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a cura di Enrico Berti, Cristina Rossitto, Franco Volpi

Aristotele
Etica Nicomachea
La felicità come vita teoretica (A)

Etica Nicomachea, I, 7, 1097a 15-1098a 20

I, 7. E su quest’ argomento basti ciò ch’ è stato detto. Torniamo dunque alla questione del bene, che
cosa esso sia. È evidente che esso è diverso nelle diverse azioni e arti; diverso infatti è nella
medicina e nella strategia e così nelle altre. Che cos’ è dunque il bene di ciascuna? È forse ciò in
vista del quale si fan le altre cose? Tale è nella medicina la salute, nella strategia la vittoria,
nell’ architettura la casa, e così di seguito, è il fine in ogni azione e in ogni proposito: è in vista di
esso che tutti compiono le altre cose. Cosicché, se vi è un fine di tutte le cose che si compiono,
questo dev’ essere il bene realizzato; e se vi sono più fini, questi sono il bene. Così su questa via il
nostro ragionamento ritorna al punto di partenza1. Tuttavia dobbiamo cercare di chiarire ciò ancor
meglio. Poiché dunque i fini appaiono esser numerosi, e noi scegliamo alcuni di essi solo in vista
d’ altri, come ad esempio la ricchezza, i flauti e in genere gli strumenti, è evidente che non tutti
sono fini perfetti mentre il sommo bene dev’ essere qualcosa di perfetto. Cosicché, se vi è un solo
fine perfetto, questo è ciò che cerchiamo, se ve ne sono di più esso sarà il più perfetto di essi. Noi
diciamo dunque che è più perfetto il fine che si persegue di per se stesso che non quello che si
persegue per un altro motivo e che ciò che non è scelto mai in vista d’ altro è più perfetto dei beni
scelti contemporaneamente per se stessi e per queste altre cose, e insomma il bene perfetto è ciò
che deve esser sempre scelto di per sé e mai per qualcosa d’ altro. Tali caratteristiche sembra
presentare soprattutto la felicità; infatti noi la desideriamo sempre di per se stessa e mai per
qualche altro fine; mentre invece l’ onore e il piacere e la ragione e ogni altra virtù li perseguiamo
bensì di per se stessi (infatti se anche essi dovessero esser privi di ulteriori effetti, noi
desidereremmo ugualmente ciascuno di essi), tuttavia li scegliamo anche in vista della felicità,
immaginando di poter esser felici attraverso questi mezzi. Invece la felicità nessuno la sceglie in
vista di questi altri beni, né in generale in vista di qualcosa d’ altro2. Ma anche dall’ autosufficienza
sembran provenire gli stessi risultati. Il bene perfetto sembra infatti essere autosufficiente. Noi
intendiamo per autosufficienza non il bastare a sé solo di un individuo, che conduca una vita
solitaria, ma anche insieme ai suoi parenti, ai figli, alla moglie e infine agli amici e concittadini,
poiché per natura l’ uomo è un essere politico. Ma qui bisogna porre un limite; infatti chi si rivolge ai
genitori e ai discendenti e agli amici degli amici procede all’ infinito. Ma questo lo esamineremo in
seguito; per ora definiamo autosufficiente colui che rende la sua vita a sé bastante e piacevole e
non ha bisogno di nessuno. Tale dunque pensiamo essere la natura della felicità, cioè il bene
preferibile a tutti, senza che altri elementi gli si debbano aggiungere. Se infatti così fosse, è
evidente che essa sarebbe suscettibile di diventar preferibile attraverso l’ aggiunta di un altro bene,
sia pure il più piccolo; infatti l’ aggiungere dei beni provoca aumento e, più grande è il bene, più
esso è desiderabile. Insomma la felicità appar essere qualcosa di perfetto e di autosufficiente,
essendo il fine delle azioni3.

