a tutte le Chiese orientali cattoliche, un Codice che non solo
rispecchiasse il patrimonio rituale e ne garantisse la salvaguardia, ma anche che, primariamente ne tutelasse, assicurasse
e promuovesse la vitalità, crescita e vigore, nell’adempire la missione loro affidata (cf. Orientalium Ecclesiarum, n.1)”.
Il Santo Padre ha ricordato esplicitamente i canoni del CCEO e la loro formulazione:
“Se ogni legge, secondo il noto detto di San Tommaso d’Aquino, è “ordinatio rationis ad bonum commune et ab eo, qui
curam communitatis habet, promulgata” (I.a- II.ae, Q.CX, art. 4, ad 1), questo è vero soprattutto ed in maniera eminente
per i canoni che regolano la disciplina ecclesiastica. Si tratta, nel vero senso del termine di “sacri canones”, come tutto
l’Oriente li ha sempre Chiamati nella indubbia fede che è sacro tutto ciò che stabiliscono i Sacri Pastori, rivestiti del
potere, conferito loro da Cristo ed esercitato sotto la guida dello Spirito Santo, per il bene delle anime e di tutti coloro,
che santificati dal Battesimo costituiscono la Chiesa una e santa. Seppure nei Codici vi sono molte “leges mere

51
ecclesiasticae”, come si esprime un canone in entrambi i Codici (can. 1490; CIC can. 11), pertanto sostituibili con altre
dal Legislatore legittimo, la ragione di essere di esse è tutta “sacra”, e anche se esse appartengono alla “ordinatio
rationis” umana, sono state formulate non solo dopo molto pensare, ma anche nella incessante preghiera di tutta la
Chiesa. Grande saggezza si deve supporre in ognuna nelle norme del Codice. Esse, infatti, sono state studiate a lungo e
da ogni punto di vista, con la cooperazione di tutta la gerarchia delle Chiese Orientali e alla luce della quasi bimillenaria
tradizione sancita dai primi sacri canones fino ai decreti del Concilio Vaticano II”.
Ancora un richiamo ed attenzione viene fatto per le facoltà di Diritto Canonico perché:
“si promuova un appropriato studio comparativo di entrambi i Codici, anche se, a secondo dei loro statuti, hanno per
loro principale oggetto lo studio di uno o l’altro di essi. Infatti la scienza canonica pienamente corrispondente ai titoli di
studio che queste Facoltà conferiscono, non può prescindere da un tale studio”.
Già il Concilio Vaticano II nell’ OE n. 6 ha ribadito la necessità a che:
“quelli per ragione di ufficio o di ministero apostolico hanno frequenti relazioni con le Chiese orientali e con i loro
fedeli, siano accuratamente istruiti nella conoscenza della disciplina, della dottrina e della storia degli orientali”.
Come vedremo tale concettualizzazione sarà ripresa nel c. 41 CCEO. A maggior ragione nella formazione sacerdotale
sono suggerite:
“iniziative, come per esempio corsi informativi o giornate di studio, che favoriscano una maggiore conoscenza di tutto
ciò che costituisce la legittima in unum conspirans del patrimonio rituale della Chiesa cattolica”.
Ecco riaffacciarsi il problema ecumenico a proposito dell’unità e della koinonia di tutte le Chiese, il Pontefice
rivolgendosi esplicitamente e rispettosamente esprime la sua attenzione affermando:
”A conclusione di questa mia “presentazione” del Codice comune a tutte le Chiese orientali cattoliche, non posso fare a
meno di rivolgere il mio pensiero rispettoso a tutte le Chiese Ortodosse. Anche ad esse vorrei “presentare” il nuovo
Codice, che fin dall’inizio, è stato concepito ed elaborato su principi di vero ecumenismo e prima di tutto nella grande
stima che la Chiesa Cattolica ha di esse come “Chiese sorelle” già in “quasi piena comunione” con la Chiesa di Roma,
come si esprimeva Paolo VI, e dei loro Pastori come coloro a cui “è stata affidata una porzione del gregge di
Cristo”. Non vi è norma nel Codice che non favorisca il cammino dell’unità tra tutti i cristiani e vi sono chiare norme
per le Chiese Orientali cattoliche su come promuovere questa unità “paecibus imprimis, vitae exemplo, religiosa erga
antiquas traditiones Ecclesiarum orientalium fidelitate, mutua et meliore cognitione, collaboratione ac fraterna rerum
animorumque aestimatione” (Can. 903). Queste norme non ammettono alcunché che possa avere anche solo il sentore
di azioni od iniziative non congruenti con quanto la Chiesa Cattolica proclama ad alta voce, nel nome del Redentore
dell’uomo, circa i diritti fondamentali di ogni persona umana e di ogni battezzato ed i diritti di ogni Chiesa, non solo
all’esistenza, ma anche al progresso, allo sviluppo e alla fioritura.
Mentre tutti i cattolici devono attenersi a queste norme, ho fiducia che si stabilisca ovunque una completa reciprocità
nel rispetto di così fondamentali valori umani e cristiani e che il dialogo ecumenico possa essere fecondo tra fratelli che
si amano in Cristo, fino al giorno, che speriamo prossimo, in cui potremo nella piena comunione di tutte le Chiese
orientali, partecipare, sul medesimo altare, al Corpo e Sangue di Cristo, in quella unità per la quale Lui stesso ha
pregato Suo Padre nell’Ultima Cena.
Possa il nuovo “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium” essere un provvido ed efficace strumento di ordine nella
vita delle Chiese orientali, affinché fioriscano per il bene delle anime e lo sviluppo del Regno di Cristo a maggior gloria
di Dio”.
Circa una maggiore sensibilizzazione che si è avuta relativamente alle Chiese Cattoliche dell’Oriente non si
può dimenticare il Concilio Vaticano II ed i documenti che direttamente ed indirettamente ne sono scaturiti, a vantaggio
di queste Chiese.
Si è detto del Concilio Ecumenico Vaticano II (iniziato dopo l’annuncio del 25.I.1959, l’11 ottobre 1962,
articolatosi in quattro periodi si conclude l’8.XII 1965) che ha approvato e pubblicato 16 documenti: 4 costituzioni
dogmatiche, più 9 decreti e 3 dichiarazioni. Tra questi riguardanti le Chiese Orientali, occorre ricordare come il 21
novembre 1964 tre documenti venivano approvati: la Costituzione dogmatica Lumen Gentium sulla Chiesa, il decreto
Orientalium Ecclesiarum sulle Chiese Orientali cattoliche ed il decreto Unitatis Redintegratio circa l’Ecumenismo.
Tale apparente coincidenza ha una sua logica nella coscienza della identità ecclesiale con tutti i rapporti ad intra ed ad
extra nella ricerca di quelle soluzioni intorno e situazioni sospese in maniera conclusiva 128.

La codificazione del Diritto Canonico Orientale

Al principio del secolo XVIII la S. C. di Propaganda Fide, sotto la cui competenza erano state messe le
comunità Orientali, in quanto non avevano una vita ecclesiale autonoma e le stesse erano destinatarie
dell’evangelizzazione, quindi la S. Congregazione fece raccogliere tutte le Bolle ed i documenti riguardanti queste
comunità con una specie di Bullarium; seguirono altre raccolte di altri documenti dei Romani Pontefici. L’insieme dei

Si noti che nel Concilio Vaticano II la maggioranza dei Padri era composta da Latini e tutto si svolgeva in Latino. I
128

Padri orientali erano 120 circa il 5% dell’insieme. Erano presenti, silenzionsi ed attenti, nonché attivi osservatori non
cattolici tra i quali rappresentanti delle Chiese ortodosse bizantine o non calcedoniane.

52
testi come la collocazione dei documenti non sempre fu scientificamente esatta, ed in tali Collezioni non è contenuta la
disciplina propria delle singole Chiese Orientali 129.
Occorre ricordare come già al tempo del Concilio Vaticano I nella fase preliminare nel Congresso della Commissione
delle Missioni e Chiese Orientali (1869-1870) vi furono delle richieste a che fosse revisionata l’insieme della normativa
per un Codice di Diritto Canonico orientale sentendone l’esigenza per un regolamento della disciplina, che avesse che
avesse un’autorevolezza completa e generale. La stessa richiesta fu formulata durante il Concilio Vaticano I, tra questi
richiedenti il Patriarca di Antiochia dei Melkiti e quello Caldeo. Il problema più grande era dato dalla difficoltà di
conoscenza del Diritto Orientale stesso che proveniva da fonti le più diverse possibili, redatte in tempi diversi, con una
non sicura autenticità e difficoltà di accesso. Emergevano difformità complicanze e confusioni, compreso molto
materiale che non era giuridico per nulla, inserite consuetudini incerte, sinodi non approvati, atti non canonici di
qualche Patriarca, editti civili in materia ecclesiastica. Il corpus iuris degli Orientali cattolici comprendeva quindi a)
canones antiqui; b) collectiones antiquae; c) Acta Apostolicae Sedis; d) Synodi approbatae; e) Synodi non approbatae;
f) ius consuetudinarium; g) ius patriarchale; h) edicta civilis auctoritatis de re ecclesiastica; i) disciplina
religiosorum130.
Il Papa Pio IX con la Lettera Apostolica Romani Pontifices del 6.I.1862 erigeva una Congregazione speciale di
Propaganda Fide per gli affari di rito orientale col fine a che si facesse anche una raccolta del materiale giuridico di
Diritto pontificio per gli Orientali ma anche di tutto il loro diritto. Questo incarico fu dato in antecedenza il I agosto
1858 al P. Solesmes Giovanni Battista PITRA che negli anni 1864-1868 pubblicò due volumi che contenevano Juris
Ecclesiastici Graecorum historia et monumenta che partono dagli inizi fino al IX secolo.
Si formalizzarono ulteriori istanze da parte della Gerarchia orientale a che si arrivasse ad una codificazione. È con la
promulgazione del CIC 1917 che si inizia praticamente a porre in atto l’auspicio di una codificazione per le Chiese
orientali cattoliche.
Nel 1917 viene fondata la S.C. Orientale come organismo a sé stante e il 22 febbraio 1926 viene posto il quesito se
fosse stato possibile promuovere gli studi per una codificazione orientale. Ancora la questione fu posta nella Plenaria
dei Cardinali della S.C. Orientale il 25 luglio 1927 e dopo la lettura del voto del Card. Pietro Gasparri illustrando lo
stato della legislazione canonica orientale che espresse il suo voto favorevole, tutti gli altri cardinali aderirono al parere
del Card. Parente con voto unanime che fu riferito al Pontefice il 3 agosto 1927 dal Segretario della S. Congregazione
orientale Card. Luigi Sincero. Il Romano Pontefice Pio XI dichiarò l’urgenza di una Codificazione del Diritto Canonico
Orientale e dispose l’invio di una circolare ai Patriarchi a nome della S.C. Orientale. Il Pontefice volle essere quindi
presidente per intraprendere quest’opera costituendo un Collegio o Consiglio di Presidenza che durò fino al 1929
quando divenne necessario un riordino ed aumento del Consiglio stesso che avvenne il 27 aprile 1929 modificandone in
seguito il 13 luglio anche il nome in Commissione per la Codificazione Orientale sotto la presidenza dei Cardinali P.
Gasparri, L. Sincero, B. Ceretti e F. Ehrle della S. C. Orientale. In pari data fu costituita la Commissione dei Consultori
in seguito fu deciso che la Commissione con la presidenza dei quattro Cardinali si componesse di ecclesiastici Orientali,
uno per rito, con orientalisti e canonisti. Fu ordinato da Pio XI una Commissione speciale per la raccolta delle Fonti
Canoniche orientali.
La riunione della Commissione di Presidenza il 4 luglio 1929 aveva come ordine del giorno “se sia possibile redigere un
Codice -comunque s’intenda,- o Codice unico pro Universa Ecclesia, o un codice unico per tutte le Chiese Orientali”.
Prevalse l’idea di un Codice unico pro Universa Ecclesia.
In data 29.XI.1929 fu istituita da parte di Pio XI la Commissione Cardinalizia per gli Studi preparatori alla
Codificazione Orientale con lo scopo principale di porre la base storico-canonica quale materiale di referenza; ancora,
redazione e proposizione di schemi da sottoporre ai Pastori Orientali; ricerca e pubblicazione delle Fonti del Diritto
Canonico orientale.
Il 24 febbraio 1930 la Commissione Cardinalizia per i lavori preparatori della codificazione orientale ritenne come
punto di partenza la realizzazione di un Codice per la Chiesa Orientale, distinto e separato dal CIC ma un solo Codice
per tutta la Chiesa tenendo conto delle particolarità disciplinari delle Chiese Orientali. Pio XI però non ritenne valida
l’idea come punto di partenza di un unico Codice per tutta la Chiesa, in quanto voleva escludere ogni ombra di
predominanza e latinizzazione in un opera a vantaggio delle Chiese Orientali.
Il 7 marzo si riunirono i Consultori ed i Delegati Orientali discutendo e decidendo con voto unanime di seguire il CIC
nella preparazione del CICO. In tale lavoro emergeva, più che i contrasti, l’esigenza di un minimo di disciplina, lo
stabilire cose di essenza (doveri del Vescovo, di un parroco); ricerca di normativa per evitare i conflitti, unificazione del
diritto matrimoniale. Se nella base di codificazione vi era il CIC 17 si raccolsero e confutavano però le fonti che
servivano per confronti preparando nel contempo il materiale.
Nel mese di luglio 1930 fu presentato al S. Padre il primo libro del CICO ed il primo volume delle Fonti. Le maggiori
difficoltà riguardavano i Patriarchi ed i loro titoli, il problema della nomina dei Vescovi, precedenza fra i Patriarchi e

129
R. METZ, La première tentative de codifier le Droit des Églises orientales catholiques au XXe siècle (1927-1958), in
AA. Vv., Mélanges offerts à Jean Dauvillier, Toulouse 1979, p. 531-546.
130
BUCCI O., Il Codice di Diritto Canonico Orientale nella storia della Chiesa, in Apollinaris 55(1982) p. 371-410.

53
Delegati apostolici131. In data 21 marzo 1933 succedendo a Mons. G.A. Cicognani succedeva il P. Acacio Coussa. Se
l’opera di preparazione pur essendo ben avviata, quella di Codificazione era ben lontana.
Il 27 giugno 1935 Pio XI costituisce con un cambio nominativo la Pontificia Commissione per la redazione del
Codice di Diritto Canonico Orientale con il compito di rivedere gli schemata con l’attenzione ai commenti ed
osservazioni dei vari comitati consultivi (segretario fu il P. Acacio Coussa B.A.). Furono in tali ambiti fissati i criteri
circa la forma e la lingua ed il titolo: Codex Iuris Canonici Orientalis (Scriveva il Coussa che “Per il titolo da dare al
Codice erano in gioco ben 14 denominazioni diverse”). Il 7 maggio 1939 nell’udienza con il S. Padre Pio XII fu
esaminato il Libro V De delictis et poenis.
Nel 1948 viene consegnato al Pontefice il testo di tutto il Codice redatto e venne altresì presa la decisione di
pubblicare in parti tale Codice stesso.
Pubblicazione del Diritto matrimoniale con il m.p. Crebrae Allatae (“Le numerose cose apportate”) del
22.II.1949 con 131 canoni; in data 6.I.1950 del diritto processuale con il m.p. Sollecitudinem Nostram con 576 canoni.
In data 9.II.1952 si ha la pubblicazione del diritto dei Religiosi con i beni patrimoniali e la definizione dei termini
giuridici con il m.p. Postquam Apostolicis Litteris con 135 canoni; nel 1957 (2 giugno) viene emanato il diritto relativo
ai Riti orientali e la normativa relativa alle persone fisiche e giuridiche con il m.p. Cleri Sanctitati con 558 canoni. Tale
pubblicazione continuata riguardava circa i 2/3 di tutto il Codice predisposto, mancando su un totale di 2666 canoni
solamente 1095. Infatti furono preparati anche i canoni De Sacramentis presentati al Papa Giovanni XXIII che tuttavia
non pubblicò in quanto sembra che nella volontà di revisione del CIC volesse aggiornare anche quello Orientale, o
forse sapeva, visto che era vissuto a lungo in Oriente che i canoni già promulgati non erano stati da tutti bene accolti,
con difficoltà di applicazione nella vita pratica. Infatti nella difficoltà della redazione, seppure con l’attenzione di
evitare ogni sospetto di latinizzazione si era ricorsi al CIC 17 come instrumentum laboris, tanto che ci si limitò alla sola
terminologia da mutare con una marcata dipendenza. Vi furono dei progressi dottrinali con aperture ai laici, alle
associazioni private, alla previsione del giudice unico (che non ha riscontro nel CIC 1917), ma circa la Gerarchia, i
Religiosi vi era una corrispondenza con il Codice latino molto pressante. Emergeva anche una tendenza unificatrice
dell’epoca che lasciava poco spazio alle singole Chiese Orientali ed alla creatività dei singoli istituti religiosi.
La Commissione esistette fino al 1972 nonostante la sospensione delle promulgazioni, ed i lavori di redazione
pare fossero già terminati. L’intero testo del Codice era formato da 2666 canoni che fu oggetto di una Plenaria la
ventiduesima che stampata era composta da tre fascicoli: il primo con le Note dell’Ufficio, il secondo con l’intero testo
del CICO ed il terzo conteneva gli studi. Il secondo fascicolo conteneva l’ Intero testo del Codice e nel frontespizio
Codex Iuris Canonici Orientalis. Tale testo fu ulteriormente ritoccato e poi sottoposto all’approvazione pontificia che
non avvenne.
Il 10 giugno 1972 viene istituita da parte di Paolo VI la Pontificia Commissione per la Riforma del Codice di
Diritto Canonico Orientale ( PCCICOR, Cfr. Nuntia n. 1. p. 11, si noti come L’Osservatore Romano ne abbia dato
notizia solamente il 16 giugno 1972 anche se non è apparso in AAS ) venendo a cessare la benemerita precedente
Pontificia Commissione per la redazione del Codice di Diritto Canonico Orientale. Il 3.XII 1973 il coetus centralis si
riunisce partendo da una proposta redatta dal Pontificio Istituto Orientale che preparò una bozza di principi per la
revisione del Codice.
Nel 1974 si ha la costituzione di Gruppi di Studio pubblicazione ed approvazione da parte dei membri della
Commissione dei Principi direttivi da seguirsi nei lavori di revisione per la Codificazione orientale, con la
pubblicazione dal 1975 della rivista Nuntia che desse conto del lavoro svolto.

I principi direttivi della codificazione del nuovo diritto canonico orientale 132
Nati da un testo elaborato inizialmente dalla Facoltà di Diritto Canonico Orientale del PIO, su richiesta della
Commissione pontificia per la Codificazione del Diritto Orientale, furono redatti preliminarmente sotto la direzione di
P. Clemente Pujol ed in seguito da P. Giovanni Rezàc. Tale studio fu spedito ai membri della Commissione in vista
131
In senso largo Delegato apostolico designa un mandatario della S. Sede come esecutore di un rescritto pontificio,
amministratore straordinario dato dal Papa per una Diocesi, una guida speciale incaricata di giudicare una causa a nome
del Papa.
In senso stretto (si noti il richiamo nel c. 267 §2 CIC 1917) si designa un mandatari odella S. Sede Vescovo oppure no,
con giurisdizione ordinaria su un territorio dato, con la missione di vegliare lo stato delle Chiese esistenti rendendone
conto al Romano pontefice. La distinzione che esiste tra Delegato apostolico e Nunzio o Internunzio (sempre madatari
del R. P.) è che il primo è sprovvisto di carattere diplomatico avendo il suo ministero uno specifico carattere religioso.
La missione istitutiva del delegato apostolico è di coordinare l’attività apostolica degli Ordinari locali, di fornire alla S.
Sede (soprattutto nei paesi orientali e di missione) le informazioni relative ai bisogni della propagazione della Fede. Tali
delegazioni sono stabilite sia nei pasesi di diritto comune come in quelli di missione, comprendendo in genenre territori
di più diocesi. Il Delegato apostolico può essere costituito a tittolo temporaneo o permanente, in questo ultimo caso
soprattutto quando non vi siano rapporti diplomatici tra la S. Sede ed il Paese stesso. R. NAZ, Délegué Apostolique, in
DDC, IV, 1082-1083; L: ECHEVERRIA, Funciones de los Legados del Romano pontifice, in Revista Española de
Derecho Canonico 24(1970), p. 573-636; C. CORRAL, Delegato Apostolico, in Nuovo Dizionario di Diritto Canonico,
Cinisello Balsamo 1993, p. 335-336.
132
Si veda Nuntia 3(1976) p. 3-24.

54
della preparazione di un nuovo documento da parte del Coetus centralis per essere sottoposto all’esame ed
all’approvazione della plenaria. Le osservazioni pervenute furono vagliate dal Coetus centralis del PCCICOR in due
riunioni (3-6 dicembre 1973 e 14-19 gennaio 1974) e tali Direttive per la revisione del Codice di Diritto Canonico
Orientale vennero approvate dopo la plenaria del 18-23 marzo 1974. Tali direttive indicavano i principi fondamentali
da seguire nel processo di revisione133.
“L’intento di questi principi o norme è di ottenere un codice comune veramente corrispondente al bene dei fedeli delle
Chiese Cattoliche orientali, che vivono in diversi ambienti, lasciando a ciascuna la codificazione del suo diritto
particolare ad normam iuris134.

Valore dei Principia: mentre nel CIC 1917 non vi erano principi di natura generale in quanto come nelle grandi
codificazioni furono sintetizzate le leggi ecclesiastiche già esistenti, per la codificazione del CIC 1983 e CCEO si
trattava di trarre le necessarie conseguenza giuridiche dalle nuove e più approfondite conoscenze sulla natura della
Chiesa e dai nuovi cambiamenti della sua vita derivanti in primo luogo dal Concilio Ecumenico Vaticano II e da altri
fattori. I Principia sono il frutto di una riflessione e lettura dell’ecclesiologia per porre le linee maestre del diritto
canonico che costituisce una dimensione intrinseca della natura e vita della Chiesa, così come era sortita dall’assise
conciliare. Il Concilio aveva dettato degli insegnamenti che avevano necessariamente una dimensione giuridica, ma che
nel contempo richiedevano un’appropriata formulazione e conformazione normativa135.
Visti a distanza di circa 30 anni i principi appaiono incompleti e talora tentennanti, ma ciò non toglie il loro valore quali
direttive di carattere generale adempiendo la loro funzione, anche per il solo fatto di esistere, avendo una valenza
puramente indicativa, anche se sono divenuti dottrina comune e punto di partenza per tutto il lavoro successivo di
redazione codiciale.

Tali principi richiedevano:


1) Codice unico per le Chiese Orientali Cattoliche. Necessità di redazione di un Unico Codice che debba servire
come diritto comune per tutte le Chiese Orientali cattoliche. Le diversità e tradizioni giuridiche delle varie Chiese
saranno regolate dal diritto particolare di ognuna (anche a fronte di identità formale di una legge delle diverse Chiese, la
ratio legis aut occasio legis, cioè le circostanze giustificanti quella legge possono essere diverse). Tale unico Codice
non entra nelle particolarità.
Si veda il c. 706 CCEO nel quale non si parla come nel c. 924 CIC dell’aggiunta di acqua al vino nei doni offerti nella
Divina Liturgia, in quanto l’aggiunta dell’acqua non esiste nella tradizione armena. Qualora non sia possibile risolvere i
conflitti insorti, si lascia alle Chiese sui iuris di emanare un diritto particolare . Il riferimento al Diritto particolare è nel
c. 1493 CCEO (non vi è corrispondenza in tale parte nel CIC). Mentre il c. 1493 §1 parla di Diritto comune inteso che
si riferisce a tutte le Chiese e quindi anche quella Latina (si veda la Pastor Bonus), nel §2 si parla di Diritto particolare
che può essere il diritto di una Chiesa sui iuris con la statuizione effettuata da un Eparca.

2) Carattere orientale del CICO. L’ispirazione del Codice comune deve essere necessariamente rivolta alle autentiche
fonti orientali conformandosi con la tradizione canonica orientale sotto ogni aspetto. Ecco che l’indole deve essere
autenticamente orientale ex OE n. 5. Il Codice dovrà quindi ispirarsi ed esprimere la disciplina contenuta: a) nella
Tradizione apostolica; b) nei canoni dei concili e sinodi orientali; c) nelle collezioni canoniche e nelle norme
consuetudinarie comuni alle Chiese orientali e non cadute in disuso. Nel caso di lacune per completare le fonti si potrà
ricorrere se necessario alle altre fonti giuridiche ecclesiastiche. Ancora la Codificazione Orientale dovrebbe tenere
presenti le situazioni degli orientali stabilitisi fuori dai territori orientali, soprattutto nel caso di norme interrituali.
Tutto pressoché il CCEO ha un carattere teologico pastorale, si veda il c. 1401 che ha come fonte il Concili Trullano.

3) Carattere ecumenico del CICO. La promozione dell’unità della Chiesa, così come anche espressa nel Vaticano II
(ex OE n. 24) deve avere un’importanza primaria. Tale codificazione non si applica a fedeli appartenenti legittimamente
alle Chiese Orientali Ortodosse che sono considerate Chiese sorelle, avendo queste il diritto (nel testo di dice facoltà) di
reggersi secondo le proprie discipline (ex UR n. 14 e 16).

4) Natura giuridica del CICO. E’ necessario definire la natura giuridica del Codice Orientale, cioè se debba essere di
carattere dogmatico o giuridico136. Benché fondato sul dogma, come insegnato dal Magistero autentico della Chiesa, il
Codice non dovrà esprimere solamente un insieme di verità ed esortazioni riguardanti la fede ed i costumi, ma divenire
un complesso di leggi che debba regolare e dirigere la vita pratica dei fedeli. Ecco che allora vi sarà un insieme di
norme che non saranno solamente pratico-legalistico o giuridistico ma vi sarà un riferimento e fondamento teologico
che dà vita alla norma stessa. Il diritto diverrà quindi un “diritto di diaconia salvifica”; non per questo secondo l’indole
133
Nuntia 3(1976), p. 10. Si veda il volume AA. VV., I Principi per la revisione del Codice di Diritto Canonico. La
recezione giuridica del Concilio Vaticano II, (a cura di Javier Canosa), Milano 2000.
134
Nuntia 3(1976), p. 3.
135
J.L. GUTIERREZ, La formazione dei principi per la riforma del CIC, in AA. VV., I principi, p. 25.
136
Si veda RINCON PEREZ T., Juridicidad y Pastoralidad del Derecho Canonico (Reflexiones a la luz del Discurso
del papa a la Rota Romana de 1990) in Ius Canonicum 31(1991), p. 231-252.

55
giuridica il codice dovrà stabilire e definire i diritti e doveri dei singoli fra loro e verso la società. Se questo non sarà
ottenuto, il codice stesso non avrà carattere giuridico.
Si noti come nel CICO come poi nel CIC il principio della natura giuridica codiciale ha portato alla chiarificazione che
il diritto canonico è diritto ed è canonico e la giuridicità dello stesso non può oscurare la sua ecclesialità. Quest’ultima
non può servire per diluire la sua natura giuridica. La norma canonica infatti è sempre giuridica e la sua giuridicità non
nasconde la realtà nella quale nasce ed il servizio da cui prende il suo senso, necessitando tener presente i fondamenti
metagiuridici che informano tutto l’ordinamento delle Chiese, le basi dottrinali sopra cui si appoggia e le
concettualizzazioni di queste basi elaborate principalmente dalla scienza teologica. Necessita quindi considerare la sua
giuridicità ed ecclesialità in un giusto rapporto137.

5) Carattere pastorale del CICO. L’accentuazione della pastoralità si inserisce in un grande ripensamento del
Concilio Vaticano II circa l’ecclesialità, laddove è sottolineata con forza la finalità soprannaturale alla quale la
normativa canonica mediatamente oppure immediatamente deve sempre dirigersi, affermandosi che il diritto nel
mistero della Chiesa ha quasi funzione di Sacramento cioè segno di quella vita soprannaturale del cristiano, che indica e
promuove, cosicché nel Codice ecclesiale “deve risplendere lo Spirito di carità, di temperanza, di umanità e di
moderazione, che essendo virtù soprannaturali, distinguono le leggi canoniche da qualunque altro diritto umano e
profano”138.
La redazione delle leggi dovrà tenere presente non solamente la giustizia o una mera osservanza della legge (c.d.
acribia, cioè rigore, rigidità e severa osservanza della legge, con applicazione integrale ed assoluta), ma pure una
sapiente equità (giustizia del caso concreto) quale frutto della condiscendenza e della carità (c.d. economia quale
saggezza amministrativa, attenzione all’uomo, condiscendenza, benevolenza, temperanza, atteggiamento amorevole).
Le norme canoniche non dovranno imporre obblighi qualora già siano sufficienti, per conseguire meglio il fine della
Chiesa, istruzioni, esortazioni, suggerimenti ed altri mezzi con i quali si favoriscano la comunione tra i fedeli. Ancora
non si vogliono stabilire leggi che troppo facilmente rendano invalidi gli atti giuridici o inabilitano le persone, tranne
che il loro oggetto sia di grande importanza e veramente necessario al ben pubblico ed alla disciplina ecclesiastica 139.
Nasce qui il discorso di quella discrezionalità lasciata ai pastori per una più efficace cura delle anime, ponendo delle
direttive ai fedeli adeguandole alle condizioni dei singoli. Non si tratta in questo caso dell’ epikeia del diritto
occidentale che prevede la possibilità per l’autorità ecclesiastica di correggere un canone qualora sia difettoso e
manchevole in una determinata situazione particolare a causa della sua universalità. Nell’ economia il valore del canone
rimane lo stesso, ma ne va della sua applicazione ed implicazioni pratiche della vita cristiana, che esigono un animus
pastorale che non tocca in nessun modo la normatività canonica. Se le norme del Codice non saranno troppo rigide, con
una certa libertà concessa agli ordinari, certamente emergerà l’indole pastorale stessa 140.

6) Principio di sussidiarietà nel CICO:


Giuridicamente il principio di sussidiarietà indica le forme di distribuzione del potere che si realizzano in differenti tipi
di società e quindi il rapporto che viene ad instaurarsi tra i livelli istituzionali e tra i centri decisionali che caratterizzano
l’assetto societario, facendo emergere tre temi: a) il decentramento; b) controllo reciproco dei poteri; c) distribuzione
delle funzioni. Per quanto riguarda la codificazione del CICO il principio di sussidiarietà è divenuto codificazione della
disciplina comune da parte del Codice, lasciando però ai vari organismi la facoltà di regolare con il diritto particolare le
altre materie. Nelle Chiese Orientali secondo la loro struttura tradizionale in seno all’unica Chiesa di Cristo, il principio
fu alquanto osservato, anche se in tal senso non vi fu un richiamo esplicito. Il nuovo Codice si limiterà alla
codificazione delle discipline comuni a tutte le Chiese orientali, lasciando ai loro vari organismi la facoltà di regolare
con il diritto particolare le altre materie non riservate alla S. Sede. Ciò che i Vescovi possono fare nelle loro diocesi non
sia detratto alla loro potestà (cfr. LG n. 27), ed il Vescovo non deve fare ciò che spetta ad altri, ma valutare
diligentemente le legittime competenze, dando le necessarie facoltà ai suoi cooperatori, favorendo le giuste iniziative sia
dei singoli che dei gruppi.
Il termine sussidiarietà proviene dal Latino subsidium che significa (aiuto, soccorso rimedio) à stato detto che
la ‘rivelazione di Dio’ è l’origine ed il subsidium sostenitore della ‘storia della Salvezza’ e che la Chiesa in quanto tale e
nel suo insieme è sussidiaria verso i Christifideles e tuta la predicazione della Chiesa si basa sul mutuo aiuto che si
prestano la S. Scrittura e la Tradizione141.

137
A. MARZOA, La juridicidad del Derecho Canonico, in AA. VV., I principi, p. 33-99.
138
P.A. BONNET, Pastoralità e giuridicità del Diritto ecclesiale, in AA. VV., I principi, p. 129-191.
139
Risulta essere illuminante il saggio di ERRAZURIZ C. J., Riflessioni circa il rapporto tra diritto e pastorale nella
Chiesa, in AA. VV., “Vitam impedere Magisterio”. Profilo intellettuale e scritti in onore dei Professori Reginaldo M.
Pizzorni, O.P. e Giuseppe Di Mattia O.F.M. Conv., Roma 1993 p. 297-310.
140
Cfr. Nuntia 10(1980), p. 92-94.
141
Così O. KARRER, Il principio di sussidiarietà nella Chiesa, in AA. VV., La Chiesa del Vaticano II, 2, Firenze 1965,
p. 591 e ss. Si veda pure A. LEYS, Structuring Communion, The Importance of the Principle of Subsidiarity, in The
Jurist 58(1998), p. 84-123; P. DURET, La sussidiarietà ‘orizzontale’. Le radici e le suggestioni di un concetto, in Jus
47(2000), p. 95-145.

56
Secondo la definizione basale la sussidiarietà significa aiuto tenuto in riserva per chi non arriva a fare una cosa che gli
spetti fare142. Con tale concetto si intende sottolineare la mutua dipendenza ed il reciproco aiuto che in un rapporto
necessario si stabilisce fra due o più soggetti o organismi, in quanto l’uno non può fare a meno dell’altro né può
sostituirsi all’altro ed il bene comune si avrà solamente nel rispetto reciproco e nell’aiuto che ognuno deve prestare
secondo la propria natura e capacità.
Il concetto di sussidiarietà si ritrova già in S. Tommaso d’Aquino, ma viene riformulato esplicitamente da Leone XIII
nell’Enciclica Rerum Novarum e ripreso nell’allocuzione concistoriale di Pio XII del 20.II.1946 (in AAS 38(1946), p.
45) che a sua volta faceva riferimento al predecessore Pio XI con la sua Enciclica Quadragesimo anno (in AAS
23(1931), p. 203) laddove si parlava di ogni attività sociale che per sua natura è sussidiaria143. Questo principio fu
riconosciuto essere esteso ed applicato estensivamente a tutta la vita della Chiesa compresi quei rapporti che
presupponessero i Christifideles144. Si deve quindi osservare come il principio di sussidiarietà quale principio e nozione
di filosofia sociale sia stato applicato nella legge ecclesiale come corretta interpretazione ed attuazione del principio
personalistico e comunionale nell’ordinamento canonico. Tale principio vale all’interno della Chiesa a determinate
condizioni avendo presente in primo luogo la conformazione e strutturazione ecclesiale fondata da Cristo stesso e quelli
che sono i conseguenti diritti-doveri dei Christifideles. La sussidiarietà diviene quindi legata ed espressione della
koinonia in quanto questa è la forza istituzionalizzata che si basa su dati teologici nella dimensione universale e
particolare della Chiesa.
Per l’applicazione quindi del principio di sussidiarietà necessita muoversi dalla realtà e dalla struttura teologica della
Chiesa legata ai suoi compiti ed al suo funzionamento sacramentale e comunionale. La Chiesa attraverso la koinonia
che considera quindi un principio strutturale del suo ordinamento, lo applica nei vari rapporti: Chiesa universale e
Chiesa particolare, Christifidelis e comunità ecclesiale; società maggiore e società minore; 145.
In tal modo si giustifica che la Commissione per la revisione del Codice Latino aveva già adottato tra le direttive quella
riguardante l’applicazione del principio di sussidiarietà sottoposta ancora prima all’esame del sinodo dei Vescovi del
1967146 quale vigenza nel campo della disciplina e pastorale.

L’applicazione del principio di sussidiarietà nella codificazione del CCEO evidenzia alcune caratteristiche:
a) in primo luogo la tendenza costante a mantenere l’unità dal sistema canonico nelle norme essenziali e nelle istituzioni
generali, lasciando al diritto particolare la normativa più adeguata alle circostanze di luogo e di tempo;
b) ponderazione attenta al problema della decentralizzazione con una certa autonomia accordata dalla suprema autorità
della Chiesa alle altre autorità ecclesiastiche nell’esercizio dei loro poteri esecutivi;
c) disciplina di organismi intermedi tra la S. Sede, i Patriarcati, le Chiese sui iuris, i Vescovi; d) potere a tali autorità per
regolare se stesse nel diritto particolare.

7) Riti e Chiese particolari. Necessità del riesame della nozione di Rito secondo una nuova terminologia che designi le
varie Chiese particolari dell’Oriente e dell’Occidente. Per quanto riguarda le singole Chiese particolari siano codificate
le conseguenze giuridiche del principio di uguaglianza di tutte le Chiese dell’Oriente e dell’Occidente ex OE n. 3. Ogni
Chiesa Orientale avrà la propria Gerarchia organizzata secondo gli antichi canoni e le tradizioni orientali.
142
FORCELLINI A., Lexicon totius Latinitatis, Patavii 1940. HUIZING P., Sussidiarietà, in Concilium 22(1986), p.
159-165; BEYER J., IV. Il principio di sussidiarietà o “giusta autonomia” nella Chiesa, nel Vol. Il rinnovamento del
Diritto e del Laicato nella Chiesa, Milano 1994, p. 79-104 (Ibidem, Le principe de subsidiarieté: son aplication en
Eglise in gregorianum 3[1988], p. 435-459); KOMONCHAK J., Subsidiarity in the Church; The state of the question,
in The Jurist 48(1988), p. 301-302; P. FERRARI DA PASSANO, Il principio di sussidiarietà, in La Civiltà Cattolica
149(1998),2, p. 543-555; A. VIANA, El principio de subsidiariedad en el gobierno de la Iglesia in Ius Canonicum
38(1998), p. 147-172; E. CORECCO, Dalla sussidiarietà alla comunione, in Ius et Communio. Scritti di Diritto
Canonico, I, Casale Monferrato 1998, p. 531-548; da vedere: S. CASSESE, L’aquila e le mosche. Principio di
sussidiarietà e diritto amministrativo nell’area europea, in Il Foro Italiano 1995, V, col 373; AA. VV., (a cura di
Pace), Quale federalismo, Padova 1997; P. ERDŐ, Teologia del Diritto canonico. Un aprroccio storico-istituzionale,
Torino 1996, p. 121-130.
143
Secondo la terminologia dell’Enciclica la sussidiarietà rimanda a queste realtà: a) scopo di tutta l’attività collettiva è
la persona umana per cui nessuna comunità può togliere all’individuo ciò che egli è in grado di fare; b) le unità sociali
minori non possono essere private della possibilità e dei mezzi di svolgimento di ciò che siano capaci di fare per cui vi è
limitazione di competenza per le unità sociali maggiori ai soli ambiti di attività che superino le capacità delle unità
minori; c) ogni unità sociale maggiore (soprattutto lo Stato) deve rispettare l’ordine gerarchico delle diverse forme
organizzative sociali aiutando le unità di livello inferiore a svolgere quei compiti di cui sono capaci: Si veda P. ERDÖ,
Teologia del Diritto canonico, p. 121 e ss.
144
L. ROSA, Il “principio di sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa, in Aggiornamenti Sociali 12(1962),
p. 589.
145
KAUFMAN F., Il principio di sussidiarietà: punto di vista di un sociologo delle organizzazioni , in AA. VV., Natura
e futuro delle Conferenze episcopali, Bologna 1988.
146
Cfr. Communicationes 1(1969), p. 80-81) e come tale applicazione si concretizzò nell’Assemblea plenaria del
PCICOR nel 1974 (si veda Nuntia 3(1976), p. 6-7.

57
Terminologia: OE n. 3 parla di Chiese particolare ritenendo le diverse Chiese dell’Oriente; LG n. 23 e CD n. 11
chiamano Chiese particolari le diocesi. Nel CIC la Chiese particolari sono le diocesi, mentre nel CCEO si è evitato
questa terminologia usando invece quella di Chiesa sui iuris (solo una volta ricorre nel CCEO l’espressione Chiesa
particolare nel c. 177 con il parallelo in CIC c. 369).

8) I Laici. Il Codice dovrebbe ispirarsi alla “vera uguaglianza” dei rigenerati nel Battesimo ex LG n. 32, e la loro
partecipazione fondamentale al triplice ufficio profetico, sacerdotale e regale di Cristo ex LG n. 34-36. Si osserva che
l’organizzazione ecclesiastica richiede molte funzioni pubbliche che non sono necessariamente connesse con la
“potestas ordinis”, per cui LG n. 33 riconosce che i laici possono essere chiamati ad esercitare quaedam munera
ecclesiastica che non si riducono solamente a funzioni secondarie, ma apertura nei diversi campi liturgico,
amministrativo, giudiziale ed anche la predicazione del messaggio evangelico. I vescovi potranno ammettere i laici ad
esercitare uffici ecclesiastici consono alla loro competenza tecnica, insieme ad esemplarità di vita, virtù umane e
dedizione alla missione della Chiesa.
Il codice dovrà lasciare uno spazio di libertà riconoscendo e proteggendo il diritto dei fedeli alla spontaneità apostolica
(AA n. 24), proteggendo altresì il diritto dei laici alla informazione ed alla manifestazione della propria opinione in
conformità ai principi di LG n. 34. Si dovranno incoraggiare le consuetudini orientali, qualche volta immemorabili,
circa la partecipazione dei laici all’amministrazione ecclesiastica ed all’apostolato. E’ raccomandata l’ammissione dei
laici nei tribunali ecclesiastici specialmente dove si possono decidere gli effetti civili del matrimonio secondo gli Statuti
personali delle singole comunità.
Si vedano i c. 400-409 CCEO ed i C. 224-231 CIC. Vi sono problemi relativi ai diversi modi di collaborazione
nell’esercizio della potestà di governo nella Chiesa CCEO c. 979 §2 e CIC 129 §2 (si tenga presente però che sembra
nascere un conflitto in quanto nel CIC c. 274 §1 si parla che gli uffici siano riservato ai soli chierici. Tale canone non ha
corrispondenza nel CCEO).

9) Canoni De processibus. Omogeneizzazione delle norme processuali per tutti i cattolici, assicurando la tutela dei
diritti di ogni Christifidelis, in quanto l’amministrazione della giustizia deve avere piena aderenza alla realtà delle cose,
alle condizioni degli individui ed alla società ecclesiastica. I canoni processuali dovrebbero essere perfezionati con
l’introduzione di quelle modifiche che rispecchino la struttura particolare di queste Chiese con una semplificazione
delle procedure canoniche.
Si desidera che tutti i cattolici abbiano le stesse norme processuali, e che ogni Chiesa possa organizzare i suoi tribunali
in modo da poter trattare le cause in tutte le istanze fino alla sentenza finale (tranne la Provocatio ad Sedem
Apostolicam ex c. 32 SN che è un caso eccezionale e non presenta un vero appello). Il Sinodo patriarcale diverrà un
tribunale per le cause maggiori (salvo il caso del c. 32 SN). Dichiarazione nel diritto canonico del principio della tutela
giuridica che si applichi in modo equanime ai superiori e sudditi eliminando ogni arbitrarietà nell’amministrazione
ecclesiastica. Tale finalità si avrà con l’istituire quei ricorsi in modo tale se qualcuno senta leso il proprio diritto
nell’istanza inferiore, si possa ristabilire in quella superiore. Ordinamento dei tribunali amministrativi secondo gradi e
specie diverse per la difesa dei diritti secondo una propria procedura canonica che sia debitamente seguita presso le
autorità di diverso grado.

