Sei sulla pagina 1di 82

LIBRO PRIMO

Proemio, nel quale si chiarisce l’intento e il modo di procedere

La questione sull’anima, eccellentissimo Sebastiano, è ritenuta finora difficile non solo presso gli antichi, ma anche presso gli autori più
recenti. Il che è per noi evidente data la loro discrepanza, infatti quando leggiamo le loro affermazioni, ci rendiamo conto che essi non
soltanto sono in disaccordo sul genere remoto, ma dubitano anche di più su quello più vicino, e tanto più nella definizione comune e propria
di “anima”. Per cui, coloro i quali hanno discusso sul genere remoto, alcuni tra essi dissero che è quantità e numero, come Senocrate, uditore
di Platone, Platone stesso e il precettore Socrate. Altri dissero che è una qualità, come Galeno e Asclepiade e Omero, cioè complessione.
Altri relazione, come Empedocle d’Agrigento, armonia e proporzione. Altri, come Aristotele, Anassagora e molti altri, affermano con
certezza che è sostanza, come se fosse evidente con una certezza basilare.

Inoltre, sono incerti persino sul genere prossimo, cioè se sia un corpo o se sia incorporea. Infatti, quelli che si sforzano di pervenire a essa a
partire dal moto, quasi tutti la accostano al genere del corpo, come Democrito dice che è calore igneo a partire da atomi ignei, sia perché è il
più formale di tutti i corpi e il più evidente nell’agire, sia perché è tra tutti i corpi quello massimamente veloce nel movimento. Leucippo,
suo compagno, dice quasi per lo stesso motivo che quel corpo è sferico, a motivo del moto rispetto a ogni differente posizione. […].
Che invece sia incorporea, hanno cercato di dimostrarlo Pitagora, Archelao precettore di Socrate, Anassagora, Aristotele, Costa ben Luca,
che è considerato l’autore del De differentia spiritus et animae, Avicenna, Averroè, e tutti i latini.

[pagg. 111-112]
Ecco, dunque, le cose nel genere remoto e prossimo su cui gli antichi non sono d’accordo. Quindi, poiché la mia intenzione è di
trattare dell’anima razionale, che è l’unica specie più degna dell’anima, lasciando da parte tutti le affermazioni degli autori antichi,
in primo luogo ti presenterò con cura la definizione comune di “anima”, non soltanto quella umana – della quale i primi trattarono
(in parte perché così piaceva, in parte perché furono condotti all’errore involontariamente – ma quella che contiene nel suo ambito
tutte le anime. Dopo di che, discenderò alla definizione propria di anima, spiegando gli accidenti richiesti in essa, e così il discorso
sarà completato.

[pag. 112]
Cap. 1. Sulla definizione generale aristotelica di anima
 
Poiché dunque Aristotele trovò in primo luogo che l’anima è più nobile di tutti gli accidenti e che una volta dispersa si disperde il
corpo, affermò, con una certezza di fondo, che l’anima fosse tra gli enti quello stabile nel primo genere, cioè quello della sostanza.
E quando la ritiene una sostanza e una cosa propria della sostanza, non un corpo per svariati motivi, sta dicendo che l’anima è atto
e forma. Dal momento che la scienza comune dei sapienti attesta che non è materia e poiché – come afferma Averroè – è proprio
della forma e dell’atto e della perfezione essere in un sostrato corporeo. Questo, infatti, ha la forma in quanto forma. Infatti, ciò è
comune a tutte le forme, in quanto forme, il che lo certifica la sua operazione. Infatti, senza corpo non esiste operazione della
forma, allo stesso modo in cui Aristotele chiarì con l’induzione e la divisione nel libro De anima. Quindi, resta un atto del corpo.
E poiché l’atto è duplice, cioè primo e secondo – primo in verità al modo della scienza, secondo invece al modo dello studio e del
valutare – l’anima non è atto secondo, ma sarà primo. Il che Aristotele – nella esposizione di Simplicio – così argomenta. Ogni
atto che precede per generazione e operazione è atto primo. Ma l’anima è atto che precede per generazione e operazione, come è
evidente. Quindi ogni anima sarà atto primo, dunque l’anima sarà atto primo di un corpo. Fin qui è evidente che l’anima è atto
primo del corpo. Ma di quale corpo, ciò è da ricercare più attentamente.

[pagg. 112-113]
 
Si sa che i corpi sono o naturali, o non naturali. Chiamo naturali quelli che contengono il principio del moto e della quiete, come
gli elementi, gli animali, le piante e le loro parti. Non naturali sono quelli che mancano di questo principio, come la nave e il
pallio. Inoltre, i copri naturali li dividiamo in due generi, alcuni vivono, altri invece non vivono. Vivono quelli che si alimentano e
crescono da sé, come gli animali e gli arbusti. Infatti, gli elementi, sebbene siano naturali, non possiedono al loro interno l’inizio
del movimento, ma in essi c’è assenza di vita, poiché non si alimentano né crescono da sé. Quindi, poiché alcuni di questi corpi
sono naturali, alcuni non naturali, a loro volta anche tra quelli naturali questi partecipano della vita, altri ai quali questa norma è
negata, l’anima non può essere detta perfezione di qualsiasi corpo, ma di quello naturale. Poiché il corpo, di cui l’anima è atto,
non deriva dagli accidenti, il corpo naturale e quello artificiale non differiscono affatto per l’accidente.
L’anima è forma del corpo, ma di quello naturale, non di ogni corpo, ma di quello vivo. Ma vivo è ogni organismo e vivente in
potenza, infatti non vi è nulla che esista semplicemente e sia compiuto. Parlo dei corpi mortali, ma ogni essere vivente
progressivamente svanisce e subito dopo è riparato; così, tutte le parti fluiscono e rifluiscono continuamente, tuttavia inoltre gli è
restituita un’identità, poiché scorre intatto. Per questa ragione, accade che questa forza desidera alcuni organi con i quali si nutre.
Questi strumenti evidenti negli animali sono la bocca, la gola, lo stomaco, l’intestino e gli altri che servono loro per il
sostentamento. […]

[pag. 113]
Quindi, se in qualche modo si può restituire una descrizione sommaria dell’anima, sembra che la più adatta sia questa: l’anima è
atto primo di un corpo organico naturale che ha la vita in potenza. Che cosa dunque sia semplicemente l’anima è stato detto. Quale
sia pertanto la definizione generale dell’anima e quella secondo Aristotele è chiaro. Le questioni e i dubbi contro questa
definizione sono riportato in un altro luogo, poiché non è mia intenzione insistervi qui.

[pag. 114]
Cap. 2. Nel quale si chiarisce la definizione generale secondo Platone

Quindi Platone – come dice Costa ben Luca – definisce l’anima in questi termini: “l’anima è sostanza incorporea che muove il
corpo”. Ma alla fine del 10° libro Sulle leggi, Platone dice che l’anima è semovente, o in grado di muovere se stessa. E Temistio
afferma nel primo libro delle sue Parafrasi sull’anima, capitolo 16°, che questa è la definizione di Platone. Quindi, affinché sia
chiaro il loro senso e concordino tra loro, esporrò prima le loro parti, poi riassumerò il loro significato. Affermo quindi che il fatto
che l’anima sia sostanza è quasi manifesto da sé. E non per il fatto che muove un corpo sappiamo che l’anima è sostanza – come
crede Costa ben Luca -, ma piuttosto: poiché è sostanza, muove un corpo. Dunque, il fatto che l’anima sia sostanza è lasciato
come dato evidente.
Ma essendo tre le parti della sostanza, come soggetto e materia, oppure come forma e atto, o ancora come composto e corpo; è
evidente, poiché l’anima non è materia, né composto, che è sostanza, così come forma, dice Platone. Ma che non sia materia, si
dimostra nella seconda figura sillogistica di Aristotele così. Ogni materia è pura potenza; l’anima non è pura potenza; quindi,
l’anima non è materia.

[pag. 114]
Inoltre, che non sia sostanza come un composto, lo dimostra Temistio nel 2° libro della sua Parafrasi al De anima, capitolo 3°,
con tre ragionamenti, che, per brevità, ora di per scontato. Quindi, poiché l’anima rientra nel dominio della sostanza e non è
materia né composto, ora dalla affermazione negativa, lasciando immutato il soggetto, è lecito dedurre questa affermativa: l’anima
è sostanza così come forma. Quindi, quando Platone dice che l’anima è sostanza incorporea, intende come forma. Infatti, poiché
sostanza si dice in tre sensi principalmente a partire dalla forma e dall’atto, quando si pone in senso assoluto si sottintende quindi
in che modo l’anima sia sostanza. E aggiunge “e incorporea”, in quanto sappiamo che non è né materia, né composto e di
conseguenza ciò che presso Platone comporta la sostanza incorporea, da parte dei peripatetici è intesa come atto o perfezione.

[pag. 115]
 
Aggiunge “e movente il corpo”, che Costa ben Luca così interpreta: “Tutto ciò che muove altro, o muove ed è mosso, come il
carro è mosso dai buoi, che non lo muovono se non sono mossi, oppure muove e non è mosso, aggiungi in quanto sei mosso. Se
nel primo senso, ancora accade in un duplice modo: o che si muova per sé con quel genere di moto con il quale muove; o con un
altro genere, come l’anima del bue muove il corpo. Tuttavia, è mosso dal desiderio e dalla stessa volontà, sebbene essa stessa non
si muova per sé di moto locale”. Allora quello dice “che l’anima muove il corpo, essendo essa per sé immobile, ma lo muove
essendo principio del moto del corpo non mosso, se non forse con un’altra specie di moto, cioè con il desiderio e la volontà”. E
con ciò si esclude che le forme degli elementi siano le anime, poiché anche se esse muovono il corpo, non muovono in quanto
immobili, com’è chiaro. Quindi stando a ciò si recupera la prima definizione platonica dell’anima degli uomini, cioè l’anima è
sostanza incorporea, vale a dire sostanza in quanto atto che muove un corpo, cioè che resta essa stessa immobile, con quel moto
con il quale muove, se non forse per accidente.
Ma questo modo di esporre può culminare in questo modo. Infatti, quando parliamo di moto, non dobbiamo parlare se non di ciò
che è progressivo; infatti, il grado che muove gli esseri animati è destinato soltanto agli animali perfetti. Se quindi l’anima fosse
ciò che muove un corpo di moto progressivo, allora l’anima sarebbe propria solo degli animali perfetti, quindi non la più comune
a tutte le anime di tutti gli animali e dei viventi, che è ciò che ricerchiamo.

[pag. 115]
Per tale motivo, si ottiene da Temistio un altro modo di esporre, che l’anima è come il Sole dal quale emana la luce. Infatti,
l’anima sussistente concede la vita al corpo, quella che Platone chiama animazione o seconda anima. E allora diciamo: l’anima è
sostanza così come forma che muove il corpo con il moto della vita, cioè fornendogli animazione e vita. Allora il senso sarà:
anima e sostanza come forma che muove il corpo, cioè ciò che vivifica il corpo. E questa esposizione Temistio la enuncia nel
primo libro della sua Parafrasi al De anima, capitolo 23°. La quale definizione se è esposta così in questo modo, potrebbe
coincidere anche con la seconda; infatti, quando Platone dice che l’anima è motore di se stessa, intende che qualcosa viva in due
modi. In un senso in quanto partecipa della vita, e così un unico corpo vive, cioè in quanto diventa partecipe della vita. In un altro
senso, in quanto ciò che è vita nella sua essenza e non per altro, ma da se stesso. Al modo in cui la bianchezza è essa stessa
bianchezza, così l’anima è essa stessa vita. Quindi il senso: l’anima è motrice di se stessa, cioè è forma e atto, viva per essenza e
non per partecipazione. E allora quando dice “movente” intende vivente. Quindi, dà a intendere che essa sia sostanza, così come
esprimeva la prima definizione. Ma quando aggiunge “di se stessa”, dà a intendere che quella sia una sostanza che è come
l’essenza e la forma. Quindi il senso è: l’anima è anche sostanza come la forma, essa stessa vita.
Quindi, quando si prendono in considerazione entrambe queste definizioni, troveremo che esse in qualche modo coincidono, al
modo in cui coincidono la definizione di bianco e la bianchezza. Infatti, la prima è propria dell’anima in quanto è concreta rispetto
al corpo, la seconda invece è come astratta e per sé sola. E allora tali definizioni sono comuni nel suo ambito, abbracciando tutte
le anime. Cosa dunque sia la definizione più comune dell’anima secondo Platone, sia detto in questi termini.

[pag. 116]
Cap. 4. Nel quale di chiarisce la denominazione di anima razionale e si enumerano tutti i dubbi che la riguardano

Poiché si è vista la definizione comune di anima, tanto secondo Aristotele, quanto secondo Platone, e persino il modo in cui si
confrontano vicendevolmente; passando alla definizione propria e specifica, dico che è stato indagato dai commentatori cosa
Aristotele nel II libro del De anima intenda per definizione propria di “anima”. Infatti, preannuncia di assegnarle entrambe, cioè la
comune e la propria. I commentatori concordano su cosa intenda per definizione comune, mentre non sono d’accordo su cosa
intenda per definizione propria.
Infatti, Alessandro dice che, al modo in cui negli Analitici secondi ciò che definisce una proposizione definisce attraverso la sua
specie, dicendo “la proposizione quindi è una frase affermativo o negativa di qualcosa circa qualcos’altro”, così anche la
definizione propria di anima si dà attraverso la specie dell’anima o attraverso le operazioni delle specie. Così l’anima è principio o
atto del corpo, con il quale essa effettua le operazioni vegetative, si muove, sente e in primo luogo comprende. Infatti in questo
luogo si pongono le operazioni delle specie dell’anima vegetativa, sensitiva e intellettiva come quelle più note. E la causa di ciò –
dice Alessandro – è che nessuna natura corrisponde all’analogo se non quelle tra le specie che sono contenute in esso, quindi
l’analogo è espresso convenientemente quando si pone la specie, essendo esso il segno adeguato di quello. Poiché quindi si dicono
l’anima e la proposizione analoga, esse possono qui essere definite attraverso le specie con definizioni proprie, e in virtù di
qualcosa in luogo del genere e di qualcosa in luogo della differenza. Ma la seconda si chiama definizione propria, poiché
racchiude le specie che sono individuali sotto l’analogo; ma la prima è comune, poiché non accoglie nulla del suo proprio e degli
individui. […]

[pagg. 119-120]
 
Assumiamo quindi per adesso la definizione di anima razionale la denominazione, poiché deriva dall’operazione il suo stesso
essere. E diciamo che l’anima razionale è il principio grazie al quale l’uomo pensa, compone e divide la proposizione e in primo
luogo ragiona. Infatti, questa è la descrizione della sua denominazione, nella quale converrebbero tutte. Enumeriamo, poi, tutte
quelle cose che su di essa sono in dubbio. E diciamo che il quesito primo e massimamente richiesto è se l’anima razionale sia
mortale o immortale. In secondo luogo, se una in numero per tutti gli uomini o molteplice. In terzo luogo, in che modo si unisca al
corpo, se secondo l’inerenza o secondo l’aderenza e il provenire dall’esterno, o secondo l’inerenza. In quarto luogo, quante sono le
sue parti. In quinto luogo, quale sia ciascuna di esse. In sesto luogo, in che modo si realizzi il comprendere semplicemente e in che
modo quello complesso e in che modo si realizzi il ragionamento. In settimo luogo, sulla condizione dell’anima razionale dopo la
morte. E molte altre cose saranno affrontate a suo luogo e più ampie e difficili. […]

[pag. 122]
Cap. 5. Nel quale si tratta la prima posizione con quella di Alessandro

Senza dubbio, si indaga qualcosa non poco difficile, cioè se l’anima razionale sia mortale oppure no. Nel quale problema, si può
dire questo. O che non avverrà mai, né si potrà cogliere alcun inizio. O che sia si dissiperà, sia fu procreata in un certo momento.
O che accoglie un essere nuovo che non si perderà mai. O che non ci sarà stato alcun suo inizio, ma a un certo punto deve
dissiparsi. Il quarto lo tralascio, poiché non è degno di essere indagato, per il fatto che nessuno tra gli uomini ne ha esperienza per
ora. Quindi la nostra trattazione si concentra nei tre quesiti restanti.

