IL FUOCO DEI FILOSOFI
RAPHAEL.
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
SOMMARIO
SOMMARIO ............................................................................................................................................................................ 2
PRESENTAZIONE. ............................................................................................................................................................... 4
METAFISICA. ........................................................................................................................................................................ 8
L'UNO‐MOLTI. .................................................................................................................................................................... 11
FILOSOFO, AMICO DELLA SAPIENZA. ..................................................................................................................... 18
L'AMORE E' FILOSOFO. .................................................................................................................................................. 20
IL FILOSOFO SECONDO PLATONE. ........................................................................................................................... 25
GIUSTIZIA. ........................................................................................................................................................................... 28
INIZIAZIONE E TRADIZIONE. ...................................................................................................................................... 32
LE QUALIFICAZIONI DEL DISCEPOLO. .................................................................................................................... 38
TEMPO‐SPAZIO E CONOSCENZA. .............................................................................................................................. 42
STATI DI COSCIENZA. ..................................................................................................................................................... 47
MORTE RINASCITA RESURREZIONE. ...................................................................................................................... 53
LIBERAZIONE. ................................................................................................................................................................... 56
NON‐DUALISMO ED EQUANIMITA'. ......................................................................................................................... 58
BENE E MALE. .................................................................................................................................................................... 61
IL FUOCO DEI FILOSOFI. ................................................................................................................................................ 67
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
Il libro é composto di note che Raphael ha sviluppato in forma di brevi articoli in un arco
di tempo abbastanza lungo. Esse, pur prospettando argomenti vari, sono essenzialmente
rivolte alla tematica della Conoscenza tradizionale. Le note sono state raccolte con
l'intento di fare cosa utile a quanti s'interessano della Via realizzativa.
La diversità esteriore della Dottrina può essere risolta solo con la Visione metafisica,
visione che sintetizza le apparenti sfaccettature che operano esclusivamente nella sfera del
sensibile. Rendere esclusivo un Ramo dottrinario significa prima o poi combattere il
potenziale nemico che sta di fronte.
Pensare che solo il Ramo alchemico, oppure quello qabbalistico, platonico, vedantico,
buddhista, ecc., sia in grado di risolvere l'avidya-ignoranza dell'ente decaduto, é solo fare
sfoggio di orgoglio di parte e di settarismo deteriore.
Che i più siano sotto l'imperio dell'opinione é un fatto evidente, come é evidente che essi
cercano fanaticamente di assolutizzare quella opinione; ma che un discepolo alla
Conoscenza suprema possa considerare, per esempio, che solo l'Occidente oppure
l'Oriente detenga la Verità é indice di opinione, non di pura Conoscenza. Voler unire al
semplice livello emotivo, o esclusivamente concettuale, le tante correnti spirituali,
religiose o le diverse scuole iniziatiche che si pongono soltanto nell'ambito di processi
mentali e passionali é fatica vana, sprecata; diremo, é certamente illusorio e persino
patetico. Solo con una visione che trascenda la parte, la singola corrente, si può
comprendere l'intero (come dice Platone); solamente da una prospettiva superiore si può
includere e comprendere quella inferiore o il singolo, e questa prospettiva non può non
essere quella metafisica la quale abbraccia l'Essere e il non-essere, andando ancora oltre,
con tutte le conseguenze che questa inclusione-integrazione, e nello stesso tempo
trascendenza, può produrre.
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Quali sono secondo te i veri filosofi? Quelli che amano contemplare la verità.
Platone.
Raggiungi la dimora di Coloro che sono e non più divengono, la Cittadella degli Svegliati, il luogo
senza confini. Solo la potenza del fuoco può trascendere il fascino dispersivo del fuoco.
Raphael.
PRESENTAZIONE.
Questo libro é composto di note che Raphael ha sviluppato in forma di brevi articoli in un
arco di tempo abbastanza lungo. Esse, pur prospettando argomenti vari, sono unicamente
rivolti alla tematica della Conoscenza tradizionale. Le note sono state raccolte con l'intento
di fare cosa utile a quanti si interessano della Via realizzativa. Non occorre soffermarci ora
sulle singole tematiche affrontate lasciando al lettore intuire e meditare il contesto
dottrinario; ciò che vogliamo sottolineare invece é un'evidenza che non possiamo non
notare sfogliando le varie pagine, per quanto tale evidenza la riscontriamo nella maggior
parte dei libri di Raphael. Egli, in quest'ultimo scorcio del Kali-Yuga, sembra volerci
offrire la presentazione, soprattutto in Occidente, nella dottrina tradizionale sotto il punto
di vista prettamente metafisico; quindi si può notare l'insistenza nel parlare in termini di
unità nella Tradizione, unità che solo una visione metafisica può comprendere ed
esprimere.
La diversità esteriore della Dottrina può essere rivolta solo con la Visione metafisica,
visione che sintetizza le apparenti sfaccettature che operano esclusivamente nella sfera del
sensibile. Questa visione, soprattutto in Occidente, é carente per una serie di
considerazioni che sarebbe troppo lungo spiegare. Diremo solo che l'Occidente, in genere,
é più empirico, pragmatico, dogmatico, quindi più individualista, con poca attenzione al
Sacro, avendo sviluppato maggiormente il manas discorsivo o la mente dianoetica
(samvit).
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Quando una società si distacca dal Principio, al quale Motore immobile intorno a cui
devono roteare tutte le contingenze individuate, quella società gradatamente decade fino
a trovarsi completamente massa, materia (prakrti), oscurità: é il Kali-Yuga, l'età oscura
dove tutti sono contro tutti e la divisione impera. La concezione metafisica poi esclude la
discesa nel semplice sincretismo (con cui si vogliono conciliare persino gli aspetti formali
delle singole Dottrine), oltre a far comprendere la differenza tra Piccoli e Grandi Misteri,
tra l'aparavidyà e la paravidyà o Conoscenza non-suprema e suprema.
Tanto per fare un esempio su aspetti rituali: la Messa cristiana non é la puja indù o un rito
buddhista; ma ogni rito, per quanto diverso nella sua componente formale, in senso
tradizionale è un mezzo per attrarre l'Influsso spirituale (o la Grazia) dall'intelligibile o
sovrasensibile. Se il rito non ha tale valenza non é di livello tradizionale, ma é una
semplice cerimonia di ordine individuale. Rendere esclusivo un Ramo dottrinario
significa prima o poi combattere il potenziale nemico che sta di fronte. Pensare che solo il
ramo alchemico, oppure quello qabbalistico, platonico, vedantico, buddhista, ecc., sia in
grano di risolvere l'avidyà dell'ente decaduto, é solo fare sfoggio di orgoglio di parte e di
settarismo deteriore.
Che i più siano sotto l'imperio dell'opinione, é un fatto evidente, come é evidente che essi
cercano fanaticamente di assolutizzare quella opinione; ma che un discepolo alla
Conoscenza suprema possa considerare, per esempio, che solo l'Occidente oppure
l'Oriente detenga la Verità, é indice di opinione, non di pura Conoscenza; questa, per la
sua particolare natura, è una di là da ogni settarismo, di là dal tempo-spazio e da
eventuali costrizioni. Poiché i discepoli differiscono per le loro qualificazioni iniziali, per
la cultura, per impostazione mentale o per condizioni psicologiche particolari, ecc. i
diversi Rami tradizionali sopperiscono alle loro varie esigenze e al loro peculiare stato
coscienziale. Per esempio, in Oriente vi è un solo Yoga ma con sfumature, nomi e tecniche
diverse per andare col medesimo scopo: l'unione con la controparte divina. Laddove viene
a mancare questo scopo vi é degenerazione dello yoga e allontanamento dalla tradizione.
(Si veda per questo argomento Essenza e scopo dello Yoga, di Raphael).
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E perché questo? Perché la Conoscenza tradizionale non può non essere una, come é una
sola la Verità che ne scaturisce. L'Oriente tradizionale é più sintetico, la dottrina é
compendiata in pochi sutra, o aforismi, essendo diretta esclusivamente all'intuizione e al
risveglio della consapevolezza, mentre l'Occidente, in linea generale, essendo più
dianoetico e manasico, é discorsivo, analitico, dettagliato, per cui stimola e dilata la mente
distintiva.
E' per questo che in Occidente si parla molto di Tradizione e poco di realizzazione, salvo
casi eccezionali. Comunque, per pervenire alla Conoscenza metafisica, occorre trascendere
non solo lo stato individuato (il che é ovvio), ove le contraddizioni e le unilateralità sono
inconciliabili, ma persino quello principale-universale. I teisti infatti sono in opposizione
perché ognuno di loro difende il proprio Dio a svantaggio di quello degli altri. Per seguire
un sentiero metafisico é necessario porsi nello stato completamente informale, non
qualificato e non quantificato.
Che ciascuno persegua, ripete spesso Raphael, la propria dottrina, oppure purché essa sia
universale e non frutto di originalità del manas-mente per fare sfoggio di distinzione e
voler sembrare a tutti i costi diversi, accentuando così i bisogni dell'individualità. Ogni
ramo della Dottrina, se seguito onestamente e con serietà, porta alla stessa mèta. L'Uno-
Bene di Platone, l'Uno di Plotino, l'Essere di Paramenide, l'Ain Soph della Qabbalah, il
Brahman nirguna del Vedanta, ecc., sono la stessa cosa perché designano il medesimo
principio, o meglio la radice del Principio, anche se lungo il tempo, occorre dire, molti
discepoli ed eruditi vi hanno posto sovrapposizioni fino alla deformazione, e hanno fatto
interpretazioni unilaterali per essere originali. Un'altra tipica peculiarità dell'io é l'esaltare
più la persona che trasmette la Dottrina che la Dottrina stessa. Di qui l'assurdità di porre
troppo l'accento sul mezzo anziché sul fine.
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In India si hanno dei darsana che sono diversi punti di vista dell'unica Dottrina
tradizionale costituita dai Veda e dalle Upanisad: la diversità dell'unità. (Per una
esauriente trattazione dei sei darsana ortodossi della filosofia indiana, vedi: La filosofia
indiana di S. Radhakrishnan, volume 2).
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METAFISICA.
Aristotele caratterizza la metafisica come: scienza o conoscenza delle cause e dei princìpi
primi o supremi. Causa (aitìa) e principio (apxn) di una cosa, non sono altro che il perché
della cosa medesima, la ragione d'essere della cosa; sono ciò per cui la cosa é ed é quello
che é. Le cause e i princìpi, pertanto, si possono definire come le condizioni o i fondamenti
delle cose, in quanto sono ciò su cui si fondano e condizionano le cose; se si tolgono le
cause e i princìpi si tolgono, immediatamente, le cose stesse. Se a una stoffa-tessuto si
tolgono i fili, scompare la stessa stoffa. L'atomo é il fondamento della materia. Ma nella
definizione di Aristotele abbiamo parlato di princìpi primi o supremi.
Quando si possiede la conoscenza delle cause e dei princìpi di qualche cosa (come negli
esempi citati), si possiede sempre scienza della cosa, ma non necessariamente scienza
metafisica. La scienza metafisica si ha quando si conoscono certe cause e certi princìpi.
Quali? Appunto quelli supremi, quelli primi, o ultimi. Se, ancora, si studiano le ragioni dei
numeri e dei rapporti numerici si avrà la scienza aritmetica; se si studiano le cause e le
ragioni dei fenomeni celesti, si avrà la scienza meteorologica; quando si studiano i
fenomeni emotivi, mentali, istintuali dell'individuo, si avrà scienza psicologica. Quando
allora si avrà scienza metafisica? Non quando si studiano e si conoscono le cause e i
principi che valgono solo per zone particolari della realtà, ossia solo per gruppi di cose,
quindi limitatamente a settori circoscritti dell'essere; ma, e questo é il punto decisivo,
quando si studiano e si determinano quali sono le cause e i princìpi di tutte quante le cose
senza distinzione, vale a dire di tutti gli enti.
Ecco quali sono le cause e i princìpi primi o supremi, cioè l'oggetto peculiare della
metafisica: le cause e i princìpi che condizionano tutta quanta la realtà, quindi le cause e i
princìpi su cui si fondano gli esseri nella loro totalità.
Così, la metafisica é scienza del perché ultimo di tutte le cose, é scienza delle ragioni
supreme della realtà, perciò é scienza, dice Aristotele, superiore a tutte le altre scienze
particolari che propongono verità particolari e non universali. Un'altra definizione di
metafisica data da Aristotele é questa: scienza dell'essere in quanto essere, e di ciò che
all'essere in quanto tale compete. Scrive Aristotele: C'é una scienza che studia l'essere in
quanto essere, e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con
nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l'essere in
quanto essere in universale, ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le
caratteristiche di questa parte.
A questa Causa suprema, a questo Assoluto, molti filosofi hanno cercato di dare una
dimostrazione teorica, razionale, anzi, come tanti materialisti, essi hanno sostenuto che
tutto ciò che non é oggetto di dimostrazione razionale non é conoscibile. Noi possiamo
dire che se la realtà suprema si potesse esprimere in una dualità, perdendo ovviamente la
sua identità di Unità, allora tale realtà duale si dimostrerebbe razionalmente. La mente,
operando in termini di soggetto e oggetto, avrebbe in tal modo la possibilità di conoscere
l'altro da sé, cioè il secondo, o l'oggetto del conoscere. Ma siccome la realtà é una e una
sola, tutti codesti filosofi, per quanto ne abbiamo potuto dissertare, non l'hanno potuta
conoscere e dimostrare. Se ammettiamo l'essere come unità assoluta, dovremo convenire
che esso non può essere conosciuto ne dimostrato con la mente duale o di relazione. Ma se
l'essere non può essere dimostrato, e tuttavia é ritenuto esistere come unità indivisa, allora
può essere solo realizzato.
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Noi sappiamo che vi sono diversi gradi di iniziazione, gradi che rispondono a differenti
stati di realizzazione dell'essere totale. Ogni Ramo tradizionale ha i suoi gradi che
possono ovviamente differire da quelli di altri Rami tradizionali, soprattutto nel numero.
Certo é che quello metafisico é il più alto grado iniziatico, e comporta, da parte del neofita,
non solo trascendenza del sensibile formale, non solo quella dell'intelligibile universale
non-formale, ma persino quella dell'intelligibile principale o Ente ontologico o Mondo
delle idee. In altri termini, tale realizzazione trascende, come si suol dire, il mondo degli
uomini, quello degli Dei e dello stesso Dio-persona principale (avyakta).
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L'UNO‐MOLTI.
Si sente parlare spesso dell'unità della vita, non solo in termini spirituali, ma persino
scientifici: ci viene detto che la complessità e la differenzazione delle forme materiali
nascono da una stessa sostanza; un atomo fisico differisce da un altro solo dalla quantità
degli elettroni-protoni. Ma per quanto questa verità ci sembri un'evidenza, tuttavia ci si
accosta alla vita, e quindi ai vari rapporti di ogni ordine e grado, in termini di dualità, di
differenzazione e di opposizione sostanziale.
Eppure, teoricamente, nessuno ben pensante ammetterebbe che due individui sono di
natura opposta e separata in modo da ritrovarsi due assoluti; d'altra parte, se fossero tali
in che modo potrebbero comunicare? Le religioni sostengono che siamo figli dello stesso
Padre. La scienza, abbiamo visto, accetta l'unità della vita; la visione ecologica ritiene che
tutti gli enti siano interrelati e non distinti in assoluto, così da riconoscere
l'interdipendenza dei vari regni di natura, compreso l'umano.
