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PARTE PRIMA

I PRESUPPOSTI CULTURALI E ISTITUZIONALI DEL DIRITTO PENALE VIGENTE

DALLE ORIGINI DEL DIRITTO PENALE MODERNO ALLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA

1. ALLE ORIGINI DEL DIRITTO PENALE MODERNO: IL GIUSNATURALISMO LAICO


Se è vero che solo nel tardo settecento le istanze legalitarie e le esigenze di una maggiore tutela dei diritti
individuali registreranno il consenso pressoché unanime degli intellettuali e cominceranno a influenzare le
legislazioni e la prassi, è altrettanto indubbio che le premesse culturali del pensiero illuministico in questo campo
furono poste dal giusnaturalismo laico, all’interno di istanze più generali di secolarizzazione del diritto e dello
Stato.
Nel passaggio dal XVI al XVII secolo viene infatti maturando anche il passaggio dal diritto naturale teologico al
diritto naturale profano che persegue il fine dell’affrancamento della dottrina giuridica da ogni ipoteca teologica. I
filosofi del diritto orientati in senso giusnaturalistico, iniziarono a manifestare opinioni dissenzienti rispetto al
diritto penale teocratico, in particolare rispetto ad una strumentalizzazione del potere religioso per finalità di
repressione da parte di chi ne deteneva il potere. La reazione si diresse fondamentalmente in due direzioni:
secolarizzazione del diritto penale e difesa dell’individuo contro il potere politico statuale.
L’idea nuova sta essenzialmente nell’attribuire al diritto naturale non il compito di far calare dal cielo la giustizia
divina, ma solo quello di costruire in terra un ordinamento reale che superi il caos dello stato di natura pregiuridico
dell’homo homini lupus, e assicuri almeno la sopravvivenza del singolo. Lo Stato e il diritto, perciò, hanno
adempiuto i loro compiti essenziali, quando sono in grado di opporre al bellum omnium contra omnes un
ordinamento che garantisca l’esistenza dei consociati.
Questa contrapposizione tra diritto penale teocratico e diritto penale laico trova espressione nel pensiero di
Benedikt Carpzov e Ugo Grozio.
Un grande sostenitore del diritto penale teocratico fu Benedikt Carpzov, la cui opera principale – la Nova
Practica rerum criminalium – è un vero e proprio manifesto di questa posizione. Ed invero, nell’opera di C., la cui
premessa generale è data dal fatto che il potere del sovrano è emanazione del potere divino, si trova apertamente
teorizzata una prassi che è l’esatto rovescio dell’odierno principio di legalità. Si tratta della consuetudine dei crimini
e delle pene “extraordinariae”, a cui corrispondeva la facoltà del giudice di elevare a reato fatti che non solo da
nessuna legge erano previsti come tali, ma che addirittura, secondo la loro natura, erano eticamente e
giuridicamente irrilevanti.
Il pensiero di C. ha ovviamente delle implicazioni sulle tre questioni di del diritto penale. Sul piano delle fonti C.,
coerentemente con l’origine divina del potere, sostiene che fonte del diritto penale è l’Antico Testamento, con
possibili correzioni ed integrazioni da parte del Vangelo, sovraordinata a qualsiasi altra fonte, comprese le leggi
emanate dalle autorità civili. Sul piano dell’individuazione delle condotte punibili, l’identificazione fra delitto e
peccato, implica che il reato venga identificato come mera disobbedienza a Dio, per cui si prescinde dalla mera
lesione al bene giuridico. Da quanto detto si deduce che C. propugna una concezione spiccatamente retributiva della
pena, secondo cui l’inflizione della pena non ha altro fondamento, se non il dovere di fronte a Dio di ristabilire la
giustizia e l’ufficio di placarne l’ira. Vi è, dunque, un dovere indefettibile dello stato di punire, semplicemente perché
è stato commesso un reato, anche se ciò non è utile né all’individuo né alla collettività. Altra conseguenza della
retribuzione è la mancanza di proporzione tra reato e sanzione: l’idea di proporzione si rapporta, infatti, con l’offesa
a Dio, per cui risulta impossibile giudicare secondo criteri umani l’entità del prezzo da pagare per sanare l’offesa alla
divinità.
A livello teorico, una prospettiva interamente giusnaturalistica è nell’’opera fondamentale di Ugo Grozio (1583-
1645), De jure belli ac pacis, in netta contrapposizione alle concezioni dominanti. Nella costruzione del Grozio Stato
e diritto ricevono una fondazione esclusivamente antropologica e razionale, con la conseguente secolarizzazione
delle relative problematiche. Per quanto concerne, in particolare, il campo penale, non solo resta completamente
superata l’equiparazione tra delitto e peccato, ma l’illecito viene identificato con il fatto che contraddice alle regole di
una ordinata e pacifica comunità di esseri razionali. La sfera giuridica appare nettamente separata da quella morale
nel cui ambito l’uomo e le sue istituzioni non sono legittimati ad incidere: con l’essenziale corollario della
delimitazione dell’intervento punitivo ai soli comportamenti esteriori dell’uomo, che rivestono la qualità di fatti
socialmente dannosi (non basta che la condotta sia esterna, deve essere anche lesiva di beni giuridici). Grozio si
scaglia contro l’indefettibilità del diritto penale teorizzata da Carpzov, in quanto bisogna punire solo se questo risulti
utile ad una migliore convivenza fra i consociati.
Va osservato che Grozio giunge alla secolarizzazione del diritto penale non confutando l’idea che possa esistere
un diritto divino, ma affermando che tale diritto, essendo conoscibile dagli uomini solo a posteriori, attraverso le
scritture sacre, e non a priori, attraverso la loro ragione, non può avere carattere assolutamente vincolante e
infallibile. In altri termini, i testi sacri sono scritti da uomini per uomini e, quindi, risentono del contesto storico,
politico e geografico in cui sono stati compilati e in quanto tali non risultano facilmente adattabili in ogni tempo e in
ogni luogo, almeno come precetti per la vita delle persone su questa terra e non come precetti divini. Ecco perché
Grozio fa riferimento non a un diritto divino aposteriori conoscibile, ma ad un diritto razionale umano, cioè a un
diritto naturale conoscibile a priori, fonte di un diritto penale razionale che serva ai consociati a prescindere dalle
religioni, in particolare Grozio utilizza la formula “un diritto valido anche se ipotizzassimo per assurdo che Dio non
esiste o non sicuri degli affari umani”. Secondo Grozio, quindi, compito del diritto non è ristabilire la giustizia
divina, come sosteneva Carpzov e il regime teocratico in generale, ma risolvere i problemi che nascono dai rapporti
reciproci fra i consociati
A partire da Grozio si apre un periodo fecondissimo per la dottrina del diritto naturale profano. Con l’affermarsi
del principio “utilitaristico” – in base al quale scopo e limite funzionale dei comandi sovrani è la conservazione della
pace e dell’ordine esterno – e con la separazione di principio tra sfera religiosa e sfera giuridica, è ormai interamente
compiuto, almeno a livello teorico, il processo di secolarizzazione del diritto di punire.
Ciò che preme sottolineare è però il fatto che, nella materia penale, le idee del diritto naturale laico incontravano
particolare difficoltà ad affermarsi sulla tradizione; e, in effetti, quelle idee emersero ben più decisamente, quando il
mutamento del punto di vista circa il fondamento del diritto di punire si trovò a coincidere con l’interesse delle
monarchie a un mutamento di prospettiva in ordine alla gerarchia dei beni da tutelare: non più la fede religiosa, la
Chiesa, la salvezza delle anime, ma il potere sovrano e il buon funzionamento dell’amministrazione e della finanza.
Troppo forti, del resto, erano ovunque le radici sacrali del diritto penale, perché in questo settore il processo di
secolarizzazione non fosse lento e contrastato. Le nuove frontiere del diritto naturale aprivano infatti alla teoria
della pena orizzonti a dir poco rivoluzionari, se solo si pensa alla totale identificazione fra delitto e peccato, propria
dell’ideologia medievale.