Quindi, la maggior parte degli antichi, come Aristosseno, Zenone di Elea, Sardanapalo, che si dice fosse stato l’ultimo re degli
Assiri, dissero che l’anima razionale è un consenso o una proporzione di membra e di visceri. Infatti, allo sesso modo in cui nelle
cetre è necessario che si realizzi un suono concorde, che i musici denominano armonia e consenso, così dicono che nei corpi esiste
la forza di sentire, accrescersi, muoversi e pensare, a partire dalle compagini dei visceri e dal vigore delle membra. Osservando
ciò, Dicearco e Democrito, battendosi contro l’immortalità dell’anima, la revocano in dubbio, con i quali Lucrezio, con cui è
d’accordo Empedocle nella parafrasi, dice nel suo libro III che, poiché l’anima nasce con il corpo, è necessario che con il corpo
muoia. Inoltre, anche Plinio, espositore di tutta la verità, nel settimo libro delle Storie naturali, capitolo 45°, dice: “Per tutti il
giorno supremo è come prima del primo, né ha qualche senso o del corpo o dell’anima in più dalla morte rispetto a quello che
aveva prima che nascesse”. Questi sono quindi coloro i quali sostengono che l’anima razionale sia armonia.

[pagg. 123-124]
Alessandro invece, che in parte viene subito dopo, dice che l’anima razionale è forma del corpo, da esso inseparabile, e che consiste in
un’assonanza e armonia, cioè è destinata a morire con il corpo, al modo in cui con essa nacque. Che l’anima razionale sia forma dell’uomo lo
apprendiamo come dichiarato in primo luogo dalle parole di Alessandro, in secondo luogo lo ricaviamo dai suoi ragionamenti.
Quindi, in primo luogo così. Ogni anima, che allo stesso tempo è principio di piacere, di movimento, di ira, di amore, di odio, di
apprendimento e di pensiero nell’uomo, è la forma vera e semplicemente una in numero a quell’individuo di cui è forma. Ma Alessandro nel
suo libro De anima, capitolo 8°, così dice: “Il vero infatti piace al vero uomo per mezzo dell’anima, e l’iracondo viene mosso ed è timoroso,
ama, odia, apprende e pensa, ricorda e manda a memoria e realizza queste cose per nessun’altra causa che l’essere provvisto di questo tipo di
perfezione e specie”. Quindi, l’anima razionale è realmente forma e atto dell’uomo.
Inoltre, ogni forma ultima delle possibilità degli animali è specie e atto per sé dell’animale, ma dice Alessandro nel suo libro Sull’anima,
capitolo 10°: “L’ultima delle possibilità degli animali è la specie, che senza distinzione è detta razionale; ma in essa ci sono molteplici virtù”
ecc. Quindi, l’anima razionale è forma del corpo dell’uomo.

[pagg. 124-125]
Inoltre, ogni forma che l’uomo possiede come particolare tra gli altri animali, in virtù della quale è ritenuto essere l’animale più
libero e per la quale è detto razionale a differenza degli altri, è atto dell’uomo e perfezione intrinseca e per sé. Ma dice Alessandro
nello stesso libro, capitolo 23°: “Ma come si è già detto prima, c’è oltre queste potenze una forza razionale disposta sopra tutte, la
quale è per se stessa anche adatta alla funzione del giudizio; che l’uomo, possedendola in modo peculiare tra gli altri animali, è
ritenuto essere l’animale più libero e più nobile di tutti, per la quale potenza esso meriti di essere chiamato razionale”. E così è
evidente la premessa minore; allora puoi concludere, come prima.
Ancora, ogni disposizione nella quale e con la quale si genera l’uomo è la forma, l’essenza e la specie dell’uomo. Ma dice
Alessandro nello stesso capitolo: “Non appena conosciamo ciò a partire dall’intelletto, si accompagna la deliberazione e il
desiderio, infatti andiamo in cerca di alcune cose in virtù dell’azione, di altre in virtù della contemplazione. Ma l’uomo non si
genera affatto immediatamente dotato di questa disposizione, ma possedendo soltanto la facoltà adatta a ricevere la disposizione,
ma acquisisce la disposizione in seguito. Ecco la minore, allora giungi alla conclusione.
E che Alessandro intenda che l’uomo è generato con l’intelletto della potenza, come abbiamo detto nella minore, è chiaro nel
capitolo 24°. Infatti dice così: “Ma l’intelletto della potenza è quello che abbiamo nel momento in cui siamo generati, e siamo
condotti alla luce”. Ecco in che modo è chiara la minore. Anche nel capitolo 32° dice: “Ma a queste si aggiunge la potenza
razionale, che è disposta come ultima e al di sopra delle altre potenze, soltanto per gli animali perfetti. E ad essi non subito,
appena nascono, ma si nota laddove con il passare del tempo crescono”. Ecco in che modo suppone che questa virtù appartenga
all’uomo dalla nascita, ma non appaia se non quando crescono e operano, come anche Aristotele afferma.

[pag. 125]
In ultimo, ogni forma che è nel cuore dell’uomo come nel proprio soggetto, dal quale si trova inseparabile, è forma dell’uomo e
vita e specie. Che l’anima razionale sia nel cuore, Alessandro lo testimonia nell’ultimo capitolo, dove dice: “Ma non dubitiamo
che anche quella parte dell’anima razionale che si ritiene possedere propriamente il principio dominante dell’anima debba essere
collocata nel cuore”. Ora, che sia inseparabile lo testimonia Alessandro nello stesso libro nel medesimo capitolo e dice: “Ma la
perfezione è in quello e con quello di cui è perfezione, certamente è necessario ammettere che anche la potenza razionale sia
presso il cuore. […]”. Da queste affermazioni Alessandro conclude chiaramente sulla mente che è l’anima razionale e l’intelletto
della potenza, è la vita e la forma e la specie del corpo umano.
Ma ciò risulta chiaro non soltanto dalle sue parole con questi esempi, ma lo stesso Alessandro ragiona con solidissimi argomenti,
che sono tre, che vengono proposti nel capitolo 5° del suo libro Sull’anima. E di questi il più saldo è che tutte le funzioni esistono
in modo assai evidente insieme al corpo: “Infatti – dice – non può essere che alcuna funzione o azione animale avvenga una volta
negata l’impressione del corpo”. Questo lo dimostra, sia nella nutrice (?), sia nella facoltà sensibile, sia in quella razionale. E
poiché nei primi va da sé, nella razionale dice: “Inoltre, nemmeno deliberiamo e sentiamo senza immaginazione. Ma
l’immaginazione è un qualcosa che si realizza con il corpo, perché senza il moto del corpo, non può esserci alcuna funzione
dell’anima. Certamente l’anima è qualcosa di corporeo e inseparabile dal corpo, infatti accadrebbe che essa sarebbe separabile
invano, se non potesse adempiere alle operazioni proprie e peculiari”.

[pagg. 125-126]
Inoltre, e nello stesso capitolo, una volta esposti tutti i modi in cui l’anima può essere pensata nel corpo che non appartiene ad
essi, dimostra che essa non si trova nel corpo come il timoniere nella nave, e dice: “Infine, l’anima non sta nel corpo come il
timoniere nella nave. Ma anzi, se intendi il governare così, come se per governatore intendessi l’arte del timoniere, l’anima in
qualche modo potrebbe stare nel corpo come l’atteggiamento e la specie nella materia. Infatti, così si trovano gli atteggiamenti in
quelle cose nelle quali gli atteggiamenti vengono riconosciuti esistenti, infatti sono incorporei e si trovano inseparabili da quelle
cose nelle quali stanno. Ma in verità, se pensassi così al timoniere, da coglierlo come colui che ha l’arte e l’atteggiamento, subito
si conclude che l’anima è un corpo, infatti non può essere un timoniere senza il corpo” ecc.
Ancora, nello stesso luogo dimostra che la definizione di anima è comune a tutte le specie di anima univocamente. Quindi,
ciascuna è atto e perfezione intrinseca del corpo. Da ciò chiaramente si concede che Alessandro riteneva che l’anima razionale è
vita prima e perfezione del corpo e non soltanto ciò che ne fa uso, come dicono altri. E nel capitolo 8° bacchetta: “In queste cose
l’anima non esercita per sé alcuna delle funzioni degli animali, ma per mezzo dell’anima ciò che ha anima. Tuttavia, non è
nemmeno vero che queste sono le azioni dell’anima perché si serve del corpo come di un organo, infatti come nelle altre potenze e
atteggiamenti non esercita alcuno di essi in modo da servirsi di quello di cui è atteggiamento. Ma per una ragione diversa,
qualsiasi potenza e atteggiamento sono ottenuti con potenze che si interpongono e operano con qualità individuali” ecc. Ecco in
che modo ripudia che l’anima sia atto del corpo in quanto si serve di esso per la funzione e operazione.

[pagg. 126-127]
Ma che secondo lui l’anima sia inseparabile, lo dimostra nei capitoli 6° e 7°; infatti dice: “Del resto, sbagliano assai anche quelli che fanno
dell’anima dell’animale una specie, ma affermano che quella specie o forma esiste come una certa sostanza separabile e per sé, al modo in cui
il timoniere della nave si dice stare presso. Infatti, affermano con forza che il timoniere è la specie e la perfezione della nave. Sbagliano
completamente, poiché il timoniere non è né forma, né perfezione della nave. Infatti, una volta venuto meno e assente il timoniere, nondimeno
ammettiamo che la nave c’è; se il timoniere potesse esser detto forze forma dell’azione nautica, certamente diventerebbe specie
dell’imbarcazione con tale schema con il quale anche è l’azione stessa dell’imbarcazione”. Infatti, il timoniere conferisce a essa qualcosa.
Invece l’anima è specie dell’animale, nella misura in cui l’animale esiste. Quindi prova la stessa cosa con altri tre argomenti, e così è chiaro
fin qui che l’anima razionale presso Alessandro è forma del corpo e vita intrinseca dell’uomo, prima e per sé.
Ma che l’anima razionale risulti dall’armonia e dalla proporzione degli elementi primi nella materia, e non provenga dall’esterno,
Alessandro lo dimostra nello stesso libro, nel capitolo 4°, e dice: “In realtà, l’anima degli esseri viventi di tanto è più perfetta della forma e
della specie delle piante, quanto la stessa anima delle piante supera le forme dei corpi primi e semplici. Inoltre, le differenze dell’anima
sensitiva sembrano conservare tra loro la medesima analogia che la specie dei corpi semplici ha rispetto all’anima delle piante e la stessa
anima delle piante all’anima sensitiva. Ma la causa della differenza di questa analogia non è altro che la stessa differenza dei corpi soggetti, sia
a causa della pluralità delle specie, sia a causa della costituzione di questo tipo di commistione e di temperamento. E non a torto, dal momento
che è non solo principio mediano, ma quasi la parte più importante del tutto, e quella differenza che si avvicina al principio, sebbene sia
alquanto esile e di scarso valore, non può essere causa di differenza dalla realtà massima”. C’è quindi un fondamento: per quanto la forma
dell’elemento si eleva dal miscuglio della sua materia, di tanto la forma delle piante si eleva dalla mescolanza della sua materia; e per quanto
la forma delle piante si eleva dalla sua, di tanto l’anima sensitiva si allontana dalla mescolanza della sua materia; e per quanto l’anima
sensitiva si allontana dalla sua materia, di tanto quella razionale dalla sua. Quindi, se quel po’ di materia è sufficiente all’elemento affinché
ottenga la forma dell’elemento, così anche quella delle piante affinché ottenga le anime delle piante e quella sensibile affinché ottenga quella
sensitiva, e quella razionale per quella razionale.

[pagg. 127-128]
E questo fu l’argomento solidissimo di Alessandro, convinto del quale disse che l’anima razionale è nella proporzione ed emerge
dalla concordia degli elementi primi, sebbene non sia l’armonia stessa, né la concordia degli elementi primi. Ma Alessandro
su ciò fornisce una prova, che Averroè accolse nel 3° libro Sull’anima, e nel medesimo capitolo: “Quanto a ciò che riguarda le
cause della vicissitudine, che è presente nei soggetti, quelli che chiaramente percepiscono la differenza delle specie, che è nei
corpi, non devono meravigliarsi. Senza dubbio, la molteplicità delle specie e la loro diversa mescolanza nei corpi soggetti è
ritenuta poter offrire la causa uniforme e conveniente alla natura del cambiamento. […]

[pag. 128]
Cap. 6. Nel quale si demolisce la posizione di Alessandro

E poiché questa rende l’uomo bestia e simile a un animale da traino e distrugge tutte le leggi e l’intera filosofia morale, indebolisce l’uomo rispetto
al bene dell’uomo in ciò che è uomo, nega il fine proprio dell’uomo verso il quale sommamente tende, quindi dobbiamo preoccuparci per questo
pessimo errore. Infatti, tutti gli uomini non vogliono essere considerati bestie. Infatti, cosa c’è di peggio per l’uomo che essere paragonato a una
bestia? Per cui, contro Alessandro questi sono gli argomenti dei più illustri fra i latini.
In primo luogo, a partire dalle parole di Aristotele. Infatti nel libro II Sull’anima dice: “Ma sembra che questo genere di anima sia diverso ed esso
solo in particolare sia perpetuo, per il fatto che riesce a congiungersi e può separarsi”.
Inoltre, in quelle cose che dice nel III libro; infatti il senso non può sentire se la sensazione è troppo forte, mentre l’intelletto per un pensiero molto
astratto percepisce non di meno, ma addirittura di più e pensa le cose inferiori. E ne spiega la causa: infatti la sensazione non è senza il corpo,
mentre l’intelletto è da questo separabile. Ecco chiaramente la confutazione di Alessandro.
Ancora, nel XII libro della Filosofia prima dice: “Ma se qualcosa resti dopo, va indagato. Infatti, per alcune cose nulla lo vieta, come per l’anima;
non tutta, ma solo l’intelletto”. Ecco in che modo vuol dire che l’anima razionale è la sola tra le forme che resta dopo il composto.
Ancora, nel II libro Sulla generazione degli animali, capitolo 10°, Aristotele dice: “Resta quindi che solo l’intelligenza giunge dall’esterno ed essa
sola è divina”. Infatti, l’azione corporea non condivide nulla con l’azione di quella, ma infatti ogni facoltà o potenza dell’anima sembra partecipare
a un certo corpo, e quindi è più divino di quelli che si definiscono elementi, ecc. Ecco quanto è distante il ragionamento di Alessandro.