10) Canoni De delictis. Fermo restando il potere coattivo della Chiesa, l’orientamento è teso all’abolizione nel codice
Orientale di tutte quelle pene che siano latae sententiae, in quanto non corrispondenti alle genuine tradizioni orientali,
dando maggior rilevanza alla monitio canonica secondo gli antichi canoni prima di procedere a comminare le
sanzioni147. Ancora la proposta è di revisione della nozione di punizione canonica in quanto privatio alicuius boni con la
impositio actus positivi, tanto che si potrebbero chiamare piuttosto paenitentiae (più che poenae) in quanto
corrispondenti all’antica salutare disciplina orientale. Cercare di inserire anche nelle punizioni, l’elemento positivo che
corrisponde più al carattere medicinale delle punizioni canoniche, quasi l’unico riconosciuto nell’Oriente cristiano.

I compiti della PCCICOR consistevano in primo luogo nella revisione dei canoni già promulgati; codificazione
delle parti che mancavano; recezione basale della statuizione ed opera del Vaticano II con l’attenzione alle autentiche
tradizioni orientali; particolare sguardo ai tempi mutati ed ai loro segni; fedeltà alla sana tradizione e sensibilità
all’ecumenismo. Furono redatti vari schemi, che inviati ad organismi centrali della Chiesa, autorità ecclesiastiche
orientali e centri di studio furono pubblicati su Nuntia. Tali schemi vennero riveduti con le risposte da parte degli
organismi consultati e nuovamente pubblicati su Nuntia.
1980 I Schema quale primo progetto dell’intero Codice che termina la prima fase della revisione che vede
impegnati un gran numero di studiosi ed esperti, consultori della Commissione distribuiti in più gruppi di studio.
1980-1984 Consultazione di Vescovi ed Organismi orientali. Circa gli schemi ecco l’ordine dell’invio agli
organismi di consultazione:
“nel mese di giugno 1980 lo Schema dei Canoni sul culto divino e specialmente sui sacramenti; nel mese di dicembre
1980 lo Schema dei canoni sui monaci e su tutti gli altri religiosi, nonché sui membri degli altri istituti di vita

Per quanto riguarda la differenza tra le pene Latae sententiae e Ferendae sententiae si veda J. SANCHIS La legge
147

penale ed il precetto penale, Milano 1993 p. 96 e ss.

58
consacrata; nel mese di giugno 1981 lo Schema dei canoni sull’evangelizzazione delle genti, sul magistero
ecclesiastico e sull’ecumenismo; nel mese di settembre 1981 lo Schema dei canoni sulle norme generali e sui beni
temporali della Chiesa; e lo Schema dei canoni sulle sanzioni penali nella Chiesa; nel mese di novembre 1981 lo
Schema dei canoni sui chierici e sui laici; nel mese di febbraio 1982 lo Schema dei canoni sulla tutela dei diritti o sui
processi; nel mese di ottobre 1984 lo Schema dei canoni sulla costituzione gerarchica delle Chiese orientali”.
(Praefatio, EV n.12, p. 61 e Nuntia n. 19).

1984 - febbraio 1986 si ha la raccolta di proposte ed osservazioni da parte degli organi di consultazione e
preparazione del nuovo testo del Codice. E’ questa la c.d. denua recognitio (denua= de nova, una nuova ricognizione).
Nel mese di giugno 1986 il Coetus de coordinatione (operante dal 1984) coordina gli schemi dell’intero Codice
riunendoli in un unico Schema Codicis Iuris Canonici Orientalis (Cfr. Nuntia 23 p. 115-116). In tale lavoro si unifica la
terminologia ed eliminano le contraddizioni.
“Il compito di questo gruppo era di curare la coerenza interna e l’unità, di evitare le discordanze e le ambiguità, di
ricondurre i termini giuridici, per quanto era possibile, a un significato univoco, di togliere le ripetizioni e le
incongruenze, e inoltre di provvedere all’ortografia e anche all’uso costante della punteggiatura” (Praefatio, EV n. 12,
p. 63).

17 ottobre 1986: Consegna al Sommo Pontefice del Nuovo Schema del Codice: si stabilisce che riveduto viene
inviato e sottoposto ad un rigoroso vaglio dai membri della Commissione: lo schema conta 1561 canoni distribuiti in 30
titoli.
“Le osservazioni dei membri della Commissione, opportunamente ordinate, furono sottoposte all’esame di un gruppo
speciale di studio dei consultori, denominato ‘per l’esame delle osservazioni’, che si è riunito due volte per la durata di
quindici giorni. Compito di questo gruppo era quello di proporre idonei emendamenti al testo dei canoni, valutando
seriamente le osservazioni, oppure, nel caso in cui il testo rimaneva immutato, di esporre le ragioni che consigliavano di
non accettare le osservazioni di cui si trattava. Le osservazioni, assieme ai voti di questo gruppo, raccolte in unico
fascicolo e trasmesse ai membri della Commissione, nel mese di aprile 1988, furono sottoposte all’esame ed al giudizio
dei membri della Commissione nell’Assemblea plenaria della stessa Commissione che si tenne alcuni mesi dopo. Nel
frattempo il ‘gruppo di coordinamento’, che non aveva mai smesso di lavorare, propose parecchi emendamenti da
introdurre nel testo dei canoni, riguardanti per lo più il modo di scrivere; altre cose invece che toccavano la sostanza dei
canoni ritenne che dovevano essere fatte ‘d’ufficio’ per salvare assolutamente la coerenza tra i canoni e per riempire,
per quanto possibile, le ‘lacune del diritto’ con norme adatte. Tutto questo, raccolto insieme e trasmesso ai membri della
Commissione, fu sottoposto al loro giudizio ed esame”. (Praefatio, EV n. 12, p. 64-65).

La definitiva formulazione dei Canoni da parte della Commissione che si riunisce in seduta plenaria nei giorni
3-14 novembre del 1988 approvando lo Schema Novissimum del CCEO.
“L’Assemblea plenaria dei membri della Commissione, convocata per mandato del Sommo Pontefice perché
deliberasse con voto se il testo del Codice revisionato era ritenuto degno di essere consegnato al più presto al sommo
pontefice e di essere promulgato nel tempo e nel modo che gli sarebbe sembrato bene, fu celebrata nella Sala del
‘Bologna’ del Palazzo Apostolico dal 3 al 14 novembre 1988. In questa assemblea si fece una discussione sulle
questioni che erano state proposte su domanda di almeno cinque membri della Commissione. La votazione definitiva
dello Schema del Codice fatta, secondo il desiderio dei membri della Commissione, separatamente sui singoli titoli, ha
avuto questo esito: tutti i titoli hanno ottenuto il gradimento della maggioranza dei membri, per lo più con la quasi
unanimità”. (Praefatio, EV n. 12, p. 65).
Il 28 gennaio 1989 dopo la redazione del III Schema definitivo approvato dall’Assemblea plenaria dei membri
della Commissione, (e dopo una ulteriore revisione dell’intero schema secondo le deliberazioni dell’Assemblea Plenaria
in un ulteriore Coetus de coordinatione nel dicembre 1988), come testo definitivo è consegnato al Pontefice alla fine di
gennaio.
“L’ultimo Schema, emendato secondo il gradimento dei membri della Commissione, e che porta il titolo di ‘Codice dei
Canoni delle Chiese Orientali’, riprodotto in dieci copie con mezzi ‘informatici’, è stato consegnato al Sommo
Pontefice il 28 gennaio 1989 con la richiesta che fosse promulgato”. (Praefatio, EV n. 12, p. 65).
Revisione ulteriore e personale da parte del Pontefice e da pochi esperti di fiducia:
“Il Sommo Pontefice ha poi revisionato personalmente questo ultimo Schema del Codice, con l’aiuto di alcuni esperti e
dopo aver ascoltato il vice-presidente ed il segretario della pontificia commissione per la revisione del Codice di Diritto
Canonico Orientale, ha ordinato di darlo alle stampe e infine, il 1° ottobre 1990, ha decretato che il nuovo Codice fosse
promulgato il 18 dello stesso mese”. (Praefatio, EV n. 12, p. 65).

Quindi 18 ottobre 1990 promulgazione del CCEO da parte del R. Pontefice in quanto legislatore supremo.

59
Il Concilio Vaticano II ha esplicitamente riconosciuto che le Chiese cattoliche d’Oriente e le
Chiese cattoliche d’Occidente hanno il diritto e il dovere di reggersi secondo le proprie discipline
particolari. Di qui deriva la pluralità delle codificazioni. Il Codice orientale non è diviso in libri
come il Codice latino, ma in titoli, e ciò per rispetto delle tradizioni orientali. I canoni sono 1546.
Il Codice orientale conferma l’istituzione patriarcale e sinodale delle Chiese cattoliche orientali e la
parte relativa alla celebrazione dei sacramenti presenta notevoli aspetti disciplinari specifici.

Le Chiese cattoliche orientali

La distinzione tra Chiesa latina e Chiese orientali ha origini storiche. La divisione


dell’impero romano in due parti, occidentale e orientale, voluta da Teodosio nel 395, ha collocato i
patriarcati di Antiochia, Alessandria, Gerusalemme e Costantinopoli nella parte orientale, e Roma
nella parte occidentale. I due gruppi di Chiese si sono sviluppati differentemente per quanto
concerne la liturgia, la spiritualità e la disciplina. La distinzione tra Chiesa d’oriente e Chiesa
d’occidente è diventata vera e propria separazione nel 1054, data generalmente riconosciuta come
fissazione dello scisma tra oriente e occidente.
Ad oggi, caratteristica comune di queste Chiese è la piena comunione di fede e di sacramenti con la
Chiesa di Roma, pur mantenendo molte tradizioni liturgiche e canoniche orientali. Proprio per
questo motivo le Chiese cattoliche orientali vennero definite, con intento denigratorio, “uniate”
dagli ortodossi. Le Chiese “uniate” sono quelle Chiese che seguono il rito bizantino, come gli
ortodossi, ma che hanno deciso di essere in comunione con il Pontefice.
L’esistenza delle Chiese orientali cattoliche ricorda continuamente che la “cattolicità” non si limita
alla sola tradizione latina. Nell’unità dell’unica Chiesa sono presenti più Chiese in comunione tra di
loro. Solo la fede è indivisibile.
Le Chiese cattoliche orientali, in piena unità di fede e in comunione gerarchica con la Sede
apostolica di Roma, sono 21. Queste Chiese fanno riferimenti a diversi riti che hanno origine da
cinque tradizioni o riti differenti:
 Tradizione alessandrina (antico patriarcato di Alessandria): è all’origine della Chiesa
copta cattolica d’Egitto e della Chiesa copta cattolica d’Etiopia;
 Tradizione antiochena (antico patriarcato di Antiochia): è all’origine della Chiesa siriaca
cattolica, della Chiesa siriaca malankarese cattolica (diffusa in India) e la Chiesa maronita
cattolica (diffusa in Libano);
 Tradizione armena: è all’origine della Chiesa armena;
 Tradizione caldea (fondata da Nestorio): è all’origine della Chiesa caldea (diffusa in Iraq) e
della Chiesa caldea del Malabar (molto diffusa in India);
 Tradizione costantinopolitana o bizantina (antico patriarcato di Costantinopoli): è
all’origine di ben 13 Chiese orientali cattoliche. Le principali sono: Chiesa ungherese,
Chiesa melchita, Chiesa rumena, Chiesa russa, Chiesa rutena, Chiesa slovacca e soprattutto
Chiesa ucraina.
Queste 21 Chiese orientali sono Chiese sui iuris. Sono Chiese (o istanze intermedie amministrative)
che hanno uno statuto speciale proprio, per cui differiscono non soltanto dalla Chiesa latina, ma
anche tra di loro. Il canone n. 27 del Codice orientale definisce la Chiesa sui iuris: “un
raggruppamento di fedeli cristiani congiunto dalla gerarchia, a norma di diritto, che la suprema
autorità della Chiesa riconosce espressamente o tacitamente come sui iuris”. Le chiese sui iuris si
dividono giuridicamente in quattro istituzioni: patriarcali, arcivescovili maggiori, metropolitane sui
iuris, le altre chiese sui iuris direttamente dipendenti dalla sede vescovile. Chi decide dove si deve
collocare una chiesa all’interno delle quattro istituzioni? Il Romano Pontefice! E lo decide non in
base ad un suo capriccio ma per il bene della chiesa.

60
Mentre il canone n. 28, sempre del Codice orientale, definisce il rito (o tradizione) così: “Il rito è il
patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per cultura e circostanze storiche
di popoli, che si esprime in un modo di vivere la fede che è proprio di ciascuna Chiesa sui iuris ….
I riti di cui si tratta nel Codice riguardano solo la Chiesa orientale e sono quelli che hanno origine
dalle tradizioni: alessandrina, antiochena, armena, caldea e costantinopolitana”.
Il rito (o liturgia) sono il viso di una chiesa e il responsabile ultimo è sempre e soltato il Vescovo. Il
canone 2, stavolta del Codice delle Chiese latine, non definisce i riti e non contiene il diritto
liturgico ma include canoni connessi con la liturgia. Ad esempio le norme liturgiche non sono
trattate dal Codice ma sono contenute nei Praenotanda dei vari libri liturgici (Messale, Liturgia
delle ore, Cerimoniale, tutti i vari libri dei sacramenti, etc). Il Codice prevale sulle norme dei libri
liturgici e degli altri documenti liturgici solo nel caso che queste ultime siano contrarie ai canoni del
Codice e pertanto debbono essere modificate.

Le Chiese cattoliche orientali secondo la distinzione delle quattro categorie


giuridiche codiciali

Le Chiese patriarcali
1) Chiesa copta, con a capo il Patriarca Alexandrinus Coptorum di tradizione alessandrina
(erezione con Leone XII il 15.08.1924 con Lettera apostolica Petrus Apostolorum Princeps e
ristabilita da Leone XIII il 26.11.1895 con Lettera Ap. Christi Domini). Fedeli 252.790 distribuiti in
sette eparchie, laddove quella patriarcale è Alessandria, ma la residenza del Patriarca è Il Cairo.
2) Chiesa maronita con a capo il Patriarca Antiochenus Maronitarum, di tradizione antiochena
(conferma dal Papa Innocenzo III del 4.01.1216 con la Bolla quia divinae sapientiae del Patriarca
Geremia II Al-Amshiti). Fedeli 3.097.340 distribuiti in 23 eparchie e 2 esarcati patriarcali, laddove
l’eparchia patriarcale si trova a Joubbé-Sarba-Jounieh ed il Patriarca risiede a Bkerké (Libano).
3) Chiesa melkita con a capo il Patriarca Antiochenus Graecorum Melkitarum di tradizione
costantinopolitana, laddove da Cirillo VI (1724-17589) la serie dei patriarchi è ininterrotta. Fedeli
1.342.014 distribuiti in 19 eparchie, 2 esarcati patriarcali, 2 esarcati apostolici e nei territori
patriarcali di Gerusalemme, Egitto e Sudan. L’eparchia patriarcale è a Damasco.
4) Chiesa sira con a capo il Patriarca Antiochenus Syrorum di tradizione antiochena e dal 1783 la
serie dei Patriarchi è ininterrotta. Fedeli 123.668 distribuiti in 9 eparchie, 3 esarcati patriarcali, 1
esarcato apostolico e nel territorio patriarcale del sudan. L’eparchia patriarcale è a Beirut.
5) Chiesa armena con a capo il Patriarca Ciliciae Armenorum di tradizione armena (Benedetto
XIV il 26.11.1742 conferma il Patriarca Abraham Ardzivian, o Abraham Pietro I). Fedeli 368.101
distribuiti in 10 eparchie, 2 esarcati patriarcali, 2 esarcati apostolici e 3 ordinariati. L’Eparchia
patriarcale è a Bairut.
6) Chiesa caldea con a capo il Patriarca Babylonensis Chaldeorum di tradizione Caldea (il Papa
Giulio III il 20.04.1553 conferma il Patriarca Salaqa Ó Simenone VIII). Fedeli 358.682 distribuiti in
20 eparchie e nei territori patriarcali di Gerusalemme e Giordania, laddove l’eparchia patriarcale è a
Baghdad.

Le Chiese arcivescovili maggiori


1) Chiesa ucraina con a capo l’Arcivescovo maggiore Kiivensis et Haliciarum Ucrainorum di
tradizione costantinopolitana eretta in arcivescovado maggiore il 23.12.1963. Fedeli 4.268.577
distribuiti in 22 eparchie, 3 esarcati arcivescovili e 3 esarcati apostolici. L’eparchia
dell’Arcivescovo maggiore è a Kiyv.
2) Chiesa malabarese con a capo l’Arcivescovo maggiore Ernakulamensis – Angamaliensis di
tradizione caldea (eretta Arcivescovado maggiore il 16.12.1992). Fedeli 3.699.142 sono distribuiti
in 26 eparchie e l’eparchia dell’Arcivescovo maggiore è a Ernakulam – Angamaly (India).

61
3) Chiesa malankarese con a capo l’Arcivescovo maggiore Trivandrensis Syrorum
Malakarensium di tradizione antiochena (eretta in arcivescovado maggiore il 10.02.2005) Fedeli
402.702 in 5 eparchie laddove quella dell’Arcivescovo maggiore si trova a Trivandrum (India).
4) Chiesa rumena con a capo il Metropolita Fagarasiensis (18.05.1721) et Albae Iuliensis
Romenorum (16.11.1854) di tradizione costantinopolitana. Fedeli 741.917 sono in 6 eparchie.

Chiese metropolitane sui iuris


1) Chiesa etiopica con a capo il Metropolita di Addis Abeba Neanthopolitanus di tradizione
alessandrina (erezione in metropolia il 20.02.1961). Fedeli 225.224 distribuiti in 6 eparchie.
2) Chiesa rutena degli USA con a capo il Metropolita Pittsburgensis ritus bizantini di tradizione
costantinopolitana (eretta in metropolia il 21.02.1969) di questa fa parte anche l’Eparchia di
Mukacheve (Ucraina) immediatamente soggetta alla Sede Apostolica e l’Esarcato apostolico per i
cattolici di rito bizantino residenti nella Repubblica Ceca. Fedeli n. 597.085 distribuiti in 5 eparchie
ed un esarcato apostolico.
3) Chiesa slovacca costituita secondo l’Annuario Pontificio dalla Sede metropolitana Eparchia di
Presov (22.09.1818), dall’eparchia di Kosice (27.01.1997) ee dall’eparchia di Bratislava (gennaio
2008). L’eparchia di Toronto (03.11.1956) per i fedeli di rito bizantino è immediatamente soggetta
alla Sede Apostolica. Fedeli n. 225.369.
4) Chiesa metropolitana sui iuris eritrea eretta in data 19.01.2015 con sede ad Asmara che è stata elevata ad
Arcieparchia Metropolitana. La nuova Metropolia sui iuris si estende sul tutto territorio Eritreo.

Le altre Chiese sui iuris immediatamente soggette alla Sede Apostolica


1) Chiesa albanese eretta come amministrazione apostolica dell’Albania meridionale (11.11.1939)
con 3.200 Fedeli.
2) Chiesa bielorussa attualmente esiste un visitatore apostolico.
3) Chiesa dei bizantini dell’eparchia di Krizevci (17.06.1777) per i fedeli di rito bizantino.
Secondo l’Annuario Pontificio di essa fa parte anche l’Esarcato apostolico di Serbia e Montenegro
(28.08.2003) per i cattolici di rito bizantino. Fedeli 38.245.
4) Chiesa bulgara costituita da un Esarcato apostolico per i cattolici di rito bizantino slavo
residenti in Bulgaria (31.07.1926) con 10.000 fedeli.
5) Chiesa greca costituita da un Esarcato apostolico ad Atene per i cattolici greci di rito bizantino
(11.06.1932) e secondo l’Annuario Pontificio di essa fa parte anche l’esarcato apostolico di Istanbul
(25.11.1996) con 2.340 Fedeli.
6) Chiesa Italo-albanese costituita secondo l’Annuario Pontificio dalle Eparchie immediatamente
soggette alla Sede Apostolica di Lungo (costituzione 13.02.1919) e Piana degli Albanesi
(26.10.1937) e dal Monastero esarchico di Grottaferrata (26.09.1937) con 61.398 fedeli148.
7) Chiesa macedone costituita da un Esarcato apostolico per i cattolici di rito bizantino residente in
Macedonia (11.01.2001) con 11.398 Fedeli.
8) Chiesa russa esistente formalmente come esarcato apostolico per i cattolici di rito bizantino
(1917) e dall’Esarcato apostolico di Harbin per i Russi di rito bizantino e per tutti i cattolici orientali
della Cina (20.05.1928). Attualmente non vi è un Gerarca.
9) Chiesa ungherese costituita dall’eparchia di Hajdudorog (08.06.1912) e dall’esarcato apostolico
di Miskolc (4.06.1924) con 268.935 fedeli.
10) Chiesa Serba e montenegrina costituita dall’Esarcato ruteno greco-cattolico ddi Serbia e
Montenegro con 37.000 Fedeli (costituiti da Ruteni 80% e da Ucraini 20%) con sede a Nivisad e la
Cattedrale a Ruskikrstur con 5 o 6 parrocchie.

148
L. LAMACCHIA, La Chiesa Italo-Albanese come “Chiesa sui iuris”: una questione aperta, in Nicolaus 35 (2008)
1, p. 171-197.

62
Esistono inoltre 65.000 fedeli distribuiti negli ordinariati latini per i fedeli orientali residenti in
Argentina, Austria, Brasile Francia e Polonia.

63
Natura, struttura ed applicazione: can. 1 CIC e CCEO

CIC 1983 CIC 1917 CCEO MP


can. 1 I canoni di questo Codice
c..1 I canoni di questo Codice c.. 1 Licet in Codice iuris riguardano tutte e sole le Chiese -----
riguardano la sola Chiesa latina. canonici Ecclesiae quoque orientali cattoliche, a meno che,
Orientalis disciplina saepe per quanto riguarda le relazioni
referatur, ipse tamen unam con la Chiesa latina, non sia
respicit Latinam Ecclesiam, espressamente stabilito
neque Orientalem obligat, nisi de diversamente.
iis agatur, quae ex ipsa rei natura
etiam Orientalem afficiunt.

Tutta la normativa canonica contenuta nei canoni del CIC 83 (comprese le risposte
autentiche) riguarda i soli Fedeli ascritti alla Chiesa latina ex can. 111-112 CIC 83. Si parla di
Ecclesia latina che in base ai can. 112-113 CIC 83 deve essere individuata ed identificata come
Ecclesia ritualis sui iuris. Nel CIC non compare una vera e propria definizione di Chiesa sui iuris
per cui anche per la Chiesa latina si ricorre al ca. 27-28 CCEO.
L’ascrizione ad una Ecclesia ritualis sui iuris (= di diritto proprio) attribuisce il diritto ad
ogni fedele di rendere culto a Dio secondo il proprio rito.
L’ascrizione originaria avviene con il Battesimo (can. 111 §1 CIC): a) di entrambi i genitori; b)
con la concorde volontà degli stessi; c) il Battesimo di un minorenne sotto i 14 anni (si veda il c.
852 CIC dove il minorenne viene equiparato all’adulto).

Il Codice per le Chiese orientali cattoliche è titolato CCEO 149.


La Costituzione apostolica di promulgazione inizia con le parole Sacri canones sottolineando e ponendo la nuova normativa canonica secondo la linea
della disciplina antica delle Chiese orientali. Riprendendo le parole del Conclio di Nicea II can. 1 si afferma che: “...Gli autori nei sacri canoni
illuminati...da un solo e medesimo Spirito stabilirono quanto era vantaggioso per noi”.
Ecco che la nuova titolazione CCEO vuole in primo luogo a) sgombrare il campo dall’idea che il CCEO sia un’appendice del CIC 1983; b)
evidenziare una congruenza con le collezioni canoniche antiche orientali; c) rispecchiare la considerazione nella quale sono tenuti i Sacri canones150;
d) elemento di futura unione ecumenica151.
L’articolazione del CCEO è in Titoli (titulus in latino e tivtloò in Greco) mentre l’ordine sistematico del CIC 1983 e del CIC 1917 è in Libri (5 libri
CIC 1917 e 7 libri CIC 1983) nel rispetto della specificità delle Tradizioni Orientali tra le quali è espressa la struttura delle collezioni canoniche 152. Si
noti però che il CCEO segue una propria strada e non le collezioni antiche.
Il CCEO ha avuto presente le classiche collezioni canoniche come il Syntagma di Giovanni Scolastico Patriarca di Costantinopoli dal 565-577, diviso
in 50 titoli e pure il Nomocanon XIV titulorum dell’889 attribuito al Patriarca Fozio153.
Titolo non significa capitoli o intitolazione circa gli argomenti trattati, ma ha un significato di unità tematiche nell’ordine teologicamente coerente,
logico e sistematico154.
Il CCEO è diviso in 30 Titoli e comprende 1546 Canoni (il CIC 1752) con tale ordine delle materie:
6 canoni preliminari;
Titolo I con diritti ed obblighi fondamentali per tutti i fedeli cristiani 155 per mettere in risalto prima di ogni altro ius i diritti comuni dei battezzati (c.
7-26 corrispondenti ai c. 204-223 CIC).
Titoli II e III: sezione circa le norme generali del diritto quale base necessaria per il funzionamento delle istituzioni e funzioni ecclesiastiche. Infatti il
Titolo II riguarda i fedeli non come soggetti individuali ma appartenenti ad un corpus Ecclesiasticum che non è solamente la Chiesa universale ma qui
anche la Chiesa particolare e come dice il CCEO Chiesa sui iuris (c. 24-41). Il Titolo III riguarda la suprema autorità della Chiesa (c. 42-54 e C. 330-
341 e 361 CIC).

149
F.R. Mc MANUS, The Code of Canons of the Eastern Churches in The Jurist 53(1993), p. 22-61.
150
Tali erano le considerazioni del Card. Sincero ne l1932 e riportate in Nuntia 28(1989) p. 13, anche se G.
NEDUNGATT, Il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, in La civiltà Cattolica 1992 n. 1, p. 133-142 sollevi molte
riserve.
151
P. GEFAELL, Rapporti tra i due ‘Codici’ dell’ unico “Corpus Iuris Canonici”, in AA. VV., Metodo, fonti e soggetti
del Diritto canonico )a cura di J.I. Arrieta e G. P. Milano), Città del Vaticano 1999, p. 654-669.
152
Nuntia 28 (1989), p. 11.
153
D. SALACHAS, Nomocanone in XIV titoli, in AA. VV., Dizionario enciclopedico dell’Oriente cristiano, Roma
2000, p .534-535.
154
Cfr. G. NEDUNGATT, Presentazione del CCEO, in EV, XII, p. 897.
155
Cfr. Nuntia 26(1988), p. 99.

64
Circa l’ordine sistematico delle materie non si è entrati nella controversia se fosse conforme alla Tradizione dell’Oriente la divisione del Codex in
Persone, cose ed azioni come il CIC 1917 (conformemente ad alcuni Codici civili europei quali il C.C. Italiano del 1865), oppure nella divisionalità
delle funzioni della Chiesa, tria munera Ecclesiae come il CIC 1983 o in Fede, Sacramenti e Gerarchia 156 superando in fatto tali divisioni e
procedendo secondo titoli giustapposti ad immagine delle antiche collezioni canoniche.
Titoli IV e V riguardano le Gerarchie che specificano le Chiese orientali secondo le caratteristiche di autogoverno ed autonomia.
Titoli VII e X riguardano i Vescovi ed il Clero, mentre nel seguito rientrano le associazioni dei fedeli cristiani, l’evangelizzazione, il magistero
ecclesiastico, i Sacramenti, l’ecumenismo, le leggi, il diritto processuale e penale, infine le norme giuridiche.
Il CCEO non contiene nessun canone che riguardi il Sinodo dei Vescovi della Chiesa universale, i Cardinali, la Curia Romana ed i Legati
pontifici, il tutto incluso nel c. 46 (CS c.175).
Circa la lingua si noti che il latino come lingua autentica ed originale è usata nel CCEO come nel CIC e nei documenti del Concilio
Vaticano II. Tra le proposte si riteneva potesse essere ideale una lingua orientale quale il Greco ma fu ritenuta non essere funzionale e troppo
ristretta157. D’altra parte anche la lingua latina non era conosciuta dai cattolici orientali tanto che si è dovuti ricorrere alla traduzione in lingua
moderna (il valore di tali traduzioni non è autentico e la loro autorità è solamente privata).
Essendo la lingua latina ufficiale nella Chiesa ecco che necessita una conoscenza della stessa per poter divenire operatori del diritto, di più anche per
lo studio comparativo dei Codici nel Corpus iuris Ecclesiae.

Il diritto ed il dovere di reggersi secondo proprie discipline particolari comporta un’insieme di diritti-doveri per le Chiese Orientali
Cattoliche che, salva la suprema autorità del R. Pontefice e del Concilio Ecumenico, dà la possibilità di esercitare la potestà legislativa,
amministrativa-esecutiva e giudiziale secondo una propria peculiare normativa canonica.

Il can. 1 del CCEO così recita: “I Canoni di questo Codice riguardano tutte e sole le
Chiese orientali cattoliche, a meno che, per quanto riguarda le relazioni con la Chiesa latina, non
sia espressamente stabilito diversamente” (si veda la corrispondenza con il can. 1 del CIC 1983 che
così recita: “I canoni di questo Codice riguardano la sola Chiesa latina”)158.
Emerge chiaramente l’efficacia limitata dei canoni solamente per le Chiese Cattoliche
Orientali escludendo la vincolatività per le Chiese Orientali Ortodosse non in piena comunione con
la Chiesa cattolica (queste non posseggono un codice comune che sia completo e moderno), e così
pure la restrizione per la Chiesa Latina. Il CCEO usa l’avverbio expresse o espressamente che nella
dogmatica giuridica si oppone a tacito, tacitamente.
Ciò che è espresso risulta in maniera positiva, certa, formale, da parole o scritto oppure segni
equivalenti (mentre tacito è ciò che appare silenziosamente da parole o fatti il cui significato non è
chiaro). Ciò che è espresso può essere tale in modo esplicito o implicito (ecco che tutto ciò che è
esplicito è espresso, ma non tutto ciò che è espresso è esplicito). Ecco che quando si parla di
espresso questo vale sia per l’espresso esplicito come per l’espresso implicito (non vale però per il
tacito o presunto)159.
Occorre notare che la formulazione del can. 1 del CCEO sia alquanto cauta rispetto al CIC e
stabilisca un riferimento, delimitato dall’avverbio expresse, alle relazioni con la Chiesa Latina. La
Chiesa Latina è esplicitamente menzionata nei cann. 37, 41, 207, 322, 432, 696, 830, 916, 1465. (Si
noti come la Chiesa Latina non sia definita come sui iuris ma sembrerebbe possa ritenersi tale in
obliquo soprattutto ecclesiologicamente e canonicamente ex LG n. 23, 13, OE n. 2, 3, 5, e UR n.
14,16, tale argomento verrà affrontato in seguito).
Esistono altri canoni nei quali sebbene la Chiesa Latina non sia nominata espressamente è ritenuta
quale Chiesa sui iuris diversa dalla tipologia del CCEO can. 176, ne sia coinvolta si veda per
esempio il c. 193 o expresse o implicite, c. 29-41; ancora altri canoni richiedono un’unità di azione
pastorale ex c. 84 §1; 1013 §2; 1405 §3; 517 §2; 451 etc.
Ancora, vi sono canoni in comune nonché identici ad entrambi i codici circa la suprema autorità
della Chiesa: can. 42 e can. 330 CIC; can. 43 e can 331 CIC.
Viene ribadita altresì in tale parte la costituzione comunionale della Ecclesia Universa con
le Chiese dell’Oriente ed Occidente che possono reggersi secondo una propria normativa, ma che
nel contempo formano l’ una et unica Ecclesia Christi ribadito nel c. 7 §2 e can. 204 §2 CIC.

156
Si veda Nuntia 19(1984), p. 3-4.
157
A proposito delle problematiche e mancanza di omnicomprensività orientale della sola lingua greca, si vedano
daultimo: G. PODSKALSKY, A proposito dei rapporti tra Cattolici e Ortodossi, in La Civiltà Cattolica (2000) III, p.
222-234; F.S. CUCINOTTA, Teologia e Teologie orientali, in Hth 15(1997), p. 379-397.
158
L. LORUSSO, L’ambito di applicazione del Codice dei Canoni delle Chiese orientali. Commento sistematico al can.
1 del CCEO, in Angelicum 82(2005) p. 451-478.
159
Così CHIAPPETTA L., Il Codice di Diritto Canonico: Commento giuridico-pastorale, Vol. I, Napoli 1988, nota 4.

65
CHIESA UNIVERSALE E CHIESA PARTICOLARE

Chiesa particolare – Chiesa universale


Lumen Gentium (assieme alla Dei Verbum tocca l’apice della autorevolezza magisteriale).
Nella sezione relativa ai Vescovi, cap. III n. 18-29 quale corpo collegiale (n. 18-23), risalta LG n.
23 :
“L’unione collegiale appare anche nelle mutue relazioni dei singoli Vescovi con le Chiese
particolari e con la Chiesa universale. Il Romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo
e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli. I
Vescovi invece, singolarmente presi, sono il principio visibile e il fondamento dell’unità nelle loro
Chiese particolari, formate ad immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali
esiste la sola ed unica Chiesa cattolica (in quibus et ex quibus una et unica Ecclesia catholica
existit). Perciò i singoli Vescovi rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme con il Papa
rappresentano tutta la Chiesa nel vincolo di pace, di amore e di unità”.

L’unità ecclesiale è fondata sulla communio Ecclesiarum (AG 19,3) e l’essenza strutturale del
mistero della Chiesa è dell’immanenza reciproca e totale della Chiesa universale nella e dalle
Chiese particolari160. Ecco che la Chiesa non deve essere intesa nell’unità costituita da un insieme di
distretti amministrativi, con a capo i Vescovi o una configurata quale confederazione ecclesiale
come insieme di varie Chiese particolari. La communio Ecclesiarum è metodo caratteristico, unico e
proprio della Chiesa laddove le membra sono compiute e completate in un’unicità, a livello
giuridico – costituzionale è la chiave di volta di tutta l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II
operandosi una vera e propria “svolta copernicana”.
Tale essenza strutturale viene colta dalla formula che secondo taluni è geniale: in quibus et ex
quibus di LG 23,1 che caratterizza la Chiesa particolare come elemento fondamentale della
struttura ecclesiastica fondata sul diritto costituzionale divino, stabilendo nella communio delle
Chiese particolari il principio della struttura ecclesiale che è inderogabile e legge costitutiva
fondamentale della Chiesa161.
Tre sono i significati di questa formula sintetica:

160
AYMANS W., Diritto canonico e comunione ecclesiale. Saggi di diritto canonico in prospettiva teologica, Torino
1993, p. 6 e ss. Per quanto riguarda la terminologia ci si riferisce sicuramente a raggruppamenti di chiese, usando
ultroneamente espressioni quali: Ecclesia Latina o Ecclesia occidentis contrapposta as Ecclesiae orientales o
patriarchales oppure la formula Ecclesiae tum Orientis tum Occidentis. M. VISIOLI, Il diritto della Chiesa e le sue
tensioni alla luce di un’antropologia teologica (Tesi Gregoriana, Serie Diritto Canonico, 36), Roma 1999; J.A.
RENKEN, Particular Churches and the Autority Established in Then, Commentary on Canons 368-430, Ottawa 2011.
161
MÖRSDORF K., L’autonomia della Chiesa locale, in Ephemerides Iuris Canonici 26(1970), p. 324-345.

66
a) La Chiesa universale non esiste per se stessa, quasi possedesse una consistenza ed un luogo di
insediamento proprio, ma esiste e si concretizza laddove essa si realizzi in una o più Chiese
particolari (nei secoli successivi);
b) La Chiesa universale è formata da tutte le Chiese particolari e perciò non è una realtà astratta,
ma storicamente concreta, che coincide di fatto con tutte le Chiese particolari esistenti;
c) In ogni Chiesa particolare sono ontologicamente presenti tutte le altre Chiese particolari
attraverso la mediazione della Chiesa universale da esse costituita162.
Come l’unicità di Dio è conoscibile solo attraverso la trinità delle Persone, analogamente
l’universalità della Chiesa può realizzarsi solo attraverso la pluralità delle singole Chiese. Tutto
questo significa che la Chiesa universale e la Chiesa particolare non sono due realtà materiali
diverse e separabili, ma la formula conciliare in quibus et ex quibus impone di considerarle come
due dimensioni formali di un’unica realtà che è la Chiesa di Cristo.
Se da una parte la Chiesa universale è pienamente Chiesa solo se le Chiese particolari non sono
uniformate, ma manifestano un’effettiva pluralità, dall’altra le Chiese particolari a loro volto sono
veramente Chiesa solo se concepiscono le loro particolarità all’interno dell’universalità della
communio Ecclesiarum. Affinché ciò avvenga è necessario il riconoscimento da parte del Romano
Pontefice o del Collegio dei Vescovi dell’esistenza della “plena communio”163.
Nel prosieguo dell’immagine della Chiesa come corpus Christi il Pontefice e la comunione con lo
stesso è costitutiva per l’unità dei Vescovi e dell’intero Popolo di Dio, per l’unità delle Chiese
particolari e della Chiesa universale. Anche il Vescovo eparchiale se da una parte diviene elemento
di coesione e di unità di una parte del Popolo di Dio, è altresì elemento costitutivo della rispettiva
Chiesa particolare164.
Nella parte finale relativamente all’episcopato inteso in modo c.d. orizzontale (in quanto
rappresentanti delle loro Chiese e non solamente dall’alto. In tale parte vi è un tono che
sembrerebbe dimesso o quasi esortativo-pastorale, ma con grande valore ecclesiologico rilevante
per la nostra materia):
“Per divina Provvidenza è avvenuto che varie Chiese, in vari luoghi fondate dagli Apostoli e dai
loro successori, durante i secoli si sono costituite in molti gruppi organicamente uniti, i quali, salva
restando l’unità della fede e l’unica divina costituzione della Chiesa universale, godono di una
propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un patrimonio teologico e spirituale proprio.
Alcune fra esse, soprattutto le antiche Chiese patriarcali, quasi matrici della Fede, ne hanno
generate altre che sono come loro figlie, con le quali restano fino ai nostri tempi legate da un più
162
L. GEROSA, Chiesa universale – Chiese particolari. Profili canonistici di un rapporto di reciproca immanenza, in
Rivista Teologica di Lugano 3(1998), p. 633-643.
163
L. GEROSA, p. 636-637.
164
Si veda AYMANS W., p. 3 e ss.

67
stretto vincolo di carità nella vita sacramentale e nel mutuo rispetto dei diritti e dei doveri . Questa
varietà di Chiese locali, fra loro concordi, dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della
Chiesa indivisa”.

Risulta importante tale passo in quanto ex c. 6 e 7 del primo concilio di Nicea nel 325 si
evidenziano i fondamenti canonico-ecclesiastici delle istituzioni delle antiche Chiese patriarcali.
Can. VI “Della precedenza di alcune sedi e dell’impossibilità di essere ordinato vescovo senza il
consenso del metropolita. In Egitto, nella Libia e nella pentapoli sia mantenuta l’antica
consuetudine per cui il Vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province, come è
consuetudine anche per il vescovo di Roma. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano
conservati alle chiese i loro privilegi. Inoltre sia chiaro che, se qualcuno è divenuto vescovo senza il
consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba essere vescovo.
Qualora poi due o tre, per questioni loro personali, dissentano dal voto ben meditato e conforme alle
norme ecclesiastiche degli altri, prevalga la maggioranza”.
Can. VII “Del Vescovo di Gerusalemme. Poiché è invalsa la consuetudine e l’antica tradizione che
il Vescovo di Gerusalemme sia onorato, egli riceva tutto quanto questo onore comporta, salva la
dignità propria della metropoli”.

Viene risaltato non la volontà espressa fondazionale di Cristo ma una disposizione della Divina
Provvidenza. Ne nasce un criterio che fa riferimento alle sedi episcopali fondate secondo tradizione
dagli Apostoli o da uno dei loro cooperatori immediati. Tale suddivisione non intacca in alcun
modo sia l’unità della Fede come l’unità ed universalità della Chiesa. anzi, tale accenno relativo alle
forme storiche della collegialità solleciterà una creatività comunionale per il futuro.
Per quanto riguarda la terminologia si nota una continua evoluzione, in quanto si parla di
Patriarchales Ecclesiae e di Ecclesiarum localium in unum conspirans varietas che si riferiscono
ad un contesto dei coetus organice coniuncti delle diocesi (= eparchie) orientali. Queste locuzioni
corrispondono molto bene alle concezioni orientali (soprattutto la seconda: Ecclesiae locales) che
però difficilmente divengono di uso ben difficoltoso in quanto strettamente territoriale. Si usa anche
l’espressione Ecclesiae particulares che in LG (tranne l’eccezione in LG n. 13) ed in CD che
designa le diocesi ed eparchie.
Risalta anche LG n. 13 relativo alla cattolicità come unità nella e dalla pluralità secondo
l’orizzonte della varietas:
“Così pure, nella comunione ecclesiastica vi sono legittimamente della Chiese particolari, che
godono di proprie tradizioni, rimanendo integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede

68
alla comunione universale della carità, tutela le varietà legittime, e insieme veglia affinché ciò che è
particolare non solo non nuoccia all’unità, ma piuttosto le serva. E infine ne derivano, tra le diverse
parti della Chiesa, vincoli di intima comunione circa le ricchezze spirituali, gli operai apostolici, gli
aiuti materiali”.