2. LO STATO DELLA LEGISLAZIONE PENALE ALLE SOGLIE DEL SECOLO XVIII


È certamente superfluo soffermarsi più di tanto, o abbondare in esemplificazioni – del resto largamente note –
sulle caratteristiche degli ordinamenti penali e delle procedure criminali nel periodo a cavallo tra il XVII e il XVIII
secolo. Ineguaglianze di trattamento, disordine normativo e conseguenti arbitrarietà, estrema crudeltà, connotavano
ad ogni livello gli uni e le altre. Dovunque la classificazione dei reati era ancora generalmente fondata sulla summa
divisio fra crimini contro i diritti privati e crimini di lesa maestà (divina e umana), il cui elenco era andato sempre
accrescendosi nel tempo, per la tendenza a ricomprendervi tutte quelle condotte che comunque interferissero con
l’esercizio del potere o con l’interesse del sovrano. D’altra parte, l’assenza di codici e di precise direttive riguardanti
la pena era causa di inevitabile arbitrio da parte dei giudici, anche a prescindere dalla diffusa pratica dei “crimina
extraordinaria”. Ma ovunque il generale disordine normativo, l’oscurità delle disposizioni e la diseguaglianza nella
loro applicazione facevano della legge uno strumento adatto, più che a rendere giustizia, alla rovina dei cittadini
inermi e alla impunità organizzata degli appartenenti alle classi dominanti e dei ribaldi di ogni ceto.
Se queste erano le condizioni del magistero penale alle soglie dell’età dei lumi, non può certo sorprendere che i
grandi spiriti dell’illuminismo appuntassero le loro critiche soprattutto su questo stato di cose.

3. LA FILOSOFIA POLITICA DELL’ILLUMINISMO E IL PROBLEMA PENALE. MONTESQUIEU.


L’iscrizione delle esigenze di legalità e certezza del diritto come punto centrale di un programma di riforme
caratterizzò l’assunzione del problema penale nel quadro della filosofia politica dell’illuminismo (l’illuminismo è un
movimento europeo contrassegnato dall’intento di superare i regimi assolutisti dell’ancien regime e quindi di
garantire i diritti fondamentali della persona nei confronti del potere statuale).
Il problema penale si può dire aperto in Francia con la pubblicazione dell’”Esprit des lois” di Montesquieu (1748-
1749). All’interno di una più ampia trattazione sistematica delle forme di governo, Montesquieu si pose con
chiarezza il problema penale nelle sue articolazioni essenziali: fondamento del diritto di punire, rapporto fra crimini
e pene, tra repressione penale e grado di libertà degli uomini.
La sua dottrina delle leggi penali ispirate a libertà si articola in alcune proposizioni fra loro concatenate, la prima
delle quali rispecchia la tesi che la libertà del cittadino consista nella “sicurezza” e che questa sia condizionata dalle
leggi penali; per cui è principalmente dalla bontà di esse che dipende il grado di libertà del cittadino. Un rilevante
significato, in quanto condizione di libertà, rivestono per Montesquieu le regole della procedura criminale, e prima
di ogni altra quella dell’imparzialità del giudice; nonché la garanzia che l’accusato sia sentito dal giudice e possa
difendersi. Quanto alla dottrina della pena, l’ispirazione razionalizzatrice e umanizzante di Montesquieu si
manifesta nella doppia tesi che le pene non debbano essere contrarie all’ordine materiale e morale dello Stato e che
debbano essere “naturali”: il che avviene quando vi sia un rapporto e una proporzione fra la qualità del crimine e la
qualità della pena.
Montesquieu riprende, infine, l’assunto che le leggi penali non possano concernere che le sole azioni esterne
dell’uomo; e ne fa conseguire la trattazione separata dei crimini religiosi, nel quadro di una classificazione dei
delitti, secondo la loro qualità; classificazione per molti versi assai moderna e innovatrice, rispetto alla tradizionale
suddivisione fra delitti di lesa maestà divina e umana e gli altri. Nell’ambito della trattazione relativa alle leggi penali
proprie di quegli Stati moderati che hanno per fine la libertà dei cittadini, Montesquieu propone quattro classi di
reati: contro la religione, contro i costumi, contro la tranquillità e contro la sicurezza dei cittadini.
Il contributo principale di Montesquieu al successivo sviluppo della dottrina penale dell’illuminismo viene
ravvisato nell’aver egli indicato leggi fisse e stabili, precostituite al giudizio – e abitualmente prodotte da organo
diverso dal giudicante – come criterio fondamentale di razionalizzazione di ogni sistema penale

4. CESARE BECCARIA
Principale esponente dell’illuminismo penale è Cesare Beccaria che nel 1764 scrisse l’opera “Dei delitti e delle
pene” in cui, a partire dai presupposti di filosofia del diritto (1. fondazione laica del potere punitivo statuale: il
diritto penale deve servire ad affrontare e risolvere problemi relativi alla convivenza delle persone sulla terra, non a
risolvere problemi morali; 2. utilitarismo: se la fondazione del potere punitivo è terrena, il diritto penale in tanto si
giustifica e si legittima in quanto serva alla collettività; 3. contrattualismo: se la fondazione del potere punitivo è
terrena, la società si fonda sul contratto sociale) sviluppa un’elaborazione sistematica coerente.
Dal principio utilitaristico – a cui fornirà però un fondamento dichiaratamente contrattualistico – Beccaria
deriverà la formula quasi “matematica” da cui fa dipendere la bontà delle leggi: vale a dire la loro capacità di
realizzare “la massima felicità divisa nel maggior numero” di persone.
Ma ciò che contrassegna in modo peculiare la sua opera è la coerenza delle opzioni politico-criminali con il
fondamento contrattualistico del diritto di punire e con la finalità della pena, identificata da Beccaria con l’ufficio
di “impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi concittadini e di rimuoverne altri dal farne uguali” (prevenzione
speciale e generale positiva: la pena deve essere utile ad impedire che il singolo commetta reati e che la collettività
sia motivata a commettere reati). È proprio la matrice contrattualistica del sistema – l’aver cioè ogni uomo posto nel
“pubblico deposito” esattamente quella porzione della sua libertà “che basti a indurre gli altri a difenderlo” – che
impedisce al “fine politico” delle pene di prevalere sulla sua funzione pratica, assicurare la pacifica convivenza fra i
consociati, così da oltrepassare i caratteri di utilità e necessità che le pene debbono possedere. Ed è ancora dal
fondamento contrattuale del diritto di punire che deriva anche la pretesa di leggi penali dotate di chiarezza e
certezza, ma soprattutto contenute in un codice, così che ogni cittadino che aderisca al patto sociale devono essere
posti nella condizione di poter conoscere i reati e le relative pene.
Per quanto concerne il fondamento del diritto di punire Beccaria, sulle orme di Montesquieu, indica nella
legalità la prima condizione della libertà e traduce espressamente questa esigenza nel principio di una vera e propria
riserva di legge: “Le sole leggi possono decretare le pene sui delitti; e questa autorità non può risiedere che presso il
legislatore, che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale”. In altri termini, se la fonte del potere
punitivo sta nella collettività popolare, soltanto le leggi, espressione della maggioranza al potere, possono stabilire
quali siano le condotte punibili.
Quale presidio della uguaglianza e della certezza del diritto penale affiora un altro principio, di cui è evidente la
derivazione da Montesquieu, quello della divisione dei poteri, in particolare come esigenza di “terzietà” del
giudice”: il giudice deve limitarsi ad applicare la legge senza compiere interpretazioni creative. Le leggi penali,
dunque, dovranno essere tali da consentire da parte del giudice “un sillogismo perfetto; la maggiore deve essere la
legge generale; la minore l’azione conforme, o no, alla legge; la conseguenza, la libertà o la pena”. Ciò esige
innanzitutto leggi scritte,
Nell’opera di Beccaria, il processo di secolarizzazione del diritto penale appare interamente realizzato. Dalle sue
mani il diritto penale esce definitivamente desacralizzato: “il grado di utilità o disutilità misurava le azioni umane,
così come doveva misurare i corrispondenti compensi e le pene”.
Deducendo dall’idea contrattualistico-utilitaria una concezione della pena, che sostituiva alla sacralità della
funzione espiativa e satisfattoria della pena una logica tutta umana, Beccaria poneva le premesse di una scienza
penale che assumesse come coordinate essenziali i “fini” e i “mezzi” del diritto penale, e in quella prospettiva
andasse anche elaborando le sue costruzioni concettuali.

