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Introduzione
Di diritti umani oggi si parla molto. La cultura dei diritti umani è un campo attraversato da grandi
dibattiti, attorno ad essa si svolge sia una sorta di battaglia culturale sia pratica politica. È
fondamentale favorirne la conoscenza, l’informazione che possono aiutare a situare il ruolo dei
diritti
umani nel mondo contemporaneo. È il mondo giuridico che si è maggiormente occupato dei diritti
umani, giuristi, filosofi del diritto che hanno dato formulazioni più articolate e complete che hanno
contribuito a comprenderli, codificarli, classificarli, renderli insieme un momento di riflessione
teorica. Lo sguardo di uno storico non può che essere diverso perché manca una vera ricostruzione
storica dei diritti umani che tenga conto del succedersi delle idee e dei percorsi pratici e
organizzativi di quei gruppi e individui che hanno cercato di trasformare la realtà a vantaggio dei
discriminati, degli
emarginati e degli oppressi. Forte enfasi su due momenti cruciali in cui i diritti umani si sono
affacciati alla storia: metà ‘700 e metà ‘900. La loro storia: tensione tra proprie promesse e
ambizioni universalistiche e la capacità pratica di realizzarle = distanza tra teoria e pratica,
capovolgimento prima nella seconda: debolezza intrinseca della cultura dei diritti umani. Un
approccio storico può essere utile per cercare di rendere più chiara l’opposizione, le contraddizioni
che riscontrano nella teoria e pratica dei diritti: classico dibattito tra carattere naturale e positivo dei
diritti umani. I diritti umani sono diritti storici non solo perché nati in circostanze particolari, evoluti
in contesti definiti, caratterizzati da lotte di grande portata per la libertà e l’uguaglianza ma perché
la stessa idea religiosa o naturale, politica o positiva in cui si è voluto trovare la loro radice e
legittimità si è trasformata nel tempo, ha conosciuto declinazioni differenti ed è stata influenzata da
eventi storici diversi. Visione universalistica intrecciata con una sua lettura particolaristica. La
reciproca legittimazione di diritti e potere ha rappresentato uno degli aspetti fondamentali della
storia dello stato moderno e della democrazia. A partire dal XVIII secolo: la vera storia dei diritti
umani -> ruolo di Cesare Beccaria, Granville Sharp, John Stuart Mill e Henri Dunant. La storia dei
diritti umani è il percorso con cui principi e valori morali si sono trasformati in obiettivi politici e in
articoli di legge e ist.giuridiche ma anche in senso comune e opinioni condivise grazie alla
diffusione culturale e all’azione quotidiana di tutti coloro che sentivano l’urgenza della loro
situazione. Battaglia dei diritti umani: una mobilitazione dal basso anche se spesso sono intervenuti
qualche potere perché potesse affermarsi e consolidarsi = questione sempre più cruciale a partire
dagli anni ’80 e cercare di vedere i diritti umani non solo da un ottica prettamente del pensiero
giuridico e della pratica della legge.
CAPITOLO I
DAI DOVERI AI DIRITTI
1. Religioni e valori.
Secondo Bobbio e Martinez i diritti umani sono diritti storici, nati in precisi contesti e
circostanze, in mezzo a rivendicazioni e lotte per realizzarle. È nel corso XVIII secolo che però
avviene un rovesciamento radicale di prospettiva, caratteristico della formazione dello stato
moderno, seguendo un percorso secondo cui “la concezione individualistica della società passa dal
riconoscimento dei diritti del cittadino di un singolo stato al riconoscimento dei diritti del cittadino
del mondo”. È abbastanza condivisa l’idea di fissare nel Settecento le origini dei diritti umani,
addirittura la loro invenzione.
Tuttavia il ruolo della legge è presente fin dai tempi più antichi. Il codice di Hammurabi, è
considerato da molti il primo esempio dove è possibile rintracciare delle norme per il
comportamento dei governanti fondate su più vasti principi di giustizia (prima raccolta di leggi
che divide i cittadini dai non cittadini e dai servi). Fu il primo tentativo di porre fine alle vendette
individuali e di valorizzare l’individuo in quanto persona. Era tuttavia una legge stabilita dal
sovrano e quindi di derivazione divina che teneva conto del ruolo sociale stabilito dall’ordine
politico aristocratico per ogni persona.
Anche nell’antica Grecia il rapporto tra legge e governo è al centro della riflessione dei grandi
filosofi (sia Platone che Aristotele vedono l aprima come strumento per definire i compiti e i limiti
del secondo). Accanto alla legge vi sono tuttavia principi morali che devono giudicare il
comportamento degli uomini e di questi sono portatrici soprattutto le religioni.
Il ruolo della chiesa è fondamentale per scardinare le gerarchie e offrire la visione di una
comunità più universale, rivolta a tutti. È grazie alla nuova istituzione della chiesa che i principi
filosofici greci e romani riescono a trovare una diffusione e un radicamento sociale. La chiesa
cristiana primitiva costituisce un terreno in cui si forma un’etica fondata su valori universali che
non può coincidere con alcun regime politico (ne prende le distanze e resiste alle pretese
assolutistiche degli stati nella sua prima fase di esistenza).
Gli studiosi che si sono soffermati sulle origini storiche dei diritti umani nel Medioevo hanno
ritenuto che si potessero individuare tra il XIV e il XV secolo; alcuni sostengono invece una
continuità con la teoria dei diritti naturali di più lunga tradizione. Si è discusso a lungo se sia
possibile individuare in Tommaso (dignitas humana, capacità autonoma di scelta morale) una
dottrina medievale dei diritti naturali. Si, ma solo se si assumono i diritti naturali come equivalenti
ai doveri naturali.
La coincidenza cronologica tra il quarto concilio Laterano e la concessione della Magna Charta
Libertatum (1215) mostra come il rapporto tra politica e religione dovesse ormai fare i conti con la
questione di quale autorità dovesse prevalere e come si dovesse rispondere alla richiesta di
riconoscimento dei diritti di libertà e di conseguenza alla limitazione del potere del sovrano.
I diritti di questo periodo sono ancora di carattere corporativo, riguardano gruppi e non individui
(sono i baroni i destinatari della prima rinuncia regia ad alcuni diritti; divieti e garanzie nei
confronti degli abusi del sovrano). L’attribuzione a una legge fondamentale degli obiettivi politici
ritenuti preminenti per l’epoca (pace, libertà, diritto) coinvolge ogni gruppo sociale e pone le
premesse per la nascita dello stato moderno.
5. Umanesimo e Rinascimento
Il rapporto tra diritto e politica si configura in modo più chiaro dal Duecento fino alla nascita e
all’affermarsi dello stato moderno tra il XV e il XVII secolo.
Sono Toscana e Lombardia divenute repubbliche indipendenti a formalizzare in costituzioni scritte i
propri sistemi di autogoverno e il funzionamento della giustizia. I comuni sentono la necessità di
legittimare la propria autonomia nei confronti dell’impero (questa rivendicazione è la base di
quell’ideologia civica tramandata da Seneca e riproposta poi da Macchiavelli)
L’obiettivo dei trattati sul governo cittadino riguardava il come raggiungere la concordia civile e
come anteporre il bene comune agli egoismi dei singoli.
Il contributo più memorabile al dibattito sugli ideali e le forme dell’autogoverno repubblicano fu
quello di Ambrogio Lorenzetti. In quella rappresentazione si sente l’influenza di Seneca e Cicerone.
Nel dipinto la pace occupa il posto centrale, ed insieme alla giustizia (capacità di correggere le
condizioni di ingiustizia e disuguaglianza) assumono il ruolo centrale.
La costituzione senese stabilisce che i Nove debbano agire come prescrive la Costituzione; è questa
concezione inedita di cittadinanza che sfocia più tardi nell’umanesimo civico del Rinascimento.
Anche Petrarca considera obiettivo di ogni buon governo il fare in modo che ogni cittadino viva
libero e sicuro. Solo il potere vincolante e ferreo della legge può contrastare i vizi cui i cittadini
lasciati liberi si abbandonerebbero: tra le leggi sono le costituzioni che assicurano un governo
equilibrato.
Siamo ormai alla teorizzazione del realismo, all’identificazione del principe virtuoso.
Questa riflessione sulla fonte del potere e sull’autogoverno comunale che si sviluppa tra il XIII e il
XV secolo va di pari passo con quella sui diritti naturali. È Guglielmo di Ockham a essere ritenuto
il
padre della teoria dei diritti naturali, legati alla persona ai quali non può rinunciare ma può scegliere
di non esercitarli, protezione tutti i cittadini della società. Il diritto canonico del XIII sec. Aveva
sviluppato il concetto di ius naturae, intravedendone una sfera di diritti fondata sulla legge morale
naturale, concependo le persone come libere, dotate di ragione, discernimento morale e lagmi di
giustizia e carità che legano un individuo all’altro.
