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4. CESARE BECCARIA
Principale esponente dell’illuminismo penale è Cesare Beccaria che nel 1764 scrisse l’opera “Dei delitti e delle
pene” in cui, a partire dai presupposti di filosofia del diritto (1. fondazione laica del potere punitivo statuale: il
diritto penale deve servire ad affrontare e risolvere problemi relativi alla convivenza delle persone sulla terra, non a
risolvere problemi morali; 2. utilitarismo: se la fondazione del potere punitivo è terrena, il diritto penale in tanto si
giustifica e si legittima in quanto serva alla collettività; 3. contrattualismo: se la fondazione del potere punitivo è
terrena, la società si fonda sul contratto sociale) sviluppa un’elaborazione sistematica coerente.
Dal principio utilitaristico – a cui fornirà però un fondamento dichiaratamente contrattualistico – Beccaria
deriverà la formula quasi “matematica” da cui fa dipendere la bontà delle leggi: vale a dire la loro capacità di
realizzare “la massima felicità divisa nel maggior numero” di persone.
Ma ciò che contrassegna in modo peculiare la sua opera è la coerenza delle opzioni politico-criminali con il
fondamento contrattualistico del diritto di punire e con la finalità della pena, identificata da Beccaria con l’ufficio
di “impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi concittadini e di rimuoverne altri dal farne uguali” (prevenzione
speciale e generale positiva: la pena deve essere utile ad impedire che il singolo commetta reati e che la collettività
sia motivata a commettere reati). È proprio la matrice contrattualistica del sistema – l’aver cioè ogni uomo posto nel
“pubblico deposito” esattamente quella porzione della sua libertà “che basti a indurre gli altri a difenderlo” – che
impedisce al “fine politico” delle pene di prevalere sulla sua funzione pratica, assicurare la pacifica convivenza fra i
consociati, così da oltrepassare i caratteri di utilità e necessità che le pene debbono possedere. Ed è ancora dal
fondamento contrattuale del diritto di punire che deriva anche la pretesa di leggi penali dotate di chiarezza e
certezza, ma soprattutto contenute in un codice, così che ogni cittadino che aderisca al patto sociale devono essere
posti nella condizione di poter conoscere i reati e le relative pene.
Per quanto concerne il fondamento del diritto di punire Beccaria, sulle orme di Montesquieu, indica nella
legalità la prima condizione della libertà e traduce espressamente questa esigenza nel principio di una vera e propria
riserva di legge: “Le sole leggi possono decretare le pene sui delitti; e questa autorità non può risiedere che presso il
legislatore, che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale”. In altri termini, se la fonte del potere
punitivo sta nella collettività popolare, soltanto le leggi, espressione della maggioranza al potere, possono stabilire
quali siano le condotte punibili.
Quale presidio della uguaglianza e della certezza del diritto penale affiora un altro principio, di cui è evidente la
derivazione da Montesquieu, quello della divisione dei poteri, in particolare come esigenza di “terzietà” del
giudice”: il giudice deve limitarsi ad applicare la legge senza compiere interpretazioni creative. Le leggi penali,
dunque, dovranno essere tali da consentire da parte del giudice “un sillogismo perfetto; la maggiore deve essere la
legge generale; la minore l’azione conforme, o no, alla legge; la conseguenza, la libertà o la pena”. Ciò esige
innanzitutto leggi scritte,
Nell’opera di Beccaria, il processo di secolarizzazione del diritto penale appare interamente realizzato. Dalle sue
mani il diritto penale esce definitivamente desacralizzato: “il grado di utilità o disutilità misurava le azioni umane,
così come doveva misurare i corrispondenti compensi e le pene”.
Deducendo dall’idea contrattualistico-utilitaria una concezione della pena, che sostituiva alla sacralità della
funzione espiativa e satisfattoria della pena una logica tutta umana, Beccaria poneva le premesse di una scienza
penale che assumesse come coordinate essenziali i “fini” e i “mezzi” del diritto penale, e in quella prospettiva
andasse anche elaborando le sue costruzioni concettuali.