5. L’ILLUMINISMO PENALE E LE ORIGINI DEL DIRITTO PENALE LIBERALE


La fortuna letteraria e civile dell’opera di Beccaria fu rapida e straordinaria; altrettanto estesa e penetrante fu la
sua influenza sulla legislazione dei decenni che seguirono.
Quanto le idee di Beccaria fossero penetrate nella cultura prerivoluzionaria lo si vide, poi, dal testo della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) e dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1793) che
tradussero in espliciti principi normativi alcuni degli enunciati più significativi del trattato dei delitti e delle pene.
Vasta fu la risonanza dell’opera di Beccaria anche in Germania, ove si diffuse soprattutto per merito degli scritti
di F. v. Hommel (1722-1781) e in Inghilterra, tanto da influenzare notevolmente le idee del massimo giurista inglese
del tempo, W. Blackstone e, soprattutto, il pensiero di Jeremy Bentham (1748-1832).
Dai postulati penalistici di Beccaria prese le mosse, naturalmente, anche l’illuminismo penale italiano. Il
primo ad elaborare ed approfondire le idee di Beccaria in una forma compiuta ed organica fu Gaetano Filangieri
(1752-1788), con “La scienza della legislazione”, il cui terzo libro, “Delle leggi criminali”, perviene nei suoi enunciati
quasi alla concretezza delle determinazioni di un codice. In una prospettiva di sostanziale continuità, rispetto alle
linee generali del pensiero penalistico di Beccaria, Filangieri compie una poderosa sistemazione concettuale delle
più rilevanti categorie penalistiche: dall’imputabilità, al dolo, al tentativo; ed elabora su nuove basi di classificazione
dei reati e delle pene, in una forma che anticipa in gran parte quella delle codificazioni ottocentesche.
L’esigenza di uno studio analitico dei principi e delle categorie del diritto e della procedura penale è evidente
anche nell’opera di Mario Pagano. La pena è, per Pagano, “la perdita di un diritto per un diritto violato o per un
dovere omesso”. Da ciò discende che, per essere giusta, essa “corrisponder debba al delitto sia per la qualità, come
per la quantità; vale a dire quel diritto, il quale siasi violato, debbasi per mezzo della pena rivendicare, e tanto di
quel diritto deve venir tolto al delinquente, quanto e’ ne tolse altrui”.
Anche per Pagano, il fine del diritto penale resta, tuttavia, quello di prevenire i delitti, come in Beccaria e
Filangieri; ed è appunto in quest’ordine di idee che egli verrà precisando la sua teoria del contrario motivo.
La configurazione della pena come controspinta alla spinta criminosa contrassegna anche la teoria penale di G.
Domenico Romagnosi, univocamente ispirata alla concezione del diritto penale come strumento di difesa
sociale. Degna di nota è la significativa sintonia con la coeva enunciazione di Feuerbach, per il quale, premessa la
rigorosa separazione tra sfera giuridica e sfera morale, la pena civile si configura come “coazione psicologica”
all’osservanza del precetto. Accentuando il valore del principio di legalità, Feuerbach fornì contributi essenziali
all’affermarsi di un sistema teorico del diritto penale, la cui principale chiave di lettura fosse la garanzia delle libertà
individuali e la certezza del diritto.
La comune aspirazione dei giuristi tedeschi del primo ottocento alla costruzione dello stato di diritto condizionò
senz’altro in modo positivo la successiva evoluzione della scienza penalistica in Germania, favorendo il
contemperamento di istanza contrapposte, nel quadro di un sistema che garantisse un soddisfacente equilibrio fra la
tutela dell’individuo e la tutela della società.
Dottrine fra loro opposte, quanto al criterio costitutivo della pena, sono già quelle, rispettivamente, di Giovanni
Carmignani e di Pellegrino Rossi: rigoroso utilitarista il primo, che alla pena non riconosce altro fine se non
quello della pura intimidazione e difesa; sostanzialmente retribuzionista il secondo, che ravvisa il fondamento della
pena in un principio assoluto di giustizia, e perciò – pur convenendo che la pena incontri un limite nel suo scopo –
finisce tuttavia per affermare che il principio costitutivo della pena è pur sempre quello antichissimo dello jus
talionis: “occhio per occhio, dente per dente”.
Le teorie penali del XIX secolo registrano, comunque, un generale arretramento delle concezioni utilitaristiche,
proprie dell’illuminismo settecentesco.
L’emersione delle istanze retributive rappresenta, inizialmente, soprattutto una reazione alla forte accentuazione
delle esigenze difensive di derivazione illuministica, in cui si intravedevano pericoli per la libertà individuale.
Contro i pericoli e gli eccessi delle teorie preventive, la dottrina penalistica dell’età liberale andrà elaborando un
apparato concettuale che farà leva, da un lato, sulla continua riaffermazione delle esigenze garantistiche, insite nel
principio di legalità; dall’altro, sulla organizzazione dell’idea della tutela intorno alla categoria del diritto soggettivo
e, più tardi, del bene giuridico, come centro di imputazione della protezione penalistica; infine, sulla rivalutazione
del principio retributivo e sulla connessa esaltazione dell’idea della responsabilità morale e della colpevolezza, come
criterio di misura della pena. Com’è stato giustamente osservato, le istanze retributive del XIX secolo non sono altro
che la “proiezione in campo giuridico delle conquiste politiche e delle acquisizioni morali della società liberale,
poiché riflettono l’affermazione della libertà individuale quale valore non assoggettabile alle esigenze preventive
dello Stato. Al riguardo giocherà un ruolo decisivo la grande filosofia borghese, in particolare le concezioni punitive
di Kant e di Hegel, sui cui enunciati la dottrina penalistica dell’ottocento, e oltre, fonderà il suo concetto “etico-
retributivo” della pena.
L’immanenza della funzione generalpreventiva nei sistemi codicistici del tempo, da un lato, e la continua
riproposizione a livello teorico di istanze specialpreventive e correzionaliste, dall’altro, indurrà tuttavia la dottrina
dominante ad assumere, sullo specifico problema del fondamento e dei fini della pena, posizioni più o meno
dichiaratamente eclettiche, o “conciliative”.