A questo punto possiamo chiederci: l'aspirante filosofo alla realizzazione, in che modo
intende l'unità dell'essere, di brahman, di Dio? I nomi hanno poca importanza, é
importante invece capire ciò che i nomi sottintendono; l'essere, Dio, brahman, ecc., non
possono essere molteplici; più iddii si escluderebbero a vicenda. Né possiamo ammettere
che tra l'essere e lo steso mondo possa esserci dualità assoluta. Parlare di mondo e di Dio
significa sempre riportare il tutto all'unità divina, per cui tra Dio e l'ente, qualunque esso
sia, non v'é alcuna distanza e dicotomia. Dire ancora che una cosa é Dio e un'altra l'ente, o
i suoi prodotti, significa proporre una dualità assoluta inaccettabile: l'uno deve pur
derivare dall'altro; inoltre, il vivente, perché effetto, non può non avere la natura della sua
causa, e ciò esclude la diversità e l'opposizione.
Non si hanno effetti che non siano potenzialmente nella causa. Il ghiaccio non é che acqua
condensata. L'aspirante Filosofo, dunque, pur proclamando l'unità dell'essere, può
ritrovarsi nel piano pratico a vivere la molteplicità e la differenzazione, spesso anche
l'opposizione, la contrapposizione inconscia.
Ma che cosa si vede nell'altro per contrapporsi e creare una dualità conflittuale? Posto
quanto sopra, dovremo però avanzare una considerazione: se guardiamo il problema con
l'occhio empirico dovremo anche riconoscere che i molti esistono, la differenzazione
sembra essere un'evidenza alla nostra percezione, per cui tale considerazione va a
contraddire quanto abbiamo affermato sull'unità dell'essere. Insomma, ci troviamo con un
problema abbastanza difficile e bisognerà meditare per poterlo risolvere; alla nostra
ragione esso non può non sembrare anomalo e contraddittorio: da una parte affermiamo
l'unità, dall'altra supponiamo anche la dualità-molteplicità.
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Il problema dell'uno e dei molti é stato posto per primo da Platone, ma anche le Upanisad
l'hanno proposto, anzi alcuni sutra della Mandukya Upanisad sembrerebbero offrire
qualche filo conduttore al nostro discorso.
Con l'etere confinato entro le brocche, ecc., si fonde completamente quando avviene la
disintegrazione delle brocche, ecc. (nell'etere illimitato), così i jiva si fondono nell'atman.
(Gaudapada, Mandukyakarika).
Dalla meditazione di questi sutra possiamo ricavare una sequenza di indicazioni che
potremmo esporre nel modo seguente:
L'Upanisad ci suggerisce che in ogni vaso-brocca esiste un'entità chiamata etere, quindi
Spirito, Anima atman, nous; come prima si accennava, i termini contano poco. Inoltre, il
testo evidenzia un fatto molto importante, vale a dire che l'etere di un vaso é della stessa
natura dell'etere fuori dal vaso.
Ciò implica che l'etere di una brocca é identico all'etere delle altre brocche, oltre a essere
indistinguibile dall'etere universale che trascende sia l'etere nel vaso sia lo stesso vaso.
In altri termini, l'Upanisad ci fa capire che v'é una sola realtà etere che pervade i molteplici
vasi dal momento che, come sopra abbiamo potuto notare, l'etere entro il vaso é della
stessa natura di quello fuori del vaso.
Secondo la visione delle Upanisad, possiamo considerare la brocca una finestra tramite cui
l'etere manifestato, o individuato, percepisce un sistema di vita.
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Ciò significa che questo etere si serve di un vaso quale strumento mediante cui opera in
un contesto esistenziale; così, ancora, nei confronti dell'etere, il vaso costituisce un
semplice oggetto, un fattore accidentale di servizio.
Procediamo oltre e accertiamoci se i due aspetti, etere e vaso, sono una dualità. Un vaso-
corpo é sempre un effetto, appartiene al mondo del divenire e del contingente; un vaso-
corpo, qualunque esso sia, nasce ha la sua parabola vitale e poi declina e si risolve nella
sua essenza o sostanza elementare.
Se é un effetto non può essere una ipseità, quindi deve avere una causa: tutto ciò che é
determinato; e quale potrebbe essere questo principio? Nel nostro contesto espositivo ci
rimane solo l'etere, non abbiamo altri elementi o dati, per cui dobbiamo necessariamente
ammettere che il vaso-corpo nasce dall'etere stesso. Dal nulla, dobbiamo riconoscere, nulla
nasce. E come fa a nascere dall'etere? L'aiuto ci viene dallo svolgimento del nostro sogno
notturno. Si, proprio il nostro sogno, quello che facciamo tutte le notti (per quanto
sogniamo anche di giorno; non diciamo spesso: ho coronato il mio sogno? Ma ciò, per il
momento, non rappresenta lo scopo della presente nota).
La parola frammento del sutra non si deve intendere nel senso che l'essere si scinde
creando una frattura in se stesso; l'evento non é altro che uno specificarsi, l'irradiare un
semplice aspetto, un riflesso dell'essere universale, non essendo esso una quantità, ma
pura essenza priva di estensione.
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L'Essere-Uno e i molti non sono che due facce della stessa moneta, benché i molti siano dipendenti
dall'Uno. In ogni atomo, in ogni molecola, in ogni cellula di materia vivono nascoste e operano,
senza che altri se ne rendano conto, l'onniscienza dell'eterno e l'onnipotenza dell'infinito.
(Teilhard de Chardin).
Il filosofo Jean Guitton scrive: Non penso che noi siamo stati creati a immagine di Dio: Noi siamo
immagine stessa di Dio.
E ancora, noi siamo:...un po' come la lastra olografica che contiene il tutto in ogni sua
parte, ogni essere umano é l'immagine della totalità divina.
Inoltre, l'apparente molteplicità non é nata nel tempo sotto l'impulso di una progettazione,
programmazione o deliberazione dell'Essere-Uno, come fa l'ente umano che, per eseguire
un'opera, deve prima volere, poi ideare, infine materializzare. Nell'essere atemporale non
v'é un prima e un poi, né un pensare discriminante per esprimere la molteplicità degli
enti, ne quindi uno scopo prefissato. Quando si dice (come si legge in alcuni testi):
L'Essere pensò e i molti emersero, quel pensò può essere fonte di equivoci poiché viene
rapportato alla dimensione umana; già nel sogno noi abbiamo l'immediatezza dell'ente e
dell'esistere dei dati proiettati, ovvero del soggetto e dell'oggetto; possiamo sostenere
semplicemente che l'Essere Uno é atto puro nell'eterno presente.
Ecco il riassunto della tesi: le anime derivano da una sola e queste molte anime, derivate da una
sola, come l'intelligenza, sono divise e indivise; l'Anima che sussiste é l'unica parola
dell'intelligenza e da essa derivano parole particolari e immateriali, come é lassù (mondo
intelligibile).
(Plotino, Enneadi).
Dunque, non si può parlare di dualità assoluta, come non si può dire che il soggetto e
l'oggetto di sogno sono dualità, nascendo essi dalla medesima matrice che é la mente,
come la molteplicità universale nasce dalla stessa e unica matrice divina. Comunque, una
dualità apparente potrebbe anche sussistere qualora, per esempio, nel sogno la mente
dimenticasse che il soggetto e l'oggetto sono suoi prodotti, oppure, il che é lo stesso, si
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identificasse con il sogno duale fino al punto da oscurare se stessa. L'etere entro il vaso,
per il suo libero arbitrio, può concepirsi totalmente vaso tanto da dimenticare d'essere
etere e, nello stesso tempo, creatore del vaso.
Però, é pur sempre una dualità apparente; diremo che é una dualità prodotta
dall'ignoranza (avidya). Si ripropone, come si può notare, il mito di Narciso o l'oblio di sé
della dottrina platonica. Notiamo che così non c'é più un giusto rapporto tra causa ed
effetto, tra etere e vaso,; i valori vengono successivamente alterati e capovolti: un corretto
rapporto tra sognatore e sogno avviene quando il sognatore riconosce prima di tutto la
sua natura, poi la natura del sogno e quella del sognato (e la vidya, conoscenza
tradizionale, cerca proprio di scoprire la natura profonda dell'essere più che quella del
fenomeno); solo allora può rendersi conto della sua totale possibilità creativa di poter
manifestare sogni notturni o diurni confacenti alla sua volontà o, addirittura di non
sognare, essendo il sogno dipendente da lui, non lui dal sogno: l'effetto dipende dalla
causa e non viceversa, abbiamo visto.
Quindi, egli può risolvere qualunque sogno che ha potuto proiettare perché é suo e di
nessun altro. Da quanto abbiamo esposto, possiamo concludere che esiste un solo etere
onnipervadente (Nient'altro é o sarà all'infuori dell'ov, dice Parmenide) e molteplici vasi,
di fogge, qualità e grandezze diverse; così, se guardiamo con l'occhio del vaso, perché
identificarsi con esso, vediamo molteplicità, con tutte le conseguenze che ne derivano; se
guardiamo con l'occhio dell'etere osserviamo l'unità, to ev, e solo l'unità, sia con gli eteri
entro i vasi, sia con l'etere trascendente o fuori dei vasi.
Queste sono anche le due vie (odos) di Parmenide: quella che porta alla verità e quella che
porta all'errore; una cosa é vedere con l'occhio dell'intelletto (nous), per cui si svela l'ov (il
ciò che l'essere), e un'altra cosa é vedere con l'occhio fisico i npayuata; in altri termini il
divenire delle cose che non sono, o le rappresentazioni che ci facciamo degli intelligibili.
E ancora Platone:
...ed ebbi paura che mi accecasse l'Anima guardando le cose con gli occhi sensibili e cercando di
coglierle con ciascuno degli altri sensi.
Perciò, al contrario, ritenni necessario rifugiarmi nei yoyot e considerare in essi la verità delle cose
che sono (τωοϖ οϖτωϖ)
(Platone, Fedone).
Saranno dunque nomi (ovoua) tutte le cose che i mortali hanno stabilito, convinti che fossero vere...
(Parmenide).
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C: creare l'identità con l'intelligibile o fonte universale, il che avviene per via naturale, se si
opera la separazione;
D: mettere al giusto posto il sensibile e, volendolo esperire (non che ciò sia
necessariamente ineluttabile), considerarlo semplice mezzo e non fine, evitando così di
assolutizzare ciò che non é assoluto.
L'anima universale, rimanendo in se stessa, crea mentre le cose create le vanno incontro,
ma le altre anime (procedono) verso le cose e si allontanano così nell'abisso; oppure la loro
parte maggiore vien tutta giù verso il basso e coinvolge con sé anche le anime con i loro
pensieri nelle regioni inferiori.
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La manifestazione dei viventi si genera dall'interno verso l'esterno del corpo causale (per
quanto i due termini possano ingenerare fraintendimenti) per un atto spontaneo e
immediato senza necessità di alcun secondo, come le determinazioni di un seme si
generano dallo stesso seme in quanto suo spontaneo sviluppo. Siva, Visnu e Brahma (la
Trimurti indù) non sono altro che princìpi espressivi di Isvara: é sempre Isvara sotto
l'aspetto di sviluppo, maturazione della natura e reintegro di questa nel suo seno; é la sua
parte sensibile, non-essere o divenire che, comunque, non é uscita dalla sua aura, non
essendoci in esso concetto di spazio. Spazio e tempo sono rappresentazioni di riferimento
dell'ente singolo che, non potendo abbracciare immediatamente col suo strumento
dianoetico quella totalità di cui nel suo principio inconscio é parte, per necessità deve
esperire un dato per volta.
Il liberato da che cosa si é liberato se non dalla falsa rappresentazione della molteplicità,
della verità, come la chiama Kant o del diverso (οατεπον) secondo il nostro Platone? Tra i
due enti, Liberato e non liberato, non v'é altra differenza, sebbene non di poco conto per le
enormi implicanze che necessariamente ne derivano.
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FILOSOFO, AMICO DELLA SAPIENZA.
E' amico e congiunto di verità, giustizia, fortezza, temperanza. Quanto alla possibilità che
un tal tipo di uomo si realizzi, Platone crede che essa si dia quando concorrono selezione
precoce e continua, educazione ottima e maturità di anni. Il punto essenziale per Platone é
l'armonia tra intelletto e carattere.
Perciò egli chiama il suo filosofo anche semplicemente con l'espressione comprensiva di
kalokagathòs. (Jarger, Paideia).
E non sarebbe forse un'adeguata difesa, se riprendessimo che colui il quale veramente ama la
sapienza dovrebbe per sua stessa natura tendere tutto verso l'Essere, e senza accontentarsi della
molteplicità dei singoli oggetti, altro non sono che contenuto d'opinione, proseguire diritto, senza
perdersi d'animo, e senza venir meno al suo amore se non prima d'aver colto la natura di ciascuna
cosa in sé con quella parte dell'anima la cui attività é volta appunto a cogliere le essenze, avendo
essa la medesima stoffa, e con questa parte dell'anima avvicinatosi ed unitosi all'essere in sé,
intellezione e verità procreando, riuscire a conoscere in atto, vivere una vera vita, avere un
nutrimento vero, e così finire di soffrire, ma non prima, le doglie del parto?
(Platone, Repubblica).
Anzitutto i veri filosofi, fin da giovinetti, non conoscono la via che mena al foro; non sanno dov'é il
tribunale, dov'é il consiglio o altro luogo di adunanze pubbliche della città; leggi e decreti, recitati o
scritti, essi non leggono né ascoltano. Brighe di consorterie per acquisire cariche pubbliche,
convegni, banchetti e festini in compagnia di aulètridi, sono tutte cose che nemmeno in sogno vien
loro in mente di fare... E il vero é che il suo corpo (del filosofo) si trova nella città e ivi dimora, ma
non la sua anima; la quale tutte codeste cose reputandole da poco e anzi da nulla, e avendole in
grande dispregio, trasvola, come Pindaro, da ogni parte, e ora scende giù nel profondo della terra,
ora ne misura la superficie, ora sale su nel cielo a mirare le stelle, e tutta quanta investiga in ogni
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punto la natura degli esseri, ciascuno nella sua universalità, senza mai abbassare sé stessa a niente
in particolare di ciò che le é vicino...
Perché il filosofo in verità non solo non s'avvede di chi gli é presso, né del vicino di casa che cosa
faccia, ma nemmeno, si può dire, se é uomo o altro animale; però se si tratta di ritrovare che cosa
l'uomo é, e che cosa alla natura dell'uomo, a differenza degli altri esseri, conviene fare e patire, egli
adopera in ciò ogni suo studio.
(Platone, Teeteto).
E' vero filosofo colui che investiga la Realtà ultima delle cose, cioè l'intero, e che si adegua
alla verità scoperta. E' filosofo non colui che parla solo di Princìpi ma colui che penetra e
realizza in sé tali Princìpi. E' sotto tale prospettiva che si può dire che il Realizzato é un
filosofo.
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
L'AMORE E' FILOSOFO.
L'amore non é debolezza pietosa nei confronti delle altrui debolezze. E' pietas, in senso
latino, e, pertanto, é estremamente creativo. Esso trasforma in oro tutto quello che tocca, e
nel suo consumarsi senza fine sta la misura della sua grandezza. L'amore é bellezza,
compostezza, dignità. Ma non é quel genere di bellezza, di compostezza, di dignità che la
mente definisce e riconosce tali.
Anzi per l'io potrebbe rivelarsi tutto l'opposto di quanto conosce, non corrispondendo
affatto l'amore a quei canoni concettuali, etici ed estetici nei quali esso é solito riconoscere
il bello. L'amore disorienta l'io. Perché é qualcosa di nuovo. Perché non appartiene al suo
mondo. Perché lo ferisce e, se é giunta l'ora, lo annienta. Ma all'amore interessa che il seme
germogli, che non rimanga seme. E lo stimola fino a spezzarlo. Perché, sostiene Platone,
l'amore é filosofo. L'amore ha per oggetto l'immortalità. L'amore é un demone...