7. IL CODICE ZANARDELLI
Il Codice penale italiano del 1889 fu il primo codice penale unitario. Esso entrò in vigore il 1 gennaio 1890, vale a
dire circa un trentennio dopo l’unificazione, a cui era seguita l’estensione alle altre parti del territorio nazionale del
Codice Penale sardo, ad eccezione della Toscana, ove la pena di morte – presente nel codice sardo-italiano – era
stata abolita da tempo; cosicché in Toscana restarono in vigore, fino al 1890, il codice e il regolamento punitivo
promulgato nel 1853 dal Granduca Leopoldo II.
La questione dell’abolizione della pena di morte fu al centro del dibattito sulla riunificazione della legislazione
penale e si concluse con l’accoglimento dell’opzione abolizionista.
Non era questo, naturalmente, il solo connotato “progressivo” del nuovo codice. Nella costruzione della parte
generale, il codice rispecchiava, i postulati della scuola classica, però in una prospettiva eclettica. Ed invero, si
teneva ben saldo agli scopi della prevenzione generale, pur riflettendo nella determinazione dei presupposti e nella
graduazione della responsabilità penale le istanze etico-retributive della dottrina liberale. In modo pienamente
espresso e coerente, si trovano enunciati nel nuovo codice i postulati fondamentali, oramai del tutto consolidati,
propri del garantismo illuministico-liberale: dal principio di stretta legalità alla regola della irretroattività della legge
penale. La parte speciale del codice appare saldamente organizzata attorno alla nozione dell’interesse offeso (c.d.
oggetto giuridico del reato), in base a criteri di classificazione destinati in gran parte a passare anche nella
legislazione successiva.
Nella parte speciale, tuttavia, ad onta del generale carattere di mitezza delle pene, le esigenze di tutela di classe
affiorano nettamente, sia nel sistema dei delitti contro la sicurezza dello Stato, che in relazione ad altre categorie di
reati. D’altronde, secondo un meccanismo caratteristico dello Stato liberale dell’ottocento, i contenuti garantisti del
codice venivano puntualmente elusi dal ricorso alla legislazione di pubblica sicurezza e alle misure di polizia; ove le
garanzie dei diritti individuali si attenuavano fin quasi a scomparire.
All’interno del sistema codicistico, per converso, assai limitato era lo spazio concesso alle crescenti istanze
culturali e scientifiche, volte ad una più efficace considerazione dell’autore del reato e delle esigenze di prevenzione
poste dalla sua personalità.
8. SCUOLA CLASSICA E SCUOLA POSITIVA DEL DIRITTO PENALE. GLI ESITI DI UN DIBATTITO
A partire all’incirca dalla metà degli anni ’70 del XIX secolo, la reazione all’indirizzo classico del diritto penale, si
andò progressivamente coagulando attorno alle posizioni espresse dalla c.d. scuola positiva del diritto penale: un
indirizzo di pensiero che prese inizialmente le mosse da una visione del mondo derivata dal positivismo scientifico-
materialistico. La corrente positivistica propugnava l’esigenza di trattare il fenomeno giuridico come un fenomeno
della realtà naturale e in quanto tale soggetto alle leggi causali che permeano tutto l’universo (Il positivismo infatti
depura il giuridico dalla dimensione sociale e politica: 2 sono le massime che rappresentano il positivismo: 1) diritto
penale è scienza giuridica in senso vero e proprio solo se si occupa dell’analisi concettuale delle direttive giuridico
positive, inquadrate nel sistema; 2) politica criminale, che si interessa degli scopi del diritto e dei contenuti sociali ,
resta fuori da quest’ambito). Il reato, quindi, non poteva più essere considerato come ente giuridico (astrazione
concettuale), così come sosteneva la scuola classica, ma come ente di fatto, vale a dire fenomeno umano che si
inserisce in un certo contesto naturale (tutto è soggetto e determinato da leggi empiriche).