6. FRANCESCO CARRARA E LA “SCUOLA CLASSICA” DEL DIRITTO PENALE


La situazione spirituale della scienza penalistica italiana di metà ottocento trovò la sua espressione più compiuta
nell’opera di Francesco Carrara, capostipite della c.d. “scuola classica” del diritto penale, la cui opera rappresenta il
punto di confluenza di tutte le teorie penalistiche di derivazione illuministica.
Sul piano metodologico l’impostazione di Carrara è di tipo giusnaturalistico. Egli, infatti, sostiene che per
costruire ed elaborare correttamente qualsiasi istituto del diritto si debba far riferimento esclusivamente alla
ragione. L’oggetto che Carrara assegna alla scienza penale è individuare la verità iscritta “nel codice immutabile
della ragione” per derivarne una griglia di principi a cui lo stesso legislatore sia obbligato ad uniformarsi.
Carrara distingue così, non solo fra una parte generale e una parte speciale del diritto penale, ma altresì fra una
parte puramente pratica della scienza penale, che ha una dignità inferiore in quanto si occupa del diritto positivo
vigente, e una parte teorica, che individua i concetti di verità, cui devono uniformarsi tutti, anche il legislatore.
La connotazione liberal-garantista del sistema carrariano è evidente soprattutto nella definizione di delitto quale
infrazione della legge dello stato promulgata per proteggere la sicurezza dei cittadini, risultante da un atto esterno
dell’uomo, positivo o negativo, moralmente imputabile. Più precisamente, sul piano della teoria del reato, Carrara,
riprendendo l’impostazione hegheliana, sostiene che il reato, quale ente giuridico non condizionato da alcun tipo di
fenomeno sociale, culturale, ambientale, non è altro che negazione del diritto.
Il maggior contributo di Carrara consiste nell’aver egli elaborato una teoria sistematica degli elementi del
reato. Egli sostiene che il reato si debba comporre sempre di un elemento oggettivo o forza fisica, quale
manifestazione nel mondo esterno di una condotta lesiva di beni giuridici, e di un elemento soggettivo o forza
morale, dato dal dolo o dalla colpa. In tal modo si osservano non solo i principi di materialità e offensività, ma anche
il principio di personalità della responsabilità penale.
Sul piano della teoria della pena Carrara accoglie una concezione retributiva, per cui la pena ha
sostanzialmente la funzione di riaffermare l’ordine giuridico violato, mentre non può avere una funzione
socialmente utile per il sinfolo o per la collettività.
Fra gli esponenti più significativi della scuola classica, dopo Carrara, vanno annoverati Enrico Pessina, Luigi
Lucchini, Emilio Brusa. In essi appare accentuato il distacco tra il fondamento, quasi metafisico, del diritto di
punire, e l’elaborazione delle categorie positive della penalità. L’idea della retribuzione, d’altra parte, diviene l’unico
criterio costitutivo della sanzione penale; con la conseguente fuoriuscita delle finalità politico-criminali della pena
dalla teoria del diritto penale. L’attenzione si concentra sulla determinazione della gravità del reato e sulla connessa
teorizzazione di un sistema, in cui le sanzioni siano esattamente proporzionate alla “quantità del delitto”, quale
contrassegno della corrispondenza quasi “matematica” tra l’entità del diritto violato e la misura della reazione
penalistica.
Questo indirizzo speculativo contribuirà tuttavia ad un sostanziale isolamento del diritto penale dalla realtà
sociale e fornirà una oggettiva copertura al ruolo di conservazione dell’ordine costituito, che lo Stato liberale di
diritto dell’ottocento riservava al diritto penale; e che ne caratterizzò la concreta destinazione e il modus operandi,
soprattutto negli ultimi vent’anni del secolo.

7. IL CODICE ZANARDELLI
Il Codice penale italiano del 1889 fu il primo codice penale unitario. Esso entrò in vigore il 1 gennaio 1890, vale a
dire circa un trentennio dopo l’unificazione, a cui era seguita l’estensione alle altre parti del territorio nazionale del
Codice Penale sardo, ad eccezione della Toscana, ove la pena di morte – presente nel codice sardo-italiano – era
stata abolita da tempo; cosicché in Toscana restarono in vigore, fino al 1890, il codice e il regolamento punitivo
promulgato nel 1853 dal Granduca Leopoldo II.
La questione dell’abolizione della pena di morte fu al centro del dibattito sulla riunificazione della legislazione
penale e si concluse con l’accoglimento dell’opzione abolizionista.
Non era questo, naturalmente, il solo connotato “progressivo” del nuovo codice. Nella costruzione della parte
generale, il codice rispecchiava, i postulati della scuola classica, però in una prospettiva eclettica. Ed invero, si
teneva ben saldo agli scopi della prevenzione generale, pur riflettendo nella determinazione dei presupposti e nella
graduazione della responsabilità penale le istanze etico-retributive della dottrina liberale. In modo pienamente
espresso e coerente, si trovano enunciati nel nuovo codice i postulati fondamentali, oramai del tutto consolidati,
propri del garantismo illuministico-liberale: dal principio di stretta legalità alla regola della irretroattività della legge
penale. La parte speciale del codice appare saldamente organizzata attorno alla nozione dell’interesse offeso (c.d.
oggetto giuridico del reato), in base a criteri di classificazione destinati in gran parte a passare anche nella
legislazione successiva.
Nella parte speciale, tuttavia, ad onta del generale carattere di mitezza delle pene, le esigenze di tutela di classe
affiorano nettamente, sia nel sistema dei delitti contro la sicurezza dello Stato, che in relazione ad altre categorie di
reati. D’altronde, secondo un meccanismo caratteristico dello Stato liberale dell’ottocento, i contenuti garantisti del
codice venivano puntualmente elusi dal ricorso alla legislazione di pubblica sicurezza e alle misure di polizia; ove le
garanzie dei diritti individuali si attenuavano fin quasi a scomparire.
All’interno del sistema codicistico, per converso, assai limitato era lo spazio concesso alle crescenti istanze
culturali e scientifiche, volte ad una più efficace considerazione dell’autore del reato e delle esigenze di prevenzione
poste dalla sua personalità.