Ed é amore di bellezza. E se Bellezza é tutto ciò che col divino ha consonanza di armonia,
é bello quell'ente il quale manifesta, in sintonia con l'idea, la volontà l'amore, la sapienza.
(Per l'approfondimento di questa tematica si veda di Raphael : La scienza dell'amore: Dal
desiderio dei sensi all'intelletto d'amore).
E se avesse ragione Euripide là dove dice: Chi può sapere se il vivere non sia un morire e il morire
vivere? e che veramente la nostra vita sia simile alla morte? Anzi, una volta ho udito da Sapienti
che noi ora siamo morti e che il nostro corpo (owua) é per noi una tomba (onua). (Platone, Gorgia).
Ma la Bellezza brillava ancora intera ai nostri occhi quando, insieme col coro dei Beati, seguendo
noi Zeus, altri un altro Iddio, godevamo di una vista e di uno spettacolo beatificante, e ci
iniziavamo alla più beata, é ben lecito dirlo, delle iniziazioni che ci attendevano nell'avvenire,
iniziati ai più profondi Misteri, godevamo di quelle visioni perfette, semplici, calme, felici, in una
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luce pura, puri noi stessi e non sepolti in questa tomba, che chiamiamo corpo e che trasciniamo con
noi, imprigionati in esso come ostriche nel proprio guscio.
(Platone, Fedro).
Qualcuno leggendo questi passi di Platone, a meno che non sia addentro a questioni
iniziatiche, potrebbe rimanere sconcertato e turbato. Il nostro corpo fisico, con cui ci
identifichiamo e verosimilmente crediamo di essere, per Platone diviene una tomba in cui
siamo sepolti e che trasciniamo e nel quale siamo imprigionati, come le ostriche nel
proprio guscio. Persino ad alcuni discepoli tesi alla Liberazione queste parole potrebbero
apportare turbamento fino a spingerli a cercare disperatamente valide argomentazioni per
rivalutare l'esperienza corporeo-formale.
Tralasciamo quanti hanno avuto esperienza diretta, fuori del corpo, della Bellezza
brillante e della visione beatifica di cui parla Platone (samadhi), a costoro non occorrono
argomentazioni di alcun genere. Tralasciamo ancora quanti, pur non avendone avuto
esperienza diretta, la sentono profondamente vera non per via di una semplice credenza
fideistica, ma per un'intima e sicura certezza come di un lontano ricordo. Dice Platone:
Tutto questo sia detto, dunque, in omaggio al ricordo in virtù del quale, per il desiderio
che abbiamo delle cose di allora, ora si é parlato piuttosto a lungo.
Dovremo anche dire che l'insegnamento platonico, quello che ha potuto esporre, dal
momento che per certe cose doveva mantenere il riserbo iniziatico, é di ordine
tradizionale e, circa il problema che stiamo esaminando, risponde all'insegnamento
esoterico, orfico, come lui stesso fa capire. L'ente, nel suo complesso, presenta una
tripartizione composta di nous-intelletto puro, psyché-anima e soma-corpo. Il nous é il
pilota della psyché e questa del soma.
La scala dei valori corrisponde al seguente quadro: al primo posto vi sono gli dei, valore
prettamente universale e spirituale, poi viene l'anima dell'uomo che rappresenta la sua
parte più elevata e la cui qualificazione fondamentale é costituita dalla conoscenza che
deriva dal nous quale fattore autenticamente divino in noi; poi viene il corpo-soma con le
sue esigenze e i suoi bisogni vitali; infine, vengono le ricchezze o le cose esteriori in
genere.
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L'anima é immortale, mentre il corpo soma é mortale e soggetto quindi alla corruzione e a tutti i
mali possibili; l'Anima é incorruttibile, sebbene un suo riflesso commisto al corpo subisca gli
influssi del contingente sensibile. Di tutti i beni che ognuno possiede, il più divino, dopo gli dei, é
l'Anima che é il bene più intimo. In ogni uomo vi sono due parti: l'una superiore e migliore, che
comanda; l'altra inferiore e meno buona che serve; ora la parte che in lui comanda bisogna che lui
l'onori sempre a preferenza di quella che serve.
(Platone, Leggi).
Due alati, ben congiunti amici, volano attorno allo stesso albero, uno dei due mangia il dolce frutto
del pippala, l'altro invece lo guarda senza mangiare.
(Svetasvatura Upanisad).
L'uno é l'aspetto trascendente, superiore; l'altro é il suo riflesso incarnato nel corpo. L'Anima ha
innate tutte le virtù e la stessa conoscenza, essa contempla il Mondo delle Idee, del Bello e del Bene;
il corpo é un semplice strumento privo di autonomia, pesante e resistente all'influsso del Bene
divino: esso non può esistere senza la partecipazione dell'anima, mentre questa, poiché immortale,
non ha bisogno dal corpo per essere; anzi, il suo ottundimento quando prende un corpo. Sembra che
ci sia un sentiero misterioso che ci porta, mediante ragionamento, direttamente a questa
constatazione; in verità fino a quando abbiamo un corpo e la nostra anima é commista a un male
siffatto, non possiamo mai raggiungere in sufficiente misura ciò a cui aneliamo: cioè la verità.
(Platone, Fedone).
Per Platone, e per la tradizione, noi siamo l'Anima con facoltà o meno di prenderci un
corpo sul piano del sensibile, secondo che vogliamo salire o scendere negli stati molteplici
dell'essere. Per il maestro ateniese la vera filosofia é esercizio di morte; ciò implica che la
morte del sensibile, nelle sue varie espressioni, produce la vita e la rinascita dell'anima;
quindi il filosofo é colui che anela all'autentica Conoscenza-Bellezza-Bene, alla vera vita
intellegibile e non cerca il corruttibile mondo delle ombre. Noi siamo esseri luminosi, ma
il sensibile, compreso il soma, ci rende opachi, ottusi, tenebrosi.
Questo corpo é il prodotto del cibo e costituisce la guaina del cibo. Vive a causa del cibo e muore se
ne é privo. E' un miscuglio di pelle, carne, sangue, ossa e altre relatività; così esso non potrà mai
essere l'eternamente puro atman che non deve la sua esistenza a nessuno fuorché a se stesso.
Prima della sua apparizione esso non poteva esistere, né dopo la sua scomparsa potrà mai essere; la
sua parabola é solo un lampo. Le sue qualità sono aleatorie; é per natura soggetto a mutamento; é
composto di parti, é inerte e, come una brocca, é un semplice sensorio. Tale corpo potrà mai essere
l'atman, l'indistruttibile Testimone di tutti i cambiamenti fenomenici? Colui che é privo di senno
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s'identifica con tale ammasso di pelle, di ossa, di carne, ecc., ma l'aspirante fornito di discernimento
riconosce l'atman come il sole reale...
(Samkara, Vivekacudamania).
Chi contempla la sfolgorante bellezza del sole, potrà mai rivolgersi ai deboli raggi della
luna? afferma sempre Samkara. Se per esperienza diretta, per intuizione superconscia, per
rimembranza, ecc., riconosciamo di essere pura Anima, pura Idea, o atman, allora
potremo dare ragione a questi due grandi Maestri della Tradizione spirituale. Se la nostra
autentica patria é o il mondo intelligibile, allora possiamo considerare la sfera del sensibile
come una semplice precipitazione, priva di principio assoluto, attuata dall'anima in
discesa. Il soma (owua) diventa sema (onua) solo per il filosofo; per chi ha ancora
compreso, essendosi identificato e assimilato a ciò che non é, esso diventa semplicemente
causa di piacere-dolore, attrazione, e così via.
D'altra parte, in che modo possiamo considerare reale ciò che appare e scompare? Il corpo
(e non soltanto quello fisico denso) é un aggregato di atomi e molecole che appaiono
all'orizzonte dell'Eterno e scompaiono senza lasciare traccia.
Platone ci sospinge a riconoscere ciò che é reale in noi; vale a dire la costante, il
permanente, l'immortale. Tutti i mali del mondo aderivano dal non saperci comprendere
come anima priva di qualità imprigionati. Questo é il più sicuro messaggio per risolvere il
conflitto e la sofferenza nel mondo degli uomini.
(Platone, Fedone).
Che cos'é che crea la molteplicità? Sono i corpi-volumi, quindi il tempo spazio causa.
Quando, secondo Platone, il complesso energetico irascibile (rajas) e concupiscibile
(tamas) viene dominato e trasceso, l'Anima riacquista le ali e vola verso quello stato
universale da cui per temerarietà, dice Plaotino, é discesa.
Quando il rajas e il tamas, secondo il Vedanta, sono trascesi, l'Anima vola verso il sole
sfolgorante dell'atman senza secondo. Con linguaggio diverso, ma non tanto, si esprime la
stessa cosa poiché la Tradizione é una, per quanto adattata ai vari popoli; essa nel tempo
può anche sovraccaricarsi di vestiti verbali, ma chi sa andare di là dal mondo delle parole
e delle interpretazioni prettamente dianoetiche, vi può scorgere un fondamento unico,
una verità identica, un sostrato che é l'essenza noumenica. Tutto l'arcano, scrive M.
Sendivogius nel De Sulphure, é nascosto nello Zolfo dei Filosofi, il quale é anche contenuto
nelle viscere del Mercurio. Il male si é, afferma in Ignis, convalidando il pensiero del
Sendivogius, che lo Zolfo si trova incarnato in un tenebrosissimo carcere, ed é Mercurio
che possiede le chiavi di questo carcere infernale. Occorre dunque prima trovarlo e poi
liberarlo.
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IL FILOSOFO SECONDO PLATONE.
..Par giusto che quante cose la gente ritiene comunemente belle o fornite d'altra qualità, cose che
sono innumeri, tutte in certo qual modo s'aggirano in un mondo intermedio, tra quello del non
essere e quello dell'essere nella sua purezza assoluta.
Abbiamo ormai trovato. Eravamo d'accordo in ogni modo che, se fosse stata scoperta una simile
cosa, l'avremmo dovuta chiamare opinione e non compiutamente conoscenza. Ciò che s'aggira,
infatti, vagamente nella zona intermedia é concepibile con la facoltà intermedia. Già, abbiamo
ammesso. E Allora, quanti vedono innumeri cose belle e non contemplano Bellezza nella sua pura
oggettività, non essendo nemmeno in grado di tener dietro a chi conduce verso quella, così pure
contemplano innumeri cose giuste, ma non Giustizia nella sua oggettività, e così avanti allo stesso
modo; insomma affermeremo che tutti costoro hanno soltanto opinione sempre e in tutto, nulla
invece compiutamente conoscono di ciò che opinano. Necessariamente, rispondeva. E invece chi
contempla le singole cose nella loro pura intelliggibilità, le cose eternamente immutabili e sempre
eguali,diremo che, per consumante guisa, conosce. Non certo diremo che costui opina. Necessaria
anche questa conclusione.
E non diremo forse che gli uni si volgono gioiosi per amore verso ciò di cui vi é opinione? O non
ricordi quando si disse che questi uomini amano e contemplano voci e colori belli e altre cose del
genere, invece non ammettono nemmeno che vi sia Bellezza, nella pura oggettività dell'idea e
dell'essere, né Bellezza che possa avere una sua esistenza? Ce ne ricordiamo, sì. In conclusione, sarà
inesatto chiamar costoro amanti d'opinione piuttosto che amanti di scienza, cioè filosofi? E credi tu
che avranno dispiacere se li chiamiamo così? E no, tanto più se se mi vorranno ascoltare,
rispondeva. Oh! non va bene adirarsi per causa della verità. Quanti invece si volgono, gioiosi e
innamorati, alle singole cose nell'oggettività del loro essere dovremo chiamarli filosofi, amanti cioè
della scienza; non amanti d'opinione. Oh! va benissimo.
(Platone, Politéia).
Quanti si trovano sulla via della Realizzazione hanno sentito parlare spesso della Filosofia
realizzativa, Filosofia perenne o tradizionale per distinguerla da quella dianoetica o
prodotta dal semplice manas proiettivo, la quale può dare un'opinione di ciò che sono le
cose ma non la loro realtà o essenzialità.
Questo tipo di filosofia corrisponde al jana-marga, via o yoga della Conoscenza, secondo
la tradizione upanishadica. Quella di Platone é filosofia misterica, potremmo dire
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Questa finalità del filosofo é identica a quella di Samkara. Bisogna riconoscere l'atman
perché in lui é l'unità di tutte le cose. (Brhadaranyaka Upanisad).
I nostri lettori non faranno ovviamente fatica a constatare che una visione filosofica, la
concezione dello stesso status del filosofo e la realtà suprema esposta da Platone non
differiscono affatto da quella di Gaudapada e Samkara.
D'altra parte esiste una sola realtà, un solo Essere, esiste l'unità della Vita, solo che queste
cose possono rivestire una forma concettuale diversa da popolo a popolo e diversa nel
tempo-spazio. Si afferma che la tradizione filosofica-metafisica é una universale ma che
può trovare diversi adattamenti lungo le varie epoche e secondo le persone che la
esprimono. Dai passi platonici si constata che il filosofo non teorizza la dottrina, ma la
vive, quindi essa appartiene a quella Filosofica realizzativa, catartica, iniziatica a cui prima
si accennava. Anche questa concezione non differisce da quella di Sankara.
Siamo d'accordo ormai su questo punto in rapporto alla natura dei filosofi, che sono cioè
innamorati di cognizione, cognizione che possa svelare il mistero di quell'oggettiva esseità che
eternamente é, quell'esseità che non va errabonda e vagante in ciclo di generazione e di morte.
(Platone, Politéia).
Samkara parla ugualmente di realizzare quell'Uno senza secondo di là dal ciclo delle
nascite e delle morti. Spesso i due maestri usano lo stesso linguaggio.1
Il filosofo ha: ...orrore per ogni menzogna...odia la menzogna e ama la verità. Probabile, rispondeva.
Eh no, mio caro, non é soltanto probabile; é una vera e propria necessità. Chiunque é incline
naturalmente all'amore verso qualcuno, dovrà perseguire con entusiasmo ogni cosa affine e
familiare alla persona amata.
Giusto. Ma potresti trovare cosa più familiare alla sapienza, un filosofo cioè, sia di natura eguale a
quella di un amante di menzogna? In nessun modo. La persona dunque essenzialmente amante di
conoscere deve, fin dai primi anni, tendersi desiosa verso la Verità tutta intera. Sì, senza dubbio.
Sappiamo in ogni caso che in un uomo la cui passione é fortemente inclinata verso un'unica cosa,
gli altri desideri sono più deboli, come corrente verso altro luogo deviata. Si, e allora? Allora
1 Si veda, di Raphel, Iniziazione alla Filosofia di Platone
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l'uomo, la cui passione é corrente rivolta verso il conoscere e verso ciò che ad esso é più simile,
penso, sarà interamente rivolto al piacere dell'Anima sola per se stessa. Invece i piaceri ottenuti per
mezzo del corpo verranno in lui attenuandosi, se sarà veramente filosofo e non apparenza di
filosofo... E se tale, sarà anche temperato in interiore armonia, per nulla avido di denaro. I motivi
per cui si va in cerca del denaro non hanno alcuna attrattiva per il filosofo.
(Platone, Politéia).
E ancora, che intelletto deve avere un filosofo degno di questo nome? Cerchiamo dunque un
intelletto che, oltre alle altre qualità, sia conscio naturalmente di misura e pieno di grazia, un
intelletto che possa venir condotto da naturale indole e contemplare, in ogni singola cosa, l'essere in
sé... Nessuno potrà attendere a quest'armonioso uso di sapienza se non sia per natura fornito di
tenace memoria, disposta allo studio, magnanimo, dotato di grazia, amico e affine alla verità, alla
giustizia, alla fortezza, alla temperanza.
