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PLOTINO

L’arco cronologico in cui è vissuto Plotino va dal 205 d.C. al 270 d.C.. Egli nasce a Licopoli e si trasferisce
ad Alessandria d’Egitto, il centro culturale pulsante della grecità, dove si trattiene per circa 11 anni. Il
suo maestro (un importante filosofo si forma accompagnato da un importante maestro) è Ammonio
Sacca (un filosofo alessandrino fondatore del Neoplatonismo).
Nel 243 d.C. decide di partecipare alla spedizione militare di Atene contro i Persiani perché intuisce
come attraverso la partecipazione alla spedizione militare possa confrontarsi con una cultura diversa
da quella greca.
Di ritorno dalla spedizione militare Plotino si stabilisce a Roma dove fonda la sua scuola (intesa nel
senso greco di skolé, “comunità di vita e di pensiero”) cui partecipano anche schiavi: egli infatti non
aveva alcun tipo di pregiudizio verso chi era ridotto in schiavitù (lo stesso Epicuro era stato ridotto in
schiavitù).
Si trasferisce infine in Campania, dove morirà nel 270 d.C.

OPERE
L’allievo di Plotino Porfirio, sulla base di quello che gli dettava il maestro, riportò il pensiero di Plotino
in un’opera, le Enneadi: 6 libri suddivisi ciascuno in 9 parti; le Enneadi sono dunque composte da 54
parti nelle quali si analizzano sei argomenti:
• Etica: da etos, ossia individuare quali sono le regole da applicare per garantirsi l’eudaimonia, la
“corrispondenza con il proprio demone”;
• Cosmologia, da cosmos logos, “individuazione delle leggi del cosmo”;
• Il rapporto fra tempo ed eternità (il tempo sarà trattato nella III Enneade, capitolo 7);
• Anima;
• Intelletto ed idee: le idee non sono altro che il prodotto dell’attività pensante e l’attività
pensante, pensando, genera idee. Di qui la coappartenenza dunque di intelletto ed idea;
• Questione dell’essere e del bene come componenti interdipendenti. La coappartenenza fra
essere e bene non è altro che la conseguenza delle analisi platoniche sull’essere e sul bene, a tal
punto che Plotino si definiva semplicemente come un commentatore di Platone. Nonostante ciò
Plotino, partendo dalle idee di Platone, le svilupperà in maniera alternativa e diversa. Anche
dunque se la sua filosofia è definita “neoplatonica” la dimensione di novità prevale sulle
risonanze platoniche presenti nel suo pensiero.

BASI DELLA FILOSOFIA DI PLOTINO


Quali sono le basi della filosofia di Plotino? Esse vanno individuate nel Platone degli agrapha dogmata
(dogmata significa “dottrine, saperi accettati passivamente”; agrapha significa “non scritte” nel senso
che è documentato da Aristotele, il maggiore allievo di Platone, che Platone negli ultimi anni della sua
vita abbia tenuto delle lezioni per le quali non esistono dei documenti scritti poiché egli ha realizzato
compiutamente l’insegnamento socratico nel senso che il sapere filosofico è quello che si coltiva
attraverso il dialeghestai, mediante il quale si accende la scintilla del sapere destinato a trovare sé
stesso; questa è una citazione riportata dalla VII lettera di Platone) ed Aristosseno, uno dei più
importanti allievi di Platone.
Riguardo agli agrapha dogmata abbiamo sia un riferimento in alcuni libri della Metafisica di Aristotele
(in particolare nei libri XIII (13) e XIV (14)) e anche da uno dei maggiori commentatori di Aristotele,
Alessandro di Afrodisia.
Quali sono le basi o principi degli agrapha dogmata di Platone?
• l’uno, elemento componente e determinante degli enti che si costituisce come principio e
caratterizza l’individualità, la particolarità degli enti;
• La diade indefinita, che assicura agli enti la molteplicità.
Plotino recupera il ruolo dell’uno attribuito da Platone negli agrapha dogmata individuandolo con
l’epechein a tes ousias (“al di là dell’essere”). Mentre Platone identificava l’epechein a tes ousias con l’e
tou agatou idea, ossia con l’”idea del bene”, per Plotino invece l’epechein a tes ousias si identifica con
l’uno: esso costituisce dunque la base ed il fondamento della filosofia di Plotino stesso.
Ciascun ente possiede in maniera intrinseca la sua specificità rispetto agli altri enti: anche un ente
molteplice come un sacco di grano, pur essendo costituito da tanti chicchi di grano, possiede una
specificità che lo contraddistingue dal sacco di albicocche, di patate, di mele, di pere, ecc.
La dimensione dell’uno appartiene dunque a tutti gli enti.

