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LA POLIS GRECA

Il termine politica ha origine nella Grecia classica dell’ VIII sec. a.C, dove la polis era l’unità per
antonomasia della vita sociale, una comunità politicamente indipendente in cui gli agricoltori di un
determinato territorio venivano per la prima volta considerati cittadini. La polis era molto più piccola
territorialmente e numericamente rispetto agli Stati moderni. Al suo interno c’erano 3 classi sociali:
- gli schiavi, senza importanza politica.
- i meteci, ossia gli stranieri residenti, esclusi anch’essi dalla vita politica della città pur essendo, a
differenza degli schiavi, uomini liberi.
- i contadini, partecipanti attivi alla vita politica.

La polis è nata dalla crisi delle forme tradizionali della sovranità, in cui il potere politico era appannaggio
di uno solo o delle aristocrazie. Nella polis, invece, il potere passava idealmente dai palazzi
dell’aristocrazia alla piazza della città, la cosiddetta agorà, dove si svolgeva la discussione politica. Le
leggi non erano più decise dall’alto in quanto erano il risultato di un confronto dialettico. I cittadini erano
tutti uguali davanti alla legge; ciò significava che tutti coloro che avevano la cittadinanza (che era un
privilegio di nascita) erano anche legislatori e potevano far parte dei tribunali così come dell’Assemblea.

Le istituzioni della democrazia ateniese erano:


- l’ Assemblea popolare, aperta a tutti i cittadini maschi e liberi, con un’età superiore ai 20 anni. In
essa tutti avevano il diritto di parola e le decisioni venivano prese a maggioranza. Si riuniva 10
volte all’anno più eventuali sessioni straordinarie.
- il Consiglio dei 500, che svolgeva attività amministrativa ed era una sorta di commissione
esecutiva. Essendo 500 persone troppe per un organo di governo, il Consiglio veniva ridotto ad
una commissione di 50 membri con il metodo della rotazione delle cariche, cui erano affiancati 9
consiglieri. Ogni giorno veniva eletto un presidente a sorte tra i 50. Il Consiglio aveva il compito di
proporre le misure che dovevano essere esaminate dall’Assemblea, la quale poteva approvare,
modificare o respingere quanto le veniva sottoposto. Oltre a questo potere legislativo, il
Consiglio aveva anche dei poteri esecutivi: poteva, infatti, far imprigionare i cittadini, condannarli
a morte, aveva la possibilità di controllare le finanze, dichiarare guerra, stipulare trattati di pace
o di alleanze.
- Le Corti, ampie giurie popolari che avevano il compito di giudicare in sede civile e penale ma che
avevano anche un potere esecutivo o legislativo. I membri delle Corti venivano nominati
attingendo da un elenco di 6000 cittadini. Ogni Corte poteva raggiungere i 500 membri.

Molte delle principali cariche politiche venivano attribuite per sorteggio ed era previsto un compenso.
Solo i cosiddetti strateghi venivano scelti per elezione diretta ed erano rieleggibili. Essi erano magistrati.

Quello ateniese era, quindi, un sistema di democrazia diretta e partecipativa.

GLI IDEALI POLITICI DEMOCRATICI DELLA POLIS

E’ lo storico Tucidide a raccontare quale significato avesse la democrazia per gli ateniesi, con una
orazione funebre che fa pronunciare a Pericle in onore dei soldati caduti nel 1° anno della grande guerra
contro Sparta. L’obiettivo di questo discorso era quello di suscitare negli animi degli ascoltatori la
consapevolezza della polis come bene supremo, come l’interesse più alto. Famiglia, amicizia, averi,
dovevano essere goduti solo in funzione del godimento di quel bene supremo, consistente nel
partecipare attivamente alla vita cittadina. La preoccupazione principale di tutta la filosofia politica greca
era l’armonia di questa vita in comune, fondata su 2 valori politici fondamentali: la libertà e il rispetto
per la legge. L’individualismo, l’attenzione rivolta ai soli interessi privati, era considerato un disvalore.
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Gli ateniesi erano convinti che con la pura ragione avrebbero potuto superare tutti gli altri popoli, sia
nell’arte, che nella guerra, che nell’arte di governare.
Va detto, però, che guardando al raggiungimento di un’armonica vita in comune, la polis non ha avuto
grande successo. L’intimità di tale vita, infatti, generava i suoi difetti, portando rivalità. Piuttosto che alla
città, la lealtà tendeva ad essere offerta ad una particolare forma di governo o ad un partito.

LA FILOSOFIA POLITICA NEL V SEC. A.C

Nel V sec. a.C. tutte le questioni politiche erano discusse con interesse e coinvolgimento. Sono stati la
curiosità nei confronti dei paesi stranieri, così come i cambiamenti nel governo ateniese e le lotte con cui
essi avvenivano, ad aver stimolato la nascita della filosofia politica nella polis greca.
I contrasti della politica interna ateniese erano di carattere economico e vedevano contrapporsi
l’aristocrazia, dominata dalle antiche famiglie nobili dei proprietari terrieri, e la democrazia, dominata
dagli interessi commerciali con l’estero. La differenza tra il ricco ed il povero è stata considerata da
Platone la causa fondamentale di disarmonia del governo greco.

Ma accanto a queste preoccupazioni politiche erano diffuse anche questioni più filosofiche circa
l’essenza, la natura, la ragion d’essere della polis intesa come collettività umana e, di conseguenza, del
comportamento dei singoli rispetto alla comunità di cui facevano parte. Gli ideali di armonia, di
proporzione, di misura, secondo i quali ognuno aveva quanto gli era dovuto, erano fondamentali nella
concezione greca della bellezza e della morale. Gli oggetti e i fenomeni del mondo fisico venivano
considerati come variazioni di una sostanza fondamentale immutabile, la Natura, che veniva, così,
contrapposta al mondo del divenire.

La discussione intorno al contrasto tra natura e convenzione rischiava di mettere in discussione la


legittimità dell’ordine legale stesso della polis, che non era altro che un insieme di convenzioni artificiali.
L’esempio classico di questo tema nella letteratura greca è l’Antigone di Sofocle. Antigone è accusata di
aver violato la legge per aver compiuto i riti funebri in onore del fratello ed averlo sepolto,
contraddicendo, così, all’ordine del re di Tebe di lasciarlo insepolto. Nel difendersi davanti al re,
Antigone chiama in causa proprio le leggi non scritte e indiscusse degli eterni Dei. L’identificazione della
natura con la legge divina, che si oppone alla convenzione, era destinata a diventare una formula per la
critica degli abusi del potere costituito.

SOFISTI: può essere fatta una distinzione tra:


- i vecchi Sofisti, che hanno portato alla luce l’antitesi tra natura e legge.
- i Sofisti radicali, che hanno portato alle estreme conseguenze questa antitesi. Tra essi ricordiamo
Trasimaco, Antifonte, Callicle.
Secondo Trasimaco la giustizia recava vantaggio solo al più forte e ogni governo imponeva le
leggi secondo i propri interessi.
Antifonte, invece, criticava aspramente la legge della polis perché contraria alla natura. Egli
sosteneva che siamo per natura tutti uguali e che non c’è nulla di biasimevole dal punto di vista
morale nella trasgressione delle norme giuridiche, le quali sono mere convenzioni, a patto che
tali trasgressioni si verifichino in privato, senza essere visti, sfera in cui è necessario solo seguire
la natura. La natura di cui si parlava comprendeva gli istinti e i sensi dell’uomo come corpo, che
lo spingevano alla conservazione biologica, a cercare il piacere ed evitare il dolore; essa si
contrapponeva alla legge, che portava, invece, l’uomo ad accettare un dolore maggiore, ad
accontentarsi di un piacere minore, rovinandosi così l’esistenza. Per agire nel migliore dei modi,
l’uomo doveva essere egoista, guardare al proprio interesse personale.
Callicle, infine, era un giovane aristocratico ateniese. Anch’egli sosteneva che le leggi vadano
contro natura, in quanto la giustizia secondo natura esige che tra gli uomini chi è superiore
assoggetti l’inferiore e possegga più potere e ricchezza di quest’ultimo. Secondo le convenzioni,
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invece, i più forti sono addomesticati fin dall’infanzia, in quanto a loro viene inculcato il pensiero
che sia sbagliato possedere più degli altri. Se Trasimaco metteva in discussione la legge senza
proporre una soluzione, Callicle, invece, propone una nuova concezione della vita, una nuova
situazione raggiungibile attraverso una rivoluzione etica.

SOCRATE

Socrate, riprendendo il discorso fatto dai Sofisti che ha portato a mettere in discussione la legge in nome
della natura, ha affermato che chi guida la polis deve conoscere la sua arte, e per poter arrivare a tale
conoscenza è necessario che la apprenda in quanto non è innata negli uomini e, peraltro, non fa per
tutti. Proprio per questo motivo egli critica l’usanza di estrarre a sorte i magistrati della polis senza
seguire il criterio meritocratico.
Socrate era un antidemocratico, sostenitore di un’aristocrazia intellettuale, formata da coloro che erano
in grado di arrivare alla conoscenza. A suo parere la natura dell’uomo non consiste, come quella
dell’animale, nell’uso della forza ai fini della sopravvivenza, ma consiste nel vivere secondo giustizia.
Lungi dall’essere una costrizione contro natura, come invece affermavano i Sofisti, per Socrate la legge è
un’esigenza della natura stessa. Egli ha criticato, infatti, Trasimaco sostenendo che chi governa non fa i
propri interessi, ma agisce per il bene dei suoi governati. Da qui ne deriva il dovere di rispettare l’ordine
legale della polis. Socrate è talmente convinto dell’importanza di rispettare la legge che, in virtù di tale
principio, è arrivato persino ad accettare la sua condanna a morte. L’unica cosa che non ha mai avuto
intenzione di accettare è quella di rinunciare al suo insegnamento in quanto ciò avrebbe significato
abbandonare il ruolo che per voce dell’oracolo di Delfi gli era stato assegnato.

PLATONE

Le scuole di filosofia, retorica e scienza di Atene sono state la prima grande istituzione europea dedicata
all’educazione superiore e alla ricerca; vi affluivano studenti da tutti i paesi del mondo antico.
La crisi della democrazia ateniese è stato il terreno politico in cui si è formato Platone. L’esperienza
politica di Platone si è svolta all’insegna dell’onestà intellettuale, ma nel giro di poco tempo egli è stato
costretto a disilludersi osservando la realtà politica in cui viveva, una realtà dove la sete di potere aveva
preso il posto dell’onestà e del servizio verso gli altri. Egli è arrivato, quindi, a convincersi che solo la
filosofia poteva permettere una rinascita dello stato, la guarigione della polis, caratterizzata dal conflitto
tra ricchi e poveri per il potere e dalla natura umana dominata dal desiderio di avere di più in modo da
prevaricare sugli altri senza preoccuparsi delle leggi. La filosofia, secondo Platone, poteva permettere
alle componenti razionali di prevalere su quelle irrazionali, agonistiche e competitive, guidando, così,
l’uomo alla cooperazione. L’educazione dell’animo umano, però, non poteva partire dal singolo
individuo, doveva, infatti, essere il risultato di un progetto collettivo che faceva capo alla Città. Al potere
era necessario che giungesse chi conosceva la vera giustizia, ossia i filosofi. Per giustizia si intendeva una
convivenza pacifica, collaborativa ed armonica in funzione del bene dell’intera collettività.
La forma di governo sostenuta da Platone era, così, un’aristocrazia dei migliori.
Il ricongiungimento tra filosofia e potere poteva avere un ulteriore obiettivo: quello della sopravvivenza
della filosofia stessa, considerata dall’opinione pubblica ateniese una pratica inutile.
Secondo Platone il filosofo era colui che non si lasciava confondere dall’instabilità del mondo del
divenire. Egli era in grado di raggiungere ciò che è assolutamente vero in modo da fissare i criteri del
bello, del giusto e del buono, ossia le norme, i criteri e le leggi necessari alla vita di tutti gli uomini.
L’opinione del mondo sensibile era opinione, appunto, non vera conoscenza.

L’ANIMA TRIPARTITA: secondo Platone l’anima individuale è tripartita. Vi è un’anima appetitiva o


concupiscibile che mira alla soddisfazione dei piaceri corporei; un’anima razionale che mira alla
conoscenza e alla verità; un’anima animosa o volitiva che conquista ciò che vuole. L’uomo giusto è colui
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in cui le 3 parti dell’anima non sono in lotta tra di loro ed in cui la parte razionale, sostenuta da quella
animosa, domina su quella concupiscibile.