Tuttavia, se pur il dire che la felicità è il sommo bene sembra qualcosa di ormai concordato,
tuttavia si sente il bisogno che sia ancor detto qualcosa di più preciso intorno alla sua natura.
Potremo riuscirci rapidamente, se esamineremo l’ opera dell’ uomo. Come infatti per il flautista, il
costruttore di statue, ogni artigiano e insomma chiunque ha un lavoro e un’ attività, sembra che il
bene e la perfezione risiedano nella sua opera, così potrebbe sembrare anche per l’ uomo, se pur
esiste qualche opera a lui propria. Forse dunque all’ architetto e al calzolaio vi sono opere e attività
proprie, mentre non ve n’ è alcuna propria dell’ uomo, bensì esso è nato inattivo? O piuttosto, come
sembra esservi un’ opera propria dell’ occhio, della mano, del piede e insomma di ogni membro, così
oltre a tutte queste si deve ammettere un’ opera propria dell’ uomo?4 E quale sarebbe dunque
questa? Non già il vivere, giacché questo è comune anche alle piante, mentre invece si ricerca
qualcosa che gli sia proprio. Bisogna dunque escludere la nutrizione e la crescita. Seguirebbe la
sensazione, ma anche questa appare esser comune al cavallo, al bue e ad ogni animale. Resta
dunque una vita attiva propria di un essere razionale. E di essa si distingue ancora una parte
obbediente alla ragione, un’ altra che la possiede e ragiona. Potendosi dunque considerare anche
questa in due maniere, bisogna considerare quella in reale attività: questa infatti sembra essere
superiore5. Se propria dell’ uomo è dunque l’ attività dell’ anima secondo ragione, o non senza
ragione, e se diciamo che questa è l’ opera del suo genere e in particolare di quello virtuoso, come
vi è un’ opera del citaredo e in particolare del citaredo virtuoso e insomma ciò si verifica sempre,
tenendo conto della virtù che viene ad aggiungersi all’ azione (del citaredo è proprio il suonar la
cetra, del citaredo virtuoso il suonarla bene); se è così, noi supponiamo che dell’ uomo sia proprio
un dato genere di vita, e questa sia costituita dall’ attività dell’ anima e dalle azioni razionali,
mentre dell’ uomo virtuoso sia proprio ciò, compiuto però secondo il bene e il bello, in modo che
ciascun atto si compia bene secondo la propria virtù. Se dunque è così, allora il bene proprio
dell’ uomo è l’ attività dell’ anima secondo virtù, e se molteplici sono le virtù, secondo la migliore e
la più perfetta. E ciò vale anche per tutta una vita completa. Infatti una sola rondine non fa
primavera, né un solo giorno; così neppure una sola giornata o un breve tempo rendono la
beatitudine o la felicità6.

Aristotele, Opere complete, vol. VII, Laterza, Roma-Bari 19883, pp. 12-15 (trad. di A. Plebe)

Note:

1. Aristotele ha appena criticato la teoria di Platone, secondo cui esiste un unico bene, la cosiddetta idea del bene. A ciò
egli oppone l’ esistenza di molteplici beni, tanti quanti sono i fini delle singole attività umane. Il bene (agathòn) infatti,
come egli dice, è «il fine in ogni azione e in ogni proposito» (en hapàse pràxei kài proairèsei to tèlos).
2. Tra i molti beni, o fini, il bene perfetto è quello in vista del quale tutti gli altri sono desiderati, e tale sembra essere la
felicità (eudaimonìa). Infatti beni come l’ onore, il piacere, la stessa ragione, sono desiderati non per se stessi, ma perché
sono considerati mezzi per realizzare la felicità.
3. Caratteristica della felicità è l’ autosufficienza (autàrkeia), cioè il bastare a se stessi, non considerando però solo il
singolo individuo, ma anche la famiglia e la città. L’ uomo infatti è animale politico, cioè fatto per vivere nella città (pòlis),
ed è felice solo quando è felice l’ intera città – oltre il limite della città, intesa nel senso ampio di società politica, non ha
senso proseguire – . Il bene per l’ uomo è dunque la felicità, nel senso che essa è appunto il fine delle azioni.
4. L’ «opera» (èrgon) di cui Aristotele parla qui è la funzione specifica di un ente, ciò in cui si realizza la sua natura. Per
esempio l’ opera del flautista è suonare bene il flauto, quella dello scultore è scolpire una bella statua. Come esiste
un’ opera delle singole parti dell’ uomo (l’ occhio, la mano, il piede), così dovrà esistere un’ opera propria dell’ uomo intero.
In essa, secondo Aristotele, consiste la felicità.
5. L’ opera dell’ uomo non è né la nutrizione e la crescita, comune anche alle piante, né la sensazione, comune anche agli
altri animali, ma l’ attività della ragione o della parte dell’ anima che obbedisce alla ragione. Questa divisione dell’ anima
razionale in due parti, cioè la ragione stessa (diànoia) e quella che obbedisce alla ragione (èthos, o «carattere») – che
ricorda per qualche aspetto quella di Platone tra le diverse parti dell’ anima nel suo complesso – , è una dottrina
caratteristica di Aristotele ed è la base per la distinzione tra virtù etiche (del carattere) e virtù dianoetiche (della ragione).
6. L’ opera dell’ uomo è non solo esercitare l’ attività della parte razionale dell’ anima, ma esercitarla bene, cioè secondo
virtù (aretè), come l’ opera del citaredo è non solo suonare la cetra, ma suonarla bene (virtù infatti, per i pensatori antichi,
vuol dire eccellenza, perfezione). Dunque la felicità consiste nell’ attività dell’ anima secondo virtù, e poiché le virtù sono
molte (etiche e dianoetiche), la felicità consiste nell’ attività secondo la virtù più alta, svolta per la durata dell’ intera vita.