Qual è la proprietà, la caratteristica dell’uno (Plotino infatti ripensa nella sua ontologia sia ad alcune
determinazioni filosofiche platoniche sia alcune determinazioni filosofiche aristoteliche perché la
proprietà dell’uno è quella corrispondente all’entelecheia ed all’energheia aristotelica. Energheia nel
senso di “atto dinamico”: l’uno infatti nella sua molteplicità genera da sé il diverso dall’uno, il molteplice.
Entelecheia poi nel caso di “atto statico” perché l’uno possiede il suo telos, e dunque ad esso si
attribuiscono le determinazioni aristoteliche dell’energheia e dell’entelecheia: tutto quindi scaturisce
dall’uno, che in quanto principio non può che essere perfetto e dunque contenere in sé stesso anche
l’entelecheia)?
Quadro sinottico a pag. 91. In primo luogo il titolo “Dio” è errato: in base al frammento 30 di Eraclito
si comprende come i greci siano estranei a qualsiasi concezione di un Dio a quello della tradizione
ebraico-cristiana (“questo mondo non lo produsse nessuno degli dei e nessuno degli uomini, ma era, è e sempre
sarà come fuoco eternamente vivente che si accende e si spegne secondo misura”). Dio va inteso invece come
il principio: in Platone il divino altro non è che l’insieme delle idee che poi vengono superate nella loro
molteplicità dall’idea unica, l’idea del bene. Nel Timeo Platone (un dialogo di argomento cosmologico)
ricorre al concetto di demiurgos, che avrebbe forgiato tutti gli enti caratterizzanti la physis, così come il
vasaio crea i vasi. Dal demiurgos dunque derivano le idee chorista, “separate” dal sensibile. Aristotele
invece ricorreva al motore immobile, in particolare in Metafisica XII (12) libro capitolo VIII (8), che è
definito come “atto puro” nel senso che esso costituisce il corrispondente dell’entelecheia dell’atto che
contiene il suo telos originario da cui derivano gli altri atti degli altri enti. Aristotele poi definisce poi
nello stesso capitolo il noesis noesios “pensiero del pensiero”: l’attività pensante del motore immobile
genera l’oggetto del pensiero, che implica l’attività pensante: si ha dunque una corrispondenza fra
pensante e pensato, che costituiscono due componenti inseparabili.
In Plotino il principio è l’uno, definito come “assoluta potenza” nel senso dell’energheia, ossia nell’atto
in senso dinamico.