Il dibattito interno alla chiesa, culminato con il concilio di Costanza del 1415, cerca di fare i conti
con l’autorità papale ma anche con la diffusione di movimenti ereticali, capaci di collegarsi al
sorgere di nazionalismi cristiani. È in questo ambito che diventa fondamentale una legge morale
universale per tutti. Tale concilio non riuscì a raggiungere gli obiettivi prefissati. Nemmeno la
Chiesa riesce a bloccare le divisioni nazionali, contrasto tra comuni, signori, assemblee e i corpi
intermedi non favorisce la prospettiva universalistica di una sola istituzione. La lotta per la libertà
religiosa, conseguenza più significativa alla base dello scontro Lutero-Calvino-Chiesa è stata
definita come l’origine dei diritti naturali e di quelli umani. Maggiore attenzione è posta dalla
Riforma sull’individualismo, autonomia, responsabilità, ponendo l’uomo al centro sottraendolo alla
subordinazione di Dio. Quindi la Riforma accentua il dovere di obbedienza nei confronti
dell’autorità ma riconosce obblighi reciproci tra cittadini e potere. All’indomani della Riforma
scoppia in Germania una guerra civile contadina. Le libertà rivendicate sono particolari:
eleggere/destituire pastori da parte della comunità religiosa o di emigrare. Tale periodo si
concluderà con la pace di Westfalia, in cui le persone potranno avere il diritto di abbandonare il
paese, nel 1648.
6. La conquista e l’uguaglianza
Il 1492 è sia l’anno della scoperta America, ma anche l’anno della vittoria cristiana sugli arabi a
Granada e della cacciata ebrei. È dunque una data chiave per l’identità europea, per i suoi rapporti
col mondo non cristiano, per mettere alla prova la portata universale del cristianesimo.
In Spagna la cultura araba ha rappresentato un momento di rinnovamento della scienza e della
filosofia che a partire dal IX-Xsec. si è diffuso in Europa dal Medio Oriente.
Alla giustificazione religiosa si aggiunge la purezza razziale. Ecco la doppia appartenenza che
serve da legittimazione alla conquista dell’America: Colombo e Cortés simboli questa duplice
identità. Colombo, religiosissimo voleva portare il cristianesimo ai popoli che non lo conoscevano,
il secondo si muove con logica militare spietata dell’epoca a cui si aggiungeva il disprezzo per i
‘barbari’.
Qui interviene Todorov il quale affronta il problema “dell’altro” in base agli avvenimenti della
Conquista: si chiede come Colombo possa essere associato a due miti cpntraddittori (quello
dell’altro come buon selvaggio e quello dell’altro come uno schiavo). Entrambi si fondano però su
un disconoscimento degli indiani e sul rifiuto di considerarli soggetti aventi diritti a tutti gli
effetti.
La difficoltà di riconoscere una diversità forte senza fare appello a una concezione gerarchica è
parte del contesto culturale dell’epoca (ideologia di dominazione alla base che è destinata prima
o poi a entrare in conflitto con la cultura dei diritti umani).
Ed è proprio attorno ai risultati della Conquista, che nella Spagna del ‘500 si sviluppa una
discussione e una riflessione teologica intorno al problema dell’uguaglianza e ineguaglianza di tutti
gli uomini
Per alcuni non era concepibile una uguaglianza tra spagnoli e indiani d’America come sostenuta ad
esempio da Bartolomé de las Casas (riflessione fondata sui principi di una dottrina fortemente
ugualitaria). Las Casas si contrappone a de Sepulveda che sosteneva la liceità della guerra contro gli
indiani (si richiamava alla Politica di Aristotele e alla distinzione tra nati liberi e schiavi per natura)
e che fosse legittimo assoggettare gli inferiori, combattere il cannibalismo e promuovere con mezzi
militari la diffusione del cristianesimo tra gli indigeni (la giustificazione teologica del massacro
contrappone il bene comune della società al diritto dei singoli individui). Quello di las Casas è un
cristianesimo in cui invece la morte non è giustificata dalla salvezza, ma risulta un peccato mortale.
9. Diritti e rivoluzione
Nel 1679 Locke inizia a scrivere Secondo trattato sul governo, dove compendia l’idea dello stato di
natura e la teoria politica che ne fa conseguire. Nello stesso anno viene promulgato l’Habeas
Corpus Act che riprende in termini moderni la tutela e le garanzie concesse in caso di arresto e di un
procedimento penale. Dieci anni dopo l’Habeas Corpus Act segue il Bill of Rights, momento
conclusivo della gloriosa rivoluzione (a cui si devono i fondamentali principi riformatori che si
sarebbero trovati in ogni costituzione o dichiarazione dei diritti): i principi di una monarchia
limitata e soggetta al parlamento, della certezza e imparzialità della legge e della sicurezza della
proprietà, di libere elezioni, libertà di parola e giusto processo.
Tra coloro che che rafforzano il legame fra rivendicazione della tolleranza religiosa e richiesta dei
diritti civili vi fu il poeta John Milton. Egli proclamò il diritto dell’uomo all’autodeterminazione,
importanza della tutela del diritto del singolo quanto quelli del bene della collettività.
Sempre nel corso della rivoluzione inglese, anche Hobbes si interroga sui diritti naturali. La
differenza fra i due risiede nel tipo di patto o contratto che Hobbes pensa sia stato stabilito da ogni
uomo con tutti gli altri. Lo stato contrattualista si trasforma così in Hobbes, in uno stato assoluto
dove al sovrano è concessa ogni autorità anche se gli spetta la tutela dei diritti dei cittadini che si
possono sentire svincolati dal patto in caso di inadempienza del re. I diritti naturali non sono
inalienabili come pensavano Milton o Grotius, ma bisogna affidarli ad altri da sé per poter entrare a
far parte nella società. ed è proprio su questa visione individualistica dei diritti che insisterà Locke il
quale parla di una legge naturale vincolante anche dopo la formazione del contratto sociale.
I mutamenti sociali che accompagnano l’ascesa della piccola nobiltà e borghesia rurale, della gentry
e quelli culturali rappresentano le coordinate entro cui si concretizzano le teorie dei diritti
sviluppatesi nel corso del ‘600.
CAPITOLO II
La scoperta dei diritti
1. La difesa del corpo
Cesare Beccaria pubblica nel 1764 dei “Diritti e delle pene”, contributo più alto
dell’Illuminismo lombardo, forse unico libro italiano da poter essere affiancato alle opere di
Voltaire e degli illuministi francesi. Il sistema giuridico europeo del ‘700 risultava essere ancora
repressivo, intriso di arbitrio e barbarie. La privazione della libertà individuale avviene spesso
su prove poco solide. La punizione dei colpevoli è uno spettacolo pubblico cruento, in cui
l’eccesso di violenza magnifica la potenza della giustizia. L’Habeas corpus (la garanzia da arresti
arbitrari, di essere giudicato da un tribunale di pari e in base a leggi certe) risulta ancora
praticamente inapplicato in Europa continentale e disatteso anche nell’Inghilterra dove è nato. Ed è
proprio contro i meccanismi del sistema giudiziario, della legge, contro gli abusi che Beccaria
scrive il suo piccolo trattato. Questo testo non è una riflessione teorica, ma una critica sistematica
del sistema giustizia di metà ‘700. La legge per lui deve garantire la libertà e la sicurezza al
maggior numero di persone. Tutto questo nella convinzione che il potere deve realizzare
l’interesse comune, ossia la ricerca pubblica della felicità.
La punizione per chi commette crimini non può dunque avere un carattere vendicativo, il suo
obiettivo dovrebbe essere quello di prevenire crimini ulteriori. La sua funzione deterrente e la sua
efficacia non aumentano all’aumentare del grado di violenza e terrore, ma in base alla sua certezza,
ineluttabilità e rapidità con la quale si affligge. È in questo contesto che egli affronta le questioni
della tortura e della pena di morte: meglio prevenire, puntare alla educazione che alla repressione.
4. La rivoluzione americana
La dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776, ratificata a Filadelfia, inizia con un forte
richiamo ai diritti dell’uomo e alla necessità di legittimità della rivoluzione contro la corona inglese
da parte dei coloni.
Rivendicare come evidente l’uguaglianza di tutti gli uomini significava iniziare una lotta a oltranza
contro coloro che non accettavano una verità auto evidente. Alla base della Dichiarazione è presente
la teoria dei diritti naturali. Questi diritti inalienabili si riferivano ad ogni persona appartenente
alla società. Tra il 1689 e il 1776 diritti che erano stati ritenuti il più delle volte come diritti di gente
vennero trasformati in diritti umani e in diritti naturali e universali. Jefferson scriveva che i dirtti
naturali sono quelli per cui la protezione si è formata la società e si sono stabilite le leggi
municipali.
5. Dalla dichiarazione d’indipendenza alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
La crescente diffusione dei diritti influenzata dalla cultura illuminista è alla base dell’accelerazione
nella pratica di trasformazione in leggi di questi stessi diritti. Proprio nella rivoluzione americana vi
era stato un passaggio rapido da una visione particolaristica dei diritti a una universalistica
(diritto dei coloni in quanto uomini e persone). A permettere questo rapido passaggio fu la
diffusione delle idee illuministe sull’esistenza e difesa dei diritti naturali. L’ingresso di ciascuno
nello stato attraverso qualche forma di contratto sociale non poteva che significare la rinuncia alla
propria unica volontà come criterio di libertà (intervento Jeremy Bentham con la sua idea di
utilitarismo in cui l’obiettivo maggiore era la più grande felicità per il maggior numero). Proprio
l’antagonismo filosofico e giuridico attorno ai diritti naturali spiega in parte il passaggio sempre più
frequente alla locuzione “diritti dell’umanità” o “diritti dell’uomo” come superamento di quella di
“diritti naturali”.
L’attenzione per i diritti dell’uomo legava ormai le due sponde dell’Atlantico: questo spiega
l’enorme interesse per la rivoluzione americana in Europa e il gran numero di americani che
parteciparono alle vicende che portarono alla rivoluzione francese e alla Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino.