In tale parte della LG si è notata quella apertura, disponibilità e consapevolizzazione circa la


varietas Ecclesiarum toccando gli impianti culturali della Fede e della tradizione della Chiesa. E’ in
questa parte che si parla per la prima volta di Chiese particolari in senso stretto facendo riferimento
alle “proprie tradizioni” e la costituzione di “varietà legittime”.
Si noti come in tale parte la terminologia faccia eccezione a LG n. 23: l’espressione Ecclesiae
particulares si riferisce ai coetus delle diocesi o eparchie orientali, si potrebbe dire alla stessa
varietas Ecclesiarum sui iuris. L’ultima frase ricalca ciò che è stato detto in OE n. 3 quando si dice:
“varietas in Ecclesia nedum eiusdem noceat unitati, eam potius declaret”.

Vi sono undici principi che regolano la vita della Chiesa universale:

1) Principio della romanità.

2) Principio della sua origine divina, attraverso Pietro la Chiesa ritiene suo fondamento Gesù Cristo Figlio di Dio
incarnato, morto e risorto ed asceso al cielo, Capo di tutti i credenti.

3) Principio della visibilità di questa origine divina: la visibilità dell’origine divina della Chiesa si materializza
attraverso il Romano Pontefice, Vicario di Cristo nella storia e nella società umana.

4) Principio della soprannaturalità della Chiesa: per la sua origine e per i suoi fini che la Chiesa si propone ( salus
animarum) ed i mezzi che utilizza (Parola, Sacramenti, carismi, riti).

5) Principio della unicità della Chiesa: anche se divisa si ritiene unica e la sola, fondata da Cristo.

6) Principio della necessarietà della Chiesa: indispensabile e necessaria affinché l’uomo si possa salvare (extra Ecclesia
nulla salus).

7) Principio della indefettibilità della Chiesa: a) come perpetua durata; b) immutabilità del dogma, immutabilità
dottrinaria anche attraverso le modifiche della sua costituzione materiale.

8) Principio dell’infallibilità della Chiesa: non è soggetta ad errori nella sua missione docente e nei suoi insegnamenti
sulla fede e sui costumi (pur con le modifiche della realtà della storia).

9) Principio della perfezione: la Chiesa è una societas giuridica perfecta originaria (i suoi principi non derivano da
nessun ente storico) e sovrana165.

165
R. MINNERATH, Le Droit de l’Église à la liberté, Du Syllabus à Vatican II, Paris 1982.

69
10) Principio della presenza all’interno della Chiesa di un ordinamento giuridico organico e gerarchico.

11) Principio della complessità: cioè la Chiesa è intesa come società complessa composta da innumerevoli persone
giuridiche, enti e regolamenti, oltre che un infinito numero di persone fisiche 166.

Fine della Chiesa ------------ Salus animarum


Mezzi utilizzati -------------- Sacramenti ------ Caritas
Locus ------------------- Communio.

Le Chiese sui iuris ed i Riti, can. 27-28 CCEO


Il c. 27 CCEO dà una definizione piena e completa relativa alle Chiese sui iuris secondo gli elementi
essenziali ponendo tuttavia alcuni ulteriori requisiti e peculiarità 167 specificando programmaticamente e mettendo le basi
definitorie delle Chiese Orientali. Il Supremo legislatore usando l’espressione Ecclesia sui iuris 168 pone l’accento ad
una Chiesa di diritto proprio ed autonoma, anche se richiede come per altre formazioni ecclesiali alcuni elementi
essenziali c.d. interni o propri:
a) Comunità di Fedeli cristiani e raggruppamento degli stessi (coetus Christifidelium) quale entità giuridico-ecclesiale
specificata nell’ambito della Chiesa universale, caratterizzata e per lo meno in qualche modo definita e definentesi
(elemento personale).
b) Organi di governo, gerarchia propria che congiunge questa comunità di fedeli a norma del diritto. La gerarchia
come soggetto affidatario della cura pastorale con un Ordinario coadiuvato dal suo presbiterio: è questo l’elemento di
governo. Tali elementi nella loro coesione giuridica (ad normam iuris), pongono un riconoscimento come base
costitutiva della Chiesa sui iuris stessa169. La soluzione organizzativo strutturale che ridonda nei rapporti tra funzioni
pastorali e necessità o disponibilità di un servizio o cura spirituale, secondo un insieme di relazioni giuridicamente
rilevanti all’interno dell’unità ecclesiale sui iuris. Da un altro lato puramente di diritto canonico amministrativo la
gerarchia propria è un’unità organizzativa come struttura destinata allo svolgimento di una funzione pastorale entro la
quale agisce un modello giuridicamente rilevante con cui sono determinate le modalità di distribuzione e di
partecipazione degli officia all’esercizio del potere.

166
Si veda A. PIOLA, Chiesa, in Novissimo Digesto Italiano, III, 1959, rist. 1981, p. 183.
167
Per quanto riguarda il lavoro di codificazione, si veda la relazione di E. JARAWAN, Les Canons des rites orientaux,
in Nuntia 3(1976) p. 44-49; 19(1984) p. 20 e ss; 25(1987) p. 5 e ss; 28(1989) p. 18 e ss. G. NEDUNGATT, Ecclesia
universalis, particularis, singularis, in Nuntia 2(1974) p. 75-85; I. ŽUŽEK, Le “Ecclesiae sui iuris” nella revisione del
Diritto Canonico, in AA. VV., Vaticano II: bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987), II, Assisi 1987,
p. 869-882; M. BROGI, Le “Chiese sui iuris” nel “Codex Canonum Ecclesiarum orientalium”, in Revista Española de
Derecho Canonico 48/2(1991), p. 517-544; G. NEDUNGATT, Ecclesiology and Hierarchical Structure, in AA. VV.,
The Spirit of the Eastern Code, Bangalore 1993, p. 85-100. La problematica delle Chiese sui iuris è stata studiata
recentemente in AA. VV., Le Chiese “sui iuris”. Criteri di individuazione e delimitazione, Venezia 2005. V.
PARLATO, Concetto e “status” di “Ecclesia sui iuris”. Rito, struttura ecclesiale, pluralità di tipologie, in Nicolaus
35(2008)2, p. 131-156.
168
Si ricorda, come detto sopra che la locuzione sui iuris è tratta dal c. 303 §1 PAL (laddove si parlava di ritus sui iuris)
e non crea nessun problema in quanto si tratta di un’autonomia non assoluta ma ben delimitata dal diritto stabilito
dall’autorità suprema il Romano Pontefice ed il Collegio dei Vescovi. Persona giuridica, soggetto di diritti e doveri è la
Chiesa sui iuris e non il rito che è uno degli elementi e prerogative della Chiesa sui iuris stessa. Si veda: A.
VALIYAVILAYIL, The nature of “sui iuris” Church, in AA. VV., The Code of the Canonons of the Eastern Churches,
Alwaye 1992, p. 57-90.
169
Tali elementi sono pure alla base per identificare la Chiesa particolare. Circa l’identificazione in senso stretto tra la
Chiesa sui iuris (con connotazione più ampia) e la Chiesa particolare: P. GEFAELL, Le Chiese ‘sui iuris’:
‘Ecclesiofania’ o no?, in AA.VV., Le Chiese ‘sui iuris’ criteri di individuazione e delimitazione, Venezia 2005, p. 7-26;
S. KOKKARAVALAYIL, The Guideline ‘Riti e Chiese particolari’ Applied in CCEO. History and Appraisal, in AA.
VV., Le Chiese ‘sui iuris’, p. 27-40. P. SZABO, Ancora sulla sfera dell’autonomia disciplinare dell’ ‘Ecclesia sui
iuris’, in Folia Canonica 6(2003) p. 157-213 (Tale testo appare più completo di quello letto nel Convegno: Le Chiese
‘sui iuris’ criteri di individuazione e delimitazione).

70
c) Riconoscimento espresso o tacito da parte della Suprema autorità della Chiesa, il Romano Pontefice ex c. 42-54 ed il
Concilio Ecumenico quale elemento che incide in modo esterno o formale. Tale riconoscimento seppure inserito come
ultimo nell’elencazione codiciale è un elemento che rende certa, sicura e precisa una situazione giuridica stabilizzandola
a fronte della Chiesa universale. In tale ambito necessita quindi una manifestazione di volontà nel caso il
riconoscimento sia espresso o risultante da fatti concludenti nel caso sia tacito. Tale ultimo caso porterà ad
un’attestazione dell’esistenza di una situazione di fatto e di diritto che riguardi la Chiesa sui iuris tacciando eventuali
contestazioni in atto170.
d) Il Ritus è un elemento essenziale esterno ed ulteriore inerente la Chiesa sui iuris. Ritus proprio quale patrimonio
liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per storia e cultura esprime il modo di vivere la fede di questa
comunità orientale. Tale parte, secondo una lettura che rimane alquanto articolata è stata definita, approfondita e
chiarificata nel c. 28.

Elementi essenziali perché si possa parlare di Chiesa cattolica e Chiesa sui iuris
Perché si possa parlare di Chiesa cattolica (nella comunione cattolica o ecclesiastica) sia a livello universale,
particolare e locale, o sui iuris si richiedono i seguenti elementi essenziali:
1) Popolo di Dio costituito attraverso il Battesimo (che costituisce i Fedeli ed il Popolo di Dio 171;
2) Organica differenziazione dei Christifideles per i doni gerarchici e carismatici dati agli stessi dallo Spirito Santo (LG
n. 4,12,13; AG n. 4; GS n. 32; c. 7 e c. 11);
3) Accettazione di tutto l’ordinamento della Chiesa visibile e di tutti i mezzi della salvezza in essa istituiti. Tra questi
eccellono la Proclamazione della Parola ed i Sacramenti, soprattutto l’Eucarestia;
4) Piena comunione: unione con Cristo nella Chiesa visibile nei vincoli a) Professione di Fede (Credo); b) sacramenti;
c) Governo ecclesiastico; ex c. 8.
5) Governo del Romano Pontefice e Vescovi (LG n. 9,14; OE n. 2; AG n. 6, c. 7).

La Chiesa è unica nei suoi elementi essenziali ma varia se si considera negli elementi accidentali. Tali ultimi elementi
accidentali specifici determinano le differenze avendo però sempre presente come riferimento l’elemento personale che
è la comunità (in genere legato all’elemento territoriale ma non necessariamente ed all’elemento della cultura), ed
all’elemento di governo quale la Gerarchia che nella persona che presiede fa essere nella comunione cattolica o
ecclesiastica.

La Chiesa Latina è (deve essere considerata) una Chiesa sui iuris


Parlando della varietas Ecclesiarum della Una, Sancta, Catholica et Apostolica Ecclesia anche la Chiesa
Latina sembra rientrare in tale varietas. Ecco che nulla si oppone a che oltre le altre 22 Chiese sui iuris si aggiunga
anche la Chiesa Latina che di fatto diviene la 23.
In primo luogo si ha come fondamento di tale asserzione il c. 1 CIC che ci fa conoscere che nella Chiesa cattolica oltre
a quella Latina vi sono altre Chiese alle quali si riferiscono altri 18 canoni (anche se la terminologia parla ancora di
ritus ed il c. 111 §2 e 112 di Ecclesia ritualis). L’autodefinizione della Chiesa Latina come una delle Ecclesiae rituales
sui iuris è supposta in quanto non viene affermato in modo recto o diretto172, ma in modo obliquo secondo la lettera dei
can. 111 e 112 CIC. Ancora, anche se la Chiesa Latina possiede una propria disciplina canonica regolata dal CIC 83,
rientra in tale contesto di Chiesa sui iuris. Si ricorda che vari sono stati i motivi che hanno consigliato la redazione di un
Codice solamente per la Chiesa Latina, in primo luogo la motivazione che il Capo è lo stesso Vicario di Cristo, Vescovo
di Roma successore dell’Apostolo Pietro nel primato sulla Chiesa universale.
Non per questo la Chiesa Latina può in alcun modo essere assimilata neppure per analogia ad una Chiesa Patriarcale
orientale, in quanto stante la sua figura giuridica unica. Pur prescindendo da quello che era il titolo “Patriarca
d’Occidente” è impossibile assimilare anche solamente per analogia la Chiesa latina a qualsivoglia Chiesa patriarcale o
ad altra figura giuridica di Chiesa orientale sui iuris. Infatti il sommo Pontefice che è Capo e Vescovo di Roma,
successore di S. Pietro ha un potere primaziale che non è ius humanum e quindi limitato o limitabile da eventuali corpi
collegiali. Ecco quindi la necessità, per natura rei di dotare la Chiesa Latina di un CIC a sé stante, mentre negli altri casi
la normativa canonica delle altre Chiese sui iuris è stata riunita in un Codice a parte. In tale ultimo documento i poteri
provenienti dallo ius ecclesiasticum, quali il potere sopraepiscopale o personale, condizionato più volte ad validitatem,
sia collegiale secondo le competenze legislative, amministrative e giudiziarie 173.
170
A. COUSSA, Epitome praelectionum de Iure ecclesiastico Orientali, I, Città del Vaticano 1940, p. 45. Nella
discussione se il riconoscimento sia un atto costitutivo o di natura meramente ecclesiale (di buon governo ecclesiale)
sembra debbasi accogliere la seconda ipotesi a fronte del chiaro dettato canonico laddove è riservata alla Sede
Apostolica anche l’eventuale revocabilità.
171
LG n. 10, 11; AG n. 6; c. 7 CCEO.
172
Come si affermava invece nel c. 2 §2 della LEF in Communicationes 1(1980), p. 31.
173
Cfr. ŽUŽEK, Presentazione del “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, in Monitor Ecclesiasticus 1990, p. 591-
612.

71
Si può dire che la figura giuridica della Chiesa Latina è fondamentalmente la stessa che era propria della
Chiesa universale ai primordi con il Pontefice successore di Pietro ed i Vescovi successori degli Apostoli senza alcuna
autorità intermedia sorta in seguito nell’Oriente e riconosciuta dalla suprema autorità quali le Chiese sui iuris. Ecco che
ogni potere sopraepiscopale nella Chiesa appartenente alla suprema autorità del Pontefice e del Concilio ecumenico ed
ogni ultronea autorità e poteri dei Capi delle Chiese sui iuris e dei Sinodi o Consilia Herarcharum derivino da quella.
In tal modo si può affermare in senso lato ed ampio che tra le Chiese sui iuris vi sia quella Latina, retta da un suo CIC
(non a statuto speciale oppure a statuto Ponteficele...).
Ancora a favore dell’affermazione che la Chiesa latina sia da annoverare tra le Chiese sui iuris lo di desume da
un insieme di canoni, laddove parlando dei rapporti intraecclesiali con la formula etiam Ecclesiae l.atinae si affianca
esplicitamente alle strutture amministrative intermedie della Chiesa.
I canoni in questione sono:
can. 1 CCEO: i canoni di questo Codice riguardano tutte e sole le Chiese orientali cattoliche, a meno che, per quanto
riguarda le relazioni con la Chiesa latina, non sia espressamente stabilito diversamente.
can. 37 CCEO: ogni ascrizione a una Chiesa sui iuris o passaggio a un’altra Chiesa sui iuris sia annotato nel libro
dei battezzati della parrocchia anche, se è il caso, della Chiesa latina, dove è stato celebrato il battesimo; se invece non
lo si può fare, si annoti in un altro documento da conservare nell’archivio parrocchiale del parroco della propria Chiesa
sui iuris alla quale è stata fatta l’ascrizione.
can 41 CCEO: i fedeli cristiani di qualsiasi Chiesa sui iuris, anche della Chiesa latina, che per ragione di ufficio, di
ministero o di incarico hanno relazioni frequenti con i fedeli cristiani di un’altra Chiesa sui iuris, siano formati
accuratamente nella conoscenza e nella venerazione del rito della stessa Chiesa, secondo l’importanza dell’ufficio, del
ministero o dell’incarico che adempiono.
can. 207 CCEO: il Vescovo eparchiale di qualunque Chiesa sui iuris, anche della Chiesa latina, in occasione della
relazione quinquennale, informi la Sede Apostolica sullo stato e le necessità dei fedeli cristiani che, anche se ascritti a
un’altra Chiesa sui iuris, sono affidati alle sue cure.
can. 322 §1 CCEO: dove sembri opportuno a giudizio della Sede Apostolica, i Patriarchi, i Metropoliti delle Chiese
metropolitane sui iuris, i Vescovi eparchiali e, se gli statuti lo comportano, anche tutti gli altri Gerarchi del luogo delle
diverse Chiese sui iuris, anche della Chiesa latina, che esercitano la loro potestà nella stessa nazione o regione, devono
essere convocati dal Patriarca o da altra autorità designata dalla Sede Apostolica alle assemblee periodiche nei tempi
stabiliti, affinché in uno scambio luminoso di prudenza ed esperienza e mediante un confronto di pareri nasca una santa
cospirazione di forze per il bene comune delle Chiese, con cui favorire l’unità di azione, aiutare le attività comuni,
promuovere più speditamente il bene della religione e inoltre osservare più efficacemente la disciplina ecclesiastica.
§2. Le decisioni di questa assemblea non hanno forza giuridica di obbligare, a meno che non si tratti di cose che non
possono pregiudicare in alcun modo il rito di ciascuna Chiesa sui iuris e la potestà dei Patriarchi, dei Sinodi, dei
Metropoliti e dei Consigli dei Gerarchi, e che inoltre siano state stabilite insieme almeno con due terzi dei voti dei
membri aventi voto deliberativo e siano state approvate dalla Sede Apostolica.
§3. Una decisione, anche se presa con voto unanime, che in qualunque modo ecceda la competenza di questa
assemblea, non ha nessun valore finché non sia stata approvata dallo stesso Romano Pontefice.
§4. Ogni assemblea dei Gerarchi di diverse Chiese sui iuris rediga i propri statuti nei quali sia favorita, per quanto
possibile, anche la partecipazione dei Gerarchi delle Chiese che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa
cattolica; gli statuti, per aver valore, devono essere approvati dalla Sede Apostolica.
can. 432 CCEO: il monastero dipendente, la casa o la provincia di un istituto religioso di qualsiasi Chiesa sui iuris,
anche della Chiesa latina, che viene ascritto, col consenso della Sede Apostolica, a un’altra Chiesa sui iuris, deve
osservare il diritto di questa Chiesa, salve restando le prescrizioni del tipico o degli statuti che riguardano il governo
interno del medesimo istituto e i privilegi concessi dalla Sede Apostolica.
can. 696 §1 CCEO: tutti i presbiteri delle Chiese orientali possono amministrare validamente la crismazione del
santo myron, sia congiuntamente col battesimo sia separatamente, a tutti i fedeli cristiani di qualunque Chiesa sui iuris,
anche della Chiesa latina.
§2. I fedeli cristiani delle Chiese Orientali possono ricevere validamente la crismazione del santo myron anche dai
presbiteri della Chiesa latina, secondo le facoltà di cui essi sono provvisti.
§3. Qualsiasi presbitero amministra lecitamente la crismazione del santo myron solamente ai fedeli cristiani della
propria Chiesa sui iuris ; per quanto riguarda poi i fedeli cristiani delle altre Chiese sui iuris, fa lecitamente la
crismazione se si tratta di propri sudditi, di coloro che egli battezza per altro titolo legittimo, o di coloro che si trovano
in pericolo di morte, salve restando sempre le convenzioni stipulate tra Chiese sui iuris in questa materia.
can. 830 §1CCEO: il Gerarca del luogo e il parroco del luogo finché svolgono legittimamente l’ufficio possono
conferire ai sacerdoti di qualsiasi Chiesa sui iuris, anche della Chiesa latina, la facoltà di benedire un determinato
matrimonio entro i confini del loro territorio.
§2. Ma la facoltà generale di benedire i matrimoni la può conferire solo il Gerarca del luogo, fermo restando il can.
302, §2.
§3. Perché il conferimento della facoltà di benedire i matrimoni sia valido, deve essere conferita espressamente a
sacerdoti determinati anzi, se si tratta della facoltà generale, per iscritto.

72
can. 916 §1 CCEO: il Gerarca del luogo e il parroco del luogo finché svolgono legittimamente l’ufficio possono
conferire ai sacerdoti di qualsiasi Chiesa sui iuris, anche della Chiesa latina, la facoltà di benedire un determinato
matrimonio entro i confini del loro territorio.
§2. Ma la facoltà generale di benedire i matrimoni la può conferire solo il Gerarca del luogo, fermo restando il can.
302, §2.
§3. Perché il conferimento della facoltà di benedire i matrimoni sia valido, deve essere conferita espressamente a
sacerdoti determinati anzi, se si tratta della facoltà generale, per iscritto.
can. 1465 Colui che, esercitando un ufficio, un ministero o altro incarico nella Chiesa, a qualunque Chiesa sui iuris
egli sia ascritto, anche alla Chiesa latina, avrà osato indurre in qualunque modo qualsiasi fedele cristiano al passaggio a
un’altra Chiesa sui iuris contro il can. 31, sia punito con una pena adeguata.

Il Pontificio Consiglio per i Testi legislativi con una Nota explicativa del giorno 8 dicembre 2011 relativa
all’applicazione del can. 1 CCEO ha dichiarato che la Chiesa latina è inclusa implicitamente per analogia ogni volta che
il CCEO utilizzi esplicitamente il temine Chiesa sui iuris nel contesto dei rapporti interecclesiali. Si dice: per analogia
tenendo conto che le caratteristiche della Chiesa latina, pur non coincidendo totalmente con quelle di una Chiesa sui
iuris delineata nei can. 27 e 28 §1 CCEO, risulta tuttavia, a questo riguardo, sostanzialmente somiglianti 174.

La terminologia orientale rileva anche perché fino a poco tempo addietro la stessa non era così chiara:
1) Ritus: per quanto riguarda la terminologia occorre ricordare che vi è stata un’evoluzione laddove esisteva una
equivalenza tra i termini Ecclesia e Ritus: quest’ultimo era la figura giuridica che indicava e determinava una Chiesa
sui iuris orientale. Ancora in Cleri Sanctitati il termine ritus era applicato indifferentemente sia in materia di diritto che
in quella liturgica175.
2) Ecclesia particularis seu ritus dal Concilio Vaticano II si ha una mutazione quando il decreto OE ha usato la
terminologia di Ecclesia particularis seu ritus. Si noti come la fraseologia sembra assumere una valenza più disgiuntiva
che congiuntiva, anche se in tale decreto si accosta il concetto di Chiesa particolare (come le Chiese Patriarcali,
Arcivescovili maggiori e Metropolitane) con il Ritus che non aveva connotazione solamente territoriale o liturgica176.
3) Chiesa particolare: nel Concilio Vaticano II si sono avute differenti identificazioni ed aspetti della Chiesa
particolare, avendo ancora come riferimento unicamente l’aspetto territoriale, identificando così le diocesi o gli altri
organismi ad esse assimilati anche non territoriali 177. L’aspetto territoriale ha portato più specificatamente da parte del
Vaticano II a ritenere l’uso del termine Chiesa locale identificando in tale definizione anche il Patriarcato come
l’Eparchia178.
Comunione ecclesiastica: altro elemento essenziale per definire la Chiesa particolare è quello della Comunione
ecclesiastica di una porzione di Popolo di Dio che, rimanendo integro il primato pontificio, godeva però di prerogative
proprie quali il patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare nonché culturale 179. In tale visione erano intesi i
Patriarcati, gli Arcivescovadi maggiori e le altre Chiese sui iuris (si ricordi che in tale periodo però non esistesse ancora

174
Si veda J. ABBASS, The Explanatory Note Regarding CCEO, can. 1: A Commentary, in Studia Canonica 46(2012)
p. 293-318.
175
A. COUSSA, p. 9 e ss; G. MICHIELS, Principia generalia de Personis in Ecclesiae, Tournai 1955 che così
sosteneva: “ita ut ritus in materia nostra substantialiter idem designet ac Ecclesia determinata, quae peculiaribus
regitur legibus et usibus antiqua traditione innixis, non solummodo ad universam liturgiae formam quod attinet, sed
etiamvero quod spectat ad hierarchicam constitutionem, regimen atque disciplinam” , p. 288-289. Più avanti l’A. parla
di Ritus orientales Catholici sui iuris, p. 292. I. ŽUŽEK, Che cosa è una Chiesa, un Rito Orientale, in Seminarium
15(1975) p. 263-277. D. SALACHAS, Il concetto ecclesiologico e canonico di “Chiese orientali (Ecclesiae sui iuris)”
in Oriente Cristiano 30(1990) p. 45-53. A. WUYTS, Il diritto delle persone nella nuova legislazione per la Chiesa
Orientale, in OCP 24(1958), p. 175-201; precedentemente emergono: F.M. CAPPELLO, Ius Ecclesiae Latinae cum
Iure Ecclesiae Orientalis comparatum, in Gregorianum 8(1926), p. 489-510; A. PETRANI, De relatione iuridica inter
diversos ritus in Ecclesia Catholica, Torino 1930; E. HERMAN, De “ritu” in Iure Canonico, in OCP 32(1933), p. 96-
158; IBIDEM, De conceptu ritus in The Jurist 2(1942), p. 333-345; M. WOJNARM, The code of Oriental Canon Law,
De ritibus Orientalibus and “de personis” in The Jurist 19(1959), p. 212-245, p. 277-299, p. 413-464; M. WOJNARM,
De ritu Codice Iuris Canonici Orientalis, in Analecta Ordinis S. Basilii Magni 9(1960), p. 523-562; A. JOUBEIR, La
notion canonique du Rite, Essai Historico-Canonique, Romae 1961; J.E. LINCH, The Eastern Churches: Historical
Background, in The Jurist 51(1991), p. 1-17; F. Mc Manus, The Possibilità of New Rites in the Church, in The Jurist
50(1990) p. 435-458; É. SLEMAN, De “ritus” à “Ecclesia sui iuris” dans le Code des Canons des Églises orientales,
in L’Année canoique 41(1999) p. 253-276.
176
Cfr. Nuntia 28(1989) p. 19.
177
Cfr. CD n. 3, 11,23,28; LG n. 13, 27,45; AG n. 6,19,20; SC n. 13. R. LICARI, The Diocese as a Particolar Church
accordino to the 1983 Code of Canon Law, Ottawa 1986.
178
Si parla nel Vat. II di Diocesi e Patriarcato: LG n. 23,26; UR n. 14 ed AG n. 27.
179
LG n. 13; OE n. 2, 3,4,16,17,19 e UR n. 14.

73
tale ultima determinazione e specificazione terminologica). Si noti come tale elemento essenziale della comunione
ecclesiastica se è alla base di tutte le realtà ecclesiali non è però prerogativa della sola Chiesa particolare.
La Chiesa particolare ha trovato così la sua definizione codiciale nel c. 177 §1 che descrive l’Eparchia 180, per cui la
porzione ecclesiastica di Popolo di Dio è una Chiesa particolare formata ad immagine della Chiesa universale ex LG n.
23 (cfr. AG n. 20) laddove in essa si ritrovano gli elementi essenziali della natura della Chiesa. Con l’approfondimento
giuridico e terminologico si sono specificati ed identificati alcuni elementi accidentali, nonché si è dato loro una
rilevanza e determinazione propria. E’ il caso del rito, della territorialità che hanno trovato una forma codiciale propria
che ha purificato e chiarito ulteriormente la concettualità pur rimanendo nell’alveo dell’unica Chiesa cattolica
universale che è la comunione ecclesiastica di tutte le Chiese 181, superando il mero accostamento ed identificazione con
la Chiesa particolare.
Nel CCEO sono individuate e si ritrovano le Chiese particolari (che, occorre far attenzione, non sono identificabili con
le Chiese sui iuris ma possono esserne contenute):
a) Il CCEO c. 177 §1 chiama Eparchia la Chiesa particolare per antonomasia nella quale è presente l’opera della Chiesa
di Cristo, una, santa, cattolica ed apostolica, cioè l’Ecclesia universa. b) L’Esarcato c. 311 e ss. c) Vicariato apostolico e
prefettura apostolica; d) Amministrazione apostolica; e) Chiese particolari personali; f) Ordinariato castrense o militare.
Queste ultime pur non essendo espressamente contemplate nel CCEO non ostano a che possano essere costituite o
determinate in un contesto tipicamente di Chiese orientali
4) Ecclesia ritualis la Lex Ecclesiae Fundamentalis182 ha usato tale espressione che è stata ripresa e mantenuta dal CIC
1983 c. 111 e 112, mentre con l’espressione Chiese particolari ha indicato le Diocesi.
5) Ecclesia ritualis sui iuris: i c. 111 e 112 del CIC hanno usato nella codificazione definitiva tale formula, la quale
anche se accettabile però non era completa in quanto è possibile essere Chiesa sui iuris senza distinguersi ritualmente,
in modo giuridicamente definibile da qualche altra Chiesa sui iuris183.
La locuzione sui iuris è tratta dal c. 303 §1 PAL (laddove si parlava di ritus sui iuris) e non crea nessun problema in
quanto si tratta di un’autonomia non assoluta ma ben delimitata dal diritto stabilito dall’autorità suprema il Romano
Pontefice ed il Collegio dei Vescovi. Persona giuridica, soggetto di diritti e doveri è la Chiesa sui iuris e non il rito che è
uno degli elementi e prerogative della Chiesa sui iuris stessa.

Natura della Chiesa sui iuris


La Chiesa sui iuris nasce da un cambiamento di prospettiva ecclesiologica derivante nettamente dal Vaticano
II: mentre in LG n. 23 si è parlato della Chiesa particolare, in OE n. 2 la stessa Chiesa particolare è stata vista come
coetus Ecclesiarum orientalium laddove i soggetti primari della comunione ecclesiale sono piuttosto i gruppi delle
Chiesa particolari intorno alla propria Gerarchia. Tutto questo fa sì che ci si pone verso una differenza e specificazione
maggiore più nella morfologia che nell’essenza. Secondo una tradizione che si rifà all’ordinato giudizio del primo
millennio, si pensi al patriarcato come centro, concedente e protettore della comunione interecclesiale.
A livello teologico ex LG n. 23 la Chiesa existit in et ex Ecclesiis particularibus, 184 quindi costituita esclusivamente
dall’eparchia e solamente da un punto di vista delle strutture giuridiche emerge la suddivisione in Chiese sui iuris è
questa la tesi sostenuta da W. Onclin185.

180
Le sue fonti sono: CD n. 11; LG n. 25,26,28 e SC n. 41, PO n. 4.
181
Si veda G. GHIRLANDA, Chiesa particolare, (Ecclesia particularis), in Nuovo Dizionario di Diritto canonico,
Cinisello Balsamo 1993, p. 170-172. E. CORECCO, Chiesa particolare, in Digesto - Discipline pubblicistiche, III,
Torino 1989, p. 17-20.
182
AA. VV., Lex fundamentalis Ecclesiae. Atti della Tavola rotonda a cura di Attilio Moroni, Macerata 12-13 ottobre
1971, Milano 1973; AA. VV., De Lege Ecclesiae fundamentali condenda, Salamanca 1974; G. FELICIANI, Le basi del
diritto canonico, Bologna 1984; I. ŽUŽEK, La “Lex Ecclesiae fundamentalis” et les deux Codes, in L’Année
Canonique 40(1998), p. 19-48; G.P. MONTINI, Il diritto canonico dalla A alla Z. “Lex Ecclesiae Fundamentalis”, in
Quaderni di Diritto Ecclesiale 14(2001), p. 89-112.
183
I. ŽUŽEK, Presentazione del “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium” nel vol. Understanding, cit. p. 122.
184
W. AYMANS, Diritto canonico e comunione ecclesiale. Saggi di diritto canonico in prospettiva teologica, Torino
1993; K. MÖRSDORF, L’autonomia della Chiesa locale, in Ephemerides Iuris Canonici 26(1970), p. 324-345; L.
GEROSA, Chiesa universale – Chiese particolari. Profili canonistici di un rapporto di reciproca immanenza, in
Rivista Teologica di Lugano 3(1998, p. 633-643; M. SEMERARO, Le Chiese particolari formate a immagine della
Chiesa universale (LG 23). Analisi e interpretazione di una formula, in AA. VV., Servire Ecclesiae. Miscellanea in
onore di Mons. Pino Scabini (a cura di N. Ciola), Bologna 1998, p. 303-348; A. DA SILVA PEREIRA, Églises
particulières au Concile Vatican II. Dans les Églises orientales et dans l’Église latine, in Periodica 86(1997) p. 241-
273.
185
W. ONCLIN, Ordinatio Ecclesiae Universae in specie ad Ecclesias rituales sui iuris quod attinet, in Revue de Droit
Canonique 30(1980), p. 304-317.

74
Invece secondo E. Corecco 186 le Chiese sui iuris sarebbero delle istanze intermedie con carattere meramente umano e
morfologie ecclesiali di natura socio-culturale, quindi non ontologica, che svolgono però un’indubbia funzione
aggregativa con una azione che rafforza l’identità della Chiesa stessa. L’unica realtà fondamentale è l’unica Chiesa di
Cristo (Chiesa universale e Chiesa particolare) mentre le altre suddivisioni ecclesiali comprese le Chiese sui iuris sono
realtà secondarie187.
Tali istanze e strutture intermedie possono divenire un elemento indispensabile per un corretto funzionamento della
comunione ecclesiale. Si noti come il dettato di LG n. 23 non attribuisca alle Chiesa patriarcali una espressa volontà
fondazionale di Cristo stesso, ma le ritiene una disposizione “per divina Provvidenza”. Tale definizione voleva evitare
un’atomizzazione che non è la regola della costituzione della Chiesa 188. Non per questo esiste un carattere ed identità
teologicamente definite per queste comunità quali unità integre, soggetti della realtà e comunione ecclesiale.
Mentre la Chiesa particolare ha una connotazione per eccellenza teologica, la Chiesa sui iuris è rispetto alla prima
posteriore con una sua base teologica che non si oppone alle altre. Ecco che se le Chiese sui iuris non appartengono alla
struttura divino-costituzionale della Chiesa, tuttavia ne hanno gli attributi fondamentali e sono soggetti veri della
comunione ecclesiale189.

Il c. 28 CCEO volendo definire e circoscrivere il ritus afferma che è un patrimonio liturgico, teologico,
spirituale e disciplinare con il quale ogni Ecclesia sui iuris esprime il proprio modo di vivere e testimoniare la fede.
Tale patrimonio è individuato da quegli elementi contingenti, quali cultura, storia e le circostanze storiche, anche se
occorre rilevare come non tutte le Chiese sui iuris hanno un rito particolare, in quanto i riti sono raggruppati attorno alle
cinque tradizioni principali: Alessandrina, Antiochena, Armena, Caldea e Costantinopolitana 190.
Per l’interprete sembra che dopo i problemi, le teorie e complicazioni per discernere un significato chiaro, fermo e
stabile di ritus191, si possa ritenere che il termine in senso stretto si riferirebbe all’insieme delle forme liturgiche proprie
di una Chiesa con una particolare connessione alle res liturgicae ex c. 828192. Il rito in senso liturgico è pura modalità,
procedura in quanto serie istituita di atti secondo la classica definizione di Servio: “Ritus est mos institutus, religiosis
caerimoniis consecratus”. Se da una parte è azione sacra capace di stabilire un contatto con la divinità, dall’altra vi è la
chiusura nella norma di quest’azione sacra, laddove è espresso il modo con cui tale azione deve essere condotta per
essere efficace, con tutto ciò che vi sta intorno e ne sia legato193.
In senso ordinario e naturale secondo il c. 28 CCEO il rito ha un significato giuridico-determinativo di Chiesa quale
comunità di fedeli orientali gerarchicamente organizzata, ora denominato Chiesa sui iuris, divenendo elemento
costitutivo di quest’ultima194. Si potrebbe sostenere come il rito sia il portatore essenziale dello spirito orientale.
Il termine patrimonio significa letteralmente i beni ereditari che provengono, che trapassano e sono e lasciati
da un padre al figlio. "Il concetto di patrimonio (dal latino patrimonium, derivato da pater, 'padre', e munus, 'compito';
dapprima col significato di 'compito del padre' poi con quello di 'cose appartenenti al padre') è usato sia in diritto che in
economia, con significati non esattamente coincidenti." Si potrebbe dire quell’insieme di beni afferenti un soggetto
giuridico.

a) Patrimonio liturgico: tra gli elementi del rito si ha in primo luogo il patrimonio liturgico che è il luogo
privilegiato dove si pone e comunica la tradizione, avendo avuto origine tale eredità in funzione della missione della
Chiesa.
“La liturgia... mediante la quale, massimamente nel divino sacrificio dell’Eucarestia, ‘si attua l’opera della
nostra redenzione’, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il
mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa, che ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e
186
E. CORECCO, Ius universale ius particulare, in Ius et communio. Scritti di Diritto canonico, I, Casale Monferrato
1997, p. 549-573.
187
L. GEROSA, Chiesa Universale – Chiese particolari. Profili canonistici di un rapporto di reciproca immanenza, in
Rivista Teologica di Lugano 3(1998) p. 633-643.
188
Così G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, Storia, testo e commento della Lumen gentium, Milano 1986, p. 275.
189
Da ultimo: P. SZABÓ, Opinioni sulla natura delle Chiese “sui iuris” nella canonistica odierna, in Folia Theologica,
7(1996), p. 239-251.
190
G. NEDUNGATT, p. 63 e ss. D. SALACHAS, Istituzioni di Diritto Canonico delle Chiese cattoliche orientali.
Strutture ecclesiali nel CCEO, Roma/Bologna 1993 p. 17 e ss.
191
O. ROUSSEAU, La question des rites entre Grecs et Latins des premièrs siècles au Concile de Florence, in Irénikon
22(1949), p. 233-269. Per tutti: W. BASSETT, The determination of Rite, Roma 1967.
192
In senso generrale-liturgico: S. MAGGIANI, Rito/Riti, in Nuovo Dizionario di Liturgia, Cinisello Balsamo 1988, p.
1141-1150.
193
S. OFFELLI-A. COLOMBO, Rito, in AA. VV., Enciclopedia Filosofica, IV, Venezia-Roma 1958, col. 156-158,
quivi col. 157. Si veda, seco9ndo una particolare lettura che può integrare il nostro studio: R.A. RAPPAPORT, Rito e
religione nella costruzione dell’umanità, Padova 2004.
194
Ancora ŽUŽEK I., Le “Ecclesiae sui iuris” nella revisione del Diritto canonico, nel vol. Understanding the Eastern
Code, Roma 1997, p. 94-109.

75
divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, ardente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e
tuttavia pellegrina; tutto questo in modo che quanto in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile
all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura verso la quale siamo incamminati. In tal
modo la liturgia, mentre ogni giorno edifica quelli che sono nella Chiesa in tempio santo nel Signore, in abitazione di
Dio nello Spirito, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo, nello stesso tempo in modo mirabile irrobustisce
le loro forze per predicare il Cristo; e così a coloro che sono fuori mostra la Chiesa come segno innalzato sui Popoli,
sotto il quale i dispersi figli di Dio si raccolgono in unità, finché si faccia un solo ovile e un solo pastore”. (SC n. 2).
La liturgia si celebra nella Chiesa in modo attivo ed operante nel mistero di Cristo che ne trasmette
l’essenziale. La liturgia ha in sé un contenuto dottrinale di verità che comunica attraverso i segni sacramentali ed i riti
liturgici e procede con semplicità, con l’assicurazione della vita all’affermazione di ciò che fa e del contenuto che essa
libera nella celebrazione. Il patrimonio espresso dalla liturgia e nella sua celebrazione nello stile, comunica le
condizioni della vita stessa195. Ecco che la liturgia è per sua natura rapportata alla tradizione del deposito della fede ex
2Tm. 1,14, quando ne trasmette intatta la celebrazione del mistero di Cristo, per cui diviene comunitaria come atto di
tutto il Popolo di Dio e della Gerarchia come atto di persone insignite del sacramento dell’Ordine. La liturgia si
indirizza così al cuore dell’uomo, al “cuore che comprende” come si esprime la tradizione orientale 196. Il patrimonio
liturgico potrà così proporre oltre ad un’azione di santificazione anche una pedagogica attraverso la tradizione, nella
sensibilità alle esigenze storiche ed alle capacità culturali variabili del Popolo di Dio 197.

b) Il patrimonio teologico che viene ripreso dal c. 28 rimanda ai pensatori e teologi antichi ed ai Padri
orientali della Chiesa come Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne, Clemente, Origene ed Atanasio, questi ultimi tre
di Alessandria, Eusebio di Cesarea, Cirillo di Gerusalemme, Teodoreto di Ciro, i Padri cappadoci Basilio, Gregorio di
Nazianzo e Gregorio di Nissa, Efrem il siro, Didimo, i monaci Pacomio, Evagrio pontico ed Epifanio. Seguono S.
Giovanni Crisostomo. S. Cirillo di Alessandria e Dionigi l’Aeropagita 198.
Tra i Padri occidentali, oltre agli scritti del I e II secolo con la Didaché, il Pastore di Erma, Diogneto, tra i più
significativi abbiamo Clemente romano, Giustino, Ireneo di Lione, Tertulliano, Ippolito di Roma, Ilario di Poitiers,
Ambrogio, Girolamo, Agostino, Leone Magno, Gregorio Magno, Isidoro di Siviglia199.
Tutti i Padri, in modo differente, hanno espresso il messaggio di Cristo in categorie intelligibili del tempo, arrivate ora
anche ai contemporanei. La Teologia ha sempre cercato come suo compito di delimitare con esattezza non solamente le
enunciazioni di fede e le verità dogmatiche, ma pure l’intenzionalità dell’insegnamento proprio delle diverse formule,
offrendo attraverso questo lavoro quella collaborazione al magistero vivo della Chiesa 200. Descrittivamente i criteri sono
quelli dell’ortodossia della dottrina, l’identità, la santità di vita e l’approvazione anche implicita della Chiesa nella
comunione in cui questi autori sono vissuti e morti. Questo patrimonio teologico potrebbe essere inteso come la fides
quae creditur che alimenta la fedele memoria dell’eterno nell’unità di un’idea posseduta o realizzata da diverse persone
individuali.
Tale base del pensiero oltre ad avere creato una cultura cristiana orientale è divenuta substrato e modello di riflessione
per tutti i cristiani sia contemporanei come appartenenti ad un contesto storico-temporale successivo. Si è così allargata
l’intelligenza della realtà e delle parole del deposito della Fede nella conoscenza profonda della verità rivelata 201. Si
pone così nel riferimento al patrimonio teologico la base per un migliore e più approfondito cammino ecclesiale in
primo luogo caratterizzato dall’essere Orientale e quindi anche universale. Il patrimonio teologico con il suo
arricchimento del pensiero razionale e religioso in una sintesi completa del Vangelo ha assunto così la forma
dell’evangelizzazione della cultura. Anche ora tale patrimonio teologico cristiano orientale costituisce un riferimento
per le nuove generazioni in un insieme di Chiese sui iuris che sentono e vogliono vivere nella pienezza ed universalità
la loro appartenenza ecclesiale.