COME DALL’UNO DERIVANO TUTTI GLI ALTRI ENTI? NOZIONI A PARTIRE


DALL’UNO
Pag. 90, capitolo IX (9) dell’Enneade VI (6). Come dall’Uno derivano tutti gli altri enti?
Qui è presente un’importante citazione. “Siccome dall’uno scaturiscono tutti gli enti esso non si
identifica con alcuno di essi: non è pertanto qualcosa, né quantità, né qualità” (se l’uno fosse identificato
con qualità o con quantità allora in questo caso non genererebbe le altre qualità): non si fa altro che
esprimere dunque quella che gli studiosi hanno definito come ontologia negativa: dell’uno si può dire
ciò che non è, perché tutto ciò che è scaturisce dall’uno, tutto ciò che è iusteron rispetto al proteron che
è l’uno. Di qui scaturisce la cosiddetta indefinibilità dell’uno.
Di qui scaturisce anche la negazione da parte di Plotino (negazione che appartiene comunque a tutta la
filosofia greca) del creazionismo (il termine “creazionismo” sta proprio ad indicare una metabasis dal
non essere all’essere). Ricordiamo infatti che la filosofia greca è estranea al creazionismo in base al
frammento 30 di Eraclito nel quale sta scritto “questo mondo non lo produsse nessuno degli dei e
nessuno degli uomini, ma era, è e sempre sarà come fuoco eternamente vivo che si accende e si spegne
secondo misura”. Plotino non fa altro che riconfermare questa estraneità malgrado sia vissuto circa
sette secoli dopo Eraclito.
Si pone il problema di come dall’uno scaturisca il diverso dall’uno, il molteplice. Plotino utilizza delle
metafore ed in particolare quella della perilompsis, “irradiazione” e quella della yperochè,
“sovrabbondanza”. Così come dalla sovrabbondanza dell’acqua in un bicchiere essa trabocca, così
anche l’uno, traboccando, genera il diverso da sé, quindi il molteplice. Nel caso dell’irradiazione si può
far riferimento al fatto che l’uno genera il diverso da sé così come il fuoco genera calore e il profumo
viene emanato da una sostanza profumata. Man mano che ci si allontana dalla sostanza profumata il
profumo perde la sua qualità: man mano quindi che ci si allontana dall’uno ci si allontana dunque anche
dalla sua perfezione.
Malgrado Plotino avesse scritto che la sua opera non è altro che un commento ai dialoghi di Platone si
nota come i concetti che egli esprime siano molto diversi dalla filosofia di Platone.

STRUTTURA IPOSTATICA
Alla base della filosofia plotiniana si pone quella che è una struttura ipostatica. Cosa vuol dire questo
termine? Che dall’uno, inteso come prima ipostasi, scaturiscono le altre ipostasi. La parola ipostasi è
tratta da una delle nozioni dell’ousia aristotelica, che altro non è che il corrispondente dell’essere
secondo Aristotele dell’on pollachòs leghomenon, ossia “l’ente che si dice in molti modi”:

In Metafisica Z3 Aristotele individua 4 significato dell’essere, einai, e dell’ente, on:


• Ghenos: genere inteso come uomo, animale, libro, ecc.;
• Chatolu: universale. Comprende i particolari: universale come banco comprende tutti i banchi;
• To ti en einai: “l’essere di ciò che era”. Vuol dire la permanenza dell’essere e deriva dal verbo;
• Ypokeimenon: substrato, base dell’essere. Questa parola deriva da ypokeisthai (ciò che sta alla
base dell’ente).

L'ousia corrisponde allo ypokeimenon, al substrato, a ciò che è alla base dell’ente in senso individuale;
qui va inteso anche nel senso però degli enti. Le ipostasi costituiscono dunque le determinazioni
dell’essere (tutto ciò che è altro non è che ipostasi) secondo Plotino a partire dalla prima ipostasi, l’uno,
da cui scaturisce la seconda ipostasi, il nous, che va tradotto come “intelletto” e non come “spirito”,
parola che sarà elaborata nella filosofia cristiana ed in quella tedesca del ‘700 ed ‘800 nel senso di gaist
riguardante lo sviluppo del genere umano. La terza ipostasi è l’anima, o psyché.

Che intende Plotino per nous? Egli intende la derivazione dall’uno nel senso dell’apò (il nous che deriva
dall’uno), al perì (si riferisce all’uno) ed al pros (nel senso che il nous è destinato a tornare alla prima
origine, alla prima ipostasi, che è l’uno).
In che senso dunque va inteso il nous sulla base di queste premesse? Esso è inteso da Plotino come
coappartenenza di pensante e pensato. La coappartenenza va intesa in base a quanto Parmenide
scriveva nel frammento 3, tauton estin noein chai einai, “la stessa cosa pensare e essere”. Pensante e
pensato costituiscono dunque due componenti interdipendenti: se io penso qualcosa, il qualcosa è
implicato nell’attività di pensare; il qualcosa però in quanto qualcosa può essere espresso soltanto se io
lo penso: se io non lo pensassi esso non esisterebbe.