E quali sono secondo te i veri filosofi? Quelli, replicai, amanti di contemplare la verità. E qual'é la
verità per Platone (e diremo per gli stessi Samkara, Gaudapada, Parmenide, Plotino, ecc.), quella
verità suprema che trascende interamente l'Essere per maestà e per potenza?
(Politeia).
E' il sommo Bene, l'uno-uno metafisico, l'essenziale realtà di là dallo stesso mondo delle
idee (essere), la Costante assoluta, l'invariante e l'universalmente valido e identico a se
stesso. Il filosofo regale é colui che, ascendendo, contempla questo essere supremo per
ritrovarsi Essere in quante tale, di là dal ciclo di generazione e morte. In ogni modo, miei
cari per ora ci conviene lasciare andare la ricerca su ciò che sia precisamente il Bene.
Adeguare con parola il concetto che di lui posso proporre é impresa che trascende di gran
lunga ogni limite delle nostre forze in questo momento. Voglio invece parlare di colui che
ci manifesta figlio del bene e a lui del tutto simile. Del resto, se vi é gradita la ricerca... in
caso contrario lascio andare. Ma, rispondeva, parla pure. In avvenire pagherai invece il
tuo debito per la trattazione sul Padre. Oh! continuai, desidererei assai che le forze mi
consentissero di fornirvela questa attrazione. Allora voi potreste avere quanto vi spetta, e
non come ora il solo generato bensì il Padre stesso. Riceverete in ogni modo questi che é
generato, a guisa di compenso, e che é figlio del Bene. Ma fate attenzione che non intendo
ingannarvi; oh! non vorrei darvi inesatta ragione pur di lui che é il generato.
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GIUSTIZIA.
Crediamo che questa parola, al pari di amore, abbia avuto la sua origine con la nascita
dello stesso uomo. Parola dunque di estrema importanza, di profondo significato e di
varia valenza, di profondo significato e di varia valenza se consideriamo che alcuni, per
non dire molti, in nome di tale principio hanno commesso soprusi, iniquità e persino
delitti. Trovandoci sul piano duale, o meglio polare, la giustizia ha come suo contrario
l'ingiustizia, e tra i due termini corre solo un esiguo filo come quello di una lama di rasoio.
Che cos'é giusto e che cosa non giusto? Il problema non é facile e non tenteremo neanche
di esaurirlo, anche perché, essendo un principio fondamentale dell'individuo, é di enorme
complessità e universalità. Incominciamo col dire che l'idea di giustizia nasce là dove un
ente, con determinate esigenze, si trova di fronte ad altri enti con altrettanti bisogni, e a
volte anche contrapposti. Rimane ovvio che, dovendo vivere insieme, si pone il problema
di come armonizzare le varie necessità e i molteplici desideri e chi, nel caso di una
moltitudine di persone, debba governare, non essendo l'individualità causa sui, per cui
deve avere punti precisi di riferimento e di direzione.
Così, dovremo esaminare il senso o il principio di giustizia, sia a livello individuale sia a
quello collettivo, poi riconoscere chi é capace, o ha le qualificazioni, di dirigere o
governare; infine, che cos'é la giustizia. Quand'é che un ente é giusto con se stesso? Sì,
perché vi é una giustizia prima di tutto in riferimento a se stessi, essendo quella collettiva
un'estensione della giustizia individuale. Per esaminare il problema ci può essere di aiuto
Platone, laddove parla della Politeia (Costituzione).
Abbiamo detto che, in termini collettivi, la giustizia deve saper armonizzare, accordare le
varie esigenze dei singoli. L'accordo e l'armonia di esigenze dei singoli. L'accordo e
l'armonia di esigenze qualitative e quantitative sono i presupposti su cui deve basarsi il
senso della giustizia. Vedremo poi a quale facoltà dell'ente dovremo rivolgerci per attuare
un giusto accordo, dal principio direttore che, appunto, sappia accordare e armonizzare
opposte esigenze. Quand'é, dunque, che l'individuo può definirsi giusto, quand'é che può
concepirsi ente in perfetta rettitudine? Per comprendere questo essere giusti occorre
capire la qualità espressive dell'ente perché la giustizia, abbiamo detto, é l'accordo di
esigenze eterogenee. Sappiamo che l'essere é formato di una sfera razionale (logos), da
una emotivo-passionale e da una istintiva-materiale; vale a dire, da una sfera illuminativa,
da una irascibile-passionale in cui prevalgono qualità irrazionali, unilaterali e deformanti,
e da una prettamente cieca, oscura e istintiva caratterizzata dalla legge della specie
animale. Platone parla di sfera noetica, irascibile e concupiscibile-istintuale; il Vedanta
menziona le tre qualità di sattva, rajas e tamas che sono termini perfettamente equivalenti
a quelli di Platone. Se quindi abbiamo questa tripartizione di qualità di qualità, per essere
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nelle perfetta giustizia con se stesso l'ente deve trovare il giusto accordo espressivo,
diversamente tra le varie qualità vi sono prevaricazioni, lotta, dissenso e disordine. Se
prevale il lato irascibile (rajas), ci si può trovare su un piano di autoaffermazione, di
dominio, di iperattivismo privo di ragione, di prevaricazione, di prevaricazione sulle altre
facoltà fino a neutralizzarle.
Allora, alla potenza razionale convien dominare. E' sapiente e ha possibilità di provvedere per
l'anima nella sua totalità. Invece alla potenza irascibile conviene l'esser subordinata e alleata a
quella prima.
Certamente. E non é forse vero che, come dicevamo, una giusta con temporanea d'attività musiche e
ginniche ne assicurerà un'opportuna armonia? E l'una potenza sarà esaltata e nutrita con discorsi
elevati e belli e per mezzo di conoscenza; l'altra invece con dolce persuasione sarà rallentata e resa
mite per mezzo d'armonia e di ritmo. Senza dubbio, disse lui. E per tal modo, tutte e due, nutrite e
istruite per mezzo di conoscenza adatta e per tal mezzo educate, potranno presiedere alla potenza
concupiscibile, la quale in ciascuno ha importanza grandissima ed é per natura la più insaziabile. E
le due prime debbono custodire tale potenza del concupiscibile perché questa, ingurgitandosi nei
cosiddetti piaceri materiali, diverrebbe eccessiva e troppo forte; non attenderebbe più al suo
particolare compito, ma cercherebbe di sottoporre a sé le altre facoltà, quasi schiave, e di dominarle.
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Il che non le si addice per natura. Nel qual modo l'intera vita finirebbe per essere sconvolta. Certo,
rispondeva. E cosa credi? gli dissi... Sapiente poi, per quella piccola parte con cui ciò che domina in
noi, dà anche annunzio di quanto si deve e non si deve temere. E questa parte sa quanto giova a
ciascuna potenza, come a tutte insieme che sono in numero di tre. Certamente. E senti un po'. Non
saremo forse temperanti per l'accordo e per l'armonia di queste stesse potenze? La parte reggente e
le due parti subordinate, e che all'imperio di questa non debbono ribellarsi. Già, é vero, disse lui;
temperanza non é altro che questo, in una città e in un uomo singolo. Dunque giusto, nel modo che
più volte veniamo dicendo.
(Platone, Politeia).
Da quanto sopra si può riconoscere che il giusto é colui che, mediante l'illuminazione da
parte del nous, sa accordare le esigenze qualitative individuali e sottoporre al nous le due
altre potenze le quali, da sole, sono prive, come abbiamo accennato, di luce, discernimento
e direzione equanime. Da ciò si può dedurre che: L'ingiustizia dev'essere una discordia di
queste tre facoltà; un'attività dispersa e troppo varia, quando una facoltà invade il campo
di un'altra; una vera e propria ribellione di una contro l'intera costituzione dell'anima, allo
scopo che questa singola acquisti una preponderanza che non le spetta, mentre invece per
sua natura particolare dovrebbe essere sottoposta ad un'altra superiore facoltà che é di
stirpe regale. Da questa condizione press'a poco, dalla confusione e dallo sconvolgimento
conseguente provengono, affermeremo, l'ingiustizia, la sfrenatezza, la vitalità, l'ignoranza;
in una parola insomma la malvagità.
E qual'é quella città, polis o comunità, che sappia vivere la giustizia o la giusta
espressione? Se una comunità é formata di più individui, essa é altresì caratterizzata dalle
manifestazioni qualitative che appartengono al singolo ente. Di ciò non v'é dubbio.
Quindi, avremo una eterogeneità di qualità (guna), di bisogni, desideri, istanze che, se non
dirette secondo giustizia, porteranno al caos (e di ciò ne abbiamo già un'evidenza nella
nostra presente polis). La comunità, allo stato attuale del proprio sviluppo, é guidata dalle
due qualità, guna, dell'irascibile e del concupiscibile e in essa sono compresi molti
governanti; perciò fino a quando non si attui lo sviluppo della noesis, intelligibile in noi o
della parte più alta del logos, la comunità non potrà assolutamente vivere il senso di
giustizia, poiché vi saranno pur sempre prevaricazioni, lotte, contrapposizioni, interessi
irrazionali e uccisioni.
In queste condizioni l'ente é fuori della comunità perché non é al suo giusto posto, non
svolge il proprio dovere (dharma) e la propria areté. Se le due potenze cieche debbono,
per necessità assiomatica, sottostare a quella noetica (sattva), allora una comunità può
essere governata e guidata solo da coloro che, a loro volta, si lasciano guidare e governare
da tale potenza luminosa, da coloro che hanno già attuato la giustizia in sé; vale a dire,
dagli uomini giusti, dai veri Filosofi.
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E allora diremo, o Glaucone, che un uomo é giusto nella stessa maniera nella quale anche una Città
é giusta. Anche questa, conseguenza necessaria. Ma non ci siamo certi dimenticati che la città é
giusta per il fatto che ciascuna delle tre classi (del guadagno, delle armi e del consiglio) attende alla
propria operazione. Eh! non credo certo che ce ne siamo dimenticati. In ogni modo bisogna
ricordare che, in quanto le singole facoltà compaiono ciascuna la propria missione.
Senza dubbio, se i princìpi basilari della politéia platonica, tolti ovviamente alcuni aspetti
contingenti e particolari relativi all'epoca di Platone, venissero applicati nel contesto comunitario
odierno, si avrebbe una comunità basata sul senso del giusto (del Bello e del Vero). La paideia
platonica rappresenta ancor oggi il modello dell'educazione del singolo e della collettività, quella
paideia che sa offrire i mezzi per sviluppare e attenuare l'intellezione, noesis, e l'ordine
intraindividuale di contro alle forze irrazionali e tenebrose che purtroppo attualmente avanzano nel
campo umano sotto l'egidia della sofistica a cui Platone avrebbe guardato con orrore e con
disprezzo. Né tale concezione di costituzione può sembrare utopistica, lo stesso Platone ne é
consapevole. Se dunque dei filosofi eccellenti, o nel corso infinito dei secoli passati o anche al dì di
oggi, in qualche regione barbarica lontana e fuori della nostra immediata conoscenza, siano stati
costretti ad occuparsene in avvenire, noi siamo pronti a sostenere con buone ragioni che c'é stata,
c'é e ci sarà la costituzione esposta da noi quando questa Musa filosofica s'imponga allo Stato,
giacché né é impossibile che essa esista, né diciamo cose impossibili, per quanto noi stessi siamo i
primi ad ammettere che la realizzazione ne é difficile.
(Platone, Politeia).
E perché questa costituzione é valevole, secondo Platone, anche nei secoli futuri? Perché
ciò che proviene dalla Musa filosofica del sovrasensibile, trovandosi nello stato
atemporale e spaziale, non ha la natura della corruzione.
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INIZIAZIONE E TRADIZIONE.
Iniziazione deriva dal latino in (dentro, interno), e ire (andare); dunque andare dentro se
stessi, entrare in qualche cosa. Nell'accezione più specifica significa: entrare in una nuova
dimensione di coscienza. In Grecia la teleté era l'iniziazione ai Misteri, dal verbo teleo
(rendere perfetto, iniziare ai misteri). L'iniziazione ha lo scopo di superare lo stato
individuato umano, considerato nella sua integrità extracorporea, e di permettere il
passaggio agli stati superiori. Ogni realizzazione iniziatica é un fattore essenzialmente
interiore che trasforma l'essere interno, penetrando e influenzando la causa più che
l'effetto. L'iniziazione conduce alla vetta dalla quale é possibile avere la visione, quella
dell'eterno ora, in cui passato, presente e futuro si concretizzano simultaneamente.
L'iniziazione conduce a quella caverna silenziosa, e pur ricca di suoni, entro cui vengono
compresi gli opposti, o la molteplicità, e svelato il segreto dell'unità. L'iniziazione porta
alla liberazione, e la liberazione é frutto di realizzazione; questa, a sua volta, é lì l'effetto
del fuoco purificatore e unificatore. La via iniziatica é diversa da quella mistica, ma non
opposta. In quest'ultima l'individuo si limita a ricevere semplicemente ciò che gli si
presenta e come gli si presenta, senza che egli stesso vi entri per nulla; nella prima
l'iniziativa della Realizzazione é perseguita in modo consapevole e persistente.
L'iniziazione non riguarda lo psichico, anche perché gli stati psichici non hanno niente di
trascendente, facendo essi parte dello stato semplicemente individuato. L'iniziazione non
ha niente a che fare con la chiaroveggenza, la chiarudienza o con l'esercizio di qualche
altra facoltà psichica dello stesso genere ugualmente secondaria, anche se spettacolare.
L'iniziazione potrebbe accidentalmente produrre l'emergenza di qualche facoltà psichica,
ma occorre saper distinguere. Le oche capitoline erano chiaroudienti...
avvengono o si originano. Per l'iniziato non c'é niente di occulto e di magico; egli opera
dall'alto verso il basso, mentre lo psichico procede in senso inverso. L'iniziato dimora in
quella sfera non-agente che é, d'altronde, precisamente per il suo carattere di non-
manifestazione, la pienezza stessa dell'attività. Chi rimane nel dominio psichico non potrà
pervenire alla consapevolezza di quello spirituale. A chi appartiene al mondo della
grande illusione, é preclusa l'autentica Autoconoscenza che, sola, sa svelare la realtà
dell'essere. L'iniziazione conduce alla conoscenza, gnosi, alla saggezza, al cuore della
divinità, alla perfezione e compiutezza, alla Pax profunda, alla beatitudine senza oggetto;
lo psichismo, invece, conduce alla semplice estensione orizzontale delle facoltà conscie
dell'individuo in quanto animalis species.
L'iniziazione appartiene alla metafisica sacra o scienza dei princìpi. Essa va di là dal
corporeo, sede delle cristallizzazioni deformanti, dal sottile psichico, sede dell'illusione e
dell'annebbiamento, e dal causale, sede dell'ignoranza-avidya-inscienza metafisica.
L'uomo é assetato di poteri appartenenti a qualunque sfera o dimensione più che di verità,
trascendenza e compiutezza. Nel simbolismo iniziatico si sostiene che il candidato viaggia
sul grande oceano (e questo rappresenta la sfera psichica che egli deve attraversare)
evitandone tutti i pericoli, per giungere vittorioso alla mèta.