195
Così Y. CONGAR, p. 419. A. KING, Liturgie d’Antioche, Rite Syrien et rite Chaldéen, Paris 1966; A. CATELLA,
La liturgia rende contemporaneo Gesù di Nazaret?, in RTE 4(2000), p. 331-338. L. BRESSAN, Le parole di Gesù di
Nazaret nella liturgia, in RTE 4(2000), p. 339-350.
196
Si veda: Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 1993, p. 317, n. 1202: “...In questo modo Cristo, Luce
e Salvezza di tutti i popoli, viene manifestato attraverso la vita liturgica di una Chiesa al popolo ed alla cultura ai quali
essa è inviata e nei quali è radicata. La Chiesa è cattolica: può quindi integrare nella sua unità -purificandole- tutte le
vere ricchezze delle culture”. Si veda anche il n. 1204. A. SCHMEMANN, Liturgy and Tradition, Crestwood, New
York 1990.
197
S.R. NKINDJI, Inculturazione della Liturgia. Il modello di Giovanni Paolo II in Africa, in RTE 4(2000), p. 383-393.
J.M. HUELS, Liturgy and Law. Liturgical Law in the System of Roman Castholic Canon Law, Montreal 2006.
198
Si pensi anche a S. Giovanni damasceno, la Teologia patristica continuata ed interpretata dalla dottrina di Gregorio
Palamas (la concezione ortodossa e S. Anselmo per la dottrina latina). R. TAFT, Eastern Catholic Theology. Is There
Any Such Thing? Reflexions of a Practitioner, in Logos 38(1998) p. 13-58.
199
Si vedano pure il genio teologico di S. Tommaso d’Aquino e Marco di Efeso nel sec. XV.
200
Dichiarazione della S. Congregazione per la Dottrina della Fede del 24 giugno 1973, Mysterium ecclesiae, n. 5 in
AAS. 65(1973) p. 396-408.
201
GS n. 62 e 44; DV n. 23 e 24; UR n. 4.

76
Mistica: è sempre stata nelle Chiese orientali unita al patrimonio teologico. La mistica è l’inabitazione della Grazia,
dono dell’immagine di Dio e della sua verità triipostatica che sollecita la creatura ad una vita nuova in Cristo, ad una
trasformazione autentica della sua materia fino ad una vera divinizzazione. Il mistico del mondo terreno ascende verso
quello celeste e contempla il mistero della vita divina, ritornando nel mondo terreno 202.

c) Il patrimonio spirituale esprime il modo di vivere e rivelare l’esperienza della Chiesa, appartenendo alle
forme storiche della vita ecclesiastica 203. L’esistenza storica della Chiesa che ha come riferimento la sequela di Cristo
partendo dai valori del Vangelo, è la forma con cui la sua sostanza si rivela nella storia. Tale patrimonio spirituale ha
impregnato ogni generazione cristiana rappresentando la fede vivente, l’atto di credere ed abbandonarsi in Dio come
fides qua creditur, la pietà posseduta204. Questa sintesi esprime l’unità della fede presso tutti i fedeli, e l’“unità di
identità ecumenica”. Tale patrimonio spirituale come genio nel servire, esprimere, vivere, difendere ed illustrare la fede
comune, nella storia diviene riferimento ma pure base reale, apertura e protensione al futuro delle Chiese dell’Oriente.
Il patrimonio spirituale quale insieme e confluenza di correnti liturgiche e cultuali, teologiche e magisteriali, nell’ascesi,
nell’arte, nella cura pastorale, nell’ordine e nella amministrazione ecclesiastica, testimonia l’inculturazione della fede in
un contesto Orientale e la sua storia.
Le spiritualità cristiane ed orientali in specie, divengono parte della tradizione vivente della preghiera e sono guide
indispensabili per i Christifideles. Il patrimonio spirituale così è divenuto azione della Chiesa che il CCEO ha
richiamato, inserendolo in quelle modalità di azione nella cultura dei fedeli orientali nelle comunità cristiane 205.
Si noti come nelle tradizioni dell’Oriente cristiano si riscontri una notevole diversificazione rispetto al patrimonio
liturgico, mentre esistano meno differenze circa il patrimonio spirituale e teologico.

d) Il patrimonio disciplinare: se la disciplina designa il modo di vivere conforme al Vangelo e si situa tra la
Fede e la morale, incide nei regolamenti, nei modelli e nello stile di vita spirituale e morale della comunità cristiana
dell’Oriente. L’ambito di azione, avendo presente il patrimonio disciplinare, sarà quello giuridico e di sollecitudine
pastorale, chiedendo un’osservanza fedele per tutti i cristiani 206. Relativamente ad ognuna delle Chiese sui iuris il
patrimonio disciplinare diviene struttura ed insieme di regole che assicurano un buon funzionamento ecclesiale in senso
più ampio, riguardando le diverse sezioni del diritto canonico. Ecco che nel patrimonio disciplinare si nota una
distinzione tra quelli che sono i canoni disciplinari dei Concili Ecumenici con i vari canoni dogmatici in senso stretto.
Mentre i primi divengono base e regola per i canonisti e coloro che applicano il diritto ecclesiale, i canoni dogmatici
divengono oltre che per i canonisti riferimento ineluttabile per i teologi. Ancora esiste un patrimonio disciplinare delle
istituzioni ecclesiastiche che è parte della tradizione materiale: è lo ius traditum207 che deriva immediatamente dallo
stesso legislatore208.
Tale patrimonio disciplinare rimane unico e sostanzialmente uguale per tutte le cinque tradizioni orientali. Infatti la base
giuridica con provenienza dogmatica o disciplinare in senso stretto data dai Sacri canones diviene sfondo ed humus per
ognuna delle tradizioni stesse 209. Non per questo il patrimonio disciplinare-ecclesiastico delle differenti Chiese sui iuris
non si è e potrà arricchirsi attraverso la codificazione dei diritti particolari accorpandosi gli stessi alla normativa

202
P. FLORENSKJI, p. 143.
203
N. MAGHIOROS, Diritto e spiritualità nella tradizione dei Canoni dei Concili orientali (Evo antico), in SDHI
73(2007) p. 487-496.
204
Ancora la spiritualità può essere intesa come servizio di Dio e scienza spirituale. Ma come è riconosciuto da tutti il
concetto è talmente vasto tanto che comprende moltissimi ambiti. Si può riprendere A. MATANIC, Le scuole di
spiritualità nel magistero pontificio, Brescia 1964, p. 36 che ritiene la spiritualità come particolare servizio cristiano di
Dio, che accentua determinate unità della fede, preferisce alcune virtù secondo l’esempio di Cristo, perseguendo una
specifico fine secondario servendosi di mezzi e pratiche di pietà, rivestendo note distintive e caratteristiche. IDEM,
Spiritualità, in AA. VV., Dizionario Enciclopedico di Spiritualità, III, Roma 1990, p. 2383-2385. Da ultimo il numero
monografico di Credere oggi 3/2000 titolato: Spiritualità del terzo millennio. I. MADERA VARGAS, The Mysticism of
Evangelization, in Sedos Bulletin 35(2003) p. 25-28.
205
CCC n. 2684 che continua: “ Le spiritualità cristiane partecipano alla tradizione vivente della preghiera e sono guide
indispensabili per i fedeli. Esse, nella loro ricca diversità, riflettono l’unica e pura Luce dello Spirito Santo”. G.
THADIKKATT, The Source of the Spiritualità of the Syro Malabar Church, in The Harp 17(2004) p. 131-160.
206
CORECCO E., Il valore della norma disciplinare in rapporto alla salvezza nella tradizione occidentale, in AA. VV.,
Incontro fra Canoni d’Oriente e d’Occidente, I, Bari 1994, p. 275-292. F. ARDUSSO, Magistero ecclesiale. Il servizio
della Parola, Milano 1997, p. 275-277.
207
PH. MAROTO, Institutiones Juris Canonici ad normam novi Codicis, I, Romae 1921, p. 425: “Jus ergo traditum nihil
est aliud quam jus legale immediate imperio alicuius competentis legislatoris ecclesiastici expressis verbis, at sine
scriptura, antiquitus, nempe primis Ecclesiae temporibus, constitutum et per testimonium fidelium, mores populi
christiani praximque Ecclesiae ad nos trasmissum”.
208
”Per proprium et expressum praeceptum et per promulgationem oretenus factam”, così PH. MAROTO, p. 426.
209
Circa i Sacri Canones e le tradizioni si veda la descrizione in C. YANNARAS, La libertà dell’Ethos. Alle radici della
crisi morale dell’Occidente, Bologna 1984, p. 179 e ss.

77
comune210. Ecco che il patrimonio disciplinare delle Chiese sui iuris ha riferimento ed è formato dalle legittime diversità
di tradizione insieme alla cultura che ancora contestualizza le attuali condizioni di vita ecclesiale di ogni singola
comunità211.
Necessita ricordare come talora impropriamente i riti siano stati equiparati genericamente alle tradizioni mentre
queste si vedrà hanno un’accezione più ampia. Con il dettato del c. 28 §1 tale equivoco è stato superato e si è
specificato come il rito sia costituito e determinato da un patrimonio specifico nell’appartenenza della liturgia, teologia,
spiritualità e disciplina. Tale patrimonio è variato negli elementi a seconda del rito stesso avendo riguardo alla comunità
ecclesiale inserita in un contesto di cultura in un determinato momento storico 212. Il patrimonio de quo è composto dal
vissuto dei popoli cristiani e delle Chiese sui iuris con frutti che vengono partecipati alle realtà ecclesiali del presente.
Ancora, il rito specifica per ogni Chiesa sui iuris una maniera di vivere la propria fede e le comunità cristiane sono
chiamate a salvaguardare tale patrimonio nella fedeltà e vigilarne l’osservanza da parte della Sede Apostolica. Ne sono
espressione le disposizioni dei c. 49-50 CCEO.

La Cultura
Risulta alquanto complicato, invero sempre di più, per l’interprete porre operativamente una definizione
completa di cultura in generale e compiere una scelta che possa essere rappresentativa all’Oriente cristiano 213.
Certamente come punto di partenza sovviene il Concilio Vaticano II laddove presenta nella Costituzione Gaudium et
Spes una definizione di cultura che così precisa:
GS n. 53: “Con il termine generico di ‘cultura’ si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina ed esplica
le molteplici sue doti di anima e di corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza ed il
lavoro; rende più umana la vita sociale sia nella famiglia che in tutta la società civile, mediante il progresso del costume
e delle istituzioni; infine, con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze ed
aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano” 214.
Nella polivalenza semantica della cultura ritroviamo anche un significato unitario:
a) quale sistema di valori, tradizioni e di comportamenti condivisi da un gruppo umano che ne definiscono l’identità; b)
nel senso di attività intellettuale, artistica e scientifica, di comunicazione svolta da coloro che in vari livelli sono
protagonisti o artefici, nonché diffusori della cultura, attraverso le molteplici istituzioni a ciò destinate; c) opere che
nascono dall’attività culturale che concorrono a formare il patrimonio di un popolo, di una Chiesa sui iuris incidente in
un dato territorio, che determinano così un comune sistema di valori.
Un quadro circa la cultura può essere esposto secondo vari sensi e significati:
1) Secondo un contesto chiamato descrittivo con le dimensioni umanistiche ed antropologiche, nel significato più ampio
la cultura viene considerata come l’insieme dei tratti distintivi spirituali e materiali, intellettivi ed affettivi che
caratterizzano una società oppure un gruppo e quindi la Chiesa. La cultura in tal senso comprenderà quindi le arti, le
lettere, i modi di vita, i diritti fondamentali della persona, i sistemi dei valori, le tradizioni e le credenze. In tal modo il
significato della cultura consiste quindi nel fatto che è una caratteristica della vita umana come tale, e l’uomo vive una
vita veramente umana, grazie alla cultura. L’uomo quindi è relazionato alla cultura, divenendone soggetto ma pure
destinatario, centro dell’interesse universale215.
2) La cultura in senso umano-spirituale è uno spazio nel quale la persona e la comunità umana può incontrarsi, entrare
in comunione e comprendersi gli uni e gli altri. Tale rapporto che ha come centro la persona si porrà sul fondamento di
un’esperienza che li unisce e nello stesso tempo li valorizza come personalità originali. E’ l’esperienza della fede
vissuta nella liturgia, della vita della Chiesa, del rapporto con Dio, nella preghiera e meditazione 216.
210
I. ŽUŽEK, Le “Ecclesiae Sui iuris”, p. 106. Si vedano le suggestioni intorno al dibattito in N. AFANASIEV, The
Canons of the Church: Changeable or Unchangeable?, in St. Vladimir’s Theological Quarterly, 11(1967) p. 54-68; J.H.
ERICKSON, The Orthodox Canonical Tradition, in St. Vladimir’s Theological Quarterly, 27(1983) p. 155-167.
211
N. LODA, Tradizione, cultura e storia nelle Chiese “sui iuris”: il rapporto con i cc. 27-28 Codex Canonuim
Ecclesiarum Orientalium, in Folia Canonica 2(1999) p. 161-184.
212
P.A. BONNET, Annotazioni su la consuetudine canonica, Torino 2003 p. 9 e ss.
213
Si possono vedere le osservazioni di M.P. GALLAGHER, Fede e cultura. Un rapporto crucialee conflittuale,
Cinisello Balsamo 1999.
214
GS n. 53. MONTANI M., Filosofia della cultura. Problemi e prospettive, Roma 1996.
215
Se ne veda la sintesi della definizione classica ed antropologica di cultura in GS n. 53 già citato. Alquanto datata e
con una visione conflittuale con lo sforzo di applicazione del Vangelo alle azioni della vita umana convertendo ogni
uomo al cristianesimo, la posizione di M. POPESCU, L’ Église et la culture, in AA. VV., Procès verbaux, cit., p. 347-
360; M. ZENKOWSKY, Église et culture, ibidem, p. 361-370. Anche in tal senso L’allocuzione all’Organizzazione
delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura di Giovanni Paolo II del 2 giugno 1980, in Insegnamenti di
Giovanni Paolo II, vol. III,1, Città del Vaticano 1980; E. CHIAVACCI, Cultura, in AA. VV., Dizionario Teologico
Interdisciplinare, vol. I, Casale Monferrato 1977, p. 667-674.
216
Nel modo con cui ogni popolo e gli uomini si rapportano fra loro, con la natura e con Dio si profila una propria
“coscienza collettiva” ex EN n. 18. C. RUINI, Il Vangelo nella nostra storia, Chiesa cultura e società in Italia, Roma

78
3) La cultura in senso formale viene intesa come informazione laddove la Chiesa stessa ne è parte attraverso i gesti che
compie nella liturgia, nei dogmi e nei simboli, nella teologia, spiritualità e disciplina mediati attraverso la creatività,
memoria e tradizione.
A questi senso di cultura si profila la definizione antropologica 217 che è ritenuta l’insieme di regole e principi
determinanti i comportamenti di un gruppo, nella fattispecie dei Christifideles in un contesto orientale cristiano oppure
in una Chiesa sui iuris, avendo come fondamento la fede e le credenze, gli atteggiamenti, i codici e le regole di
comportamento con i valori e gli ideali che sono appresi, condivisi e trasmessi e ne caratterizzano una popolazione o
società, nel nostro caso una compagine ecclesiale 218.
La cultura è costituita da tradizioni che pongono le basi per la comunicazione ed integrazione della persona
garantendone una continuatività ma anche connessione tra l’esperienza individuale ed ecclesiale divenendone fattore
stabilizzante. La cultura è quindi the way of living che si avvale di un processo di trasmissione operato dalla tradizione
con un contributo creativo di conservazione ed innovazione219.
Il concetto di Oriente cristiano secondo la cultura diviene un’esperienza spirituale ma anche della memoria
attraverso l’annuncio, predicazione liturgia e vissuto personale. La tradizione consentirà così di far propria in maniera
attiva la memoria conservata dalla Chiesa e nella compagine ecclesiale 220. In tal modo la Chiesa e l’Oriente cristiano
non è riconducibile ad una cultura specifica ma propone una cultura propria ed interna ecclesiale che è data dall’unità e
diversità delle liturgie, dalla via dei dogmi del culto e delle icone 221, dall’insieme e identità propria delle tradizioni. Si
potrebbe dire che la cultura che diviene essa stessa Chiesa è una sinergia tra le forze animate dalla grazia dello Spirito
Santo, energie divine ed umane, queste ultime come forza creatrice attraverso l’impegno, la preghiera, la
contemplazione, liturgie ed ascesi interiore. Il miracolo della cultura che si realizza nella Chiesa e quindi nell’Oriente
cristiano nasce nella sinergia divina con la Grazia nel lavoro e preghiera dell’uomo che trasforma e trasfigura attraverso
il passaggio dello Spirito la materia facendole acquistare una forma.
L’Oriente cristiano caratterizza la cultura ed a seconda dell’affido come consegna del ricevuto e del
concretizzarsi dell’azione, comprenderà e implanterà la comunità ecclesiale vivente. In tal senso la cultura con la
tradizione nell’oriente cristiano si pongono in rapporto di complementarietà in quell’azione ecclesiale che attraverso
l’annuncio del Vangelo in modo dialogico si incontra con il mondo. L’elemento cultuale orientale esprimerà nella storia
in grado migliore le inesauribili ricchezze di Cristo manifestando chiaramente in una Chiesa sui iuris o in un popolo che
si converta alla fede cristiana, una conoscenza più profonda e completa del Vangelo e della vita. La cultura accrescerà
da una parte la comunione con la Chiesa universale nella diversità con un inserimento nella missione ecclesiale,
dall’altra tale inculturazione rituale avverrà secondo forme specifiche nello spirito, mentalità e cultura dei popoli già
cristiani o che si stanno inserendo nella Chiesa222.
La visione dell’oriente cristiano relativa alla cultura potrà essere detta “interna” considerando l’insieme dei
valori, patrimonio e tradizioni e riti liturgici, nonché la coscentizzazione ferma che attende però un movimento ad extra
per esperire un’inculturazione che sia strumento e mezzo fondamentale ed efficace per presentare, riformulare e vivere
il cristianesimo secondo le peculiarità dell’Oriente.

La storia
La ricostruzione secondo una lettura scientifica della storia delle differenti Chiese sui iuris in base agli accadimenti
secondo le fonti richiede: acribia scientifice e metodologica, ma anche una lettura completa ecclesiale, superando gli
aspetti peculiari e parziali che potrebbero essere egemoni e privilegiati in base ad un pregiudizio culturale,
ecclesiologico ed ideologico.
La storia della Chiesa deve avere:
a) un proprio oggetto, quale la crescita nel tempo e nello spazio della Chiesa fondata dagli Apostoli;
b) un metodo storico applicato all’oggetto secondo le fonti;
c) periodizzazione che deve tener conto della crescita interna ed esterna della Chiesa con la sua propagazione;

1989. V. ZIELINSKY, Le droit de penser et la liberté de consicence, in Istina 33(1988) p. 257-267, quivi p. 264.
217
H. CARRIER, Antropologia in Dizionario della cultura. Per l’analisi culturale e l’inculturazione, Città del Vaticano
1997, p. 28-39.
218
Se ne veda la definizione in C.R. EMBER-M. EMBER, Antropologia culturale, Bologna 1998, p. 27 e ss.; P. BOCK,
Antropologia culturale moderna, Torino 1978; R. TAYLOR, Elementi di antropologia culturale, Bologna 1972; U.
DINI, Antropologia culturale, in AA. VV., Dizionario di sociologia e antropologia culturale, Assisi 1984, p. 23-36; R.
CIPRIANI, Manuale di sociologia della Religione, Bari 1977.
219
L.J. LUZBETAK, The Church and cultures. An applied Anthropology for the religions, Warker, Techny, Illinois
1963, quivi p. 60 e ss.
220
C. PRANDI, Tradizione, in Dizionario di sociologia e antropologia culturale, Assisi 1984, p. 600-604; H.G.
GADAMER, p. 356 e ss.
221
Tale identificazione e tre strade presuppongono anche un’esperienza mistica, erotica, anzi, l’ortodossia è una via
erotica. Tali convincimenti e spiegazioni in C. YANNARAS, Eros e celibato. Il dramma di un cristianesimo senza eros,
in AA. VV., La cella del vino. Parole sull’amore e sul matrimonio, Sotto il Monte Giovanni XXIII/Schio 1997, p. 185.
222
AA. ROEST CROLLIUS, Inculturazione, in AA. VV. Dizionario di Missiologia, Bologna 1993, p. 281-286.

79
d) ausilio delle altre scienze pr valutare la microstoria di una Chiesa: quali la cronologia, la paleografia, la diplomatica,
l’archivistica, la biblioteconomia, l’araldica, la geografia, la cartografia, la statistica 223.
Occorre notare come antecedentemente il criterio della storia della Chiesa fosse di fatto limitato da:
a) Ortodossia come condizione indispensabile per valutare storicamente gli evanti accaduti, laddove soprattutto le
vicende delle Chiese orientali (cattoliche ed ortodosse) non erano tenute in considerazione dalla storiografia cristiana
occidentale.
b) Uniformità: nei confronti del pluralismo e della molteplicità, dando preferenza alle tesi conformi, con una certa
diffidenza verso ciò che realizzasse carismi o modalità di essere specifico ( si pensi per un esempio al celro uxorato in
certe Chiese sui iuris ed alla continua denigrazione e nascondimento a fronte della cristianità anche cattolica). Tutto
questo ha confuso i risultati soprattutto nella ricostruzione liturgica, teologico-dottrinale, spirituale delle differenti
Chiese sui iuris orientali. Un ulteriore problema che si è posto è stato quello della emergenza e del favorire le tendenze
maggioritarie da quelle minoritarie all’interno della cattolicità.
c) Istituzionale: si riconosceva un privilegio all’istituzione rispetto all’evento.
d) Autorità e clericalità: l’unico sacramento rilevante era l’Ordine sacro e non il Battesimo, riducendo riducendo la
storia alle vicende di chi fosse stato insignito delle potestà. In tale parte è subentrato il problema del magistero
dell’autorità eccelsiastica, ignorando quel in credendo del Popolo di Dio. Fu questo il privilegio di una lettura tipica
greco-latina, omettendo le altre tradizioni ecclesiali.
e) Interpretazione della vita cristiana canonizzata ed idealizzata staticamente rispetto alle tradizioni liturgiche,
teologiche, spirituali e disciplinari.
f) Limitazione geografica della latinità, con letture fatte da occidentali all’Occidente sull’Oriente, con un’ulteriore
accentuazione privilegiate dell’Oriente greco-costantinopolitano risptto a quello antiocheno siriano occidentale ed
orientale, copto, armeno.
Tali letture divenivano parziarie in quanto ci si trovava nell’alveo della storia parziale e puramente fattuale, obliterando
de facto la storia globale come ricostruzione di evento storico secondo tutti i fattori che l’hanno costituito e gli aspetti
della realtà che l’hanno condizionato e sono stati relazionati allo stesso.
Si è detto come l’oggetto della storia della Chiesa sia una lettura fenoimenologica che, pur includendo le manifestazioni
di vita e fede nella liturgia, Teologia, spiritualità e disciplina, insieme alla dimensione ecumenica, non ne sia il solo
referente analitico.
La prospettiva della storia della Chiesa è quella della successione nel tempo delle sue manifestazioni visibili cercando
nelle fonti il contenuto fenomenico224.
La storia della Chiesa lavora applicando il metodo storico cioè un metodo positivo ed empirico con rigore scientifico, di
analisi critica delle fonti, anche se nasce il problema del rapporto tra ricerca positiva e struttura complessa della Chiesa.
Tali inserimenti pongono una certa secolarizzazione che porti ad una conoscenza scientifica del succedersi nel tempo
delle forme di vita cristiana Ó dei modi di vivere la propria fede nella comprensione crescente del mistero di Cristo.
Un criterio della storia della Chiesa deve essere fondato:
a) ecclesiologicamente con una visione unitaria della presenza della Chiesa nella storia come comunione di un’unica
fede, nei rapporti tra Chiese d’Oriente e Chiesa d’Occidente,
b) ecumenicamente nel rivalutare le testimonianze di coloro che esclusi dalla piena comunione, tuttavia abbiano
mantenuto le comuni radici e tradizioni cristiane.
Si tratta di una valutazione microstorica avente per oggetto le Chiese orientali con i fatti ed eventi che le hanno
caratterizzate. Non è possibile identificare la storia globale della Chiesa con una storia della “Chiesa universale”, ma
quale storia globale di Chiese e comunità particolari e locali, laddove queste hanno un loro peso sia esistenzialmente
che ecclesiologicamente.
Occorre tener conto anche della vasta dialettica della comunione e quindi dell’ecumenismo con le altre comunità
cristiane orientali.

Modo di vivere la Fede


Come icona possiamo prendere Lc 17, 5-6:
[5] Gli apostoli dissero al Signore:
[6] "Aumenta la nostra fede!". Il Signore rispose: "Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo
gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.

Nella fede troviamo tre elementi:


a) rapporto personale di fiducia fra Dio e l’uomo (credere Deo=Fides qua) come partecipazione attiva del Fedele verso
Dio che si apre e si rivela.

223
H. JEDIN, Introduzione alla Storia della Chiesa, Brescia 1973 p. 55 e ss. Si veda anche AA. VV., Problemi di
metodo storico, Bari 1973; J. MARITAIN, Per una filosofia della storia, Brescia 1972 , p. 99 e ss.; J HUIZINGA, La
mia via alla storia e altri saggi, Bari 1967 p. 3 e ss.
224
G. ALBERIGO, Nuove frontiere della storia della Chiesa, nel vol. di H. JEDIN, Introduzione alla storia della
Chiesa, Brescia 1996, p. 16 e ss.

80
b) espressione contenutistica (credere Deum = Fides quae) o proposizioni concrete che si rifanno ai contenuti
enunciabili della fede stessa;
c) elemento di attuazione ecclesiale: si crede assieme alla comunità dei credenti che già costituita cammina nella storia,
laddove il soggetto è incorporato attraverso il Battesimo. La Chiesa è il luogo storico della fede in quanto la sua forza,
credibilità e vita le appartiene in funzione della fede. Si ha il vissuto della fede sia in un contesto di Chiesa che di
singolo Fedele come riconoscimento in Dio del proprio fondamento. Il libero dono di Dio, segno e strumento di sovrana
e libera benevolenza, si attua nella Chiesa, e questa dalla fede ed alla fede è essenzialmente ordinata.
La fede è un dono che coinvolge ed impegna la libertà umana, quindi l’esperienza umana, richiedendosi un atto
pienamente umano, intellettualmente onesto e moralmente responsabile 225.
Il luogo odierno della fede si rapporta con la questione dell’uomo contemporaneo dell’esistenza umana e della storia,
quindi il problema del senso ultimo della realtà, della vita e della storia.
Tutto questo si applica anche alle comunità, insieme di fedeli.

Nel c. 28 §2 CCEO i riti che sono considerati dal CCEO, sono quelli derivati dalle cinque grandi tradizioni
orientali, laddove ognuna delle 22 Chiese orientali è riconducibile ad una di queste cinque grandi Tradizioni. La
tradizione costantinopolitana è menzionata per ultima e non si è usato il criterio di ordinarle secondo le modalità dei
tempi antichi e la sanzione dei Concili Ecumenici 226. Ancora in OE n. 3 si stabilisce la pari dignità per cui il Legislatore
ha optato di enumerare i riti in ordine alfabetico227.
Tornando al c. 27-28 notiamo come in tale parte legislativa il rito in senso codiciale assume la forma di valore quale
dato proveniente dalla tradizione, laddove rapportato ad un altra cultura si caratterizza ed assume forme dinamiche
nuove. Ecco che il rito quale patrimonio ed insieme dei beni, può essere, a determinate condizioni, proposto o scelto,
vissuto nell’interesse del Christifidelis in un particolare luogo, tempo e spazio in una dinamica di missione come
principio unificatore della Chiesa universale, quindi di annuncio ed evangelizzazione. Assumerà così il rito come valore
culturale il ruolo di elemento determinante la pratica, i desideri, nonché i comportamenti, atteggiamenti e giudizi della
persona. Il rito come valore si porrà nell’ordinamento ecclesiale secondo “sistemi” di gerarchizzazione laddove con
riferimento alla Chiesa universale vi è un condizionamento o ispirazione ed orientamento nell’osservanza rituale.
Certamente il rito impegnerà un riconoscimento effettivo della tradizione sia liturgica, teologica, spirituale e canonica,
nonché istituzionale, implicando la cultura ed il complesso storico relativamente alla Chiesa cattolica che ogni Chiesa
sui iuris.228
In fondo i cc.27-28 raccordano e prevedono l’unificazione del patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare e
canonico nel concetto di ritus ma pure insieme di corpus. Si noti come i predetti canoni esplichino quella coesione tra la
dimensione universale e particolare della Chiesa con la possibilità di inanza reciproca tra le due dimensioni della stessa
realtà, esprimendo altresì le strutture della koinonia secondo l’elemento unificatore del ritus, ma anche delle tradizioni
nella cultura in un determinato momento storico229.

I rapporti fra la tradizione ed il rito


Tradizione deriva dal Latino Traditio ( in greco paràdosis, Παράδοσις) che significa:
a) atto materiale di “consegna” anche nel significato di “resa” (Livio);
b) “Consegna mediante parole”, quindi “insegnamento” (in questo senso traditio praeceptorum quale
“esposizione verbale dei precetti” perché vengano presi) (Quintiliano);
c) Tradizione (Gelio).
Trans dare indica un ricevere ed un dare, trans oltre, al di là, riferendosi a limiti temporali, che la memoria tramandata
sorpassa e vince, sia ai limiti spaziali sia all’esperienza soggettiva di chi, possedendo una conoscenza, la partecipa ad
altri mediante una “trasmissione”. Diviene così “consegna trans-personale” di un dato culturale (in senso stretto) che
esiste anteriormente sia a chi lo riceve e che questi apprende per la prima volta da chi lo istruisce per poi a sua volta
trasmetterlo. La trasmissione è legata alla successione.

225
Epitteto (prima metà del II secolo d.C.) dice in Homiliai 2; 4.1 che “l’uomo è nato per la fides, e chi ciò sovverte,
sovverte il proprio [la natura] dell’uomo” (ό άντρωπος πρός πίστιν γέγονεν καί τουτο ό ανατρέπων ανατρέπει τό ίδιον
του άνθρώπου).
226
Si sanciva nel Concilio Lateranense IV del 1215, ex Cost. 5 l’ordine seguente: Costantinopolitana, Alessandrina,
Antiochena, Caldea ed Armena. Si veda la fonte nel c. 303 §1 n. 1 PAL.
227
Mancano in tale elenco Roma che non è Patriarcato orientale e Gerusalemme che non ha un rito proprio. D. LE
TOURNEAU, Églises Catholiques Orientales. Bref aperçu historique, in AA. VV., Acta Symposii Internationalis circa
Codicem Canonum Ecclesiarum Orientalium, Kaslik, 24-29 Aprilis 1995, Kaslik 1996, p. 597-607.
228
M.J. LE GUILLOU, Les Églises Orthodoxes devant le monde moderne, in Istina 5(1958), p. 417-442.
229
Si veda E. LANNE, Tradition et Communion des Églises, Recuil d’Études, Leuven 1997, laddove si trova lo studio
titolato: Les différences compatibles avec l’unité dans la tradition de l’Église ancienne (jusqu’au XII° siècle), p. 359-
385.

81
Si è visto che il termine tradizione in senso generale ha diversi e vari significati tra loro connessi, si ritiene però
che possano essere utili i riferimenti le elaborazioni proposte ed accettate dalla dottrina teologico-giuridica attuale, al di
là di una mera distinzione tra orientale ed occidentale230:
1) Emerge un primo significato di tradizione in senso teologico laddove la Chiesa è dono del Padre per il Figlio
nello Spirito Santo assumendo un’accezione: a) in senso ampio di trasmissione della Rivelazione; b) in senso più stretto
come trasmissione non scritturistico della Rivelazione. In senso teologico ed ecclesiologico la tradizione (paràdosis) è
la continuità della Chiesa che possiede la Rivelazione come patrimonio vivo in atto nel suo insegnamento e nella sua
fede. Nella tradizione in senso teologico la rivelazione cristiana è la norma di ogni trasmissione che giunge come
tradizione231 e fa’ sì che assuma contenutisticamente la forma di “dono di Dio nella storia salvifica” 232. La Tradizione di
fede come radicale riferimento a Gesù come Signore, nella storia della Chiesa si esprime in una molteplicità di forme ed
usanze umane soggette ad un perfezionamento ed attuazione che si rapporta alla cultura in cui insistono 233.
2) La tradizione in senso filosofico è il vivo riportarsi di tutto il passato di una cultura, di una comunità nel suo
presente nel quale soltanto tale passato esiste ancora. La tradizione diviene il trasmettersi di un elemento della storia,
non solamente come registrazione, ma in un comportamento storico attraverso la parola ed il costume, come base per il
suo essere. Il dinamismo del momento storico passerà quindi attraverso a) la tradizione come base da cui si protende il
momento storico; b) struttura attuale del momento storico; c) protendersi al futuro. L’esperienza già fatta diviene così
tradizione assumendo naturalmente un valore di norma per l’esperienza da compiersi nel presente 234.
3) La tradizione in senso storico è la trasmissione di memorie, usi e costumi, racconti di avvenimenti della
Chiesa indispensabili nella fedeltà anche se passibili di cambiamento e rinnovamento. Nella tradizione in senso storico
si ha: a) continuità ininterrotta (come fedeltà) della Chiesa al Signore e dono dello Spirito ed a se stessa, come santa e
bisognosa di purificazione235, con necessità di verifica e conversione continua; b) pluralismo nelle culture e linguaggi
secondo un itinerario dialogico che porti alla comunione con Dio (Ef. 2,14) 236. c) Progresso con maturazione 237 ed
autocoscienza della Chiesa e della Fede come sguardo del passato con i frutti maturati dalla tradizione stessa secondo
l’esperienza dialogica.
Si distinguono oltremodo: a) tradizione in senso storico-esistenziale come usanza nella vita della Chiesa, ma
pure vissuto della propria vocazione di ogni Christifidelis nell’inserimento nella propria realtà di Chiesa sui iuris
secondo gli elementi specifici liturgico, teologico, spirituale e disciplinare nella continuità della traditio; b) in senso
storico-missionario come servizio di ogni Christifidelis nella propria Chiesa sui iuris con disponibilità ed apertura alla
missione ed annuncio.
Per quanto riguarda gli elementi della tradizione ecclesiale si notano:
a) La comunione come salvezza offerta da Cristo sperimentato e trasmesso con l’annuncio degli Apostoli
(1Gv. 1,3) fino all’annuncio della Fede da parte della Chiesa. La tradizione diviene quindi trasmissione di un depositum
(1Tm. 6,20) che è al servizio del prolungamento nel tempo e nella storia secondo il vincolo della comunione.
b) La comunità ecclesiale con trasmissione della fede nella comunione verso nuovi fedeli, in senso diacronico
di continuità. La tradizione cristiana vede la comunità ecclesiale in modo sincronico come luogo di adesione alla fede
trasmessa secondo una prassi e peculiarità propria come nelle Chiese sui iuris238 rendendo riconoscibili i discepoli di
Cristo attraverso il criterio dell’amore e carità (Gv. 13, 34-35; 17, 21-23).
c) Il Sacramento come realizzazione salvifica dell’annuncio: nel Battesimo riferentesi all’aspetto diacronico
della comunione; l’Eucarestia come riferimento sincronico. L’Ordine assumerà entrambi i significati: diacronico e
sincronico.
Se vogliamo analizzare la tradizione secondo le differenti strutture si nota:
a) L’istituzione con riferimento alla fedeltà del Sacramento e deposito. Il significato dell’istituzione nella
tradizione rimanda al significato del Diritto nella Chiesa che ha come peculiarità: 1) il consolidamento della
consuetudine nella vita del popolo di Dio come processo normale della dinamica di tradizione; 2) il diritto divino

230
In genere i giuristi hanno studiato il fenomeno analogo della consuetudine, mancando una riflessione sistematica
circa la tradizione. Si veda il riferimento in G. NEDUNGATT, The Spirit of the Eastern Code, Bangalore 1993, p. 65 e
ss. A. C. JEMOLO, Tradizione ed innovazione. (La querelle des Anciens et des Modernes dans le monde actuel) , in
AA. VV., Scritti giuridici in memoria di Piero Calamandrei, Padova 1957 [Estratto]. E. G. FARRUGIA, Tradition in
Transition. The vitality of the Christian East, (Mar Thoma Yogam, The St. Thomas Christian Felloship, Rome), Roma
1996; J.G. BOEGLIN, La question de la Tradition dans la Theéologie Catholique contemporaine, Paris 1998.
231
DV n. 1-2.
232
DV n. 8. Per una visione e trattazione da un punto di vista delle Chiese Ortodosse: B. PETRÀ, Tra cielo e terra.
Introduzione alla Teologia morale ortodossa contemporanea, Bologna 1992, p. 36 e ss.
233
B. GHERARDINI, Sul concetto teologico di tradizione, in AA. VV., Tradizione e rivoluzione. Atti del XXVII
Convegno del Centro di Studi filosofici tra professori universitari- Gallarate 1972, Brescia 1973, p. 70-89.
234
C.A. EMGE, Intorno alla filosofia della tradizione, Essen 1942.
235
LG n. 8.
236
AG n. 22.
237
DV n. 8.
238
LG n. 12.

82
positivo (che fa parte del deposito rivelato) 239; 3) istituzionalizzazione della formulazione di fede secondo formule
giuridiche sancite dal magistero nell’unità.
b) I carismi, essendo la tradizione affidata a tutto il popolo di Dio, sono doni e funzioni dati da Dio nella
missione della Chiesa secondo una diversità e complementarietà che può solamente arricchire. La tradizione conosce
l’apporto dei carismi e ministeri a beneficio dell’istituzione. Viene espresso pure un riconoscimento della funzione dei
teologi e dei giuristi nella tradizione in rapporto diretto ed indiretto con la Fede.
c) Gli avvenimenti che non si contrappongono alla tradizione ed istituzione nel senso di novità di Dio come
rivelazione di libertà che è manifestazione dello Spirito. La libertà dello Spirito si manifesta nella libertà che si crea nei
fedeli.
Viene in evidenza la tradizione come dimensione esistenziale ed impegno ecclesiale di trasmissione del
Vangelo che richiede un impegno pastorale ed imperativo morale nella missione della Chiesa perché la tradizione abbia
consistenza. Necessiterà: 1) l’impegno di ogni cristiano alla missione della Chiesa; 2) apostolato che si realizza avendo
riguardo alla tradizione240; 3) dialogo con il passato ed impegno per il futuro. Nel primo caso si avrà la conversione
materiale di patrimonium ed attenta rilettura con arricchimento ed interpretazione ermeneutica di una storia lasciandone
però alla Chiesa la valutazione ed il riconoscimento ex c. 27.
Ancora, la tradizione nel senso di continuità nella novità assume una dimensione storico-missionaria come: a) missione
ed annuncio secondo l’impegno esistenziale; b) dialogo ecumenico con il ruolo precipuo delle Chiese cattoliche
orientali241.
Emerge così la finalità della tradizione: custodia delle identità e della propria vocazione cristiana, mentre per quanto
riguarda il contenuto: necessiterà ex cc. 27 e 28 oltre al riconoscimento della sua autorità da parte del supremo
legislatore, un’armonizzazione degli elementi giuridici, teologici, spirituali e culturali 242. Ma esiste anche uno
sbarramento: la tradizione si avvale per la sua efficacia oltre che della codificazione del Supremo legislatore nel CCEO
anche di una seguente produzione e statuizione normativa particolare che abbia però l’attenzione ed il rifiuto di
moltiplicazione di leggi senza necessità o aggiunte che siano contro o praeter la tradizione e cultura, nonché dalla storia
delle Chiese sui iuris.
Modalità propositive della tradizione per i Christifideles sono: la disponibilità ed il riferimento relazionale in modo che
le persone nei vari momenti della vita spirituale-ecclesiale e pratica costituiscano un rapporto secondo la liturgia, la
lettura, la preghiera personale e comunitaria, divenendo la tradizione quasi una “regola di vita”. Il linguaggio ed il
riferimento della tradizione sarà chiaro e limpido facilmente memorizzabile guardando al passato avendo l’indicazione
per il vissuto presente.
Il concetto di tradizione rapportato ai cc. 27-28 diviene testimonianza omnicomprensiva rituale e quindi anche
sussunzione della normativa del passato attraverso meccanismi istituzionali ecclesiali che conservano, interpretano e
rivitalizzano nel presente l’esperienza rituale stessa. La tradizione quale depositum ha una sua continuità vitale, nel
nostro caso verso un accrescimento: comprensione selettiva e dinamica che attraverso un processo di trasmissione opera
un’unione tra quelle che sono le varie acquisizioni del passato con le riforme e novità.
La tradizione in senso dinamico è sì un processo con una prospettiva oggettiva che ha riferimento a ciò che viene
trasmesso ma pure una prospettiva soggettiva che riguarda il Christifidelis che riceva, custodisca e trasmetta il
depositum. La tradizione in senso stabile come presenza e riferimento storico-culturale è il depositum al quale il
cristiano è chiamato ad accedere ed usufruire pro bono Ecclesiae ma anche la salus animarum in senso oggettivo;
mentre l’aspetto soggettivo emerge per l’azione dell’usus ad finem sanctificandi. L’appartenenza ecclesiale ex c. 27, del
rito ex c. 28 diviene quindi esperienza giuridica verso una tradizione patrimoniale normativa che deriva una
stratificazione canonica, e “devota conservazione”243.
Se la pratica interpretativa rispetto ad una tradizione rituale rimanda ad un contesto ecclesiale sui iuris che lega tra loro i
Christifideles, questa esperienzialità avviene anche nel campo del diritto che riporta ad un ambiente che unisce tra loro i

239
DV n. 17.
240
AA n. 2.
241
OE n. 24. Problema scoperto posto dal protestantesimo avendo il riferimento alla sola S. Scrittura. Il superamento
avviene con la valorizzazione del tempo di Cristo e quello della predicazione apostolica; storicità della tradizione
nell’epoca postapostolica; superamento meramente conservativo della tradizione. ancora, problema radicale dell’unità
che diviene unità della Tradizione nell’essere pienamente tradizione non come ritorno al passato ma reale progresso
verso il futuro.
242
Tradizione come difesa dell’identità ecclesiale e la sua “unità” nella dimensione temporale secondo la missione della
Chiesa nella storicità: M. SECKLER, Tradition und Fortschritt, en Christlicher Glaube in Moderner Gesellschaff, vol.
23, freiburg I.B. 1982, p. 5-53. Per quanto riguarda la tradizione come fonte del Diritto Canonico: F. DELLA ROCCA,
Tradizione, in Novissimo Digesto Italiano, XIX, Torino 1973, p. 469-470.Circa la tradizione canonica si veda il c. 6 §2
CIC e c. 2 CCEO (anche se occorre notare un mutamento di terminologia laddove non si parla espressamente di
tradizione): H. PREE, Traditio canonica. La norma de interpretacion del c. 6 §2 del CIC, in Ius Canonicum 35(1995) p.
423-446.
243
Sul concetto di tradizione e sulla rilevanza che la stessa assume nell’ambito dell’esperienza giuridica in senso
generale, si veda: B. PASTORE, Tradizione e diritto, Torino 1990, quivi p. 14.