Se alle 3 parti dell’anima corrispondono 3 tipi di individui, la società più giusta sarà quella che assicurerà
l’equilibrio tra queste 3 componenti. L’uomo non può soddisfare i propri bisogni da solo; per farlo ha
bisogno dell’altro, necessita di un rapporto di collaborazione e aiuto. Lo sviluppo di questi rapporti porta
alla divisione del lavoro, in modo che ognuno agisca sulla base delle proprie competenze, facendo ciò
che gli riesce meglio. Vi sarà, quindi:
- una classe di produttori e commercianti, dominati dal desiderio di guadagno.
- una classe di guardiani, dominati dall’animo volitivo.
- una classe di guardiani-filosofi cui spetta il governo della città, dominati dall’anima razionale.

LA SOCIETA’ PLATONICA: secondo Platone la classe dei governanti non doveva avere proprietà privata;
essi dovevano avere tutto in comune, abitare e mangiare insieme; non vi doveva essere discriminazione
tra uomo e donna, e i matrimoni, così come la filiazione, dovevano essere combinati in modo che
dessero il meglio.
Una volta disegnata la società bene ordinata, vengono prese in considerazione da Platone, nell’opera
“Repubblica”, le costituzioni che si discostano da essa e che corrispondono al prevalere di parti
dell’anima che dovrebbero essere sottoposte al governo dell’anima razionale. Col venir meno nei
governanti dell’egemonia della ragione, prevarrà la parte animosa, e il governo passerà nelle mani degli
uomini dominati dall’ambizione di affermarsi e ricevere onori (timocrazia); se, invece, al desiderio degli
onori si sostituirà quello delle ricchezze, si affermerà l’oligarchia, dove la società risulta scissa tra pochi
ricchi e una massa di poveri desiderosi di una rivoluzione. La democrazia nascerà quando i poveri, dopo
aver riportato la vittoria, ammazzeranno alcuni avversari, ne cacceranno altri in esilio, dividendo con i
rimanenti, a condizioni di parità, il governo e le cariche pubbliche, determinate per lo più con il sistema
del sorteggio. Questa libertà non farà altro che portare all’anarchia, caratterizzata dal rifiuto di qualsiasi
obbedienza. Dall’insofferenza per l’anarchia, infine, si genererà la tirannide, perché l’eccessiva libertà
non può che trasformarsi in eccessiva schiavitù.

ARISTOTELE

La riflessione aristotelica si sviluppa nell’epoca del tramonto della polis. L’oggetto principale della
riflessione sulla politica è il Bene, quello del singolo individuo, che si realizza nel contesto della relazione
con gli altri. Aristotele non ha un’unica idea di bene, come invece aveva Platone, perché se il bene fosse
unico esisterebbe una sola scienza di esso (sono, invece, molte le scienze che hanno ad oggetto un certo
significato di bene). A differenza di quanto sosteneva Platone, inoltre, secondo Aristotele nelle cose
della politica bisogna accontentarsi di una verità conosciuta in maniera approssimativa, perché è
impossibile arrivare ad un sapere rigoroso.

La comunità politica, così come i rapporti di comando/obbedienza che la fondano, ha un carattere


naturale. La natura dell’uomo è quella di essere un animale politico, socievole, che, partendo dalla più
piccola cellula familiare, dà vita ad una comunità via via più ampia, fino ad arrivare alla Città, dove
l’uomo viene a conoscenza dei beni della vita civile. Vivere in comunità è, insomma, ciò cui l’uomo
tende. Anche il rapporto di subordinazione, in particolare quello tra padrone e schiavo, è naturale: gli
uomini più dotati di intelligenza e di capacità di comando dominano su quelli più dotati di forza fisica,
quindi idonei a servire come schiavi.
Un’altra distinzione tra Aristotele e Platone va fatta in riguardo al sistema della proprietà comune.
L’economia della famiglia, secondo Aristotele, è basata sulla proprietà; ogni famiglia ha il compito di
acquistare, accrescere e scambiare la ricchezza per soddisfare le necessità della vita. Platone, invece,
sacrifica il ruolo della famiglia e della proprietà in nome dell’unità dello stato, perché il sistema della
comunanza può dar vita a contrasti e risentimento da parte di chi lavora molto e ottiene poco nei
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confronti di chi, invece, lavora poco e ottiene molto. La proprietà privata ha invece, secondo Aristotele,
molti vantaggi: chi deve occuparsi personalmente di una cosa sua ne avrà maggior cura di quanta ne
avrebbe per i beni comuni; l’essere proprietario di una cosa genera felicità e amore per se stessi, lecito a
patto che non diventi egoismo; lasciare agli amici l’uso dei propri beni crea godimento. Secondo
Aristotele, quindi, le divisioni tra gli uomini non sono causate dalla proprietà privata come pensava,
invece, Platone, ma dalla malvagità degli uomini, dall’ineguaglianza delle cariche e degli onori. L’unità,
per Aristotele, deve risultare non dalla negazione delle differenze, ma da una giusta educazione e da un
giusto senso delle virtù. Tutti coloro che sono liberi ed uguali ricoprono a turno il ruolo di governante e
di governato, esercitando il potere, quando sono a capo del governo, nell’interesse dei governati.

LE COSTITUZIONI: Aristotele prevede 6 forme di costituzione, 3 giuste (monarchia, aristocrazia e


politeia, ossia repubblica temperata) e 3 degenerate (tirannia, oligarchia e democrazia). Le costituzioni
giuste sono quelle in cui il potere viene esercitato per il bene di tutti, mentre nelle costituzioni
degenerate i governanti governano solo per assicurare l’interesse proprio. All’interno di queste 2 grandi
categorie, le forme di governo si distinguono a seconda che ad esercitare il potere siano uno, pochi o
molti.
Secondo Aristotele la forma di governo migliore è quella in cui governano molti, perché, anche se
nessuno eccelle per virtù e saggezza, nel loro insieme, attraverso il confronto, possono raggiungere una
saggezza superiore a quella del singolo. Inoltre, proprio perché molti sono tanti numericamente,
escluderli dal governo potrebbe essere pericoloso per la stabilità della costituzione.

Se Platone affermava che i filosofi fossero più competenti a giudicare il bene, Aristotele afferma, invece,
che il giudizio comune è superiore rispetto a quello del singolo. Nella legge, secondo Aristotele, si
manifesta l’esercizio della ragione pratica come saggezza; tutte le regole di convivenza vanno tratte dal
sapere pratico, non dal sapere incontrovertibile come affermava Platone. Se il sapere non è più solo
appannaggio dei filosofi, quindi, tutti i cittadini sono legittimati a raggiungere il potere. La politica
diventa non un modello ideale ricavato dalla contemplazione del bene da parte del filoso che trascende
le singole opinioni, ma una sintesi degli interessi attraverso il confronto delle diverse opinioni su cosa sia
il Bene effettivo.

La politeia è la forma di governo cui Aristotele attribuisce maggior valore. Essa è considerata una sintesi
di oligarchia e democrazia. Mentre la democrazia non pone alcun requisito di censo per la
partecipazione alle assemblee, e l’oligarchia lo esige elevato, la politeia porrà dei requisiti di censo che
consentano una larga partecipazione del ceto medio. Se la democrazia assegna a sorte le cariche
pubbliche e l’aristocrazia le assegna solo ai ricchi per elezione, nella politeia le cariche sono aperte
anche ai non ricchi attraverso un meccanismo elettivo meritocratico. Nella politeia, quindi, governa il
ceto medio. Affinchè i cittadini possano partecipare alla vita politica, è necessario che la polis non sia
eccessivamente grande da non permettere la conoscenza tra tutti. Va sottolineato, però, che il corpo dei
cittadini esclude coloro non idonei ad esercitare virtuosamente l’attività politica: donne, schiavi,
lavoratori manuali, contadini e mercanti.

L’uomo per essere felice deve disporre dei 3 tipi fondamentali di beni: esteriori, del corpo e dell’anima.
I primi 2 devono essere ricercati senza eccesso, mentre quelli dell’anima sono quelli che meglio
assicurano il conseguimento della felicità.

L’EREDITA’ ARISTOTELICA

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La concezione complessiva dell’uomo e della società tracciata dalla filosofia politica aristotelica ha avuto
una grandissima influenza. Tutta la tradizione che adotta il modello aristotelico si basa sull’idea
fondamentale che la società politica è anzitutto una comunità che poggia sulla condivisione di un
compito morale, cementata da un bene comune nei confronti del quale ognuno ha una specifica
responsabilità, che si concretizza nello svolgimento del compito cui ogni membro della società politica è
chiamato. Il bene comune non è dato una volta per tutte, ma va ricercato costantemente nella
complessità delle circostanze che contraddistingue le azioni umane. Fondamentale è agire secondo
saggezza per poter realizzare tale bene.

La riflessione aristotelica si sviluppa all’epoca del tramonto della polis, in un momento di prevalenza
dell’individualismo più sfrenato. Per molti il nuovo ideale politico diventa quello monarchico.
L’aspirazione alla cosmopolis tende a prendere il posto della limitata comunità della polis, evidenziando
come sia ormai diventato impossibile governare ed essere governati a turno. Gli uomini devono
imparare a vivere da soli in una comunità più vasta ed impersonale rispetto alla polis. Coloro che non
trovano più l’autorealizzazione nella politica ripiegano verso la ricerca di forme di saggezza che li aiutino
a bastare a se stessi, a prescindere dalle condizioni politiche in cui possano trovarsi.

LA RIVOLUZIONE CRISTIANA E LA DIFFUSIONE DEL CRISTIANESIMO A ROMA

Il messaggio cristiano è un messaggio di redenzione che si colloca apparentemente in uno spazio diverso
da quello della politica. Eppure l’intreccio tra cristianesimo e politica è stato fondamentale per la storia
dell’Occidente. Il cristianesimo è rivoluzionario in quanto evidenzia come una società divisa in schiavi e
padroni non possa più avere lo stesso valore di fronte a ciò che accomuna tutti gli uomini, ossia l’essere
figli di Dio. Esso predica, al posto di forza, potenza e ricchezza, la carità, la fratellanza e la povertà.
Proclama che la religione non è più una cosa sola con lo stato, quindi obbedire a Cesare non significa più
obbedire anche a Dio. Il cristianesimo separa, così, le 2 sfere, quella temporale e quella spirituale. Il
cristiano è tenuto ad una doppia lealtà nei confronti di 2 autorità indipendenti. Nel caso in cui le 2 sfere
siano in conflitto tra di loro, il cristiano è tenuto a seguire le leggi divine, non quelle statali.

La diffusione del cristianesimo a Roma fu possibile grazie alla conversione di Costantino a tale religione
nel 312, rimasta alla storia per aver poi portato, l’anno successivo, all’Editto di Milano con cui venne
autorizzato il culto della religione cristiana. Grazie all’Editto, i luoghi di culto, confiscati e alienati in
passato, vennero restituiti alle Chiese.
A partire dal 313 la Chiesa dovette porsi il problema di stabilire limiti e competenze del potere spirituale
e di quello temporale. Inoltre aveva il compito di far capire che l’imperatore, in quanto cristiano e figlio
della Chiesa, doveva sottostare moralmente e spiritualmente alla giurisdizione della Chiesa.
L’imperatore cristiano, infatti, davanti a dottrine eretiche, doveva preservare la dottrina cristiana nei
territori da lui governati.

Il cristianesimo ha ripreso i temi principali dello stoicismo. Secondo i Padri della Chiesa la legge naturale
non è altro che il riflesso della legge di Dio. La legge umana è giusta solo in quanto conforme a quella
naturale. E’ esistito uno stato di natura in cui l’uomo non era incline al male, in cui non esisteva dominio
dell’uomo sull’uomo, non esistevano schiavitù e proprietà privata; questi aspetti sono comparsi dopo
che l’ordine naturale è stato distrutto dal disordine del peccato, generando il castigo e il conseguente
rimedio, ossia forme di disciplinamento dell’uomo divenute necessarie e quindi volute da Dio. Il
governo, essendo stato voluto da Dio, aveva, quindi, una sua legittimità e, sempre in nome di Dio, si
poteva esigere l’obbedienza dei sudditi. La reale patria del cristiano è nei cieli; la città terrena è solo di
passaggio ma il cristiano è tenuto ugualmente ad obbedire alle leggi statali e a rispettare il governo.