Però, può anche tuffarvisi dentro con la sola possibilità di annegare. Occorre distinguere
tra Acque superiori e Acque inferiori. Si può andare verso l'iniziazione, la pseudo-
iniziazione o la contro-iniziazione: bisogna essere vigilanti; basta un attimo di
disattenzione perché sopraggiunga il deviamento o la morte. L'iniziazione concede la
neofita un influenza dall'alto attivando il seme nel segreto del suo cuore; tocca all'iniziato
portare dalla potenza all'atto quella geometria in germe. La potenza del fuoco ha inciso e
stimolato un complesso di possibilità, tocca ora al discepolo farle fruttificare, dirigerle ed
espanderle. Per agire bisogna essere, per donare bisogna avere, per amare bisogna
possedere l'amore; l'iniziazione, della giusta direzione, del giusto rapporto.
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
Il sincretismo, partendo dall'esteriore, si contrappone alla sintesi (che parte invece dai
princìpi, vale a dire da ciò che vi é più interiore, dal centro per dirigersi verso la periferia)
e rimane sulla circonferenza o periferia assommando e comparando semplicemente. Il
sincretismo é più analitico e, come tale, non entra nel piano causante; la sintesi é armonia
noumenica. La vera Dottrina iniziatica tradizionale é, ovviamente, sintetica; essa ha
necessariamente come punto di partenza e come centro essenziale la conoscenza dei
princìpi metafisici o primi, e il suo relativo sviluppo comporta l'applicazione ai differenti
domìni, il che implica sempre sintesi sottostante.
Dietro l'unità che può scorgersi con il Fiat Lux iniziatico. Chi perviene a tale unità scoprirà
che vi é sempre stata una sola Tradizione iniziatica con differenti sviluppi adattati al
tempo-spazio. Il sincretismo non conduce all'unità e alla sintesi, ma alla generalizzazione
e all'eclettismo, possiamo dunque smarrirci nella sua caotica frammentarietà nozionistica;
esso può portarci alle tenebre o a un vicolo cieco, anziché alla luce unificatrice.
Secondo la tradizione indù vi sono due modi contrapposti per trovarsi fuori delle caste:
l'uno inferiore e l'altro superiore. Si può essere senza casta (avarna), cioé al di sotto di essa,
e al di là delle caste (ativarna) perché completamente trascese. Similmente si può essere al
di qua e al di là delle varie tradizioni e della stessa tradizione. Le forme tradizionali sono
sentieri che conducono tutti allo stesso scopo: L'identità suprema.
Iniziato un sentiero, sarebbe bene perseguirlo, a meno che non si scopra che esso
appartiene all'insegnamento comparato eclettico o sincretico. La dottrina iniziatica pura
riceve l'influsso dall'alto, mentre quella sincretica non può riceverlo per la sua intrinseca
natura profana. L'iniziazione porta alla attuazione effettiva degli stati sovrumani, mentre
la pseudo-inizizione lascia l'individuo nell'infraumano sotto la rigida e lusinghiera guida
degli agenti samsarici. Il sincretismo consiste nel mettere insieme, dal di fuori, elementi
più o meno diversi che, visti sotto questo aspetto, non hanno possibilità alcuna di essere
veramente unificati; si tratta in definitiva di una specie di eclettismo con tutto ciò che
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
Da una congerie di questo genere, non può evidentemente provenire niente di valido; e
invece di un insieme organizzato (per fare un paragone facilmente comprensibile) si avrà
un informe ammasso di frammenti, inutilizzabili per la mancanza di quel qualcosa che
potrebbe dar loro un'unità analoga a quella di essere vivente o di un edificio armonioso; é
cioé caratteristica del sincretismo, proprio per la sua esteriorità, l'impossibilità di
realizzare una simile unità. Per contro, si avrà sintesi se si partirà dall'unità stessa, senza
mai perderla di vista attraverso la molteplicità delle sue manifestazioni, il che implica che,
al di fuori e al di là delle forme, si sia raggiunta la coscienza della verità principale che di
queste si riveste per esprimersi e comunicarsi nelle misura del possibile. Da quel
momento si potrà impiegare una qualunque di queste forme, a seconda che si avrà
interesse a farlo, proprio come, per tradurre uno stesso pensiero, si potranno usare idiomi
diversi per farsi intendere dagli interlocutori cui ci si rivolge: é questo, d'altronde, ciò che
certe tradizioni definiscono il dono delle lingue. Si può dire che le concordanze tra le varie
forme tradizionali rappresentano delle sinonimie reali: é a questo titolo che le prendiamo
in considerazione e, come la spiegazione di certe cose può risultare più facile in una lingua
che non in un'altra, così una di queste forme potrà convenire maggiormente
all'esposizione di certe verità, nonché renderle di più facile comprensione.
E' dunque più che legittimo servirsi di volta in volta della forma che appare più
appropriata per quel che ci si propone: nessun inconveniente a passare dall'una all'altra, a
condizione che se ne conosca realmente l'equivalenza, il che é possibile soltanto partendo
dal loro principio comune. Così non vi é sincretismo alcuno, anzi, essendo quest'ultimo un
punto di vista del tutto profano, é incompatibile con la nozione stessa di scienza sacra cui
questi studi si riferiscono esclusivamente. (R. Guénon, Il simbolismo della croce).
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
Benché lo scopo sia sempre il medesimo (la Realizzazione iniziatica), sono diverse le vie
per pervenirvi, ma arrivati nella sfera trascendente della metafisica pura ogni
differenziazione cessa, scompare. All'inizio, qualunque concetto dottrinario può servire
come supporto e di occasione, ma lentamente, se si vuole vera iniziazione, occorre entrare
nel filone tradizionale. Chi possiede l'amore per la verità-conoscenza non può no passare
all'azione interiore trasformante la quale porta, senza dubbio, fuori di ogni quadro
dialettico e teoretico. La verità-conoscenza é una dimostrazione dello spirito che,
realizzata, conduce all'abbandono di ogni rappresentazione mentale della stessa
conoscenza. La tradizione si incarna, non si razionalizza, si vive e non si concettualizza in
schemi teoretici e filosofici chiusi.
Molti parlano della Tradizione, pochi la vivono e la svelano come una modalità di essere.
Come l'interno non può essere prodotto dall'esterno, l'esoterico non può essere formato
dall'exoterico, il centro non può essere originato dalla circonferenza, né il superiore
generato dall'inferiore, così l'influenza che scorre lungo il canale tradizionale va sempre
discendendo, s'irradia dal Punto o Asse centrale e mai dalla periferia.
Le beghe del mondo esteriore, scrive R. Guénon, perdono molta importanza allorché le si considera
da un punto donde sono conciliate tutte le opposizioni che le suscitano, come é il caso quando ci si
pone dal punto di vista strettamente esoterico ed iniziatico; ma precisamente per tal motivo il
mischiarsi in tale beghe o, come si dice comunemente, il prendervi parte, non può essere in alcun
modo la condizione delle organizzazioni iniziatiche, mentre le varie sette vi si trovano invece
ingaggiate inevitabilmente per la loro natura, ed é forse appunto ciò che infondo fa tutta la ragion
d'essere di queste sette.
L'incontro di due Cuori é iniziazione, l'incontro di due ritmi vitali é iniziazione, l'accordo
dell'inferiore col superiore é iniziazione. Il semplice studio intellettivo dei Testi
tradizionali non costituisce iniziazione; ugualmente, non rappresenta iniziazione il
ricordare o memorizzare tali testi.
quantità appartiene all'erudito e al saggista le cui menti sono troppe imbevute di rajas. La
quantità di nozioni può anche nuocere al processo iniziatico perché potenzia la mente
distintiva, empirica e rappresentativa (manas). Il manas, si sa, va sempre in cerca di cibo
nozionistico, ma non é sul piano della sua espansione e della quantizzazione che l'ente
può trovare la morte dei filosofi. Così, anche il sentimento egoico va in cerca del suo cibo,
ma se si vuole pervenire alla vera iniziazione occorre saper morire al manas e al kama. E'
difficile far comprendere all'erudito che per trovare vera iniziazione occorre morire a se
stessi. Spesso l'erudito é litigioso, orgoglioso, separativo, incentivato da un senso di
superiorità velato da una falsa umiltà, esclusivo, vanitoso, e fa anche pensare il suo potere
psichico. La facoltà del manna é un potere psichico, come il potere del sentimento (kama);
l'erudito si serve del potere del manas, mentre il mistico si serve di quello del Kama.
Anche il desiderio-sentimento é esclusività e fanatico; occorre un grande sforzo per
liberarsi dei poteri che appartengono all'individualità. L'amore, la conoscenza, la
beatitudine sgorgano da un cuore puro, innocente (da non confondere con lo
sprovveduto).
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
LE QUALIFICAZIONI DEL DISCEPOLO.
Non si può non riconoscere che ogni attività (professione, ecc.) profana-sociale esige una
certa attitudine, una predisposizione e qualificazione; potremmo persino parlare di
vocazione. Per ogni funzione occorre, dunque, l'idoneità attinente a quella particolare
sfera. Spesso si possono avere non bravi professionisti o lavoratori perché non si é portati
per quello specifico ruolo, perché si manca appunto di vocazione o di attitudine. Questa,
se non sempre, può essere comunque sviluppata, sebbene può capitare che il soggetto
neanche sappia di averla. Anche nel campo spirituale vige la stessa legge; un candidato
privo di vocazione, di predisposizioni e qualificazioni, potrebbe fare ben poco.
Per quanto possa seguire un sentiero, sarà pur sempre un cattivo aspirante.
Inoltre, come per seguire una qualsiasi professione occorrono studio, tempo, abnegazione
e grande serietà, così per seguire un sentiero spirituale, o iniziatico, necessitano una
grande serietà, abnegazione e parecchio tempo a disposizione. Capita però che, in via di
massima, l'aspirante si dedichi alla Realizzazione nei ritagli di tempo. Possiamo anche
dire che l'occupazione principale, o fondamentale, é quella sociale, mentre quella
spirituale rimane relegata al tempo rimasto libero. Vi sono soggetti che frequentano scuole
iniziatiche una volta il mese, oppure ogni quindici giorni, e poi tutto finisce lì: gli altri
giorni sono ovviamente dedicati ai rapporti sociali, al lavoro, a volte stressante e
conflittuale, alla famiglia e all'inevitabile divertimento, credendo così di essere sulla Via
iniziatica o, addirittura di essere degli Iniziati.
Il più delle volte si crede persino che la Via consista nell'essere più buoni, etici, liberi da
un certo conformismo religioso, o nel frequentare persone che semplicemente parlano di
cose iniziatiche o esoteriche. Si può anche affermare che l'attenzione dominante, per non
dire esclusiva, di alcuni é rivolta a sperimentare la vita formale, del sensibile corporeo,
anche se poi parlano di spiritualità o frequentano un gruppo spirituale, iniziatico,
ashramico, ecc.
Una via, o Sentiero, comporta un grande impegno, come abbiamo già fatto notare, e
un'ampia disponibilità di cuore e di mente. Platone arriva a dire che...fin da giovinetti (gli
aspiranti filosofi) non conoscono la via che mena al foro...
Brighe di consorterie per acquisire cariche pubbliche, convegni, banchetti e festini... sono tutte cose
che nemmeno in sogno vien loro in mente di fare.
(Platone, Teeteto).
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
Ciò implica un nuovo stile di vita che non ha più niente che fare con la vecchia modalità
espressiva. L'Iniziato, pur stando nel mondo, non é del mondo. E il vero é che il suo corpo
(dell'aspirante filosofo) si trova nella città e ivi dimora, ma non la sua anima.
Ma quali possono essere le qualificazioni che si richiedono per un giusto approccio alla
via della liberazione? La prima, oltre quello che si possono intravedere in ciò che finora
abbiamo detto, é la più difficile da attuare; ci riferiamo all'umiltà. Si presume che
un'aspirante provenga dalla sfera profana, sociale e da un tipo di conoscenza che si
riferisce esclusivamente al mondo dei fenomeni, al dominio dei nomi e delle forme.
L'insegnamento filosofico realizzativo é rivolto invece alla sfera dell'essere. Per parlare in
termini platonici, l'aspirante proviene dalla dimensione dell'opinione (doxa), per cui si
trova nel mondo del sensibile corporeo; sa poco o niente dello stato dell'epistéme che
opera per intuizione superconscia e capta la sfera dell'intelligibile.
Siamo d'accordo ormai su questo punto in rapporto alla natura dei filosofi, che sono cioé
amanti della conoscenza, quella che sa svelare il mistero di quell'oggettiva esseità che
eternamente é; quell'esseità che non va errabonda e vagante in ciclo di generazione e di
morte. (Platone, Politéia).
silenzio perché tutto quello che avrebbe potuto dire non avrebbe avuto niente che fare con
l'Insegnamento esoterico e iniziatico; inoltre, ciò gli era di grande aiuto per incominciare a
dominare la parola, cosa non facile nel mondo individuato.
E' nel silenzio del nostro cuore che si possono maturare certi eventi; anzi, il silenzio é il
fondamento di ogni Via iniziatica, e qui non si vuol dire solo di non parlare con altri, ma
di fare tacere quella mente che si esprime mediante l'opinione (doxa) perché chi sta
intraprendendo una nuova via, una strada completamente opposta a quella precedente,
ha poco da dire o da proporre.
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
La Via inizia nel silenzio, si matura e si conclude nel grande silenzio. Brahman é Silenzio,
secondo l'Upanisad. Il Padre dell'Essere é ineffabile, secondo Platone. Un'altra
qualificazione é quella di sapersi liberare dalla nozione di tempo-spazio-causa. La
Conoscenza di ordine metafisico, o dei Grandi Misteri, (quella che prospettano
Parmenide, Platone, Samkara ed altri della Tradizione universale), necessita della mens
informalis che sola sa trascendere quella nozione fenomenica che opera esclusivamente
nella dimensione del sensibile corporeo. La Realizzazione, si sa, non dipende dalla
categoria di tempo-spazio-causa in quanto l'essere che noi siamo non diviene. E' la vita
formale che diviene e che ha una sua parabola ascendente e discendente. E la xwpa-
prakrti, con i suoi punti, piani e forme, che si trasforma e diviene.
Se, come si é fatto notare, la Conoscenza é già in noi, allora occorre avere quell'attitudine-
qualità di raccoglimento interiore (uparati) che consente di mettersi in contatto con la voce
del silenzio o del nostro cuore (però per un soggetto estrovertito, occorre dire, é un po'
difficile). Per quanto la Realizzazione, o la liberazione, sia diretta a tutti, non tutti, in quel
tempo-spazio, sono pronti a raccogliere il messaggio; però é anche vero che se noi siamo
già l'Essere o Quello, come afferma il Vedanta advaita, allora prima o poi non potremo
pervenire a svelare la nostra autentica Pienezza o Beatitudine.
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
TEMPO‐SPAZIO E CONOSCENZA.
V'é lo Spazio supremo e v'é lo spazio relativo. Possiamo anche dire Spazio infinito e
spazio finito. Lo spazio supremo é uno, omogeneo, indiviso; lo spazio relativo, invece, é
parte, divisione, scissione, relazione. Lo spazio supremo, o infinito, rappresenta una
proprietà-condizione dell'Essere, dell'Uno principale, nella sua totalità e integrità; é il
punto senza dimensioni; lo spazio relativo, o finito, rappresenta una singola forma-corpo,
é il volume racchiuso da una circonferenza. Ogni corpo-forma occupa uno spazio, anzi é
quello spazio, per cui più corpi-forme occupano differenti spazi, distinti volumi spaziali.
Le distanze relative sono convenzioni della mente empirica sensoriale per meglio
localizzarsi e concepirsi nel suo vivere relativo. Così, i punti cardinali, il sopra e il sotto,
ecc., sono categorie inventate dall'uomo per meglio definirsi.
Occorre però distinguere il calore che promana dalla resistenza che oppongono tra loro gli
spazi-corpi, che potrebbero chiamare fuoco-calore per attrito, dal fuoco cui abbiamo
accennato che, certo, non nasce dall'attrito, dal fuoco cui abbiamo accennato che, certo,
non nasce dall'attrito degli spazi-corpi perché a questi sesso preesiste.