83
fedeli secondo in una medesima tradizione giuridica 244. I Christifideles di una Chiesa sui iuris condivideranno così un
substrato tradizionale comune dato dalla fede, patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare che oltre i Sacri
canones annovera ultronea legislazione, precedenti, usi e costumi 245, consuetudini246, prassi, ma pure orientamenti
dottrinali e giurisprudenziali con le opinioni, competenze e saperi. Tali elementi che si rinsaldano e solidificano
secondo modelli interpretativi mediati dal contesto storico e culturale strutturano l’intersoggettività dei Christifideles
nella traditio stessa247. Si svolgerà ed attuerà così la prassi in un tessuto orientale come quello del CCEO che ha la sua
appartenenza nella tradizione in generale o tradizioni proprie a cui si rifanno le Chiese sui iuris248.
Si può dire che nel CCEO il termine tradizione ha un significato ampio ecclesiale come acquisizione attiva del passato,
in senso attivo come memoria ecclesiastica che, originata dalla Chiesa post-apostolica, assume ora un significato come
voce del presente specifico di novità249 ex c. 28. Dall’altra in senso passivo la tradizione è espressa nell’essere costante
nella liturgia come vita e documenti, nella teologia con gli scritti dei Padri, nella spiritualità, dottrina e disciplina con le
definizioni conciliari in un substrato comune di elementi che confluiscono ed hanno un riferimento al diritto 250.
Se la tradizione anticipa l’avvenire e si pone ad illuminare attraverso lo sforzo stesso che essa fa per rimanere
fedele al passato diviene così “guardiana” e partecipatrice del dono iniziale. La tradizione fa sì che anche la Chiesa sui
iuris attraverso questo dono nella storia con la cultura, sia preparato lo sviluppo della vita nel tempo e nello spazio della
Chiesa universale251, ciò che si propone il c. 28 CCEO.
Nel CIC 83 vi sono varie espressioni relative alla tradizione: tradizione canonica c. 6 §2 CIC (che corrisponde
al c. 2 CCEO, ma questo non usa l’espressione); sacra tradizione ex c. 252 §3 (che non ha corrispettivo con il CCEO);
sane tradizioni ex c. 576 CIC (non ha il corrispettivo nel CCEO) e c. 578 CIC 83 252 (il corrispettivo CCEO non usa tale
espressione); legittima tradizione c. 588 § 2-3 CIC (c. 505 §3 che contiene la medesima locuzione e 554 §2 CCEO che
non la contiene); antica tradizione ex c. 926 CIC 83 (c. 707 §1 non riporta l’espressione); tradizione apostolica c. 1246
§1 CIC 83 (c. 880 §3 CCEO non riprende la fraseologia).
Nel CCEO si hanno le seguenti espressioni: sacra traditio nel c. 607 (non c’è corrispettivo nel CIC); mentre
nel c. 39 si parla solamente della tradizione che proviene dagli apostoli attraverso i Padri (non c’è corrispettivo nel
CIC); c. 28 §2 parla di tradizioni semplicemente (non c’è corrispettivo nel CIC). Il c. 55 CCEO parla di antiquissima
traditio relativamente alle Chiese patriarcali nella Chiesa universale (non c’è corrispettivo nel CIC); c. 373: si parla
della universae Ecclesiae traditio (c. 277 §1 CIC e non c’è corrispettivo nel CIC); c. 694 relativamente alla
crismazione dle Santo Myron (c. 882 CIC e non c’è corrispettivo terminologico nel CIC); c. 782 §1 circa gli sponsali (c.
1062 §1 e non c’è corrispettivo terminologico nel CIC); c. 903 si parla delle antiche tradizioni delle Chiese orientali nel
campo dell’ecumenismo (non c’è corrispettivo nel CIC); c. 1426 §1 (si dice: secondo le antiche tradizioni delle Chiese
orientali e non c’è corrispettivo di un canone nel CIC)); c. 204 §3 (si parla del Vescovo eparchiale nei giorni delle
principali solennità conformemente alla tradizione della sua Chiesa sui iuris c. 395 §3 CIC e non c’è corrispettivo
terminologico nel CIC)); c. 330 §3 (tenendo conto della tradizione della Chiesa sui iuris, c. 242 §1 CIC e non c’è
corrispettivo terminologico nel CIC) ) e c. 346 §2 n. 6 (venerabile tradizione della loro Chiesa sui iuris, c. 246 §5 CIC e
non c’è corrispettivo terminologico nel CIC) e c. 354 (circa i diaconi, si parla di tradizioni della loro Chiesa sui iuris, c.
244
B. PASTORE, p. 83 e ss.
245
Sul significato etico-religioso dei mores: L.J. MUNOZ, The rationality of tradition, in Archiv für rechts und
Sozialphilosophie 67(1981), p. 213 e ss.
246
V. PERI, Lo scambio fraterno tra le Chiese: Componenti storiche della comunione, Città del Vaticano 1993, p. 68 e
ss. a proposito di due diversi rituali per la cresima quale ostacolo tra Oriente ed Occidente ricorda come nel Concilio di
Costantinopoli dell’ 869/870 si sia stabilito come ogni tradizione dovesse conservare le proprie consuetudini. Circa la
tradizione e le consuetudini, B. PASTORE, p. 40 e ss.
247
B. PASTORE, p. 80 e ss.
248
Per quanto riguarda la dogmatica giuridica civile risulta interessante anche per la nostra materia: G. ZACCARIA,
L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, Padova 1990.
249
Così H.G. GADAMER, Verità e metodo, Milano 1986, p. 355. Si ricorda come G. FLOROVSKIY, Westliche
Einflüsse in der Russichen Theologie, in AA. VV., Procès Verbaux du Premier Congrès de Théologie Orthodoxe à
Athènes, 29 novembre-6 décembre 1936, publiés par les soins du Président Prof. Hamilcar S. Alivisatos, Athènes 1939,
p. 212-231 laddove cercando un criterio formale e normativo per la tradizione ha coniato l’espressione di “ritorno alle
tradizioni paterne” come ritorno non alla lettera ma allo spirito dei documenti dei Padri, nell’insegnamento degli stessi e
dottrina, ma tali tradizioni per l’A. saranno solamente ellenistiche e greche. L’A. nella comunicazione: Patristics and
modern Theology, p. 238-242, alla fine esclamerà: “Siamo più Greci per essere veramente cattolici per essere veramente
Ortodossi”, così p. 242.
250
UR n. 17: “...Per ciò che riguarda le autentiche tradizioni teologiche degli orientali, bisogna riconoscere che esse sono
eccellentemente radicate nella Sacra Scrittura, sono coltivate ed espresse dalla vita liturgica, sono nutrite dalla viva
tradizione apostolica, dagli scritti dei Padri e degli scrittori ascetici Orientali e tendono ad una retta impostazione della
vita, anzi alla piena contemplazione della verità cristiana...”.
251
In tal modo citando Blondel, Y. CONGAR, Tradition et vie ecclésiale. La Tradition mode original de
communication, in Istina 8(1961-1962) p.411-436, quivi p. 426.
252
J. BEYER, Come si devono intendere la parole del c. 578 “le sane tradizioni”?, in Vita Consacrata 21(1985) p.
582.

84
236, c. 236 n. 1 e c. 236 n.2 e non c’è corrispettivo terminologico nel CIC); c. 621 §2 (circa il direttorio catechetico
assieme all’elemento biblico e liturgico le tradizioni di ogni Chiesa sui iuris e non c’è corrispettivo di un canone nel
CIC)); c. 708 relativo all’obbligazione di ricevere la Divina Eucaristia in pericolo di morte oppure in tempi determinati
secondo una laudabilissima traditio (o per il diritto particolare) (si vedano i c. 920 §1 e §2 e c. 921 §1 CIC e non c’è
corrispettivo terminologico nel CIC); c. 433 §1 (si parla di regole e tradizioni della vita monastica e non c’è il
corrispettivo di un canone nel CIC)).

Si noti che dopo tutto ciò che è stato detto risulta che i rapporti tra la tradizione ed il rito sono strettissimi, interni ed
imprescindibili in quanto insieme si costituiscono e completano, di originarietà, dipendenza e continuità.
Dalla tradizione e consuetudine, il rito origina assunto a legge. Se l’efficacia e finalità dei Sacramenti risale a
Cristo, nella forma concreta degli stessi è nata un’azione che è maturata nella tradizione della Chiesa ed in seguito
fissata la norma rituale in un momento storico e culturale, ha preso così il valore di legge.
Il c. 28 §2 fa riferimento quindi alla varietas dei cinque riti secondo la tradizione, ma non essendo tali modalità di
vivere statiche o congelate nel tempo, a secondo del luogo e del mutamento temporale nonché della cultura, verrà
espressa la varietas appartenente ad una propria tradizione. Si diceva che la tradizione non deve essere confusa secondo
una base di staticità ma ripresa nella forma dinamica che nello spazio cronologico, attraverso la storia e la cultura,
ricompone quella varietas nell’alveo della vita della stessa Chiesa sui iuris. Ecco che tale fenomeno riguarda il rapporto
tradizione e cultura che ha determinato le differenti varietates nel seno stesso di un medesimo rito, che corrispondono
attualmente ad una denominazione particolare della Chiesa sui iuris.
La varietà dei gruppi delle differenti Chiese si fonda sulla diversità e oltremodo numericamente diffusa
presenza dei riti che il c. 28 ritiene e riconosce nel numero di cinque. Tale determinazione codiciale è in rapporto e
funzione alle tradizioni di provenienza, originatesi nella storia. Di più, la determinazione secondo l’ordine alfabetico ex
c. 28 §2 vuole far sì che non nascano contese relative all’importanza degli stessi riti, mantenendoli su uno stesso piano.
Come detto precedentemente necessita fare attenzione a non equiparare in modo errato le tradizioni con i riti
anche se necessita distinguere le prime come basi da cui hanno originato e derivato i riti stessi. Non si tratta certamente
di una qualsivoglia uguaglianza, ma più esattamente di derivazione temprata dalla cultura e dalla storia, che in ulteriore
momento hanno prodotto le diversificazioni delle varie Chiese sui iuris.

Can. 111 CIC 83


CIC 1983 CIC 1917 CCEO MP
can.
Can. 111 - § 1. Con la ricezione c. -----
del battesimo è ascritto alla
Chiesa latina il figlio dei genitori,
che ad essa appartengono o, se
uno dei due non appartiene ad
essa, ambedue i genitori di
comune accordo abbiano optato
che la prole fosse battezzata nella
Chiesa latina; che se manca il
comune accordo, è ascritto alla
Chiesa sui iuris, cui appartiene il
padre.
§2. Se poi soltanto uno dei
genitori è cattolico, è ascritto alla
Chiesa alla quale il genitore
cattolico appartiene.
§ 3. Qualsiasi battezzando che
abbia compiuto quattordici anni
di età, può liberamente scegliere
di essere battezzato nella Chiesa
latina o in un’altra Chiesa sui
iuris; nel qual caso, egli
appartiene a quella Chiesa che
avrà scelto.

Can. 112 CIC 83

85
CIC 1983 CIC 1917 CCEO MP
can.
Can. 112 - § 1. Dopo aver c. -----
ricevuto il battesimo, sono ascritti
a un’altra Chiesa sui iuris: 1) chi
ne abbia ottenuto la licenza da
parte della Sede Apostolica; 2) il
coniuge che, nel celebrare il
matrimonio o durante il
medesimo, abbia dichiarato di
voler passare alla Chiesa sui iuris
dell’altro coniuge; sciolto però il
matrimonio, può ritornare
liberamente alla Chiesa latina; 3)
i figli di quelli, di cui ai nn. 1 e 2,
prima del compimento dei
quattordici anni di età e
parimenti, nel matrimonio misto, i
figli della parte cattolica, che sia
passata legittimamente a un’altra
Chiesa sui iuris; raggiunta però
questa età, i medesimi possono
ritornare alla Chiesa latina.
§ 2. L’usanza, anche se a lungo
protratta, di ricevere i sacramenti
secondo il rito di una Chiesa sui
iuris, non comporta l’ascrizione
alla medesima Chiesa.
§3. Ogni passaggio ad altra
Chiesa sui iuris ha valore dal
momento della dichiarazione fatta
alla presenza dell’Ordinario del
luogo della medesima Chiesa o
del parroco proprio oppure del
sacerdote delegato da uno di essi
e di due testimoni a meno che un
rescritto della Sede Apostolica
non disponga diversamente; e si
annoti nel libro dei battezzati.

86
Can. 2 CIC (can. 3 CCEO)
CIC 1983 CIC 1917 CCEO MP
Can. 3 Anche se il Codice si
Can. 2 - Il Codice il più delle Can. 2 Codex, plerumque, nihil riferisce spesso alle prescrizioni -----
volte non definisce i riti, che decernit de ritibus et dei libri liturgici, per lo più non
sono da osservarsi nel celebrare caeremoniis quas liturgici libri, decide in materia liturgica;
le azioni liturgiche; di ab Ecclesia Latina probati, perciò queste prescrizioni
conseguenza le leggi liturgiche servandas praecipiunt in devono essere osservate
finora vigenti mantengono il celebratione sacrosancti Missae diligentemente, a meno che non
loro vigore, a meno che sacrificii, in administratione siano contrarie ai canoni del
qualcuna di esse non sia Sacramentorum et Codice.
contraria ai canoni del Codice. Sacramentalium aliisque sacris
peragendis. Quare omnes
liturgicae leges vim suam
retinent nisi earum aliqua in
Codice expresse corrigatur.

Can. 2 CCEO: si ha qui un rimando al diritto antico delle Chiese orientali, al fine di valutare ed
interpretare i canoni del CCEO, mostrandosi la volontà di continuare e conservare la tradizione
canonica antica253. Il supremo legislatore ha recepito ed adattato il diritto antico delle Chiese
orientali.
Il CCEO deve essere valutato, compreso ed interpretato alla luce del diritto antico delle Chiese
orientali254. Il diritto antico quindi non è abrogato ma conservato ed incorporato nel CCEO, oppure
adattato con un aggiornamento evolutivo secondo la tradizione. Il diritto antico della Chiese
orientali può divenire fonte di diritto suppletivo per colmare le lacune del sistema normativo.
Il CCEO deve essere valutato in base all’antico diritto delle Chiese orientali che mantiene il suo
vigore, esprimendo le genuine tradizioni. Si veda il c. 1501 CCEO che per tutti è esplicito. Con il c.
2 si dà applicazione ad OE n. 6 ed OE n. 12.
Si ha una relazione tra il c. 1495 CCEO e c. 10 CIC 83
c. 1496 c. 14
c. 1497 c. 15
c. 1498 c. 16
c. 1499 c. 17
c. 1500 c. 18
c. 1501 ≠ c. 19 (il c. 1501 CCEO è applicazione
del c. 2 CCEO)

Can. 2 CIC (can. 3 CCEO): questa norma stabilisce il principio generale secondo cui le
prescrizioni dei libri liturgici debbano essere osservate diligentemente e che non debbano essere
contrarie al CCEO.

253
Nuntia 24-25(1987) p. 1 e 28(1989) p. 14.
254
Nuntia 22(1986) p. 18.

87
La materia liturgica non è regolata direttamente dal CCEO, ma questo spesso vi si riferisce. Il
CCEO seppure prescriva di non imporre l’accomodamento di tale materia ai canonni del Codice,
tuttavia la materia liturgica non deve essere stabilita o conservata contrariamente al CCEO 255. I
cambiamenti dei testi liturgici debbono essere secondo il CCEO, ma nel contempo avere la
custodia, la tutela, e l’osservanza del proprio rito, non ammettendo mutamenti che non siano per un
vero ed organico progresso (c. 657 §4 e c. 40 §1).
Le fonti del diritto liturgico delle Chiese sui iuris provengono da a) CCEO; b) diritto particolare
contenuto nei libri liturgici; c) leggi, prescrizioni, norme, regole e statuti liturgici consuetudinari.
Circa l’approvazione dei libri liturgici si veda il c. 657.

CIC 1983 CIC 1917 CCEO MP

Can. 3 I canoni del Codice non Can. 3 Codicis canones initas ab Can. 4 I canoni del Codice non -----
abrogano le convenzioni stipulate Apostolica Sede cum variis abrogano né derogano alle
dalla Sede Apostolica con le Nationibus conventiones convenzioni stipulate oppure
nazioni o con le altre società nullatenus abrogant aut iis aliquid approvate dalla Santa Sede con
politiche nè ad esse derogano; le obrogant; eae idcirco perinde ac nazioni o con altre società
medesime perciò continuano ad in praesens vigere pergent, politiche; le stesse perciò
essere in vigore come al presente, contrariis huius Codicis continuano tuttora ad aver vigore
non opponendosi in alcun modo praescriptis minime obstantibus. non ostando per nulla le
le disposizioni contrarie di questo prescrizioni contrarie del Codice.
Codice.

Can. 3 (can. 4 CCEO): il canone è l’applicazione della regola o brocardo Pacta sunt servanda
laddove le convenzioni, i patti, ed i concordati che siano stati stipulati o approvati dalla Sede
Apostolica con Nazioni o altre società politiche oppure organismi internazionali, sono patti di diritto
pubblico esterno256. Il CCEO non abroga deroga tali situazioni pattizie.
Si riconoscono due categorie di atti a seconda della stipula: a) diretta da parte della S. Sede; b)
indiretta, con stipula da parte di istanze ecclesiastiche intermedie ed inferiori, ma approvate dalla
Sede Apostolica. Ne è esempio i concordati oppure i patti e le convenzioni stipulate dai Patriarchi
ex c. 98257.
La Chiesa intende rispettare i principi del diritto concordatario laddove si è in presenza non di un
insieme di contratti di diritto internazionale, ma di una specie di contratti intersocietari che
regolano i rapporti tra la Sede Apostolica e le Nazioni e le altre società politiche, oppure organismi
internazionali. Anche in tal caso si ha una esplicitazione di GS n. 76.

255
Nuntia 10(1980) p. 89 e 19(1984) p. 4.
256
Si veda per le modalità di tali patti GS 76:
257
Nuntia 10(1980) p. 90. Si veda anche il c. 99 che parla di Statuti personali che sono quegli accordi stipulati tra le
varie comunità religiose e le autorità civili statuali che ineriscono il governo interno e le persone fisiche e giuridiche di
queste comunità, secondo il dettato del c. 1504.

88
CIC CIC 17 CCEO MP

Can. 4 I diritti acquisiti, e Can. 4 Iura aliis quaesita, Can. 5 I diritti acquisiti come -----
parimenti i privilegi che, itemque privilegia atque indulta pure i privilegi concessi dalla
concessi dalla Sede Apostolica quae, ab Apostolica Sede ad Sede Apostolica fino al presente
fino al presente alle persone sia haec usque tempora personis a persone fisiche o giuridiche e
fisiche sia giuridiche, sono in sive physicis sive moralibus che sono in uso e non sono stati
uso e non revocati, permangono concessa, in usu adhuc sunt nec revocati, rimangono integri, a
integri, a meno che non siano revocata, integra manent, nisi meno che non siano
espressamente revocati dai huius Codicis canonibus espressamente revocati dai
canoni di questo Codice. expresse revocentur. canoni del Codice.

Can. 4 CIC (can. 5 CCEO): i diritti acquisiti ed i privilegi accordati dalla Sede Apostolica anche
contra ius ritengono la loro validità a meno che nel CIC e CCEO non si dica diversamente.
Si applica il principio della non retroattività delle leggi verso:
a) i diritti acquisiti che sono diritti soggettivi quelli in cui il soggetto è in legittimo possesso, fondati
su fatti giuridici (differenti da quelli innati o naturali e da quelli da acquisire) nel senso che sono
nati da azioni umane regolate dalla legge.
b) I privilegi concessi dalla Sede apostolica prima della promulgazione del CIC e CCEO e non
revocati. Sono questi i privilegi strictu sensu ex c. 1531 §1 CCEO258 che costituiscono un diritto
speciale , una grazia concessa a qualcuno in perpetuum.
Si è detto circa i diritti acquisiti ed i privilegi accordati dalla Sede Apostolica anche contra
ius che mantengono la loro validità a meno che nel CCEO non si dica diversamente.
Circa i diritti acquisiti occorre ricordare:
a) necessita un’interpretazione stretta dell’atto amministrativo ex c. 1512 §2 CCEO;
b) salvaguardia dei diritti acquisiti circa la disposizione dei beni di una persona giuridica ex c. 922
§1,5 e c. 928 e c. 929 CCEO;
c) salvaguardia dei diritti acquisiti nella rimozione di un ufficio ex c. 974 §1 CCEO;
d) salvaguardia dei diritti acquisiti nel trasferimento del parroco ex c. 1400 CCEO.

CIC CIC 17 CCEO .

Can. 5 §1 Le consuetudini sia Can. 5 Vigentes in praesens Can. 6 n.2 Sono revocate tutte
universali sia particolari vigenti contra horum statuta canonum le consuetudini che sono
al presente contro le consuetudines sive universales riprovate dai canoni del Codice,
disposizioni di questi canoni, sive particulares, si quidem oppure quelle che sono contrarie
che sono riprovate dagli stessi ipsis canonibus expresse a essi, ma non le centenarie o
canoni di questo Codice, sono reprobentur, tanquam iuris immemorabili.
soppresse del tutto, nè siano corruptelae corrigantur, licet
lasciate rivivere in futuro; anche sint immemorabiles, neve

258
Nuntia 22(1986) p. 15; 28(1989) p. 14.

89
le rimanenti si ritengano sinantur in posterum
soppresse, a meno che non sia reviviscere; aliae, quae quidem
disposto espressamente altro dal centenariae sint et
Codice oppure siano centenarie immemorabiles, tolerari
o immemorabili; queste poterunt, si Ordinarii pro
appunto, se a giudizio locorum ac personarum
dell'Ordinario non possono adiunctis existiment eas
essere rimosse a causa di prudenter submoveri non posse;
circostanze di luoghi e di ceterae suppressae habeantur
persone, possono essere nisi expresse Codex aliud
tollerate. caveat.

§2 Le consuetudini fuori del


diritto finora vigenti, sia
universali sia particolari, sono
conservate.

Can. 6 §1 Entrando in vigore Can. 6 Con l’entrata in vigore


questo Codice, sono abrogati: del Codice:
1) il Codice di Diritto Canonico n.1 sono abrogate tutte le leggi
promulgato nell'anno 1917; di diritto comune o di diritto
2) anche le altre leggi, sia particolare che sono contrarie ai
universali sia particolari, canoni del Codice, oppure che
contrarie alle disposizioni di riguardano una materia che è
questo Codice, a meno che non stata integralmente ordinata nel
sia disposto espressamente altro Codice;
circa quelle particolari; n.2 sono revocate tutte le
3) qualsiasi legge penale, sia consuetudini che sono riprovate
universale sia particolare dai canoni del Codice, oppure
emanata dalla Sede Apostolica, quelle che sono contrarie a essi,
a meno che non sia ripresa in ma non le centenarie o
questo stesso Codice; immemorabili.
4) così pure tutte le altre leggi
disciplinari universali
riguardanti materia, che viene
ordinata integralmente da questo
Codice.

Can. 6 §1 Entrando in vigore


questo Codice, sono abrogati:
n.1 il Codice di Diritto Canonico
promulgato nell'anno 1917;

Can. 6 §1 Entrando in vigore Can. 6. Codex vigentem huc Can. 6 Con l’entrata in vigore
questo Codice, sono abrogati: usque disciplinam plerumque del Codice:
n.2 anche le altre leggi, sia retinet, licet opportunas n.1 sono abrogate tutte le leggi
universali sia particolari, immutationes afferat. Itaque: di diritto comune o di diritto
contrarie alle disposizioni di n.1 Leges quaelibet, sive particolare che sono contrarie ai
questo Codice, a meno che non universales sive particulares, canoni del Codice, oppure che
sia disposto espressamente altro praescriptis huius Codicis riguardano una materia che è
circa quelle particolari; oppositae, abrogantur nisi de stata integralmente ordinata nel
particularibus legibus aliud Codice;
expresse caveatur;

90
Can. 6 §1 Entrando in vigore Can. 6. Codex vigentem huc
questo Codice, sono abrogati: usque disciplinam plerumque
n. 3 qualsiasi legge penale, sia retinet, licet opportunas
universale sia particolare immutationes afferat. Itaque:
emanata dalla Sede Apostolica, a n. 5 Quod ad poenas attinet,
meno che non sia ripresa in quarum in Codice nulla fit
questo stesso Codice; mentio, spirituales sint vel
temporales, medicinales vel, ut
vocant, vindicativae, latae vel
ferendae sententiae, eae
tanquam abrogatae habeantur;

Can. 6 §1 Entrando in vigore Can. 6. Codex vigentem huc Can. 6 Con l’entrata in vigore
questo Codice, sono abrogati: usque disciplinam plerumque del Codice:
n.4 così pure tutte le altre leggi retinet, licet opportunas n.1 sono abrogate tutte le leggi
disciplinari universali immutationes afferat. Itaque: di diritto comune o di diritto
riguardanti materia, che viene n.6 Si qua ex ceteris particolare che sono contrarie ai
ordinata integralmente da questo disciplinaribus legibus, quae canoni del Codice, oppure che
Codice. usque adhuc viguerunt, nec riguardano una materia che è
explicite nec implicite in Codice stata integralmente ordinata nel
contineatur, ea vim omnem Codice;
amisisse dicenda est, nisi in
probatis liturgicis libris
reperiatur, aut lex sit iuris divini
sive positivi sive naturalis.

Can. 6 §2 I canoni di questo Can. 6. Codex vigentem huc Can. 2 I canoni del Codice, nei
Codice, nella misura in cui usque disciplinam plerumque quali per lo più è recepito o
riportano il diritto antico, sono retinet, licet opportunas adattato il diritto antico delle
da valutarsi tenuto conto anche immutationes afferat. Itaque: Chiese orientali, devono essere
della tradizione canonica. n.2 Canones qui ius vetus ex valutati prevalentemente
integro referunt, ex veteris iuris partendo da quel diritto.
auctoritate, atque ideo ex
receptis apud probatos auctores
interpretationibus, sunt
aestimandi;
n.3 Canones qui ex parte tantum
cum veteri iure congruunt, qua
congruunt, ex iure antiquo
aestimandi sunt; qua discrepant,
sunt ex sua ipsorum sententia
diiudicandi;
n.4 In dubio num aliquod
canonum praescriptum cum
veteri iure discrepet, a veteri
iure non est recedendum;

Can. 6 §2 CIC (can. 6 CCEO):

Le conseguenze dell’entrata in vigore del CIC 83 in rapporto alla legislazione precedente:

Le conseguenze dell’entrata in vigore del CCEO in rapporto alla legislazione precedente:


a) abrogazione delle leggi di diritto comune (cioè leggi e consuetudini della Chiesa universale e
leggi e legittime consuetudini comuni a tutte le Chiese orientali ex c. 1439 §1) contrarie al CCEO

91
oppure che la materia sia integralmente ordinata (si ricordano i 4 m.p. CA, SN, PAL, CS che sono
stati abrogati)259.
Le leggi di diritto divino sia naturale che positivo non sono abrogate.
Le consuetudini particolari proprie di ciascuna Chiesa sui iuris se centenarie ed immemorabili non
contrarie al CCEO permangono; se contrarie al CCEO permangono a meno che non siano
espressamente riprovate dal CCEO260.
b) Abrogazione di leggi di diritto particolare contrarie al CCEO: son abrogate tutte le leggi, le
legittime consuetudini, gli statuti e le altre norme che non siano comuni né alla Chiesa universale e
neppure a tutte le Chiese particolari ex c. 1493 §2.
c) Abrogazione delle legittime consuetudini comuni a tutte le Chiese orientali anche centenarie o
immemorabili che sono espressamente riprovate dal CCEO (si vedano i c. 67; 225 §1; 343; 764;
793; 847 §3; 954 §1,2; 1031 §1; 1402 §1). Riprovata la consuetudine contraria.
Tale canone si riferisce non solo al diritto antico che non è stato abrogato ma recepito oppure
adattato, ma a quello emanata dai primi concili ecumenici ed alle leggi di diritto comune e di diritto
particolare delle Chiese orientali cattoliche.
Occorre distinguere tra abrogazione di legge che è la completa sua soppressione, e la deroga che è
la parziale soppressione della legge (c. 1502).

259
Si veda OE 6 ed OE 12.
260
Nuntia 22(1986) p. 16-17.

92
LIBRO I: NORME GENERALI
Titolo I: Le Leggi ecclesiastiche

Can. 7 CIC

Libro I del Codice si intitola norme generali, si tratta delle disposizioni normative che riguardano
tutto il Codice, tutti il diritto della ChiesA Cattolica.

Il libro I è suddiviso in 11 titoli:

- Titolo 1. Le leggi ecclesiastiche (cc. 7-22) 교회의 법률


- Titolo 2. La consuetudine (cc. 23-28) 관습
- Titolo 3. I decreti generali e le istruzioni (c.29-34) 일반교령과 훈령
- Titolo 4. Gli atti amministrativi singolari (cc.35-93) 개별 행정행위
1) norme comune (35-47) 공통규범
2) i decreti e precetti singolari (48-58) 개별교령과 명령
3) i recsritti (59-75) 답서
4) i privilegi (76-84) 특전
5) le dispense (85-93) 관면
- Titolo 5. Gli statuti e i regolamenti (cc.94-95) 정관과 규칙
- Titolo 6. Le persone fisiche e giuridiche (cc.96-123) 자연인과 법인
- Titolo 7. Gli atti giuridici (cc.124-128) 법률행위
- Titolo 8. La potestà idi governo (cc.129-144) 통치권
- Ttitolo 9. gli uffici ecclesiastici (cc.145-194) 교회직무
1) provvisione dell’ufficio ecclesiastico (146-183) 교회직무의 서임
- il libro conferimento (157) 임의 수여
- la presentazione (158-163) 제청
- l’elezione (164-179) 선거
- la postulazione (180-183) 천거
2) perdita dell’ufficio ecclesiastico (184-196) 교회직무의 상실
- la rinuncia (187-189) 사퇴
- il trasferimento(190-191) 전임
- la rimozione (192-195) 해임
- la privazione (196) 파면

93
- Titolo 10. La prescrizione (cc.197-199) 시효
- Titolo 11. Il computo del tempo (cc.200-203) 기간의 계산

Il termine ‘’canone’’ :
è un’ordinamento della fede per il bene specifico della comunità ecclesiale,
viene applicato alle leggi ecclesiastiche, per distinguere dai normi o leggi imperiali.
Assume il significato tipico di norma posta dalla Chiesa e diritto canonico l’insieme delle norme
con cui le Chiese regolano la loro vita.

1. preliminari cc. 1-6: introduzione i libero I. (estensione, efficacia del Codice)

c.1 indica il soggetto destinatario che è la Chiesa latina


afferma l’estensione del Codice latino che il Codice di una sola Chiesa sui iuris,
mentre il Codice orientale comune a tutte le chiese cattoliche orientali (23 chiese)
c.2 non contiene il diritto liturgico, include canoni connessi con la liturgia (libro IV)
c.3 riguarda il rapporto tra il Codice e la norme pattizie della nazioni
(gli accordi, concordati, i modue vivendi, non abrogano, né derigano, continuano ad essere in
vigore)
c.4 riguarda diritti acquisti e previlegi e gli indulti continuano a sussistere se CIC non li revoca
espressamente
c.5 riguarda diritto consuetudinario, contro le disposzioni del Codice (sia universale, che
particolare) è soppreso
la consuetudine che sta fuori della considerazione del Codice si conserva
c.6 legislazione scritta anteriore (antecedente) viene abrogata (quello del 1917)
anche altre norme scritte extra-codiciali che siano contro le disposizioni del Codice vengono
abrogate

2. Titolo I. Le leggi ecclesiastiche (c.7- 22)


1)definizione:
- Tommaso: la legge è un comando della ragione ordinato al bene comune,

94
promulgato da chi è incaricato del bene di una comunità
- F.Suarez: la legge è un comando del leggittimo superiore promulgato per il bene dei sudditi,
stabilmente e nelle forma dovuta
⇒ La legge ecclesiastica è una norma generale mediante la quale
(da chi) il competente legislatore ecclesiastico dà le disposizioni comuni,
(a/per chi) per una comunità ecclesiale capace di ricevere una legge.

2) 5 caratteristiche della legge ecclesiastica


- generalità : può essere dettata per tutta la comunità, per tutti i suoi membri (non per singoli
individui)
- astrattezza: per situazioni tipo previste dalla legge stessa (non deve essere dettata per specifiche
situazioni)
- certezza: nella formulazione deve essere chiara, precisa, non ambigua, non soggetta a svuotamenti
arbitrari
- stabilità: per regolarità e prestabilità (per non creare insicurezza, instabilità)
- esteriorità: regola i rapporti tra i soggetti, (rapporti interpersonali)
per la legge ecclesiastica fondamentale è l’atteggiamento interiore del fedele cristiano

3)come(cc.8) : la legge esiste, quando la promulgazione delle leggi avviene


mediante la pubblicazione in Acta Apostolicae Sedis,
non entra subito in vigore, la vacatio legis di 3 mesi (per leggi particolari 1 mese),
perché la legge possa essere conosciuta, durante la vacatio è in vigore la legge precedente

4) il legislatore ecclesiastico : chi gode di potestà legislativa di governo della Chiesa


Si indica la fonte di produzione della legge:
- Il sommo potefice - Il collegio dei vescovi
- Il vescovo diocesano - Il sinodo dei vescovi
- Il concilio particolare - La conferenza episcopale
- Il capitolo generale di un istituto clericale di diritto ponteficio

5) caratteri tecnici:
① irretroattività della legge (cc.9): riguarda le cose future, non le cose passate
② leggi irritanti (무효법) e leggi inabilitanti (무자격법)
La legge deve stabilire espressamente che l’atto è nullo o la persona è inabile

95
Per la validità dell’atto giuridico: (richiama al can.124)
- una persona abie/ contenuti dell’atto, cioé gli elementi costitutivi/ gli elementi imposti dal diritto
(es. formalità: numero di codice, firma...) (es. Professione religiosa, orninazione sacerdotale... ciò
che è obbligo, ciò che è diritto)

6) Soggetti delle leggi ecclesiastiche : chi appartiene alla Chiesa?


- criterio eccesiologico: la persona deve essere battezzata nella chiesa cattolica o in essa accolta
- criterio psicologico: la persona deve godere dell’uso di ragione , capacità di comprendere,
valutare
- criterio cronologico (d’età): deve aver compiuto 7° anno di età
Riguarda i forestieri, non sono obbligati alle leggi particolari del loro territorio
Dubbio di fatto, ignoranza e errore di persona (può non sapere) cc. 12-15

7) interpretazione autentica della legge ecclesiastica:


c.16 che ha la medesima forza (valore) della legge che viene dal legislatore
c.17 metodologia dell’interpretazione della legge
da intedersi: - secondo il significato delle parole considerato nel testo, nel contesto
- al fine – alle circostanze della legge – all’intendimento del legislatore
Distingue secondo i soggetti che compiono l’interpretazione:
① Interpretazione autentica: è compiuta dal legislatore, (ha medessima forza della legge)
Anche colui che a cui abbia concesso la potestà d’interpretare autenticamente (cc.16)
② Interpretazione giudiziale: compiuta dal giudice con gli scopi e effetti che le sono
caratteristici
③ Interpretazione dottrinale: fatta dagli studiosi
Secondo i risultati a cui perviene l’interprete:
① Interpretazione dichiarativa: risultato coincide con interpretazione logica
② Interpretazione estensiva: significato viene esteso oltre il senso ricavato da una lettura del
testo
③ Interpretazione restrittiva: restrige il significato proprio dell’espressione usata dalla legge

- Interpretazone stretta: pena, stringe il libero esercizio dei diritti (c.18)


- Se manca una disposizione espressa: per i casi simili/ principi generali/ prassi della curia romana
(c.19)

96
8) cessazione del carattere vincolante della legge ecclesiastica: (cc.20)
una legge può essere abrogata per dichiarazione espressa del legislatore
- Si perde il fine , dalla volontà del legislatore
- Sia per incompatibilità con una nuova legge
- Quando vengono abrogate tutte le leggi precedenti
- Per cause intrinseche: per il certo tempo, per determinate circostanze,
- Per il dubbio, l’ignoranza, l’errore l’obbligatorietà può venir meno
- L’invalidità di un atto giurudico: leggi irritanti e inabilitanti
- Dubbio di fatto: mentre la legge è chiara, ma la situazione concreta non lo è

9)canonizzazione legislativa delle leggi civili nel Codice canonico: (cc.22)


quando il canone dice ‘’secondo la legge civile’’,
le leggi civili vengono osservate nel diritto canonico con i medessimi effetti (es.adzione,
separazione..), diventano i canoni, in quanto non siano contrarie al diritto canonico

Titolo II. Consuetudine (c.23-28)

1) perché la Chiesa tiene in considerazione il diritto consuetudinario?