[pag. 133]
 
 
 
In secondo luogo, contro Alessandro si possono elaborare dei ragionamenti anche a partire dall’Aristotele maestro di misteri. Il
primo ragionamento: ogni cosa che appetisce naturalmente ciò che sempre è, sempre sarà, poiché una nozione comune dell’animo
presso i peripatetici è che il desiderio naturale non sia vano. Ma l’anima razionale appetisce ciò che sempre è; quindi, perché non
sarà sempre? Inoltre, ogni cosa che nella sua essenza è separata dalla materia manca della potenza al non-essere. Infatti, la materia
– come dice nella Metafisica – è potenza al non-essere. Ma l’anima razionale nella sua pura essenza è separata dalla materia,
anche se è in essa secondo l’essere, infatti l’anima razionale è forma semplice, non composta da materia e forma, quindi perché
non dovrebbe essere perpetua? […]
Poi, Aristotele nel libro Sulla morte e la vita, la giovinezza e la vecchiaia insegnò che ogni ente corruttibile muore, o a causa del
contrario dal quale è superato, o a causa di un difetto del suo soggetto dal quale è preservato e dipende nell’essere e nel divenire.
Ma l’anima razionale non ha contrario, come è evidente, né dipende dal soggetto l’essere e il divenire, poiché ha lo stesso essere
nel corpo e fuori dal corpo. Quindi nella seconda figura, l’anima razionale in nessun modo sarà mortale.
Ancora, nessun ente semplice può separarsi dal suo essere o da sé. Ma l’anima razionale è semplice, come è palese. Quindi sarà
inseparabile dal suo essere e così esisterà sempre. A partire da questi ragionamenti, la posizione di Alessandro rispetto alla
immortalità o mortalità dell’anima razionale resta confutata. Sulle altre cose che dice, indagherò più oltre.

[pagg. 133-134]
Cap. 10. Nel quale si introducono le parole e le verità delle sentenze di Aristotele a conferma di quanto prima detto 
E poiché sono state addotte le ragioni e le autorità degli antichi per le quali si argomenta l’immortalità dell’anima razionale, resta
ora da addurre le parole di Aristotele a proposito di ciò, e allora sarà chiaro in che modo la pensa Aristotele, come dissi. Quindi,
Aristototele dice nel libro I Sull’anima, che l’intelletto sembra sopraggiungere ed essere una certa sostanza e non corrompersi;
infatti, si corromperebbe massimamente soprattutto per quel tipo di debolezza che è presente nell’uomo anziano, e così via. Da ciò
è evidente che l’intelletto è immortale, in virtù di quel sintomo, poiché sembra corrompersi al massimo da quella debolezza che
c’è nella vecchiaia, ma allora la sua operazione migliore e più elevata mostra che esso non si corrompe. Lo spiegano in poche
parole anche coloro i quali dicono che esso non si corrompe in quel modo in cui si corrompe la forma organica a partire da un
oggetto eccellente. Ma resta il fatto che esso si corrompe in altro modo, cioè con la corruzione del tutto.

[pag. 153]
Ma questa soluzione non sembra essere l’intenzione di Aristotele, poiché dal momento che conclude per l’immortalità dell’intelletto,
risolve la questione del perché non ricordiamo dopo la morte, se lo stesso intelletto è mortale. A questo risponde e dice: “Ma pensare
e riflettere si corrompono una volta che si è corrotto qualcos’altro più internamente. Ma esso è impassibile. Ora, ricordare o amare e
odiare non sono sue passioni, ma di questo (soggetto) che lo possiede in quanto lo possiede. Perciò, quando questo si è corrotto, né
ricorda, né ama; infatti, non erano facoltà sue, ma dell’intero che si è distrutto. Ma forse l’intelletto è qualcosa di divino e impassibile”.
Ecco in che modo si recide la predetta soluzione. Infatti, [Alessandro] dimostra con questo sillogismo che il pensare si corrompe. Ogni
operazione di qualcosa che si corrompe per primo, si corrompe essa stessa. Ma il pensare e il contemplare sono l’operazione di
qualcosa che si corrompe. Il che è chiaro per il fatto che il pensare non è dell’intelletto, ma deriva dall’intelletto e dal corpo una volta
connessi. Ed è abbastanza chiaro che quest’ultimo si corrompe. Se quindi l’intelletto è presupposto semplicemente immortale
nell’autorità proposta, già la domanda – cioè se resti il pensare – è annullata e tanto meno la soluzione. Quindi quella osservazione è
superficiale e non riguarda la cosa in sé.

[pagg. 153-154]
E che questa sia l’intenzione di Aristotele, lo mostra Averroè nel commento di questa parte, cioè nel
commento, dove dice: “Iniziò con il dichiarare che l’intelletto materiale tra le parti dell’anima sembra essere
non mobile e neanche corrompersi. Infatti, non è generabile e corruttibile, se non rispetto a ciò in cui agisce di
corporeo, o rispetto a ciò da cui patisce, poiché non ha uno strumento corporeo che si corrompe attraverso la
sua corruzione, come è la disposizione in altre potenze dell’anima”.
Ancora, Temistio nello stesso libro, capitolo 25°, dice: “Sembra che l’intelletto si corrompa dall’interno, come
una certa sostanza e non si distrugge o si corrompe e del resto soprattutto si distrugge per quella debolezza che
tocca alla vecchiaia” e così via. Inoltre, nel III Sull’anima dice: “Una volta separato è soltanto ciò che
veramente è. E solo questo è mortale e perpetuo”. E perciò si potrebbe quindi dire che il pensare e il
contemplare rimangono dopo la morte, dal momento che rimane lo stesso intelletto. Risolve dicendo: “Ma non
ricordiamo, perché questo (intelletto) è impassibile, mentre l’intelletto passivo è corruttibile; e senza questo
(intelletto impassibile) l’anima non pensa nulla”. Se quindi l’intelletto per consunzione del corpo si deteriora,
di questo argomento Aristotele si occupò nella questione del perché l’anima non ricorda – infatti, ogni
questione, come dice Aristotele nel VII libro della Metafisica, suppone il vero e indaga ciò che è dubbio -: ora,
dal sostenere che l’anima si corrompe seguendo la corruzione del corpo, la domanda sul perché non resti il
pensare e il riflettere è oziosa. […]

[pag. 154]
Ancora, Aristotele nel II libro Sull’anima dice: “E questo solo può essere separato come il perpetuo dal
corruttibile”. E ciò si può interpretare in due sensi, nel primo – come dice Alessandro – dove Aristotele non
afferma nulla di certo, in quanto dice “sembra”. Oppure si può interpretare che affermi che l’intelletto è separato,
poiché è incorruttibile rispetto all’oggetto, nel modo in cui le altre potenze dell’anima sensitiva si corrompono a
causa della netta superiorità dell’oggetto.
Aristotele esclude la prima soluzione per ciò che aggiunge: “Invece le altre parti dell’anima è manifesto da se
stesse che non sono separabili”. Se quindi Aristotele aggiunge che nelle altre è certo che non si separano, è
opportuno che il problema dell’intelletto si trovi risolto, cioè che esso è separabile. Escludo la seconda ipotesi,
poiché Aristotele qui non ha ancora espresso e manifestato che l’intelletto è atto del corpo, poiché la soluzione
viene dall’oggetto. Quindi, il suo dettato deve riferirsi a quanto già detto e non a ciò che non ha ancora detto;
infatti, significherebbe strabordare. Si può anche argomentare in questo modo: disse che l’intelletto si separa, nel
modo in cui al contrario disse che le altre parti dell’anima non si separano. Ma disse che queste non si separano
perché sono potenze nel corpo. Quindi, all’opposto, volle che l’intelletto si separasse per astrazione dal corpo. […]

[pagg. 154-155]
Ancora, prima ha tentennato, dicendo: “Inoltre, non è chiaro se l’anima sia atto del corpo come il timoniere
lo è della nave”. In verità lo lascia come dubbio. Quindi è conveniente che questo dubbio in qualche modo
sia risolto nelle parole successive, e di conseguenza che essa sia separabile, non per impassibilità
dell’oggetto. […]
Inoltre, inoltre, principalmente nel III libro Sull’anima dice: “È dunque necessario, poiché l’intelletto pensa
tutte le cose, che sia non mescolato, come dice Anassagora”, eccetera. Ma intendi, come prima, che
Aristotele non vuole altro se non che esso sia separato dall’organo e non si corrompa a causa della
dissoluzione dell’organo. Tuttavia, resta ferma che esso si corrompe in altro modo, cioè per corruzione
dell’intero composto, come è stato detto.
Aristotele esclude questa soluzione, con ciò che aggiunge: “Come dice Anassagora, affinché domini, e cioè
perché conosca”. Suppongo almeno che è richiesta più immaterialità per esso affinché riceva una forma
immateriale, di quanto ne sarebbe richiesto per agire in forme materiali. Ma per il primo motivo, Aristotele è
d’accordo con la posizione di Anassagora, a maggior ragione lo concederà nel secondo caso.

[pag. 155]
Inoltre, laddove l’intelletto dipendesse dalla materia e fosse in essa mescolato, come forma bruta, questo sarebbe differente
solo a partire dal senso, poiché il senso – come ho detto – si serve di una parte determinata del corpo, essendo la facoltà
particolare. Ma l’intelletto non si serve di essa o di qualcosa di simile, perché converrebbe con il senso anche in questo
modo; infatti, come il senso avrebbe una disposizione, in virtù della quale opererebbe ed esisterebbe nel corpo, così anche
l’intelletto. Ora contesto: se per salvare l’immaterialità dell’operazione e della virtù operante è sufficiente che la virtù non
sia organica, e che per mezzo di essa non si faccia uso di un organo, allora il riscaldamento e in generale qualsiasi
operazione degli elementi sarebbe inorganica, e in generale anche immateriale. Perché, al modo in cui il fuoco opera in
modo particolare e individuale, poiché possiede una determinata disposizione nella materia, in virtù della quale si estende a
un determinato genere dell’ente, così sarebbe anche l’intelletto. E questo lo rigetta Aristotele; infatti, l’intelletto apparendo
impedisce ciò che è estraneo e lo ostacolerà. […]
Inoltre, qualora la specie visibile fosse soltanto ricevuta in potenza dal primo e non dall’organo, non sarebbe anche questa
una sensazione singolare? Quindi, la causa dell’universalità non è che nella forma si riceve come nel recettivo più vicino. E
ciò lo conferma Temistio nella stessa opera, capitolo 16°; infatti dice: “È quindi necessario, dal momento che l’intelletto
pensa tutte le cose, che tutte le cose siano anche potenza, cioè che non abbia alcuna specie certa o precipua. Quindi
giustamente Anassagora sembra sentisse a proposito dell’intelletto come un sonnambulo, poiché lo definisce semplice, non
mescolato, puro” eccetera. […]

[pag. 156]
Ancora, principalmente nella sessa opera poco dopo Aristotele dice: “Perciò nemmeno è ragionevole che sia mescolato al corpo; infatti,
assumerebbe senz’altro una qualità, sarebbe o freddo o caldo”. Ma dirai che qui vuole soltanto ottenere che questo sia separato dagli
organi, come dopo aggiunge che nonostante ciò resta fermo che lo stesso si può corrompere rispetto alla disgregazione del corpo
composto, come si diceva. E sebbene sia vero che Aristotele qui intende così, come si apprende dal capitolo 17° in Temistio e dal commento
6 di Averroè, tuttavia segue lo stesso per l’intelletto. Se esso fosse forma del corpo dipendente dal corpo, non soltanto quanto
all’operare, ma anche quanto all’essere e al prodursi. Poiché per il fatto stesso che l’intelletto dipenda dalla materia quanto all’essere e al
prodursi, non si trova nella materia, se non per una determinata disposizione. Poiché nulla dipende dalla materia in quanto materia, per il
fatto stesso che dalla materia dipende per mezzo di una determinata disposizione, sarà in grado di operare per mezzo di quella soltanto e
non per mezzo di un’altra. Per il fatto stesso che sarà in grado di operare sarà organico per mezzo di essa e non di un’altra. Infatti tutti i
peripatetici affermano queste cose a proposito delle facoltà organiche, come risulta evidente osservando attentamente le loro parole. Quindi,
posto in questi termini, si concede che esso sia qualitativo, cioè che agisca per mezzo di un certo genere di qualità, come illustrano Temistio
e Averroè.

[pag. 157]
Ancora, principalmente Aristotele nel secondo libro Sulla generazione e corruzione dice: ma è anche assurdo ritenere che
l’anima sia composta dagli elementi, come dice Empedocle, o che si identifichi con uno solo di essi, come Democrito
che disse che è fuoco. La ragione di questo la rende sotto forma di domanda, dicendo: infatti le alterazioni, cioè le
operazioni, dell’anima in che modo saranno, per esempio, essere musico e poi non-musico, oppure memoria e poi oblio? E
allora conclude: ma è ovvio, perché se mai l’anima fosse di fuoco – come più sopra dice Democrito – le passioni saranno
per esso quelle del fuoco, in quanto è fuoco. Ma se l’anima sarà qualcosa di mescolabile, cioè ciò che permane nel corpo
misto, le sue operazioni saranno corporee; ma nessuna delle sue operazioni è corporea. Ecco in che modo per il fatto che
nessun atto proprio dell’anima è fisico e individuale e corporeo, Aristotele chiaramente dice che quella non è né di fuoco,
né composta da elementi. Questa voce d’autorità né Alessandro, né alcuno dei suoi seguaci potrebbe risolverla, e tu vedi
il suo commento 45 e ti restituirà la certezza in ciò.

[pag. 157]
Inoltre, principalmente Aristotele nel 16° libro Sugli animali espone una regola nel capitolo 10°, quando dice:
“infatti, quelle cose i cui principi sono un’azione corporea è certo che non possano esistere senza corpo, per
esempio camminare senza piedi”. Allora, con il topos del contrario, quando qualche operazione non è corporea
non lo è nemmeno il suo principio, né può stare con il corpo, come anche dimostra egli stesso nella medesima
opera. E dato che l’anima non ha il principio di essa (operazione) e né dal corpo, né da qualcosa di corporeo,
allora non ha nemmeno il fine e il completamento. Quindi, la loro posizione contraddice del tutto Aristotele.
Inoltre, questo stesso punto lo ha confermato anche Averroè nel III libro Sull’anima, quando dice: “E in
generale questa intenzione dell’anima si regge su fondamenti veri e su proposizioni più probabili, che danno
come risultato che l’anima è uno dei due, cioè mortale e non mortale. Ma gli argomenti probabili è impossibile
che siano falsi totalmente”. E gli antichi portarono argomenti su ciò e nella sua confutazione concordano tutte
le religioni. E una volta che queste cose sono state dette, resta solo da richiamare alla memoria cosa di vero e
cosa di falso gli autori posteriori ad Alessandro dissero.

[pag. 158]
Quindi, quando dicono che l’anima razionale è nuova nel nostro corpo ed esiste immediatamente grazie a Dio
glorioso, dicono il vero. E in ciò non insisto oltre, perché mi soffermerò dopo, dal momento che affermano che
Aristotele in tale questione è ambiguo. Dalle cose che abbiamo addotto in questo capitolo, è evidente che le parole di
Aristotele mostrano del tutto e senza dubbi l’immortalità. Anche quando dicono che il problema è irrisolvibile, per il
fatto che entrambi i modi di pensare hanno ragioni probabili. È chiaro che non soltanto l’immortalità dell’anima
razionale è da credersi per fede, ma anche con ragionamenti e dimostrazioni a posteriori e a priori, che tralascerò,
perché li porta Avicenna nel VI libro Sugli enti naturali, nella quinta parte.
Da ultimo, dissero che l’anima razionale è stata fatta immediatamente da Dio si dissipa alla corruzione dell’intero
corpo, non attraverso l’opera della creazione, ma per la stessa animazione, come è stato detto. E ciò non mi risuona,
poiché con la medesima potenza viene portata all’esistenza la forma con la quale si riduce al non-essere, stando ai
fondamenti dei peripatetici, tuttavia in modo diverso. Infatti, allo stesso modo in cui la presenza del timoniere è
motivo di salvezza, così anche l’assenza sarà causa di affondamento della nave, come Aristotele dice nella Fisica.
Quindi, se l’anima razionale termina di esistere per la distruzione del tutto, sarà necessario che resti nella potenza
della materia, a meno che non si annichilisca. Il che sembrerà sconveniente ai filosofi, perché se resterà nella potenza
della materia sarà tratta fuori da essa, perché non sarà dall’esterno e proveniente da Dio nel corpo.