8. SCUOLA CLASSICA E SCUOLA POSITIVA DEL DIRITTO PENALE. GLI ESITI DI UN DIBATTITO
A partire all’incirca dalla metà degli anni ’70 del XIX secolo, la reazione all’indirizzo classico del diritto penale, si
andò progressivamente coagulando attorno alle posizioni espresse dalla c.d. scuola positiva del diritto penale: un
indirizzo di pensiero che prese inizialmente le mosse da una visione del mondo derivata dal positivismo scientifico-
materialistico. La corrente positivistica propugnava l’esigenza di trattare il fenomeno giuridico come un fenomeno
della realtà naturale e in quanto tale soggetto alle leggi causali che permeano tutto l’universo (Il positivismo infatti
depura il giuridico dalla dimensione sociale e politica: 2 sono le massime che rappresentano il positivismo: 1) diritto
penale è scienza giuridica in senso vero e proprio solo se si occupa dell’analisi concettuale delle direttive giuridico
positive, inquadrate nel sistema; 2) politica criminale, che si interessa degli scopi del diritto e dei contenuti sociali ,
resta fuori da quest’ambito). Il reato, quindi, non poteva più essere considerato come ente giuridico (astrazione
concettuale), così come sosteneva la scuola classica, ma come ente di fatto, vale a dire fenomeno umano che si
inserisce in un certo contesto naturale (tutto è soggetto e determinato da leggi empiriche).
La prima espressione sistematica di questo orientamento è costituita dall’opera di un medico e antropologo,
Cesare Lombroso, che, partendo dall’osservazione empirica, ritenne di essere pervenuto alla determinazione del
tipo antropologico del delinquente, e, su queste basi, impostò i fondamenti di una nuova criminologia (criminologia:
la scienza che studia la reazione statuale o sociale alla criminalità dal pdv empirico; eziologia: scienza che si propone
di individuare le cause che spingono il soggetto a delinquere), associando, in seguito, alla categoria antropologica
del delinquente altre figure di classificazione, in cui venivano emergendo altre cause, non antropologiche, ma
psicologiche e sociali, del delitto. Attraverso i successivi contributi, soprattutto di Raffaele Garofalo e di Enrico Ferri
(Ferri valorizza una spiegazione sociale della criminalità e propone sostitutivi extrapenali come l’istruzione e
l’avviamento al lavoro), la scuola positiva pervenne alla formulazione di proposte radicalmente innovative del
sistema penale tradizionale. Il diritto penale non è più un diritto penale del fatto, bensì dell’autore:
conseguentemente, i criteri costitutivi e misuratori dell’intervento difensivo non attengono alla qualità e gravità del
delitto, ma alla pericolosità del delinquente, rispetto ai beni oggetto di tutela. Ed invero, posto che il soggetto che
compie il reato non è libero di volere ma è sottoposto a leggi causali che lo spingono ineluttabilmente ad essere
delinquente, potrà essere punito semplicemente perché ritenuto pericoloso e a prescindere dal dato della
colpevolezza. In un sistema del genere non vi è spazio né per il concetto di imputabilità morale né tanto meno per
una concezione retributiva, in quanto non si può retribuire una disobbedienza che non è libera ma determinata da
leggi causali. L’accento è, insomma, interamente spostano sulla prevenzione speciale, da perseguirsi sia in forma di
terapia, sia in via eliminativa, fino alla condanna a morte o alla sanzione preventiva perpetua, per i delinquenti
incorreggibili.
La scuola positiva, ispirò e produsse un “Progetto preliminare di codice penale italiano” (c.d. Progetto Ferri,
1921), commissionato dal guardasigilli del tempo, che appariva orientato all’accoglimento di tutti i presupposti
filosofici e politico-criminali dell’indirizzo positivistico.
Il Progetto Ferri suscitò vivaci discussioni e una forte opposizione; e si deve ritenere che assai problematica ne
sarebbe stata, in ogni caso, la trasformazione in legge dello Stato. Le eventuali chances in questa direzione furono
comunque travolte e superate dai mutamenti politico-istituzionali che di lì a poco si sarebbero prodotti in Italia.
Ciò che si deve intanto sottolineare è che il lungo dibattito fra le scuole penalistiche produsse l’effetto di
predisporre il terreno a un indirizzo di pensiero contrassegnato dal rifiuto programmatico e dalla formale
delegittimazione di ogni discussione sui presupposti “filosofici” del diritto penale e dello stesso ricorso ai suoi
principi costitutivi nella elaborazione del materiale normativo.
Fra il 1910 e il 1920, questo atteggiamento mentale assumerà la forma e il ruolo di un vero e proprio manifesto
ideologico, il cd. tecnicismo giuridico, la cui prima compiuta espressione è costituita dalla prolusione sassarese
di Arturo Rocco, ove l’istanza giuspositivistica è teorizzata nella forma più radicale.
Antropologia, filosofia del diritto, politica criminale, sono concepite come discipline speculative, idonee solo ad
inquinare la purezza delle costruzioni giuridiche: il giurista deve tenersi fermo rigorosamente al diritto positivo
vigente, il solo che possa formare oggetto della scienza giuridica penale, che non è altro che una conoscenza
scientifica della disciplina giuridica dei delitti e delle pene.
Questa è evidentemente un’ideologia di tipo autoritario che si riflette su quello che secondo Rocco devono essere
il metodo e la funzione della pena. Il metodo è sicuramente quello tecnico-giuridico, per cui bisogna circoscrivere
rigorosamente al dato normativo l’oggetto della scienza penale e abbandonare ogni prospettiva di elaborazione
critica delle categorie penalistiche a partire dal loro significato politico-criminale. Quanto alla funzione della
pena, Rocco accoglie una concezione eclettica, prevedendo una funzione retributivo deterrente per i soggetti
imputabili, con applicazione di pene detentive, anche brevi, e una concezione special preventiva negativa per i
soggetti non imputabili, con applicazione delle misure di sicurezza (sistema del doppio binario).