La consuetudine riconduce alla vita, fiorisce i carismi, influsso dello Spirito Santo,
la consuetudine sta all’origine di molte leggi (c.25), si eiconosce come ottima interprete dele
leggi (c.27)

2) divisione delle consuetudini:


- universale/ particolare
- secondo la legge/ contro le legee: è soppreso/ al di fuori della legge: si conserva
- ordinaria(30anni)/ centenaria(per 100 anni)

3) la consuetudine è che una comunità dei fedeli osserva un comportamento comunitario e


vincolante
con l’intenzione di creare un diritto (c,25)
4) se non sia contraria al diritto divino, al diritto canonico
se non è irrazionale (si chiede la razionalità) (c.24)
5) l’osservanza per 30 anni continui e completi (c.26)
6) ha la forza quando si approva dal legislatore (c.23)

97
7) revoca, sospensione: (c.28)
- ordinaria: rimane revocata da una legge o da una consuetudine contraria
- centinaria o immemorabile: dalle leggi che menzionano espressamente,
se non fa menzione espressa, non revoca, rimane

Titolo III. Decreti generali e istruzioni (c. 29- 34)

1) sono propriamente leggi, sono retti dalle disposizioni dei canonici sulle legge
- vengono dati dal legislatore,
- anche a colui che è stato concesso espressamente dal lagislatore competente (c.30)
- Per una comunità che è capace di ricevere la legge (c. 29)

2) i decreti generali esecutivi (일반 집행 교령):


- per: nell’applicazione della legge, per precisare i modi di osservare o urgere l’osservanza
delle leggi
- da: può dare anche coloro che godono della potestà esecutiva 집행권 (es. Vicario generale)
- entro i limiti della loro competenza (c.31)

3) Istruzione (훈령)
- finalizzate a chiarire il significato e la portata della legge
a determinare la modalità di esecuzione / a sviluppare i procedimenti nell’eseguire
- per cloro che hanno il compito di curare che le leggi siano eseguite
- da coloro che godono della potestà esecutiva, entro i limiti della loro competenza
Titolo IV. Gli Atti amministrativi singolari (c.35-93)

1) Che cosa: è l’atto posto dal superiore nell’esercizio della sua potestà amministrativa,
a volte contiene una dichiarazione di volontà (es. punizione, trasferimento, ammissione...)
‘’singolare’’ vuol dire che è un’atto amministrativo emanato per un individuo, un gruppo di
individui
per un caso concreto (rispetto all’atto amministrativo della legge che è per una comunità)

2) vengono distinti : decreto, precetto, rescatto, privilegio, dispensa


3) caratteristiche comune:
- è di essere suscettibili di ricorso al superiore gerarchico competente

98
- ad escludere dagli atti emanati dal romano ponteficio o dal concilio ecumenico

4) da chi: - coloro che esercitano nella Chiesa la potestà esecutiva (c.35)


- i leggittimi superiori
- persone fisiche: romano pontefice, vescovo diocesano, vicario generale
- persone giuridiche: dicasteri, le conferenze episcopale

5) riguarda ‘’il foro esterno’’ (c.37)


- si deve consegnare per iscritto, è sottoposto alla legge, è da intendersi ai sensi c.36
- mentre ‘’foro interno’’ riguarda l’ambito della coscienza
(es.confessione accompagnata dalla direzione spirituale, è coperto dal sigillo sacramentale,
cioé c’è un’intervento divino attraverso la Chiesa)

6) gli atti amministrativi singolari:


(1) Decreto singolare:
- si intende un atto amministrativo emanato dall’autorità esecutiva competente (c.48)
una decisione, una provvisione, per un caso particolare
- rispetto al rescatto, è posto dalla iniziativa da chi può dare
(perché il rescatto suppone una petizione, perché è la risposta ad una richiesta di petizione)
- si dà per iscritto (c.51)
- ha la forza obbligante alle cose, per le persone (c.52)

(2) precetto singolare:


- è una variante del decreto, viene posto ad una persona (o più persone) determinate
- qualcosa da fare o da omettere in ordine all’osservanza della legge (c.49)
- decreto, precetto: è dato per iscritto, deve esporre le motivazioni, se si tratta di una decisione
(c.51)
- è giuridicamente obbligata a privedere l’autorità competente nel temine di 3 mesi (c.57)
altrimenti eqiuvale a una risposta negativa (c.57)

(3) rescatto (c. 59)(ha lunga tradizione dal diritto romano al diritto canonico)
- ogni fedele ha diritto di rivolgersi al superiore competente, al di là del rigore astratto della legge
quindi venga preso in considerazione la propria situazione particolare (LG37)
- cosa: è un atto amministrativo

99
- come : in segiuto ad una richiesta di petizione/ formulato per iscritto (c.59)
- da chi: dalla competente autorità esecutiva (c.59)
- quale: viene concesso un privilegio, una dispensa, o un’altra grazia (c.59)
- chi: può essere richiesto da tutti (se non gli è proibito) (c.60)

(4) privilegio (c.76)


- cosa: è una grazia in favore di determinate persone (sia fisiche, che giuridiche)
- come: mediante un atto peculiare
- chi: da parte del legislatore, da un’altra autorità esecutiva a cui il legislatore abbia concesso
- interpretazione: (c.77)
si deve interpretare a norma dal can.36 (atto amministrativo secondo il significato proprio delle
parole),
anche per il motivo di privilegio, perché la persona abbia una qualche grazia
- cessazione:
- per revoca da parte dell’autorità competente
- per la rinuncia di qualsiasi pesona, però la persona singola non può rinunciare al privilegio
concesso
ad una persona giuridica, né luogo, né casa
- cessa il tempo passato, esaurito il numero di casi

(5) dispensa (c. 85)


- cosa: è un esonero dall’osservanza di una legge/ sono dispendabili solo leggi ecclesiastiche, NO
atti giuridici!!
- come: in un caso particolare
- chi: concesso dall’autorità esecutiva competente,
anche da chi ha la faccoltà a norma del diritto o per leggittima delegata
- ordinario del luogo: (c.87)
- vescovo diocesano può dispensare (anche vicario generale) (c.87)
- motivo: per il bene spirituale del suo territorio, dei suoi sudditi
- quale: tutte le leggi disciplinari (universali, particolari) date dalla suprema autorità della
Chiesa
- 3 eccezioni(c.87): leggi processuali. Leggi penali, leggi riservate in modo speciale alla
Santa Sede
(es.celibato)

100
- può dispensare(c.88) dalle leggi diocesane,
dalle leggi del concilio regionale,
delle leggi della conferenza episcopale
- dispensa può essere concessa:
- se sussistono serie motivazioni (senza giusta e ragionevole causa è illecita) (c.90)
- tenendo conto delle circostanze del caso e della gravità della legge
- dispensa non ha carattere territoriale, può godere anche stando fuori del territorio,
cioé il forestiero può attenerla. (c.91)

101
Titolo V. Gli Statuti e gli Ordinamenti (c. 94 – 95)

1) Gli statuti (c.94)


- cosa: sono regolamenti che vengono composti a norma del diritto
- per chi: insieme sia di persone, sia di cose
(cioé associazione pibblica e privata dei fedeli, degli enti de delle fondazioni)
- motivo: stabilisce il fine, costituzone, modo di agire
- obbligano soltanto i membri leggittimi dell’associazione

2) gli ordinamenti (c.95)


- sono regole o norme che devono essere osservate nell’assemblea(convegno) di persone
- in modo più detaglio della dosciplina quotidiana

Titolo VI. Le Persone fisiche e Persone giuridiche (c.96 – 123)

1) termine ‘’persona’’ indica l’uomo come attore del mondo giuridico,


cioè è soggetto di ogni situaione di diritto e di dovere giuridico nell’ambiente giudirico
- tutti gli uomini, senza distinzione di sesso, di religione, di razza, di censo...
sono persone , idonee ad essere titolari di diritti e di doveri
- Diritto Canonico riconosce il concepito come la persona, soggetto di diritto
(anche se nel diritto civile italiano non ha vera e propria capacità giuridica,
conosce ad es. Capacità di succedere e di ricevere donazione...)
- termine ‘’personalità’’ nel senso giuridico, (capacità giuridica e capacità di agire non sovo
uguali!!)
corrisponde la capacità giuridica che si dintigue dalla capacità di agire
(es. neonato può essere proprietario, creditore, debitore...)
- fondamento ontologico della toitolarità dei diritti e dei doveri personali e comunitari
deriva dall’essere cristiano, mediante il battesimo, l’incorporazione alla Chiesa,
partecipa alla comunione con Cristo

2) persona fisica(c.96) : è soggetto che è stato incorporato nella Chiesa


mediante il Battesimo, in quanto nella comunione ecclesiastica
agisce giuridicamente i diritti e i doveri, assume la resposabilità
- diritti e doveri non sono uguali per tutti i battezzati,

102
anche se si riconosce la vera ugualianza fondamentale nella dignità me c’é la disugualianza
nell’agire
giuridicamente, sono giuridicamente differenti secondo la condizione della persona
per cui il Diritto Canonico determina 4 condizioni della capacità giuridica della persona

(1) l’età: distingue


- maggiorenne: che ha compiuto 18 anni (c.97), acqiusta la piena capacità di agire (c.98),
ha il pieno esercizio dei suoi diritti
- minorenne: che sotto 18 anni(c.97), l’esercizio dei suoi diritti dipende dai genitori o dai tutori
(c.98)
- bambino: prima di 7 anni compiuti, non è responsabile dei suoi atti
dopo 7 anni, si presume che abbia l’uso di ragione (c.97)
- quindi a chi manca abitualmente dell’uso di ragione, si considera come bambino
che non è responsabile dei suoi atti (c.99)
- per diversi atti particolari richiede un’età diversa:
es. matrimonio valido (16-14), diaconato (23), episcopato(35), presbiterato(25), essere testimone
(14),
soggetto passivo delle sanzioni (16)

(2) il territorio: (c.100) risulta sia agli effetti giuridici, sia alla cura pastorale
- abitante: ha domicilio
- dimorante: ha quasi-domicilio
- forestiero: si trova fuori del domicilio e dei quasi domicilio
- girivago: non ha alcun domicilio e quasi domicilio/ dove dimora attualmennte in vescovo, parroco

- il domicilio: chi ha intenzione di rimanere in perpetuo o almeno 5 anni completi rimane nel
territorio (c.102)
-il quasi domicilio: nella casa in cui dimora almeno 3 mes
- i religiosi, membri della società di vita apostolica (c.103) acquistano iol domicilio dove è stato il
convento
- coniugi (c.104): domicilio in comune, a motivo di leggittima separazione possono avere un
proprio domicilio
- monorenne(c.105): si ritiene a colui che ha potestà (genitori o tutori)

103
dopo 7 anni ha la possibilita di avere un prorpio quasi domicilio o domicilio proprio
- perdità del domicilio (c.106): con la partenza dal luogo con l’intenzione di non tornare

(3) parentela : il Diritto Canonico considera i legami di consanguineità, di affinità, e di adozione

① consanguineità: (c.108)
- è il vincolo di sangue che lega più persone che discendono da un unico capostipite,
- viene computata per linee(discendenza diretta)친계 e per gradi 촌수 (c.108)
- linea retta: 직계 discendono per generazione (viene tolto capostipite)- nonno,padre, figlio, nipote
- linea obliqua: 방계 in tutte e due linee insieme (viene tolto capostipite)
- compiuta fino al 4° grado
② affinità: (c.109)
- non comprende legami di sangue, nasce da matrimonio valido
(es. i consanguinei del marito sono affini della moglie nella medessima linea, grado/ viceversa!!)
③ figli adotati (c.110) a norma delle leggi civili: sono ritenuti figli di colui che hanno

(4) rito (c.111)


- appartiene alla Chiesa latina mediante il battesimo
- tutti e due genitori appartengono alla Chiesa
- uno dei genitori non appartiene alla Chiesa latina, loro decidono,
se non c’è comune accordo di loro, il figlio viene iscritto alla Chiesa rituale del padre
- dopo 14 anni compiuti, figlio può scegliere liberamente
- passaggio dalla Chiesa latina ad una chiesa rituale
: per licenza concessa dalla Santa Sede/ durnate il matrimonio abbia dichiarato..........

3) persona giuridica:

(1) chi é (c.113):


- l’uomo con gli altri che hanno stesso fine (scopo), creano un’associazione cioé un’insieme
- potrebbe essere insieme di persone, insieme di cose
che è soggetto capace di agire giuridicamente i suoi diritti e doveri
- viene chiamato perdona giuridica, persona morale, corpo morale, ente morale
che supera l’individualità delle persone
- ha bisogno di rappresentare un nome che opera (es. presidente, un consiglio amministrativo)

104
- la chiesa particolare, conferenza episcopale, parrocchia, gli istituti religiosi, associazioni pubbliche
dei fedeli...

(2) distinzione (c.115): - distingue all’interno delle persone giuridiche


① insieme di pesone 사 단 : almeno 3 persone , distingue ancora collegiale 합 의 체 e non
collegiale
(che non importa uguale diritto, ma secondo modo di governo,
cioé quando i membri prendono le decisioni con uguale diritto o no)
② insieme di cose 재단:
e poi distingue ancora (c.116)
③ persone giuridiche pubbliche:
- vengono costituite dall’autorità competente
- opera nel nome della Chiesa per il bene pubblico della Chiesa, per i fini ecclesiali
(es. Santa Sede- a livello universale/ conferenza episcopale- a livello nazionale/ vescovo diocesano)
- vengono dotate per il diritto stesso (diocesi, provincia ecclesiastica....) per speciale decreto
- deve essere utile, con i mezzi sufficienti per il fine
④ persone giuridiche private: vengono dotate soltanto per mezzo del decreto speciale

(3) rappresentanza legale (c.118): della persone giuridiche


- è riconosciuto dal diritto universale/ dal diritto particolare/ dai propri statuti
- rappresentanza della persona giuridica privata la medessima competenza è attribuita attraverso gli
statuti

105
Titolo VII. Atti Giuridici (c. 124- 128)

1) che cosa: è un fatto giuridico che produce gli effetti giuridici, che fa derivare conseguenze
giuridiche
gli atti giuridici si distingono dai fatti giuridici,
quando il soggetto li compie con la consapevolezza e volontà

2)per garantire la validità dell’atto giuridico (c.124) 3 elementi:


① la persona abile: capacità giuridica, libera volontà, consenso espresso,
età, assenza di impedimenti, consapevolezza
② siano tutti elementi costitutivi dell’atto stesso (contenuti dell’atto)
(es. matrimonio: deve volere la comunione di vita, la fedeltà, sacramentalità, indissolubilità, scopo
procreativo..)
③ siano le formalità e i reqiusti imposti dal diritto per la validità dell’atto (elementi imposti
dal diritto)

3) possiamo distinguere: l’atto è valido o nullo/ è valido ma rescindibile 취소가능성


① nullità dell’atto:
- mancanza totale di volontà, per causa violenza fisica
- l’ignoranza e l’errore concernenti elementi sostanziali ⇒ atto irritante (c.125)
- è pronunziata per sentenza del giudice
② annulabilità:
- per timore, simulazione, dolo, ignoranza, errore/ - con azione rescissoria 취소소송 a norma del
diritto

4) quando il superiore pone un atto giuridico necessito del consenso e del consiglio
si deve chiedere, altrimenti atto giudirico è invalido!!
Titolo VIII. Potestà di governo
Appartiene alla Chiesa stessa perché deriva dal fondatore della Chiesa
Cosa: contiene in sé il termine potere cioé la potestà sacra,
Cristo conferisce ‘’suo potere’’ agli apostoli e ai successori per condurre pastoralmente il popolo di
Dio come una società alla Salvezza e alla vita eterna,
si realizza una triplice azione (legislativa, esecutiva, giuridiziaria)

106
Chi ha?: coloro che sono in l’ordine sacro perché deriva da fondatore della Chiesa
La potestà di governo fa parte la potestà sacra, sono abili solo i ministri sacri (vescovi,
presbiteri, diaconi..)
I fedeli laici possono cooperare perché sono responsabili e impegnati alla missione della
Chiesa.
Come: si esercita nel foro esterno giudiziale che si occupa del bene comune dei fedeli
Foro interno (sacramentale) che si occupa del bene delle anime

La potestà di governo ordinaria è annessa a un ufficio, è un diritto giuridico,


vuol dire che non è stata dall’altro
Si distingue:
- La potestà ordinaria: vescovo, vicario generale : è concessa alla persona stesso diritto,
si stabilisce dall’inizio del legislatore
(viario generale ha la potestà ordinaria ma nell’ambito della potestà esecutiva,
fa sempre nel nome del vescovo)
- La potestà delegata: è concessa ad una persona, i compiti vengono dati di volta in volta
nome di Ordinario nel diritto; si intende oltre sommo potefice, vescovi diocesani, e vicari generali e
episcopali
ordinario del luogo si intendono .... (senza i superiori maggiori degli istituti religiosi)

la potestà di governo si distingue in 3 part,i cioé legislativa, esecutiva, giudiziale


1) potestà legislativa: deve esercitare nelmodo stabilito dal diritto,
non può essere delegata ‘’se non è disposto esplicitamente altro
es) decreto generale esecutivo può essere delegato da coloro che hanno potestà esecutiva

2) potestà giudiziale: deve esercitarsi nelmodo stabilito dal diritto, dai giudici, dai collegi
giudiziari
Non può essere delegata
3)potestà esecutiva: può essere delegata sia un atto, sia un insieme di casi
es) benedizione di diacono alle nozze

perdita: la potestà ordinaria si estingue con la perdità dell’ufficio

Titolo IX. Gli uffici ecclesiastici 교회직무

107
che cosa: significa che il riferirsi nella Chiesa ad un incarico, cioé è l’ufficio in maniera stabile
secondo la disposizione (규정에 따라)
- sia uffici di istituzione divina : Papa, collegio episcopale, vescovi diocesani
- che uffici di istituzione ecclesiastica : cardinale, vicario, parroco, superiore religioso
per un fine spirituale cioé la cura dell’anima
deve rispettare il principio di legalità
come: non può essere validamente senza provvisione canonica 법적 서임
(che è stabilità secondo l’ordinamento canonico)
privvisione dell’ufficio ecclesiastico:
- per libera conferimento del vescovo nella Chiesa perticolare 임의 수여
- per istituzione nel caso di presentazione 제청의 경우
- per conferma o ammissione 인가
- per una semplice elezione e accettazione dell’eletto 당선자 수락

come si perde l’ufficio ecclesiastico?


1) indipendentemente dalla volontà: - scadenza del tempo (morte)
- raggiunti i limiti d’eta (75anni)
2) per la volontà di titolare: - rinuncia (me per una causa, con l’accettazione dell’autorità) 사퇴
3) per la volontà di superiore
- trasferimento 전임
- rimozione: carattere disciplinare 해임
- privazione: carattere penale, è l’effetto di una pena (es. eresia, scisma...) 파면

trasferimento: si dà per iscritto


da chi ha diritto di provvedere all’ufficio che si perde e viene affidato

rimozione: è rimesso dall’ufficio ecclesiastico per il diritto stesso


- chi ha perso lo stato clericale
- chi ha abbandonato le fede e la comunione della Chiesa
- chi ha attenuto il matrimonio

privazione: per la norma penale del diritto (carattere penale)

108
Titolo X. La Prescrizione 시효

prescrizione : è un modo di perdita dei diritti 상실의 방법


è un modo di acquisizione dei diritti soggettivi 취득의 방법
- acqiusitiva: quando si tratta di possedere la cosa propria
- estintiva: determina la perdita di diritto
- liberativa: non avere obbligo verso nessun altro 의무로부터 해방되는 수단
nel caso di canonizzazione della legge civile, la legge civile deve seguire ......
- la Prescrizione diventa operante : in 4 condizioni

② tempo (per la maturazione)
③ il posseso legittimo mediante un titolo
④ buona fede teologica (non giuridica): elemento esseziale da cui dipende la prescrizione (can.
198)

Can. 199) non sono sottoposti alla prescrizione :


- 1. Sono obblighi della legge divina naturale e positiva
- 2. sono privilegio apostolico (es.indulgenza)
- 3. si riferiscono alla vita spirituale dei fedeli (es. scegliere il padre confessore)
- 4. I confini certi e indubitati delle circoscrizioni ecclesiastiche
- 5. Elemosine, gli onori delle Messe (can. 945-958, intenzione di messe)
- 6. Provvisione dell’ufficio ecclesiastico
- 7. Il diritto di vista/ l’obbligo di obbedienza
(can.1268-1270) prescrizione dei beni ecclesiastici
(can.1512(2), 1621) prescrizione di carattere penale

Titolo XI. Il Computo del tempo 기간 계산


La comunità cristiana si è inserita nella storia, ha bisogno di precisare il tempo
(can. 200) si calcola con riferimento alle settimane, mesi, anni
Il tempo so computa a norma dei canoni che seguono
(can.201) distingue:
- tempo continuo 연속기간 : non amette l’interruzione
- tempo utile 유용기간 :
non si calcola quando chi ignora o non può agire affettivamente

109
in riferimento alla situazione della persona (interessato)
si computa per giorni, i giorni non sono utilizzabili devono essere precisati dalla legge
non entrano nel computo (es. il tempo dell’ospedale)
si intende come sono nel calendario, dunque il tempo si considera come il tempo continuo
(can. 202) si comincia a calcolare il tempo dalla mezzanotte,
qiundi si scade dalla mezzanotte dell’ultimo giorno di quella settimana, mese, anno.

110
Libro II: IL POPOLO DI DIO
Parte prima: I FEDELI

Questa Prima parte del Libro II contiene uno dei blocchi più innovatori del CIC e del CCEO con i
canoni relativi ai diritti e doveri fondamentali comuni a tutti i membri della Chiesa261, con precise
conseguenze e postulati concreti costituenti il canone o “catalogo fondamentale” dei Christifideles.
Non è questo un elenco completo oppure esaustivo o una specie di “Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’uomo” in quanto rispetto a quest’ultima possiede fondamenti e contenuti certamente
differenti, comprese le condizioni per il loro esercizio nella Comunità ecclesiale 262. La trattazione
fatta della Prima parte del Libro II in questa sede vuole introdurre alla Parte II così peculiare e
proprio della Chiesa nella sua costituzione gerarchica.

Il c. 204 (c. 7 CCEO)263 apre la prima parte del Libro II che riguarda tutti i membri della
Chiesa definendo questo stato che è fondamentale: sono fedeli tutti coloro che hanno ricevuto il
Sacramento del Battesimo. Il canone evidenzia gli effetti prodotti dal Battesimo secondo una
definizione che assume uno spessore teologico e riassumente la teologia e gli insegnamenti del
Concilio Vaticano II: il Battesimo come incorporazione a Cristo, la Chiesa quale Popolo di Dio, la
partecipazione di tutti i fedeli agli uffici di Cristo, l’universale missione di salvezza affidata alla
Chiesa264 e la sua realizzazione che compete a tutti i Christifideles265. I fedeli incorporati a Cristo
partecipano della sua missione e dei suoi “uffici” di sacerdote266, re267 e profeta268. Questo canone
pone quindi una sintesi dell’intera ecclesiologia del Vaticano II per cui avendo presente tali
documenti possono emergere sia la dignità come la responsabilità della condizione di fedele.
La seconda nozione fondamentale del diritto costituzionale canonico emerge dal c. 7 §2 che ripete
LG n. 8 che ci dà la nozione di Chiesa come societas, facendo emergere quella realtà sociale o
“sociologica” che ne sottolinea la “storicità” e l’“umanità”. Assieme ai termini di “Popolo di Dio”
(LG cap. II) e di communio è stato utilizzato il termine di societas che rifiuta decisamente ogni
immagine spiritualistica ma anche quella che vorrebbe isolarne i vari aspetti sia visibile che
spirituale, quello terrestre con quello celeste avendo come riferimento il principio gerarchico che
porta con sé una distinzione funzionale tra i membri del Popolo di Dio 269. Emergono due aspetti
fondamentali: a) il carattere di istituzione voluto da Cristo; b) struttura con il corpo sociale organico
ed unitario che non è la somma dei componenti ma un’entità propria ed indipendente dai suoi
membri.
261
Tali canoni sono stati ripresi quasi letteralmente dalla LEF e collocati alla base della disciplina del Popolo di Dio nel
CIC (Communicationes 12 [1980], p. 35-43) e nel CCEO. In tale ultimo codice si nota un perfezionamento ed una
visione talora nuova, dati dalla specificità dei Christifideles destinatari stessi. Si noti come il CIC 1983 titoli questa
parte: doveri e diritti.
262
In generale, O. LE TOURNEAU, Quelle protection pour les droits et les devoirs fondamentaux des fidèles dans
l’Eglise?, in Studia Canonica 28(1994), p. 59-83.
263
Le fonti sono in LG n. 31, n. 9, 10, 12, n. 13 e nel Decreto AA n. 2.
264
AA n. 6: laddove la missione della Chiesa ha come fine la salvezza degli uomini; la sua relaizzazione in AG n. 5. LG
n. 17 si ricorda come tale missione sia il compimento di tutti e singoli battezzati.
265
Viene ripresa in tale parte la necessità di rilettura con i documenti del Concilio Vaticano II senza pretendere il testo
codiciale di essere esauriente ed esclusivo.
266
LG n. 10. Tale sacerdozio comune si distingue da quello ministeriale per coloro che abbiano ricevuto l’ordine sacro e
viene concretamente esercitato con la partecipazione ai sacramenti, la preghiera ed il ringraziamento, con la
testimoninza di vita santa, con l’abnegazione e l’operosa carità.
267
LG n. 36.
268
La partecipazione della funzione profetica si manifesta nelal testimoninaza nelal vita di fede e carità e nell’offerta del
sacrificio di lode ex LG n. 12.
269
GS n. 40.

111
Nel c. 7 §2 quando si dice che la Chiesa costituita ed ordinata in questo mondo come societas
sussiste nella Chiesa cattolica: subsistit in governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in
comunione con lui.

Nel c. 205 (c. 8 CCEO)270 viene precisato che come i fedeli battezzati i quali professano
integralmente la fede, accettano tutti i Sacramenti, riconoscono l’autorità del Papa e dei Vescovi
sono così pienamente incorporati nella società ecclesiale 271. Ecco che solamente i cattolici hanno la
pienezza dei diritti e dei doveri spettanti ai membri della Chiesa laddove ai non cattolici pur
appartenendo alla Chiesa non sono imposti tutti i diritti e doveri e le norme canoniche meramente
ecclesiastiche ex c. 1490. La piena comunione con la Chiesa cattolica 272 richiede: a) la professione
di Fede come adesione all’unico depositum fidei rivelato nella Sacra Scrittura, trasmesso dalla
Tradizione e tale come lo propone ed interpreta il Magistero della Chiesa; b) unità dei Sacramenti;
c) unità con i pastori o comunione gerarchica (professione del “governo ecclesiastico”). Si noti che
l’identificazione del Popolo di Dio nella Chiesa cattolica non implica che le altre comunità cristiane
siano prive di significato e di peso nel mistero della salvezza ex UR n. 3 e pur non conservando
l’unità della comunione sotto il successore di Pietro sono lo stesso insigniti del nome di cristiani in
quanto giustificati nel battesimo della Fede in Cristo273.
L’essere in piena comunione con la Chiesa cattolica implica per ogni Christifidelis una
testimonianza per un vissuto, talora anche in modo difficile ed eroico della koinonìa.

Il c. 206 (c. 9 CCEO)274 riguarda i catecumeni che pur non rientrando tra i Christifideles
tuttavia il Legislatore in considerazione il loro desiderio di essere incorporati a Cristo e far parte del
Popolo di Dio e la loro vita di fede, speranza e carità, sono già uniti alla Chiesa in modo speciale
godendo così diverse prerogative proprie dei Cristiani. Due note: a) negativa per non aver ricevuto
il Battesimo e mancanza di incorporazione alla Chiesa; b) positiva: inclusione nella volontà
salvifica universale di Dio275. Tale canone rispetto al c. 206 CIC (c. 8 §2 e 3 LEF) risulta composto
da una terminologia più ricca proprio per la fedeltà alla tradizione orientale che nel CCEO si
esprime nel profondo e sensibile spirito liturgico orientale. Si parla infatti della introduzione
partecipativa della Liturgia divina, nei Sacramenti e nelle Lodi divine o l’orazione della Chiesa
ponendo giusto rilievo ed importanza alla vita interiore ed orazione nella vita del cristiano e di colui
che si prepari ad esserlo.

Il c. 207 (c. 207 §1 CIC e c. 323 §2 CCEO)


Can. 207 - § 1. Per istituzione divina vi sono nella Chiesa tra i fedeli i ministri sacri, che nel diritto sono chiamati
anche chierici; gli altri fedeli poi sono chiamati anche laici.
§ 2. Dagli uni e dagli altri provengono fedeli i quali, con la professione dei consigli evangelici mediante voti o altri
vincoli sacri, riconosciuti e sanciti dalla Chiesa, sono consacrati in modo speciale a Dio e dànno incremento alla
missione salvifica della Chiesa; il loro stato, quantunque non riguardi la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene
tuttavia alla sua vita e alla sua santità.

Per istituzione divina nella Chiesa vi sono i ministri sacri che nel diritto sono chiamati chierici; gli
altri fedeli poi sono chiamati laici.

270
Le fonti sono in LG n. 14 ed UR n. 3.
271
LG n. 14; UR n. 2 e si veda il NDE n. 20.
272
La rottura del vincolo di comunione è fatta con l’apostasia, eresia e scisma.
273
LG n. 15.
274
Le fonti sono in LG n. 14 ed in AG n. 14; mentre nel c. 9 §2 le fonti sono in SC n. 64 ed AG n. 14.
275
Ex LG n. 13 e DH n. 1.

112
c. 207 §2 dagli uni e dagli altri provengono i fedeli che con la professione dei consigli evangelici
(povertà, castità ed obbedienza) mediante voti o altri vincoli, sono consacrati in modo speciale a
Dio, il loro stato, non riguardi la struttura gerarchica della Chiesa.

La distinzione tra i Christifideles: la bipartizione (e tripartizione) operata nel CIC 1983 e la


tripartizione del CCEO.
L’assioma attribuito a Graziano: Duo sunt genera Christianorum (C. XII, q. 1, c. 7) riporta alla bipartizione ed
alla visione dei Christifideles secondo la categoria dei Chierici e Laici. Tale concezione in generale fu ripresa dai “Sacri
canones” orientali, anche se occorre notare che dopo il grande sviluppo del monachesimo dopo il III secolo si è iniziato
a riferirsi ad una tripartizione: chierici, monaci e laici. Tale tripartizione pose quella che sarà la comune “mentalità
orientale”, anche se occorre notare che in Occidente dal secolo IX in poi coesistono due “mentes”: da una parte quella
canonistica che riformula tale bipartizione, ed una piuttosto popolare che è uguale a quella orientale che vede invece
una tripartizione276.
Necessita così rifarsi al concetto di status come situazione giuridica posseduta in funzione della vocazione
ecclesiale del singolo che investe tutta la sua persona, e si presuppone dalla di lui capacità giuridica, con una serie di
diritti e doveri nonché rapporti che possono variare senza che cambi la sua condizione di base. Se nel CIC 1983 la
qualifica di status (come proiezione dell’ordine sociale e giuridico della vita ecclesiale di ognuno in modo che la
condizione giuridica sia funzionale rispetto all’impegno cristiano) è legata alla prevalenza dell’aspetto teologico, nasce
un collegamento con lo Ius Divinum ed una distinzione di status tra chierici e laici secondo le prerogative proprie e la
peculiarità della missione ecclesiale 277.
Se la qualifica dello status è vista come situazione giuridica di un soggetto, funzionale rispetto alla sua vocazione
ecclesiale del singolo, si nota che lo status è un prius rispetto ai diritti e doveri che vengono di conseguenza. Infatti
possono esistere molteplici status in capo ad uno stesso Christifidelis quanti sono gli ordinamenti a cui partecipa278.
Ecco che lo status è una qualità permanente alla quale non si può legittimamente rinunciare in quanto presuppone un
rapporto giuridico fondamentale che lega in modo stabile il soggetto alla comunità. Tale status diviene il presupposto
per una sfera di capacità funzionale alla vocazione ecclesiale del Christifidelis che si concretizza nei tre impegni: a)
quello di laico con la missione improntata alla santificazione delle realtà profane; b) quello di chierico con attività
santificatrice, di magistero e di governo del Popolo di Dio; c) quella di monaco e religioso con consacrazione personale
in vista della perfezione evangelica.
a) Per quanto riguarda lo status laicale appartiene ad ogni Christifidelis che non sia ordinato in sacris o non abbia
emesso professione religiosa e la sua missione è la santificazione personale e delle realtà del mondo. Si distingue
dalla Gerarchia perché come tale non ha compiti ufficiali nella Chiesa e dai Religiosi per il modo di vivere la sua
responsabilità nella missione ecclesiale.
b) Per quanto riguarda lo status clericale la missione nella vita della Chiesa si esplica nel sacerdozio ministeriale
conferito con l’Ordo sacer da cui nascono una serie di diritti-doveri, poteri e facoltà con una condizione giuridica
permanente.
c) Lo status religioso ha riferimento alla consacrazione personale istituzionalizzata a Dio al fine di raggiungere la
perfezione evangelica secondo una propria specifica vocazione ecclesiale distinta dai semplici Christifideles e
Chierici. Il diritto, le regole, gli statuti e le costituzioni sono messi per l’applicazione e la pratica dei consigli
evangelici ed in conseguenza di questi emerge uno status, una ratio vivendi che determina e delimita la propria
condizione giuridica.
Anche il Concilio di Trento ha riaffermato la bipartizione, ed è stato fonte del c. 107 CIC 1917 così tale ultimo
canone è fonte del c. 207 CIC 1983. Si noti come il c. 38 §1 n. 2 del m.p. Cleri Sanctitati aveva la sua fonte nel c. 107
CIC 1917. Il Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica LG sembra indicare entrambe le posizioni e concezioni:

276
Ci si rifà a ŽUŽEK I., Bipartizione o tripartizione dei “Christifideles” nel “CIC” e nel “CCEO”, nel vol.
Undertanding, cit. p. 328-353. Interessanti spunti derivanti dal Concilio Vaticano II in U. SARTORIO, Gli “stati di
vita”/1. Un avvio di riflessione a partire da “Vita Consecrata”, in Vita Consacrata, 35(1999), p. 160-171 e p. 278-296.
J. ESCRIVÁ IVARS, La formalizacion del estatuto juridico del Fiel – Laico, in AA. VV., I principi per la revisione
del Codice di Diritto canonico, p. 347 e ss., quivi p. 355 e ss.
277
Si veda in tal senso anche il c. 948 CIC 1917.
278
Si richiama come il religioso chierico partecipi a tre tipologie di status:semplice battezzato Christifidelis, quello
clericale attraverso l’Ordine e quello religioso. In Oriente per quanto riguarda i Chierici uxorati partecipano altresì a tre
status: quello di semplice battezzato, con quello matrimoniale e quello clericale.

113
nel n. 31 si esprime adottando la tripartizione dei Christifideles279 mentre nel n. 32 ripropone la dottrina della distinzione
posta dal Signore tra ministri ed il resto del Popolo di Dio280.
Il c. 207 CIC281 rimane basato sulla concezione dei “duo genera Christianorum” distinguendo le condizioni giuridiche
soggettive derivanti dalle diverse funzioni svolte in modo binario 282, a differenza invece della via intrapresa dal CCEO
che ha formulato i canoni secondo la tripartizione. La corrispondenza del c. 323 §2 CCEO che tratta solo dei chierici
con il c. 207 §1 CIC non è piena ma ha in sé rilevanti ed ideali diversità. Infatti dal c. 323 §2 proveniente dal c. 25 §1
LEF si è avuta una riformulazione omettendo il riferimento ai laici per i quali è stato previsto un ulteriore e proprio
canone speciale è meglio elaborato 283. Infatti tale c. 399 CCEO che inizia il Titolo XI con una definizione sia in via
positiva che negativa, prendendo i suoi elementi dalla dottrina conciliare ex LG n. 31 secondo una realtà peculiare e
propria teologica, ecclesiale, orientale e sociologica 284. La via seguita nella codificazione del CIC è stata quella secondo
il principio della distinzione che è coestensiva e coessenziale al principio di uguaglianza avendo per oggetto la
condizione clericale e laicale basata sul dato sacramentale del Battesimo e dell’Ordine 285. Ex LG n. 32 i Chierici ed i
laici non sono due classi separate, ma ognuno a proprio modo partecipa dell’unico sacerdozio di Cristo. Ecco che la
distinzione tra Chierici e laici radicata nel Sacramento dell’Ordine è riferita alla diversità delle funzioni e dei ministeri
specifici che nulla danno o tolgono alla dignità e libertà comune a tutti i Christifideles.

Invece nel c. 207 §2 CIC si è trattato della posizione di coloro che con la professione dei consigli evangelici pongono
un servizio alla santità della Chiesa 286 secondo un punto di vista personale ed associativo rimandante ad una prospettiva
istituzionale. Tale parte del canone non ha un corrispettivo diretto e consequenziale nel CCEO, in quanto la materia è
trattata dal Titolo XII del CCEO in maniera propria, orientale, specificatamente e differentemente laddove tutti e tre i
279
LG n. 31: “...Il carattere secolare è proprio ai laici. Infatti i membri dell’Ordine sacro, sebbene talora possano
attendere ad affari secolari, anche esercitando una professione secolare, tuttavia per la loro speciale vocazione, sono
ordinati principalmente e propriamente (ex professo) al sacro ministero, mentre i religiosi con il loro stato testimoniano
in modo splendido e singolare che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle Beatitudini.
Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.
Essi vivono nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli gli impieghi e gli affari del mondo e nelle ordinarie condizioni di
vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi all’interno
a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l’esercizio della loro funzione propria e sotto la guida dello
spirito evangelico, e in questo modo, a rendere visibile Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della loro
vita e con il fulgore della fede, della speranza e della carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e
ordinare tutte le realtà temporali, alle quali essi sono strettamente legati, in modo che sempre siano fate secondo Cristo,
e crescano e siano di loda al Creatore ed al Redentore”.
280
LG n. 32: “... La distinzione infatti posta dal Signore tra i sacri ministri ed il resto del popolo di Dio include l’unione,
essendo i pastori e gli altri pastori legati tra loro da un comune necessario rapporto: i pastori della Chiesa sull’esempio
del Signore siano al servizio gli uni degli altri e degli altri fedeli, e questi alla loro volta prestino volenterosi la loro
collaborazione ai pastori ed ai dottori. Così nella varietà tutti danno la testimonianza della mirabile unità del corpo di
Cristo. Poiché la stessa diversità di grazie, di servizi e di attività raccoglie in un solo corpo i Figli di Dio, dato che “tutte
queste cose opera un unico e medesimo Spirito” (1Cor. 12, 11)”.
281
Si veda J. FORNES, Comentario al c. 207, in AA. VV. Comentario exegetico al Codigo de Derecho Canonico, II/1,
Pamplona 1997, p. 47-52.
282
La formulazione del c. 207 CIC distingue in tal modo i fedeli della Chiesa: 1) Ordinati (Ministri sacri o Chierici); 1.1.
non consacrati (Chierici secolari ordinari); 1.2. Consacrati; 1.2.1. Religiosi; 1.2.2. Secolari; 2) Non ordinati (chiamati
laici); 2.1. Non consacrati (Fedeli laici comuni o cristiani correnti); 2.2. Consacrati; 2.2.1. Religiosi (separati dal mondo
ex c. 607 §3 CIC); 2.2.2. Secolari. Partendo dal punto di vista della professione dei consigli evangelici o vita consacrata
ex c. 207 §2 CIC si potrebbe compiere una tripartizione: a) fedeli comuni o correnti (senza vita consacrata); b) Chierici
ordinari che pur avendo l’ordine non conducono vita consacrata; c) consacrati. Così J. HERVADA, Pensamientos de un
Canonista en la hora presente, Pamplona 1992, p. 134. Il CCEO ha seguito invece una strada concettuale autonoma che
avendo riferimento alle antiche tradizioni orientali, ha però tenuto conto e riproposto il contenuto conciliare di LG.
283
Cfr. Nuntia 28(1989), p. 59.
284
Il c. 399 CCEO descriva i laici comprendendo gli elementi: a) l’essere Christifideles; b) la nota specifica è l’indole
secolare per il tipo di opera in cui si occupano; c) vita in mezzo al mondo; d) partecipazione alla missione della Chiesa;
e) non sono costituiti in ordine sacro né ascritti allo stato religioso.
285
La distinzione gerarchica non implica un’attribuzione di un grado diverso dalla dignità nella cooperazione alla
missione della Chiesa, se non in una stabilita qualità sacramentale che si chiama teologicamente “consacrazione”, quale
modo di essere specifico e stabile nella comunità ecclesiale. Giuridicamente tale modo di essere è chiamato condizione
alla quale sono assegnate funzioni particolari e la necessaria competentia-potestas per poterle compiere. Ex c. 274 §1
CCEO si dice come tutti gli uffici ecclesiastici che comportino un’esercizio di potestà di ordine o di regime
ecclesiastico sono riservati ai Chierici. Tale parte non si incontra nel CCEO.
286
Ex LG n. 43. Si vedano anche le specificazioni in D.M. JAGER, Alcuni appunti sui Religiosi nel “Codex Canonum
Ecclesiarum orientalium”, in AA. VV., Il Diritto Canonico Orientale nell’ordinamento Ecclesiale, Città del Vaticano
1995, p. 164-190.

114
titoli seguono la sistematica tripartitiva della LG. Tale parte del c. 207 §2 CIC oltre a non avere un corrispettivo nel
CCEO si pone addirittura su un piano differente dal §1 riportando al concetto della Ecclesia ut societas aequalium et
societas inaequalium come base del posteriore sviluppo dei doveri e diritti dei Christifideles. Si noti come il CCEO non
tenga conto di tale categorialità ma recepisca una visione più teologica propria e visione storico-orientale. Sicuramente
il c. 207 CIC poteva abbandonare tale distinzione così formulata: ceteri autem et laici nuncupantur armonizzando
quello che è un linguaggio certamente avente una forma giuridica ma che poteva però ottenere una maggiore continuità
ideale con i principi teologi scaturiti dal Concilio Vaticano II. Ancora, nascono problemi valutando il c. 588 CIC (che si
riaggancia a LG n. 31) in quanto si parla di uno statu religiosus distinto da quello dei laici e dei Chierici, quasi che il
Supremo Legislatore abbia parzialmente reintrodotto la tripartizione dei Christifideles facendo derivare lo stesso status
dalla vocazione del singolo. Ci si troverebbe così nel CIC 1983 ad una bipartizione parziale dei Christifideles con una
ripresa mediata però della tripartizione che non segnala una diseguaglianza 287.
Ecco nascere così una diversità prospettica dei due Codici che certamente non si oppone, il CIC 1983 ha una
certa impostazione teologico-astrazionista, mentre nel CCEO risultando essere conforme all’autentica tradizione
orientale ed alle definizioni di Chierico, religioso e laico, secondo ciò che è di istituzione divina in questa materia
propone una visione che è storico-teologico ed orientale288.

Il c. 754 (c. 9 CCEO)289 esprime il primo obbligo, dopo aver specificato il profondo
attaccamento alla Parola di Dio e l’adesione al Magistero autentico della Chiesa, insegnamento i cui
contenuti sono coerenti con il magistero del Sommo Pontefice che è: a) decisorio ed infallibile; b)
non infallibile (non ex cathedra ex LG n. 25) che è quello di conservare integralmente la fede,
custodita e trasmessa a prezzo altissimo dai loro antenati. Tale fede anche nelle difficoltà deve
essere professata apertamente ed approfondita con l’esercizio, fruttificata nelle opere di carità. Oltre
al rimando molto chiaro alle costituzioni LG n. 11 e 12 ma pure Dei Verbum n. 10 si nota la
peculiarità del riferimento ai Cristiani delle Chiese orientali laddove talora questa testimonianza è
partecipata in modo drammatico.

Il CCEO nei c. 11-26 ha formalizzato i diritti – doveri fondamentali dei Christifideles secondo il
contenuto costituzionale con molti dei diritti che proclama ed i doveri che esige si fondamentino nel
diritto divino. Occorre notare però che non tutti i contenuti dei canoni hanno indole giuridica, ed a
proposito dei doveri, insieme a strette esigenze di giustizia, vi si ritrovano obbligazioni di natura
morale.

Il c. 208 (c. 11 CCEO)290 riguarda il principio di uguaglianza fondamentale di tutti i fedeli


nella dignità e nell’agire cooperando tutti all’edificazione del Corpo di Cristo a seconda della
propria condizione e funzione. Si tratta della conseguenza giuridica che deriva dal Battesimo e
quindi dell’appartenenza al Popolo di Dio291. Emergono tre principi: a) uguaglianza fondamentale
come esistenza di una radicale e basica condizione costituzionale del Christifidelis con vari diritti e
doveri fondamentali; b) principio di varietà radicato nel Sacramento del Battesimo avendo con sé la
esistenza di distinte condizioni giuridiche derivanti dalla propria condizione costituzionale di fedele
(risposta ai carismi dello Spirito Santo); c) principio istituzionale o gerarchico o di distinzione delle
funzioni supponente l’esistenza di un insieme di attività e funzioni che costituiscono la linea
strutturale della Chiesa.

287
V. PARLATO, Status, in Enciclopedia Giuridica, XXX, Roma 1993, p. 1-5.
288
ŽUŽEK I., Bipartizione o tripartizione dei “Christifideles” nel “CIC” e nel “CCEO”, nel vol. Undertanding, cit. p.
352-353.
289
Le fonti sono in LG n. 11, 12 e DV n. 10.
290
Fonti in LG n. 32; GS n. 29, 49 e 61; Synodus Episcoporum, Elapso Oecumenico del 22.X.1969, I,2. H. PREE,
Esercizio della potestà e diritti dei Fedeli, in AA. VV., I principi, p. 324 e ss.
291
Viene ripreso quasi testulmente LG n. 32.

115
Il c. 209 (c. 12 CCEO)292 rimarca l’obbligo dei fedeli cristiani a conservare la comunione
della Chiesa con il loro modo di agire. E’ questo un dovere ma anche un diritto primario che
tengono i battezzati. Tale obbligazione-diritto deriva dal Battesimo ma pure dal S. Myron e
l’assunzione di determinati incarichi ecclesiali, richiedendosi attitudini e comportamenti coerenti
con la stessa Chiesa e comunione. Ecco che la comunione ecclesiale è il principale criterio di
legittimazione ed il limite fondamentale per l’esercizio di tutti i diritti-doveri del battezzato, in
quanto tutti i diritti-doveri nella Chiesa sono esercitati secondo finalità e dinamica dell’essere
Ecclesia, cioè la Koinonia. Nel §2 si rimarca la necessità di una grande diligenza nell’adempire i
doveri a cui sono tenuti nei confronti della Chiesa universale e della propria Chiesa sui iuris. Tali
doveri sono inseriti quindi nella normativa universale e nel diritto particolare, potendo essere varii.
La comunione non deve essere vissuta ed intesa solamente i un rapporto di autoreferenzialità con la
propria Chiesa particolare (ed in altra strutturazione con la propria Chiesa sui iuris) ma in una
dimensione di Chiesa universale. Non può esistere una sproporzione a favore dell’una o dell’altra
modalità di vissuto comunionale.