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
I due dati nascono simultaneamente. Voler estrarre l'umidità dall'acqua. L'uno trascina
l'altro, come il soggetto trascina l'oggetto e viceversa. Come nello Spazio supremo non
può trovare posto lo spazio relativo, o il finito non può essere infinito, così non può
trovarvi posto il tempo relativo o il tempo finito. Nello spazio supremo avremo invece il
tempo supremo, avremo l'eternità indivisa, omogenea; avremo l'eterno presente. Il tempo
relativo é un dato sensoriale nell'ambito dell'eternità. Secondo Platone il tempo é
l'immagine mobile dell'eternità. Credere di poter rendere assoluto il tempo relativo é pura
follia, significa voler assolutizzare il finito. Per quanto, per esempio, possiamo allungare o
dilatare il tempo, relazionato allo spazio-corpo dell'individuo, non potremo mai renderlo
assoluto, cioé immortale.
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
Se gli spazi-tempi relativi hanno la loro parabola di nascita, crescita e morte, allora anche
la conoscenza di relazione non é imperitura, ma contingente e soggetta a modificazione,
perché é anch'essa spazio-tempo finito. La conoscenza di cui sopra é la caratteristica di un
particolare piano esistenziale o sistema di coordinate dell'ente umano. Se questi non
avesse in sé altre aperture, o sistemi di coordinate, non potrebbe mai pervenire alla
Conoscenza Suprema, quindi alla Realtà suprema o allo Spazio-tempo infinito. Vi sono
alcuni, é meglio dire i molti, che aprioristicamente non credono alle altre aperture o
finestre conoscitive dell'uomo, e quindi sono costretti a riconoscere, come unica esistenza,
la conoscenza di relazione, e ad ammettere perciò l'esistenza dei soli spazi-tempi relativi e
finiti. La conoscenza di relazione é una conoscenza riduttiva che restringe l'ente umano, e
non umano, alla sola presenza dello spazio-tempo-volume finito; e siccome lo spazio-
tempo relativo, in ultima analisi, non é che apparenza (esso appare e scompare), si può
concludere che la conoscenza di relazione riduce l'ente a semplice apparenza, a mero
fenomeno.
La più grande tragedia dell'individuo é stata, ed é ancora, quella di credersi ciò che in
realtà non é, o di pensarsi un semplice spazio-tempo-volume relativo e finito. Possiamo
ancora dire che la conoscenza di relazione é una conoscenza dei particolari, del singolo,
dello specifico, della parte; ma l'ente (sia esso superumano, umano o subumano) é
universale, e l'universale é qualcosa di più del concetto di generalità.
Qualcuno può chiederci: che connessione esiste tra questa conoscenza di relazione e la
Conoscenza suprema? Che rapporto esiste tra l'ente spazio-tempo relativo e lo Spazio-
tempo supremo o principale? Chi pone queste domande é, senz'altro, intrappolato dalla
dinamica operativa della conoscenza di relazione per la quale, appunto, ogni cosa, ente,
ecc., può esistere solo se vista in relazione ad altre cose, enti ecc.
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
é di salita perché occorre seguire una linea verticale, mentre quando ci si vuole estendere
su un determinato piano esistenziale basta sviluppare una linea orizzontale di
penetrazione cognitiva, usando così i soliti strumenti operativi. Ma nel salire in linea
verticale occorre mettere da parte un potente mezzo di sostegno dell'individualità umana,
strumento su cui e con cui essa si regge e si perpetua nell'ambito del suo piano
esistenziale. Levare però il sostegno-appoggio al bambino significa mettergli paura,
significa portarlo alla frustrazione angosciosa. Pur di non abbandonare il sostegno-
appoggio del conoscere relazionato, l'individuo bambino é disposto a tutto, anche a
disconoscere non diciamo la realtà di altre dimensioni, ma persino l'ipotesi di altre
possibilità. Dunque, lo spazio-tempo supremo (siamo nel dominio dell'Essere) può essere
conosciuto; anzi é più esatto dire realizzato.
Vi sono dati che stanno di fronte a noi (dualità) e possono essere appresi con la
conoscenza di relazione, ma v'é il Dato che non ha secondo o relazione, e quindi non può
essere oggetto di apprendimento sensoriale. Qui la conoscenza di relazione o mediata
deve cedere il posto all'attuazione dell'identità coscienziale esistenziale o, se si vuole, alla
Conoscenza d'identità. Dovremo riconoscere che gli spazi-corpi relativi sono semplici
effetti, e l'effetto presuppone sempre una causa. La nostra conoscenza di relazione ci offre
l'apprendimento di un mondo effettuale. Ogni fenomeno non é altro che effetto, e per
quanto a volte si parli di scoperta della causa di un determinato effetto, si può dire che
quella é, a sua volta, effetto di un'altra causa preesistente.
Samkara, invece, non ha mai affermato ciò; neanche Parmenide l'ha sostenuto.
Samkara, dice esplicitamente: L'universo dei nomi e delle forme non é come figlio di una
donna sterile, o le corna di una lepre2.
2 si veda il suo commento alla Mandukya Upanisad, con le karika di Guadapada e il commento di Samkara
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
Il che significa che lo spazio-tempo relativo non é un niente, un nulla, un'illusione. Egli
rivela che lo spazio-tempo-maya é solo uno degli aspetti della Realtà totale, in altri termini
rappresenta un semplice grado di verità.
Quindi, con la terminologia odierna, possiamo dire che lo spazio-tempo finito, di cui
facciamo attualmente esperienza, é solo uno degli illuminati sistemi di coordinate. Ciò
implica ridimensionare la concezione del nostro reale, del nostro concepirci; significa non
pensare più che il nostro tempo-spazio relativo debba essere unico e assoluto o,
all'opposto, che l'individuo debba annichilirsi qualora voglia trascenderlo.
E Samkara cerca di mettere in evidenza questa errate concezioni, quando obietta che
spesso sovrapponiamo la nuvola opaca ed evanescente al risplendente sole.
Uno spazio-tempo-corpo che si creda assoluto diventa alienato; come, d'altra parte, lo é
uno spazio-tempo-corpo che si creda semplicemente un relativo (reale relativistico). Così
l'essere umano si concepisce o come individuo assoluto, o come semplice corpo-molecola
il cui destino é l'annichilimento, l'annientamento; e questo tipo di concezione o credenza
egli la traspone ovviamente nel campo sociale, politico, morale e persino religioso, con
conseguenze che tutti possiamo vedere e sperimentare.
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STATI DI COSCIENZA.
La filosofia anticamente era una sorta di jnana marga, una Via di conoscenza per essere, é
la Via che la Dea insegna a Parmenide; é sotto tale prospettiva che spesso parliamo di
Filosofia tradizionale o Philosophia perennis. Il vero filosofo é colui che incarna, vive,
testimonia la Visione filosofica. Secondo Empedocle, la filosofia é un'arte di vita e non
un'oziosa esercitazione accademica.
Si ricordano a proposito Pitagora, Parmenide, Platone, Plotino, ecc., solo per citarne
alcuni. I veri alchimisti erano e sono dei grandi filosofi, amici e devoti della saggezza
ermetica, facitori, distillatori per trasformare il piombo umano in puro oro divino, e per
questa operazione la saggistica o le argomentazioni teoretiche contano poco o niente.
L'Occidente, ovviamente con le debite eccezioni, e ciò va sottolineato, é più predisposto
per il sociale, per la politica profana (non quella di ordine tradizionale o vera politéia), per
l'affermazione dell'io empirico più che di quello antologico; spesso un gruppo iniziatico,
non degno di questo nome, costituisce un io ingigantito per scopi più profani che sacri.
Ciò rappresenta una constatazione evidente per chi é addentro a certe cose.
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Realizzazione comporta essenzialmente ciò che viene definita la morte iniziatica, la morte
dei filosofi, morte cioè dell'uomo vecchio, morte dell'individualità, quale fattore di
scissura dal contesto universale; la Liberazione (altra parola identica a Realizzazione)
implica il liberarsi fattivamente dell'avidya la quale ci ha obnubilati fino a farci
considerare ciò che non siamo. L'ente é alienato, scisso, é una pletora di istinti, sentimenti,
ideazioni, di brame che portano a non essere; é una varietà di voci in perenne dicotomìa;
la Realizzazione va a colmare la scissura, la moltitudine di voci, la subpersonalità che ci
contendono il predominio della nostra coscienza.
Noi, in quando individualità, siamo (e sembrerebbe un controsenso visto il significato della parola)
molteplicità é l'iniziazione, resa attiva o attuale, risolve la molteplicità conflittuale in Unità
coscienziale. Poiché i Filosofi sono coloro che riescono ad arrivare a ciò che sempre permane
costante, mentre coloro che non ci riescono, ma si perdono nella molteplicità del variabile, non sono
filosofi.
(Platone, Politéia).
In verità sono questo Brahaman non-duale, sottile come l'etere, senza inizio e senza fine... sostrato
di tutti i fenomeni... eterno... immutabile... che trascende tutte le differenzazioni... costante...
universale.
(Samkara, Vivekacudamani).
Che cosa può rappresentare uno stato di coscienza? Si può rispondere: una dimensione di
valori, una condizione esistenziale, l'appartenenza a un certo contesto vitale. Ad esempio,
il vegetale, l'animale, l'umano non sono altro che stati, dimensioni di essere, modi di vita,
di sistemi che operano lungo certe lunghezze d'onda e che esercitano delle influenze.
L'uomo, in quanto tale, é un compendio di animalità, di razionalità e di divinità. Di qui il
conflitto dicotòmico. Egli é una figura di mezzo tra gli stati coscienziali subumani e quelli
divini: alcune volte tende verso l'animalità, altre verso la razionalità egoica, ma raramente
verso il divino, verso l'intelligibile o il Mondo delle idee, secondo Platone. Essendo un
composto di diverse condizioni vitali, l'uomo necessariamente possiede più veicoli-corpi
che possono rapportarlo ai vari stati esistenziali. Un veicolo-corpo non é altro che una
finestra aperta su una dimensione di vita. Il corpo fisico denso o grossolano dell'ente, per
esempio, é una finestra aperta sul piano fisico terrestre, per cui può sperimentare ed
esprimere quelle possibilità inerenti a tale piano.
Secondo la Visione tradizionale Vedanta (ma la tradizione é una, con vari adattamenti
spazio-temporali), l'ente é composto di cinque corpi-veicoli-guaine che sono tante finestre
aperte o chiuse, secondo i casi, su determinati piani o sfere del sensibile e dell'intellegibile.
Gli stati molteplici (ma la molteplicità é apparente) dell'Essere sono una possibilità per
l'ente il quale può esperirli. Possiamo dare un quadro dei veicoli-corpi dietro cui v'é la
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coscienziale che, appunto, é quello essenzialmente umano. Ma l'ente, abbiamo visto, non é
soltanto individualità, non é solo stato coscienziale umanoide, perché ha in sé anche dal
divino o dell'intelligibile; l'ente é anche coscienza universale; il suo stato reale é proprio
quello universale. Un primo grado di Realizzazione comporta lo spostamento della
coscienza dall'umanoide individuato al divino universale.
Diciamo primo grado perché vi sono altri stati coscienziali, ma per il momento ci
riferiamo a questa fase. Un'autentica iniziazione deve comportare quel nuovo inizio che
riporta la coscienza individuata alla dimensione di consapevolezza universale. E per
attuare tale processo, o alchimia filosofica, non é questione di concettualizzare
semplicemente l'insegnamento, la Dottrina o la Filosofia; occorre ben altro: ci vuole la vera
morte di uno stato, integrandolo e risolvendolo in un altro di ordine superiore. Si tratta, in
altri termini, di sciogliere il composto individuato.
...E dunque non é questo che si chiama morte, scioglimento e separazione dell'anima dal corpo
(individualità)? Esattamente, rispose. E di sciogliere, come dicevamo, l'anima dal corpo si danno
pensiero sempre, sopra tutti gli altri e anzi essi soli, coloro che filosofano rettamente; e questo
appunto é lo studio e l'esercizio proprio dei filosofi: sciogliere e separare l'Anima dal corpo.
(Platone, Fedone).
Qui si può notare il processo alchemico della separazione e del solve e coagula:
scioglimento dell'Anima dal corpo-individualità e fissazione dell'Anima-mercurio nella
sua natura. Non é un caso di rammentare che Platone é stato iniziato ai Grandi Misteri
(vita metafisica), oltre a ricevere l'iniziazione, secondo Clemente, dal Sacerdote Sechnuf
nei templi dell'antico Egitto. Da ciò si deduce che quello che conta é lo stato coscienziale,
non l'addestramento di un determinato veicolo, credendo che ciò basti alla Realizzazione.
Ad esempio, vi sono stati e vi sono grandi Realizzati che non hanno avuto nessun
addestramento mentale; si può dire, erano completamente digiuni di nozioni profane, di
capacità o abilità dialettica. E che cosa vuol dire avere una conoscenza universale? Vuol
dire che non si ha niente di... umano, per come s'intende questo stato. E se dovesse
possedere un corpo fisico, un ente di tal fatta avrebbe solo l'apparenza dell'uomo;
potrebbe, entro certi limiti, esprimersi in termini umani, ma la sua coscienza sarebbe
altrove: Pur essendo nel mondo non é del mondo. Perché il Filosofo in verità non solo non
s'avvede di chi gli é presso, né del vicino di casa che cosa faccia, ma nemmeno, si può dire,
se é uomo o altro animale... (Platone, Teeteto).
Ma questi uomini che falliscono, mentre quelle doti sarebbero pari all'alta missione,
lasciano intanto la filosofia sola e derelitta; e per conto proprio conducono una vita non
conveniente alla loro natura; una vita non vera. Filosofia rimane perciò orfana e chi le sta
vicino non ha più natura affine a quella di lei.
V'é poi la tradizione ermetica e qabbalistica, ma l'una é considerata spesso sotto l'aspetto
spagirico-materialistico e l'altra sotto quello occultistico-magico operante esclusivamente
nell'ambito dell'individuale. (Per queste due tradizioni si veda di Raphael: la Triplice Via
del Fuoco e Ehjeh'Aser'Ehjeh).
V'é ancora l'arte regia muratoria, purtroppo con le sue inclinazioni al sociale, a volte
persino profane, spesso individuate, anche se l'Insegnamento consentirebbe di sciogliere o
rompere le barriere dell'individuazione. In tale contesto iniziatico bisogna riconoscere, e
senza ovviamente generalizzare, che i veri e autentici Maestri dell'Arte sono rari, per cui il
tutto si risolve nell'appartenere a un sodalizio di élite, spesso semplicemente sociale.
Abbiamo voluto richiamare un aspetto poco noto e piuttosto negletto (parla dell'aspetto
profondamente esoterico e iniziatico dell'Arte muratoria) che per nulla incide su quanto ne
costituisce l'etica sociale, anzi la completa. Si tratta di un aspetto molto diverso da quello più noto e
più aderente allo scopo tradizionale che tendeva a conferire all'iniziato le virtù del Dio, epperciò
delle possibilità che potevano e dovevano ritenersi divine. E' per questo che vi sono studiosi i quali
considerano che il 1717 costituisce la tomba della muratoria, e ciò in quanto scuola iniziatica,
poiché con il suo svilupparsi rapido ed il dirigersi verso obiettivi a scopo sociale, ha diluito e deviato
quelle possibilità di ordine superiore di cui ancora poteva disporre, e il suo particolare
interessamento alle cose della vita contingente ha reso possibile che nel suo seno lo studio della
conoscenza potesse essere diretto verso finalità di ordine trascendente.