9. IL CODICE PENALE DEL 1930


Il Codice penale entrato in vigore il 1 luglio 1931, e tuttora vigente nella maggior parte delle sue disposizioni,
appare quanto mai coerente con il programma del tecnicismo giuridico; in particolare con le impostazioni
metodologiche di Arturo Rocco, che ne fu l’ispiratore e il massimo artefice.
Il nuovo Codice penale si compone di una parte generale, contenuta nel libro I, e di una parte speciale, contenuta
nei libri II e III.
La parte generale, nella quale sono contenuti i presupposti della punibilità relativi a qualsiasi reato, consta di
8 titoli riconducibili alle tre questioni fondamentali del diritto penale: teoria delle fonti (titolo I), teoria della pena
(titoli II, V, VI, VII, VIII), teoria del reato (titoli III, IV, VI).
La parte speciale, nella quale sono contenuti le norme incriminatrici relative ai singoli reati, è organizzata per
beni giuridici, nel senso che i reati sono raggruppati a seconda di quale sia l’oggetto della tutela, peraltro dalla
lettura dei titoli si deduce che prevalgono nettamente gli interessi superindividuali dell’autorità statuale.
Il codice rocco accoglie, in via generale, il principio di legalità, ma essendo frutto di un assetto autoritario, la
legge non è più strumento per garantire i consociati, bensì per affermare l’autorità dello stato, con il conseguente
affievolimento dei corollari del principio di legalità.
L’operazione più spregiudicata del legislatore del 1930 è comunque costituita dall’introduzione delle c.d.
“misure amministrative di sicurezza” (Titolo VIII, Libro I), destinate ai delinquenti non imputabili e ad alcune
categorie di recidivi, accomunati dal requisito della “pericolosità sociale”. Con questa innovazione legislativa, il
Codice Rocco perseguiva a un tempo tre obiettivi: rendere disponibile un ulteriore e assai duttile strumento di
controllo della criminalità; attirare il consenso della cultura penalistica di estrazione positivistica, eludere anche per
questa via la scelta fra le opzioni di fondo sul tema della pena.
Le istanze special preventive sono infatti quasi interamente scaricate sul sistema delle misure di sicurezza; la
funzione della pena, invece, viene dai compilatori del codice ricondotta essenzialmente alla finalità di prevenzione
generale mediante intimidazione ispirazione, questa, che domina incontrastata la nuova legge penale. Rispetto al
fine della prevenzione generale risulta subordinata e strumentale, la funzione retributiva della pena.
Nel sistema delle pene, elementi di prevenzione speciale affiorano tuttavia in qualche modo negli istituti della
sospensione condizionale della pena (artt. 163 ss. c.p.) e del perdono giudiziale (art. 169 c.p.), riservato ai minori,
rispetto ai quali soltanto il nuovo codice (art. 142 c.p.) riconosce alla pena concorrenti finalità di “rieducazione
morale”. Istanze special preventive sono implicitamente presenti anche nella disciplina dettata per la
commisurazione della pena dall’art. 133 c.p.; ove, ai criteri propriamente retribuitivi, correlati alla obiettiva “gravità”
del reato, il codice affianca il riferimento alla “capacità a delinquere del reo” che, dovendo essere desunta, fra l’altro,
dalla condotta del reo antecedente e susseguente al reato e dalle sue condizioni di vita individuali, familiari e sociali,
costituisce in qualche modo la premessa per un giudizio sulla personalità del condannato, che dovrebbe concorrere
con la sua colpevolezza per il fatto nella determinazione finale della misura della pena.
Nella parte speciale – saldamente organizzata intorno all’idea della tutela dei beni giuridici – il codice esprime,
nel suo complesso, una sostanziale continuità con la legislazione precedente, per quanto attiene alla selezione e alla
gerarchia degli interessi tutelati. Ma, naturalmente, una particolare cura è riservata alla materia dei delitti “contro la
personalità dello Stato” (Titolo I, Libro II). In questo settore le mutate condizioni politico-istituzionali permisero
infatti al nuovo regime di costruire un ampio e conchiuso sistema di repressione del dissenso politico-sociale, che
sarebbe risultato inaccettabile nel quadro dell’ordinamento liberale. La nuova ideologia si esprime in modo netto,
fra l’altro nella soppressione del Titolo dei delitti “contro la libertà”, presente nel codice abrogato, e nell’attrazione
degli attentati contro i delitti politici del cittadino fra i delitti contro la personalità dello Stato. Ulteriori, espliciti
contrassegni del nuovo clima politico-ideologico sono visibili nella creazione di un nuovo titolo dei delitti “contro
l’integrità e la sanità della stirpe” (Titolo X, Libro II) e nella disciplina dei delitti in materia di religione, ove si
registra una tutela privilegiata del culto cattolico. Il nuovo codice incrimina, inoltre, come delitto, le condotte di
sciopero e di serrata e altri comportamenti diretti contro la nuova facciata dirigistica e “corporativa” di uno Stato
che, in realtà, si guarda bene dall’intaccare l’assetto capitalistico dell’economica.
Nel complesso, l’ordine delle materie seguire dal Codice Rocco nella parte speciale accredita senz’altro
l’immagine, che ne è stata data, di un sistema di valori simile ad una piramide che ha nel suo vertice l’idea dello
Stato e che, discendendo gradatamente, attraverso i reati contro i suoi organi e i suoi apparati e l’intera gamma dei
reati contro la sfera pubblica, trova solo alla sua base i reati contro la sfera privata, che però sembrano acquistare
rilevanza e tutela solo in quanto fondamento della società statualistica.
10. IL DIRITTO PENALE ITALIANO FRA IL CODICE ROCCO E LA COSTITUZIONE
REPUBBLICANA. GLI ATTEGGIAMENTI DELLA DOTTRINA
Nonostante siano trascorsi oltre settant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale e dalla caduta del regime
nel cui quadro istituzionale il Codice Rocco era stato promulgato, non si sono mai compiutamente determinate, nel
nostro paese, le condizioni politiche generali per il varo di un nuovo codice; anche se più volte ci si è accinti a
progettarlo. Riforme parziali di carattere “novellistico” e ripetuti interventi della Corte costituzionale hanno tuttavia
contribuito a modificare in misura non irrilevante la fisionomia del sistema penale. Gli interventi legislativi di più
ampia portata sono costituiti dalla “novella” del 1974 (legge 220/1974), dalla prima e dalla seconda legge
penitenziaria (legge 354/1975, legge 663/1986), e dalla legge 689/1981, denominata appunto “Modifiche al sistema
penale”.
La riforma del ’74, innovando la disciplina del concorso di reati, allargando i limiti di applicabilità della
sospensione condizionale, rendendo in ogni caso facoltativo l’aumento di pena derivante dalla recidiva e
modificando i meccanismi di determinazione della pena nel concorso di circostanze aggravanti e attenuanti,
comportò di fatto una rilevante mitigazione della risposta sanzionatoria; al tempo stesso, allargò gli spazi di
discrezionalità a disposizione del giudice, specie in sede di commisurazione della pena.
La legge dell’81, dal canto suo, oltre a configurare in via generale la categoria dell’illecito amministrativo
depenalizzato, allargò il ventaglio delle sanzioni penali, nella prospettiva di una contrazione dell’area della penalità
in generale, e, in particolare, dell’area di applicazione delle pene detentive brevi; introdusse, inoltre, nuove regole
per la determinazione e l’applicazione delle pene pecuniarie, miranti a ridurre la diseguaglianza fra abbienti e non
abbienti.
La strada imboccata con quell’intervento normativo è stata successivamente ripresa dal legislatore, con in
intervento di depenalizzazione (legge 205/1999 e relativi decreti attuativi), che, nonostante fosse dotato di una certa
organicità e non insignificante ampiezza, rappresentava tuttavia una risposta ancora inadeguata alla pressante
esigenza di riduzione dell’area penale, in vista di una maggiore efficienza dell’intervento.
Da ultimo, con i d.lgs. 7 e 8/2016 è stata data esecuzione all’art. 2 legge 67/2014, che ha conferito delega al
Governo per la “Riforma della disciplina sanzionatoria” dei reati. Con il primo dei due decreti si è infatti proceduto
alla trasformazione in illeciti amministrativi di numerosi reati; mentre con il secondo il legislatore delegato ha
abrogato diverse ipotesi di reato, prevedendo che per i fatti corrispondenti siano irrogate sanzioni pecuniarie civili,
che si aggiungono al risarcimento del danno.
Altra rilevante novità è rappresentata dall’attribuzione di alcune limitate competenze in materia penale al
Giudice di pace (d.lgs. 274/2000).
Le disposizioni costituzionali di importanza preminente per il diritto penale sono contenute nell’art. 25 co. 2 e 3
Cost. e nell’art. 27 co. 1, 3 e 4. L’art. 25 co. 2 Cost. ribadisce a livello costituzionale i tradizionali principi della c.d.
riserva di legge in materia penale e della irretroattività della legge penale, già enunciati rispettivamente negli artt. 1
e 2 c.p.; l’art. 25 co. 3, a sua volta, costituzionalizza il c.d. principio di legalità delle misure di sicurezza (art. 199
c.p.).
Una più forte carica innovativa esprime invece l’art. 27 co. 1 Cost., che dichiara: “La responsabilità penale è
personale”. Si ritiene comunemente che l’art. 27 co. 1 Cost. esprima a livello costituzionale il c.d. principio di
colpevolezza; e con esso, in primo luogo, l’esigenza della riferibilità psicologica del fatto all’autore, come
presupposto della sua rimproverabilità. All’art. 27 co. 1 Cost. si è dunque fatto costante riferimento in dottrina per
contestare la legittimità costituzionale della categoria della responsabilità oggettiva (art. 42 co. 3 c.p.)
L’art. 27 co. 3 e 4 rispettivamente dispongono: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”, accogliendo
così una funzione special preventiva della pena.
LA FISIONOMIA DELLA PENA NELL’ORDINAMENTO VIGENTE