In Francia, il re Luigi XVI ordinò la convocazione degli stati generali nel 1789 (situazione di forte
crisi economica). In preparazione di questi i tre stati dovevano riassumere nei cahiers de doleance i
problemi più urgenti da risolvere. All’interno di questi ci furono molte richieste relative ai diritti
dell’uomo. Il 26 agosto 1789 l’Assemblea costituente approvò la Declaration des droits de
l’homme e du citoyen.
6. Diritti dell’uomo
Nei diciassette articoli della Dichiarazione dei diritti erano condensati i principi e i valori che la
nuova cultura del Sei e Settecento aveva fatto emergere sotto l’impulso del giusnaturalismo e
dell’illuminismo poi. Le teorie sull’uguaglianza presenti nelle riflessioni sul contratto sociale
aprivano la strada a un nuovo rapporto con i cittadini: la dichiarazione rivendica il principio di
uguaglianza e indica i “diritti imprescrittibili dell’uomo” nella libertà, nella proprietà, sicurezza e
resistenza all’oppressione. L’era delle rivoluzioni sembrava essere giunta a un punto di non ritorno,
in cui il linguaggio dei diritti aveva trovato ormai una collocazione e un ruolo senza possibilità di
ritorno al passato.
Ad avere il privilegio di essere protagonisti di entrambe le rivoluzioni furono il marchese Lafayette
e Tom Paine il quale scrive una riflessione sulla rivoluzione francese che diventerà poi un libro in
due parti “The rights of Man” (1791) destinato ad un grande successo per l’epoca. Paine insiste sui
diritti civili che formano il cuore della sua difesa della rivoluzione francese si basano
sull’assunzione che precede la formazione dei governi: l’esistenza di diritti naturali
all’uguaglianza e alla libertà. Sono poi i governi che possono rendere concreti quei diritti naturali
facendoli diventare diritti civili, inattaccabili da ogni tentazione dispotica attraverso una
costituzione scritta che protegga tutti i cittadini e una dinamica parlamentare che garantisca la
rappresentanza di ogni parte sociale.
Se i cittadini hanno diritti, i governi hanno doveri nei loro confronti: è il ribaltamento tra i doveri
dei sudditi e i diritti dei sovrani che caratterizzavano il mondo prima dell’epoca delle rivoluzioni. Il
libro di Paine suscita scalpore, offensiva senza precedenti, descritta come un attacco alla nobiltà
ereditaria, che punta alla distruzione della monarchia e della religione e totale sovversione delle
forme riconosciute di governo. Viene costretto all’esilio da Dover per la Francia.
7. Terrore e diritti
La Convenzione si riunisce per la prima volta il 20 settembre e dopo due giorni proclama la
Repubblica. Inizio lavori per redigere una nuova costituzione, ma si evidenziano le sue incapacità di
giungere alla sua creazione. Il re di Francia, Luigi XVI viene condannato alla ghigliottina (Paine
aveva proposto invece un esilio negli Stati Uniti). La rivoluzione inizia a prendere una strada
diversa da quella auspicata da Paine (la ghigliottina diviene presto il simbolo della spietata logica
della rivoluzione). Nelle temperie della nuova fase rivoluzionaria Paine s’immerge nuovamente
nella scrittura e scrive nel 1794 “The age of Reason” che riguardava la religione, secondo cui ogni
cittadino doveva essere libero di scegliere il proprio credo religioso.
Ancora più complessa, rispetto alla dinamica della questione religiosa, fu l’andamento delle
problematiche relative ai diritti di genere e a quelli degli schiavi: quando la Francia concesse il
diritto di voto a tutti gli uomini nel 1792, le donne, gli schiavi, i servi e i disoccupati erano ancora
privati dei diritti naturali.
CAPITOLO III
Le regole umanitarie
1. Toussaint e l’indipendenza degli schiavi
Il 22 agosto 1791 nell’isola di Saint-Domingue, principlae colonia francese, inizia la ribellione degli
schiavi. Pochi giorni prima che si approvasse la Costituzione del 1791, la rivoluzione francese si
trova ad affrontare un problema inatteso: la rivolta di decine di migliaia di schiavi, spinti ad agire
dalle voci che provenivano da Parigi dopo la presa della Bastiglia e la proclamazione della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Si trattava in realtà di una nuova rivoluzione come la definirà
Cyril James nel 1938.
Questi schiavi trovarono presto la loro guida in Toussaint Louverture, uno schiavo reso libero
alcuni anni prima. Sono questi schiavi a innalzare la bandiera della libertà e dell’uguaglianza,
scontrandosi con la Francia rivoluzionaria che vive su questo terreno una delle sue più gravi
contraddizioni.
Sonthonax viene inviato come mmissario nell’isola per riprendere il controllo della situazione, ma
presto si convince dell’impossibilità di ripristinare l’ordine sull’isola e proclama di sua iniziativa
nel 1793, la fine dello schiavismo nell’isola. Il 4 febbraio 1794, la Convenzione vota all’unanimità
la liberazione degli schiavi in tutte le colonie francesi, sancendo l’abolizione della schiavitù per la
prima volta da parte di uno stato europeo. Sarà poi Napoleone a restaurare lo schiavismo e la
tratta degli schiavi e toglie ai mulatti i diritti di uguaglianza che la rivoluzione francese aveva loro
portato.
3. Nazioni e nazionalismi
Il legame con la propria terra rappresenta all’inizio del XIX secolo la faccia emotiva e passionale
dell’ideale politico liberale dello stato-nazione. L’identità nazionale riassume il sentimento
collettivo di chi contrappone il popolo alla dinastia in nome di un nazionalismo civico e dei diritti
dei cittadini.
La nazione è la moderna declinazione del concetto di patria, è la rivendicazione dell’intreccio
dell’unità territoriale con l’unità politica, il mutamento delle comunità nell’epoca delle grandi
trasformazioni economiche, sociali e culturali dell'incipiente capitalismo. La nazione diventa
l’obiettivo primario e riconosciuto della politica internazionale del XIX secolo, ma anche il
terreno in cui la massa viene trasformata in individui appartenenti alla nazione e viene
accompagnata nel suo passaggio, culturale ancora prima che quello sociale, da contadini a cittadini.
I diritti dell’uomo si incarnano nella sua libertà individuale e di uguaglianza di fronte alla legge,
quelli del cittadino riguardavano i diritti politici e l’appartenenza alla nazione; se ogni uomo ha
diritto a una nazione, ogni nazione ha diritto di esistere, separandosi dalle entità statuali che le
negano questa possibilità. Tra il 1810 e il 1830 quasi tutti i paesi dell’America Latina conquistano
l’indipendenza, liberandosi dal dominio coloniale di Spagna e Portogallo. La popolazione locale
recepisce positivamente gli echi dell’indipendenza americana e della rivoluzione francese e
approfitta nel 1808 dell’invasione della Spagna da parte di Napoleone per dare inizio alla propria
guerra di liberazione.
Sotto la guida di Simon Bolivar, Francisco Santander, Josè de San Martin etc., proclamano
l’indipendenza nel 1816 dando inizio ad una battaglia complessa contro gli spagnoli.
Analogia tra individuo e nazione, tra i diritti della persona e quelli di una collettività che si sente
unita da un’identità comune. Gli imperi multinazionali devono affrontare la questione delle
nazionalità con difficoltà crescenti proprio perché agli ideali di libertà civica ed economica si
affiancano adesso quelli della libertà politica e indipendenza che le rivoluzioni francese e
americana hanno diffuso in tutto il mondo. A intrecciare in modo compiuto la lotta per la libertà con
quella dell’indipendenza,
sono le rivoluzioni che avvengono nel 1848 (chiamate anche “primavera dei popoli”).
Diversamente da quanto avvenuto in America Latina, le rivolte europee del 1848 finiscono tutte con
una sconfitta a cui sembra seguire l’inizio di una nuova restaurazione. Tuttavia nei decenni
successivi, la spinta dell’indipendenza nazionale prende il sopravvento in Germania e Italia, mentre
riforme costituzionali si affermano in numerosi paesi europei. In questo momento della primavera
dei popoli, vede la luce un libello che anticipa i temi previsti da Marx, Il Manifesto del partito
comunista e di Egels e viene firmato il documento che segna la nascita dei movimenti femministi.
4. La Dichiarazione di Seneca Falls
Alla fine 1848, mentre l’Europa era in lotta, negli Stati Uniti aveva luogo a Seneca Falls, il primo
congresso dei diritti delle donne. Negli anni trenta e quaranta nascono diverse associazioni e
organizzazioni che individuano gli obiettivi concreti da raggiungere attraverso la mobilitazione, la
propaganda e l’azione politica. Diverse di queste associazioni vendono una forte partecipazione
delle donne, richiesta di maggiore riconoscimento dell’uguaglianza tra i sessi. È però forte il timore
che la messa in discussione dello status quo tra i generi possa innescare conflitti e trasformazioni
sociali contradditorie con la società emersa dal raggiungimento dell’indipendenza (in questi anni
nessuno mette in discussione il diritto delle donne ad avere diritti). Entrambi possiedono diritti,
anche se a uomini e donne vengono riconosciuti diritti diversi: tra i real rights delle donne ci sono
la cura dei figli e del marito, ma non ancora la libertà politica e l’autonomia personale. Le donne
volevano invece avere accesso anche a quei diritti esterni alla sfera domestica. La negazione diritti
politici donne rappresenta uno dei limiti di attuazione che l’America post-rivoluzionaria pone alla
cultura dei diritti, in quanto si tratta di un’esclusione dovuta a una radicata discriminazione di
genere, cioè l’inferiorità della donna rispetto all’uomo (divisione sessuata dei diritti umani).