La terza ipostasi è la psyché, l’ANIMA.


Plotino distingue l’anima ascendente e l’anima discendente:
• L'anima ascendente è la parte dell’anima che ancora tende verso il nous, quindi è la parte
superiore dell’anima;
• L’anima discendente è la prima parte dell’anima che si unisce al corpo, laddove Plotino definisce
l’anima come logos nou. Si ricordi che la parola logos, “discorso, linguaggio” deriva da leghein,
che vuol dire “unire ciò che è separato”. Mediante il logos si unisce cioè la seconda ipostasi, il
nous, con la psyché. In questo caso il logos è inteso da Plotino come ermeneus, sostantivo che
implica il riferimento al dio Hermes: esso è inteso come elemento di comunicazione e
collegamento tra la seconda ipostasi, il nous, e la prima ipostasi, la psyché. Attraverso l’anima si
assicura dunque la vitalità al corpo, vitalità intesa nel triplice senso di vegetativa, sensitiva e
razionale.

Procedendo dunque in questo discorso di degradazione si giunge alla materia, che è intesa da Plotino
come steresis, intesa come “materia” nel senso distensivo. L’anima, partendo dunque dall’uno, l’arché
tou pantos, giunge al punto massimo di imperfezione, che è la materia, in quanto steresis, “privazione”
di qualsiasi componente di perfezione. Dalla materia scaturisce dunque la necessità per percorrere il
ritorno, epistreophé, all’uno.
In Plotino troviamo dunque sviluppati due componenti, o due discorsi: uno discendente, dall’uno al
nous, dalla psyché sino alla materia, e l’altro ascendente, dalla materia verso l’epistrophé all’uno. Questo
percorso di ritorno all’uno avviene attraverso varie tappe: la prima tappa è data dall’etica. Essa
comprende come arethai, come virtù, la sofrosyne e la diche. Sofrosyne significa “temperanza” (la
prudenza come capacità di autocontrollo e riflessione. Questo non significa che bisogna vivere senza
passioni: senza di esse vivremmo una vita vegetativa. Esse vanno però controllate in modo tale che non
costituiscano delle componenti di cui si diventa succubi). Diche significa invece “giustizia” e deriva dal
greco dechmi: vuol dire dunque “distribuire meriti e demeriti”. La giustizia va dunque intesa come
distribuzione paritaria di meriti e demeriti.

Alla componente dell’etica segue, nel percorso di epistrophé, la componente relativa al calos, il “bello”.
Esso va inteso non nel senso di bello sensibile in quanto esso è soggetto al ghenestai chai apollysthai, la
nascita e la morte, ma dal bello in sé, l’auto to chalon. Soltanto attraverso il bello in sé si possono
distinguere il bello dal brutto, e solo esso, l’auto to chalon, non è soggetto alla nascita ed alla morte.
Il bello sensibile è definito tale in riferimento, come metexis, partecipazione, dell’auto to chalon.

Si giunge dunque all’estasi, parola che deriva dal greco ec staino, che vuol dire “superare la propria
componente individuale ed identificarsi con l’uno, con il principio”. Questa parola assumerà anche un
significato religioso nel cristianesimo: chi è in estasi perde qualsiasi contatto con la dimensione terrena
e si identifica con Dio. Ovviamente questo significato è estraneo a Plotino: la divinità è intesa infatti di
arché to pantos, “principio di tutto”.

L’epistrophé trova dunque il suo telos nell’estasi, anche se attraverso vari gradi, attraversando la
dimensione dell’etica e dell’estetica (parola che deriva da aistesis, ma la determinazione dell’estetica
come ricerca sul bello è stata individuata per la prima volta dal filosofo tedesco Baumgarten, che
significa “giardino di alberi”).