1. PREVENZIONE GENERALE, RETRIBUZIONE E PREVENZIONE SPECIALE NELL’EVOLUZIONE


DEL SISTEMA, DAL CODICE ROCCO ALLA COSTITUZIONE
Qualsiasi sistema penale finisce per fare i conti con i tre filoni in cui si sono storicamente organizzate le diverse
filosofie della pena, rispettivamente ispirate all’idea della retribuzione, a quella della prevenzione generale, a quella
della prevenzione speciale.
Come si è già sottolineato, queste fondamentali opzioni teoriche sull’essenza e sul fondamento della pena, in
quanto frutto della sedimentazione storia di bisogni e atteggiamenti culturali, spesso in tensione fra loro, convivono
irriducibilmente nell’esperienza giuridica attuale. Il nostro ordinamento giuridico, peraltro, appare caratterizzato da
una sorta di “svolta” in ordine ai fini della pena; svolta databile con l’entrata in vigore della Costituzione
repubblicana.
Il codice del 1930, come sappiamo, aveva esplicitamente “scaricato” sul sistema delle misure di sicurezza le forti
istanze specialpreventive, presenti negli atteggiamenti culturali del tempo, accentuando in misura straordinaria, e
del tutto esplicitamente, i fini di prevenzione generale assegnati alla pena, fino ad inglobare in questi la stessa
funzione retributiva. Il codice, peraltro, come pure si è avuta occasione di rilevare, non solo evitava di prendere
apertamente posizione a favore dell’una o dell’altra teoria penale; ma lasciava comunque affiorare taluni elementi di
prevenzione speciale.
Questo tipo di equilibrio tra le diverse finalità della pena, contrassegnato dalla preminenza della funzione
generalpreventiva e dal ruolo del tutto marginale della prevenzione speciale, appare completamente ribaltato
nell’art. 27 co. 3 Cost., laddove esso dispone che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Al di là
della reale portata e dei limiti di praticabilità del principio “rieducativo”, sta di fatto che l’opzione ideologica non
potrebbe essere più esplicita. Lo stesso art. 27 Cost., nell’enunciare il divieto di trattamenti “contrari al senso di
umanità” e il contestuale ripudio della pena di morte, marca ulteriormente il distacco del sistema costituzionale del
diritto penale, sia da ogni forma di esasperazione della funzione generalpreventiva che dall’assolutezza del principio
retributivo.

2. PORTATA E LIMITI DELL’ART. 27 CO. 3 COST.


All’iniziale atteggiamento culturale che, in base ad una interpretazione marcatamente riduttiva dell’art. 27 Cost.,
assegnava ai principi ivi enucleati il valore di una indicazione meramente tendenziale, esclusivamente riferita alle
modalità esecutive della sanzione penale, è ormai subentrato il prevalente riconoscimento che al dettato
costituzionale sui fini della pena debba assegnarsi la portata di un principio innovativo, suscettibile di spiegare i suoi
effetti in tutte le fasi che caratterizzano la dinamica del sistema sanzionatorio: dalla comminatoria all’applicazione e,
ovviamente, all’esecuzione della pena.
Il punto nodale nella ricostruzione di una fisionomia aggiornata della pena è costituito, naturalmente, dalla
elaborazione dei contenuti della rieducazione, prospettata dal legislatore costituente come finalità primaria delle
pene. Che cosa il legislatore costituzionale abbia inteso per “rieducazione”, e quali siano gli strumenti per la sua
realizzazione è, peraltro, strettamente dipendente dal contesto ordinamentale e, dunque, dai risultati che
l’interpretazione sistematica della stessa Costituzione può suggerire.
L’insieme dei principi costituzionali che consentono di conferire al nostro ordinamento la qualificazione di stato
sociale di diritto (artt. 2, 3, 4, 19, 21, 34 Cost.), che nel loro insieme garantiscono l’autonomia e la dignità
dell’individuo e lo sviluppo della sua personalità all’interno di una prospettiva solidaristica, legittimano l’accezione
del concetto di rieducazione nel significato di recupero sociale, o, come anche si dice, di risocializzazione.
L’assunzione di quei principi come punti di riferimento normativo per l’interpretazione della funzione rieducativa
della pena induce, infatti, ad escludere che la rieducazione includa un significato di emenda morale e assuma,
comunque, dimensioni eticizzanti.
Al tempo stesso, proprio il rispetto dell’autonomia morale dell’individuo implica l’adesione del soggetto all’opera
di rieducazione ed esclude, pertanto, ogni forma di imposizione coercitiva nei suoi riguardi, ed in particolare ogni
forma di trattamento pseudo-terapeutico che metta capo a interventi manipolativi della personalità.
Attraverso la sanzione penale lo Stato deve offrire al delinquente gli strumenti per la sua reintegrazione nel
tessuto sociale; in primo luogo mediante la “riappropriazione” dei valori elementari della convivenza. Al di là delle
difficoltà di concretizzazione e dei risultati spesso deludenti di sperimentazioni fatte con le migliori intenzioni, la
dottrina riconosce che nello Stato sociale moderno non esistono reali alternative all’ipotesi di un “trattamento” del
reo, che si ispiri all’idea del suo recupero mediante interventi di sostegno alla sua autodeterminazione nel senso dei
valori di cui l’ordinamento giuridico-costituzionale è portatore e, perciò, nel senso del rispetto dei beni da esso
tutelati.
Se la “rieducazione”, così intesa, è l’obiettivo del trattamento, ciò non significa che non possano essere diversi gli
strumenti applicativi, mediante i quali tale obiettivo può essere perseguito.
Un punto di orientamento è sicuramente costituito da quello che si può considerare una sorta di requisito
“minimo” della sanzione penale rieducativa: vale a dire la sua applicazione in condizioni che impediscano effetti di
“desocializzazione” o, peggio, di destrutturazione della personalità del condannato.
In nessun caso, tuttavia, quando non sussistano – o non siano praticabili – interventi risocializzanti, si giustifica,
per ciò solo, il recupero di risposte sanzionatorie di tipo meramente afflittivo, restando invece essenziale che
l’applicazione delle sanzioni non favorisca ulteriori processi di disadattamento e stimoli in qualche modo
l’emancipazione del soggetto dagli schemi di comportamento antisociali che ne hanno caratterizzato la vita anteatta.