LA FILOSOFIA POLITICA DI SANT’AGOSTINO

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Agostino, vescovo di Ippona, scrisse La città di Dio 3 anni dopo il saccheggio di Roma da parte dei
Visigoti di Alarico per difendere il cristianesimo dall’accusa mossa dai pagani di essere stato responsabile
del declino dell’Impero. Agostino afferma che Roma aveva subito rovesci e sventure già prima
dell’avvento del cristianesimo.
Secondo Agostino 2 forme di amore hanno dato vita a 2 città differenti: la civitas terrena ha avuto
origine dall’amore di sé spinto fino allo sprezzo di Dio, mentre la civitas celeste ha avuto origine
dall’amore di Dio fino allo sprezzo di sé. Quest’ultima è formata da tutti gli uomini che vivono di fede in
attesa di essere accolti nell’eterna dimora. Le 2 città sono incastrate l’una nell’altra e si differenzieranno
solo al momento del Giudizio Finale, quando ognuna raggiungerà il proprio fine, dividendo la società
divina degli eletti da quella diabolica dei condannati.
Il cristiano deve essere un cittadino migliore degli altri, non per devozione verso la propria patria terrena
ma per amore di Dio. I beni da lui usati nella civitas terrena costituiscono i meri mezzi che vengono usati
in vista del loro vero fine. L’ordine assicurato dalla città terrena e dalla legge temporale, che comunque i
cristiani rispettano, è relativo rispetto all’ordine assoluto della città celeste e delle leggi divine, le quali
vogliono la subordinazione della sfera temporale a quella spirituale.

La concezione dello Stato di Agostino parte dall’affermazione dell’esistenza di uno stato di natura di
purezza e di uguaglianza tra gli uomini. Il dominio dell’uomo sull’uomo, ossia del governante sul
governato, è la conseguenza del peccato originale e della superbia dell’uomo. Nel Regno di Dio ogni
dominio umano sarà annientato, ma nell’attesa dell’arrivo in tale regno lo schiavo ha il dovere di
obbedire al padrone così come il governato deve obbedire al governante. Tuttavia, poiché la legge divina
è superiore ad ogni altra legge, il cristiano non deve sottomettersi fino al punto di mettere in discussione
la sua fede. Rifiutarsi non significa, infatti, rivoltarsi prendendo le armi, ma resistere passivamente.

Secondo Agostino il valore in base al quale si deve giudicare uno stato è quello della vera giustizia, che
coincide con la giustizia cristiana e consiste nel dare a ciascuno ciò che gli è dovuto. Senza giustizia i
regni degli uomini non differiscono dalle società dei briganti, i quali si uniscono per depredare e si danno
una norma per dividersi il bottino. Ciò non significa che tali regni senza giustizia non possano esistere,
perché hanno comunque una loro funzione. Certo è che un popolo privo di giustizia sia un popolo iniquo
e malvagio ed è proprio per questo che Roma, così come Atene o l’Egitto, siano precipitati in discordie e
guerre civili. Per Agostino i romani ebbero una funzione fondamentale, quella di unificare il mondo
preparando il terreno all’avvento della predicazione cristiana.

Ogni potere ha la sua sfera ed è indipendente dall’altro. Ciò non significa che la Chiesa non debba
collocarsi ad un livello superiore rispetto a quello dello stato: la sua giurisdizione, infatti, si estende a
tutto il mondo. Mentre lo stato è una realtà provvisoria, destinata a scomparire con la venuta del Regno
di Dio, la Chiesa è eterna in quanto è la rappresentazione della città celeste. I 2 poteri devono, però,
collaborare strettamente. Compito dello Stato è di vigilare sulla promozione del culto da prestare al vero
Dio, punendo severamente tutto ciò che vada contro i precetti divini. Agostino, però, disapprova
l’adozione di provvedimenti violenti da parte del potere civile, sostenendo, invece, il ricorso all’uso della
parola, della discussione, della ragione nel combattere contro l’eresia. L’uso della minaccia della
repressione attraverso le leggi è lecito solo di fronte agli eccessi di fanatismo degli eretici.

LA TEORIA DEI 2 POTERI

Il problema del reciproco rapporto tra il potere spirituale e quello temporale ha attraversato tutto il
Medioevo cristiano, dando vita a molte interpretazioni e conflitti. La prima formulazione di tale
problematica venne data da Papa Gelasio I, con la sua teoria dei 2 poteri. Egli fa presente che con
l’avvento di Cristo nessun imperatore può più assumere il titolo di pontefice e viceversa, come invece
era accaduto prima di tale avvento. Ogni potere, supremo nella sua sfera di competenza, è subordinato
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per tutto ciò che appartiene alla sfera dell’altro potere. Gelasio, quindi, non fu un esponente
dell’agostinismo politico in quanto rifiutò ogni confusione tra i 2 poteri.

Bisognerà attendere un secolo, prima di vedere un esponente dell’agostinismo politico: Papa Gregorio
Magno. Egli giunse a subordinare sempre più decisamente la politica ai fini sovrannaturali di cui
l’autorità religiosa è custode. I sudditi avevano il dovere di obbedire passivamente e senza critiche ai
sovrani, anche nel caso in cui queste critiche fossero fondate, perché i sovrani sono dati da Dio e solo ad
esso rispondono dei loro atti. Gregorio negò, quindi, quell’indipendenza del potere temporale e
spirituale sostenuta, invece, da Gelasio.

Anche Isidoro di Siviglia fu un esponente dell’agostinismo politico. Egli affermava che i poteri dei
principi non sarebbero necessari nella Chiesa se essi non imponessero con il terrore della disciplina ciò
che il clero non riesce a far prevalere con la sola parola.

LA TEORIA DELLE 2 SPADE

Con la morte di Carlo Magno l’impero carolingio si sfaldò. Le diverse invasioni che si susseguirono
finirono per determinare la diffusione del sistema feudale. L’Impero fu poi ricostruito da Ottone I re di
Germania, il quale, pur proclamandosi difensore della cristianità, cercò di metterla sotto la sua tutela
rafforzando il suo potere con i vescovi-conti da lui stesso nominati. L’accrescersi del potere imperiale
portò ad un aspro conflitto tra papato ed impero. La battaglia per riconquistare l’autonomia della Chiesa
e il diritto esclusivo di conferire le cariche religiose fu sostenuta da Papa Gregorio VII nella cosiddetta
Lotta delle 2 spade. Egli centralizzò il governo della Chiesa secondo il modello dell’antico impero
romano. Poiché Enrico IV continuava a nominare i vescovi, Gregorio VII, dopo averlo scomunicato, ne
proclamò la deposizione e dichiarò i sudditi sciolti dall’obbligo dell’obbedienza. L’anno successivo Enrico
IV si umiliò chiedendo ed ottenendo il perdono del Papa a Canossa, che però, qualche anno più tardi
giunse alla seconda sentenza di scomunica e deposizione, riconoscendo a Rodolfo di Svezia il titolo di
legittimo re di Germania e sottolineando, facendo ciò, che il diritto di decidere chi dovesse regnare
spettasse al Papa. 4 anni dopo Gregorio fu costretto da Enrico a fuggire da Roma, verso cui stava
marciando, e venne sostituito da Clemente II, che incoronò nuovamente imperatore Enrico IV.

Secondo Gregorio VII è il papa a possedere l’unica vera autorità universale. Chi detiene un’autorità di
origine umana, quindi, è costretto a sottoporvisi. Solo al pontefice è consentito deporre gli imperatori e
sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà fatto a sovrani iniqui; egli non deve essere giudicato da
nessuno. La lotta delle 2 spade fu innanzitutto un conflitto di idee, un conflitto tra 2 universalismi che
non intendevano piegarsi al predominio l’uno dell’altro. Dietro tale conflitto c’era però il sogno unitario,
la nostalgia di un potere unico.

LA FINE DEI SOGNI IMPERIALI E TOMMASO D’AQUINO

Nel XIII secolo il tentativo pontificio di costituire la Res Publica Christiana fu portato avanti da grandi
papi: Innocenzo III, che sosteneva che il potere regio riceve dall’autorità pontificia il suo splendore ed è
inferiore, quindi, nelle dimensioni, nella qualità, nella potenza; Innocenzo IV, che sosteneva che nulla
può limitare l’autorità papale e che il potere temporale non può essere esercitato fuori dalla Chiesa
poiché non esiste potere costituito da Dio fuori di essa.
Il lungo duello tra papi ed imperatori ebbe fine solo con la morte di Federico II, che lasciò un impero
disgregato, sancendo la vittoria della cristianità romana. Da quel momento in poi la Chiesa iniziò a
misurarsi con una nuova realtà politica, fatta di organismi più limitati e compatti rispetto a quelli che
avevano caratterizzato la realtà imperiale. Il mondo occidentale si stava, infatti, organizzando attorno a
monarchie nazionali temporali, che invocavano, a sostegno della restaurazione dello Stato, il pensiero
politico del più grande dottore della Chiesa dopo Agostino: Tommaso d’Aquino. Egli intende operare
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una sintesi di fede e ragione, una sintesi in cui l’aristotelismo politico si incontra con le concezioni
medievali di legge e regime politico, in una filosofia politica detta tomismo politico.

TEORIA DEL POTERE: secondo Tommaso, il potere in abstracto, inteso come la possibilità che un uomo
ha di comandare un altro, viene da Dio. Tale potere è una necessità naturale dell’uomo, della convivenza
umana, non un’istituzione nata per convenzione in seguito alla corruzione della natura umana
attraverso il peccato originale. La vita in società non sarebbe possibile se non vi fosse un potere che
regola l’azione dei singoli e la orienta verso il bene comune. Tale bene non è in contraddizione con
quello del singolo poiché, essendo il singolo, per sua natura, un animale sociale, egli realizza il suo bene
solo nel contesto della società.
Diverso è il potere in concreto, che è il potere che è impersonato da uomini che vengono eletti o scelti.
Esso viene da Dio ma tramite il popolo. Chi legittimamente comanda un gruppo di uomini non è stato
designato direttamente da Dio ma dagli uomini. Vi è, quindi, una sorta di contratto all’origine del potere,
un patto per cui il popolo si impegna ad obbedire ai governanti, i quali, a loro volta, devono compiere il
loro dovere, ossia volere il bene comune e non il proprio.
Attuare il bene comune è alla base del tomismo politico. In questo Tommaso si rifà ad Aristotele.
Tuttavia se per il pagano Aristotele l’individuo trova la sua realizzazione unicamente nella polis, per il
cristiano Tommaso l’uomo ha 2 fini: un fine temporale ed uno spirituale. Gli ci vogliono, quindi, 2
autorità, lo Stato e la Chiesa. Essendo il fine spirituale superiore a quello temporale, l’autorità della
Chiesa è superiore a quella dello Stato. Sarà il papa a giudicare se, quando e fino a che punto intervenire
nella sfera temporale.

TEORIA DELLE LEGGI: Tommaso cerca di ricongiungere la legge umana a quella divina. Egli forma una
gerarchia che va da Dio all’essere naturale più infimo, gerarchia in cui ogni essere agisce seguendo gli
impulsi più intimi della sua natura particolare, mirando al bene. Il superiore domina sempre l’inferiore,
così come Dio domina il mondo e l’anima il corpo. Secondo Tommaso esiste un sistema di governo
divino che regge l’universo e che regola i rapporti di tutte le creature in vista di un certo fine. La ragione
e la legge sono inseparabili; la legge è un prodotto della ragione, una prescrizione della ragione in vista
del bene comune, stabilita da colui cui spetta la cura della comunità. Poiché la comunità più vasta è
l’universo, di cui Dio è il sovrano, la legge universale sarà la legge eterna, prescritta dalla ragione divina.
Essa è eterna perché la ragione divina non concepisce nulla nel tempo. La legge naturale è, invece,
quella legge che permette all’uomo di partecipare alla legge eterna. Essa prescrive tutto ciò che serve a
conservare la vita dell’uomo, mentre proibisce ciò che va contro questo fine. Essendo questi precetti del
tutto generici, è necessario, affinchè vengano applicati, che intervenga la legge umana, la quale assicura
la pacifica convivenza.
A questi 3 tipi di legge Tommaso aggiunge anche la legge divina positiva, con cui fa riferimento alla
Rivelazione contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Anche la legge rivelata viene dalla legge
eterna, ma essa è un dono della grazia di Dio, non una scoperta della ragione naturale.

TEORIA DELLA RESISTENZA: le 2 teorie delle leggi e del potere sono alla base dell’avversione per
l’ingiustizia e la tirannide tanto diffusa nello spirito medievale, che in Tommaso si concretizza nel suo
interrogarsi con molte riserve sull’obbedienza dovuta ad un principe che trascuri di cercare il bene
comune e violi la legge naturale. Le leggi umane sono, secondo Tommaso, ingiuste quando attentano al
bene comune (è il caso di una legge che mira a soddisfare il bene del principe e non quello della
comunità). In questo caso queste leggi, non imponendo di violare i comandi divini, sono comunque da
rispettare, sacrificando il proprio diritto. Le leggi umane sono ingiuste anche quando sono contrarie al
bene divino, cioè comandano qualcosa che va contro Dio (è il caso in cui viene imposto un culto
idolatrico). In questo caso non devono assolutamente essere rispettate. Il governo tirannico è un tipico
caso di legge ingiusta perché in esso la legge non è indirizzata al bene comune ma al solo vantaggio del

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despota. Ecco perché, pur condannando la ribellione come peccato mortale, Tommaso giustifichi la
resistenza al tiranno.