L’incontro di Seneca Falls nasce durante il congresso mondiale per la schiavitù. Viene firmato il
Declaration of Sentiments (che nella prima parte echeggia la Declaration of Indipendence del 1776).
La parte più rilevante della Dichiarazione (che di fatto è divenuto il primo documento femminista) è
quella che riguarda “l’immediata ammissione a tutti i diritti e i privilegi che appartengono loro
come cittadini di questi Stati Uniti”. Per alcuni il documento rappresenta l’evento più innaturale e
scioccante mai registrato nella storia delle donne, una base per conquistare i diritti sociali, politici,
civili e religiosi delle donne.
9. Allontanare la guerra
Il XIX secolo si trova ad affrontare le concrete riforme che dovrebbero rendere effettivi ed attuali i
vari diritti (portati dalla stagione rivoluzionaria di fine ‘700), misurandone le difficoltà e le
opposizioni. L’affermazione dell’uguaglianza naturale tra le persone è alla base delle
rivendicazioni politiche sulla fine della schiavitù, sui diritti delle donne, sui bisogni dei civili e sulle
vittime in tempo di guerra per ottenere una protezione adeguata.
Vi è ancora una marcata difficoltà a prendere in considerazione i diversi diritti e tentare di
comprenderli globalmente per poi inserirli in un unico disegno politico. Il grande tentativo
universalistico di questo periodo è quello del socialismo che di fatto subordina a una rivoluzione
politica e sociale la possibilità di soddisfare i valori di libertà, fraternità e uguaglianza che la
rivoluzione francese aveva imposto all’attenzione del mondo intero.
Per Marx la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 consacrava i diritti del borghese,
dell’uomo proprietario separato e isolato dalla maggioranza degli uomini (i proletari) che restavano
schiavi sul terreno sociale ed economico malgrado l’apparente uguaglianza sul versante politico e
civile.
Questa critica marxista non coglieva l’aspetto essenziale della proclamazione dei diritti: essi erano
l’espressione della richiesta di limiti allo strapotere dello stato, una richiesta che se nel momento in
cui fu fatta poteva giovare alla classe borghese, conservava un valore universale. Contrapporre a
una visione considerata individualistica una concezione collettiva dei diritti rischia di riproporre
una concezione organicistica secondo cui la società è antecedente e più significativa degli
individui.
Il disinteresse del movimento socialista e operaio ad assumere come prioritaria la battaglia dei diritti
delle donne è certamente legato alla visione prevalentemente economica e di classe del processo di
emancipazione del lavoro (le donne erano individui appartenenti a un genere di minore importanza
nel processo produttivo). Oltre a ciò vanno ascritte a questa incomprensione nei confronti dei diritti
delle donne anche le caratteristiche storiche dell’epoca (ruolo naturale della donna all’interno
della famiglia, la sua debolezza e fragilità etc.)
I conflitti che agitano il XIX secolo non sono soltanto quelli sociali legati al progredire
dell’industrializzazione, quelli politici che avevano rivoluzionato l’Europa, quelli civili che avevano
sconvolto gli USA: sono anche conflitti internazionali tra stati e guerre di espansione e
possesso nelle colonie di Africa e Asia. Gli anni ‘70 si sono aperti con la guerra franco-prussiana,
l’unificazione tedesca attorno alla Prussia e il conflitto russo-ottomano.
Prosegue il processo di colonizzazione che vede confrontarsi in Africa le ambizioni dei principali
stati europei, spartendo di fatto l’Africa secondo una mappa geopolitica che prelude alla conquista
europea: alla Francia viene concesso il controllo sull’Africa occidentale, alla GB quella dell’Africa
meridionale (conferenza di Berlino 1884-5). Nel 1899 ha luogo una conferenza all’Aja promossa
dallo zar Alessandro II per discutere sulle possibili misure di disarmo, il mantenimento della pace e
la regolamentazione della guerra riprendendo su questo terreno la conferenza di Bruxelles del 1874.
La clausola Martens (le popolazioni civili e gli eserciti belligeranti rimangono sotto la protezione
dei principi del diritto delle genti) mette in grado i Regolamenti dell’Aja di venire proiettati nel XX
secolo con qualche potere di contenere le peggiori violenze e inumanità della guerra.
CAPITOLO IV
I principi e la realtà
1. La gerarchia delle razze
La fine della tratta e poi della schiavitù sembra aver diffuso nel XIX secolo l’idea generale
dell’uguaglianza degli uomini. In realtà, si fa strada una nuova concezione di differenza, di
gerarchia di civilizzazione che riguarda le razze (intese come gruppi di individui appartenenti a
popolazioni omogenee caratterizzate da elementi esteriori facilmente riconoscibili come pelle,
capelli, grandezza naso ecc). Con la conquista del Nuovo Mondo si rafforza l’idea di popoli arretrati
e intrinsecamente diversi, i cui territori meritano di essere conquistati e cristianizzati. È solo nel
XIX secolo che l’idea seicentesca della purezza della razza viene inserita in un discorso che trova
nelle nuove scoperte scientifiche il perno della propria legittimazione. È nella parte conclusiva di
questo secolo che si concretizza il paradosso dell’Occidente, cioè la sua capacità di produrre degli
universali e di erigerli al rango di assoluti, di violare un affascinante spirito di sistema i principi che
traccia e avvertire la necessità di elaborare le giustificazioni teoriche di queste violazioni.
L’idea di razza è il risultato di un particolare contesto storico in cui si intrecciano le influenze di
una cultura alta e la sua semplificazione come senso comune. Inoltre l’inizio del XX secolo
coincide con il raggiungimento del limite dell’espansione coloniale e con la convinzione della
necessità e dell’utilità di mantenere o costruire un impero. L’impero coincide con la coscienza, da
part europea della propria forza ma anche della propria missione
Il socialdarwinismo diventa il cardine della cultura popolare e degli stereotipi che la sorreggono. La
sopravvivenza del più adatto, la lotta per l’esistenza, la minaccia di estinzione e il prevalere del più
forte sono alcuni dei concetti attribuiti a Darwin anche se in realtà appartengono a Spencer.
L’antagonismo tra individuo e massa, l’irriducibilità del primo alla seconda ma al tempo stesso la
sua trasformazione psicologica ne diviene parte, sono elementi centrali nel dibattito.
L’idea della scienza come consapevole controllo della società da parte delle élite si esprime
attraverso l’eugenetica egualitaria, una sorta di darwinismo capovolto: attraverso la selezione
sociale lo stato deve supplire a quello che la selezione naturale non può più attuare, la soppressione
dei meno adatti e degli ostacoli dell'evoluzione. È l’idea di razza che crea i presupposti per
l’eliminazione o l’emarginazione di chi è fuori della “norma”. La deriva razzista e nazionalista del
socialdarwinismo non riguarda soltanto i paesi che l’Occidente ha conquistato e colonizzato. Essa si
trova anche in Europa, sembrando ostacolare il progresso della cultura dei diritti. Due casi
clamorosi, uno in Francia e l’altro in Germania, mostrano il crescente peso del pregiudizio.
L’affaire Dreyfus che scoppia in Francia nel 1894, simbolo di come l’antisemitismo possa diventare
un’importante arma politica ed ideologica. Il secondo caso è quello del processo di Oscar Wilde
accusato di gross indecency per una relazione omossessuale, condannato a due anni di lavori forzati
e ostracizzato.
8. Il trattato di pace
Quando inizia la conferenza di pace di Parigi ai tanti morti sui campi di battaglia si aggiungono
anche i circa venti milioni dell’influenza spagnola. Anche se il concetto di diritti umani non fu mai
menzionato alla conferenza di pace e neppure nel patto della società delle nazioni, le speranze che
accompagnavano quell’incontro internazionale erano assai elevate.
La conferenza di Parigi aveva istituito una commissione sulle responsabilità degli autori della
guerra e sull’imposizione delle condanne. La conclusione unanime della Commissione fu che la
Germania andava ritenuta responsabile per aver iniziato il conflitto e che Turchia e Bulgaria
attraverso modelli illegali avevano violato le leggi e i principi di umanità (violenze contro gli
armeni). Per trovare un riferimento giuridico si fece riferimento alla Convenzione dell’Aja del 1907
(e alla clausola Martens che permetteva di punire anche se la specifica azione criminale non era tra
quelle enumerate dal trattato) che permetteva di perseguire le violazioni di leggi esistenti tra i
popoli civili o le leggi dell’umanità.
Dunque il tentativo di creare una corte internazionale di giustizia penale per punire i capi politici e
militari degli imperi centrali si fondava sull’assunto che fossero state violate le Convenzioni
dell’Aja del 1899 e 1907. Fu l’intransigenza americana a impedire la creazione di un tribunale
internazionale: la convinzione espressa dal segretario di stato Robert Lansing era che dei crimini di
guerra si dovevano occupare i tribunali militari dei singoli stati. Il veto USA bloccò inizialmente i
lavori della Commissione, ma successivamente lo stesso Wilson sembrò essere favorevole.
Uno degli argomenti più scottanti della conferenza di Parigi è quello dell’autodeterminazione. Il
diritto all’indipendenza garantito a ogni popolo e la possibilità di scegliere liberamente il proprio
regime politico mettevano in discussione non solo gli stati sconfitti, ma le stesse potenze vincitrici
nei confronti dei popoli delle loro colonie.