[pagg. 158-159]
Inoltre, se l’anima razionale si abbandona alla distruzione del corpo, allora senza dubbio essa stessa dipenderà
dalla materia nell’essere e nel vivere. E qualora la forma fosse dipendente dalla materia nell’essere e nel
vivere, senza dubbio sarà stata ricavata dal suo potere, perché essa non lo supera. E l’anima razionale sarà
contenuta nel seme, il cui contrario è stato detto dalle parole di Aristotele nel predetto II libro Sulla
generazione degli animali, capitolo 10.
Da queste cose, risulta evidente quanto sia utile la filosofia, dal momento che grazie a essa non soltanto si può
conoscere l’immortalità dell’anima umana con le parole di Aristotele, ma degli altri pensatori antichi e con
dimostrazioni chiare.

[pag. 159]
LIBRO SECONDO
Cap. 1. Nel quale si chiarisce in che cosa concordino tutti i seguaci di Averroè
Poiché tra quelli di cui si è detto, nessuno si è impegnato tanto nelle questioni concernenti l’anima razionale quanto Averroè, tra
gli altri sarà per me perfino un onore confrontarmi con lui. Qui voglio che sappiate che tutto ciò che può essere portato a sostegno
di un unico uomo io lo porterò, né voglio omettere nulla. E quando sembrerà che la potenza dell’argomento sia interamente sua e
che l’argomentazione sia stata indebolita da me, potrete capire a maggior ragione che non si può dire qualcosa a suo favore.
Infatti, tale questione forse dal momento in cui aprii gli occhi, non si allontanò da essi per un istante. […]
Quindi, ciò in cui concordano tutti gli averroisti è che l’anima razionale è in noi in un certo modo. E per evitare la confusione
linguistica, quando parlo di razionale sto parlando dell’intelletto, che non è propriamente l’anima, ma un altro genere di anima
rispetto a questo. Ma Averroè diede come vero nel III Sull’anima che questo intelletto è in noi in qualche modo rispetto
all’esistenza, per il fatto che dipende dalla nostra volontà il pensare e l’astrarre. E in generale ogni sua opera e ogni sua operazione
è in noi quando vogliamo. Quindi l’intelletto è in qualche modo in noi.
In verità, essere qualcosa in noi si dice in molti modi. Come ciò che è collocato nel luogo, cioè come accidente nel soggetto; come
parte nel tutto, come la virtù nella materia; come forma in ciò che è formato, e specie in ciò che è specificato, e in altri modi. E ciò
che sembra vero di primo acchito secondo lui è che l’intelletto è in noi in qualche modo come forma. Ma ciò è molto chiaro a
partire dalla definizione più universale di anima. Poiché ogni anima è atto del corpo. Ogni atto forma. Quindi l’intelletto è forma,
poiché è atto del corpo.

[pag. 229]
Inoltre, ciò in cui in primo luogo operiamo in qualche specie di operazione è in qualche modo per noi la forma, come dimostra
Aristotele nel II libro Sull’anima e Averroè nello stesso libro, commento 24. Ma l’intelletto è ciò con cui in primo luogo operiamo
con una certa operazione, almeno secondo il pensare, come si dirà. Quindi l’intelletto resta la nostra forma in qualche modo.
Inoltre, dalla sua regola nel III libro, commento 36, quando due cose sono state unite, e una è più perfetta e più nobile dell’altra,
ciò che è più perfetto è la forma della cosa più imperfetta, e l’altro è la materia. Ma dei due uniti, cioè il corpo umano e
l’intelletto, l’intelletto è più nobile e superiore. Infatti, l’intelletto è superiore, come dice Temistio, perché l’ingegno dell’anima
supera tutte le altre cose con le quali è formato il mondo. Quindi l’intelletto sarà forma, noi come la sua materia.
E da ciò si elimina l’errore di alcuni, i quali né fanno filosofia, né hanno parlato secondo la dottrina cattolica: di quanti affermano
che l’intelletto per noi non si può paragonare alla forma. Resta da chiarirti in che modo questi sbaglino.
E perché– come ho detto – anche essere qualcosa in noi come forma lo diciamo in molti modi. Cioè, come qualità e in generale
come accidente rispetto al soggetto, ma in altro modo. Sarà senz’altro ambiguo anche dove mai eventualmente l’intelletto sia in
noi come forma. Se consideri questo attentamente, anche a te sarà non meno chiaro che esso non si può confrontare a noi come
qualità e accidente rispetto al soggetto. Il che lo tramanda e afferma anche Averroè in quei passi che scrisse nel II libro Sull’anima.
È impossibile sostenere che l’anima sia accidente, rispetto a ciò che ci fornisce la prima conoscenza naturale a prima vista, o come
appare dalla dimostrazione che parte dall’effetto. Infatti, la dimostrazione che parte dall’effetto alla causa è la cognizione prima e
naturale, e si ragiona in questo modo: nulla di più nobile di ogni accidente è accidente; ogni anima è più nobile dell’accidente e di
ogni accidente; quindi, l’anima non è accidente. La proposizione che afferma che l’anima è più nobile di ogni accidente a partire
dall’opera dell’anima per noi è evidente. […]

[pag. 230]
E una volta che ciò è stato verificato, resta solo da vedere che invece l’anima è in noi qualcosa e poi che è in noi come forma. E
inoltre, come forma che è sostanza, se sia in noi come sostanza collocata in un luogo, nel senso che esso sia come la cosa collocata
e noi invece, che lo conteniamo, come i collocanti. E ciò su cui è d’accordo l’intera comunità dei sapienti è che essa non può
essere congiunta al corpo come cosa collocata, il che lo affermano benissimo Plotino, Porfirio e Proclo. Il luogo che racchiude è
anche quello che contiene i corpi – come si ricava dal IV libro delle Lezioni. Ma l’intelletto, come risulta evidente, non è corpo, né
noi siamo l’ambiente come lo racchiude. Quindi né noi siamo luogo, né esso sarò in noi come collocato; su questo anche gli
averroisti concordano e sembra farlo anche Alessandro.
Ma se come parte nel tutto, inoltre, se utilizziamo parte come ciò che è membro e organo del tutto – al modo dei platonici – e
come propriamente designa il senso riduttivo del nome, anche i sapienti convengono nel modo in cui noi lo intendiamo. Infatti,
ogni parte in quanto tale è parte di quello, perché grazie ad essa si esercita una determinata e particolare operazione, come
l’occhio è parte della testa, il dito della mano, eccetera. Col che è subito chiaro che noi non ci serviamo di alcuna operazione
particolare e organica attraverso l’anima razionale, né essa attraverso di noi, resta che – come anche i platonici concludono con
noi – l’anima razionale non è una nostra parte, né noi siamo una parte di essa.
Quindi, il fatto che l’intelletto sia qualcosa di noi, come forma e non come qualità rispetto al soggetto, né come qualcosa di
collocato del luogo, né come parte del tutto, da questi ragionamenti è reso chiaro ed evidente. E finora tutti i sapienti in ciò
concordano.

[pagg. 231-232]
Cap. 2. Dissenso tra i seguaci di Averroè

Ma reputo questo punto ambiguo non trascurabile, se l’intelletto che chiamiamo anima razionale sia congiunto come
capacità (virtus) nel corpo e forma nella materia. E quando dico capacità nel corpo e forma nella materia, voglio intendere
l’atto del corpo e della materia che per sua facoltà è indotto o è estratto dall’agente naturale. Infatti, Averroè ne tratta così in
tutti i luoghi in cui occorre. Se quindi l’anima razionale che chiamiamo intelletto sia forma della materia e capacità nel
corpo in questo senso, non allo stesso modo di tutte le cose, è da stabilire. Dicearco, Democrito, Empedocle, Lucrezio,
Aristosseno, Epicuro e Alessandro e in generale quelli che sostengono insieme la morte dell’intelletto, credono che la parte
razionale non soltanto credono che sia la forma della materia e la capacità del corpo, ma dicono che la sua principale forza
né vada oltre il corpo, né in esso si elevi. Anzi, come dice Aristotele, gli antichi sostengono che sapere e sentire sono la
stessa cosa. […]

Comunque, questa posizione si allontana non soltanto dalla setta averroista, ma anche dalla verità pura. Il che lo abbiamo
illustrato nel primo degli argomenti di Averroè, che si ricavano per digressione del III libro Sull’anima. Quindi Averroè
ragiona così: ogni capacità nel corpo e ogni forma della materia è pensabile in potenza; ma l’intelletto non è pensabile in
potenza; quindi, nella seconda figura, neanche è una capacità nel corpo, né una forma nella materia.

[pagg. 232-233]
Inoltre, argomenta per ipotesi: se l’intelletto fosse una capacità nel corpo e una forma nella materia, della medesima specie,
riceverebbe se stesso; ma esso non riceve se stesso; quindi non è capacità nel corpo, né forma della materia.

Inoltre, ogni capacità nel corpo e forma nella materia riceve corporeamente e individualmente; ma l’intelletto non riceve né
corporeamente, né individualmente; quindi, non è capacità nel corpo, né forma della materia.

Ancora, se l’intelletto fosse capacità nel corpo e forma della materia, numerato per mezzo di quella, nelle cose pensate ci sarebbe
un processo all’infinito. Viene meno la conseguente e si inferisce l’opposto dell’antecedente, e si conclude come prima.

In ultimo, argomenta che se l’intelletto fosse capacità nel corpo e individuo di numero, allora la scienza sarebbe una qualità attiva.
E come prima nega il conseguente e inferisci l’opposto dell’antecedente.

Questi sono quei sillogismi che si possono raccogliere da quel commento. I quali, se concludono semplicemente per la
separazione dell’intelletto dal corpo, oppure se concludano in altro modo, non è questione di poco conto, che mi accingo a trattare.

[pag. 233]
Cap. 8. La posizione che alcuni autori attribuiscono ad Averroè

Avendo considerato queste cose, alcuni grandi averroisti dissero che una certa forma si può unire a un certo corpo in duplice
modo: secondo l’operazione o secondo l’essere. Unire secondo l’essere lo intendo quando l’uno è forma dell’altro nella misura
in cui dall’altro riceve l’essere e il nome. E non intendo essere per operazione secondo ciò che il vivere è essere per i viventi.
Mentre intendo unire secondo operazione, quando uno di essi è come strumento e organo, l’altro come arte e motore. Dicono
quindi che sia opinione di Averroè che l’intelletto si unisca all’uomo non soltanto come l’arte e il motore si uniscono allo
strumento e all’organo, ma secondo l’operazione e l’essere.

Infatti, nel modo in cui una qualche forma si unisce a una certa materia, bisogna considerare tre cose – come dicono. Una in
quanto la forma stessa costituisce la materia in essere, in quanto è sua forma reale, così detta dalla capacità di dare forma, che dà
la specie e il nome. L’altra è in quanto la stessa è sorretta dalla materia in quanto dipende da essa nell’essere e nel conservarsi,
nell’operare e nei restanti aspetti. La terza è in quanto la forma è composto, che si serve di quel composto nelle sue operazioni,
come l’arte si serve dell’organo. Per esempio, la forma del leone costituisce la materia del leone nella specie e il nome di “leone”.
È costituita e dipende nell’esistenza da quella materia, di cui è segno, poiché una volta che il corpo si è dissolto non è più forma
del leone. Si serve anche di quel corpo per realizzare i compiti e le opere proprie della sua specie.

[pag. 245]
Ma Averroè dà a intendere questa distinzione almeno rispetto ai primi due membri; nel commento 36 al libro I Sui discorsi fisici,
dice infatti: “E poiché il cielo manca di questo soggetto, cioè manca della forma che è sostenuta per mezzo di questo soggetto,
sarebbe anche necessario che la sua forma si sia liberata da questo soggetto. E non ha una costituzione per mezzo del corpo
celeste, ma il corpo celeste è costituito per mezzo di quella, come intenderai altrove”. Nelle quali parole dà a intendere che una
certa forma è soggetto che costituisce soltanto, come la forma del cielo; un’altra che costituisce ed è costituita, e queste erano i
due primi membri.

Questo lo dà a intendere anche nell’8° di quel commento 52; infatti dice: “Così come si aggiunge alle anime degli animali, poiché
sono costituite grazie al primo soggetto, che muovono. Ma quel principio non è costituito grazie al soggetto che si muove da se
stesso, ma è il contrario, cioè che la permanenza del soggetto è secondo questo”. Ecco in che modo dà a intendere anche le due
cose predette.

Dice lo stesso anche nel capitolo 2 del De substantia orbis. E quando è così, ci sarà una certa forma costituita dal soggetto e che
lo costituisce e ne fa uso, come le forme che sono virtù dei corpi, alcune che costituiscono e utilizzano soltanto, come le forme
dei corpi celesti; altre che si servono soltanto del corpo, come il timoniere rispetto alla nave. Le prime due sono chiare da quanto
detto, mentre la terza resta evidente a tutti. Ma nessuna è costituita soltanto, poiché non sarebbe forma o specie.

[pagg. 245-246]
Da ciò dice che l’intelletto è forma dell’uomo, perché lo costituisce e gli dà la specie e il nome, e poiché si serve di esso. Ma non
è forma secondo quei tre [esempi fatti], perché non è costituita dalla materia dell’uomo e allora secondo loro è evidente la
differenza tra Temistio e Averroè. Infatti, secondo Temistio l’intelletto non è forma dell’uomo, se non a partire dalla formazione e
dalla virtù formativa della vita e dell’anima seconda, che è l’animazione e la vita dell’uomo. Secondo Averroè, invece, l’intelletto
– come dicono – è forma del corpo non a partire dalla formazione, ma dall’informarlo, e dallo specificarlo nella differenza e nel
nome. Ma che questa sia l’intenzione di Averroè sembra ricavarlo dalle sue parole. Infatti, dice nel X libro dell’Etica nicomachea,
capitolo 9 [in realtà 7]: “Infatti, sebbene l’uomo sia piccolo di corporatura e di grandezza, tuttavia per potenza e onore supera di
molto tutte le cose”. Intendo per potenza l’intelletto, infatti questa potenza è dominatrice su tutte le cose. Ed è conveniente
ritenere che l’esistenza di ciascun uomo in quanto uomo sia grazie a questa sostanza, che si chiama ‘intelletto’, essendo la cosa
più onorevole e la migliore che ci sia in lui. E la vita a esso proporzionata è la vita proporzionata all’uomo ecc. Ecco quanto
opportunamente deduce il pensiero di Averroè.