La prima espressione sistematica di questo orientamento è costituita dall’opera di un medico e antropologo,
Cesare Lombroso, che, partendo dall’osservazione empirica, ritenne di essere pervenuto alla determinazione del
tipo antropologico del delinquente, e, su queste basi, impostò i fondamenti di una nuova criminologia (criminologia:
la scienza che studia la reazione statuale o sociale alla criminalità dal pdv empirico; eziologia: scienza che si propone
di individuare le cause che spingono il soggetto a delinquere), associando, in seguito, alla categoria antropologica
del delinquente altre figure di classificazione, in cui venivano emergendo altre cause, non antropologiche, ma
psicologiche e sociali, del delitto. Attraverso i successivi contributi, soprattutto di Raffaele Garofalo e di Enrico Ferri
(Ferri valorizza una spiegazione sociale della criminalità e propone sostitutivi extrapenali come l’istruzione e
l’avviamento al lavoro), la scuola positiva pervenne alla formulazione di proposte radicalmente innovative del
sistema penale tradizionale. Il diritto penale non è più un diritto penale del fatto, bensì dell’autore:
conseguentemente, i criteri costitutivi e misuratori dell’intervento difensivo non attengono alla qualità e gravità del
delitto, ma alla pericolosità del delinquente, rispetto ai beni oggetto di tutela. Ed invero, posto che il soggetto che
compie il reato non è libero di volere ma è sottoposto a leggi causali che lo spingono ineluttabilmente ad essere
delinquente, potrà essere punito semplicemente perché ritenuto pericoloso e a prescindere dal dato della
colpevolezza. In un sistema del genere non vi è spazio né per il concetto di imputabilità morale né tanto meno per
una concezione retributiva, in quanto non si può retribuire una disobbedienza che non è libera ma determinata da
leggi causali. L’accento è, insomma, interamente spostano sulla prevenzione speciale, da perseguirsi sia in forma di
terapia, sia in via eliminativa, fino alla condanna a morte o alla sanzione preventiva perpetua, per i delinquenti
incorreggibili.
La scuola positiva, ispirò e produsse un “Progetto preliminare di codice penale italiano” (c.d. Progetto Ferri,
1921), commissionato dal guardasigilli del tempo, che appariva orientato all’accoglimento di tutti i presupposti
filosofici e politico-criminali dell’indirizzo positivistico.
Il Progetto Ferri suscitò vivaci discussioni e una forte opposizione; e si deve ritenere che assai problematica ne
sarebbe stata, in ogni caso, la trasformazione in legge dello Stato. Le eventuali chances in questa direzione furono
comunque travolte e superate dai mutamenti politico-istituzionali che di lì a poco si sarebbero prodotti in Italia.
Ciò che si deve intanto sottolineare è che il lungo dibattito fra le scuole penalistiche produsse l’effetto di
predisporre il terreno a un indirizzo di pensiero contrassegnato dal rifiuto programmatico e dalla formale
delegittimazione di ogni discussione sui presupposti “filosofici” del diritto penale e dello stesso ricorso ai suoi
principi costitutivi nella elaborazione del materiale normativo.
Fra il 1910 e il 1920, questo atteggiamento mentale assumerà la forma e il ruolo di un vero e proprio manifesto
ideologico, il cd. tecnicismo giuridico, la cui prima compiuta espressione è costituita dalla prolusione sassarese
di Arturo Rocco, ove l’istanza giuspositivistica è teorizzata nella forma più radicale.
Antropologia, filosofia del diritto, politica criminale, sono concepite come discipline speculative, idonee solo ad
inquinare la purezza delle costruzioni giuridiche: il giurista deve tenersi fermo rigorosamente al diritto positivo
vigente, il solo che possa formare oggetto della scienza giuridica penale, che non è altro che una conoscenza
scientifica della disciplina giuridica dei delitti e delle pene.
Questa è evidentemente un’ideologia di tipo autoritario che si riflette su quello che secondo Rocco devono essere
il metodo e la funzione della pena. Il metodo è sicuramente quello tecnico-giuridico, per cui bisogna circoscrivere
rigorosamente al dato normativo l’oggetto della scienza penale e abbandonare ogni prospettiva di elaborazione
critica delle categorie penalistiche a partire dal loro significato politico-criminale. Quanto alla funzione della
pena, Rocco accoglie una concezione eclettica, prevedendo una funzione retributivo deterrente per i soggetti
imputabili, con applicazione di pene detentive, anche brevi, e una concezione special preventiva negativa per i
soggetti non imputabili, con applicazione delle misure di sicurezza (sistema del doppio binario).