IL TEMPO IN PLOTINO
La fonte testuale per quanto concerne il problema del tempo in Plotino è la III (3) Enneade, capitolo
7.
Cerchiamo di collocare filosoficamente il modo in cui Plotino imposta il problema del tempo (che vuol
dire “collocare filosoficamente”? Individuare i riferimenti per quanto riguarda, in questo caso, la
questione del tempo).
La questione del tempo in Plotino è formata da due componenti: una pars destruens, una parte critico
negativa del modo in cui sia Platone che Aristotele avevano trattato la questione del tempo, ed una pars
costruens, chiarendo cioè cosa intende Plotino per “tempo”.

Per quanto concerne la pars destruens si nota la distinzione fra aion e chronos, eternità e tempo come
divenire, una distinzione già presente nel Timeo 37d di Platone, laddove egli definiva il tempo come
“immagine mobile dell’eternità secondo il numero”. In questa definizione era infatti presente la
dicotomia fra aion e chronos, superata da Platone attraverso il numero, l’atirhmos, il metaxiu.
Se da un lato Plotino condivide la distinzione platonica fra aion e chronos, a differenza di Platone egli
inserisce la differenza fra aion e chronos nell’ambito della sua struttura ipostatica, delle ipostasi.
Nel confronto con Aristotele, Plotino ritiene che Aristotele si sia concentrato solo sulla trattazione del
tempo come chronos (nella Physica, dove Aristotele tratta degli enti mobili). Da un lato dunque Plotino
rifiuta l’assolutizzazione del tempo aristotelico inteso come chronos, dall’altro lato egli critica
l’approccio fenomenologico di Aristotele al tempo: approccio fenomenologico, ricordiamo, significa
trattazione del tempo per quanto riguarda il modo in cui esso si manifesta; secondo Plotino invece
Aristotele non si chiede cos’è il tempo e dunque non risponde alla domanda sulla natura del tempo. Per
Plotino dunque la questione del tempo risulta doppiamente incompleta.

Per quanto riguarda la pars costruens, Plotino da un lato identifica il problema del tempo con la
struttura ipostatica dell’essere, dall’atro esclude che ciascuna determinazione del tempo appartenga o
si identifichi con l’uno giacché da esso scaturiscono tutti gli altri enti. Proprio però perché da esso
scaturiscono tutti gli altri enti in base a quanto egli scrive al capitolo IX (9) dell’Enneade VI (6) l’uno
non si identifica con nessuno degli enti e quindi neanche con aion o chronos.

Si ricordi a questo punto che Plotino inserisce la questione del tempo all’interno delle tre ipostasi ed
esclude che il tempo inteso sia come aion che come chronos si identifichi con la prima ipostasi: se
dall’uno scaturiscono tutti gli enti, esso non si identifica con nessuno di essi: di conseguenza esclude
che alcuna delle due determinazioni del tempo appartengano all’uno: esse sono infatti generate
dall’uno. Egli identifica dunque:
• il tempo inteso come aion con la seconda ipostasi: l’eternità è dunque generata dal nous; il
chronos deriva invece dalla terza ipostasi, dalla psyché. Riguardo al tempo generato dal nous,
l’aion, Plotino scrive che esso, essendo generato come aion, esclude sia il prima che il poi
(proteron e iusteron, che implicano la scansione del tempo nel divenire); esso è definito
aiastaton, “inesteso” e perfetto, nel senso che non gli manca nulla: l’eternità costituisce la
componente perfetta del tempo.
• Il tempo inteso come chronos come “disposizione dell’anima”, quindi come caratteristica propria
dell’anima che trapassa ciascuna determinazione del tempo. Se il tempo come chronos è definito
come “disposizione dell’anima che trapassa da uno stato all’altro” questo passaggio avviene
attraverso le tre componenti del tempo:
i. la mneme (memoria di ciò che non è più);
ii. Sensazione nei confronti del presente;
iii. Immaginazione (aistesis) nei confronti del futuro (io immagino, in futuro, di prendere il Premio
Nobel).

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