[pag. 246]
Inoltre, nel III Sull’anima¸commento 5 e 36, dice che l’intelletto è in continuità con noi all’inizio, per natura, e non sarebbe in questo modo se
non fosse naturale e per sé forma dell’uomo.
Ancora, nell’VIII della Metafisica, commento 5, dice: se ci fosse un unico uomo di umanità maggiore di un altro uomo, sarà in virtù del fatto
che la forma è in lui nella materia.
Ancora, sempre nel III Sull’anima, commento 36, disse che l’intelletto non è separato dalla grandezza.
Inoltre, dice nel II Sulla fisica, commento 26: l’osservazione naturale si prolunga fino alla forma dell’uomo, che è l’ultima forma dell’uomo.
Poi, all’inizio del III Sull’anima dice: “Dal momento che per mezzo di questa capacità che è l’intelletto, l’uomo si differenzia da tutti gli altri
animali, come è stato detto in molti luoghi”.
In ultimo luogo, Averroè in un’ampia digressione si pone da sé delle questioni, dicendo: “Se l’intelletto fosse unico, tu saresti per mezzo del
mio essere e io sarei per mezzo del tuo essere, e le cose precederebbero prima di essere, e quando tu ti procurassi qualcosa dall’intelletto,
anch’io lo farei, e l’uomo sarebbe prima di essere” ecc.
Quindi, se Averroè non supponesse che l’intelletto dà l’essere, che forza avrebbero? E soprattutto dal momento che in nessun luogo le risolve;
il che significa che egli stesso voleva che l’intelletto stesso desse l’essere all’uomo.
Quindi, secondo Averroè si suppongono nell’uomo due semi-anime, delle quali una soltanto si dice fondante, in quanto razionale e intelletto,
l’altra fondante e fondata. L’uomo, quindi, sarà in specie e nel nome uomo per questi due tipi di anime ugualmente in primo luogo, di ragioni
diverse. Ma a quel tempo in cui seguivo Averroè come fonte probabile per fuggire le questioni che portano contro Averroè, ero insieme a
questi, aggiungendo ciò che Aristotele dice in generale nel II Sull’anima, cioè che ogni anima è causa del corpo in un triplice genere di causa.
Quindi, in che modo l’intelletto è causa del corpo dell’uomo nel triplice genere di causa se non è anche forma vera del corpo, in che modo
quindi sia considerato Averroè presso di loro e in cosa si distingua da altri, come Temistio, è chiaro da queste cose dette.

[pag. 247]
Cap. 9. Questa opinione è erronea e contraddice Averroè
Per tanto tempo mi sono intrattenuto con Averroè e – come ho detto – seguivo questa interpretazione secondo il suo pensiero,
soltanto per fuggire le questioni che lo riguardavano. Ma quando considerai più attentamente, mi sembrò infine che questa
posizione fosse erronea e contraria alla verità; per contestarla, prendiamo la proposizione accolta da tutti gli averroisti e da tutti i
commentatori greci: che l’intelletto materiale può essere inteso in due sensi. In un primo modo, come virtù e forma dell’uomo,
la cui virtù è pensare, e in particolare comporre, dividere e sillogizzare. In un secondo senso, come virtù dell’anima razionale
astratta. Questo lo mostra Averroè in un lungo discorso nel III Libro sull’anima, comm. 20 alla fine, dove dimostra che con
questo intelletto un uomo si differenzia dagli altri, e in più che lo stesso degenera e si corrompe con questo tipo di intelletto, e
molto altro. Questo lo sostiene non soltanto Averroè, ma anche Temistio nel III libro delle sue Parafrasi, capitolo 35° in calce, e
considera le sue parole. Inoltre, Simplicio quasi per tutto il terzo libro Sull’anima nel suo commento, in molti luoghi dimostra che
l’uomo è uomo per mezzo dell’intelletto materiale generabile e corruttibile. Ma questo lo diremo meglio a suo luogo, e in parte lo
abbiamo detto nel prima, dove dicemmo che l’opinione di Averroè è che questo tipo di anima cogitativa è atto primo dell’uomo,
con il quale si pone l’uomo nella specie e nel nome, e quella viene trasmessa attraverso il seme dal padre e dalla madre. […]

[pag. 248]

 
Cap. 10. La forma dell’uomo secondo Averroè

Resta solo da chiarire in che modo l’intelletto dell’uomo si congiunga, poiché non si congiunge a esso né secondo il primo, né
secondo l’altro modo della forma. Quindi, quello che appare a prima vista è che l’intelletto non è forma in tutti i modi, come
l’intelligenza della sfera, poiché l’intelligenza si unisce al corpo celeste in principio prima delle dimensioni in atto. E intendo in
primo luogo secondo la natura e non secondo il tempo, come dice Averroè. Infatti, l’intelligenza è causa e principio di tutti gli
accidenti della sfera. Mentre l’intelletto non si unisce in primo luogo secondo la causa al corpo umano, cioè prima delle
dimensioni dell’uomo, perché le dimensioni non esistono principalmente e in senso finalistico per l’intelletto dell’uomo, affinché
quella intelligenza possa operare con la sua operazione propria per mezzo delle dimensioni dell’uomo, al modo in cui le
dimensioni della sfera esistono in senso finalistico per l’intelligenza, affinché essa possa muovere il corpo celeste, senza la quale
la sfera non si può muovere. In verità, perché le dimensioni nell’uomo esistono per la cogitativa, cioè affinché la cogitativa
eserciti le sue opere, che senza dubbio non potrebbero essere compiute senza dimensione. Quindi, come la cogitativa precede
l’intelletto nell’uomo, così anche gli accidenti della cogitativa, cioè le dimensioni esistono prima nell’uomo. Non in quanto
disposizioni preposte a ricevere l’intelletto. Infatti, così l’intelletto sarebbe quantificato e divisibile. Infatti, ogni forma sostanziale
ricevuta in un soggetto quantizzato, con disposizione ordinata a ciò che è ricevuto, è divisibile secondo la dottrina di questi.

[pag. 251]
Da ciò è legittimo confermare che se l’intelligenza riceve nel corpo celeste attraverso la mediazione della dimensione, sarà forma
divisibile secondo esso. Poiché, se la dimensione precede l’intelligenza nella sfera, dal momento che non può precedere in quanto
seguente un’altra forma del cielo che a sua volta precederebbe un’intelligenza, ne segue che la dimensione semplicemente
precederebbe per ricezione dell’intelligenza. E così l’intelligenza sarebbe forma del particolare divisibile. Ma ciò secondo lui non
segue dall’intelletto, poiché sebbene assista l’uomo per le dimensioni, e poiché quella dimensione non precede per ricezione
dell’intelletto, ma come ciò che segue alla cogitativa, allora, l’intelletto non è reso scindibile in parti e divisibile. Se invece
dicessi che l’intelletto non può operare senza quantità, poiché non può senza il fantasma – che è quantizzato – e di conseguenza
nella sua operazione esige quantità e dimensione, egli direbbe che quella necessità deriverebbe da parte della cogitativa, che non
può servirgli se non per mezzo della quantità, essendo una facoltà nel corpo, sebbene ciò sarà contestato a suo tempo altrove.

Inoltre, che l’intelletto non sia nell’uomo come l’intelligenza nella sfera, è chiarito opportunamente in altro modo. Infatti,
l’intelligenza secondo la sua opinione non è soltanto agente delle operazioni e dei moti della sfera, ma anche forma della sfera,
detta forma dalla virtù formativa, poiché l’intelligenza è causa dell’essere della sfera e della sua permanenza, come dirò forse
a suo tempo. Ma l’intelletto non è né forma dell’uomo a partire dalla formazione, né dalla informazione, come subito chiarirò.
[…]

[pagg. 251-252]
LIBRO QUARTO

Cap. 1. Nel quale si descrive l’intento e l’ordine degli argomenti

Tutte le cose trattate sin qui sono comuni all’anima del tutto e alle sue parti. Infatti, l’immortalità è comune all’anima razionale e a
tutte le sue parti. Inoltre, la separabilità è comune a tutta l’anima e alle parti dell’anima. Quindi l’unità allo stesso modo. E poiché
si propone sempre la nozione degli elementi comuni, assai giustamente fino a questo punto abbiamo trattato le passioni comuni
dell’intera anima. Ora quindi è necessario indagare delle sue parti. Infatti, l’anima è divista, tanto per sostanza quanto per gli
accidenti. Ma c’è una divisione in parti secondo la sostanza, poiché uno è l’intelletto in potenza, uno l’intelletto in atto. E
l’intelletto in potenza è, presso i peripatetici, in un certo senso parte dell’anima razionale, in un altro senso parte dell’anima
sensitiva, come dirò.
Invece, la divisione per accidente è che uno è l’intelletto in habitu, uno l’intelletto in atto. E quello in tatto è duplice: uno il cui
principio è soltanto la volontà, e questo si chiama “pratico”; l’altro, il cui principio è l’intelletto agente, e questo si chiama
“speculativo”. E questi sono stato suddivisi, e sulla loro suddivisione l’autore di questo libro non deve accondiscendere. Quindi, il
nostro ordine è: al primo posto l’intelletto in potenza, poi quello agente, infine l’intelletto in habitu, cioè speculativo e pratico. E
così il discorso sulle parti dell’anima sarà completato. Ma l’intelletto in potenza è primo rispetto a noi, come afferma Alessandro
nel libro Sull’anima, poiché l’uomo è generato fornito di questo habitus, cioè in possesso di una facoltà apposita per lo meno di
estrarre l’habitus. In seguito, ottiene l’habitus. Per cui dice: “l’intelletto in potenza è quello che possediamo al momento in cui
siamo generati e veniamo alla luce”. E quindi questo intelletto è primo rispetto a noi.

[pag. 387]
Inoltre, tutte le operazioni dell’intelletto in potenza sono per noi, quando vogliamo e al sorgere della prima. Di quella
agente sono per noi all’ultimo, e soprattutto la sua prima operazione, anzi per noi è più facile. Ed è di nuovo più
affine al senso, che ciascuno conosce e percepisce in senso causale (propter quod), come dice Averroè nel libro
Sull’anima e Simplicio. Aristotele per primo iniziò a far conoscere la sostanza della virtù passiva, perché è necessario
nell’insegnamento. Infatti, ciò che è primo rispetto a noi è più facile e più proprio di ciò che è notissimo per noi. E
perciò il nostro trattato è lo iniziamo a partire da esso, come fa Aristotele. Quindi dedicheremo un capitolo
all’intelletto agente, infine all’intelletto in habitu, e poiché questo è duplice – speculativo e pratico – parleremo
anche della volontà.

[pagg. 387-388]
Cap. 2. Nel quale si ricorda la posizione di Platone

Platone moltiplica le parti dell’anima razionale in un modo diverso, perché, infatti, secondo lui non è necessario nulla
di nuovo, né in senso assoluto (simpliciter), né riguardo a noi (ad nos). Anzi, nei suoi scritti non si pone né di
intelletto agente, né in potenza, per cui anche Averroè nel III libro Sull’anima, comm. 18 alla fine, dice: “E tutte le
cose dette da Aristotele su questo punto sono tali che gli universali non hanno alcun essere al di fuori dell’anima, ciò
che crede Platone, perché se fosse così, non avrebbe mancato di porre un intelletto agente”. E così, nemmeno
l’intelletto in potenza. Quindi, nei suoi scritti l’intelletto agente non è altro che l’intelletto primo, che egli paragonò al
Sole, nelle cui luce tutte le cose diventano un unico intelletto, come conferma Plotino, e che il nostro intelletto coglie
l’essere divino e l’intelligibile perpetuo.
Inoltre, tiene notizia sempre delle realtà materiali attraverso le idee, di quelle sensibili attraverso immagini particolari.
Senza dubbio nei suoi scritti sono tre le parti dell’anima razionale, cioè l’intelletto, da esso la ragione, dalla ragione la
terza è l’immaginazione. Ora, l’intelletto è materia della luce divina, che opera sempre in lui, come attesta Giamblico
che fu trovato dagli Egizi. Perciò, Plotino nella prima Enneade dice che finché siamo piccoli, operano quelle cose che
sono nel composti; ma poche a partire dalle superiori verso di esso fino a che risplenda. Il che lo confermano anche
Origine e Ammonio quando dicono che gli intelletti dei bambini vedono sempre l’immagine del padre celeste.

[pag. 388]
Quindi la parte prima e superiore è l’intelletto che è sempre materia e luogo della luce divina, che nei suoi
scritti per primo sorge nei bambini. La seconda parte è la ragione (ratio), che è materia e luogo delle idee,
che essa trattiene come gli archetipi (primordia) delle realtà naturali, con le quali contempla tutti gli enti
materiali, i quali fluiscono dall’intelletto come le idee dalla luce divina. La terza e ultima parte è
l’immaginazione, che è il luogo delle forme sensibili, con le quali l’anima considera i particolari sensibili.
Da tali premesse è chiaro che l’anima razionale non accoglie nulla dalle cose con lo scopo cioè di pensare,
e anzi è cancellato l’intelletto in potenza. E dal momento che l’intelletto agente si dice in rapporto
all’intelletto in potenza, senza dubbio non si pone nemmeno l’intelletto agente, ma queste tre parti, con le
quali l’anima coglie e conosce tre generi di realtà. Ma in che modo queste sono parti dell’anima e in come
le intendiamo e in che modo sono questi tre generi in quelle parti, per quale ragione non ricordi l’intelletto
ma l’anima, e molti altri temi non è il caso qui di trattare.
Infatti, Plotino trattò nei libri 1° e 2° della quarta Enneade queste e altre cose riguardanti i dubbi
dell’anima. Infatti, noi tratteremo a fondo soltanto il pensiero (sentiantia) dei peripatetici, quindi questo
compito è lasciato ai seguaci di Platone.

[pag. 389]
Cap. 3. Nel quale si introducono gli argomenti dei peripatetici sulla necessità dell’intelletto in potenza

Averroè nel libro Sull’anima conferma queste due proposizioni, cioè che l’intelletto è facoltà passiva (virtus passiva) e che è
intrasmutabile, sono i due principi di tutte quelle cose che si danno riguardo all’intelletto. E allora dice: “E così come disse
Platone, il discorso più importante deve trovarsi all’inizio; infatti, il minimo errore all’inizio è causa di un grande errore alla fine”.
E poiché abbiamo parlato tanto dell’anima separata, e poi dell’intelletto, insistiamo sulla prima proposizione, cioè che l’intelletto è
una facoltà passiva in considerazione degli intelligibili. Ma Averroè nel III libro Sull’anima, commento 4, produsse su questo tre
ragionamenti, il primo dei quali si compone così: ogni facoltà che è mossa da ciò a cui si attribuisce è passiva; ma l’intelletto è
mosso dal fantasma a cui si attribuisce; quindi è una facoltà passiva.
Inoltre, il suo secondo ragionamento si compone così: ogni facoltà (virtus), ora in atto, ora in potenza, è passiva; ma l’intelletto è
una facoltà ora in atto, ora in potenza; quindi, l’intelletto è una facoltà passiva.
Inoltre, e così si mostra il suo terzo ragionamento: ogni facoltà che si muove per qualcosa al di fuori di sé è passiva; ma la facoltà
razionale si muove per qualcosa di estrinseco, cioè le intenzioni immaginate; quindi, l’intelletto è una facoltà passiva. Questi sono
i tre argomenti che Averroè tocca nel suo commento, se ben intendiamo.