TEORIA DEL MIGLIOR REGIME POLITICO: secondo Tommaso la migliore forma di governo è quella mista,
perché riassume in sé i vantaggi delle 3 forme pure: monarchia, democrazia, aristocrazia. Il potere di
comando deve essere detenuto da un’autorità unica, che deve essere affiancata da un corpo di cittadini
qualificati, i quali devono essere scelti tra il popolo ed eletti da esso. Tuttavia Tommaso ha scritto una
guida politica cristiana rivolta ad un re che regna effettivamente, ossia il re di Cipro. In tale opera egli
sostiene che il governo di uno solo (monarchia), che deve essere temperato per non diventare tirannico,
è il migliore perché il fine di tale governo è l’unità, madre della pace, più facilmente raggiungibile da uno
che non da molti. L’esperienza, inoltre, insegna che le discordie hanno rovinato quegli stati governati da
molti, non da uno solo.

Per quanto riguarda il secolare tema del rapporto tra potere spirituale e potere temporale, Tommaso
ebbe un atteggiamento moderato. Egli sosteneva, infatti, che il papa avesse il potere di deporre un
sovrano in determinate circostanze, sciogliendo i sudditi dal dovere di fedeltà, rimanendo, però, nella
tradizione di Gelasio di credere all’indipendenza delle 2 autorità, quella della Chiesa e quella dello Stato
e alla superiorità della prima sul secondo.

DANTE E LA TEORIA DEI 2 SOLI

La subordinazione del potere temporale a quello spirituale è stata messa in discussione da Dante
Alighieri, che ha sostenuto la netta indipendenza dei 2 fini cui la vita umana tende: la beatitudine
terrena, cui si giunge attraverso gli insegnamenti filosofici e che è di competenza dell’imperatore, e la
beatitudine celeste, cui si giunge attraverso gli insegnamenti spirituali e che è di competenza del papa.
Entrambi i poteri, quello temporale e quello spirituale, ricevono il loro potere direttamente da Dio, non
da un suo vicario, quindi non vi è subordinazione dell’uno all’altro, ma reciproca collaborazione.
Secondo Dante vi sono 2 guide per gli uomini: quella spirituale, che li conduce al fine sovrannaturale, e
quella temporale, che li conduce al fine terreno.

MARSILIO DA PADOVA E GUGLIELMO DI OCKAM

Nel 1322 Ludovico il Bavaro divenne imperatore, ma venne scomunicato 2 anni dopo da Papa Giovanni
XXII. Il consigliere di Ludovico, Marsilio da Padova, si schierò ovviamente contro la Chiesa, in nome di
una dottrina dello stato puramente temporale: sovranità dello stato, separazione tra Stato e Chiesa,
superiorità del Concilio sul Papa. Egli sosteneva che la legge che governa un regno deve essere il frutto
della volontà dei cittadini, non è ammissibile un potere superiore all’autorità politica. Il suo obiettivo era
quello di difendere la pace, considerata il miglior bene possibile per il regno.
Secondo Marsilio, compito dei sacerdoti era solo quello di consigliare, ammonire, persuadere i fedeli,
ma mai obbligarli in forza di un’ipotetica autorità a seguire i loro comandi. Ciò spetta solo al principe,
che può obbligare e giudicare sia in materia religiosa che in ogni altro settore.
Il sistema di Marsilio sfocia nella subordinazione della Chiesa allo Stato; all’imperatore spetta intervenire
nell’ordinamento della gerarchia ecclesiastica e nelle funzioni del clero.
Stessa lotta contro la plenitudo potestatis venne portata avanti da Guglielmo di Ockam.

Insomma, il potere civile stava erodendo sempre più il potere ecclesiastico e il particolarismo nazionale
guadagnava sempre più terreno sull’universalismo.

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DAL GRANDE SCISMA ALLA RIFORMA

La Chiesa, a partire dal trasferimento della sede papale ad Avignone nel 1309, fu attraversata da una
sequenza di gravi crisi, che portarono al Grande Scisma d’Occidente. Questo avvenimento divise la
cristianità tra l’obbedienza ad un papa romano e quella ad un papa avignonese, i quali si contendevano il
soglio pontificio. La conseguenza fu la proposta avanzata ai Concilii di Costanza e Basilea di riformare il
governo ecclesiastico. Uno dei promotori di questa proposta fu il cardinale Nicolò Cusano. Il progetto
prevedeva l’abolizione della sovranità pontificia in nome di un governo costituzionale per la Chiesa,
affiancata da un organo rappresentativo, il Concilio appunto, che potesse frenare il potere assoluto del
Papa. Tale progetto, però, fallì; il potere del papa venne, quindi, riconfermato e rimase tale fino alla
Riforma protestante. Tuttavia il movimento conciliare fu molto importante poiché rappresentò il primo
grande dibattito costituzionale contro l’assolutismo.

Pur uscendo il papa come vincitore dalla prova conciliare, egli fu costretto a firmare tutta una serie di
accordi bilaterali tra Santa Sede e stati nazionali, nei quali venne tacitamente riconosciuta la sovranità
che questi ultimi si erano attribuiti. La Res Publica Christiana vedeva, così, la sua fine. Venne, infatti,
sostituita dalle chiese nazionali, indipendenti da Roma.

L’unità del cristianesimo venne definitivamente rotta dalla Riforma protestante di Martin Lutero. Egli nel
1517 affisse in Germania le cosiddette 95 tesi contro il commercio delle indulgenze (ossia uno dei mali
che affliggevano la Chiesa di Roma). Venne, così, scomunicato da papa Leone X, ma la bolla di scomunica
venne bruciata dallo stesso Martin Lutero, dando il via a quel processo di riforma religiosa che in breve
tempo fece proseliti in tutta Europa. Lutero ridusse il numero dei sacramenti a 3 (eucaristia, battesimo e
penitenza, che hanno il loro fondamento nella Sacra Scrittura mentre gli altri sono stati istituiti
dall’autorità ecclesiastica); affermò, anche, il principio del libero esame per cui ogni credente può
rapportarsi direttamente al testo sacro e interpretarlo, senza la mediazione dell’autorità ecclesiastica.
Egli sostenne, inoltre, la scissione tra regno terrestre e regno spirituale: il regno di Dio è un regno di
grazia, che non può essere guadagnata dall’uomo con le opere terrene in quanto è un dono divino; il
regno terrestre, invece, è irrimediabilmente segnato dal disordine della natura umana conseguente al
peccato originale. Contrariamente a quanto sosteneva Tommaso, secondo cui la felicità terrena era
indirizzata al raggiungimento della beatitudine celeste, secondo Lutero non c’è mediazione tra i 2 regni.

LE ORIGINI DELLO STATO MODERNO

Il concetto di stato moderno descrive una forma di ordinamento politico e di gestione del potere che ha
origine in Europa a partire dal XII-XIII sec. Si caratterizza per il monopolio del politico, che viene
esercitato:
- attraverso il diritto, che stabilisce norme astratte, generali per evitare ogni forma di arbitrio.
- attraverso un’amministrazione burocratica basata sulla gerarchia e sulla professionalità.

Gli elementi dello stato moderno sono 3: monopolio del potere legittimo, territorio, popolazione.

Esso è diverso dalla polis greca, sia per la sua estensione territoriale, sia perché la democrazia della polis
aveva strutture verticali di potere molto deboli rispetto allo Stato moderno, il quale si presenta, invece,
come una persona giuridica con propri organi e uffici.
Lo Stato moderno si differenzia anche dalla Res Publica Romana, il cui governo era costituito da una
molteplicità di magistrature collegiali con compiti specifici, limitate nel tempo.
Altra differenziazione va fatta tra Stato moderno e sistema feudale, caratterizzato, quest’ultimo, da vari
diritti di sovranità dei diversi signori nei rispettivi paesi ed in cui mancava l’unità territoriale. Qui i
rapporti di potere erano basati su un rapporto contrattuale, e ciò consentiva la guerra privata o la faida,
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la ribellione al superiore quando si riteneva che fosse stato violato un proprio diritto. Lo Stato moderno,
invece, grazie al monopolio dell’uso legittimo della forza, tende da una parte ad instaurare la pace nel
proprio spazio territoriale, dall’altra a trasformare i rapporti di potere privati e personali in un unico
rapporto impersonale e pubblico con i governati.
Il potere è accentrato nelle mani del sovrano.

Nella fase di passaggio dal sistema feudale allo Stato moderno, l’organizzazione del potere prese le
sembianze di uno Stato per ceti. La premessa per la formazione di tale tipo di Stato fu la nascita delle
città, in seguito ad un’intesa volontaria di singoli con l’obiettivo di difendere collettivamente il proprio
benessere economico, creando uno spazio giuridico immune rispetto alle regole del sistema feudale.
Questa novità sulla scena politica diede vita ad un nuovo sistema di dominio, il ceto, appunto, che è un
gruppo di individui che godono di uno stesso status giuridico. Attraverso le assemblee, i ceti trattavano
con il principe, rivendicando pretese in cambio di oneri nella gestione del dominio sul territorio.
Potevano anche prendere posto nei più alti uffici politici ed amministrativi. La caratteristica dello Stato
per ceti è dunque la natura dualistica del potere, che contrapponeva il principe ai ceti.
Il dualismo costituzionale dello Stato per ceti si esaurì in seguito per lasciare il posto all’accentramento
del potere tipico dello Stato moderno. A mano a mano che il principe accantonò il diritto di
approvazione delle imposte da parte dei ceti, amministrandone direttamente la riscossione, i ceti
persero la loro originaria posizione politica. Questo fu reso possibile anche grazie all’appoggio che il
principe, nella sua lotta contro i privilegi del più importante dei ceti, la nobiltà, ebbe da parte della
borghesia cittadina. Quest’ultima aveva l’obiettivo di distribuire più equamente il carico fiscale tra le
diverse forze del paese, nonché vedersi difendere e sostenere i propri interessi economici dal principe.
Questo è il periodo in cui è nato il concetto di Stato interventista.

LO STATO ASSOLUTO

E’ una forma dello Stato moderno con una funzione prettamente politica. E’ caratterizzata
dall’esclusività del potere del sovrano e dalla centralizzazione dell’amministrazione, dalla presenza di un
esercito permanente e stanziale, finanziato e organizzato dal sovrano, e dalla conseguente crescita degli
apparati fiscale, burocratico e giudiziario. Ciò che mancava allo Stato per ceti per essere considerato uno
Stato moderno a tutti gli effetti era proprio il monopolio dell’uso legittimo della forza.
In politica estera lo Stato assoluto era caratterizzato da un continuo gioco di alleanze e contro-alleanze
al fine di mantenere l’equilibrio. Questo è il periodo, infatti, in cui nascono le moderne ambasciate nei
vari paesi stranieri.
Dire che il potere di chi governa è sovrano non significa dire che non abbia limiti. I limiti vi sono, sono
quelli imposti dalla legge di natura, dalla legge divina e dalle leggi fondamentali del regno, ed è proprio
grazie ad essi che l’assolutismo dello Stato moderno non sfocia in tirannide.
Mentre al tramonto del Medioevo era presente in Europa una quantità innumerevole di soggetti
partecipanti alla gestione del potere politico, questo numero si ridusse notevolmente durante i secoli
dell’età moderna, fino a giungere, nel ‘700, ad una trentina di Stati sovrani. Questa semplificazione del
quadro politico avvenne attraverso una serie di guerre e conflitti.
La grande novità dello Stato moderno risiede nel fatto che la religione smise di essere parte integrante
della politica.