Convinto che il Senato non avrebbe mai approvato un trattato contenente un articolo
sull’uguaglianza razziale, egli forza la commissione sulla Società delle Nazioni di cui è presidente e
dichiara la proposta bocciata perché non approvata all’unanimità. In questo modo egli diventa il
bersaglio della critica feroce di chi si batte negli USA per i diritti umani. Nell’estate dello stesso
anno la reazione al comportamento di Wilson accentua e radicalizza le rivolte razziali che vedono
scontri fra bianchi e neri in un contesto di crisi sociale.
CAPITOLO V
Dalle tenebre alla luce
1. Vivere e sopravvivere nella grande crisi
Ciò che colpisce degli effetti della grande crisi, iniziata nell’ottobre del 1929, è l’improvviso e
radicale indietreggiamento delle regioni più ricche e avanzate del mondo sospinte verso una povertà
che ricorda l’epoca della prima industrializzazione (i più elementari diritti sociali sono messi in
discussione e lo stesso diritto alla vita e di esistenza dignitosa diventa più una speranza che una
certezza). La disoccupazione è il segnale più macroscopico e terribile della crisi in atto.
Questo improvviso ritorno a condizioni di vita arretrate, è accompagnato in molti casi a un
regresso sul terreno dei diritti individuali e collettivi (che avviene nella legalità, ma che è
accompagnato a nuove forme da intimidazioni o violenza diffusa).
Il caso più emblematico è quello del fascismo italiano, salito al potere alla fine del 1922. La
risposta fascista alla lunga crisi politica e parlamentare riesce ad avere successo. Il paradosso della
vittoria fascista è che i diritti più rilevanti conquistati in precedenza (otto ore lavorative,
suffragio maschile) non hanno portato a una maggiore stabilità e che a emergere come forza di
governo è proprio il partito che abolirà i diritti principali ottenuti negli ultimi cento anni. Le
preoccupate previsioni sui pericoli della società e della democrazia di massa (fatte da pensatori
come de Tocqueville) sembrano trovare una conferma nel momento in cui la partecipazione di
massa alla sfera pubblica diventa realtà (perché essa non si risolve unicamente nel momento del
voto). Così in Italia nessuno aveva creduto che il fascismo costituisse un pericolo, allo stesso modo
Hitler in Germania.
Nei due paesi le costituzioni vigenti sono assai diverse: in Italia c’è lo Statuto Albertino, in
Germania la costituzione di Weimar, eppure nessuna delle due riesce ad ostacolare l’ascesa al
potere di forze che hanno come obiettivo la distruzione della democrazia e dei diritti politici
come primo e fondamentale obiettivo.
Anche i paesi di nuova indipendenza hanno difficoltà nel far funzionare i nuovi diritti acquisiti sul
terreno politico e civile. In molti di questi paesi (Polonia, Romania ad ex.) i diritti delle
minoranze, per quanto sanciti nelle leggi fondamentali, diventano progressivamente inesistenti o
vengono fortemente ridimensionati. Le donne sembrano migliorare la propria presenza pubblica
nel primo dopoguerra. Ottengono in molti stati Europei il diritto di voto, nel 1919.
Negli USA, la questione razziale si coniuga con quella dell’immigrazione. Dal 1930 al 1934 si
conoscono negli stati del Sud oltre cento casi di linciaggio.
2. Dentro le colonie
È all’interno del raj britannico che si assiste nel periodo fra le due guerre alla più intensa
mobilitazione contro il potere coloniale. Già al termine del primo conflitto mondiale si erano diffuse
proteste contro il rinnovo del Defense of India Act (una legge d’emergenza adottata in tempo di
guerra). La nuova mobilitazione di deve soprattutto al partito del congresso e alla sua figura di
maggiore spicco Gandhi che riesce a propagandare una forma di lotta non violenta.
La protesta che si diffonde nei primi anni ‘20 in seguito al massacro di Amritsar ha le caratteristiche
di una disobbedienza civile basata sul desiderio di emancipazione economica. Obiettivo della lotta
diventa il nuovo Government of India Act nel 1921: rifiuto di pagare le tasse, boicottaggio alle
istituzioni locali. Disordini raziali, proseguono nella seconda metà degli anni ’20 tra hindu e
musulmani, intrecciandosi con il contrasto di classe tra contadini poveri e proprietari terrieri.
In Africa e Medio Oriente il colonialismo francese e britannico si muovono per consolidare le
posizioni e di accentuare l’egemonia economica. In Africa però il nazionalismo non attecchisce
come negli stessi stati in India perché le unità amministrative e politiche e gli stessi confini degli
stati sono delle invenzioni dei paesi coloniali, imposte spesso senza alcun rispetto né per la
morfologia né per le differenze etniche e culturali. In questa fase i leader locali puntano ad ottenere
il massimo possibile dalle potenze coloniali per le proprie tribù, concedendo le terre ai coloni e
garantendo lo sfruttamento delle ricchezze esistenti.
L’episodio più rilevante che ha luogo in Africa nel periodo tra le due guerre è la fine
dell’indipendenza dell’ultimo territorio libero del continente (ad eccezione della Liberia), ossia
l’Etiopia. Il regime fascista ha già riconquistato la Somalia (1924-5) e la Libia (1928-31) e nel ‘32
si prepara all’avventura etiopica. La guerra di conquista dell’Italia avviene tramite l’impiego di gas
nervini, bombe e (quasi) una guerra batteriologica nonostante essa fosse tra i firmatari della terza
Convenzione di Ginevra nel 1925, accanto ai diritti dei prigionieri di guerra.
La condanna dell’Italia da parte della Società delle Nazioni nel 1935, malgrado le sanzioni
economiche non indebolisce per nulla la violenza fascista. La credibilità della società delle
nazioni conosce una nuova disfatta. Anche durante la guerra civile spagnola vengono perpetrate
atrocità e violenze da una parte e dall’altra degli schieramenti (soprattutto da parte dei ribelli).
Episodio significativo fu il bombardamento della cittadina di Guernica che viene completamente
distrutta.
6. Le quattro libertà
Il sei Gennaio 1941, undici mesi prima di Pearl Harbour, Roosevelt in un suo discorso (poi
diventato famoso come quello delle ‘quattro libertà’) mette in luce quattro libertà essenziali da
mettere in atto per il futuro: libertà di parola e di espressione, libertà di ogni persona di pregare
Dio nel modo che crede, libertà dal bisogno (benessere in termini economici) e libertà dalla paura
(riduzione degli armamenti in tutto il mondo), con l’obiettivo di ridurre il numero dei diritti
calpestati in tutto il mondo e la protezione dalla povertà e dalla paura della guerra.
Dall’agosto all’ottobre 1944 a Dumbarton Oaks, i rappresentanti di USA, GB, URSS e Cina si
riuniscono per sette volte per cercare di disegnare l’organizzazione internazionale che avrebbe
dovuto essere costruita nel dopoguerra. È comune l’impegno a una maggiore responsabilità delle
grandi potenze nel mantenere la pace e la sicurezza, se le quaattro libertà di Roosvelt costituiscono
un punto di partenza. Tuttavia l’ipotesi di inserire una dichiarazione sul rispetto dei diritti umani
viene presto abbandonata. La bozza di Carta delle Nazioni Uite che esce dagli incontri manca di
umanità e paga un prezzo assai elevato al realismo politico. Un mese prima di Dumbarton gli
Alleati si riuniscono a Bretton Woods dove vengono create istituzioni finanziarie internazionali
quali FMI (per rafforzare la stabilità delle valute) e Banca mondiale (per finanziare lo sviluppo).
Alla vigilia della conferenza di San Francisco nel 1945 la morte di Roosvelt sembra allontanare
ancora di più la possibilità che la promozione dei diritti umani diventi un obiettivo centrale per
l’ordine internazionale. Saranno soprattutto i paesi minori a insisitere che l’attenzione ai diritti non
venga messa da parte.
Quando il 26 giugno la Carta delle Nazioni viene approvata molti guardano con soddisfazione
all’inserimento di riferimenti precisi ai diritti umani e alla necessità di proteggerli e rafforzarli.
Sicuramente un elemento che ebbe rilievo nel riportare l’attenzione a San Francisco sui diritti umani
(che era mancata a Dumbarton) fu la fine della guerra in Europa che aveva posto la questione della
condanna dei suoi artefici.
7. Il crimine di genocidio
La GB rivede la sua posizone di contrarietà nei confronti dell’istituzione di un tribunale penale
internazionale per giudicare i gerarchi nazisti. La Carta di Londra per il tribunale militare
internazionale, firmata l’8 agosto, identifica le tre categorie di crimini: di guerra, contro la pace e
contro l’umanità, su cui si sarebbero dovuti condannare i nazisti.
Fino quasi al termine del conflitto tra gli Alleati convissero opinioni e opzioni diverse su come
realizzare una severa giustizia. La liberazione dei campi di sterminio e concentramento convinse
della necessità di mostrare al mondo intero i crimini del regime hitleriano. Si scelse di seguire la
strada della creazione di un nuovo diritto internazionale e di istituire gli strumenti in grado di
metterlo in pratica, identificando il reato da perseguire e aprendo la strada al tribunale militare
internazionale che terrà i suoi più importanti processi a Norimberga.
I tre reati che raggruppano tutte le azioni criminose commesse sono: i crimini di guerra
(identificati nel modo tradizionale dell’Aja e Ginevra come l’assassinio la deportazione, il
maltrattamento di popolazioni civili, saccheggio, devastazioni); crimini contro la pace (cioè la
pianificazione di una guerra di aggressione) e i crimini contro l’umanità (cioè la persecuzione
immotivata di civili).