4. L’ODIERNA FISIONOMIA DELLA PENA: DALLA RIFORMA DEL 1974 AI GIORNI NOSTRI
Nella nutrita legislazione penale degli ultimi decenni, ad onta del suo carattere dispersivo e inorganico, e della
sua scarsa coerenza, è comunque possibile cogliere l’influenza delle direttive costituzionali in materia di pena.
In particolare, molte delle modifiche intervenute sul sistema sanzionatorio sembrano orientate a dare attuazione
in maniera più marcata all’idea della sanzione detentiva come extrema ratio della risposta penale; tuttavia a causa
della scarsa efficienza del sistema penale nel suo complesso, gli opportuni e condivisibili interventi di mitigazione e
diversificazione degli strumenti punitivi finiscono, non di rado, per determinare pericolosi fenomeni di “fuga dalla
sanzione”, che si manifesta soprattutto nella diffusa ineffettività del sistema di esecuzione penale. La crescente
sensazione di “insicurezza” conseguente a questa condizione si è prevedibilmente tradotta in una richiesta di un
incremento delle politiche repressive di stampo punitivo, che non hanno tardato a tradursi in provvedimenti
legislativi nei quali la finalità “simbolica” prevale decisamente sulle prospettive di efficienza”.
Le innovazioni legislative appena accennate si collocano, peraltro, sullo sfondo di una legislazione penale
“novellistica” o “speciale”, decisamente alluvionale e non di rado contraddittoria, dal punto di vista delle opzioni
politico-criminali; segnata, com’è, da ricorrenti momenti di riflusso, puntualmente sfociati nella c.d. legislazione di
emergenza, sotto l’impulso di pure spinte emotive o di esigenze di chiara impronta generalpreventiva, costituenti la
risposta a gravi fenomeni di criminalità organizzata, comune o terroristica.
Un siffatto andamento della legislazione penale ha avuto come effetto, da un lato, la riduzione dell’area coperta
dalla pena carceraria per la criminalità medio-lieve, senza però che a tal fenomeno abbia corrisposto in misura
adeguata la sostituzione del momento custodialistico con strumenti di intervento alternativo, realmente efficaci,
finalizzati alla risocializzazione del reo; dall’altro, l’irrigidimento delle modalità di detenzione dei colpevoli dei più
gravi delitti – specie di criminalità organizzata – in forme tali da risultare decisamente ostative a qualsiasi
programma di trattamento “rieducativo”.
La dottrina, nel complesso, appare comunque orientata a ritenere che la registrazione delle difficoltà e degli
inconvenienti che caratterizzano la realtà attuale della pena non autorizzi affatto a decretare il fallimento del
principio rieducativo, laddove si tratta piuttosto di impegnarsi a rimuovere gli ostacoli che ne impediscono la
concreta attuazione.
In particolare, rimane positivo, nonostante tutto, il giudizio sulle alternative alla pena carceraria, introdotte nel
sistema. Al tempo stesso, si sottolinea che lo scopo di una credibile risocializzazione non può certo essere perseguito
mediante automatismi e, comunque, non in base ad un’accezione essenzialmente “indulgenziale” dei nuovi istituti.
Nella stessa direzione si muove anche l’intervento relativo ai reati assegnati alla competenza del giudice di pace
che si presenta, sia pure con un ambito applicativo assai limitato, come una sorta di “laboratorio” della riforma del
sistema sanzionatorio: l’intervento percorre infatti la direttrice della decarcerizzazione”, unita a forme di risoluzione
del conflitto diverse da quelle incentrate sulla inflizione della sanzione, secondo una linea di riforma largamente
condivisa a livello internazionale; le perplessità riguardano semmai la scelta di fondo relativa alla utilizzazione di
giudici non professionali in materia penale, nonché l’opzione “conservativa” dell’uso, comunque, dello strumento
penale per fatti di natura tendenzialmente bagatellare.
Le difficoltà di concretizzazione, i punti di crisi, gli ostacoli di ordine pratico all’attuazione del principio
rieducativo sono, in realtà, dati di fatto innegabili. E, tuttavia, non si può non essere d’accordo con l’opinione che
l’obiettivo della risocializzazione o almeno della non desocializzazione, del condannato sia il solo perseguibile in un
sistema penale che voglia conciliare le istanze dello Stato di diritto con la vocazione dello Stato sociale.