Guida alla lettura:

Se fisica e filosofia prima sono scienze di carattere teoretico, in quanto conoscono al solo scopo di sapere, etica e politica
sono scienze di carattere pratico, nel senso che conoscono in vista dell’ azione. All’ etica Aristotele ha dedicato, nell’ ambito
del corpus, almeno tre trattati, e cioè l’ Etica Nicomachea, l’ Etica Eudemea (che in parte si sovrappongono) e la Grande
etica. Il più famoso è il primo, costituito di dieci libri e dedicato alla ricerca di che cosa sia il bene per l’ individuo.
Il brano che presentiamo è tratto dall’ Etica Nicomachea dove Aristotele identifica il bene con la felicità e questa con la vita
teoretica. Anzitutto egli mostra che il bene dell’ uomo si identifica non con un fine particolare, proprio cioè di una
particolare attività, ma con il bene in vista del quale sono desiderati tutti gli altri beni, ossia appunto con la felicità
(eudaimonìa). Questa è caratterizzata come autosufficienza, non solo del singolo individuo, ma anche di questo insieme alla
famiglia e alla città a cui appartiene. Un ulteriore approfondimento del concetto di felicità consente di riconoscere che essa
consiste nell’ esercitare l’ «opera» (èrgon), cioè la funzione, specifica dell’ uomo. Questa non è la semplice vita vegetativa,
propria anche delle piante, né la vita sensitiva, propria anche degli altri animali, ma è la vita secondo ragione, cioè
l’ esercizio della ragione stessa, per la parte dell’ anima che coincide con questa, e il comportamento conforme alle
indicazioni della ragione, per la parte dell’ anima che non coincide con questa. La felicità consiste dunque nel compiere nel
modo migliore, vale a dire secondo virtù, l’ attività propria dell’ anima.

a cura di Enrico Berti, Cristina Rossitto, Franco Volpi


Aristotele
Etica Nicomachea
La felicità come vita teoretica (B)