Da una parte sembra definitivamente accantonato il diritto ancorato allo stato-nazione, a favore di
un diritto sovranazionale; dall’altro, sembrava messa in discussione l’osservanza della basilare
norma della irretroattività.
In realtà, già nella clausola Martens venivano indicate certe regole di umanità che non potevano e
non dovevano essere in alcun modo calpestate (ciò che viene proposto di punire sono atti
considerati criminali fn dai tempi di Caino). Vi era però anche e soprattutto il problema di
individuare le responsabilità individuali, le uniche perseguibili, all’interno di una macchina statale
che si era mossa organicamente contro la pace e per lo sterminio. La soluzione, derivante dalla
tradizione giuridica anglosassone e raccolta a Norimberga, è rappresentata dalla doppia categoria
di cospirazione e di organizzazione criminale. La Corte di Norimberga riconosce come tali le SS
(squadre di difesa); la Gestapo (polizia segreta di stato); la dirigenza del partito nazista;
scagionando invece il governo del Reich e l’alto comando della Wermacht. Il risultato implicito è
quello di cancellare l’obbedienza a ordini superiori come possibile attenuante. La scelta copiuta a
Norimberga era quella di circoscrivere la colpa del consenso di massa al nazismo alla cospirazione
di pochi, fondando un paradigma interpretativo intenzionalista in quanto lo sterminio era stato il
frutto di un disegno colpevole, coerente e sistematico di alcuni uomini mossi da un odio implacabile
contro gli ebrei.
Vi furono critiche anche severe al paradigma di Norimberga (non fu un modello di tribunale
imparziale, i capi di accuso erano nuovi e trasgredivano i principi contro la retroattività).
Fu riflettendo sul destino degli ebrei che il giurista Raphael Lemkin conia il termine genocidio. Egli
lo definisce come un piano coordinato di diverse azioni miranti la distruzione dei fondamenti
essenziali della vita dei gruppi nazionali con l’intento di annientare i gruppi stessi attraverso la
disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali del gruppo.
L’articolo sei dello statuto del tribunale internazionale di Norimberga dava anche la definizione di
crimini di guerra comprendendo maltrattamento, lavori forzati, esecuzione di ostaggi, saccheggi,
distruzione di città e beni pubblici. La Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine
di genocidio nasce con la volontà di non permetter la ripetizione della violenza nazista ma da quella
coscienza prende le mosse per rivedere su una luce nuova l'intera storia dell'umanità o almeno una
parte di essa. La Convenzione sul genocidio viene approvata definitivamente nel 1950 ed entra in
vigore nel 1951 (anche se gli USA non sono tra i paesi firmatari, prevale il timore che i cttadini
americani potessero venire messi sotto accusa riguardo lo sradicamento dei nativi indiani o sulla
segregazione razziale negli stati del Sud).
CAPITOLO VI
La riscoperta dei diritti
1. Sono possibili diritti universali?
Partendo dall’affermazione che il rispetto per la cultura dei differenti gruppi umani fosse altrettanto
importante del rispetto per la personalità dell’individuo e il suo diritto a un pieno sviluppo come
membro della società, c’era la necessità di considerare sia l’individuo come singolo, ma anche
l’uomo come membro di un gruppo sociale. In passato si era evidenziato un giudizio di inferiorità
culturale e mentalità primitiva nei confronti dei popoli colonizzati che aveva portato all’abolizione
dei diritti umani nei loro confronti (se l’individuo realizza la propria personalità attraverso la cultura
in cui è inserito, allora serve rispetto per le differenze culturali). Da quest’ordine di considerazioni
discendeva il giudizio che, essendo i valori relativi alle culture da cui derivano, le idee di giusto e
sbagliato, buono e cattivo sono radicate in ogni società, benché differiscano nella loro espressione
tra popoli diversi. Ciò che si ritiene un diritto umano in un’altra società può essere considerato
come antisociale da un’altra, o dallo stesso popolo in un altro periodo della sua storia.
Se quindi nel XVIII secolo era divenuto possibile redigere una dichiarazione dei diritti dell’uomo
perché originata nell’ambito di una cultura omogenea (quella occidentale di matrice angloamericana
e francese), nel XX secolo diventava impensabile creare una definizione di norme legate a una sola
cultura o dettata dalle aspirazioni di un solo popolo. Il principio basilare da adottare era che gli
standard di libertà e giustizia da applicare universalmente si fondassero sul riconoscimento che
l’uomo è libero quando vive nel modo in cui la società cui appartiene definisce la libertà. Quindi
solo quando una dichiarazione del diritto a vivere nei termini delle tradizioni fosse incorporata nella
Dichiarazione proposta, allora il passo successivo avrebbe potuto essere quello di definire diritti e
doveri dei gruppi umani nei reciproci rapporti sul fondamento risoluto della presente coscienza
scientifica dell’uomo.
Negli stessi mesi in cui gli antropologi americani suggerivano alla commissione dei diritti umani
delle Nazioni Unite di soprassedere con l’idea illusoria di una dichiarazione realmente universale,
l’agenzia dell’Onu appena costituitasi con il nome di Unesco aveva inviato a pensatori e intellettuali
dei paesi membri un complesso questionario in cui si chiedeva di suggerire quali fossero i rapporti
tra diritti politici, economici e sociali.
Il passo successivo sarebbe stato quello di definire diritti e doveri dei gruppi umani nei reciproci
rapporti sul fondamento risoluto della presente conoscenza scientifica dell’Uomo. Vi era anche un
bisogno nell’evitare un’imposizione egemonica dei modelli valoriali occidentali che si
accompagnava da una visione destoricizzata in cui le culture assumevano tratti immobile in cui la
tradizione poteva essere facilmente individuata con propri valori ugualmente stabili e condivisi.
Lo storico Edward Carr sostiene che ogni dichiarazione di diritti che volesse avere oggi una validità
dovrebbe includere tanto i diritti sociali ed economici quanto quelli politici; che nessuna
dichiarazione di diritti che non contenga anche una dichiarazione dei relativi obblighi potrebbe
avere un serio significato. Molti pensatori si dimostrarono contrari alla formulazione di una
dichiarazione come quella proposta, tra cui anche Benedetto Croce critico sia dell’idea di diritto
naturale (utile in passato, ma orami indifendibile), sia di quella di diritti storicamente determinati.
L’impossibilità di un accordo tra le due principali correnti di pensiero dell’epoca, quella liberale e
quella autoritaria-totalitaria rendeva ipotizzabile solamente un dibattito internazionale sui principi
necessari che sono alla base della dignità umana e della civilizzazione.
2. Fallimento o successo?
I decenni successivi alla Dichiarazione possono essere giudicati un periodo di insuccesso continuo,
nei confronti degli obiettivi che la Dichiarazione si era prefissa, o di parziale attuazione della
visione in essa contenuta.
Quello che si può riconoscere è che le speranze suscitate alla fine degli anni ’40 vengono già
contraddette con lo scoppio della guerra fredda e l’antagonismo tra USA e URSS. La natura
profondamente ideologica della guerra fredda favorisce un accantonamento forzato dei diritti umani
che vengono utilizzati strumentalmente. Nonostante la sua forza però la guerra fredda non può
impedire che i diritti umani mantengano una loro presenza nel discorso pubblico internazionale per
quanto strumentalizzati e messi da parte. La guerra di Corea, nella quale si ha l’invasione della
Corea del Sud da parte dell’esercito nordcoreano, fu il primo conflitto che vide l’intervento delle
NU. Al termine della guerra le cifre sono terribili, le atrocità commesse e i bombardamenti
eguagliano quelli sganciati dalla Germania durante tutta la II G.M.
Si ha anche la guerra d’indipendenza algerina dove la democrazia francese viola consapevolmente
alcuni tra i fondamentali diritti dell’individuo (torture, esecuzioni sommarie) e di ciò erano
pienamente coscienti le autorità politiche di Parigi. Inoltre, il dramma di tutto ciò è la tortura
definita da Sartre come una sifilide che devasta l’intera epoca. Se le democrazie europee non
brillano per il rispetto dei diritti umani, la situazione non è certo migliore nei paesi del blocco
socialista guidato dall’Urss: messa fuori legge di tutti i partiti ad esclusione di quelli comunisti,
repressione di ogni opposizione, persecuzione religiosa, sociale ed ideologica, irrigidimento delle
misure poliziesche, deportazione nei campi di lavoro e nuove persecuzioni.
Anche negli Usa gli anni del dopoguerra sono caratterizzati da un’importante crescita di violazioni
di diritti fondamentali. È l’epoca della caccia alle streghe, del maccartismo in nome del presidente
Joe McCarthy il quale mette in atto una politica repressiva e di isteria anticomunista che
contraddistingue la prima metà degli anni ‘50. Si comprende in questo momento il bisogno di una
legislazione internazionale sui diritti. Nel 1951 viene creata la Convenzione sui rifugiati che fa
seguito alla creazione dell’Alto commissariato delle NU e nel 1952 quella sui diritti politici delle
donne.
CAPITOLO VII
I diritti nel XXI secolo: problemi e contraddizioni
1. Democratizzazione e globalizzazione
La crescita in molti paesi di elementi democratici negli ultimi due decenni del XX secolo dopo
decenni di dittatura, è stata strettamente legata alla questione dei diritti umani. Le varie battaglie
condotte (contro le dittature in America Latina, Solidarnosc in Polonia o Mandela in Sud Africa),
hanno avuto come denominatore comune i diritti umani e i principi riconosciuti nel 1975 a Helsinki.