LE TEORIE DELLA SOVRANITA’

Il termine sovranità appare alla fine del XVI sec. insieme a quello di Stato per indicare il potere esclusivo
e non derivato di quest’ultimo. Sul piano interno il moderno sovrano procede all’eliminazione dei poteri
feudali, dei privilegi dei corpi intermedi (ceti, autonomie locali ecc…) per cercare di eliminare i conflitti
interni, mantenendo così la pace interna. Egli si trova in una posizione di assoluta supremazia, avendo

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sotto di sé i sudditi, tenuti all’obbedienza. Sul pianto esterno, invece, il sovrano decide in materia di
guerra e di pace. Egli si trova, però, in una posizione di eguaglianza con i sovrani degli altri Stati.
Il concetto di sovrano esisteva già prima del XVI sec., ma con un significato decisamente diverso. Nel
Medioevo, ad esempio, con il termine sovrano ci si riferiva a colui che era superiore in un preciso
sistema gerarchico, colui che assicurava giustizia osservando le leggi consuetudinarie del proprio paese.
Nella moderna accezione, invece, il sovrano fa la legge, è supra legem, e la sua legge è superiore ad ogni
altra fonte, quindi anche nei confronti della consuetudine.

JEAN BODIN

Era un giurista francese che scrisse la sua opera più importante durante le guerre di religione che hanno
funestato la Francia. La sua riflessione fu fortemente condizionata dall’auspicio di un governo centrale
forte che potesse porre fine a queste guerre religiose. Nonostante fosse cattolico, fu tra i primi a credere
nell’importanza di tollerare altre religioni all’interno di uno stesso Stato.
Secondo Bodin, affinchè uno stato sia unito ed indipendente, è necessario che sia dotato di una
sovranità, che deve presentare determinate caratteristiche:
- essere un potere supremo su sudditi e cittadini.
- essere perpetua, ossia durare quanto la vita di chi ne è detentore.
- essere assoluta, ossia non condizionata da nulla se non dalla legge di Dio e di natura.
- non essere alienata né delegata.

Nonostante Bodin non voglia considerare la sovranità come fondata sul diritto divino, non ne spiega la
sua origine, come invece farà Hobbes successivamente.
Come abbiamo detto la sovranità, secondo Bodin, doveva essere limitata solo dalla legge di Dio e di
natura. Lo stato è tenuto a rispettare il diritto sacro della famiglia e quindi quello della proprietà privata,
essendo questa uno dei fondamenti insostituibili della famiglia. Per famiglia egli intende la comunità
naturale formata da genitori, figli, servi e dai loro beni comuni, da cui derivano, poi, tutte le altre società
e quindi anche lo Stato. Quest’ultimo viene, pertanto, visto come un governo di famiglie in cui il padre
diventa cittadino nel momento in cui agisce insieme agli altri capifamiglia per la difesa comune e i
vantaggi reciproci.
Pur considerando il re di Francia un sovrano assoluto, Bodin ammetteva che ci fossero certe cose che
non potevano essere fatte da tale sovrano (es: modificare la successione o alienare il dominio pubblico).
Ammetteva poi l’esistenza di leggi fondamentali che neppure il sovrano poteva modificare e che
riguardavano la condizione e la struttura del regno.

THOMAS HOBBES

E’ considerato il padre della filosofia politica moderna. Le sue idee si contrappongono a quelle
aristoteliche. Contro la naturale ineguaglianza degli uomini di Aristotele, infatti, Hobbes contrappone la
tesi della naturale eguaglianza tra gli uomini, sia in termini di forza fisica, sia in termini di facoltà mentali
che di facoltà spirituali. Contro, invece, la convivenza gerarchicamente ordinata di Aristotele, Hobbes
contrappone la tesi della costante conflittualità tra gli uomini. Essi, infatti, entrano in conflitto per
diffidenza, nel senso che se nessuno può essere certo di non venire ucciso dagli altri, ognuno dovrebbe
aggredire e uccidere in anticipo per evitare di fare la stessa fine. Se gli uomini entrano in conflitto è
perché sono animati da una passione definita da lui “gloria”, che deriva dal riconoscimento della propria
superiorità sugli altri. Per porre fine alla guerra di tutti contro tutti è necessario stipulare un patto
sociale, da cui nasce lo Stato.

Le opere politiche di Hobbes furono scritte in occasione delle guerre civili inglesi con l’intenzione di
sostenere la monarchia assoluta, che credeva fosse la forma di governo più stabile ed ordinata. Egli
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giunse ad una teoria dell’unità del potere statale caratterizzata da un lato dall’indipendenza da ogni
autorità esterna allo Stato, dall’altro lato dalla superiorità del potere statale su qualsiasi altro centro di
potere. Il potere sovrano è originario, ossia non deriva da nessun altro potere superiore.

Secondo Hobbes sono 3 i fattori che possono ostacolare la formazione dell’unità statale, ma sono fattori
cui possono essere posti rimedi:
1. la pretesa dell’autorità religiosa di essere titolare di un potere superiore a quello dello Stato e
quindi di decidere se l’ordine del sovrano sia giusto o meno. Secondo Hobbes solo la
sottomissione del potere religioso a quello civile può eliminare le discordie derivante dal conflitto
di poteri. In opposizione alla distinzione dei 2 poteri, egli pone il principio dell’unicità del potere
in capo allo Stato.
2. La contesa tra la Corona ed il Parlamento in Inghilterra. La Corona trovava nella Costituzione un
ostacolo alla sua trasformazione in uno stato assoluto. Lo stato inglese era uno stato fondato
sulla divisione dei poteri. Contro tale divisione Hobbes poneva il principio dell’unitarietà del
potere sovrano.
3. Il primato della common law sulla statute law. Il re era vincolato non solo dalla legge naturale e
divina, ma anche dalle norme positive. Contro tale dottrina di supremazia della common law,
Hobbes afferma che l’unità politica non può prescindere dall’unità giuridica, perseguita
attraverso l’unificazione delle fonti del diritto nell’unica fonte di legge che è il sovrano.

METODO SCIENTIFICO: Hobbes segna una svolta fondamentale nella filosofia politica poiché per primo
formula una vera scienza della politica, in cui il potere civile non ha più bisogno della sanzione divina.
Fino ad allora, per giustificare la fondazione e legittimazione del potere monarchico, si era sempre
utilizzato il metodo del ricorso all’autorità sovrannaturale delle Sacre Scritture. Hobbes, invece, per la
prima volta introduce il metodo razionalistico, che applichi alle discipline morali e politiche, ossia allo
studio dell’uomo e della società, quello stesso metodo scientifico di cui si servivano la geometria e in
generale le scienze naturali. Solo così la scienza politica può diventare una scienza rigorosa che non dia
spazio a dispute interne su ciò che sia vero o falso e le cui conclusioni siano, quindi, incontrovertibili.
Secondo Hobbes è necessario partire dalle cose più semplici per arrivare a quelle più complesse
servendosi solamente di ciò che è stato precedentemente dimostrato.
L’uso del metodo scientifico permette al filosofo politico il possesso di un sapere infallibile, cui viene
dato il compito di determinare una forma di convivenza in cui siano superate le false credenze intorno a
ciò che è giusto o meno. Questo concetto richiama l’idea di Platone, secondo cui sarà sempre
impossibile porre fine alle crisi politiche e ai rivolgimenti di governo finchè i sovrani non diventeranno
filosofi.

STATO DI NATURA E STATO CIVILE: il sistema di Hobbes è un sistema piramidale composto da 3 parti: la
prima tratta dei corpi e cerca di comprendere la geometria e la meccanica; la seconda tratta della
fisiologia e della psicologia degli individui; la terza del complesso di tutti i corpi, ossia dello Stato.
Il procedimento deduttivo su cui si basa afferma che:
1. Il movimento è il fatto più diffuso in natura.
2. La condotta umana è una forma di moto.
3. La condotta sociale, su cui si fonda l’arte di governo e che deriva dal reciproco atteggiamento
degli uomini, è anch’essa legata alle leggi del moto.

Una dottrina dello Stato che voglia essere scientifica deve innanzitutto studiare gli individui, le loro
passioni, i loro bisogni. Secondo Hobbes sono 2 le peculiarità della natura umana: l’uomo è
naturalmente diffidente verso il suo simile; egli tende per natura all’autoconservazione della vita ossia
ad evitare la morte. Uno stato di natura in cui l’uomo segue il suo istinto sarebbe caratterizzato da
contrasti e conflitti insanabili. L’unica istituzione in grado di sanare la contraddizione dello stato di
natura, sostituendo al regno della guerra quello della pace, è lo Stato, che può essere tale solo per
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convenzione, in quanto opera della ragione. Però, affinchè gli uomini possano risolvere i loro conflitti, è
necessario presupporre un terzo principio della natura umana, ossia che gli uomini siano essere
ragionevoli. Occorre, cioè, presupporre che essi siano in grado di rendersi conto tramite la ragione che la
guerra dipende dal diritto di tutti a tutto, tipico dello stato di natura, e che solo rinunciando a tale diritto
la guerra possa essere evitata. Gli uomini, nello stato di natura, si trovano in una situazione di
uguaglianza di fatto, di scarsità di beni e di ius in omnia (=diritto di ciascuno su tutte le cose). Lo stato di
natura è, quindi, uno stato di concorrenza, in cui se 2 uomini desiderano la stessa cosa diventano nemici
e nel perseguire il proprio scopo, ossia l’autoconservazione, cercano di distruggersi e di sottomettersi a
vicenda.

Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, in cui esiste un potere comune che costringe gli uomini
ad osservare le leggi necessarie ad una pacifica convivenza assicurando, così, la pace, può avvenire solo
mediante un patto con cui tutti si accordano per rinunciare all’uso della forza individuale, istituendo una
forza comune. Occorre cercare e perseguire la pace con tutti i mezzi di cui si dispone; si deve rinunciare
reciprocamente al diritto su tutto e ci si deve accontentare di avere tanta libertà nei confronti degli altri
quanta se ne conceda agli altri nei confronti di se stessi; occorre mantenere i patti stretti, quindi nel
momento in cui si rinuncia ad un proprio diritto non bisogna assolutamente ostacolare chi ora ne
fruisce.

IL CONTRATTO E LE CARATTERISTICHE DELLA SOVRANITA’: per far sì che gli accordi vengano rispettati è
necessario che ci sia un potere che obblighi all’obbedienza, a meno di una punizione. Tutto il potere
deve essere trasferito ad un Uomo Artificiale, il cui potere è infinitamente superiore a quello dell’uomo
naturale, e che viene autorizzato con lo scopo di assicurare la pace interna, sanzionare le tendenze
egoiste degli uomini, dando efficacia alle leggi naturali. Il processo di formazione di questo Uomo
Artificiale è quello del contratto, o meglio, dei contratti conclusi dagli uomini in favore di un terzo
soggetto, la cui volontà si sostituirà a quella di tutti. Il patto non dà vita ad una mera associazione di
persone che perseguono un fine comune, poiché una tale società non garantirebbe l’osservanza delle
leggi. Invece con questo accordo i singoli contraggono un obbligo, quello di obbedire a tutto ciò che il
detentore del potere comune comanderà. Il sovrano, quindi, non partecipa al patto ma ne è il
beneficiario.
Le caratteristiche del contratto danno alla sovranità che ne scaturisce 3 attributi fondamentali:
1. È un patto di sottomissione stipulato tra singoli a favore di un terzo e non tra popolo e sovrano
 ne deriva che la sovranità è irrevocabile. L’opposizione al sovrano non è mai giustificata, a
meno che egli non sappia dare quella sicurezza che è l’unica ragione per la quale i sudditi si
sottomettono ad esso.
2. Tutto il potere che ciascuno ha nello stato di natura viene attribuito ad un terzo sopra le parti 
ne deriva che la sovranità è assoluta. Chi detiene il potere può esercitarlo senza limiti esterni e
niente di ciò che il sovrano può fare ad un suddito può dirsi ingiusto o offensivo. L’unico diritto
che rimane in capo all’individuo è il diritto alla vita. Hobbes prevede, comunque, una sfera di
libertà per i sudditi in quelle materie in cui il sovrano non ha legiferato (es: educazione dei figli,
lavoro da svolgere ecc…).
3. Il terzo cui questo potere è attribuito è un’unica persona  ne deriva che la sovranità è
indivisibile. Sono riuniti nella stessa persona i 3 tradizionali poteri dello stato: legislativo,
esecutivo e giudiziario.

RAPPORTI TRA STATO E CHIESA: Hobbes parte da 2 presupposti. Per lui essere cristiani non significa
altro che credere che Gesù è il Cristo figlio di Dio. Inoltre il regno di Dio non è di questo mondo, Cristo è
venuto tra gli uomini per insegnare e predicare, non per comandare; il potere di comando, infatti, è
riservato all’autorità civile. Nello stato di natura ogni cristiano interpreta le Sacre Scritture secondo la
sua ragione individuale. Trasferendo il diritto di interpretazione all’Uomo Artificiale, spetta poi al
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sovrano l’interpretazione delle scritture e la loro trasformazione in leggi civili. Per Hobbes, quindi, non
esiste un potere sacerdotale diverso dal potere civile; il potere di decidere sulle cose spirituali spetta
esclusivamente allo Stato.