Etica Nicomachea, X, 7, 1177a 12-8, 1178a 23

X, 7. Se dunque la felicità è un’ attività conforme a virtù, logicamente essa sarà conforme alla virtù
superiore; e questa sarà la virtù della parte migliore dell’ anima. Sia dunque essa l’ intelletto oppure
qualcosa d’ altro, che per natura appaia capace di comandare e guidare e avere nozione delle cose
belle e divine o perché esso stesso divino o perché è la parte più divina di ciò che è in noi,
comunque la felicità perfetta sarà l’ attività di questa parte, conforme alla virtù che le è propria.
Che essa sia l’ attività contemplativa è stato detto. E ciò apparirà concordare sia con ciò che s’ è
detto prima sia con la verità1. Quest’ attività è infatti la più alta; infatti l’ intelletto è tra le cose che
sono in noi quella superiore, e tra le cose conoscibili le più alte sono quelle a cui si riferisce il
pensiero. Ed è anche l’ attività più continua; noi infatti possiamo contemplare più di continuo di
quanto non possiamo fare qualsiasi altra cosa. Pensiamo poi che alla felicità debba essere congiunto
il piacere e si conviene che la migliore delle attività conformi a virtù è quella relativa alla sapienza;
sembra invero che la filosofia apporti piaceri meravigliosi per la loro purezza e solidità; ed è logico
che il corso della vita sia più piacevole per chi conosce che non per chi ancora ricerca il vero2. E
l’ autosufficienza di cui abbiamo parlato si troverà soprattutto nell’ attività contemplativa. Infatti è
pur vero che dei mezzi necessari al vivere hanno bisogno sia il sapiente, sia il giusto, sia gli altri
uomini; tuttavia, una volta che siano stati provvisti sufficientemente di essi, il giusto ha ancora
bisogno di persone ch’ egli possa trattare giustamente e con le quali esser giusto, similmente anche
l’ uomo moderato e il coraggioso e ciascuno degli altri uomini virtuosi; l’ uomo sapiente, invece,
anche da se stesso potrà contemplare, e ciò tanto più, quanto più è sapiente; forse è meglio se ha
dei collaboratori, ma tuttavia egli è del tutto autosufficiente3. Inoltre sembra che l’ attività
contemplativa sia la sola ad essere amata per se stessa; infatti da essa non deriva alcun altro
risultato all’ infuori del contemplare, mentre dalle attività pratiche ricaviamo sempre qualcosa, più
o meno importante, oltre all’ azione stessa. Sembra poi che la felicità risieda nell’ agiatezza; infatti
noi affrontiamo i disagi per esser poi in agiatezza, e facciamo guerra per essere poi in pace.
Ordunque, le attività delle virtù pratiche si esplicano nelle cose politiche e di guerra; ma le azioni
relative a tali cose, specialmente quelle di guerra, sono evidentemente prive di agio; e infatti
nessuno sceglie di far guerra, né prepara la guerra al solo scopo di guerra, giacché sembrerebbe un
vero sanguinario chi si rendesse nemici gli amici per far sorgere battaglie e uccisioni. Ma anche
l’ attività dell’ uomo politico è disagiata e, oltre all’ occuparsi di politica, deve preoccuparsi di
procurarsi potere e onori e procurare a sé e ai cittadini quella felicità che è diversa dalla politica e
che noi ricerchiamo evidentemente come diversa da essa. Se dunque tra le azioni conformi alle virtù
quelle politiche e quelle di guerra eccellono per bellezza e per grandezza, ma sono disagiate e
mirano a un altro fine e non sono scelte per se stesse, se invece l’ attività dell’ intelletto, essendo
contemplativa, sembra eccellere per dignità e non mirare a nessun altro fine all’ infuori di se stessa
e ad avere un proprio piacere perfetto (che accresce l’ attività) ed essere autosufficiente, agevole,
ininterrotta per quanto è possibile all’ uomo e sembra che in tale attività si trovino tutte le qualità
che si attribuiscono all’ uomo beato: allora questa sarà la felicità perfetta dell’ uomo, se avrà la
durata intera della vita. Infatti in ciò che riguarda la felicità non può esservi nulla di incompiuto4.
Ma una tale vita sarà superiore alla natura dell’ uomo; infatti non in quanto uomo egli vivrà in tal
maniera, bensì in quanto in lui v’ è qualcosa di divino; e di quanto esso eccelle sulla struttura
composta dell’ uomo, di tanto eccelle anche la sua attività su quella conforme alle altre virtù. Se
dunque in confronto alla natura dell’ uomo l’ intelletto è qualcosa di divino, anche la vita conforme a
esso sarà divina in confronto alla vita umana. Non bisogna però seguire quelli che consigliano che,
essendo uomini, si attenda a cose umane ed, essendo mortali, a cose mortali, bensì, per quanto è
possibile, bisogna farsi immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più elevata di quelle che
sono in noi; se pur infatti essa è piccola per estensione, tuttavia eccelle di molto su tutte le altre
per potenza e valore. E se essa è la parte dominante e migliore, sembrerebbe che ciascuno di noi
consista proprio in essa; sarebbe quindi assurdo se l’ uomo scegliesse non la vita a lui propria, bensì
quella propria di altri. E ciò che prima s’ è detto s’ accorda con ciò che ora diciamo: cioè quello che
a ciascuno è proprio per natura è la cosa per lui migliore e più piacevole. E per l’ uomo ciò è la vita
conforme all’ intelletto, se pur in ciò consiste soprattutto l’ uomo. E questo modo di vita sarà
dunque anche il più felice5.