Il legame tra democrazia e diritti umani è stato forte fin dal XVIII secolo trovando nelle costituzioni
un alleato importante (in cui i diritti venivano innalzati a principi fondamentali e fondativi di quella
democrazia). Naturalmente non sempre le costituzioni hanno garantito che i regimi politici
rispettassero i principi in esse contenuti (ex. Periodo del terrore post rivolzuione francese) o ci sono
stati casi in cui regimi dittatoriali sono stati capaci di produrre carte costituzionali fondate sui diritti
analoghi a quelli delle democraize (ex. costituzione dell’Urss del 1936).
L’ondata delle democratizzazioni di fine Novecento è stata accopagnata dall’approvazione di
costituzioni in cui era presente nella parte iniziale un catalogo di diritti fondamentali presenti già
nella Dichiarazione Universale del 1948 e nei successivi documenti prodotti dalle NU. Nello stesso
periodo si assiste alla codifica di documenti relativi ai diritti umani che acquistano valore
costituzionale (anche in molti stati che decidono di aggiornare le loro antiche costituzioni o la GB
con lo Humans Rights Act). Questa crescente costituzionalizzazione dei diritti umani ha permesso di
inserire non solo i più classici diritti civili, politici, economici e sociali all’interno di nuovi
documenti, ma di prendere in considerazione anche i diritti di terza e quarta generazione ovvero
quelli relativi ai diritti culturali, allo sviluppo, all’ambiente, alla privacy ecc. Questo perché il
soggetto dei diritti non è più l’individuo astratto ma la persona caratterizzata dall’ambiente in
cui si trova inserita (ciò crea problemi di coesistenza fra diritti individuali e diritti collettivi). Di
conseguenza viene richiesta anche una maggiore tutela e garanzia contro la violazione dei diritti
umani sia da parte dei privati che da parte del potere politico e amministrativo.
I dubbi che riguardano il processo di costituzionalizzazione dei diritti diventano ancora più marcati
quando ci si interroga sul rapporto che i diritti umani hanno con il processo di globalizzazione, una
realtà che nessuno può negare. La globalizzazione è un insieme di flussi transnazionali di persone,
merci, informazioni in una forma più intensa e rapida che nel passato. Un mondo più globalizzato è
un mondo più connesso. La connessione è un parametro funzionale della globalizzazione che
coinvolge sempre più persone. In questi flussi i diritti umani sono quasi sempre presenti (se si
riconosce che la globalizzazione è anche un’epoca di migrazioni, il problema dei migranti e dei loro
diritti diviene una questione strutturale).
3. Terrorismo e sicurezza
L’attentato del 11 settembre sembra interrompere o deviare il corso della riflessione sui diritti
umani che si era andata sviluppando nell’ultimo lustro del XX secolo. È in particolare il rapporto
fra sicurezza e libertà che viene messo in discussione. La novità e l’imprevedibilità del terrorismo
sembra modificare il contesto internazionale.
La misura internazionale in tema di terrorismo è la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla
prevenzione del terrorismo siglata a Varsavia nel maggio 2005 ed entrata in vigore dal 2007.
Come ha sostenuto Kofi Annan sostenere i diritti umani non contrasta con la lotta contro il
terrorismo, al contrario, la visione etica dei diritti umani è una delle armi più potenti contro di esso.
Definire il terrorismo è stato complesso. Detto in modo semplice, consiste in atti intenzionali di
violenza contro i civili al fine di diffondere la paura per scopi politici. Il terrorismo non è un
soggetto pubblico contro il quale muovere una guerra e non può essere sconfitto come può essere
sconfitto uno stato o un regime.
Se tra gli obblighi di uno stato è presente quello alla sicurezza dei propri cittadini, nel caso degli atti
terroristici si tratta di adottare misure che siano idonee a proteggere le persone che potrebbero
essere vittime di quelle azioni. Accanto a questo dovere principale c’è anche quello di garantire quei
diritti che prevedono una tutela assoluta, in ogni modo (ex. il divieto di tortura, il diritto alla vita,
alla libertà etc.). Questa categoria di norme imperative ha assunto importanza nel campo della tutela
dei diritti umani dando luogo alla enucleazione di un concetto internazionalistico di diritti
fondamentali fondato sulla formale superiorità gerarchica della fonte normativa che li prevede.
5. Prevenzione e protezione
Il nuovo secolo ha visto emergere l’idea che gli stati sovrani hanno una responsabilità nel
proteggere i propri cittadini da una catastrofe evitabile, ma quando sono incapaci di farlo, quella
responsabilità deve essere assunta dalla più ampia comunità di stati. Nel corso del dibattito sulla
riforma delle NU si riconosceva che era necessario che vi fosse da parte di diversi organismi
internazionali un continuum che coinvolga la prevenzione, la risposta alla violenza, se necessario e
la ricostruzione delle società distrutte. Nell’aprile del 2006 una risoluzione del consiglio di
sicurezza riaffermava la responsabilità di proteggere le popolazioni da genocidio, crimini di guerra,
pulizia etnica e crimini contro l’umanità. Per la prima volta si affrontava in modo esplicito il
problema dei limiti della sovranità degli stati individuati nella subordinazione alla sicurezza
umana delle popolazioni di cui sono responsabili. La Commission on Intervention and State
sovereignty propose di occuparsi del problema di ricaratterizzare la sovranità, cioè concependo la
sovranità come responsabilità piuttosto che come controllo (spostando così l’enfasi da un diritto di
intervenire per propositi umanitari poco desiderabile politicamente, all’idea meno conflittuale della
responsabilità di proteggere. Affrontando così il dilemma dell’intervento dalla prospettiva dei
bisogni di chi cerca o ha necessità di aiuto piuttosto che dagli interessi e prospettive di coloro che
realizzano tale azione.
Diversamente dalla Commissione, l’High Level Panel riteneva attuabile la concretizzazione del
principio della responsabilità di proteggere solo in presenza di un intervento armato e sotto il
controllo del Consiglio di sicurezza, individuando cinque criteri di legittimazione per l’uso della
forza.
È solo nell’Outcome document che si individua una soluzione di compromesso che cerca di
raccordare le differenti posizioni. In gran parte del dibattito sulla responsabilità sembra riecheggiare
quello che si era svolto in occasione dell’intervento di Kosovo quando i fautori dell’intervento
considerarono già presente nel diritto internazionale la possibilità dell’uso della forza per propositi
umanitari (privilegiando la protezione dei cittadini di uno stato piuttosto che quest’ultimo come
entità astratta). I problemi che continueranno a essere cruciali e che nessuna condivisione di principi
riuscirà a risolvere rimangono quelli del rapporto tra obiettivi e mezzi; della corretta individuazione
del momento-limite; della previsione degli effetti sul breve, medio, lungo periodo. L’ultimo
decennio è stato testimone di numerose ingerenze umanitarie. L’intervento in Kosovo, soprattutto
per le modalità con cui si è sviluppato, è stato accompagnato da violazioni dei diritti, dalla necessità
di una lunga permanenza sul territorio. Individuare meccanismi sempre più precisi e affidabili di
monitoraggio, di prevenzione, di individuazione dei limiti, non garantisce che un intervento possa
realizzarsi secondo tempi e modalità previste (troppe variabili in gioco). Dunque, il terreno di
discussione adeguato riguarda l’impossibilità della comunità internazionale nel decidere le forme di
ingerenze. Nella comunità internazionale c’è bisogno di parametri di condotta volti a guidare
l’azione dei suoi membri.
6. Giustizia e riconciliazione
Nel corso degli anni ’90 la creazione di due tribunali penali internazionali ad hoc e l’inizio del
processo che ha portato alla creazione della Corte penale internazionale rappresentano i segnali
della nuova stagione dei diritti. Considerando i tribunali di Norimberga e Tokyo come il prodotto
della giustizia dei vincitori, è possibile giudicare i tribunali per l’ex Jugoslavia e il Ruanda come o
primi veri tribunali internazionali (costituiti dal Consiglio di sicurezza delle NU). L’esistenza di
questi meccanismi giurisdizionali è stato il simbolo della crescente influenza dei diritti umani sul
diritto internazionale e il percorso evolutivo compiuto dal diritto internazionale umanitario. I
tribunali penali internazionali sono un monumento e una possibilità dell’aspirazione alla giustizia
che è sempre presente nell’umanità soprattutto dopo tragedie e crimini collettivi. Sessant’anni dopo
Norimberga l’obiettivo della giustizia penale rimane lo stesso: ottenere giustizia attraverso la
ragione piuttosto che con la forza; sostenere i principi die diritti umani.
Il compito di favorire la giustizia internazionale non può essere demandato alle sole corti penali ma
deve costituire un obiettivo permanente degli stati, delle diplomazie, delle ong e dell’opinione
pubblica. Negli stessi anni si sono anche affacciati istituzioni di tipo nuovo che si sono proposte di
accompagnare o sostituire i più tradizionali meccanismi di attuazione della giustizia: le commissioni
di verità (in particolare con la nascita del Trc, Truth and Reconciliation Commission in Sud Africa).
Costituita nel 1995 la Trc presupponeva che la conoscenza della verità su quanto avvenuto in
durante il processo dell’apartheid avrebbe favorito la possibilità di una riconciliazione tra i diversi
gruppi etnici, razziali e culturali presenti in loco. Le commissioni di verità muovono dall’assunto
che la riconciliazione dipende dalla piena conoscenza e riconoscimento delle atrocità delle parti in
conflitto.