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
Di qui il voltarsi verso Oriente, dove ancora qualcosa di buono c'é, e dove indubbiamente
la Realizzazione-liberazione viene concepita per quello che realmente deve essere:
l'attuazione di uno stato coscienziale universale, e di altri stati ancora per chi ha le dovute
qualificazioni; lo svegliarsi alla consapevolezza dell'Unità-Bene e al Bello in sé, secondo il
divino Platone:
E chi crede alle cose belle, ma non alla bellezza in sé, e non sa seguire chi tenta di condurlo a questa
conoscenza, ti sembra che viva nel sogno o nella realtà? Guarda qui. Non é questo un modo di
sognare se uno, nella veglia o nel sonno, giudica due cose simili, non simili ma l'una identica
all'altra alla quale assomiglia? Io, ammise lui, direi proprio che un uomo siffatto stia sognando. E
allora, un uomo che, al contrario di costoro, riconosce l'esistenza del bello in sé e sa vederlo nella
sua assolutezza e nelle realtà a cui partecipa, e non lo confonde con queste ultime, né viceversa
queste col bello in sé, ebbene, come diresti che costui vive, in sogno o desto?
(Platone, Politéia).
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
MORTE RINASCITA RESURREZIONE.
D'altra parte, occorre riconoscere che i grandi Avatar si sono espressi a vari livelli di
interpretazione. Gesù parlava anche in parabole, ma una parabola é il simbolo verbale-
materiale di una verità spirituale, metafisica. Anche Platone, per mezzo del mito, voleva
svelare verità ineffabili. Che cosa può significare morte e resurrezione o rinascita sotto
l'aspetto esoterico-iniziatico? Se osserviamo tutti i fenomeni della vita che ci circondano,
constatiamo un grande processo di morte-rinascita: un seme nasce, fiorisce, muore dando
vita a un altro seme, e così via. Anche nel nostro organismo si verifica continuamente una
morte-rinascita di cellule. Tale processo, quindi, investe tutta la manifestazione poiché ciò
che nasce deve necessariamente morire e, fino a quando la vita della manifestazione
continuerà, dovrà anche prodursi, oltre alla morte, nuova nascita; noi diciamo: il mondo
delle forme si rinnova.
Come sostiene il Vedanta, le forme appaiono, per comparire ancora in un gioco incessante
di mutamento (maya). A questo fenomeno non sfugge neanche l'individualità umana: essa
appare nel mondo di visva, o tridimensionale, poi scompare, e le qualità-semi (samskara)
non risolte sospingono a prendere una nuova forma creando un'altra individualità. Vi é
però un ulteriore processo di morte-resurrezione che potremmo considerare di linea
verticale, mentre quello precedentemente trattato lo potremmo definire di linea
orizzontale.
oggi, per noi, ha rappresentato quel nascere-morire di linea orizzontale. Ciò comporta il
fermarsi lungo tale linea e l'iniziare il percorso ascendente. In altri termini, occorre saper
realizzare la croce. Per lo svolgimento di questo notiamo che il braccio verticale s'inserisce
in un punto x del braccio orizzontale: quindi per definire il braccio verticale della croce
occorre fermarsi lungo un punto del braccio orizzontale e allungarsi lungo la linea
verticale ascendente. La vera morte, quella del Filosofo, avviene nel preciso punto di
intersezione con la linea orizzontale, ciò implica contemporaneamente il fermarsi e
l'ascendere, quindi il morire e il risorgere a una nuova espressione di vita. Il travaglio
dell'anima avviene soprattutto quando si é fermata senza ascendere: in tal modo la
coscienza vive in una terra di nessuno, in una posizione di stallo, in uno stato di abùlia.
Ma perché questo? perché, essendosi fermata, non segue più la linea orizzontale e, non
avanzando su quella verticale, elude la chiamata. Qualcuno, in questo stato, può avere
paura della morte pur non accorgendosi che, avendo rallentato o fermato il suo
peregrinare lungo la linea orizzontale, é già morto, é già un cadavere privo di interessi.
Noi, in quanto discepoli alla Liberazione, abbiamo rallentato la corsa lungo la linea
orizzontale (che é quella del divenire) o, meglio, ci siamo definitivamente fermati e,
conseguentemente, stiamo cercando di erigere il nostro braccio verticale, stiamo
innalzando la nostra croce.
Si diventa ciò che si pensa nel cuore; se pensiamo di essere l'essere supremo saremo
l'essere, perché in potenza già lo siamo; se se pensiamo di essere umani individuati
saremo tali, ecc. La potenza del pensiero-cuore ci offre le ali per volare negli svariati
mondi-loka, grossolani o sottili; o, ancora, per uscire e ascendere completamente verso
Dio non qualificato e senza forma. E quest'ultimo evento rappresenta la vera, autentica e
ultima morte-resurrezione. Per noi, discepoli avanzati, non v'é altro tipo di morte, avendo
già sperimentato e, si suppone, superato le altre morti. L'insegnamento Vedanta, come la
tradizione metafisica occidentale, tende a tale trasfigurazione perché riconosce in perfetta
consapevolezza che tutte le possibili esperienze, gratificanti o no, sul piano del relativo e
del divenire, non sono altro che nebbie colorate che offuscano la vera pienezza dell'essere.
Ma é anche vero che per questo tipo d'Insegnamento occorrono qualificazioni adeguate,
maturità psicologica e, soprattutto, maturità psicologica e, soprattutto, maturità
coscienziale. La Pasqua per gli Ebrei era rappresentata dalla loro uscita dall'Egitto per la
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
terra promessa, per Gesù dalla morte della forma e dall'ascensione al cielo o al Dio-
Persona, per noi dovrebbe essere un morire-trascendere ogni stato condizionato e il
risorgere nel mondo dell'Uno-Uno platonico o Brahman nirguna del Vedanta advaita.
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
LIBERAZIONE.
Così, da che cosa dovremo liberarci? Dovremo liberarci dalla falsa nozione che noi, in quanto esseri
puri, siamo una cosa, un fenomeno, un oggetto. Dovremo liberarci dall'opinione che il mondo dei
nomi e delle forme é l'unica realtà, dovremo liberarci dalla falsa verità che noi siamo mortali come il
mondo delle cose, dovremo liberarci dall'ignoranza (avidya) che ci assimila alla sfera del semplice
impermanente. Questa liberazione, occorre precisare, non avviene per mezzo di concetti o, meglio,
concettualizzando l'idea di liberazione della falsa rappresentazione che ci siamo fatti di noi e delle
cose. La liberazione é la fine dell'avidya.
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
A coloro la cui ignoranza (avidya) é distrutta dalla conoscenza, questa, simile a sole splendente,
svela la Realtà suprema.
(Bhagavagita).
Allorché le cinque facoltà di conoscenza insieme al manas (mente distruttivo analitica) sono in
riposo... allora s'invera quello che é detto il supremo passaggio.
(Katha Upanisad).
(Svetasvatara Upanisad).
Da che cosa dovremo svegliarci? Dal sonno velante che ci costringe a scambiare il perituro per
l'eterno, il mortale per l'immortale, le apparenze per la realtà. A che cosa dovremo morire? Alle
errate concezioni che abbiamo sovrapposto a ciò che realmente siamo. Se c'é questo risveglio, la
liberazione, o la morte dei filosofi, allora l'ente riprende la pienezza di stesso in se stesso, e le cose
che appaiono e scompaiono finalmente trovano il loro giusto posto e non saranno più causa di
alienazione. Chi ha scoperto lo splendore del sole può mai rivolgersi ai deboli raggi della luna? Chi
vive di pienezza completezza (purna) di che cosa può avere bisogno? Certamente gli universi di
natura non divina sono interpretati da un'accecante oscurità e in essi vanno coloro che hanno
dimenticato il proprio sé.
(Isa Upanisad).
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
NON‐DUALISMO ED EQUANIMITA'.
Il Saggio guarda con occhio equanime una zolla di terra e un pezzo d'oro, perché per lui: tutte le
diverse modificazioni sono null'altro che distinzioni di nome e di linguaggio.
(Chandogya Upanisad).
A una tale visione si perviene dopo non poche identificazioni con le apparenze e quindi
dopo non pochi conflitti, giacché aderire all'inesistente procura solo tensioni, frustrazioni,
incertezze e paure. Ma come può una coscienza dualistica risvegliarsi al riconoscimento
che la realtà é una-senza-secondo? Che la distinzione tra il soggetto e l'oggetto é solo
immaginata? Che il percepito é niente altro che l'impressione trasmessa dai sensi alla
mente e dalla mente alla coscienza stessa? Le percezioni sono erronee, lo ha dimostrato
anche la scienza, tuttavia l'uomo continua a sognare, a credere a ciò che vede, a lasciarsi
suggestionare, a trasformarsi da spettatore in attore.
E il cinema, questo simbolo di maya moderno, se ben meditato, può esserci di grande
utilità nella comprensione di tale mistero. Quanto più esiste identificazione con lo
spettacolo, tanto più esso é reale per lo spettatore.
Stabilirsi in questo centro significa una nuova identità di soggetti consapevoli, non più
condizionati dal sogno e dalle sue emozioni, liberi dall'incantesimo del movimento e
quindi dall'attrazione e dalla repulsione.
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
A livello manifesto, questo soggetto (jivatman) si identifica, in una prima fase, con lo stato
coscienziale di prajna, dove l'effetto (soggetto-oggetto) si riassorbe nella causa, pur
restandovi tuttavia presente in latenza. La dualità, dunque, non si risolve in prajna, che
rappresenta lo stato potenziale. Per questo, si tratti della dimensione jivaica o di quella
individuata, l'Advaita considera l'una e l'altra appartenenti al sogno-manifestazione, alla
maya.
Fino a quando si rimane attaccati alla propria forma é impossibile riconoscere l'illusorietà
delle altre forme. In altre parole, non si può smascherare il non-io con la coscienza dell'io,
come nel sogno non potrà mai accadere che il soggetto percipiente riconosca l'illusorietà
dell'oggetto percepito, essendo esso stesso una proiezione, una non-realtà. L'attenzione si
sposta dunque dall'oggetto al soggetto, dal non-io all'io.
Chi sono io? Sono forse questo corpo che appare e scompare? Sono l'emozione di ieri,
quella di oggi o quella di domani? Oppure sono la mia inarrestabile immaginazione? E
poi chi é che se lo chiede? Il corpo, l'emozione e il pensiero, percezioni esterne e interne,
non essendo permanenti non possono essere reali.
Chi sono allora? Samkara risponde: L'atman é il solo permanente, mentre il visto é tutto
ciò che gli si sovrappone... (Samkara, Aparoksanubhuti (Autorealizzazione); quello stesso
atman é il sostrato della zolla di terra e del pezzo d'oro, nonché della stessa individualità.
Noi continuiamo a inseguire noi stessi (desiderio) e a rifiutare noi stessi (avversione). La
sadhana tocca tre momenti coscienziali della vita del discepolo: identificazione,
autoconsapevolezza, identità, corrispondenti a tre gradi di conoscenza.
Il primo si attua col venir meno del centro-coscienza psicologico, quando l'ahmkara,
riflesso del jivatman, si identifica col percepito. Qui la percezione ha per il percipiente un
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
valore di assolutezza. Una forma appare distinta dall'altra, la distanza tra esse sembra
incolmabile. A questo livello, dove un oggetto attrae e un altro no, non si può certo parlare
di equanimità ma solo di preferenza. Il secondo tipo di conoscenza si realizza quando la
coscienza rientra in se stessa, si ritrova cioè punto al centro. Da questa posizione
coscienziale distaccata, il moto attrattivo-repulsivo verso la forma cessa.
Lì l'equanimità é in relazione a ciò che si vede, qui é l'espressione di ciò che si é. La parola
equanime deriva da equus: di animo uguale, inalterabile, indifferente; termini, questi, che
si riferiscono alla coscienza, all'aspetto primario dell'essere. Equanime é colui il quale non
cambia, non si modifica coscenzialmente di fronte a niente. L'equanimità, o divina
indifferenza del Saggio, é l'espressione, sul piano del manifesto, di chi si é realizzato come
non-manifesto, come Uno-senza-secondo. Quale distinzione può dunque sussistere in
quello per il quale la dualità non esiste? Che cosa potrebbe percepire fuori dell'Unità, dal
momento che questa unità non lascia niente fuori di sé? Perché laddove vi é, per così dire,
dualità, laddove esiste un secondo, là uno vede l'altro, l'uno conosce l'altro; ma laddove
tutto questo (dualismo) si é risolto nell'atman, come potrebbe l'uno vedere l'altro e come
l'uno conoscere l'altro? (Brhadaranyaka Upanisad).
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
BENE E MALE.
Questo pianeta, in cui lo stato individuato umano esiste da svariate migliaia di anni, é
talmente intriso di male da far pensare a molti che il bene non debba proprio esistere.
L'ente planetario ha sempre sofferto, soffre e soffrirà per la potenza del male che lo
tortura, lo inebetisce e lo rende alienato.
Alcune dottrine considerano questo nostro pianeta, meglio, il suo stato coscienziale, scisso
dall'Armonia universale. E' una sfera di dolore perché in essa impera il senso dell'io, della
separatività e del non riconoscimento del proprio ruolo in seno alla natura. Fino a quando
gli individui non si soffermano un po' a meditare sul loro vero stato esistenziale, fino a
quando non prendono in considerazione la visione totale, integrale della propria
costituzione coscienziale non sarà possibile comprendere il male e tanto meno risolverlo e
trascenderlo.
Eppure tante personalità, di statura immensa, hanno cercato di far capire e persino dato
indicazioni per eliminare la condizione di indigenza, di povertà conoscitiva e spirituale.
L'uomo é arrivato a un tal punto di smarrimento da essersi appiattito e rassegnato a
vivere quella parte di sé che manifesta espressamente l'ignoranza e quindi il dubbio e la
confusione, con tutte le conseguenze del caso. Molti (e non solo la parte massa
dell'umanità) considerano l'ente come un semplice fenomeno corporeo che proviene dal
nulla e al nulla ritorna e la cui contingente apparizione non apporta altro che
contraddizioni, violenza e male. A volte si può persino pensare che il male sia diventato
un aspetto reale e ineluttabile al quale bisogna sottostare, fino a considerarlo parte
integrante e legittima del vivere quotidiano. Ciò rappresenta il totale annichilamento della
coscienza umana.
Sotto questa prospettiva il nichilismo é la visione madre dell'uomo, ma esso é la forma più
oscura, riduttiva e imprigionante che l'ente abbia proposto a se stesso e a gli altri.
Poniamoci alcune domande, evitando aprioristicamente un rifiuto ingiustificato, e
cerchiamo di rispondere prestando alcune vedute di estrema utilità che i nostri veri padri
e maestri ci hanno indicato come soluzione per comprendere e risolvere certe cose.
Qual'é la natura del male? Qual'é la sua origine? Il male é una realtà assoluta? All'esistente
é necessario il male? Per comprendere adeguatamente la natura del male é opportuno
comprendere prima la natura del bene. Il bene, come supremo accordo di sé con se stessi,
quindi con gli altri, é felice espressione del vivere a qualunque livello e grado, é quel bene
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
che comprende l'unità della vita, che riconosce la molteplicità come sviluppo dell'unità,
che riconduce tutti gli enti all'Ente supremo; é quello stato in cui si riconosce l'altro come
indivisibile dalla propria natura. Il bene é la condizione dell'aver compreso la totalità di se
stesso, é quella espansione di consapevolezza tale da lambire la circonferenza vitale. Il
bene é il fondamento unico e indivisibile del tutto esistente; e in colui che lo alberga,
essendo egli medesimo divenuto bene, non può né germogliare né attecchire il male.