Il c. 210 (c. 13 CCEO)293 nell’elencare i singoli diritti e doveri ricorda la vita santa e la
promozione della crescita della Chiesa e la sua continua santificazione ciascuno secondo la propria
condizione, ispirandosi alla dottrina del Vaticano II relativa all’universale vocazione alla santità 294.
In tale parte si conferma quindi il pensiero del Supremo legislatore relativa vera uguaglianza che
vige tra i battezzati in forza del Battesimo 295. Ancora emerge non solo l’obbligazione di raggiungere
una vita santa ma include lo sforzo di incrementare la Chiesa promuovendo la sua continua
santificazione. La tensione di raggiungimento della santità è un supremo dovere morale ed un
dovere giuridico nella misura che lo esige la giustizia legale partecipando ai Sacramenti ed ai mezzi
salvifici con il compimento degli altri doveri prescritti dalla Chiesa.

Il c. 211 (c. 14 CCEO)296 tratta del diritto e dovere della collaborazione all’azione
missionaria affinché il messaggio divino giunga sempre più a tutti gli uomini di tutti i tempi e di
tutto il mondo. Si tratta del riconoscimento non solamente di un dovere ma anche di un diritto
veramente giuridici in quanto i battezzati svolgono tale missione in dimensione esterna ed
intersoggettiva godendo della libertà necessaria alla sua piena realizzazione297. Sono comprese tutte
le opere e le manifestazioni variate del Christifidelis in comunione con i pastori e gli altri fedeli in
quanto l’evangelizzazione avviene con la testimonianza della vita e della parola, in ogni situazione
sia quotidiana che eccezionale298.

292
Le Fonti in LG n. 11, 13; GS n. 1 e §2; LG n. 30, AA n. 10.
293
Fonti in LG n. 11, 39-42; AA n. 6.
294
Tale fraseologia non deve essere intesa secondo il senso che esistano diversi gradi di santità dalle diverse condizioni
personali ma in ogni categoria di vita (ex LG n. 41). Si veda LG n. 39, si ricorda però che la formulazione di LG risulta
essere più precisa che non nel dettat ocodiciale in quanto in questo ultimo se da una parte si sottolinea che la santità
deve essere perseguita da ciascuno secondo la propria condizione, dall’altra non è evidenziato però che tale santità in
quanto imitazione dell’unico Padre è comunque unica e non consente una graduazione che ha riferimento ai vari stati di
vita.
295
LG n. 40.
296
LG n. 33; AA n. 3; AG n. 5, 35, 36.
297
LG n. 33; AA n. 16.
298
LG n. 33.

116
Il c. 212 (c. 15 CCEO)299 ricorda il dovere dei fedeli di obbedire ai loro Pastori in quanto
rappresentano Cristo e sono maestri della fede e guide della Chiesa 300. Si ha in tale parte
l’applicazione del dovere fondamentale per il cristiano di mantenere sempre sia moralmente come
giuridicamente la comunione con la Chiesa. L’obbedienza prescritta è qualificata dall’essere
“cristiana” che non è quindi passiva o meccanica ma richiedente la piena coscienza della dignità
battesimale, responsabilità personale ed ecclesiale e l’ossequio della volontà e dell’intelligenza 301.
Tale obbedienza non riguarda qualsiasi decisione dell’autorità ecclesiastica ma quanto essa
stabilisce nel legittimo esercizio delle funzioni di insegnamento e di governo affidate alla Chiesa
stessa302.
Emerge nel §2 il pieno diritto (integrum est) di manifestare ai Pastori le proprie necessità soprattutto
spirituali ed i propri desideri303; ogni fedele deve avere la possibilità di accedere alle autorità
ecclesiastiche non solo per richieste precise e definite, esercitando il diritto di petizione, ma anche
per stimolarne un’attenzione304. Si è parlato di “diritto di petizione” che può essere esercitato sia
oralmente che per iscritto, in modo individuale o collettivo implicando l’ottenimento di una risposta
concreta, affermativa o negativa da parte dell’autorità ecclesiastica competente.
Ancora nel §3 emerge il diritto/dovere di manifestare ai Pastori della Chiesa e all’insieme dei fedeli
il loro pensiero sulle questioni che concernono il bene della Chiesa, salva restando l’integrità della
fede e dei costumi ed il rispetto verso i Pastori tenendo conto dell’utilità comune e della dignità
delle persone. Si richiede quindi per il retto esercizio di questo diritto una scientia et coscientia, una
competentia ed una praestantia, intesa come prestigio che è una posizione di preminenza morale, un
valore sociale nella cui virtù chi lo pone gode di una influenza induttrice nei membri della
comunità, sorgendo in tal caso una responsabilità. Altri requisiti sono la verità, prudenza e
riverenza. (Si pensi alla partecipazione al Consiglio Pastorale eparchiale, oppure parrocchiale o
altro).

Il c. 213 (c. 16 CCEO)305 tratta del diritto del fedele ai beni spirituali della Chiesa soprattutto
alla parola di Dio ed ai Sacramenti 306. Tale diritto in senso stretto è per ricevere aiuti spirituali da
quelle persone, istituzioni o uffici con i quali ha un vincolo giuridico. Il c. 16 protegge un interesse
giuridico per il fedele in ordine ai beni spirituali per giungere alla santificazione conformemente
alla propria condizione e spiritualità.
Il c. 16 è anche un principio informatore dell’organizzazione ecclesiastica che obbliga a disporre i
Sacramenti e la predicazione della Parola di Dio in accordo con le necessità dei fedeli affinché nel
possibile tutti possano godere abbondantemente di questi ausilii.

299
Fonti in LG n. 37, 25; PO n. 9 §2; LG n. 37 e PO n. 9 §3; LG n. 37 ed il decreto Inter mirifica n. 8; AA n. 6; PO n. 9 e
GS n. 92.
300
LG n. 37.
301
LG n. 25.
302
Viene considerato come giuridicamente vincolante il diritto della Chiesa solo un comendo che sia ragionevole in
quanto coerente con i valori fondamentali dell’ordinamento della Chiesa ed alle esigenze delal comunione ed alla base
di tutto ciò che caratterizza il cattolicesimo. Si potrebbe riferirsi al principio di precauzione.
303
LG n. 37.
304
Il CCEO a differenza di LG n. 37 tace però circa il comportamento che debbano tenere i pastori. Tale norma risulta
così criticabile in quanto da una parte ricorda il diritto dei fedeli e non il dovere dei pastori ex LG n. 7. Ancora, la
manifestazione della propria opinione ad altri fedeli possiede delle condizioni e limiti che possono risultare dalla
normativa generale.
305
Fonti in LG n. 37 e n.p. Cleri Sanctitati c. 527.
306
LG n. 37. Si è omesso l’avverbio “abbondantemente” che lascia aperta nel canone una certa interpretazione
minimalista anche se giuridicamente sarebbe risultato generico ed indeterminato.

117
Il c. 214 (c. 17 CCEO)307 diritto dell’esercizio debito del proprio culto divino secondo le
prescrizioni della propria Chiese sui iuris seguendo una propria forma di vita spirituale in accordo
con la dottrina della Chiesa, si ispirano e fondamentano nel principio di varietà, potendosi esercitare
sia individualmente che collettivamente. Per quanto riguarda la forma spirituale inserita nelle
Chiese sui iuris si definisce così l’identità ecclesiale di ogni Christifidelis che ha un diritto di vivere
la comunione con la Chiesa universale nella propria compagine ecclesiale sui iuris. Si vogliono in
tal modo salvaguardare le esigenze spirituali dei singoli Christifideles che traggono quella utilità
speciale nella partecipazione alla Parola di Dio ed ai Sacramenti, se questo avviene nelle modalità
ispirate dalla cultura e tradizioni ecclesiali nelle quali sono stati formati. La locuzione “culto
divino” sembra ammettere un altro significato che riguardi gli atti di culto che si esprime in atti
individuali mentre è condizionato quando vi sia l’intervento del sacerdote con la richiesta dei
Sacramenti. Il diritto di seguire la propria vita spirituale richiama a quella “relazione” del fedele con
Cristo in Dio che si alimenta nella preghiera, ascolto della Parola di Dio, partecipazione alla
liturgia, originando un impulso all’amore del prossimo nella carità e all’edificazione della Chiesa 308.
Il diritto alla propria spiritualità implica l’immunità da ogni coazione. Ancora, si ha una relazione
con il diritto di apostolato personale nel rispetto dei carismi legittimi e beni dei fedeli in conformità
con la dottrina della Chiesa309.

Il c. 215 (c. 18 CCEO)310 prevede il diritto di fondare e dirigere liberamente associazioni per
fini caritativi e di pietà con lo scopo di favorire la vocazione cristiana nel mondo, con un diritto di
tenere riunioni per conseguire in comune quelle stesse finalità 311. Tali due diritti non sono sanciti in
modo generico ma espresso e specifico secondo i fini della Chiesa e non debbono confondersi in
quanto distinti. Il Concilio Vaticano II pur affermando chiaramente il diritto di associazione dei
fedeli non ne ha però data una definizione formale ed esaustiva 312. Dall’altra parte ora il CCEO ha
un riconoscimento esauriente ed esplicito con un’innovazione legislativa. L’esercizio del diritto di
associazione si può esprimere nel munus regendi che è proprio di tutto il Popolo di Dio e che si
traduce in forme di organizzazione spontanea della vita sociale secondo un’autonomia di iniziativa
che può incidere nella assicurazione della cura d’anime. Il Codice lascia così con tale normativa
un’apertura in modo che attraverso lo Spirito Santo possano nascere nuove aggregazioni per la vita
della Chiesa. Esiste anche un diritto di riunione riconosciuto dal legislatore in forma esplicita: a) il
diritto di associazione implica anche quello di riunirsi per perseguire i fini dell’associazione a cui si
aderisce; b) esistenza di un diritto di riunione al di fuori di un contesto associativo.

Il c. 216 (c. 19 CCEO)313 ricorda il diritto di esercitare personalmente l’apostolato con


proprie iniziative secondo lo stato e condizioni di ognuno relazionandosi strettamente con il diritto
di associazione ex c. 18314. Questa formulazione già effettuata nel c. 216 CIC costituisce un
originale contributo alla definizione dello statuto giuridico del fedele in quanto non vi è un riscontro
diretto nei testi del Vaticano II. L’unico limite a tale libertà si riscontra nella parte in cui la
307
Fonti in Sacrosanctum Concilium n. 4; OE n. 2-3.
308
PC n. 6 ed AA n. 4.
309
Il Codice non si esprime circa la forma di esercizio di tale diritto se in modo singolo o associato. Ancora, manca nel
canone un accenno alla relazione tra spiritulità propria e carismi.
310
Fonti in Pio XI Lettera Enciclica Quadragesimo Anno del 15.3.1931, I; m.p. Cleri Sanctitati c. 531; Giovanni XXIII
Lettera Enciclica Pacem in Terris dell’ 11.4.1963, I; AA n. 18-21; PO n. 8 e GS n. 68.
311
AA n. 24. Il diritto di associazione del Battezzato si distingue dal diritto umano di associazione per il carattere
specifico ecclesiale dei fini. Detto carattere è quello che esplica in ultima amalisi la competenza dell’ordinamento
canonico sopra le corrispondenti associazioni.
312
AA n. 18 e PO n. 8.
313
Fonti in AA n. 24, 25; LG n. 37; PO n. 9.
314
L’inciso “secondo lo stato e la condizione di ognuno” in tale canone rischia di porre l’attenzione più sulle diversità tra
i vari “status” personali e funzioni ministeriali per battezzati, che non sulla comune condizione di Christifidelis.

118
rivendicazione dell’attributo di “cattolico” deve avere il consenso della competente autorità della
Chiesa315. Si vuole così rendere riconoscibili quelle iniziative che la Gerarchia ritiene di qualificare
impegnando la propria autorità distinguendola da tutte le altre. Tale canone vuole esprimere il
diritto di iniziativa apostolica propria dei fedeli che precede qualsiasi differenziazione di compiti e
responsabilità e tale diritto è originario in quanto radicato nei sacramenti dell’iniziazione cristiana e
non necessita di eventuale “mandato” della gerarchia, anzi da parte della stessa incoraggiamento e
salvaguardia dai pericoli316.

Il c. 217 (c. 20 CCEO)317 tratta del diritto all’educazione ed istruzione cristiana che si fonda
ed esplica a partire dalla chiamata che tutti ricevono per il Battesimo 318. L’oggetto di tale diritto è
l’insegnamento della dottrina cattolica a tutti i livelli: a) istruzione catechetica o fondamentale; b) la
predicazione; c) esplicazione più profonda del messaggio evangelico. La maturità della persona si
ottiene con l’educazione cattolica, ed obbligata è tutta la comunità cristiana: in primo luogo tale
obbligo è del Vescovo ed a ciascuno dei fedeli chiamati a partecipare attivamente secondo la
propria condizione nella funzione profetica di Cristo ex c. 7 319.

Il c. 218 (c. 21 CCEO)320 riporta al diritto della giusta libertà significando che il diritto non è
assoluto e per evitare interpretazioni eccessive, di ricerca teologica facendone conoscere
prudentemente i risultati in quanto il diritto deve esercitarsi secondo i modi propri dell’onestà
scientifica, conservando il dovuto ossequio al magistero della Chiesa321. E’ questo ultimo un limite
insuperabile in connessione immediata con il dovere di comunione, tanto che il diritto deve
esercitarsi entro la piena accettazione del Magistero secondo le forme diverse di espressione ed
obbligatorietà. Esiste un problema di esercizio e tutela che è assicurata dalla prescrizione di una
rigorosa procedura che esamini le dottrine teologiche al fine di intervenire per proteggere la fede del
Popolo di Dio. Trattasi dell’esercizio di un diritto-dovere322.
Il termine ossequio ha il significato di rispetto, riverenza ed omaggio. Obsequium significa anche
obbedienza, assecondare, condiscendenza che ha il valore di comprensione ed indulgenza (che è il
contrario di rigorosità, severità gratuita). Ancora il termine riguarda la compiacenza amorosa come
soddisfazione, desiderio di soddisfare le esigenze altrui; si richiede in tal caso rispetto, cortesia,
disponibilità. Il lemma obsequium ha un altro significato di concubito, amplesso amoroso, anche se
noi lo intendiamo e viviamo in senso spirituale come comunione. L’ultimo significato è quello di
servizio eseguito da un militare: richiedendosi tutte quelle formalità ed esigenze, nonché
obbedienza, fedeltà, rigore, disciplina tipiche ecclesiali.

Il c. 219 (c. 22 CCEO)323 riguarda il diritto alla libera scelta del proprio stato di vita: è un
diritto naturale, universale, inalienabile e proprio della persona umana 324 e consiste
nell’individuazione di modalità concreta realizzativa della propria vocazione cristiana avendo per
oggetto uno “status” di natura ecclesiale. Il diritto de quo riguarda la libertà di coazione per
315
AA n. 24.
316
AA n. 24.
317
Fonti in Gravissimum educationis n. 2.
318
Gravissimae educationis n. 2.
319
Vengono qui in riferimento i c. 196 §1 ed i c. 289 §1. Si vedano pure le altre norme circas la funzione di insegnare.
320
Fonti in GS n. 53 e 62; Gravissimum Educationis n. 10; Cost. Ap. di Giovanni Paolo II Sapientia Christiana del
15.4.1979, art. 39.
321
La formula codiciale risulta essere più cauta rispett oa GS n. 59 e 62.
322
Si veda anche Art. 51 n. 2 PB.
323
Le Fonti in Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatus, Fontium
Annotatione auctus, Città del Vaticano 1995, p. 7.
324
GS n. 26.

119
maturare e decidere della propria vocazione e del proprio stato nella Chiesa senza indebiti ostacoli o
spinte. Dall’altra corrisponde il dovere sia della Gerarchia come per tutti i Christifideles di non
usare nessuna coartazione al fine di compiere una particolare scelta di vita325.

Il c. 220 (c. 23 CCEO)326 pone il diritto naturale all’integrità della buona fama e reputazione
ed alla tutela della propria intimità. La buona fama o opinione pubblica è il bene temporale più
prezioso che possieda la persona umana la cui lesione illegittima può essere considerata più grave
che lo stesso furto e può essere superiore alle ricchezze essendo più prossima ai beni temporali.
L’intimità in senso stretto è quella psicologica e morale dell’uomo appartenente all’ambito
specificatamente temporale del foro interno o della coscienza (con metodi psicologici invasivi e non
antropologicamente cristiani, o addirittura dolosamente usati con trances indotte, ubriachezze,
droghe dolosamente imposte). Già la collocazione tra i diritti dei fedeli ha suscitato qualche
perplessità anche se sono diritti comuni a tutti gli uomini e tra i battezzati è uno specifico dovere
come si esprime UR n. 12. Tale stima riguarda sia qualità umane che virtù cristiane, l’integrità della
fede e dei costumi ma pure il grado di comunione. L’intimità riguarda il rapporto personale con
Cristo senza interferenza alcuna (es. indiscreta direzione spirituale).
Il termine fama ha una radice derivante dal verbo fhmiv cioè parlare, dire di sé, in latino fari con
un significato di manifestare, mostrare, dire (vi è un stensione del significato secondo il concetto di
apparizione, manifestazione della volontà divina che si connette con il Fas e Nefas che a loro volta
deriverebbero anche da faivnw, favoò).
Il termine intimitas collegato al lemma intimus che è il superlativo di interior e si ricollega ad
interioritas significa interiore, fondo, ed ha dei corrispettivi greci che derivano da interior (in greco
ejndovteroò), interius (ejndotevrw) ed intimus (ejndovtatoò, ejswvtatoò), con altri vocaboli per
intimità: ajkrivbeia, teleiovthò, hJscevsiò, ajgavph.

Il c. 221 (c. 24 CCEO)327 diritto di rivendicare e difendere legittimamente i propri diritti


riconosciuti dalla Chiesa; il §2 ribadisce il diritto ad essere giudicati conformemente alle regole di
procedura applicate con equità; §3 riconosce il diritto di non essere puniti con pene canoniche, se
non a norma di legge. Sembra che tale normativa sia formulata in modo incerto e generico
preceduto da una serie di rinvii a disposizioni che regolano i processi senza indicare i mezzi di
tutela che questa debbono garantire. Però tale norma non è certamente inutile perché da un lato
impone che l’interpretazione del diritto processuale sia effettuata assicurando una vera protezione
dei diritti dei Christifideles e dall’altro ci troviamo di fronte ad una norma programmatica che
orienta l’evoluzione sia della legislazione che dei processi.
Il §3 tratta del principio di legalità nell’applicazione delle pene che può però essere derogato, infatti
non deve essere letto solamente in senso economico stretto328. Sembra che nel CCEO a differenza
che nel CIC si attui un’integrale applicazione del principio di legalità, anche se la questione rimane
alquanto complessa.
325
A. D’AURIA, Libertà del Fedele e scelta della vocazione. La tutela giuridica del c. 219 C.I.C., Roma 2012.
326
Fonti in GS n. 26; Pacem in Terris I. M. BRADLEY, The Evolution of the Right to Privacy in the 1983 Code: Canon
220, in AA. VV., “Sacerdotes Iuris” (DigestaE 1.1), MISCELLANEA IN HONOUR OF William H. Woestman, O.M.I.,
Mélanges en l’honneur de William H. Woestman, O.M.I., Ottawa 2005, p. 187-234. M. FAZIO, Il diritto alla buona
fama ed alla privacy nel moderno Magistero della Chiesa sulla comunicazione sociale, in Antonianum 82(2007) p. 677-
698. M. BRADLEY, The Evolution of the Right privacy in the 1983 Code: Canon 220, in AA. VV., “Sacerdotes Iuris
(Digestae 1.1)”, Miscellanea in Honour of William H. Woestman, O.M.I., Ottawa 2005, p. 187-234. J. HORTA, Diritto
all’intimità. Fondamenti storici e proiezione del c. 220 CIC e can. 23 CCEO, in Antonianum 82(2007) p. 735-756. C.
PAPALE, Brevi note in tema di delitto di falsa denuncia e lesione dell’altrui buona fama (can. 1390 §2 e di tutela
penale del diritto all’intimità, in Antonianum 82(2007) p. 757-782.
327
Si vedano le fonti in Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatus,
Fontium Annotatione auctus, Città del Vaticano 1995, p. 8.
328
Cfr. c. 1399 CIC 1983.

120
Il c. 222 (c. 25 CCEO)329 sancisce il dovere di sovvenire alle necessità materiali della Chiesa
nella comune responsabilità dei battezzati nella missione unica della Chiesa. Secondo alcuni tale
parte risulta essere così generale da apparire generica senza precisare le modalità di adempimento.
Occorre però ricordare che il legislatore però non poteva addentrarsi in specificazione che sarebbero
risultate essere restrittive ed unilaterali a fronte di una futura diversificazione situazionale, tanto che
è lasciato ampio spazio al legislatore particolare. Ancora, tale obbligo non riguarda la sola sfera
economica ma altre prestazioni di carattere personale 330. Ancora il canone richiede e sancisce la
promozione della giustizia sociale ed il soccorso dei poveri con i propri beni includendo la
comunicazione tanto di beni economici in senso stretto come quelli di indole spirituale. Si tratta qui
di obblighi e doveri che incombono a tutti gli uomini e quindi i Christifideles come conseguenza
delle necessità ex GS n. 69 di avere parte dei beni sufficienti a sé ed alla propria famiglia. Si
esprime qui una tradizione della Chiesa con l’espressione: “memori del precetto del Signore” come
carità che riguarda pure la giustizia sociale conformemente al disegno di Dio.

Il c. 223 (c. 26 CCEO)331 prescrive il dovere di tenere conto nell’esercizio dei propri diritti
del bene comune della Chiesa dei diritti e dei propri doveri verso gli altri; nel §2 si parla del diritto
dell’autorità ecclesiastica di regolare, in vista del bene comune l’esercizio dei diritti dei
Christifideles. E’ questa la cosiddetta moderazione estrinseca dell’esercizio dei diritti. Tale
moderazione ottenuta dall’autorità ecclesiastica deve porre l’attenzione alle esigenze del bene
comune riferendosi primariamente alle norme legislative o esecutive emanate dalla stessa autorità
includendo anche l’esercizio della potestà giudiziale. Alcuni autori hanno rilevato che la
disposizione del canone esprima troppo una preoccupazione del Legislatore nel riconoscimento dei
diritti dei fedeli potendo innescare non buone interpretazioni ed abusi. Se tale preoccupazione è
valida sotto il profilo pastorale, dall’altra sembra rispondere meno efficacemente alle regole di una
corretta tecnica giuridica. Così il §2 se da una parte non è contestabile in linea di principio e
dottrinale, sono sorti dubbi agli interpreti a causa della formulazione che è apparsa troppo generica
ed ampia rischiando di lasciare libero l’esercizio di qualunque diritto in balia dell’autorità332.
Il termine di riferimento è il bene comune della Chiesa.

329
Si vedano le fonti in Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatus,
Fontium Annotatione auctus, Città del Vaticano 1995, p. 8.
330
AA n. 10.
331
Si vedano le fonti in Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatus,
Fontium Annotatione auctus, Città del Vaticano 1995, p. 8.
332
Si poteva per lo meno precisare che i diritti fondamentali possono essere limitati solamente dalla legge ed in modo
tale da fare comunque salva la sostanza. Così FELICIANI G., Obblighi e diritti di tutti i fedeli cristiani, in AA. VV., Il
fedele cristiano, Bologna 1989, p. 55-101, quivi p. 72-73.

121
OBBLIGHI E DIRITTI DEI FEDELI LAICI

c. 224

C. 225

122
PARTE II: LA COSTITUZIONE GERARCHICA DELLA CHIESA
Sezione I: LA SUPREMA AUTORITÀ DELLA CHIESA

Capitolo I: IL ROMANO PONTEFICE ED IL COLLEGIO DEI VESCOVI

Tale parte vuole trattare la strutturazione organica della chiesa quale communio Ecclesiarum
partendo dall’elemento gerarchico intrinseco nel suo rango supremo per meglio comprendere tutte
ed ognuna delle Chiese sui iuris e Chiese particolari, partendo dal Romano Pontefice e dal Collegio
Episcopale (compresi in modo lato il Sinodo dei Vescovi, i Cardinali ed in capitolo a parte la Curia
romana quali organi ed istituzioni principali che collaborano al governo della Chiesa universale).
Trattasi di soggetti della suprema potestà ecclesiastica sia di istituzione divina quali il Romano
Pontefice ed il Collegio dei Vescovi come di mero diritto ecclesiastico nella misura in cui
partecipano di questa potestà. Tale positiva presentazione della normativa codiciale porta a meglio
comprendere ed è come porta del Titolo IV così peculiare per l’Oriente cristiano.

c. 330 (c. 42 CCEO): tale canone fu introdotto all’ultimo momento e non figurava nei
progetti precedenti il Codice e neppure nella LEF, riproducendo però il testo di LG n. 22. Il dettato
stabilisce una relazione di somiglianza e di proporzionalità tra il Collegio apostolico ed il Collegio
episcopale333. L’espressione statuente Domino vuole significare la volontà di Cristo e l’istituzione
divina nella creazione del Collegio apostolico con a Capo Pietro quale membro qualificato che lo
presiede sopra e insieme agli Apostoli che uniti a lui sono membri del Collegio 334. Nel Collegio
esiste una struttura organica di superiorità e subordinazione tra il Capo ed i membri: cum et sub
Petro. Ancora risalta l’espressione inter se coniunguntur che ha un significato di unità basata nella
communio e di un certo affectus collegialis che non sempre quest’ultimo si traduce in atti di
collegialità stretta335.

c. 331 (c. 43 CCEO): tale canone si riferisce: a) all’ufficio e titoli propri del Romano
Pontefice; b) alla potestà che corrisponde all’ufficio di Pietro e le sue caratteristiche.
a) Al riferimento al Romano Pontefice come Vescovo di Roma e successore di Pietro seguono
quindi gli altri titoli secondo una sequenza logica laddove l’Episcopato romano è titolo e condizione
che li fondamenta tutti. Il Papa successore di Pietro per volontà del Signore 336 ha come funzione di
essere principio e fondamento perpetuo e visibile di unità di fede e di comunione ex LG n. 23. Il
Papa deve sempre essere Vescovo di Roma ed in quanto tale è capo del Collegio dei Vescovi. Così
il titolo di Vicario di Cristo (LG n. 27) è unito specialmente alla condizione di Pastore della Chiesa
Universale337.

Si possono così riassumere i titoli del Romano Pontefice:


Vescovo della Chiesa di Roma (Episcopus Urbis Romae) tale titolo è presente in LG n. 22 e nel c.
43 quale titolo originario del Romano Pontefice con una valenza sia storica ma non meno teologico-
canonica in quanto il suo ministero è un servizio esercitato nei confronti della sua diocesi (Con
responsabilità episcopale immediata e diretta), la Chiesa di Roma per cui è anche a titolo personale,
supremo pastore del corpo delle Chiese in quanto successore di Pietro.

333
Non si parla in tale parte di “identità” ma di somiglianza.
334
NEP n. 1.
335
Z. GROCHOLEWSKI, Canoni riguardanti il Papa e il Concilio Ecumenico nel Nuovo Codice di diritto canonico , in
Apollinaris 63(1990), p. 571-610.
336
Cfr. Pastor Aeternus n. 2.
337
M. MACCARRONE, Vicarius Christi. Storia del titolo papale, Roma 1952; IDEM (ed.), Il primato del Vescovo di
Roma nel primo millennio. Ricerche e testimonianze. Atti del Symposium storico-teologico, Roma 9-13 ottobre 1989,
Città del Vaticano 1991; H. MAROT, Note sur l’expression “episcopus Ecclesiae catholicae”, in Irenikon 37(1964), p.
221-226; Y. CONGAR, I titoli del Papa, in Concilium 11(1975), 8, p. 75-88

123
Vescovo della Chiesa Cattolica (Episcopus Ecclesiae catholicae) Tale ultima formula in uso a
partire dal IV secolo designava la Chiesa locale di Roma. In seguito ha acquisito un senso non
“universale” ma di vera Chiesa. Vescovo della Chiesa cattolica rispecchia la terminologia usata
anche dal Papa Paolo VI e l’esempio si è avuto nella promulgazione documentale del Vaticano II ed
equivale a Romanus Pontifex frequentemente usato da Gregorio Magno.

Capo del Collegio dei Vescovi vuole esprimere il munus del Romano Pontefice in seno al Collegio
dei Vescovi. Tale titolo ricorre nei c. 43 e c. 331 e c. 336 CIC 83.

Vicario di Gesù Cristo: ricorre nel c. 43 e tale titolo ha visto un’applicazione molto ampia (re,
vescovi, sacerdoti) che via via si è ristretta a partire dal sec. XI. Anticamente non aveva un valore di
categoria giuridica definente la titolarità di un potere ma di manifestazione o rappresentazione della
Grazia dell’azione trascendente di Cristo. Dal mero significato ministeriale o iconico, sacramentale
o rappresentativo acquista un senso giuridico stretto che si riferisce alla potestas. Tale titolo divine
con Innocenzo III un vero e proprio titolo papale sostituendo il precedente Vicario di Pietro
ritenuto insufficiente. Nei tempi tale titolatura ha avuto un restringimento in senso monarchico
soprattutto nei confronti dei Vescovi, ma nel Concilio Vaticano II in LG n. 27a gli stessi sono
chiamati Vicari e ambasciatori di Cristo, prevedendosi in seguito (LG 27b) come non debbano
essere considerati “Vicari dei Romani Pontefici”.

Vicario di Pietro: il titolo è molto antico ed usato per tutto il primo millennio. Da Innocenzo III
cambia in Vicario di Cristo in quanto il precedente era ritenuto insufficiente ad esprimere l’autorità
ed il potere in rappresentanza di Cristo.

Successore del Principe degli Apostoli: titolo che riporta ad una ecclesiologia gerarcologica e
monarchica.

Pastore della Chiesa universale: tale titolo ricorre nel c. 43 ed è questo un titolo che deriva dalla
Bibbia ed ha un carattere pastorale, indicando in tal senso il ministero petrino. Si parla anche di
Pastore supremo (c. 333 §2, 353 §1, 749 §1 CIC).

Romano Pontefice: questo è il titolo usato più frequentemente (91 volte?) e che unisce i titoli di
“Vescovo della Chiesa che è in Roma” e di “Pontefice della Chiesa universale”.
L’etimo di Pontifex consta di tre significati: a) “facitore di ponti” (pontem facere); b) colui che
“può” farli (posse facere nel senso di rendere le condizioni opportune alla manifestazione dell’atto
sacro); c) colui che ha competenza totale ed universale (pomptis), in quanto è l’unica persona che
può per primo percorrere senza timori una via periculosa identificandosi con la via stessa.

Sommo Pontefice (o Sacerdos) della Chiesa universale: fino al secolo IX ha designato anche i
Vescovi, in seguito fu riservato solamente il R. P. Nel CCEO ricorre circa 20 volte.

Papa (da pater, padre) se dal V secolo in Occidente è stato riservato prevalentemente al solo
Romano Pontefice (si parlava di Papa Urbis Romae [aeternae]), in Oriente è ordinariamente usato
anche per i Sacerdoti. Il titolo ha un carattere meramente liturgico e nel CCEO non è mai usato,
anche se si trova l’aggettivo papale nei c. 360 e 667 §3 CIC. L’espressione oggi in uso Santo
Padre corrisponde propriamente al termine Papa nel significato affettivo e di venerazione, lemma
originario e nel suo sviluppo storico.

Pater Patrum usato dai Vescovi dell’Illirico ma pure nel sec. VI e VII nel rivolgersi al Papa (valeva
anche per un Vescovo che si rivolgesse ad altri Vescovi facenti parte della sua giurisdizione).

124
Primate d’Italia.

Arcivescovo e Metropolita della Provincia Romana.

Sovrano dello Stato della Città del Vaticano. Il titolo di “Re” unito a “Pontefice” nella locuzione
bi-unitaria “Re – Pontefice” riunisce un duplice potere in un sola (mixta) persone: quello temporale
e spirituale costituendo il concetto di “signoria universale” non in senso territoriale ma come
auctoritas, principio comune, superiore ed intrinsecamente metafisico.

Servo dei Servi di Dio: ha la sua genesi nei principi istituzionali di carattere teocratico stabiliti
dalla legge mosaica e delle istituzioni monarchiche e sul re che era visto quale rappresentante di Dio
in terra ma anche come il primo Servo di Dio. Ora seppure non riservato al Pontefice ed allo stesso
poi solamente attribuito, tale appellativo esprime la caratteristica della gerarchia come servizio. Tale
fraseologia nel seguito dei tempi è divenuta una formula della Cancelleria papale338.

Patriarca dell’Occidente titolo depennato e tolto anche dall’Annuario Pontificio dal 2006.
Circa il Romano Pontefice come Patriarca d’Occidente necessita in primo luogo distinguere nella persona del Pontefice
due funzioni: a) i poteri primaziali; b) i poteri patriarcali. Per quanto riguarda i poteri primaziali ex c. 45 il Romano
Pontefice ha la piena e suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa non solo nelle cose riguardanti la Fede ed i
costumi ma pure la disciplina ed il governo. Di questa suprema potestà il Pontefice possiede non la parte principale ma
la pienezza di tale potestà che è ordinaria ed immediata, su tutte le singole Chiese sui iuris e su tutti i pastori e
Christifideles di qualsiasi rito o dignità.
Per quanto riguarda le Chiese dell’Oriente fin dai primordi per una maggior organizzazione interna, ispirandosi al
modello imperiale, le stesse si sono date una struttura che prevedeva un raggruppamento di Chiese locali in una
determinata regione attorno alla “Chiesa madre” con un’autonomia seppure nella communio. Tale iniziale
organizzazione tipicamente orientale venne intesa come modello strutturale di tutta la Chiesa riconnettendovi come sede
patriarcale anche Roma.
Infatti, una volta costituiti i grandi patriarcati dell’Oriente si incominciò ad attribuire il titolo di Patriarca anche al
Vescovo di Roma come “Patriarca d’Occidente”, oppure “l’altro Patriarca dell’Impero” 339, per cui assieme agli altri
quattro Patriarchi (Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme) avrebbe formato la Pentarchia 340.
In Occidente non si è conosciuta una struttura di tipo patriarcale anche se le sedi patriarcali sono sempre state
considerate, anche a Roma, come caratteristiche delle sedi fondate direttamente o indirettamente da Pietro e l’autorità
sopraepiscopale dei Patriarchi derivava in qualche modo dall’autorità di Pietro. In pratica tale visione non era altro che
una speciale partecipazione di diritto ecclesiastico al primato del Vescovo di Roma. Ecco che il Papa nel primo
millennio ha riconosciuto l’ordinamento patriarcale come struttura propria dell’Oriente che non riguardava però
direttamente la Chiesa occidentale, non per questo però vi era la coscienza nel Pontefice di essere Capo del Collegio
episcopale e di svolgere un ruolo che non era solamente di primus inter pares ma di direzione propriamente decisiva
della Chiesa nel rispetto dei Patriarchi orientali341.
Dopo il primo millennio in Occidente continua quella visione del sistema patriarcale diversa da quella orientale,
laddove il Pontefice è sì designato come Patriarca ma con significato ben preciso e distinto dagli altri Patriarchi
orientali e superiore ad essi: ne è l’esempio dell’imposizione del pallio agli stessi. Si assiste così alla definitiva
338
L. LÉVILLAIN, Servus Servorum Dei, in Le Moyen Age 40(1930), p. 5-7.
339
Tale titolo apparve nel 450 in due lettere di Teodosio divenendo sempre più frequente soprattutto con Giustiniano nel
momdo Orientale. Le nostre osservazioni fanno riferimento ad A. GARUTI, Il Papa Patriarca d’Occidente?, Studio
storico dottrinale, Bologna 1990. Y. CONGAR, Titres donnés au Pape, in Concilium 11(1975) n. 108, p. 55-64 laddove
a p. 57 sono dedicate al nostro argomento solamente cinque righe. Però in senso inverso a Garuti: Y. CONGAR, Le
Pape comme Patriarche d’Occident. Approches d’une réalité trop négligée, in Istina 28(1983), p. 347-390. Da ultimo:
D. SALACHAS, La novità del CCEO a proposito del primato romano (il rapporto tra RomanoPontefice – Patriarca),
in Folia Canonica 1(1998), p. 105-127. Da ultimo: N. FILIPPI, Essenza e forma di esercizio del ministero petrino. Il
magistero di Giovanni Paolo II e la riflessione ecclesiologica, Roma 2004, laddove l’A. propone in prospettiva
ecumenica il Vescovo di Roma come patriarca d’Occidente in una valorizzazione della collegialità episcopale e
sussidiarietà, nella riscoperta di una reale ecclesiologia di comunione, dove la Chiesa diverrebe realmente una Chiesa di
Chiese, o meglio ancora una Chiesa dove le diverse comunità ecclesiali si riconoscono come Chiese sorelle. Un
ulteriore motivo per riscoprire tale ruolo del Vescovo di Roma sarebbe quello della comprensione della ecclesiologia
del primo millennio nel ristabilire quell’unità che preveda il cum Roma ma anche il sub Roma, così p. 219 e ss.
340
Così A. GARUTI, p. 29. Si veda tale parte nelle presenti dispense.
341
Ibidem, p. 37.

125
introduzione del titolo patriarcale al Pontefice nella Teologia dei sec. XVI e XVII. Ma tale titolo anche se accettato
nella comune distinzione dei ruoli del Papa, passa in secondo ordine rispetto all’accentuazione del primato e ruolo di
Pastore della Chiesa universale, e l’ordine di precedenza dei Patriarchi riguarda solamente le Chiese orientali in quanto
il Romano Pontefice non è considerato come Patriarca ma è il Sommo Pontefice. Il Pontefice come Patriarca possiede
una nota di distinzione e di superiorità rispetto agli altri Patriarchi, infatti gli sono attribuiti sì tutti i diritti patriarcali, ma
ha un qualche cosa che è in più in quanto la sua azione è quella di Pastore della Chiesa universale 342. Tale insistenza
nella distinzione e superiorità del Papa rispetto agli altri Patriarchi, era infatti chiamato Summus patriarcha e
Patriarcha universalis, non comportava però che il titolo di Patriarca d’Occidente fosse non più che un titolo onorifico
tra tanti altri.
Nel Concilio Vaticano I il tema del Patriarcato d’Occidente fu trattato solamente di riflesso ed in obliquo nel contesto di
approfondimento della natura e dell’esercizio del primato nell’affermazione della potestà ordinaria immediata ed
episcopale del Vescovo di Roma sulla Chiesa universale in virtù del primato, ed in rapporto sia del potere dei Vescovi
come in particolare dei Patriarchi 343. In tale parte traspariva chiaramente come tra i Padri conciliari fosse aliena un’idea
di Patriarcato d’Occidente in quanto considerato come una realtà puramente disciplinare ed organizzativa non rientrante
nella struttura data da Cristo alla sua Chiesa, escludendo ogni forma di Pentarchia quale compartecipazione al governo
della Chiesa, fosse anche nel solo campo disciplinare 344.
In tale periodo il Vescovo di Roma è Pastore della Chiesa universale e non viene in nessun modo considerato Patriarca
della Chiesa d’Occidente anche se nello svolgere la sua missione si associa in modo particolare ai Patriarchi orientali,
concedendo loro speciali diritti e privilegi, partecipazione di questi alla suprema autorità papale e quindi dallo stesso
regolati in conformità alle esigenze del bene della Chiesa.
La questione del Papa come Patriarca d’Occidente non è stata oggetto di trattazione specifica e non ha trovato riscontro
nei testi conciliari del Vaticano II anche se in tale sede si è costatato che l’istituto patriarcale è in vigore solo in Oriente
per cui il riferimento si è avuto esclusivamente per i Patriarcati uniti a Roma respingendosi anche solo un accenno al
Patriarca d’Occidente345.
Circa la coesistenza dei poteri primaziali e patriarcali nella persona del Romano Pontefice in base alla pienezza di
giurisdizione del Papa sulla Chiesa universale ci si è chiesti se è possibile ammettere che egli abbia dei poteri specifici
sull’Occidente in ragione del ruolo patriarcale distinti dai poteri primaziali 346 e se tali poteri patriarcali possono limitare
il potere universale o possano essere semplicemente attribuiti al Romano Pontefice. Alla luce dell’estensione della
potestà primaziale quanto al soggetto ed all’oggetto, non si possono ammettere nel Romano Pontefice dei poteri
specifici sull’Occidente analoghi a quelli dei Patriarchi orientali, distinti dai suoi poteri primaziali 347. Esiste un’identità
tra poteri primaziali e poteri patriarcali in quanto il Pontefice non possiede una potestà “sovraepiscopale” intermedia
come potrebbe essere una potestà patriarcale. In Occidente il Papa quando interviene fuori dalla propria Diocesi di
Roma lo fa in quanto Pastore della Chiesa universale e non certamente in quanto Patriarca.
Era stata avanzata l’idea di costituzione di un Patriarcato d’Occidente in funzione di decentramento della Chiesa: di
fatto il Vescovo di Roma non è mai stato considerato Patriarca di “tutto” l’Occidente, e dal dato di fede che il suo
primato deve essere esercitato nella salvaguardia della potestà suprema di cui è soggetto anche il Collegio episcopale
coni l suo Capo, tale idea potrebbe avere una sua attuazione anche se il patriarcato ha la sua istituzione tradizionale
tipica orientale. Per l’Occidente si potrebbe considerare come più consono alla particolare struttura patrimoniale la
forma delle Conferenze episcopali insieme ed espressione moderna degli antichi Patriarcati con modalità concreta di
esercizio parziale della collegialità. Anche se possono essere mosse molteplici contestazioni circa la corrispondenza dei
Patriarcati d’Oriente a tale costruzione proprio per le diversità sul piano storico e pratico nonché di impostazione del
CCEO in tal senso, occorre notare come il Concilio Vaticano II abbia intravisto elementi comuni con una analogia
(similmente) con le Conferenze episcopali in LG n. 23 ma nonostante questo assolutamente non si sia parlato in alcun
modo di Patriarcato d’Occidente 348. Certamente occorre oltre l’organizzazione propria dei Patriarcati che risalgono ai
primi tempi della Chiesa nonché alla strutturazione delle Conferenze episcopali che riguardano Chiese sorelle, vedere se
esista la possibilità di una costruzione giuridica in tal senso avendo presente, al di là di una denominazione giuridica o
di mero titolo ecclesiale riservato al Papa, quello che è il bonum Ecclesiae, la salus animarum e per quanto riguarda la
Chiesa d’Orientre e d’Occidente una più grande Communio Ecclesiarum.