[pagg. 389-390]
Alessandro, invece, diede una buona prova a partire dalle parole di Aristotele. Poiché
l’anima è tutti gli intelligibili e non secondo la forma, allora lo è rispetto alla facoltà.
Infatti, è tutti gli intelligibili nella misura in cui accoglie le forme di tutti gli intelligibili,
al modo in cui la materia è le forme di tutto ciò che può essere predicato, nella misura in
cui ritiene le forme di tutto ciò che può essere predicato. Infatti, ogni facoltà che è tutte le
cose nel ricevere, è una facoltà passiva. Ma l’intelletto è tutte le cose nel ricever; quindi,
l’intelletto è una facoltà passiva, e questo argomento è almeno dialettico.

[pag. 390]
Cap. 4. Nel quale si introducono le questioni contro le ragioni di Averroè e si risolvono

Tra i platonici vi sono quelli che potrebbero incalzare le ragioni di Averroè, poiché il primo ragionamento richiede ciò che è in
principio, perché ammette che l’intelletto si muove a partire dai fantasmi e dagli intelligibili. E questo non è altro che patire da
essi. Quindi, suppone che esso sia passivo, ciò che abbiamo ammesso all’inizio.
Inoltre, alla premessa maggiore del secondo argomento, cioè ogni facoltà, ora atto, ora potenza, è passiva; aggiungi questa
premessa minore: ma il calore del fuoco ora opera attivamente, ora passivamente – in atto quando è presente il corpo riscaldabile,
in potenza quando è assente -; oppure questa: il fantasma è ora in atto, ora in potenza; quindi, la virtù del fuoco, o il fantasma, è
passivo. La conclusione è falsa, e non per la figura del sillogismo, quindi per le proposizioni e non per la minore. Quindi per la
maggiore, allora la maggiore sarà impossibile.
Inoltre, il terzo ragionamento sembra essere vano, poiché alla maggiore – cioè: ogni facoltà che si muove in presenza di qualcosa
di estrinseco è passiva – aggiungi questo: ma la potenza del Sole e di ciascun motore si muove grazie a qualcosa di estrinseco,
poiché nulla si muove da sé; quindi, la potenza del Sole, e quella di ciascun motore, è passiva; e così, come prima la maggiore è
falsa, dal momento che la minore è necessaria in assoluto e il sillogismo è ben formato.

[pagg. 390-391]
Da queste cose sembra che tutte queste ragioni siano inconsistenti. E tuttavia, mi sembra che queste
ragioni possano essere difese in due modi: in un modo, ammettendo che sono tre diverse; in altro
modo, facendone una sola, di cui gli altri siano corollari (prosyllogismi). A chiarimento di ciò, devi
sapere che la potenza passiva differisce da quella attiva in tre modi. Perché l’attiva muove ciò in cui
sta, la passiva si muove grazie a qualcosa che le è presente; e ciò è evidente a tutti. La seconda
differenza è: la facoltà passiva è infatti per sua natura ora in potenza, ora in atto; l’attiva invece in
modo accidentale, cioè da quello estrinseco talvolta, talaltra agisce, perché manca della passività,
secondo i peripatetici. La terza e ultima differenza è: perché in essa c’è l’operazione della facoltà
passiva, mentre l’operazione dell’attiva sta nell’oggetto estrinseco che patisce. E con ciò è evidente
per queste tre differenze senza dubbio esistono potenze discrete passive e attive. Quindi, se
vogliamo che queste tre ragioni siano diverse, senza dubbio è necessario accogliere la minore del
primo come incontestabile, come dice il commentatore [forse Tommaso d’Aquino]: per il fatto che
pensare è simile a sentire; infatti, come sentire è un certo conoscere, così anche pensare.

[pag. 391]
Inoltre, come sentire è ora in atto, ora in potenza, così anche pensare, come
sperimentiamo in noi.
Ancora, sentire ha bisogno della presenza del sensibile, così anche l’intelletto ha bisogno
della presenza dei fantasmi. Quindi, come sentire è muoversi a partire dal sensibile, così
l’intelletto è a partire dall’intelligibile. E una volta raggiunto questo punto fermo, il
primo ragionamento è evidente e saldo; gli altri due sono saldi con l’aggiunta di due
condizioni: ogni virtù ora in atto e ora in potenza, rispetto alla natura e per sé. E la virtù
passive dell’intelletto rispetto alla natura è di questo tipo, come è chiaro.

[pag. 391]
Inoltre, si aggiunga alla terza: ogni facoltà che necessita di qualcosa di presente per la sua operazione, che resti in
essa. E così i ragionamenti sono solidi. Ma certamente meglio ritengo che le loro forze (vires) siano una soltanto, così
che il primo ragionamento diventa: ogni facoltà che è mossa da ciò da cui è attribuita, è passiva; l’intelletto è mosso
da ciò a partire da cui è attribuito, quindi l’intelletto è una virtù passiva. Ora, poiché la minore è stata accettata e non
provata, si ragiona ulteriormente con la seconda in questo modo: ogni facoltà che per sé e per sua natura è ora in atto,
ora in potenza, si muove a partire da ciò di cui è attribuita, e questo è evidente dalla seconda differenza. Ma
l’intelletto per sua natura e per sé ora è in atto, ora in potenza; quindi, è mosso da ciò di cui è attribuito. Questa
conclusione è la minore del primo sillogismo. E poiché la minore del secondo ragionamento sfugge, si procede
ragionando con la terza così: ogni facoltà che necessita della presenza di qualcosa di estrinseco nella sua operazione
che resti in essa, è ora facoltà in atto, ora in potenza, per sua natura e per sé; e questa è evidente per la terza
differenza: l’intelletto è ciò che necessita nella sua operazione della presenza restante in ciò che viene dall’esterno;
quindi è una facoltà per sua natura e per sé ora in atto, ora in potenza. E questa è la minore del secondo
ragionamento: quindi una sola soltanto è la ragione principale, di cui la minore di raggiunge con il secondo
sillogismo e la minore del secondo si raggiunge con il terzo, le cui proposizioni sono per sé note e immediate, non
ulteriormente argomentabili.
E una volta raggiunto ciò, ritengo di comprendere Averroè, cioè in che modo non si verifichi una petitio principi in
qualcuno di essi. Quindi, che l’intelletto in potenza sia una facoltà passiva che è mossa e attualizzata dagli intelligibili
e no da una passione corruttiva, è chiaro.

[pagg. 391-392]
Cap. 6. In cui si introducono le ragioni di Averroè che provano la necessità dell’intelletto agente

Averroè nel III libro Sull’anima, commento 18, trae quattro ragionamenti per cui l’intelletto agente sia qualcosa, e la prima si
compone in forma ipotetica. Se le sole intellezioni immaginate non sono sufficienti al pensare dell’intelletto in potenza, né il solo
intelletto in potenza si rende intelligente da solo, è necessario un qualche intelletto altro da essi. Questo ragionamento ipotetico è
manifesto per sé: ma le intenzioni sole non sono sufficienti a pensare, né il solo intelletto. Quindi, è necessario un intelletto agente.
La minore si chiarisce allo stesso modo: infatti, l’intelletto non solo non è sufficiente, perché allora non potremmo pensare senza
fantasma; né quelle sole sono sufficienti, perché allora l’individuo non sarebbe diverso dall’universale. Poiché differiscono solo
per questo, che l’individuo muove il senso, l’universale l’intelletto, e così l’intelletto sarebbe la facoltà immaginativa.
Inoltre, a qualsiasi cosa si attribuiscono due operazioni diverse di genere, gli si attribuiscono principi di esse diversi in genere. Ma
alla nostra anima si attribuisce produrre i pensieri (intellecta) e riceverli; quindi, devono esserle attribuiti un intelletto produttivo e
uno passivo.
Poi, tutto ciò che si trasferisce da genere a genere, da ordine a ordine, necessita di un agente che trasferisce e di un soggetto che
riceve ciò che è trasmesso. Ma le intenzioni immaginate si trasferiscono dall’essere individuale a quello universale, che
differiscono per genere e per ordine. Quindi, necessitano di ciò che trasferisce, ed è l’intelletto agente, e di ciò che riceve, ed è
l’intelletto in potenza.
Ora, tutto ciò che opera con due operazioni diverse è in atto i loro principi. Ma noi sperimentiamo di operare in duplice modo,
cioè producendo i pensieri e ricevendoli. Quindi, come prima.
[pagg. 394-395]
Ancora, tutto ciò che precede l’intelletto in potenza, che è qualcosa di nostro, è qualcosa di nostro;
ma l’intelletto agente precede quello in potenza, che è qualcosa di nostro per il passo precedente;
quindi, anche l’agente è qualcosa di nostro. Da ciò si può ottenere la necessità dell’intelletto
agente. Quini, ci sarà un certo intelletto agente, che è come la luce (sicut lumen), l’arte e l’habitus,
come dice Simplicio nel commento al III libro Sull’anima, in quel testo che dice: “è c’è un certo
intelletto” ecc. Infatti, in quanto è produttivo di realtà materiali si dice “arte”, infatti l’arte – dice –
non è altro se non l’habitus con il quale agiamo sui corpi materiali. Come dice Aristotele, in
quanto è paragonato all’intelletto in potenza stabilmente e in modo fisso è habitus e realizzazione
(perfectio), poiché la realizzazione dell’intelletto in potenza è tale che non può dissolversi. E una
volta stabilito ciò, l’habitus si procura la ragione, in quanto è ciò da cui è illuminato, e le nozioni
pensato passano all’atto. E ciò da cui l’intelletto in potenze le riceve è un certo lume e partecipa
del modo della luce. Ma se ci sia un qualche altro intelletto agente si dirà dopo. Quindi, che esista
un intelletto agente, come habitus, arte e luce è chiaro.

[pag. 395]
Cap. 8. Nel quale si introduce e si invalida la posizione che ritiene che le proposizioni siano
l’intelletto agente e il loro soggetto sia l’intelletto in potenza

Ci sono antichi commentatori tra i Greci che affermano che le proposizioni prime sono l’intelletto agente.
Ma dicono che il loro soggetto, cioè la potenza dell’anima razionale, è soggetto e sostrato (recipiens) e
intelletto in potenza. Ma questi sono mossi. Perché l’intelletto agente è principio di pensiero (principium
intelligendi) di tutte le conclusioni, e i principi sono principio di pensare tutte le conclusioni, nella seconda
figura concludono che i principi primi sono l’intelletto agente.
Inoltre, tutto ciò estrae gli intelligibili dalla potenza all’atto è intelletto agente; ma le proposizioni
estraggono le conclusioni dalla potenza di pensare all’atto pensato; quindi sono intelletto agente.
Inoltre, le proposizioni sono necessarie come il pensiero di tutte le conclusioni, quindi o come causa
agente, o come loro materia. Non come loro materia, quindi come causa agente. Quindi le proposizioni
sono l’intelletto agente. Persino Aristotele dice che l’intelletto agente è come la luce, e Platone dice come il
Sole. Ma le proposizioni sono come la luce. Quindi, le proposizioni sono l’intelletto agente. Con questi
argomenti, ci sono alcuni tra i peripatetici che ritengono che le proposizioni siano l’intelletto agente.

[pag. 397]
Ma a essi obietta Temistio nel III libro Sull’anima, capitolo 31 e dice: “Sen’zaltro, quelli che credono che siano proposizioni
sembrano sordissimi d’orecchi, dal momento che non possono ascoltare distintamente la tanto ferma e illustre voce di Aristotele.
L’intelletto – dice – dell’uomo è divino e indivisibile (divinus et impartibilis) e la sua sostanza è del tutto uguale all’atto e solo è
immortale ed eterno e separato”. Allora aggiungi tu stesso la minore: ma le proposizioni non sono qualcosa di divino e
indivisibile, la cui sostanza è del tutto identica all’atto; quindi, non sono l’intelletto agente.
Ma Averroè nel III libro Sull’anima, commento 36, dice: “Diciamo, quindi, che se ciò che abbiamo detto, che le proposizioni
necessariamente derivano dall’intelletto agente o come materia, o come strumento – se esse entrano nell’essere degli intelligibili
speculativi – allora non era un discorso di conseguenza necessaria, in quanto la materia è materia e lo strumento”. Vuole intendere
che questa conseguenza non ha valore. L’intelletto agente e le proposizioni necessariamente concorrono all’essere degli
intellegibili speculativi. Quindi, l’intelletto agente è vera forma e le proposizioni veramente materia o veramente strumento. Ma in
quanto qui è necessaria che ci sia proporzione e disposizione, cioè similitudine tra l’intelletto agente e le proposizioni che sono
assimilate alla materia e a un certo strumento, non perché è vera materia e vero strumento. Quindi, devi sapere che l’intelletto si
intende in un duplice modo (intellectus dupliciter accipitur) per Averroè. In un modo, essenzialmente (essentialiter), cioè quello
che è intelletto per sua natura, e questo si dice insieme intelletto e intelligente, come sono i motori separati. In altro modo, si
prende l’intelletto per la quidditas che nella sua natura c’è nella materia, ma si dice intelletto in quanto pensa. E in questo senso
Averroè ne parla nel commento 36, quando dice: “Ma poiché è impossibile per questo procedere all’infinito – perché farebbe
esistere infinite quidditates e intelletti infinitamente diversi in specie”. E così presso Averroè esiste un certo intelletto che non
pensa ma si dice intelletto, perché è pensato, uno che insieme pensa ed è pensato, come è chiaro in molti luoghi.

[pagg. 397-398]
Da ciò possiamo mettere d’accordo Temistio con gli antichi, perché che le proposizioni siano
l’intelletto agente si può intendere in due modi. In primo modo sia principalmente, sia no,
perché – come giustamente dice Temistio – esso esiste come qualcosa di divino. In altro modo,
strumentalmente e secondariamente, e in quanto sarebbe la materia del primo. E ciò stabilito,
gli antichi dicono correttamente, infatti le proposizioni sono ciò che accade insieme agli
strumenti e con l’intellezione degli intelligibili speculativi. E così si possono dire intelletto
agente vicino e in senso strumentale, che concorre alle verità delle proposizioni. E ciò forse
intende Averroè nel II libro Sull’anima, commento 155, quando dice: “E intende per intelletto,
come mi pare, le proposizioni prime, e per scienza ciò che deriva da esse”. Quindi, le ragioni
degli antichi non concludono semplicemente, né l’argomentazione di Temistio, ma ciascuno
dimostra una sua parte di verità.

[pag. 398]
Cap. 10. Nel quale si riporta la posizione di alcuni rispetto al pensiero di Averroè
sull’intelletto agente e potenziale

Molti di quanti restano della convinzione dei peripatetici e di Averroè, e io stesso per lungo tempo,
(diu) abbiamo creduto che l’intelletto in potenza è l’intelletto separato, l’ultimo delle sostanze
astratte, come Averroè testimonia nel commento 19 del libro III Sull’anima. Quella sarebbe
l’intelligenza del tutto separata dalla materia, né in atto, né avente assolutamente un qualche atto,
con il quale pensi. Ma è una sostanza del tutto in potenza alle forme intelligibili, adatta a essere
attualizzata intenzionalmente dagli intelligibili, come la materia lo è realmente dalle forme
sensibili. Ma ero solito confermare ciò con cui concordavo. Perché così come nelle realtà astratte
c’è una sola natura del tutto spogliata dalla potenza, ma nella quale l’intelletto e ciò che viene
pensato sono proprio un’unica cosa, al punto che non pensa nulla se non sé, così deve darsi in
quell’ordine un qualche ente infimo, che sia del tutto in potenza agli intelligibili, anzi quasi la
potenza stessa atta a essere attualizzata intenzionalmente da tutte le forme materiali e dalle
sostanze superiori. Ma l’intelletto agente sarà allora, rispetto a ciò, Dio.