Questo tipo di bene lo possiamo riferire alla sfera sovrarazionale, sovrasensibile e
universale nella sua più autentica accezione; mondo intellegibile, commensurato,
compiuto, sostanziato di armonia, come affermano i più grandi maestri o saggi del
passato e del presente.
Lo stesso termine diavolo, personificazione del male, deriva dal latino diàbolus e dal
greco diàbolos, parole che significano calunniare, maledire, essere ostile, proporre
discordia, quindi separazione da ciò che può unire. Il male non é l'opposto sostanziale del
bene, ma la degenerazione di una parte dell'ente che si é scissa dall'intelligibile fino a
costituirsi come realtà autonoma ed esclusiva. Il male non può essere una realtà assoluta
perché rappresenta solo un degrado; anche se rientra come possibilità si può dire che é un
accidente in termini ariatotelici. D'altra parte, non possono sussistere due assoluti: il bene
e il male. Una dualità assoluta non é concepibile anche perché é contraddittoria e i due si
annullerebbero reciprocamente.
La luce e la tenebra, come ogni dualità, non costituiscono due realtà essendo l'una la
mancanza dell'altra. Constatiamo anche che i vari mali degli enti, propaggini del male
originario, sono aleatori, modificabili e persino annullabili. Ma qual'é l'origine del male?
Se gli enti intellegibili esprimono accordo, pienezza, beatitudine, quindi perfetta
commensura tra sé e se stessi, e di conseguenza tra sé e il tutto esistente, vuol dire che in
un dato momento v'é stato uno scollamento, uno stacco, per cui si é operata una scissura e
l'ente si é costretto nella molteplicità opposizione-repulsione, nell'io e non-io, nella
generazione del corporeo distintivo.
Ma un ente, che é unità e pienezza, può mai diventare molteplicità e povertà? Si può mai
cambiare natura? Se la natura é lo stato permanente di una cosa, per cui essa é quella che é
e non può essere diversamente da ciò che é, allora l'ente, avendo la natura della pienezza-
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
beatitudine, non può trovarsi d'un tratto con una natura diversa o addirittura opposta. Se
il male-povertà-dispersione é nel mondo del sensibile e non in quello intellegibile (il
fenomeno non può non presupporre il noumeno, il composto il semplice e l'inferiore il
superiore) significa che l'ente intellegibile rimane identico a se stesso e quanto di esso si
trova nel sensibile e un suo riflesso, una sua ombra, una sua funzione, un suo specificarsi,
un raggio diffusivo e anche dispersivo che, pur partecipando del suo principio divino,
non é il vero ente nella sua pura essenza e realtà.
Qual'é mai la causa che ha reso le anime, le quali pur son parti staccate di lassù e
appartengono anzi completamente al mondo supremo, dimentiche del loro padre Iddio e
ignare di se stesse e di Lui? Ebbene, prima radice del male, per esse, fu la temerarietà, e
poi il nascere e l'alterità primitiva e la voglia di appartenere a se stesse. Cosa, ebbe,
visibilmente, di quella loro autodecisione, poi ch'ebbero fatto il più largo uso di quel loro
spontaneo movimento, dopo quella gran corsa sulla via contraria, distanziate che furono
pur sì gran tratto, finirono alfine per ignorare se stesse e la loro origine... (Plotino,
Enneade).
L'ente nel sogno può proiettare un'immagine di sé che, per quanto sostanziale, non é reale
assoluta, e quest'immagine credendosi realtà a se stante, scissa dalla sua fonte, é in
condizione alienata. Il mondo della precipitazione, del sensibile e del divenire, é un
mondo in cui l'immagine rovesciata del vero ente opera in opposizione alle altre
immagini. E' il mito della caverna di Platone.
Esso é l'intero. L'ente, quale realtà e unità, non può scindersi pere costituirsi altro da sé,
può comunque proiettare, per la sua facoltà creativa, un alter ego il quale non sarà altro
che un'apparenza, un'immagine che, per quanto consistente, non potrà essere reale,
perché di realtà ve n'è una sola.
Un reale non può produrre un niente, per cui il dato sensibile non é come le corna di una
lepre o il figlio di una donna sterile, secondo l'esempio di Samkara; ciò che esso può
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
manifestare può essere solo un fenomeno (da phainomai = io appaio). L'Essere, micro o
macrocosmico, é; la vita formale, secondo Parmenide, appare e scompare dall'orizzonte
noetico, e ciò é un'evidenza.
L'origine del male risiede in un atto proiettivo dell'ente reale, proiezione che determina
l'altrettanto apparente smembramento di sé. Plotino parla di temerarietà dell'anima di
uscire fuori di sé, come tendenza diffusiva, potenza attiva e dispersiva in reiterati riflessi
formali. Ma questo evento é una necessità, una inelluttabilità dell'ente? Se l'ente
intellegibile é totale pienezza é anche totale libertà, e in questa totale libertà esso può
offrirsi delle determinazioni; così ogni determinazione, essendo accidente, ha come causa
il non-determinato. La libertà non é un suo attributo, il quale può esserci e non esserci; é,
diremo, consustanziale all'ente ed essendo tale può tutto tranne che inficiare la natura
dell'ente, quindi di sé.
Noi riconosciamo che l'esistente sensibile umano può pensare-proiettare, può identificarsi
col pensato e può non identificarsi col pensato e può non identificarsi; può anche non
proiettare-pensare. L'ente ha la libertà anche di non essere, per quanto solo in apparenza
perché non può ovviamente cambiare natura. Il non-essere non é sostanziale quanto
l'essere, ma é la sua ombra, un suo fenomeno, un suo chiaroscuro, un suo miraggio che,
per l'ente di sogno, é sostanziale e reale quanto l'essere. L'ente non erra quando sceglie di
manifestarsi sui vari piani esistenziali, essendo questa una condizione accettabilissima, ma
sbaglia quando si identifica con i suoi prodotti, dimenticando se stesso come realtà. E'
sempre il mito di Narciso che ci illumina. D'altra parte, l'identificazione rientra nelle sue
possibilità e, inoltre, egli può riconoscersi in errore solo quando incomincia a prendere
consapevolezza del suo vero stato. Sembra paradossale che una tale identificazione, con
ideali, passioni, beni materiali, erudizione, vanità, ecc., possa portare l'uomo a delle
tragedie inaudite; eppure é così.
L'ente che sappia identificarsi dalla propria ombra, e quindi dai suoi prodotti, può
rimettere le ali e volare verso lo stato di pienezza. Così, l'evento proiettivo dell'ente non é
ineluttabile, non é una necessità; come il male stesso, non essendo assoluto, non é un
evento inevitabile. La libertà dell'ente intellegibile contempla necessariamente l'indefinita
possibilità di specificarsi ma anche di non specificarsi. La causa comunque della
differenzazione dev'essere attribuita all'ombra che si crede ciò che non é. Nel Vedanta si
parla di avidya, vale a dire, del disconoscimento di ciò che si é realmente; l'ente empirico,
o sensibile, crede di essere mortale, crede di essere un corpo, crede di essere il solo
esistente nell'universo, crede di essere questo o quello; tutto ciò rappresenta una semplice
credenza. In termini psicologici é l'io empirico che si considera un assoluto, una realtà in
quanto tale; ma l'io, con i suoi prodotti, é un fenomeno che si taglia sullo schermo del
noumeno, del nous; il suo consistere é un movimento, divenire, cambiamento continuo
fino a quando non si estingue completamente reintegrandosi nella sua fonte.
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
Le cose vengono rappresentate, non conosciute per quello che sono. Noi, quali composti
empirici, abbiamo la rappresentazione concettuale dell'albero, o di una qualunque forma
corporea, ma non abbiamo la conoscenza o, meglio, la consapevolezza dell'albero o di
altra forma. Tale conoscenza d'identità é pertinente al nuos. L'atto diffusivo dell'ente reale
é un fatto di ordine atemporale perché la sua potenza é atto; mentre gli eventi e le cose che
crea il riflesso vitale appartengono al tempo e allo spazio perché esso opera nel mondo dei
composti e perché esso si é foggiato di corpi composti per la propria sopravvivenza.
L'identificazione del riflesso coscienziale del composto, e non col Semplice (nous), é la
causa che promuove il male, l'oscurità, l'alienazione, l'io e il non-io. L'opposizione, la lotta,
la supremazia dell'uno sull'altro; e ciò può determinarsi proprio perché non si é. Chi é
pienezza-beatitudine e autosufficienza vive di moto proprio, del proprio essere, della
propria totalità. Chi é non si pone dei fini perché non deve raggiungere alcunché; é il
riflesso coscienziale che, non essendo, deve porseli per conseguire quel qualcosa che non
ha, di qui il divenire movimento affannoso dell'ente empirico; ma per quanto possa
divenire e muoversi verso, non potrà mai raggiungere alcuna mèta, anche perché le mete
sono indefinite. Andando nella direzione sbagliata, pressato da desideri e irrequietezze, é
in continuo peregrinare, senza alcun proposito reale. Ma come l'irraggiare dell'ente reale
non necessita, così l'identificazione del riflesso coscienziale con il composto non é
necessità: rientra solo nelle sue possibilità. Tutte le tradizioni filosofiche autenticamente
realizzative hanno come movente quello di ricondurre il riflesso incarnato alla sua fonte
metafisica la quale é la mèta, se di mèta si può parlare, più giusta e più naturale.
Parmenide, Platone, Plotino pongono comunque una realtà suprema che trascende non
solo la sfera del sensibile conflittuale, ma persino quella della bellezza che, con il suo
splendore, rende bello tutto l'intellegibile; questa realtà suprema e metafisica per
eccellenza (che trascende il male e lo stesso bene), su cui si fonda l'intero esistente, viene
denominata con vari nomi: bene sommo, uno-uno, essere in quanto é e non diviene, uno
metafisico (Plotino) e, per quanto riguarda il Vedanta shamkariano, brahman nirguna
(non qualificato), non-duale (advaita), ecc.
Tutti gli uomini, sin dalla nascita, fanno uso dei sensi prima che dell'intelletto e
incontrando dapprima, di necessità, le cose sensibili, gli uni, fermi in esse, trascorrono la
loro vita nella credenza che esse siano le prime e le ultime cose e sostengono che quanto
v'é in esse di doloroso o di piacevole sia rispettivamente il male e il bene: così pensano di
averne abbastanza, e passano la vita perseguendo l'uno e tenendo l'altro lontano dal loro
tetto. E chi tra loro s'atteggia a filosofo pretende persino che sia qui la sapienza!
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
Somiglian, costoro, a uccelli pesanti che hanno preso molto dalla terra e, appesantiti così,
non riescono a volare in alto, per quanto dotati di ali dalla natura. Altri si sollevano un po'
dalla bassura, poiché la parte più nobile dell'anima loro li sospinge dal piacere alla
bellezza; ma poiché non riescono a vedere le altezze, privi di altro sostegno cui
appoggiarsi, precipitano in basso insieme con la loro decantata virtù all'agire pratico, cioé
alla scelta tra le cose vili e basse donde prima avevan pur tentato di sollevarsi. V'é, infine,
una terza schiera: uomini divini di più forte vigore e di sguardo più acuto che san vedere,
come per una suprema intensità visiva, lo splendore superno, e s'innalzano fin lassù quasi
al di sopra delle nubi e della caligine terrena e ivi dimorano disdegnando le cose tutte del
mondo e deliziandosi di quel luogo, bene verace e avito, come un uomo che da tanto
vagabondaggio abbia fatto ritorno alla patria sua, retta da buone leggi.
(Plotino, Enneade).
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Raphael IL FUOCO DEI FILOSOFI
IL FUOCO DEI FILOSOFI.
Unica ut diximus est operatio, extra quam non est alia quae vera sit.
Non v'é che una sola operazione al di fuori della quale non ve n'é altra che sia vera. (M.
Sendivogius, De Sulphure. Tratto da: Brevi note sul cosmopolita.) E ancora: Vi é una sola
natura, ed é un'arte sola. (M. Sendivogius, Novum Iumen chemicum.).
Tutta la nostra operazione in quest'arte non é che di saper estrarre lo Zolfo dai metalli, per
mezzo del quale il nostro argento vivo si coagula in oro ed argento nelle viscere della
terra; il quale zolfo é qui preso per il maschio perché é tenuto per il più degno, ed il
mercurio per femmina. (De Sulphure).
L'artista non fa che separare il sottile dallo spesso, e metterlo nel congruo recipiente.
(Novum lumen chemicum).
La sola operazione che possa riguardare la filosofia ermetica é quella di: comprendere la
tripartizione dell'ente in zolfo, mercurio e sale; separare il mercurio dal sale e poi, fonderlo
con lo zolfo operando le nozze chimiche, oppure estrarre lo zolfo dal mercurio integrando
poi quest'ultimo sì che i due possano congiungersi, fondersi e diventare una cosa sola. Vi
é vera unione quando la regina si congiunge con il re ottenendo un corpo di gloria
immortale.
L'oro interrato nel recipiente tenebroso salino o terreo dev'essere estratto, ripulito con
l'acqua dei filosofi, e poi riportato al suo primevo splendore.
Il nostro recipiente non occorre cercarlo lontano perché é a portata di mano; anzi é molto
spesso e nasconde il nostro oro. La terra é contornata da nubi oscure che nascondono la
maestà del Sole; le nubi, sotto la pressione del fuoco, si trasformano in rugiada la quale,
precipitando, bagna e purifica la terra e fa splendere il sole, rendendolo manifesto. Se si
denuda la bella Diana si può vedere la terra insecchita, ma anche pronta per la
purificazione.
Scriveva Stefano di Alessandria: Bisogna spogliare la materia della sua qualità per arrivare
alla perfezione, perché lo scopo della filosofia é la dissoluzione dei corpi e la separazione
dell'anima dal corpo.
Secondo il Sendivogius é più facile liberare lo zolfo che trovarlo, essendo esso in un
oscuro carcere sotto il controllo di Saturno. Bisogna discendere nelle viscere di tale carcere
e rettificare per ottenere la pietra occulta. (De Sulphure).
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Il vapore aureo, con il regime del fuoco filosofico, si fissa contrariamente a quanto avviene
con i metalli che evaporano. L'operazione va iniziata d'inverno, progredisce lungo le
stagioni e si conclude in autunno. Al solstizio di Saturno il seme si apre perché il nero ha
mortificato a dovere la materia dei Savi, e l'Infante filosofico viene estratto. Occorre
ripetere che l'Umido radicale é imprigionato, come affermano Orfeo, Platone e il
Sendivogius, in un carcere dal quale, con le sole forze, non riesce a uscirne; ecco che
subentra l'arte dei Filosofi a farlo emergere. La natura va aiutata e assecondata. L'arte
prepara la rettificazione per mezzo del fuoco ermetico come si fa con alcuni spiriti per
mezzo del calore. E l'arte implica anche il saper usare il regime del fuoco.
Dunque, per prima cosa occorre accendere il fuoco filosofale, che si trova nell'oscuro antro
del Sal petrae, mediante il soffio del mantice; poi con operazione ben diretta, regime del
fuoco, congiungere Sole e Luna, o Re e Regina, in dolce amplesso in modo che nasca un
Figlio, più portentoso del Psdre-Madre, che può offrire, come un immenso albero, infiniti
frutti appetitosi, fra gli altri uno é quello dell'immortalità. L'operazione va condotta a
regime regolare e ritmico, senza porre violenza e senza fretta, così come opera la natura. Il
sole riscalda lentamente l'humus terreo, spacca il seme e fa uscire la pianta. Il lavoro é
facile o difficile secondo la maestria dell'Artista-filosofo.
FINE.
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