Il dibattito che accompagna la Trc si è spesso focalizzato sui rapporti tra verità e giustizia. La Trc
non è stata tuttavia l’unica istituzione che in Africa ha cercato di trovare strade originali al problema
della pacificazione e della riconciliazione come rafforzamento della democrazia. Particolare
significato riveste quanto successo in Ruanda dove è sorto un sistema fondato sulla struttura
comunitaria di tipo tribale ed etnico a cui si affida alla comunità d’appartenenza la risoluzione di
conflitti. Il modello moderno delle Corti Gacaca ha mantenuto caratteri tradizionali, e i risultati
ottenuti da queste corti hanno sollevato dubbi e interrogativi.
Ed è proprio nella sfera privata che sorgono le sfide più serie all'universalità dei diritti umani.
Inoltre l'incorporazione dei principi internazionali all'interno delle culture nazionali è anche una
questione di coerenza e accordo sui principi e di adattamento delle norme, costumi, consuetudini
che interagiscono in modo a volte conflittuale con alcuni principi. La possibilità per i cittadini di
godere di diritti umani è largamente attribuibile a un efficace sistema giuridico nazionale di
applicazione dei diritti umani. Si è cercato quindi di capire anche che si tratti di differenze
sostanziali o non piuttosto di diversità di costumi, consuetudini, norme che riguardano soprattutto la
sfera privata e il suo rapporto con la religione o ideologia. Vantaggio legalizzazione:
riconoscimento dato dalla maggior parte degli stati. Critica più severa ai diritti umani: operano
senza sufficiente consapevolezza e comprensione del contesto macro-storico in cui si manifestano le
violazioni di massa. Dal momento che non contengono una teoria del perché in primo luogo
accadono le violazioni, le istituzioni nei diritti umani sono senza potere nel prevenirle nel futuro. Le
critiche ai diritti umani hanno un denominatore comune: attribuire ai diritti umani la volontà e la
capacità di trasformare la società umana in base ai propri valori; non riuscendovi se ne dedurrebbe
la fallacia di quegli stessi valori, che non riescono a raggiungere l'obiettivo posto loro. I diritti
umani non possono essere il surrogato di strategie politiche, utopie sociali e ideologie
universalistiche in quanto essi sono il risultato di un lungo processo storico che ha intrecciato,
morale, politica e diritto in forme sempre diverse per rispondere al bisogno di uguaglianza e
giustizia che sottende il carattere umano comune di ognuno e di difesa della dignità e delle
prerogative che nessuno dovrebbe sottrarre impunemente ad alcuno.
Non è corretto quindi ritenere che solo l'Occidente abbia connaturato in sé l'evoluzione. Il richiamo
e la spinta per i diritti umani si sono manifestati spesso con linguaggio e ispirazione universalistici
anche se riguardavano settori ben limitati di popolazione cui si riferiva all'epoca in base al senso
comune quando si parlava di essere umano. Proprio quel linguaggio universalistico diventa uno
strumento capace di ampliare i diritti storici del discorso sui diritti fino a raggiungere nel '48 a un
momento di svolta particolare -> la dichiarazione universale è un punto di partenza per una nuova
fase in cui l'universalismo deve anche significare la concretizzazione dei diritti fondamentali. Esso
ha anche aiutato il processo di decolonizzazione. Non si può inoltre non riconoscere che gran parte
dei contributi innovatiti emersi su questo terreno provengono proprio e non casualmente da ambiti
culturali non occidentali e da esperienze di sincretismo culturale che sono un risultato storico ormai
ineliminabile della globalizzazione. Inoltre nell'odierna discussione sui diritti umani vi sono
tendenze ad affermare la supremazia dei diritti civili e politici su tutti gli altri, a privilegiare cioè i
diritti di prima generazione su quelli di seconda generazione -> campo dei diritti è un terreno in cui
convivono posizioni diverse, è un campo soggetto a difficoltà, contraddizioni, aporie (ostacoli).
La loro accettazione spesso è il risultato di una lotta tra culture diverse che coesistono all'interno di
uno stesso paese e di una stessa generazione. Aspetto innovativo: consapevolezza della necessaria
coesistenza tra diverse generazioni di diritti perché solo attraverso una comprensione culturale può
essere possibile formulare, implementare e proteggere i diritti umani in modo pluralista.
Possibile convergenza tra valori e principi che appartengono a culture diverse e ne creano le radici
morali profonde: per esempio la differenze di approccio sui diritti (occidentale) e l'approccio sui riti
(confuciano) anche se è possibile ritenere che la concezione rituale confuciana e quella
occidentale possono essere considerate complementari anche se indirizzate a scopi diversi. Infatti
Confucio riteneva che attraverso i riti si sarebbe aumentato il senso di colpa e si avrebbe avuto un
maggiore autocontrollo mentre la legge tende a rendere le persone più litigiose. Anche se in realtà
si trattava di un sistema fortemente gerarchico che non permetteva di tutelare e proteggere gli
individui e le minoranze ma solo di generare un senso di appartenenza comunitaria e solidarietà
sociale. Alla luce di tutto ciò però quello che conta è l'obiettivo che essi possono produrre in realtà
= universalismo dei diritti è un processo in divenire e un modo di condivisione possibile. Una
situazione complessa è il rapporto dei diritti umani con l'Islam per il discorso della libertà religiosa
e diritti delle donne, la possibilità di convertirsi e la subordinazione al marito, al mondo maschile.
La fonte delle disuguaglianze e dell'opposizione ad alcuni diritti presenti nella Dichiarazione
Universale risiede nel fatto che diritti e libertà nell'Islam non sono considerati semplici diritti
dell'uomo ma doni divini fondati sulle disposizioni della shari'a e sulla fede islamica.
Legalizzazione dei diritti umani: trasformazione in legge dei diritti umani (cioè l'inserimento dei
diritti attraverso leggi internazionali negli ordinamenti giuridici dei singoli stati). È un processo che
è stato chiamato più propriamente giuridicizzazione. La forza acquisita negli anni da parte della
Dichiarazione del 1948 risiede proprio nel carattere costituzionale di affermazione dei principi
ispiratori che i paesi non potevano rifiutare ma che si vincolavano in quel modo politicamente e
moralmente rispetto alla propria cittadinanza e opinione pubblica. Non era sicuramente facile
armonizzare diverse esigenze, timori, riserve. Da sempre vi è stato un tentativo di bilanciare gli
interessi identificati delle rivendicazioni dei diritti umani con gli interessi della comunità politica,
dello stato e della nazione – caratteristico del diritto internazionale sui diritti umani. In alcuni casi
però il mancato inserimento dei diritti umani sono stati il risultato di presunte incompatibilità o
contraddizioni dovute alla fera privata che toccano la vita individuale ma anche i costumi
comunitari e religiosi cui essi fanno riferimento o si sentono vincolati. Ed è proprio nella sfera
privata che sorgono le sfide più serie all'universalità dei diritti umani. Inoltre l'incorporazione dei
principi internazionali all'interno delle culture nazionali è anche una questione di coerenza e
accordo sui principi e di adattamento delle norme, costumi, consuetudini che interagiscono in modo
a volte conflittuale con alcuni principi. La possibilità per i cittadini di godere di diritti umani è
largamente attribuibile a un efficace sistema giuridico nazionale di applicazione dei diritti umani. Si
è cercato quindi di capire anche che si tratti di differenze sostanziali o non piuttosto di diversità di
costumi, consuetudini, norme che riguardano soprattutto la sfera privata e il suo rapporto con la
religione o ideologia. Vantaggio legalizzazione: riconoscimento dato dalla maggior parte degli stati.
Critica più severa ai diritti umani: operano senza sufficiente consapevolezza e comprensione del
contesto macro-storico in cui si manifestano le violazioni di massa. Dal momento che non
contengono una teoria del perché in primo luogo accadono le violazioni, le istituzioni nei diritti
umani sono senza potere nel prevenirle nel futuro. Le critiche ai diritti umani hanno un
denominatore comune: attribuire ai diritti umani la volontà e la capacità di trasformare la società
umana in base ai propri valori; non riuscendovi se ne dedurrebbe la fallacia di quegli stessi valori,
che non riescono a raggiungere l'obiettivo posto loro. I diritti umani non possono essere il surrogato
di strategie politiche, utopie sociali e ideologie universalistiche in quanto essi sono il risultato di un
lungo processo storico che ha intrecciato, morale, politica e diritto in forme sempre diverse per
rispondere al bisogno di uguaglianza e giustizia che sottende il carattere umano comune di ognuno e
di difesa della dignità e delle prerogative che nessuno dovrebbe sottrarre impunemente ad alcuno.
La battaglia oggi si combatte sul terreno delle diverse culture che vivono nelle diverse regioni del
mondo. l'unica risposta è che raggiungere un'accettazione universale delle norme dei diritti umani è
un processo, e differenti norme occupano posti diversi in questo continuum. Cambiamento e
accettazione di queste norme devono venire alla fine dall'interno della regione e non possono essere
imposti da forze esterne. È la politica inoltre che conta e decide anche sul terreno dei diritti umani:
la politica degli organismi internazionali e la politica degli stati e dei governi che sono due aspetti
della stessa realtà globalizzata. I diritti umani però per portare a compimento quel processo di
universalizzazione che era parte della loro ispirazione, di adeguarsi ai percorsi della
globalizzazione. L'ispirazione universalistica dei diritti umani s'incontra con un'aspirazione
anch'essa universale: alla libertà, all'uguaglianza, e alla giustizia che si allarga progressivamente ai
ceti, ai generi, ai popoli, ai gruppi e si ha anche un'estensione dei diritti sia sul versante più
consolidato della libertà sia quello prima ignorato dei diritti economicosociali.