Comunicato del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani circa la soppressione del titolo “Patriarca
d’Occidente ne L’Annuario Pontificio in L’Osservatore Romano del 22.03.2006.
Ne L’Annuario Pontificio 2006 manca, nell’enumerazione dei titoli del Papa, il titolo «Patriarca d’Occidente». Tale
assenza è stata commentata in modi diversi ed esige un chiarimento.
342
Ibidem, p. 68.
343
Ibidem p. 140.
344
Ibidem, p. 175.
345
Ibidem, p. 218.
346
Come i Patriarchi orientali hanno dei poteri nel loro patriarcato.
347
Unica distinzione si rinviene tra i poteri episcopali che il Pontefice ha nella sua Chiesa particolare di Roma di cui è
Vescovo ed i poteri primaziali sulla Chiesa universale. A. GARUTI, p.266.
348
A. GARUTI, p. 220.

126
Senza la pretesa di considerare la complessa questione storica del titolo di Patriarca in tutti i suoi aspetti, si può
affermare dal punto di vista storico che gli antichi Patriarcati dell’Oriente, fissati dai Concili di Costantinopoli (381) e
di Calcedonia (451), erano relativi ad un territorio abbastanza chiaramente circoscritto, allorché il territorio della Sede
del Vescovo di Roma rimaneva vago. In Oriente, nell’ambito del sistema ecclesiastico imperiale di Giustiniano (527–
565), accanto ai quattro Patriarcati orientali (Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), il Papa era
compreso come Patriarca d’Occidente. Inversamente, Roma privilegiò l’idea delle tre sedi episcopali petrine: Roma,
Alessandria ed Antiochia. Senza usare il titolo di «Patriarca d’Occidente», il IV Concilio di Costantinopoli (869–70), il
IV Concilio del Laterano (1215) ed il Concilio di Firenze (1439), elencarono il Papa come il primo degli allora cinque
Patriarchi.
Il titolo di «Patriarca d’Occidente» fu adoperato nell’anno 642 da Papa Teodoro I. In seguito esso ricorse soltanto
raramente e non ebbe un significato chiaro. La sua fioritura avvenne nel XVI e XVII secolo, nel quadro del moltiplicarsi
dei titoli del Papa; ne L’Annuario Pontificio esso apparve per la prima volta nel 1863.
Attualmente il significato del termine «Occidente» richiama un contesto culturale che non si riferisce soltanto
all’Europa Occidentale, ma si estende dagli Stati Uniti d’America fino all’Australia e alla Nuova Zelanda,
differenziandosi così da altri contesti culturali. Ovviamente tale significato del termine «Occidente» non intende
descrivere un territorio ecclesiastico né esso può essere adoperato come definizione di un territorio patriarcale. Se si
vuole dare al termine «Occidente» un significato applicabile al linguaggio giuridico ecclesiale, potrebbe essere
compreso soltanto in riferimento alla Chiesa latina. Pertanto, il titolo «Patriarca d’Occidente» descriverebbe la speciale
relazione del Vescovo di Roma a quest’ultima, e potrebbe esprimere la giurisdizione particolare del Vescovo di Roma
per la Chiesa latina.
Di conseguenza, il titolo «Patriarca d’Occidente», sin dall’inizio poco chiaro, nell’evolversi della storia diventava
obsoleto e praticamente non più utilizzabile. Appare dunque privo di senso insistere a trascinarselo dietro. Ciò tanto più
che la Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II ha trovato per la Chiesa latina nella forma delle Conferenze
Episcopali e delle loro riunioni internazionali di Conferenze Episcopali, l’ordinamento canonico adeguato alle necessità
di oggi.
Tralasciare il titolo di «Patriarca d’Occidente» non cambia chiaramente nulla al riconoscimento, tanto solennemente
dichiarato dal Concilio Vaticano II, delle antiche Chiese patriarcali (Lumen Gentium 23). Ancor meno tale soppressione
può voler dire che essa sottintende nuove rivendicazioni. La rinuncia a detto titolo vuole esprimere un realismo storico e
teologico e, allo stesso tempo, essere la rinuncia ad una pretesa, rinuncia che potrebbe essere di giovamento al dialogo
ecumenico349.

b) La potestà del Romano Pontefice ha le seguenti caratteristiche:


ordinaria annessa per legge divina all’ufficio papale non come persona fisica ma in quanto titolare
della “funzione capitale del governo della Chiesa universale”. E’ la potestà che si pone come
annessa al suo ufficio da Cristo stesso e ribadita dal c. 981 §1350;
suprema significa che tale potestà non è subordinata a nessun’altra potestà umana né ecclesiastica e
neppure temporale, godendo la massima gerarchia nel suo ordine 351, esprimendosi anche in altri
aspetti che non sono strettamente giuridici352;
piena: il Papa possiede la totalità della potestà che Cristo ha consegnato alla sua Chiesa non
sottomessa ad alcun limite, pertanto è quella che è necessaria e sufficiente per il governo della
Chiesa in tutti gli ordini e sfere nell’ambito ecclesiastico. La plenitudo potestatis pontificia
comprende sia la potestà di ordine che di giurisdizione e si estende a tutte le funzioni della sacra
potestas: il munus sanctificandi, docendi et regendi ma anche nelle funzioni in cui si distingue la
potestà di governo che sono legislativa, esecutiva e giudiziale (c. 985 §1). Tale potestà è delineata
nel servizio dei fini della Chiesa353 rispettando la costituzione e struttura ecclesiale che è di
istituzione divina;

349
A. GARUTI, Il significato dell’ammissione di un titolo, in Antonianum 82(2007) p. 9-30; GREGORIUS III,
Patriarches d’Orient et d’Occident, in Le Lien 72(2007) p. 69-82. H. LEGRAND, Le Pape, Patriarche d’Occident:
actualité d’un titre inactuel, in Proche-Orient Chrétien 57(2007) p. 250-278.
350
E. LABANDEIRA, Trattato di diritto amministrativo canonico, Milano 1994, p. 104 e ss. D. SAROGLIA, Il Papa di
fronte alla responsabilità di promuovere l’unità dei Cristiani, Roma 2003, p. 152 e ss.
351
Tale conseguenza si riscontra nei c. 1508; es. c. 1406 §1 CIC; c. 1059 §1; c. 1372 CIC.
352
Si vedano i c. 782 §1 CIC; c. 1008 §1 e §2.
353
CD n. 2.

127
immediata significa che tale potestà può essere esercitata in relazione a tutti ed ognuno dei Fedeli
(e questi hanno il diritto di dirigersi al Papa direttamente) e con tutte le Chiese sui iuris e particolari
senza necessità di alcun permesso o autorizzazione o licenza di Vescovi oppure ordinari;
universale: la potestà del Papa si estende nel suo esercizio a tutti gli ambiti della Chiesa sia
territoriali, personali o di materia sempre che rientrino nell’ordine ecclesiastico;
libero esercizio della potestà: corrisponde ad un’addizione del Vaticano II ex LG n. 22 e NEP n. 4
semper libere che ha come riferimento ed esigenza il proprio ministero, avendo come suo giudizio e
prudenza la decisione dei modi personali o collegiali di attuazione tenendo presente le necessità
della Chiesa che variano con il passare del tempo354. Il Romano pontefice non sarà vincolato
giuridicamente dal voto dei restanti membri del Collegio episcopale lasciando al suo giudizio
prudenziale i modi e le maniere dell’aiuto episcopale tenendo presente il bene della Chiesa e dei
Christifideles.

c. 332 (c. 44 CCEO): si tratta dei requisiti per ottenere la potestà piena e suprema: a) atto di
elezione legittima con accettazione dell’eletto 355; b) consacrazione episcopale dell’eletto. In tale
canone non è stata decisa espressamente la questione canonica e teologica dell’origine della potestà
pontificia. Si tratta del ruolo che gioca la consacrazione episcopale dell’eletto e la sua relazione con
la chiamata “missione divina” che si riceve mediante l’atto di elezione-accettazione.
Per quanto riguarda la perdita dell’ufficio pontificale il canone fa riferimento solamente alla
rinuncia e non ai casi di morte (anche se il più normale il CCEO ed il CIC non la menzionano),
l’amenza psichica, l’eresia, scisma ed apostasia. Tale rinuncia deve essere libera e manifestata
formalmente senza vizi di volontà.

c. 333 (c. 45 CCEO): §1: a) il primato del Vescovo di Roma si esercita sulla Chiesa universale e
possiede la principalità della potestà ordinaria su tutte le Eparchie ed i loro raggruppamenti: è
questa la manifestazione particolare della potestà immediata che corrisponde al Romano Pontefice
in virtù del suo ufficio; b) tale esercizio di potestà primaziale non vuole diminuire o ridurre gli
ambiti di competenza corrispondenti alla potestà ordinaria dei vari Vescovi ed Eparchi nelle proprie
Chiese, anzi vuole irrobustirla e difenderla ex LG n. 27.
§2 si vuole qui contestualizzare la hierarchica communio che deve esistere tra il Romano Pontefice
e gli Eparchi come membri dello stesso Collegio e tra il Romano Pontefice e la Chiesa universale.
L’esercizio parziale o collegiale della potestà si inserisce in un contesto di comunione con mature e
reciproche esigenze tra i vari membri.
§3 In questo paragrafo si riafferma la manifestazione del principio Prima Sedes a nemine iudicatur
utilizzandosi una terminologia tecnica che esclude l’appello giudiziale o il ricorso amministrativo
contro atti del Romano Pontefice che si realizzano attraverso la via giudiziale o amministrativa.

c. 46 riguarda i collaboratori del Papa nel governo della Chiesa universale. Trattasi di una
collaborazione ampia che si pone nel campo della collegialità in senso ampio, detta anche
“collaborazione collegiale”. Questo canone a differenza del c. 334 CIC menziona le persone ed
istituzioni concrete, anche se viene lasciata sempre una possibilità istitutiva che potrebbere essere
determinate dalle varie necessità dei tempi. Tali istituzioni e persone realizzano in nome del
Romano Pontefice e con la sua autorità le funzioni che siano loro assegnate con potestà vicaria di
governo.

c. 335 (c. 47 CCEO): tratta la situazione della Sede vacante o impedita ed il regime giuridico
della Chiesa universale: si applica il principio generale a che nulla venga innovato (applicabile
NEP n. 3.
354

355
Si veda la Costituzione apostolica: Universi Dominici Gregis di Giovanni Paolo II del 22.06.1996 in AAS 88(1996),
p. 305-343 che ha sostituito la Costituzione apostolica di Paolo VI Romano Pontifici Eligendo dell’1.10.1975 in AAS
67(1975), p. 609-645. Si veda da ultimo J.L. ARRIETA, Il sistema elettorale della Cost. Apostolica “Universi
Dominici Gregis”, in Ius Ecclesiae 12(2000) p. 137-162 e la bibliografia ivi contenuta.

128
anche alle Chiese sui iuris ed Eparchie); dall’altra parte si lascia alle leggi speciali date per questi
casi con il regolamento del regime giuridico corrispondente 356. Nel caso della “Sede impedita” non
esiste nessuna legge speciale applicandosi così per analogia ciò che si prescrive per la “Sede
vacante”.

c. 48 si ha in tale canone una specificazione terminologica. Il CCEO usa esclusivamente il nome


Sede Apostolica, anche se questo è sinonimo di Santa Sede.
Con il dittico “Sede Apostolica” si intende nel CCEO in primo luogo il Romano Pontefice, ma
anche (a meno che non sia stabilito altrimenti dal diritto o non consti dalla natura delle cose) i
Dicasteri e le altre istituzioni della Curia Romana.

c. 336 (c. 49 CCEO): il Collegio episcopale è soggetto di suprema e piena potestà sopra tutta
la Chiesa357. La struttura e composizione organica del Collegio episcopale vede il Romano Pontefice
come il Capo ed i Vescovi che sono i restanti membri. Ma senza il Capo il Collegio non esiste e
neppure può essere il soggetto della potestà. Il Capo si colloca entro il Collegio e non fuori dallo
stesso e come il Collegio esiste sempre, il Romano Pontefice è sempre Capo del Collegio e tale
condizione è inseparabile in quanto titolare dell’ufficio petrino.
L’ingresso del Collegio si ha con la consacrazione sacramentale episcopale e la comunione
gerarchica con il Capo ed i membri del Collegio 358 e sono questi elementi la causa propriamente
detta, esigenza intrinseca e condizione essenziale. La confluenza dei due elementi dà luogo ad una
consacrazione legittima che è la vera causa completa della incorporazione.
Riprendendo LG n. 22b si afferma che il Collegio episcopale “persevera continuamente” il Corpo
apostolico utilizzando una doppia terminologia di Collegium e di corpus al fine di evitare una
polarizzazione in un solo senso del termine Collegium. Il Collegio è altresì soggetto della suprema e
piena potestà sulla Chiesa sempre con il suo Capo e mai senza lo stesso 359, e tra il Capo ed i membri
del Collegio esiste una comunione che se espressa giuridicamente in un atto di consenso del
Romano Pontefice presuppone un atto di volontà che si realizza all’interno del Collegio ed in un
contesto di comunione.

c. 337 (c. 50 CCEO): nel Concilio ecumenico si ha l’esercizio e modo solenne della suprema
potestà del Collegio episcopale: è questa l’Assemblea solenne del Collegio dei Vescovi riunita in
uno stesso luogo.
Il §2 del canone parla di altre forme di collegialità extraconciliari come modo di esercizio
dell’Autorità suprema mediante l’azione congiunta dei Vescovi dispersi per il mondo.
Nel §3 si ha la determinazione dei modi di esercizio della potestà suprema da parte del Collegio con
la competenza esclusiva del Romano Pontefice di determinare e promuovere i modi concreti
dell’esercizio collegiale da parte del Collegio stesso secondo le necessità della Chiesa ex NEP n. 3
con decisioni libere e discrezionali ma non arbitrarie.

c. 338 (c. 51CCEO): si tratta delle prerogative che spettano esclusivamente al Romano
Pontefice come capo del Concilio ecumenico360: così la convocazione è in virtù del primato di
giurisdizione tenendo conto delle necessità oppure utilità della Chiesa e dei fedeli; ancora, il diritto
di determinare le questioni e stabilire il Regolamento, la presidenza; eventuale spostamento,
sospensione e chiusura terminando il Concilio ecumenico definitivamente.

356
In tale frangente le facoltà ordinarie proprie di ogni Congregazione sono conservate.
357
Vi è qui una ripresa di LG n. 22.
358
Sono questi due elementi che confluiscono congiuntamente.
359
Vi è qui la dottrina del dopppio soggetto inadeguatamente distinto.
360
Sono queste prerogative di diritto positivo vigente, mentre è di diritto divino l’approvazione o accettazione come tale
del successore di Pietro ex LG n. 22.

129
Altra esigenza essenziale che ha come soggetto il Romano Pontefice è l’approvazione dei decreti
per la validità delle decisioni conciliari361.

c. 339 (c. 52 CCEO): tratta dei membri del Concilio che sono tutti Vescovi membri del
Collegio episcopale e dei diversi modi di partecipazione alle sue deliberazioni 362. Il Concilio
ecumenico è una forma di esercizio della potestà suprema che risiede nel Collegio episcopale per
cui da una parte solamente i Vescovi hanno il diritto e dovere di assistere al Concilio con voto
deliberativo363. Il Collegio episcopale nel Concilio ecumenico quale assemblea solenne che
rappresenta la Chiesa universale ha una sua ulteriore rappresentatività ecclesiale che può avere una
maggiore estensione attraverso la convocazione di altri Christifideles inclusi osservatori non
cattolici.

c. 340 (c. 53 CCEO): si tratta il caso della vacanza della Sede apostolica nel qual caso il
Concilio ecumenico si interrompe automaticamente ipso iure con la decisione di continuare o
chiuderlo da parte del nuovo Pontefice eletto. Tale norma circa l’interruzione vuole esprimere
ulteriormente come il Concilio ecumenico quale solenne riunione del Collegio episcopale non possa
esistere senza il suo Capo.

c. 341 (c. 54 CCEO): il canone riguarda: a) l’atto di approvazione stretta degli atti da parte
del Papa laddove le decisione prese dai Padri conciliari non sono e divengono decisioni del Concilio
qualora sia senza il proprio Capo: siamo di fronte ad un’approvazione in senso stretto; b) conferma
che ha un senso di “constatazione” da parte del Romano Pontefice come Capo del Concilio
ecumenico e che gli atti conciliari si sono prodotti correttamente ed in accordo con i procedimenti e
formalità regolarmente stabilite, quasi sia una recognitio (anche se qui si tratta di atti conciliari già
approvati); c) ultimo degli atti giuridici richiesti è la promulgazione dei decreti del Collegio
episcopale e formalità regolarmente stabilite: si ha qui il pieno valore proprio della promulgazione
che è di competenza del Romano Pontefice come Capo del Concilio e non ai suoi membri 364, nel
senso che l’atto giuridico perché sia obbligatorio per tutti i destinatari, entrando in vigore nel tempo
previsto, richiedendosi a tutti gli obbligati a che applichino tali decreti e pongano esecuzione
secondo quanto stabilito.
Nel §2 circa gli atti possibili extraconciliari del Collegio episcopale si richiede la conferma del
Romano Pontefice e la promulgazione per avere forza obbligatoria garantendo una piena e migliore
legalità, legittimità ed efficacia di tale esercizio della collegialità strictu sensu.

IL SINODO DEI VESCOVI DELLA CHIESA UNIVERSALE

c. 342-348.

I CARDINALI DI SANTA ROMANA CHIESA


361
Si parla in tale parte di “decreti” in senso tecnico e lato comprendendo tutti gli atti decisionali.
362
CD n. 4.
363
E’ questa la conseguenza dell’esercizio della potestà collegiale strictu sensu che si produce in un Concilio
Ecumenico.
364
Si veda la formula giuridica di promulgazione adottata nel Concilio Vaticano II.

130
c. 349-359.

LA CURIA ROMANA

c. 360-361.
La Costituzione Apostolica Pastor Bonus che regola la natura e le attività della Curia romana

Il Romano Pontefice quale Vescovo di Roma e successore di Pietro ha la responsabilità della


Chiesa universale, richiedendo la collaborazione di persone che deve essere ordinata, stabile,
organizzata secondo criteri di razionalità ed opportunità, avendo riguardo alla natura stessa della
Chiesa secondo le necessità dei tempi e le circostanze. In tale contesto si è costituita la Curia
Romana e gli uffici quale servizio al Romano Pontefice365.
c. 46 §1 CCEO parla del Romano Pontefice che nell’esercitare la sua funzione è assistito dai
Vescovi che gli possono dare una collaborazione in varie maniere. Tra queste collaborazioni il
canone cita il Sinodo dei Vescovi, i Padri Cardinali, la Curia Romana, i legati pontifici, come pure
altre persone e anche varie istituzioni secondo le necessità dei tempi. Si ricorda come tali persone
ed istituzioni secondo l’incarico loro affidato agiscono in nome e con l’autorità del Romano
Pontefice, per il bene di tutte le Chiese e secondo le norme stabilite dal Romano Pontefice stesso366.
c. 360 CIC (in un capitolo apposito con due canoni) parla della Curia romana evidenziando come
sia uno strumento mediante il quale il Sommo Pontefice suole trattare le questioni della Chiesa
universale. La Curia Romana in nome del Pontefice e con la sua autorità adempie alla propria
funzione per il bene e a servizio delle Chiese. Il canone indica poi la composizione: Segreteria di
Stato o papale, dal Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, dalle Congregazioni, dai Tribunali
(Segnatura Apostolica, Rota Romana e Penitenzeria Apostolica) e dagli altri organismi
(Segretariati, Consigli permanenti, altri organismi). La composizione e competenza di questi viene
definita da una legge peculiare367.
Ecco che la trattazione degli affari relativi alla Chiesa universale adempiuti dalla Curia Romana in
nome e per autorità del Sommo Pontefice vanno a beneficio di tutte le Chiese particolari ed i fedeli
che a loro volta sono chiamati a collaborare alla missione della Chiesa. Infatti il servizio della Curia
Romana diviene così espressione concreta della partecipazione di tutti i fedeli al servizio della
Chiesa stessa.
L’organizzazione della Curia Romana ha sempre avuto una riforma a seconda delle esigenze
della Chiesa universale stessa con forme e competenze che si sono diversificate nel tempo.
Le diverse organizzazioni della Curia Romana:
Sisto V con la costituzione Immensa Aeterni Dei del 22 gennaio 1588;
Pio X con la costituzione Sapienti Consilio del 29 giugno 1908;
Paolo VI con la costituzione Regimini Ecclesiae Universae del 15 agosto 1967368;
Giovanni Paolo II con la costituzione Pastor Bonus del 28 giugno 1988369.
365
GUTIERREZ A., La Curia Romana, in AA. VV., Ius in vita et in Missione Ecclesiae, Città del Vaticano 1994, p.
293-307.
366
ŽUŽEK I., Origin of the Canon, “coincidences” with CIC and “omissions” in titles I and III of CCEO, in
Understanding the Eastern Code, Rome 1977, p. 161-202, quivi p. 190 e ss., specialemnte p. 193 e ss.
367
Non appartengono propriamente alla Curia Romana gli affari relativi alla Diocesi di Roma (il Pontefice governa
attraverso il Vicariato con sede nel Palazzo del Laterano e con un Cardinale vicario) ed allo Stato della Città del
Vaticano (anche qui vi è un Vicariato con sede nel territorio nello Stato della Città del Vaticano). Così il Governatorato
dello Stato della Città del Vaticano non rientra nell’ambito della Curia Romana in quanto le sue funzioni sono temporali
e non in relazione alla responsabilità papale per la Chiesa universale. I poteri e compiti come sovrano temporale dello
Stato della Città del Vaticano sono stati dal Papa affidati al Segretario di Stato (in AAS 79[1987], p. 1353-1355).
368
In AAS 59(1967), p. 885-928.
369
AAS 80(1988), p. 841-930. E’ stato emanato pure un Regolamento Generale della Curia Romana (AAS 84[1992] p.

131
Per quanto riguarda i principi teologi della Pastor Bonus si ricorda come l’incipit caratterizzi la
natura pastorale della costituzione (Gv. 10,11-14). Essendo Cristo venuto per servire e dare la sua
vita in riscatto per molti, il ministero di Pietro come continuazione di quello di Cristo, deve essere
un servizio e diaconia perché tutti i fedeli possano avere la Vita ed in abbondanza. Ecco che la
Curia Romana nell’essere strumento dell’esercizio del ministero petrino si inserisce in questa
diaconia alla comunione ed alla santità. E’ la prima volta che un documento legislativo di questo
genere faccia precedere ad una parte normativa una riflessione teologico-ecclesiologico che vuole
fondare l’istituzione che deve essere regolata.

Si specificano:
Ministero petrino che vuole significare la funzione tipica dell’ufficio primaziale del Pontefice
nella Chiesa, con il servizio sia alla Chiesa universale come alle Chiese particolari, ai Vescovi ed ai
singoli Christifideles. Tale ministero è qualificato petrino in quanto tale ufficio deriva in quanto
successore dell’Apostolo Pietro, ed apostolico perché risale alla sua funzione di apostolo, infine è
supremo perché si rapporta ad altri che sono inferiori. Tale ministero riguarda anche l’unità avendo
la funzione di ricondurre e di conservare nell’unità le diverse e molteplici funzioni della Chiesa, ma
anche in senso di appartenenza alla comunione.

Rapporto tra ministero petrino e Curia Romana: come risposta dell’adempimento petrino ed
alle esigenze vitali ed organizzative della Chiesa esiste la Curia romana che è “una istituzione
veneranda, e necessaria al governo della Chiesa” ex n. 14 PB, ed è sorta per rendere sempre più
efficace l’esercizio dell’ufficio universale di Pastore della Chiesa che lo stesso Cristo ha affidato a
Pietro ed ai suoi successori ex n. 3 PB riferendosi ancora alla pastoralità. Unita a questa è il
carattere dell’ecclesialità traendo dal Pontefice la propria esistenza e competenza ex n. 7 PB. Ecco
che la reciproca comunione tra i Vescovi del mondo intero con il Vescovo di Roma nei vincoli di
unità, carità e pace diviene grandissimo vantaggio per l’unità della fede e della disciplina da
promuovere e mantenere in tutta la Chiesa, per cui la Curia Romana, che serve al successore di
Pietro, appartiene così al servizio della Chiesa universale e dei Vescovi 370. Gli stessi pastori e le loro
Chiese sono i primi beneficiari dell’opera della Curia Romana (n. 9 PB) e così avviene che l’affetto
collegiale, esistente tra i Vescovi ed il loro Capo è concretamente attuato mediante la Curia romana
ed esteso all’intero Corpo mistico che è pure il Corpo della Chiesa ex LG n. 23 371. Ecco che la Curia
Romana attiva in sé una certa nota di collegialità partecipando alla funzione ministeriale petrina che
è primaziale e collegiale, esprimendo la comunione gerarchica ed ecclesiale di unità nella fede,
disciplina e culto372.

Ufficio primaziale e Curia Romana: la realtà della Sede Apostolica è individuata dal primato
petrino e dall’Episcopato di Roma che afferiscono all’ufficio del Romano Pontefice. Per quanto
riguarda la precisazione terminologica occorre notare come il c. 48 (c. 361 CIC) affermi che con il
nome di Sede Apostolica o di Santa Sede si intenda nel CCEO non solamente il Romano Pontefice
ma anche, se non disposto diversamente dal diritto o non consti dalla natura delle cose, i Dicasteri e
le altre istituzioni della Curia Romana. Con la precisazione fatta dal dettato codiciale si ha una
criteriologia ermeneutica per non incorrere in una errata identificazione: mentre la Sede Apostolica
identificata con l’ufficio primaziale ha natura di persona morale per la stessa volontà divina secondo

201-267), già ora sostituito da un nuovo Regolamento entrato in vigore il 1° luglio 1999 in sostituzione di quello del 4
febbraio 1992, in esecuzione dell’art. 37 PB per determinare le norme comuni riguardanti l’ordine ed il modo di
trattazione degli affari nella Curia Romana. ARRIETA J. I., funzione pubblica ed attvità di governo nell’organizzazione
centrale della Chiesa: il Regolamento generale della Curia Romana, in Ius Ecclesiae 4(1992), p. 585-613.
370
N. 2 e 7 PB.
371
Si vedano n. 9 e 10 PB. In tale parte: LODA N., La collegialità nella Chiesa con particolare riguardo alle varie
forme di collegialità episcopale, Roma 1995, quivi p. 115 e ss.
372
N. 10 e 11 PB.

132
un ordine sostanziale, la Curia Romana invece, risulta essere un’istituzione ecclesiastica secondo un
ordine istituzionale. La potestà della Curia è limitata ed esercitata secondo la volontà del Papa ex n.
8 PB.

Visite ad limina come espressione dell’unità e della comunione e pastorale: il S. Padre ha voluto
particolarmente rilevare nella conclusione del n. 7 dell’Adnexum I: il significato pastorale della
Visita “ad limina Apostolorum” di cui agli articoli 28-32 PB: “l’istituto delle Visite ad limina, di
grande importanza per la sua antichità e per il chiaro significato ecclesiale, è strumento di
grandissima utilità ed espressione concreta della cattolicità della Chiesa, dell’unità del Collegio dei
Vescovi, fondata sul Successore di Pietro e significata dal luogo del martirio dei Principi degli
Apostoli: e perciò non se ne può ignorare il valore teologico, pastorale, sociale e religioso. Tale
istituzione deve essere pertanto conosciuta ed avvalorata in ogni modo, specialmente in questo
momento nella storia della salvezza, nel quale i contenuti e il magistero del Concilio Ecumenico
Vaticano II risplendono di sempre maggiore luce”. Emerge quindi il significato: a) sociale; b)
personale; c) curiale, con due scopi: 1) accesso e trattazione; 2) introduzione ai vari problemi. Le
visite ad limina debbono essere compiute nei tempi stabiliti e debbono essere presentate al Romano
Pontefice da parte dei Vescovi la relazione circa lo stato della propria diocesi. Gli art. 29-30 fanno
emergere la grande importanza delle visite “ad limina” sia rispetto al Pontefice come ai dicasteri
della Curia romana. Ex art. 31 (art. 125 Reg.) tre sono i momenti della visita ad limina: 1)
pellegrinaggio ai sepolcri dei principi degli Apostoli (momento liturgico); 2) incontro con il Sommo
Pontefice (in gruppo e individuali); 3) colloqui con i Dicasteri della Curia Romana. L’art. 31
richiede una preparazione secondo premurosa diligenza e con convenienza, per cui necessita ex art.
32 inviare alla Santa Sede la relazione sei mesi prima il tempo fissato per la visita, al fine di essere
adeguatamente esaminata ed oggetto del colloquio sia con il Papa che con i Dicasteri. Per quanto
riguarda le Chiese orientali vi è una riserva di competenza in questa materia per la Congregazione
per le Chiese Orientali ex art. 58 §1 PB.

Diaconia per l’unità e la comunione: la missione di Cristo che continua nei Vescovi ed in
particolare nel Pontefice è servizio a Cristo stesso nella Chiesa ed al Popolo di Dio. Lo scopo di tale
diaconia risulta essere l’edificazione della Chiesa nella comunione sia tra i fedeli come in tutte le
componenti e funzioni da loro svolte avendo vigore e producendo mirabili frutti 373. Elemento
peculiare dell’ecclesiologia conciliare (LG n. 14 ed UR n. 2) la comunione è divenuta la base della
codificazione come statuisce il c. 8 CCEO (c. 205 CIC) secondo cui il ministero profetico a servizio
della fede, il ministero sacerdotale nel culto e quello regale nel governo riguardante la gerarchia
(NDE n. 20)374.

Cattolicità ed universalità: se la Chiesa è Cattolica ed universale anche il Pontefice incarna questa


cattolicità e la Curia Romana realizza e rispecchia tale carattere. Vi sono alcune norme che ne
esprimono la universalità: in primo luogo per quanto riguarda l’organico nei Dicasteri (art. 7 PB), la
scelta dei Consultori nelle diverse regioni (art. 8 PB), e gli Officiali (art. 9 PB), come l’ampia
partecipazione di membri e Consultori, uomini e donne, nei Consigli (art. 3 §2 PB). Tale
universalità della Curia Romana si esprime anche nella predisposizione oltre che per la lingua
latina, anche all’uso di tutte le altre lingue oggi conosciute (art. 16 PB).

Carattere pastorale della Curia Romana per il bene delle anime: diviene complementare al
diritto ex n. 14 e 15 PB nella sua applicazione tenendo presente sempre la salus animarum.

Ex n. 1 PB.
373

CATTANEO A., La Curie Romaine dans la Communion des églises. Le cadre ecclésiologique dans la Const. ap.
374

“Pastor bonus”, in L’Année Canonique 33(1990), p. 59-77. DE PAOLIS V., La disciplina ecclesiale al servizio della
comunione, in AA. VV., Comunione e disciplina ecclesiale, Città del Vaticano 1991, p. 15-47.

133
Giuridicamente sono stati formulati gli art. 33-35 PB (si veda pure l’Adnexum II che spiega tali
articoli) dove anche si parla di comunità di lavoro.
Art. 33: l’attività di tutti coloro che lavorano nella Curia Romana e negli altri organismi della Santa
Sede è un vero servizio ecclesiale, con un carattere pastorale in quanto partecipano alla missione
universale del Romano Pontefice. Necessitano: a) massima responsabilità; b) disposizione al
servizio; c) prestazione della propria opera ovunque sia necessario ex art. 34; d) per i Sacerdoti
attendere attivamente anche alla cura d’anime per quanto possono senza pregiudizio al lavoro
d’ufficio ex art. 35 PB. Tale pastoralità si esprime quindi nell’esercizio dei ministeri sacri, cioè
insegnare, santificare e governare, prerogative dei Pastori in quanto indirizzati ai fedeli anche
singoli, nella soddisfazione dei propri diritti e stimolandoli nei propri doveri cristiani nel
raggiungimento della salus animarum. Certamente il richiamo al carattere pastorale della Curia
Romana rileva questo spirito che pervade tutta la legislazione ecclesiale, con un invito a superare un
certo burocraticismo, vigilanza e controllo o una certa passività dei Dicasteri stessi. si esplicherà
quindi un’azione che completi una maggiore attenzione allo spirito attivo, promozionale e pastorale
nei settori affidati a ciascun Dicastero. Nascerà l’esigenza che l’esercizio dell’Autorità della Chiesa
sia svolta come servizio espressione della pastoralità che ha un carattere principale375.

Vicarietà della Curia Romana: in quanto la Curia non agisce per proprio diritto o iniziativa ma
esercita la potestà ricevuta dal Papa a motivo di quel rapporto essenziale ed originario che ha con
lui, con la caratteristica che questa potestà colleghi sempre il proprio impegno di lavoro con colui
dal quale prende origine. La Curia Romana manifesta così l’identità con la volontà del Papa per il
bene delle Chiese ed il sevizio dei Vescovi. Ecco che tale potestà potrebbe essere definita vicaria (c.
981 §2) anche se acquista una connotazione più ampia e meno rigorosa, di quella giuridica 376. Infatti
il potere ordinario si basa su un elemento ontologico sacramentale (che presuppone il ricevimento
della potestas sacra) che si esercita in nome proprio; mentre il potere ordinario vicario si esercita in
nome altrui; il fondamento non si basa su un elemento di carattere sacramentale ma si basa su un
trasferimento giuridico di competenze come il decentramento con potere proprio. Il potere ordinario
vicario può essere generale che è dato a quegli uffici a cui compete lo stesso potere esecutivo che
abbiano gli uffici con potere proprio (negli altri casi si ha invece un potere ordinario speciale come
esercizio di funzioni particolari e circoscritte annesse all’ufficio).

Struttura e potestà degli organismi della Curia Romana si ricorre alla categoria dell’ufficio
laddove la Curia Romana risulta essere un complesso organico di uffici ex c. 936 CCEO (c. 145
CIC) quale modulo organizzativo definito ed astratto senza vita giuridica autonoma ma
giuridicamente costituiti unicamente in vista della loro attribuzione ad una persona fisica. Tale
modulo definito ed astratto costituisce l’ufficio essenziale di ogni dicastero concretizzandosi nella
persona fisica individuale o collegiale investita di un potere che permetta lo svolgimento di funzioni
identificabili ed esercitabili autonomamente secondo un apparato di servizio377.
Il valore degli atti posti dalla Curia Romana non sono atti del Romano Pontefice ma dell’autorità
che li emana a meno che non siano approvati in forma specifica dallo stesso Romano pontefice ex
art. 18 PB (art. 118 Reg.) che fa proprio l’atto ed in tal caso non è più ammesso o il ricorso o
l’appello proprio perché atto o del Pontefice.
375
GUTIERREZ A., op. cit. p. 301-302.
376
Sembra che sia sempre valida la definizione relativa al CIC 1917 di MICHIELS G., De potestate ordinaria et
delegata. Commentarius tituli V, Libri II Codicis Iuris Canonici, Canones 196-210, Parisiis, Tornaci, Romae, Neo
Eboraci 1964, p. 133: “La giurisidizione ordinaria vicaria è annessa all’ufficio; il suo esercizio però è ordinato in modo
sussidiario e subordinato a compiere la funzione, sia in tutto che in parte, di un altro ufficio principale, al quale la stessa
giurisdizione appartiene come propria. In tal modo la giurisidizione ordinaria vicaria, benché sia propria dell’ufficio e
quindi sia esercitata di diritto proprio; essa viene esercitata però vice et nomine alterius ossia come sostituto ed
ausiliare, in rappresentanza di un altro titolare dell’ufficio principale, che possede tale giurisdizione come propria”.
GARCIA MARTIN J., Le norme Generali del “Codex Iuris Canonici”, Roma 1995, p. 438 e ss.
377
Così BONNET P.A., La natura del potere della Curia Romana, in AA. VV., La curia romana nella cost. ap. “Pastor
bonus”, Città del Vaticano 1990, p. 100; GARCIA MARTIN J., op. cit. p. 143 e ss.

134
Sembra si possa applicare la dottrina della rappresentanza come un atto imputato Pontefice quanto
agli effetti quale rappresentato; ma l’atto è di chi agisce come organo dell’ente, cioè del
rappresentante378.

Adeguamento ai tempi (aggiornamento) della Curia Romana come frutto del Vaticano II ex n.. 6:
“Ed è questa Legge particolare che ora promulgo mediante la presente Costituzione, al termine del
IV centenario della già ricordata Costituzione apostolica Immensa aeterni Dei, di Sisto V, nell’80°
anniversario della Sapienti consilio di S. Pio X, e nel 20° dell’entrata in vigore della Regimini
Ecclesiae universae di Paolo VI, con la quale questa è strettamente collegata, poiché entrambe,
nella loro identità di ispirazione e di intenti, sono in un certo senso un frutto del Concilio Vaticano
II”. Tale aggiornamento risulta quindi da un’attenta lettura dei segni dei tempi per venire incontro
con strumenti adeguati ai bisogni attuali della Chiesa.

Dimensione giuridica e completamento di un Corpus Iuris Canonici ex n. 13 PB si ha un


rinnovamento delle Leggi introdotte dal CIC ed il CCEO avendo in un certo senso il suo
compimento e definitiva attuazione. Ancora la PB è una vera legge anche se permeata dalla
pastoralità che non ne diminuisce il valore giuridico della nuova organizzazione. Anzi la pastoralità
stessa diviene giuridica.

Conseguimento finalità istitutive dei Dicasteri ed Organismi della Curia Romana come
partecipazione ai compiti di governo, giurisdizionali ed esecutivi nel segno di una criteriologica di
logicità e precisazione secondo il n. 13 PB.

Promozione dopo il Concilio attività pastorali efficaci con organismi peculiari ex n. 13 PB. In
tale modo tenendo davanti l’esperienza accumulata e la necessità delle nuove esigenze della società
ecclesiale è stata riconsiderata la figura giuridica e l’attività di quegli organismi chiamati post-
conciliari nella eventuale conformazione, cambiamento ed ordine.

Unità nell’azione: secondo l’esclusività della competenza distribuita in base al criterio della
materia (art. 14,19 e 34), evitando l’incomunicabilità ma favorendo la collaborazione tra i diversi
dicasteri con varie iniziative, come n. 13 PB 379. Tali “vertici comuni” sono nuovi e permanenti per
rafforzare quella mutua collaborazione ed interdipendenza, instaurando un modo di agire
contraddistinto da un intrinseco carattere di unità.

Aspetto socio-economico: l’adeguamento e la creazione di nuovi organismi nella Curia Romana ha


una sua rilevanza anche economica che riguarda le persone, i luoghi e le risorse, per cui sono stati
creati le strutture con gli strumenti per affrontare tale servizio. Ecco che per quanto riguarda le
persone che sono collaboratori della Sede Apostolica si dice nell’Adnexum II che costituiscono una
comunità di lavoro di cui agli art. 33-36. Ecco che la spiegazione di tale concetto riporta alla
finalità stessa della S. Sede che non ha attività economica produttiva di beni e rendite; per i
dipendenti esiste un impegno che deve essere svolto secondo spirito di responsabilità ecclesiale con
disponibilità e parsimonia. La retribuzione è regolata secondo le norme fondamentali della dottrina
sociale della Chiesa ed ogni dipendente deve vivere questa “attività come se esercitata “in proprio”
quindi con quella cura ed amore, nonché responsabilità, che esigono il massimo dell’impegno.

Le Norme Generali comprendono:


Art. 1 la nozione di Curia Romana come insieme dei dicasteri e degli Organismi che coadiuvano il
Romano Pontefice nell’esercizio del suo supremo ufficio pastorale per il bene e servizio della

GARCIA MARTIN J., op. cit. p. 368 e ss.


378

Si veda l’art. 17 PB che richiede la comunicazione tra i Dicasteri interessati; così art. 21 PB nell’esame congiunto di
379

affari ex art. 86 Regolamento. Si veda GUTIERREZ A., op. cit. p. 304-305.

135
Chiesa Universale e delle Chiese particolari, esercizio col quale si rafforzano l’unità di fede e la
comunione del popolo di Dio e si promuove la missione propria della Chiesa nel mondo.
Art. 2-10 la struttura dei dicasteri secondo una differenziazione tipologica con le componenti (art.
3), le funzioni del Prefetto (art. 4 e 5) la situazione nella sede vacante (art. 6), i membri dei
Dicasteri (art. 7) con la riserva per gli affari che richiedono potestà di governo a coloro che sono
insigniti nell’Ordine sacro380. Tale limitazione riprende i c. 979 §1 CCEO e c. 129 §1 CIC. Seguono
poi le norme relative ai Consultori (art. 8), l’idoneità degli Officiali (art. 9)e una parte relativa
all’archivio (art. 10).
Art. 11-21 il modo di procedere;
Art. 22-23 le riunioni di Cardinali,
Art. 24-25 il Consiglio di Cardinali per lo studio dei problemi organizzativi ed economici della
Santa Sede;
Art. 26-27 i rapporti con le Chiese particolari,
Art. 28-32 le visite ad limina;
Art. 33-35 il carattere pastorale nella Curia romana;
Art. 36 l’ufficio centrale del lavoro;
Art. 37-38 i regolamenti da osservare.

Art. 39-47 si tratta della Segreteria di Stato: art. 41-44 riguarda la prima sezione, mentre art. 45-47
la seconda sezione.

Art. 48-116 riguarda le Congregazioni;


Art. 117-130 i Tribunali;
Art. 131-170 i Pontifici consigli;
Art. 171-179 gli uffici;
Art. 180-182 altri organismi della Curia romana;
Art. 183-185 gli avvocati;
Art. 186-193 le istituzioni collegate con la Santa Sede.
Seguono “Adnexum I” relativo al significato pastorale della Visita “ad limina Apostolorum” di cui
agli articoli 28-32; e l’“Adnexum II” relativo ai collaboratori della Sede Apostolica come
costituenti una comunità di lavoro di cui agli articoli 33-36, da ultimo la “Lettera del Sommo
pontefice Giovanni Paolo II circa il significato del lavoro prestato alla Sede Apostolica” diretta al
Venerato fratello Cardinale Agostino Casaroli del 20 novembre 1982.

I LEGATI DEL ROMANO PONTEFICE

c. 362-367.

ABBASS J., “Pastor Bonus” and the Eastern Catholic Churches, in Orientalia Christiana Periodica 60(1994), p.
380

587-610.

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LE CHIESE PARTICOLARI E I LORO RAGGRUPPAMENTI

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