[pagg. 400-401]
Infatti, Dio può essere inteso in un duplice senso: in uno, come ciò che illumina schiarendo
tutti gli enti e così inteso di chiama intelletto agente; in altro modo, come ciò che fa
esistere tutti gli enti, e così si dice principio primo e motore primo. Quindi, questi vogliono
che nel modo in cui dal timoniere e la nave e in generale dall’arte e lo strumento si realizza
un unico ente, con un’unità sufficiente per un’unica operazione, così da Dio e
dall’intelletto più basso che si dice intelletto in potenza si realizza un’unica realtà di tanta
unità quanta è sufficiente a un’unica operazione, cioè a pensare, il che rispetto all’agente si
dice “astrarre” (abstrahere), rispetto al possibile “pensare” (intelligere). Quindi, l’anima
razionale presso di noi non è altro se non ciò che si ottiene (colligatum) da Dio come colui
che illumina e il più basso degli enti astratti come ciò che è illuminabile.

[pag. 401]
E questa finora ho pensato fosse la posizione di Averroè ed ero solito aggiungere che Dio
non soltanto è congiungibile (continuabilis) all’intelletto in potenza, ma a qualsiasi
intelligenza. Infatti, al modo in cui l’unione (comgregatum) di Dio come colui che
illumina e dell’intelletto in potenza come ciò che è illuminato più in basso si realizza
l’anima razionale conforme all’uomo, così da Dio come colui che illumina e l’intelletto in
potenza della Luna si forma l’anima della sfera della Luna; e come da Dio, così anche
dall’intelletto di Mercurio all’anima di Mercurio. Quindi sarà un’unica forma di tutte le
intelligenze, che assegna a una singola sfera una singola anima in ragione della parte che è
come soggetto. Né contro ciò obietta l’argomento dell’araba fenice, che allora ci sarebbero
molte forme di un unico soggetto. Poiché, per quella ragione per cui Dio è forma del
nostro intelletto in potenza, allo stesso modo anche le intelligenze intermedie lo sarebbero,
perché l’estremo non può essere forma dell’estremo, se non ci siano dei medi della sua
forma in ugual modo.

[pag. 401]
Questo motivo suppone qualcosa di impossibile. Infatti, le intelligenze sono essenzialmente
ordinate in un unico modo, come nelle azioni fisiche. Infatti, la superiore non può agire se
non agiscono tutte quelle medie, come Averroè dice nel IX della Metafisica, commento 7.
Ma nell’azione e nell’unione formale non è ordinata essenzialmente. Quindi, resta fermo che
la prima forma è la forma di quella infima e non di quella intermedia. Oppure, si ammette
che sono in quell’ordine per cui tutte le intelligenze medie sono forme del nostro intelletto e
così l’aggregato dell’anima razionale deriverà dal più basso degli enti astratti e da tutti i
medi e dalla prima intelligenza. E una volta ammesso ciò, l’intelligenza della Luna è un
aggregato dell’intelletto della Luna e di tutte le intelligenze superiori, e così sempre per gli
altri. Ma questa posizione sarà più chiara quando parleremo dell’intellezione e soprattutto in
che modo le intelligenze pensano. Quindi, ecco in che modo si debba intendere questa
posizione.

[pagg. 401-402]
Cap. 12. Nel quale si approva questa posizione
E quando giunse nelle mie mani l’epistola di Averroè che si intitola Sulla beatitudine, che
noi stessi abbiamo commentato in questi giorni, già trovai le parole di Averroè contrarie a
questa posizione. Infatti, dice: “Dissero i filosofi che l’intelletto agente pensa il primo ente
e tutti i secondi e se stesso. E similmente, quelle cose che non sono intelligibili in atto e li
riduce gli intelligibili in potenza a intelligibili in atto. E quelle cose che sono intelligibili in
sé sono quelli che sono stati separati dai corpi” ecc. Ecco in che modo non suppone che il
primo intelletto sia l’intelletto agente, perché si serve dell’unione (copulatione utitur), e
poiché Dio non pensa se non sé, come è detto nel XII libro della Metafisica, commento 51
e nel libro L’incoerenza dell’incoerenza, discorso III e altrove.

[pagg. 404-405]
Inoltre, nella successiva Epistola sulla beatitudine, che forse è parte della precedente o
un’altra dalla precedente, come ritengo, perché nella prima completò l’intento, nella
seconda ne propone uno nuovo. Ma comunque sia, dice: “Ma disse Avemasar (Al-Farabi)
che i principi per mezzo dei quali esistono i corpi e i loro accidenti sono i sei gradi, che
hanno sei altri supremi, e ciascuna delle loro specie è contenuta in qualche grado di
quelli. Infatti, la causa prima è contenuta nel primo grado, la causa seconda invece nel
secondo, l’intelletto agente nel terzo grado, l’anima nel quarto grado, la forma nel quinto,
la materia nel sesto”. E dopo aver aggiunto poco, dice: “Bisogna credere che la prima
causa sia l’altissimo Dio benedetto, ed essa stessa è la causa vicina all’essenza delle
seconde e l’intelletto agente dell’essenza, e le seconde sono le cause dell’essenza dei
corpi celesti”. Ecco quanto chiaramente l’intelletto agente differisce da Dio. Questi sono
gli argomenti che una volta abbiamo visto e ci sforzavamo di risolvere per quella parte,
ma lo risolva chi vuole.

[pag. 405]
Inoltre, dice Aristotele nel commento 18 al III libro Sull’anima: “Era necessario attribuire
queste due attività all’anima in noi, cioè, quella di ricevere gli intelligibili e di produrli,
sebbene l’agente e il ricevente siano sostanze eterne, in virtù del fatto che queste due
attività sono ricondotte alla nostra volontà, cioè ad astrarre gli intelligibili e a
comprenderli”. Da cui deduco che ogni forma la cui operazione è in nostra volontà è
qualcosa del nostro corpo o della nostra anima. Quindi, poiché l’intelletto è un’operazione
in volontà nostra, senza dubbio sarà qualcosa del nostro corpo o qualcosa della nostra
anima. E così non può essere Dio.
Ancora, Temistio nel III libro Sull’anima, capitolo 31°, argomenta e il suo primo
ragionamento è che l’intelletto agente è parte e differenza della nostra anima, come dice
Aristotele: “Infatti, poiché Aristotele ha stabilito che in ogni natura una cosa è presa come
materia, un’altra come forma che muove e attualizza, è necessario – dice – che le stesse
differenze si trovino nell’anima e che vi sia un intelletto tale che sia la parte più eccellente
dell’anima razionale”. Quindi, la maggiore è evidente. Ma Dio non è né parte dell’anima
razionale, né differenza. Quindi, non è intelletto agente, né all’inverso. […]

[pagg. 405-406]
Cap. 15. Nel quale si discute la posizione che dice che l’intelletto agente e l’intelletto
possibile sono qualità dell’anima razionale secondo Averroè
Vi furono alcuni imitatori di Averroè, i quali dicono che l’intelletto agente e l’intelletto in
potenza sono qualcosa della nostra anima. Ma non dicono che sia la sostanza razionale
dell’anima, ma le funzioni e facoltà, che sono accidenti propri ed essenziali, per i quali
l’anima razionale è principio attivo di azione e intellezione e principio della passione. Infatti,
al modo in cui l’anima sensitiva rispetto alla sensazione ha bisogno di due facoltà con le quali
agisce e patisce la sensazione, così anche l’anima razionale per mezzo della facoltà attiva è
principio dell’astrazione degli intelligibili, per mezzo della facoltà passiva è principio
ricettivo di essi. Quindi, l’intelletto agente e quello possibile sono due potenze naturali della
seconda specie di qualità. Che possono dirsi facoltà dell’anima razionale.

[pagg. 412-413]
Ma questa posizione la dedussero dalle parole di Averroè in questo modo. Le virtù della
nostra anima sono facoltà e suoi accidenti propri. Ma l’intelletto agente e quello possibile
sono virtù della nostra anima. Questo dice Averroè nel libro III Sull’anima, commento 4,
così: “E quindi Aristotele dopo il fatto che è necessario porre nell’anima razionale queste due
differenze, cioè la virtù dell’azione e la virtù della passione”. E nello stesso luogo, commento
18, dice: “E quando troviamo che noi agiamo per mezzo di queste due virtù poiché
l’abbiamo voluto e nulla agisce se non per mezzo della sua forma, allora fu necessario
attribuire in noi queste due virtù dell’intelletto” ecc. E nel commento 20 dice: “E in questo
senso diciamo che una volta che l’intelletto si è congiunto a noi, appaiono in esso due virtù,
delle quali l’una è attiva e l’altra del genere delle virtù passive”. E troverai di frequente lo
stesso nei commenti di Averroè.

[pag. 413]
Quindi, è evidente la sua minore, che l’intelletto agente e possibile sono virtù dell’anima razionale e così
segue la conclusione, che sono sue potenze naturali e accidenti essenziali, che era la loro posizione. Ma vi
sono tra gli antichi alcuni che confermano questa posizione in questo modo. Perché nessuna sostanza
creata e causata da un’altra precedente è principio di operazione grazie all’essenza di quella. Ma ogni
sostanza di questo tipo opera per mezzo della potenza secondo una cosa distinta dall’essenza. Infatti, solo
in virtù di questo discrimine la sostanza causata differisce da quella incausata, poiché quella incausata
opera per mezzo della potenza, che è la sua essenza, mentre quella causata opera per una potenza diversa
dall’essenza. Ma l’anima razionale è sostanza causata, poiché è la più bassa delle intelligenze. Quindi, sarà
potenza sua, per quanto operi, che differisce dalla sua essenza e così dal suo accidente.
Inoltre, la potenza e l’atto sono del medesimo genere, come dice Averroè nel libro V delle Lezioni fisiche,
commento 9. Ma l’atto dell’anima razionale è accidente, cioè il pensare. Quindi, la potenza passiva
dell’intellezione o quella attiva saranno accidenti. La minore resta in piedi chiara e famosa, infatti pensare
è una qualità del predicamento della qualità. Da ciò se ne ricava che l’intelletto agente e quello possibile
sono due facoltà dell’anima razionale, al modo in cui le facoltà del senso sono sensibili rispetto alle
sensazioni.

[pagg. 413-414]
Cap. 21. Nel quale si riporta il vero pensiero di Averroè
Infatti, ciò che da tutti questi argomenti ricaviamo è in primo luogo che l’intelletto agente e
l’intelletto in potenza sono sostanze e non accidenti propri e proprietà essenziali, come è chiaro.
Inoltre, che l’intelletto agente e in potenza sono separati dalla materia e dal corpo e universali
in atto e astratti al di fuori dell’anima.
Ancora, che sono qualcosa della nostra anima e ciò spesso fu chiaro da essi e per mezzo della
disapprovazione di altre cose. E poiché è stato chiarito che essi non sono due sostanze per se
sussistenti e esistenti a parte, che realizzano un’unica cosa per aggregazione, come suppone la
prima posizione. Né che sono due parti essenziali, delle quali l’una sia pura potenza sostanziale
e l’altra puro atto, le quali una volta congiunte facciano una terza sostanza unica in essere,
come dice Giovanni. Resta che siano due porzioni o due gradi che producono nell’anima
razionale una composizione equivoca e non reale né intenzionale, ma più profondamente
diversa per ragione e nome dalla propria composizione reale o intenzionale, come si chiarirà.

[pagg. 425-426]
E ciò che aggiungiamo è che qualsiasi intelligenza, eccetto la prima, è composta, e ciò è provato. In primo
luogo, ogni intelligenza pensando altro è composta. Ma qualsiasi intelligenza, eccetto la prima, pensa altro.
Quindi, qualsiasi intelligenza eccetto la prima è composta. La premessa maggiore è manifesta per sé e dalle
parole di Averroè. Per sé, poiché l’intelletto e ciò che pensa sono diversi, quindi uno di essi sarà forma,
l’altro materia, quindi una composizione. Dalle parole di Averroè, invece, perché Averroè dice ciò nei
commenti 5 e 14 del III Sull’anima. La minore la accettiamo per gli stessi motivi molto chiaramente. Nel
libro L’incoerenza dell’incoerenza, terza disputa alla soluzione del dubbio 16, sintetizzando quasi tutto
questo ragionamento, dice: “E la differenza che c’è tra pensare (intelligere) il primo intelletto in se stesso e
pensare gli altri intelletti in se stessi, è che il primo intelletto pensa un qualche ente da se stesso, non
correlato ad altra causa, e gli altri intelletti pensato da se stessi qualcosa correlato alla loro causa”. Quindi
il senso è, che il primo intelletto non pensa se on sé, gli altri intelletti pensano altro, poiché è correlato alla
sua causa. E da ciò derivò la nostra conclusione che dicendo: “e quindi in questo modo trattengono la
molteplicità”, cioè la composizione. E che viene argomentato in questo modo: ogni cosa che pensa altro
(intelligens aliud) è composto; il primo intelletto non pensa altro, e gli altri intelletti pensano altro; quindi
il primo intelletto non è composto e tutti gli altri trattengono la molteplicità e sono composti.

[pag. 426]
Ancora, ogni ente causato è composto, come Averroè dice nel libro L’incoerenza dell’incoerenza, nella
medesima disputa, nella soluzione del dubbio 19; e questa proposizione si può provare a priori, come
chiarirò dopo. Ma tutti gli intelletti secondi sono causati. Quindi, tutti sono composti. La minore Averroè la
prova nel medesimo libro nella stessa disputa nella soluzione 18, verso la fine, provando che il primo
intelletto è la causa di tutti gli altri e così i predetti sono causati dal primo; e dice: “Inoltre, è stato chiarito
dai filosofi che ciò che dà agli enti separati dalla materia il fine è ciò che dà loro l’essere. Infatti, la forma e
il fine sono un’unica e medesima cosa in questa specie di enti. Quindi, ciò che dà il fine agli enti esso
stesso dà la forma e ciò che dà la forma è agente. Quindi, ciò che dà il fine a questo essere è l’agente, è
chiaro quindi che il primo principio è principio di tutti questi, cioè agente e forma e fine”.
Quindi, il suo ragionamento sarà: questo ente che dà la forma (dator formae) alle stesse cose separate è
agente; il motore primo è ciò che dà la forma agli stessi enti separati, quindi è agente. La maggiore è
evidente per definizione di agente, la minore si argomenta a sua volta così. Tutto ciò che dà un fine, dà la
forma; ma il motore primo dà il fine; quindi il motore primo dà la forma. La maggiore è provata con un
altro sillogismo. Quelle cose che sono del tutto un’unica e identica cosa che dà l’unità di essi, dà il resto.
Ma la forma e il fine sono fino in fondo la stessa cosa. Quindi, ciò che dà il fine dà la forma, che era la
premessa minore. Ma che Dio dia il fine, è manifesto per sé.