3. LE FUNZIONI DELLA PENA SECONDO LE FASI DELLA SUA DINAMICA


Tra le acquisizioni generalizzate della dottrina contemporanea della pena va sicuramente annoverata la
consapevolezza che – alla luce del dettato costituzionale – i diversi profili funzionali della pena si presentino con
incidenza differenziata nelle tre fasi di attuazione del diritto penale: minaccia legale, inflizione ed esecuzione della
pena.
Si afferma, di solito, che nella fase della minaccia, o comminatoria, della pena (detta anche fase edittale) largo
spazio vada riconosciuto agli scopi di prevenzione generale, irriducibilmente connessi con la posizione stessa della
norma penale. La funzione generalpreventiva, però, non deve essere configurata solo nel suo aspetto negativo, cioè
in quanto deterrente, idoneo a scoraggiare i consociati dal commettere reati, bensì (anche) nei momenti positivi che
si connetto alla funzione di orientamento culturale, che il diritto penale esercita, nella misura in cui induce,
attraverso la sua presenza e la generale consuetudine di osservanza dei suoi comandi, processi di interiorizzazione
dei valori che questi sottendono, in via di perpetuazione, rafforzamento di norme etico-sociali preesistenti.
La dottrina riconosce, tuttavia, concordemente, che il prodursi degli effetti propri della prevenzione generale
positiva non costituisce un effetto automatico della posizione della norma, ma dipende da vari fattori. In primo
luogo, è decisiva non tanto la severità della minaccia, quanto la sua effettività, in quanto contribuisce a rendere
credibile il sistema. In secondo luogo, l’efficacia generalpreventiva delle norme penali è direttamente proporzionale
al grado di convergenza fra disapprovazione sociale e disapprovazione legale.
Fondamentale è la proporzione tra entità della pena minacciata e gravità del reato, che se da un lato evoca
immediatamente l’idea della giusta retribuzione, dall’altro condiziona la stessa prospettiva del recupero sociale.
Per questa via, la funzione di prevenzione speciale sii insinua, dunque, nella fase edittale della minaccia penale,
che pure sembra costituire l’incontrastato luogo di elezione della prevenzione generale. Ma gli scopi
specialpreventivi giuocano, all’atto della posizione della norma, anche e soprattutto il ruolo di limite della previsione
legislativa, dovendosi ritenere non ammissibile la comminatoria di una pena sprovvista di qualsiasi contenuto
rieducativo, nel senso, innanzi chiarito, di risocializzazione e di recupero del reo.
Nella fase della inflizione della pena (c.d. fase giudiziale), la prevenzione generale non può che occupare uno
spazio assai ristretto. Restano, in particolare, del tutto esclusi gli effetti di pura intimidazione, connessi con la
prevenzione generale nel suo aspetto negativo.
La prevenzione generale positiva è invece presente anche in questa fase, in relazione all’esigenza, già
sottolineata, della effettività della minaccia quale fattore coessenziale della funzione di orientamento culturale: per
la credibilità dell’ordinamento si esige che la pena minacciata venga poi effettivamente inflitta, quando la norma sia
stata violata.
Non sembra, invece, affatto necessario un recupero della concezione retributiva della pena, per farne scaturire
effetti, in termini di proporzione fra entità della pena e gravità della violazione. Che debba essere soprattutto
l’istanza rieducativa – una volta assicurato il rispetto della proporzione con il fatto – a orientare le scelte
sanzionatorie nella fase giudiziale, è cosa, in verità, di tutta evidenza.
Nella fase di esecuzione della pena, sono com’è ovvio, del tutto prevalenti le esigenze della prevenzione speciale.
Poiché l’istanza specialpreventiva viene qui in considerazione nell’ottica rieducativa in cui è configurata dalla
Costituzione, è appena necessario avvertire che da essa esulano sia la prospettiva di una mera neutralizzazione del
reo, sia l’obiettivo della sua rigenerazione morale che, per quanto già detto, non appartiene ai fini del diritto penale.
Di prevenzione speciale si parla qui nel senso, già chiarito, della risocializzazione, o almeno della non
desocializzazione, del condannato.
Un limitato spazio di operatività deve tuttavia essere riconosciuto, anche nella fase dell’esecuzione, all’istanza
generalpreventiva: sia per il generico effetto di riaffermazione della serietà della minaccia penale, che discende dalla
esecuzione della pena, e sia perché, in assenza di specifiche esigenze di natura specialpreventiva, a legittimare
l’attivazione dello strumento penale ben possono invocarsi le residue esigenze di prevenzione generale.

4. L’ODIERNA FISIONOMIA DELLA PENA: DALLA RIFORMA DEL 1974 AI GIORNI NOSTRI
Nella nutrita legislazione penale degli ultimi decenni, ad onta del suo carattere dispersivo e inorganico, e della
sua scarsa coerenza, è comunque possibile cogliere l’influenza delle direttive costituzionali in materia di pena.
In particolare, molte delle modifiche intervenute sul sistema sanzionatorio sembrano orientate a dare attuazione
in maniera più marcata all’idea della sanzione detentiva come extrema ratio della risposta penale; tuttavia a causa
della scarsa efficienza del sistema penale nel suo complesso, gli opportuni e condivisibili interventi di mitigazione e
diversificazione degli strumenti punitivi finiscono, non di rado, per determinare pericolosi fenomeni di “fuga dalla
sanzione”, che si manifesta soprattutto nella diffusa ineffettività del sistema di esecuzione penale. La crescente
sensazione di “insicurezza” conseguente a questa condizione si è prevedibilmente tradotta in una richiesta di un
incremento delle politiche repressive di stampo punitivo, che non hanno tardato a tradursi in provvedimenti
legislativi nei quali la finalità “simbolica” prevale decisamente sulle prospettive di efficienza”.
Le innovazioni legislative appena accennate si collocano, peraltro, sullo sfondo di una legislazione penale
“novellistica” o “speciale”, decisamente alluvionale e non di rado contraddittoria, dal punto di vista delle opzioni
politico-criminali; segnata, com’è, da ricorrenti momenti di riflusso, puntualmente sfociati nella c.d. legislazione di
emergenza, sotto l’impulso di pure spinte emotive o di esigenze di chiara impronta generalpreventiva, costituenti la
risposta a gravi fenomeni di criminalità organizzata, comune o terroristica.
Un siffatto andamento della legislazione penale ha avuto come effetto, da un lato, la riduzione dell’area coperta
dalla pena carceraria per la criminalità medio-lieve, senza però che a tal fenomeno abbia corrisposto in misura
adeguata la sostituzione del momento custodialistico con strumenti di intervento alternativo, realmente efficaci,
finalizzati alla risocializzazione del reo; dall’altro, l’irrigidimento delle modalità di detenzione dei colpevoli dei più
gravi delitti – specie di criminalità organizzata – in forme tali da risultare decisamente ostative a qualsiasi
programma di trattamento “rieducativo”.
La dottrina, nel complesso, appare comunque orientata a ritenere che la registrazione delle difficoltà e degli
inconvenienti che caratterizzano la realtà attuale della pena non autorizzi affatto a decretare il fallimento del
principio rieducativo, laddove si tratta piuttosto di impegnarsi a rimuovere gli ostacoli che ne impediscono la
concreta attuazione.
In particolare, rimane positivo, nonostante tutto, il giudizio sulle alternative alla pena carceraria, introdotte nel
sistema. Al tempo stesso, si sottolinea che lo scopo di una credibile risocializzazione non può certo essere perseguito
mediante automatismi e, comunque, non in base ad un’accezione essenzialmente “indulgenziale” dei nuovi istituti.
Nella stessa direzione si muove anche l’intervento relativo ai reati assegnati alla competenza del giudice di pace
che si presenta, sia pure con un ambito applicativo assai limitato, come una sorta di “laboratorio” della riforma del
sistema sanzionatorio: l’intervento percorre infatti la direttrice della decarcerizzazione”, unita a forme di risoluzione
del conflitto diverse da quelle incentrate sulla inflizione della sanzione, secondo una linea di riforma largamente
condivisa a livello internazionale; le perplessità riguardano semmai la scelta di fondo relativa alla utilizzazione di
giudici non professionali in materia penale, nonché l’opzione “conservativa” dell’uso, comunque, dello strumento
penale per fatti di natura tendenzialmente bagatellare.
Le difficoltà di concretizzazione, i punti di crisi, gli ostacoli di ordine pratico all’attuazione del principio
rieducativo sono, in realtà, dati di fatto innegabili. E, tuttavia, non si può non essere d’accordo con l’opinione che
l’obiettivo della risocializzazione o almeno della non desocializzazione, del condannato sia il solo perseguibile in un
sistema penale che voglia conciliare le istanze dello Stato di diritto con la vocazione dello Stato sociale.

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