BENJAMIN CONSTANT

Nella sua opera più celebre Constant contrappone gli Antichi ai Moderni, distinguendo 2 tipi di libertà,
quella liberale, tipica degli Antichi, e quella democratica, tipica dei Moderni. Secondo Constant la civiltà
classica ha formulato un concetto di libertà consistente nell’esercitare collettivamente molti dei privilegi
spettanti alla sovranità. Nel senso degli antichi la libertà consiste, quindi, essenzialmente nella
partecipazione diretta al potere politico. Per i moderni, invece, la libertà è il diritto di non essere
sottoposto a nient’altro che alle leggi, di non poter essere arrestato, detenuto, condannato a morte,
maltrattato a causa dell’arbitrio di uno o più individui, di dire la propria opinione, di disporre della
personale proprietà, di circolare senza chiedere permesso.
Constant si schiera a favore della libertà dei moderni. Il suo bersaglio critico è Rousseau, reo di aver
confuso l’autorità del corpo sociale con la libertà, finendo per sacrificare la libertà individuale alla libertà
politica. L’errore di Rousseau sta nell’aver presupposto l’alienazione totale da parte degli individui di
tutti i loro diritti per dar luogo ad un potere esercitato da tutti. Secondo Constant, invece, tale
alienazione porta di fatto ad una perdita dei diritti, perché chi esercita di fatto l’autorità non è mai il
corpo sociale nel suo insieme ma solo parte di esso. Egli afferma che l’autorità dello Stato non debba
estendersi oltre la sicurezza dei cittadini e dei loro averi sul piano interno e la sicurezza dello stato sul
piano esterno.

CONCETTO DI LIBERTA’: in generale si può definire libertà lo stato in cui un soggetto può agire senza
costrizioni o impedimenti, autodeterminando i fini e i mezzi adatti a conseguirli. A partire da tale
definizione è possibile dare una definizione anche di libertà politica. Essa è la libertà di agire o di fare, è
una libertà pratica, come la libertà sociale di cui è una sottocategoria. La libertà sociale, però, si riferisce
al rapporto di interazione tra persone o gruppi, in particolare al fatto che un attore lascia un altro attore
libero di agire in un certo modo. La libertà politica, invece, si applica al rapporto cittadino-Stato,
considerato dal punto di vista del cittadino. Ciò presuppone, oltre alla titolarità dei diritti, anche il
rispetto di doveri, il rispetto delle leggi civili. Il concetto di libertà politica riguarda, dunque, il modo in
cui l’uomo è libero nell’ordine politico sociale.

Il concetto di libertà ha ricevuto nel pensiero politico 2 significati differenti: quello di libertà negativa,
intesa come assenza di interferenza con le scelte individuali, e quello di libertà positiva, intesa come
superiorità della volontà collettiva rispetto a quella individuale.
Quelle che oggi vengono individuate come le libertà individuali fondamentali sono essenzialmente
libertà negative. La libertà negativa coincide con la libertà liberale difesa dal liberalismo, teoria politica
che afferma la necessità di limitare il potere dello Stato e di garantire le libertà individuali, in particolar
modo la libertà personale, di opinione e di stampa, di riunione, di associazione.
La libertà positiva non riguarda il singolo ma il cittadino come soggetto politico. Si tratta dunque della
libertà democratica, quella libertà che l’individuo ha di partecipare alla formazione delle decisioni
collettive, delle leggi e delle istituzioni. Gli uomini devono obbedire alle leggi del governo perché tali
leggi riflettono la volontà della maggioranza, ossia la loro stessa volontà.

IL LIBERALISMO

Il liberalismo nasce dalla crisi della concezione autoritaria della sovranità e della concezione gerarchica
della società, tipicamente medievali.
Il concetto di liberalismo è difficile da definire in modo univoco in quanto comprende un insieme
complesso di dottrine ed esperienze politiche.
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Una prima questione che si pone è quella di distinguere tra liberalismo e liberismo, distinzione che
interessa solo noi italiani non avendo equivalenti nelle altre lingue. E’ stata fatta da Benedetto Croce che
ha definito il liberismo come dottrina economica che difende ed afferma il libero scambio, criticandone i
limiti che gli si vogliono imporre, e il liberalismo come dottrina più etica e politica.
Una seconda questione si pone sulla distinzione tipicamente statunitense tra ciò che comunemente
intendiamo come liberalismo classico e ciò che viene indicato con il termine liberal. Il pensiero liberal
accoglie senz’altro valori del liberalismo, ma nella sostanza appartiene ad una corrente diversa, di
matrice democratica e sociale, che in Europa potrebbe essere definita come socialdemocrazia.
Una terza questione viene posta, sempre negli USA, sulla distinzione tra liberals e libertarianism. Esso
somiglia molto alla nostra definizione di liberismo. Il libertarianism, infatti, è una teoria che prevede il
minor intervento possibile da parte dello Stato nella sfera economica degli individui. La radicalizzazione
estrema di questa posizione è l’anarco-capitalismo, che difende in modo assoluto la libertà di mercato
da ogni tipo di intervento statale, giungendo addirittura a proporre la mercatizzazione di tutte le
principali funzioni svolte dallo Stato.

Ad ogni modo, ciò che le diverse posizioni liberali hanno in comune sta nel fatto che danno tutte una
maggiore e decisiva importanza alle libertà individuali, ai diritti di cui gli individui devono godere,
mettendo in secondo piano la partecipazione degli stessi ai processi di decisione collettiva e
autogoverno. Netto, quindi, il contrasto tra liberalismo e democrazia. Gli aspetti rispetto ai quali le
posizioni liberali si diversificano riguardano, quindi, più che altro la valutazione che ciascuna visione fa
della democrazia e l’interpretazione che viene data ai diritti economici e sociali.
Il liberalismo considera la distinzione tra Stato e società come un dato naturale, rifiutando, così, l’idea
statalista di dominazione dello Stato sulla società civile. I poteri dello Stato devono essere minimi.

CARATTERISTICHE: i diritti sono innati, inalienabili, gli individui non vi possono rinunciare e lo Stato, nel
legiferare e nell’esercitare la propria autorità, deve considerarli un limite invalicabile.
Il sovrano non può più essere pensato come colui che sta al di sopra delle leggi, ma, anzi, deve
anch’esso, uniformarsi a tali leggi. Per evitare che il potere sovrano si trasformi in potere dispotico, il
liberalismo ricorre alla dottrina della separazione dei poteri.
Ogni individuo ha il diritto di cercare il suo bene, la sua felicità nel modo in cui meglio crede, senza avere
impedimenti da parte dell’autorità politica, senza che sia lo Stato a decidere cosa sia meglio per gli
individui e quali sia il modo migliore per raggiungere un determinato scopo.
Il maggior teorico del liberalismo dal punto di vista economico è Adam Smith, il quale elogia il mercato,
e critica gli antichi sistemi di tassazione delle merci o di protezione delle economie nazionali, ossia il
cosiddetto protezionismo.

STORIA DELLA DIFFUSIONE DEL LIBERALISMO: il liberalismo si sviluppa nell’Inghilterra del XVII sec.
alleandosi con le forze ostili alle tendenze assolutiste e pre-cattoliche della monarchia degli Stuart.
In un primo tempo si afferma nel corso delle guerre di religione come liberalismo religioso, ossia come
affermazione della libertà religiosa individuale, di credere secondo coscienza e non per imposizione
statale, reclamando, quindi, il principio di tolleranza religiosa. Secondo questo principio lo Stato deve
garantire ad ogni individuo il diritto di ricercare la felicità e la salvezza coi propri mezzi. Allo stesso
tempo, però, deve liberarsi dalla tutela ecclesiastica, imponendosi come Stato-nazione.
La modernità nasce, quindi, proprio dall’emancipazione graduale della società nei confronti delle
autorità religiose, fondando la preminenza del potere civile.
La forza del pensiero liberale consiste nell’esprimere lucidamente le nuove aspirazioni che
accompagnano queste trasformazioni politiche, rifiutando l’organizzazione autoritaria della società e
tutto ciò che nello Stato moderno possa ostacolare la libertà degli uomini.

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L’idea liberale trova la sua conclusione nel liberalismo politico, secondo cui il fine dello Stato non è
quello di provvedere al bene comune, rendere i sudditi moralmente migliori, più saggi, più felici, ma è il
fine negativo di rimuovere gli ostacoli che impediscono al cittadino di migliorare moralmente, diventare
più saggio, più felice.

Davanti alla Rivoluzione francese, il liberalismo si ritrova con un nuovo compito, che consiste nel
ridefinirsi, dimostrando la legittimità del regime nato dalla Rivoluzione, dissociandolo dagli eccessi del
Terrore. Secondo Constant, il più importante pensatore liberale post-Rivoluzione, i principi rivoluzionari
possono trionfare, a condizione che si scoprano le modalità che gli permettano di prendere corpo,
legandosi agli interessi già presenti nella società. La dottrina di Constant è, quindi, una risposta a
Rousseau e ai principi democratici che hanno ispirato la Rivoluzione, ma che, portati all’estremo dai
giacobini, ne hanno compromesso la portata. Egli non nega completamente l’ispirazione democratica; il
principio della sovranità popolare non può essere contestato del tutto, perché che il popolo sia la fonte
dell’autorità è un dato imprescindibile. Il problema nasce quando si tratta di decidere chi è il popolo,
ossia la composizione del corpo elettorale, che, secondo Constant, deve essere composto da cittadini
acculturati, che possano disporre di tempo libero e della proprietà, la quale permette di godere degli agi.

Nel XIX sec. il conflitto tra liberali e tradizionalisti difensori dell’antico ordine sociale si altera a causa
dell’intromissione delle nuove teorie democratiche. Con l’avvento della democrazia moderna, infatti, il
liberalismo si trova di fronte a problemi che ancora oggi sono all’ordine del giorno. La concezione
liberale dei rapporti tra Stato e società civile è stato oggetto di 2 critiche:
1. Nel suo sostenere la limitazione del potere, il liberalismo è stato criticato dai sostenitori della
democrazia secondo cui esso sottovaluta il ruolo positivo dello Stato, che non ha solo la funzione
di garantire la sicurezza, ma soprattutto quella di incarnare l’autonomia della collettività.
2. Il liberalismo è stato anche criticato da Hegel per la sua incapacità di prendere in considerazione
ciò che nello Stato va al di là dei bisogni e degli interessi degli individui.

IL SOCIALISMO

Anche del socialismo è difficile fornire una definizione univoca, in quanto ha una lunga storia ed è stato
fortemente influenzato dal marxismo.
Il termine socialismo appare per la prima volta tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800 in Italia, mentre il
suo utilizzo nell’accezione moderna si osserva in Francia e in Inghilterra negli anni 30-40 dell’800. In
Inghilterra viene usato per definire la tendenza politica di Owen di giungere all’edificazione di un nuovo
mondo economico e morale attraverso l’opera di una moltitudine di associazioni cooperative e comunità
socialistiche in rivolta contro lo Stato. In Francia il termine compare, invece, tra i sansimoniani. Saint-
Simon affermava la necessità di riorganizzare la società in senso egualitario e scientifico, mettendo fine
al dominio delle classi oziose, improduttive dei nobili e dei militari, individuando il fine ultimo di tale
riorganizzazione nel miglioramento delle condizioni della classe più numerosa e povera, ossia quella dei
lavoratori.
Il termine socialismo nasce in contrapposizione a quello di individualismo.

Le dottrine socialiste nascono durante la Rivoluzione industriale con lo scopo di impedire che il genere
umano sia vittima del progresso della tecnica. Esse oppongono, alla corsa egoista al profitto, la visione di
una comunità di produttori legati gli uni agli altri da una solidarietà fraterna. Il punto di riferimento dei
socialisti è costituito dagli effetti dello sconvolgimento delle condizioni economiche causato da tale
Rivoluzione. Le antiche dottrine comuniste proponevano l’ideale di una vita semplice, frugale, in cui la
produzione di ricchezze è considerata nociva poiché disgrega il tessuto sociale, spingendo gli uomini alla
soddisfazione dei bisogni elementari, animali. I socialisti, invece, pur criticando la disparità nella
ripartizione delle ricchezze, non mettono in discussione il progresso della società industriale, ma si
dedicano all’organizzazione delle attività produttive. Per fare ciò devono, però, confrontarsi con la logica
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individualistica borghese alla base della Rivoluzione industriale, il cui trionfo storico risale alla
Rivoluzione francese. Occorre, quindi, confrontarsi in primo luogo con l’individualismo rivoluzionario,
che si traduce in una rivolta degli individui contro la gerarchia, in nome dell’uguaglianza, che deve essere
trasposta dal piano giuridico al piano reale. L’uguaglianza, secondo i socialisti, non deve essere intesa
solo nei diritti di libertà e nei diritti politici, ma anche nel diritto di accedere ai beni e alle risorse, diritto
che deve spettare a tutti, indipendentemente dalle capacità individuali.
Insomma, il socialismo trova le sue origini intellettuali in quelle posizioni che sono in polemica contro la
disuguaglianza sociale, in vista di una costituzione di una società più giusta ed uguale.