[pagg. 426-427]
Da questi ragionamenti si ricava che tutti gli intelletti secondi sono causati dal primo, e di conseguenza si
ottiene una conclusione, cioè che tutti sono composti, eccetto il primo, che è soltanto se stesso e forma e
non contiene alcuna molteplicità, come capirai.
E questa proposizione Averroè la diede nel libro L’incoerenza dell’incoerenza, nella disputa 3 nella
soluzione 16. Dice: “Motivo per cui non segue che siano tutte in un unico grado di semplicità”, cioè che
tutte le intelligenze siano così semplici come lo è il primo intelletto, “infatti non sono in un unico grado di
relazione rispetto al primo principio, né qualcuna di esse ha una semplicità simile alla semplicità del primo
principio”. Infatti, il primo ha l’essere da sé, ed essi hanno l’essere relativo. Quindi, solo Dio è forma
soltanto, e tutti gli altri sono composti da forma e materia per Averroè.
Ma quale sia la composizione delle intelligenze è necessario chiarirlo, poiché è oscuro (occultum) e
compreso da pochi. Diciamo quindi che il grado della perfezione della cosa si dice forma, il grado
dell’imperfezione della cosa si dice privazione o materia, come Averroè dice nel II dei Discorsi naturali,
commento 15. Nelle realtà separate dalla materia invece c’è un unico intelletto, che è soltanto perfezione,
come viene espresso nel 10 Sulla metafisica, commento 7. Infatti Dio è misura e regola soltanto e così
soltanto perfezione e grado di nessuna imperfezione.

[pagg. 427-428]
Da ciò si ricava che qualsiasi intelligenza può essere considerata in un duplice modo. In un modo, in
quanto si avvicina al primo che è soltanto perfezione, e così è una certa perfezione. In un altro modo, in
quanto è manchevole e priva della perfezione del primo, e si allontana da esso, e così è una certa
imperfezione e privazione. E poiché un’unica cosa in numero può avvicinarsi e recedere al primo, senza
dubbio allora un’unica cosa in numero è perfezione e privazione o imperfezione. Col che si ha che la
composizione che c’è in questi intelligibili non deriva dalla cosa sussistente e per la cosa sussistente, né
viene da una parte dell’essenza e per una parte dell’essenza, ma questa composizione deriva da modo
della forma e dal modo della materia. Infatti, la perfezione è il modo della forma, la privazione il modo
della materia. Quindi, gli intelletti separati si uniscono da modo e modo e non dalle cose per se e dagli
enti in modo distinto, né dalle parti, ma dai modi delle parti o delle cose.
E quando tutto ciò avviene, resta che nell’anima razionale l’intelletto agente non è altro se non il grado
di perfezione con la quale essa stessa si avvicina al primo, e l’intelletto in potenza il grado di privazione
con cui si allontana dal primo. E così l’unione (compositio) dall’intelletto agente e dall’intelletto in
potenza non deriva dalle cose che sono in modo distinto, o dalle parti diverse secondo l’essenza, ma dal
modo della forma e dal modo della materia, e così da un modo e da un <altro> modo e non dalle cose.

[pag. 428]
Ma che questo sia il pensiero di Averroè, è chiaro; infatti, nel Commento lungo alla
soluzione della terza questione dice: “Bisogna ritenere infatti che questo è un quarto genere
di essere. Infatti, come l’essere sensibile si divide in forma e materia, così l’essere
intelligibile si divide in cose simili a queste due, cioè in qualcosa di simile alla forma e
qualcosa di simile alla materia”. Ecco in che modo l’essere intelligibile vuole che si
componga non di materia e forma, ma dei loro modi. Ma sono loro modi la perfezione e la
privazione, come è stato detto.
E aggiunge: “E ciò è necessario in ogni intelligenza astratta, che pensa altro; e se non è
così, non ci sarebbe molteplicità nelle forme astratte. E quindi è stato chiarito nella
Filosofia prima che nessuna forma è esente da materia semplicemente, se non la prima
forma, che non pensa nulla al di fuori di sé, ma la sua essenza è la sua quiddità. Mentre le
altre forme si differenziano in quiddità e in essenza in qualsiasi modo”, cioè che sono
composte dei loro modi, e non di esse, ecc. […]
[pagg. 428-429]
E da queste cose deduco che tanta deve essere la differenza tra i principi delle operazioni
quanta deve tra le operazioni, come qui afferma Averroè. Ma l’operazione dell’intelletto
agente e dell’intelletto in potenza differiscono soltanto nel rapporto (differunt tantum
ratione), come dice Averroè. Quindi, anche l’intelletto agente e l’intelletto in potenza non
differiscono se non in rapporto. Questo stesso punto più chiaramente è espresso nel
commento 36; infatti dice: “Diciamo quindi che l’intelletto che è in noi ha due azioni,
secondo ciò che è attribuito a noi, una delle quali è del genere della passione, ed è il pensare;
l’lastra del genere dell’azione, ed è l’estrarre le forme e denudarle dalle materie”. Ecco
quanto chiaramente indicò che l’intelletto è uno, con il quale noi realizziamo quelle due
operazioni. […]

[pag. 429]
LIBRO SECONDO
Cap. 22. Nel quale si riporta la nostra posizione del modo in cui l’anima si unisce, e del modo in cui si è separata nel corpo,
e quanto sia elevata o immersa nel corpo o nella materia
E poiché fino a ora abbiamo introdotto la posizione di Averroè e ci siamo dilettati in quei fondamenti che potessero confermarla,
abbiamo contestato anche le ragioni a sostegno, con le stesse parole dei sapienti, resta soltanto di esporre la nostra posizione. Cioè
in che modo l’anima razionale sia forma del corpo e quanto sia immersa nel corpo e quanto da esso si elevi; una volta esposto ciò
in maniera fedele e chiara, senza dubbio le motivazioni di Averroè prodotte si allontaneranno da noi. E così la nostra verità rimarrà
totalmente indenne.
Diciamo quindi che il genere delle forme è tripartito. Infatti, senza dubbio alcune sono le forme, che anche secondo l’essere e
secondo la funzione del suo compito e secondo l’operazione si immergono nel corpo e sono del tutto abbracciate dal corpo, come
lo sono le forme degli elementi. Effettivamente, le forme di questo tipo si costituiscono tanto attraverso il corpo e la materia, che
non solo non possono essere, ma neanche operare senza il corpo e la materia.
Vi sono poi altre forme, che tanto secondo l’essere, quanto secondo l’operazione travalicano la materia e il corpo (corpus ac
materiam excedunt), dai quali esse si elevano, al modo in cui sono le anime degli esseri animati celesti. Infatti, queste non sono
circondate dalla grandezza, né sono costituite da un corpo, ma, in linguaggio peripatetico (ut peripatetice loquar), costituiscono il
corpo e agiscono, se non si abietti che esse dipendano dal corpo per un secondo compito. Noi ammettiamo che quelle intelligenti
sono separate (solutas) talvolta secondo l’operazione prima, che commenteremo a suo luogo.

[pagg. 304-305]
E poiché in generale gli elementi medi cadono soprattutto nel corso come degli estremi, è probabile che tra queste forme siano
mediane nell’estremo, le quali in parte sono immerse nella materia, e in parte sono sciolte da essa (partim se in materiam
immergunt, ac partim ab ea solvuntur), del cui genere sono le anime razionali. Queste in verità sono sull’orizzonte dell’eternità e
del tempo (in horizonte sunt aeternitatis et temporis), come dice Platone [Liber de causis, prop. 2 e 9]. Se volessimo chiarirlo con
un esempio del quale dobbiamo servirci per l’esposizione di temi difficili, diremmo che come il Sole è nel genere un corpo, così
anche l’anima è razionale nel suo genere. Ma vediamo che il Sole è uno di numero e individuale, e che la sua luce, che si trova in
esso, se viene considerata veramente rispetto a esso, è sua forma e individuale e una di numero. Se invece la consideriamo in
quanto fluisce da esso, così è universalmente luminosa, ora di tutti i diafani, ora dei varchi che da quella sono resi trasparenti, ora
degli oggetti colorati. In questo modo – dico – sebbene sia una di numero, agisce e fa molte cose.
Senza dubbio è così anche per l’intelletto; per cui Aristotele dice che esso è come la luce. Infatti, in seguito viene paragonata e
riferita alla stessa anima razionale e agli intelligibili; infatti, qualunque cosa sia propria dell’anima razionale, non soltanto è uno di
numero, ma anche individuo. Ma in quanto esercita le azioni dell’intendere è in una facoltà universale (in virtute universali), così
in qualche modo è universale. […]

[pag. 305]
LIBRO TERZO
Cap. 31. Nel quale si espone la nostra autentica posizione
Quindi, ciò che resta da tutte le disapprovazioni di queste posizioni è che le anime razionali siano di numero nante quante gli uomini. È stato infatti
chiarito che è impossibile che l’intelletto sia unico in numero o semplicemente separato, come disse Averroè, o che dia l’essere e la vita, come disse
Temistio.
Inoltre, è stato chiarito che le anime razionali sono molteplici per specie, che la creazione (fictio) negli uomini di anime diverse e separate a
seconda della loro differenza in numero, come sostengono i platonici.
Ancora, è stato chiarito che le anime non possono essere determinate per numero attraverso l’entrare e l’uscire dai corpi. Quindi, ciò che ricaviamo
da ciò è la posizione mediana (positio media), che sostennero Avicenna, al-Ghazali, Costa ben Luca e altri autori arabi, che le anime razionali siano
determinate per numero (numeratae) e siano forme dei corpi vitali e intrinseche, gli intelletti delle quali sono separati rispetto alla ragione e agli
organi.
Per cui, bisogna dire che l’anima razionale in quanto è razionale secondo l’essere naturale si congiunge all’intero uomo, e non a qualche sua parte.
Poiché, se non fosse congiunta all’intero uomo, non sarebbe l’uomo, ma soltanto l’animale che si costituisce grazie a esso. Ma è necessario che
l’anima razionale sia accolta nella generazione dell’uomo, poiché altrimenti non sarebbe la forma naturale dell’uomo. Quindi, in quanto è razionale
secondo quel modo per cui è sostanza, comprende in sé, come fine ultimo incompleto ed essenziale, il vivere e il sentire. E per questo si ha che così
come l’anima vegetativa nelle piante si imprime nella natura e anzi la natura nel vegetale agisce rispetto alla forma della vegetativa in sé impressa,
e come la sensitiva negli animali si imprime in quella vegetativa e attraverso la vegetativa nella natura, affinché agisca rispetto alla forma della
sensitiva; così nell’uomo la natura razionale si imprime in quella sensitiva e attraverso la sensitiva si imprime nella vegetativa e attraverso questa
nella natura, affinché ogni azione del corpo si realizzi nella forma dell’anima razionale. Quindi, l’anima razionale è il fine ultimo e il
completamento (ultimus finis ac complementum) di tutte le forme precedenti, nella quale si riassumono tutte le altre anime.

[pag. 381]
E da ciò si rimuove l’errore di Averroè, di Temistio e degli altri. Infatti, se l’intelletto è uno in numero in tutti gli uomini, è
necessario che la natura vegetativa sia una in numero in tutti gli uomini e una in numero anche la natura sensitiva. E così vi sarà
un’unica digestione, e un unico aumento e un’unica visione, ecc. Poiché, quindi, la sensitiva è il termine della vegetativa, la
vegetativa della natura, l’intelletto o anima razionale senza dubbio sarà l’unico termine di tutte quelle. E così l’essere dell’uomo
sarà senza dubbio per l’anima razionale, come per il fine e l’ultimo livello di tutte le forme. Altrimenti, infatti, non vi sarebbe se
non l’animale, e non l’uomo, come è abbastanza evidente. Quindi, poiché l’uomo si realizza attraverso l’anima razionale, è
necessario che così come l’animalità si moltiplica negli animali, così l’umanità negli uomini. Quindi, non vi sarà un’unica umanità
in tutti gli uomini, quindi vi saranno più uomini e di conseguenza più anime razionali.
E poiché l’intelletto in potenza è una facoltà razionale, al modo in cui il senso è una facoltà sensibile, vi saranno tanti intelletti
quante numericamente saranno le anime razionali, così come vi saranno tanti sensi quante anime sensitive moltiplicate negli
animali. E così è evidente in che modo vi siano più intelletto in noi e non uno soltanto in numero, e in che modo dalle cose dette si
ricava questa posizione.

[pag. 382]
LIBRO QUARTO
Cap. 23. Nel quale si determina la verità di tutte queste cose
Sin qui abbiamo detto cosa poteva intendere Averroè e lo abbiamo spiegato secondo i principi della sua posizione. Ma abbiamo
mostrato che la posizione di Averroè è contraria a tutta la verità e alla filosofia naturale (contra veritatem et naturalem
philosophiam). Quindi, una volta supposto che l’anima razionale sia moltiplicata e al contempo che nasca col corpo, e che sia
forma del corpo umano che dà l’essere, nella quale termina la parte sensitiva e vegetativa, come nel suo termine e ultimo e fine del
procedere dell’intera natura, ora è necessario esporre la verità.
Quindi, l’anima razionale essendo sostanza derivata da Dio e creata dal seme della mente divina (ex Deo defluxa ac ex semine
divinae mentis procreata) è natura per partecipazione e non per essenza, come qualcuna delle sostanze separate. Dal che deriva
che essa stessa nemmeno agisce per essenza, né per essenza patisce. Infatti, ciò che agisce per essenza come per mezzo del
principio dell’agire, è Dio o qualcuno degli intelletti separati. Quindi, poiché l’anima razionale non è nessuno dei due senza
dubbio, non opera per essenza ma per facoltà, potenza e virtù diversa dall’essenza. Infatti, questo modo di operare è proprio della
sostanza creata. Ma poiché troviamo nei libri dei peripatetici che l’anima razionale fa tutte le cose e diventa tutte le cose,
sappiamo che in essa ci sarà una duplice facoltà e potenza: cioè, una per cui diventa tutte le cose, l’altra per cui fa tutte le cose.

[pagg. 435-436]
Infatti, la potenza con la quale l’anima fa tutte le cose è chiamata intelletto agente, mentre quella
con cui diventa tutte le cose è chiamata intelletto in potenza. Ma l’intelletto in potenza è rapportato
agli intelligibili al modo in cui il diafano sia nel mezzo, sia nell’occhio sono rapportati ai visibili.
Infatti, come il diafano conferisce alle cose visibili l’essere spirituale, in virtù del quale i visibili
sono in esso come nel proprio soggetto, così anche in tutti questi si trova in maniera eminente
l’intelletto in potenza rispetto agli intelligibili. Infatti è connaturale alle forme intelligibili, e ad esse
fornisce l’essere spirituale in quanto sono in esso, come nel proprio soggetto. Dal che deriva che il
discorso di Aristotele è confermato, cioè che questo intelletto è paragonato agli intelligibili, al modo
in cui una tavoletta bianca (tabula rasa) alla scrittura. Poiché in tale abitudine la superficie della
tavola è soggetto dell’immagine, che illumina l’immagine determinata della figura, al modo in cui
anche i colori nel diafano sono diafani per la natura determinata dalle divisioni degli enti colorati.
Sembra che anche le forme intelligibili nell’intelletto sono pensate e determinate dai fini e dalle
quiddità delle cose. E allora si confermerà l’altra affermazione di Aristotele, che questo intelletto
non ha alcuna operazione della materia, ma piuttosto è il luogo delle specie intelligibili (locus est
specierum intelligibilium) al quale si muovono gli intelligibili con la luce dell’intelletto agente,
come i colori con la luce del Sole si muovono nel diafano.

[pag. 436]
Inoltre, anche l’altra affermazione di Aristotele, cioè che essendo separato secondo
il fatto che è virtù dell’anima razionale, tutte le cose che sono in esso sono sempre
e ovunque. Infatti, la forma mentre è individuata lo è qui ed ora, e quando è
astratta da questi è ovunque e sempre. E per tale motivo sono universali
nell’essere dell’intelletto, che non dà il qui e ora, ma l’ovunque e sempre (ubique
et semper). Cosa sia quindi l’intelletto in potenza è chiaro da queste cose.

[pag. 436]

Potrebbero piacerti anche