X, 8. Al secondo posto sta la vita conforme alla virtù etica; infatti le attività a essa conformi sono
quelle umane; infatti tra di noi esercitiamo le azioni giuste, quelle coraggiose e quelle conformi alle
altre virtù sia nei contratti, sia nei rapporti sociali, sia nelle azioni di ogni genere e nelle passioni,
avendo cura di rispettare ciò che compete a ciascuno: e tutte queste appaiono essere cose umane.
Sembra anche che in alcune cose la virtù etica proceda dal corpo e che in molti casi essa sia
intimamente congiunta con le passioni6. Anche la saggezza è unita alla virtù morale e questa è unita
alla saggezza, in quanto i princìpi della saggezza sono conformi alle virtù etiche e la rettitudine
delle virtù etiche è conforme alla saggezza. E le virtù, che sono così connesse anche alle passioni,
saranno proprie della struttura composta dell’ uomo; e le virtù di questa struttura composta sono
umane. E altrettanto lo sono la vita e la felicità a esse conformi. Invece la vita del pensiero è
separata. Ma su di essa basti ciò che s’ è detto; infatti il determinarla più esattamente andrebbe
oltre il nostro compito7.

Aristotele, Opere complete, vol. VII, Laterza, Roma-Bari 19883, pp. 262-65 (trad. di A. Plebe)

Note:

1. Poiché la parte più alta dell’ anima è la ragione, ovvero l’ intelletto (in questo caso i due termini hanno lo stesso
significato), la virtù più alta sarà quella dell’ intelletto, cioè la sapienza (sophìa), e la vita ad essa conforme sarà la vita
contemplativa, o teoretica (theoretikè), cioè dedita all’ esercizio della filosofia.
2. La felicità non consiste nel piacere, ma tuttavia lo comprende in sé, perché l’ attività più perfetta, cioè quella teoretica,
è anche la più piacevole.
3. L’ attività teoretica è la più autosufficiente, perché per esercitarsi non ha bisogno di altri (mentre ne hanno bisogno la
giustizia, o il coraggio, o la moderazione), anche se è meglio svolgerla in collaborazione.
4. Le attività conformi alle «virtù pratiche» (cioè alle virtù etiche), non sono fini a se stesse, e comportano dei disagi,
mentre l’ attività teoretica è fine a se stessa ed è la più agevole: perciò la felicità consiste in quest’ ultima.
5. Coloro che consigliano di aspirare solo a cose umane, e quindi non all’ attività teoretica, che è quella che rende l’ uomo
più simile agli dèi, sono forse i poeti (nel libro I della Metafisica Aristotele cita Simonide). Ma essi hanno torto, perché
l’ intelletto, pur essendo divino, è la parte più propria dell’ uomo, ciò che lo distingue dagli altri animali, e quindi la vita
teoretica è la vita più degna dell’ uomo, quella che più lo rende felice.
6. Se la vita teoretica è la più felice, al secondo posto nella scala della felicità sta la vita conforme alla virtù etica, cioè
quella che comunemente viene chiamata la vita attiva, in particolare la vita politica.
7. La virtù morale è la virtù etica, la quale consiste nel dominare le passioni in conformità con le indicazioni della saggezza
pratica (phrònesis). Quest’ ultima indica quali azioni (pràxeis) si devono fare e quali si devono evitare in vista di un certo
fine. La capacità di obbedire alla saggezza è la virtù etica, perciò le virtù etiche hanno a che fare con le passioni. Superiore
ad esse è tuttavia «la vita del pensiero», che qui è detta «separata», perché l’ attività dell’ intelletto non è materiale, cioè
non è un’ attività del corpo.

Guida alla lettura:


Aristotele precisa che la felicità è l’ attività conforme alla virtù più alta, cioè alla sapienza (sophìa), che è la suprema tra le
virtù dianoetiche, cioè le virtù della stessa ragione. Essa è l’ attività teoretica (theoretikè), che è la più alta, la più
continua, la più piacevole, la più autosufficiente, l’ unica amata per se stessa. La felicità consiste dunque nell’ attività
teoretica, esercitata per la durata di un’ intera vita. Al secondo posto sta la vita conforme alle virtù etiche, cioè le virtù
della parte non razionale dell’ anima (giustizia, coraggio, temperanza), che consistono nel disciplinare le passioni secondo le
regole dettate dalla saggezza pratica (phrònesis).

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