I VARI SOCIALISMI: nel momento in cui occorre tradurre questa aspirazione in una struttura sociale
nuova, iniziano a configurarsi le differenze tra i vari socialismi.

I cosiddetti utopisti, infatti, (es: Owen, Saint-Simon) propongono l’abolizione della proprietà privata, la
pianificazione della vita sociale ed economica, auspicando un progressivo superamento dell’avidità,
dell’egoismo e della ricerca sfrenata del profitto, a favore di un sentimento di comunità e fraternità. Il
limite degli utopisti sta nel non definire come raggiungere questi obiettivi.

Marx e Engels, invece, affermano l’importanza della statalizzazione dei grandi mezzi di produzione di
scambio, nonché della produzione pianificata, mostrando, però, allo stesso tempo, come riuscire a
raggiungere simili obiettivi. Gli utopisti, secondo Marx, si rendono conto dell’antagonismo delle classi,
ma il loro progetto manca di scientificità, è basato solo sulla propaganda. Essi non colgono il ruolo
storico del proletariato, di cui riconoscono la sofferenza ma non la forza rivoluzionaria. 2 sono, quindi, le
correzioni che Marx vuole apportare al socialismo utopico:
1. abbandonare le aspirazioni etiche.
2. individuare nel proletariato il rovesciamento dei rapporti di classe, dell’abolizione della proprietà
privata, dell’estinzione dello Stato.

Occorre, quindi, attuare una rivoluzione sociale e politica. Pensando alla Rivoluzione francese, Marx
afferma che essa non è stata una rivoluzione compiuta perché è stata soltanto una rivoluzione politica.
Emancipazione politica non significa emancipazione umana. Quest’ultima è possibile solo analizzando le
contraddizioni della società borghese, con le sue libertà civili e politiche che portano solo appagamenti
illusori agli uomini. I diritti politici sono quelli dei cittadini che partecipano solo da lontano alla vita della
collettività, mentre i diritti civili sono quelli degli uomini in quanto membri della società borghese.
Secondo Marx la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo” è da superare, in quanto elenca delle finzioni
giuridiche che mascherano la dominazione di una classe sull’altra. In essa, infatti, la concezione di libertà
implica che l’altro sia sempre un ostacolo, mai un aiuto; essere liberi significa poter agire secondo le
proprie convenienze, senza preoccuparsi degli altri, significa disporre dei propri beni secondo il proprio
interesse.

IL SOCIALISMO DOPO MARX: per Marx e per i primi socialisti l’organizzazione del proletariato è la
chiave del successo. Nel 1864 viene, così, fondata la Prima Internazionale socialista con l’obiettivo di
perseguire quelle riforme nei sistemi politici in grado di creare liberi spazi per le associazioni, per la
partecipazione politica, l’espressione del voto, per l’affermazione della classe operaia. A partire da Marx
il socialismo diventa un combattivo movimento politico, che mira alla conquista del potere grazie alla
classe operaia organizzata in partito. Lo sviluppo capitalistico, infatti, stava imponendo costi sociali
elevati, e questo avrebbe reso possibile l’adesione alla rivoluzione socialista non solo da parte di operai
e contadini, ma anche di artigiani e ceti medi. L’idea della rivoluzione era quella di dar vita, dopo una
prima fase di dittatura del proletariato, prima al socialismo, caratterizzato da una società senza classi,
poi al comunismo.

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Nella realtà gli sviluppi storici del marxismo hanno dato vita a realtà sociali differenti da quella auspicata
da Marx, una caratterizzata dal revisionismo socialista e democratico, l’altra caratterizzata da una
corrente rivoluzionaria.
La prima corrente si sviluppa a partire dagli scritti di Bernstein e Kautsky. La realtà in cui questi scritti
vengono prodotti è la società tedesca in cui il proletariato non solo non si è impoverito, ma addirittura si
sta imborghesendo, ed in cui il Partito socialdemocratico è cresciuto notevolmente. In una simile realtà
sociale, Bernstein afferma la necessità di ricorrere a riforme, che porterebbero a miglioramenti
economici e sociali per la classe operaia senza bisogno di ricorrere alla rivoluzione. Il socialismo
revisionista si caratterizza, quindi, per: il rifiuto della rivoluzione come atto violento e quindi del
bolscevismo; l’identificazione del socialismo con il progresso dei lavoratori, nel rispetto di una
democrazia rappresentativa; la grande importanza attribuita al movimento cooperativo e sindacale,
nonché allo sviluppo della democrazia amministrativa. La socialdemocrazia, nata a partire dagli anni ‘90
dell’800, è volta, quindi, alla ricerca di un accordo tra democrazia e socialismo.
La corrente rivoluzionaria, invece, è rappresentata da Lenin e da Trotsky. Secondo Lenin, se la difesa
degli operai viene lasciata alle loro organizzazioni sindacali, essi sviluppano una coscienza salariale,
mentre solo il partito è in grado di portare gli operai ad una vera coscienza di classe. Per essere
rivoluzionario il partito deve essere guidato da intellettuali, con il compito di guidare il proletariato.
Approfittando del crollo dello stato zarista, Lenin è riuscito a portare la rivoluzione proprio in quella
Russia cui Marx pensava di non poter arrivare in alcun modo, caratterizzata dall’assenza di una classe
operaia egemone.

Negli anni ’30 del ‘900 la frattura tra socialismo democratico e comunismo diventa inconciliabile. Nelle
zone sovietiche si assiste alla collettivizzazione economica, con la statalizzazione della proprietà privata
e dei mezzi di produzione, alla fornitura pubblica dei servizi sociali, alla presenza di un partito unico e
all’uso politico del terrore con Stalin. In Europa, invece, i partiti socialisti attuano politiche economiche
di sostegno alla domanda, politiche sociali intese a costruire il Welfare State, il tutto in uno Stato
promosso a soggetto economico attivo.
Il socialismo costruito nei paesi comunisti non è, nella realtà, riuscito a mantenere le sue promesse di
liberazione degli uomini ed è crollato a causa di inefficienza economica e bisogno di libertà. Anche il
socialismo democratico ha dovuto rinunciare agli obiettivi più ambiziosi di trasformare la società,
accontentandosi di arginare il dominio del mercato richiamandosi alla cooperazione e alla solidarietà
sociale.

LA DEMOCRAZIA

Il termine democrazia compare nella lingua greca nel corso del V sec. a.C. per indicare una forma
particolare di organizzazione della polis, in risposta alla crisi dell’ordine aristocratico e tribale della
società greca dell’epoca. Dopo essere, quindi, stata al centro della filosofia politica dell’antichità, la
democrazia ha avuto un’importanza solo marginale nel pensiero moderno fino al XVIII sec, caratterizzato
dall’assolutismo monarchico. A partire dal XIX sec. è, invece, tornata, attuale, diventando il riferimento
normativo di ogni ordine politico legittimo.

RAPPORTO TRA DEMOCRAZIA E LIBERALISMO: la democrazia propriamente detta è la democrazia


diretta, la cui teorizzazione risale a Rousseau. Constant e gli altri scrittori liberali sono critici rispetto a
tale concezione di democrazia, in quanto credono che la sola forma di democrazia compatibile con lo
Stato liberale, ossia con uno stato che riconosce e garantisce i diritti fondamentali, sia la democrazia
rappresentativa o parlamentare. Il compito di fare le leggi spetta ad un corpo di rappresentanti eletti dai
cittadini cui vengono riconosciuti i diritti politici. Nella concezione liberale della democrazia, quindi,
l’accento viene posto, più che sulla partecipazione in sè (come nel caso di democrazia propriamente
detta), sull’esigenza che tale partecipazione sia libera, sia espressione di tutte le altre libertà. Lo sviluppo

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della democrazia nei regimi rappresentativi si concretizza nel graduale allargamento del diritto di voto,
fino ad arrivare al suffragio universale, nonché nella moltiplicazione degli organi rappresentativi.

RAPPORTO TRA DEMOCRAZIA E SOCIALISMO: ciò che cambia nella dottrina socialista rispetto alla
dottrina liberale è il modo di intendere il processo di democratizzazione dello Stato. Per Marx e per i
marxisti, infatti, il suffragio universale, che per i liberalisti è il punto di arrivo della democratizzazione
dello Stato, è solo il punto di partenza. Il processo può avvenire attraverso la critica della democrazia
rappresentativa e attraverso la richiesta che la partecipazione popolare si estenda dagli organi di
decisione politica a quelli di decisione economica.

CARATTERISTICHE DELLA DEMOCRAZIA: il principio fondamentale della democrazia è l’uguaglianza


politica, ossia l’uguale partecipazione di tutti i cittadini adulti alle decisioni politiche che saranno poi
vincolanti per tutti. La partecipazione al potere politico da parte di tutti i cittadini rende gli uomini liberi
di decidere, di autogovernarsi. Se gli uomini devono per forza vivere sottoposti alle leggi coercitive dello
stato, infatti, l’unico modo perché essi rimangano liberi è che siano essi stessi gli autori di queste leggi.
Il principio con cui le leggi devono essere adottate è il principio di maggioranza

Sono 3 le teorie della democrazia che sono state elaborate: la democrazia come metodo, la teoria
realistica della democrazia, la teoria dinamica della democrazia o democrazia come sviluppo.

DEMOCRAZIA COME METODO: è quella che sta alla base della definizione di democrazia proposto da
Bobbio. Si ha democrazia quando alle decisioni collettive partecipa un numero molto alto di cittadini,
quando vigono regole per decidere (es: principio di maggioranza), quando i cittadini hanno la possibilità
di scegliere tra alternative reali e dispongono di libertà di espressione, riunione e associazione.
Il maggior teorico di questa teoria è stato Kelsen. Secondo lui, la democrazia per essere tale deve avere
un presupposto teorico di fondo: non credere che esista una verità assoluta. La democrazia è vista come
un metodo di creazione dell’ordine sociale che nulla, però, dice sul modo in cui nella realtà quell’ordine
debba essere strutturato. Essendo necessario, negli Stati moderni, il confronto con partiti e parlamento,
Kelsen delinea un modello di democrazia, caratterizzato dal primato del parlamento sull’esecutivo, da
un sistema elettorale proporzionale (preferito, quindi, al sistema maggioritario), dall’intendere le
decisioni come un compromesso tra maggioranza e minoranza.
Tale forma di governo può esistere solo se gli individui si raggruppano secondo le loro affinità politiche,
in modo che tra individuo e Stato si inseriscano quelle formazioni collettive che riassumono le volontà
dei singoli individui.
Per Kelsen tale tipo di democrazia è l’unica in grado di risolvere i conflitti di interessi e di classi tipici
degli Stati moderni.

TEORIA REALISTICA DELLA DEMOCRAZIA: il più importante teorico di questo tipo di democrazia è
Schumpeter. Egli sostiene che non esista l’idea di un bene comune verso il quale le diverse volontà
individuali possano orientarsi per dar luogo ad una volontà generale. Le decisioni politiche non sono
frutto della volontà dei cittadini, come invece sosteneva Kelsen, in quanto gli attori principali sono le
élites politiche, che competono per ottenere il voto popolare, in un modo molto simile a quello seguito
dagli imprenditori per conquistare i consumatori.
Il sistema elettorale preferibile non è più, quindi, quello proporzionale sostenuto da Kelsen, ma quello
maggioritario. Il cittadino ha solo più il compito di decidere chi debba essere il leader, il quale, in realtà,
è già stato scelto nell’ambito dei partiti, per cui il compito dei cittadini ne risulta svuotato.

TEORIA DELLA DEMOCRAZIA DI SVILUPPO: i sostenitori di questa teoria intendono la democrazia come
un processo dinamico. Se davvero la democrazia si risolve in un meccanismo per cui i cittadini diventano
l’oggetto delle strategie messe in atto da parte delle élites politiche per conquistarne il consenso, ciò
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non deve essere acriticamente accettato. La democrazia viene vista come una possibilità di
cambiamento, di miglioramento ed è caratterizzata da 2 elementi:
1. Non è vista solo come un metodo politico, come una forma di governo, ma innanzitutto come un
ideale di società, un tipo di vita associata. Per attuarsi, è necessario che la democrazia influisca su
tutti i modi di associazione umana, ossia sulla famiglia, la scuola, l’industria, la religione ecc… Le
istituzioni devono essere affiancate da processi di democratizzazione della vita associata.
2. Fondamentale importanza assume il dibattito pubblico, la partecipazione politica dell’opinione
pubblica. Il suffragio universale deve, quindi, essere preceduto dalla discussione.

PROUDHON

Il Risorgimento italiano e la lotta per l’indipendenza nazionale hanno portato il francese Proudhon ad
una riflessione fortemente critica sul processo unitario e sui suoi protagonisti. Nei primi anni della sua
riflessione egli aveva trovato nell’anarchia la soluzione alla questione sociale, un’anarchia che era vista
come risposta rivoluzionaria alle ingiustizie che si originavano dall’alleanza tra proprietà privata,
sfruttamento capitalista delle classi subalterne e Stato. Verso la fine degli anni ’40, però, Proudhon si era
allontanato da tale posizione anarchica per andare verso posizioni più democratiche e costruttive, che lo
porteranno ad avvicinarsi anche alla teoria federalista. Già in occasione della guerra in Svizzera tra
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cantoni protestanti e cantoni cattolici, dietro cui si celava il conflitto tra i difensori della centralizzazione
e quelli delle libertà cantonali e federali, Proudhon si era schierato a favore di quest’ultimi. Va
sottolineato, però, che, fatta eccezione per la guerra in Svizzera e quella in Crimea, prima di interessarsi
al processo unitario italiano egli si era dimostrato quasi sempre indifferente ai fatti di politica estera.
E’ nella guerra del 1859 in Italia che egli decide di interessarsi direttamente alla questione. Nel 1862 egli
intervenne per la prima volta pubblicamente con 2 articoli polemici contro Mazzini prima, e Garibaldi
poi. Negli scritti che ne susseguirono, egli definisce il processo di unificazione italiana come un modello
negativo di tesi federalista.

PROUDHON VS MAZZINI: per quanto riguarda l’articolo su Mazzini, va detto che questo fu scritto in
risposta alle dichiarazioni con cui Mazzini, dall’esilio londinese, aveva incitato i suoi seguaci a portare a
termine l’opera di unificazione lasciata incompiuta dalla monarchia sabauda, liberando, così, Roma e
Venezia. Egli voleva seguire la via della cospirazione per raggiungere tali obiettivi, questo perché,
secondo Proudhon, non era riuscito a farlo con la diplomazia, né con l’agitazione popolare.
La posizione di Proudhon a riguardo era decisamente critica. I problemi non potevano essere risolti con
la cospirazione! La rivoluzione doveva proseguire abbandonando al suo destino l’antisocialista Mazzini, il
quale, peraltro, continuava a definirsi democratico e repubblicano anche se in realtà contribuiva
semplicemente a far affermare il dispotismo borghese. Proudhon era convinto che per continuare il
processo fosse necessario istruire il popolo, svilupparne la ricchezza, farne nascere la libertà, la filosofia
e i costumi.

La polemica tra Mazzini e Proudhon è nata 15 anni prima dell’articolo scritto da quest’ultimo. Mazzini
aveva, infatti, definito la dottrina di Proudhon come una dottrina composta da idee false o comunque
dubbie. Ne deplorava la posa da moderno sofista e lo riteneva responsabile di aver diffuso una falsa
definizione della vita e della ricerca del benessere. A questo diretto attaccato Proudhon aveva risposto
con una lettera aperta nella quale rimproverava Mazzini di essersi schierato contro il socialismo a fianco
della borghesia e dei conservatori in vista di una nuova restaurazione europea. Se Mazzini pensava che
l’unità politica fosse l’unico mezzo per realizzare l’indipendenza nazionale, Proudhon, invece,
considerava superata ormai questa fase e riteneva che l’obiettivo politico dopo la rivoluzione del 1848
consistesse in una radicale trasformazione sociale ed economica. Era necessario subordinare il capitale
al lavoro, identificare il lavoratore con il capitalista, far cessare ogni autorità e sopprimere ogni apparto
governativo. Dietro il mito nazionale ed unitario Proudhon scorgeva gli obiettivi della borghesia italiana,
ossia quelli di prendersi la propria parte di utili, approfittare della vendita delle proprietà nazionali,
instaurare una monarchia costituzionale che consentisse tutto ciò. Il popolo, in un simile contesto,
sarebbe stato estromesso dal processo unitario e quindi anche dal nuovo Stato.

Mazzini identificava il popolo con la nazione. Egli riteneva che il concetto di popolo comprendesse tutte
le classi sociali. Per Proudhon, invece, il popolo si identificava solo con la classe operaia (cui si
aggiungeva eventualmente la borghesia produttiva). L’emancipazione di tale classe non poteva essere
raggiunta con la cospirazione dell’avanguardia intellettuale, come invece sosteneva Mazzini, in quanto
questa si sarebbe sostituita al popolo, soggiogandolo.

Secondo Proudhon l’Italia è per vocazione federalista; la sua stessa conformazione geografica, la sua
tradizione municipalistica e comunale, imporrebbero una simile organizzazione. L’imposizione di un
modello centralistico avrebbe portato alla perdita di tutte le libertà provinciali e municipali e alla
distruzione delle diverse identità locali, soffocando, così, la vita politica delle masse. Dal punto di vista
etnografico, poi, la penisola italiana è un insieme di nazionalità di ogni tipo, quelle nazionalità che
l’hanno invasa e vi si sono stanziate per secoli. Non esiste una razza italiana.

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Per Mazzini la nazione si costruisce attraverso l’edificazione di uno Stato unitario che esprima la volontà
di tutto il popolo italiano. Proudhon, invece, concepisce la nazione come un insieme di piccoli gruppi
omogenei che si sentono estranei all’unità politica e territoriale, cui, però, non possono opporsi. Il
regime unitario e centralizzato è visto, da Proudhon, come un sistema da cui traggono profitto solo le
classi superiori. La fede repubblicana e democratica di Mazzini dovrebbe spingerlo a lottare contro
l’imposizione al popolo italiano dell’unità sotto la monarchia, eppure ciò non accade. La via da seguire
dovrebbe essere quella di una repubblica confederata, non di una monarchia unitaria.
Inoltre non può essere stabilita a Roma la capitale del regno. Il vero centro dell’Italia è il mare e nessuna
delle grandi città italiane potrebbe diventarne la capitale poiché tutte ne avrebbero i titoli. Roma oggi
non è altro che un museo, una chiesa; non ha nulla di quello che hanno tutte le capitali, che sono,
invece, centri di interessi commerciali e industriali, che sono punti strategici.

La conclusione di Proudhon è drastica. Egli si augura, infatti, che l’Italia unita scompaia dal novero delle
potenze e delle nazionalità.

PROUDHON E IL FEDERALISMO: il suo approdo al federalismo è stato possibile dopo l’abbandono


dell’idea deterministica di progresso. Egli sostiene che l’umanità può perfezionarsi o corrompersi, può
scegliere se progredire oppure decadere, perché ciò dipende dalla coscienza e dalla libertà. Il processo
storico non ha nulla di fatale, nulla di continuo e lineare; è, infatti, discontinuo, la storia stessa
dell’umanità è fatta di conquiste e regressioni. Il progresso deve, quindi, essere visto non come un
qualcosa di ineluttabile, ma come un qualcosa di possibile.
La capacità degli attori collettivi è ciò che determina il processo storico. Tale capacità si concretizza nella
presa di coscienza collettiva e nella capacità di agire come un soggetto collettivo, di partecipare alla vita
politica.

IL METODO DIALETTICO: anche se inizialmente Proudhon accoglie il metodo dialettico hegeliano, in un


secondo momento riconosce l’errore di ammettere la soluzione dell’antinomia nella sintesi, termine
superiore rispetto alla tesi e l’antitesi. Contrariamente a quanto sosteneva Hegel, Proudhon afferma che
l’antinomia non si risolve; i 2 termini di cui si compone si bilanciano. A differenza della sintesi, che è
immobile, la bilancia è un equilibrio instabile, dinamico, tra forze antagoniste che non si sopprimono.
Anche la realtà sociale è fondata sull’antagonismo di una pluralità di forze che non potranno mai essere
ridotte all’unità. Il conflitto, quindi, viene visto come causa generatrice del movimento, della vita, del
progresso. Proudhon ha una visione dialettica del processo storico. La soluzione al problema sociale,
quindi, non consiste nel fare a meno delle antinomie, nel sopprimere una delle parti in lotta per la
supremazia, ma nell’equilibrarle, pur sapendo che tale equilibrio sarà sempre instabile e continuamente
messo in discussione da nuovi conflitti.

Autorità e libertà sono 2 termini indissolubilmente legati l’uno all’altro, irriducibili l’uno nell’altro, che
restano in lotta perpetua. L’autorità suppone una libertà che la riconosca o la neghi, la libertà, a sua
volta, suppone un’autorità che la freni, la tolleri. Questa condizione è assoluta, nessun sistema politico vi
si può opporre. Occorre, quindi, trovare il modo che permetta di gestire un antagonismo che finora ha
sempre dato vita a regimi ambigui e corrotti. Si tratta di trovare il punto in cui l’autorità e la libertà si
bilancino.
Esiste tra autorità e libertà un rapporto di successione prima ancora storica che logica: l’autorità
compare per prima, è l’iniziativa, l’affermazione; la libertà viene dopo, è la critica, la protesta.
Il regime autoritario si allontana tanto più dal suo ideale quanto più lo Stato cresce in popolazione ed in
territorio; più l’autorità si estende più diventa intollerabile. Da qui le concessioni che è costretta a fare
alla libertà. Al contrario il regime di libertà si avvicina tanto più al suo ideale quanto più lo Stato cresce in
popolazione ed estensione, quanto più i rapporti si moltiplicano e la scienza progredisce.

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L’opposizione tra le 2 forze viene risolto dal contratto, che è, quindi, il terzo termine della dialettica di
Proudhon. Esso permette di equilibrare la libertà e l’autorità sottomettendole ad una legge che le tenga
a bada. Il contratto da lui inteso implica una condizione di uguaglianza e vantaggio per tutti i contraenti.
Inoltre il suo oggetto deve essere limitato.
Il contratto alla base delle democrazie rappresentative, delle monarchie costituzionali spesso non
soddisfa queste condizioni, poiché priva i cittadini di gran parte della loro sovranità e poiché il vantaggio
promesso non è assicurato. Affinchè si possa parlare di democrazia, invece, è necessario che il cittadino
abbia tanto da ricevere dallo Stato quanto gli sacrifica, conservi tutta la sua libertà, la sua sovranità e la
sua iniziativa, tranne per ciò che riguarda l’oggetto specifico per il quale il contratto è stato stipulato, di
cui è garante il solo Stato. Un contratto che rispetti simili requisiti viene definito da Proudhon una
federazione. Caratteristica fondamentale del contratto federativo sta nel fatto che i contraenti devono
conservare sempre più diritti, libertà, autorità di quanti ne cedano. Ai cittadini e alle istanze locali deve
essere riservato sempre più di quanto si riservi all’autorità centrale, la quale ha il solo compito di
eseguire i compiti che le vengono affidati dai confederati.

CONTRATTO DI PROUDHON VS CONTRATTO DI ROUSSEAU: il contratto giusnaturalista di Rousseau


rimane all’interno di una logica autoritaria poiché legittima un potere superiore ed esterno ai cittadini. I
diritti, le libertà e le volontà particolari di quest’ultimi sono totalmente alienati alla volontà generale.
Il contratto federativo, invece, si modifica a seconda delle volontà dei contraenti. I patti che vengono
chiusi di volta in volta, sono correggibili in ogni momento e revocabili, ma soprattutto non trasferiscono
la loro volontà ad una volontà esteriore, ossia imposta.
La federazione è la libertà per antonomasia, in essa l’ordine politico è una gerarchia rovesciata nella
quale la maggior parte delle ricchezze e del potere resta nelle mani dei confederati, senza passare mai
nella mani dell’autorità centrale.
Il federalismo non è solo lo strumento che permette di conciliare autorità e libertà, che permette di
limitare e ripartire i poteri dello Stato, ma ha anche un contenuto economico. Solo esso, infatti, potrà
evitare il costituirsi di un impero industriale, sottrarre i cittadini delle federazioni allo sfruttamento
capitalista. Il federalismo permetterà di costituire una democrazia industriale, definita da Proudhon
federazione agricolo-industriale, caratterizzata dalla divisione del lavoro e dalla solidarietà economica.

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