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Rudolf Allers
Se esiste un argomento trasversale e comune a tutte le correnti della psicologia, questo è il tema delle
emozioni. Ed è proprio sulle emozioni che la seconda tappa del percorso sulla vis cogitativa si
sofferma, con il lungo ed approfondito articolo The cognitive aspect of emotions, comparso per la
prima volta sulla rivista The Tomist nel 1942.
La modernità in cui viviamo dà grande importanza alle emozioni. Basta affacciarsi ad una delle
numerose produzioni mass-mediatiche per accorgersi che le canzoni mirano a "regalare emozioni", i
programmi televisivi devono "emozionare", fino alle lacrime, con storie struggenti ed esasperate, i
romanzi vengono costruiti al fine di suscitare "contraccolpi emotivi continui", come se dovessero
accompagnare i lettori sulle montagne russe, le news alimentano una sete ininterrotta di
"emozionalità", simile ad una ferita che necessita di una quantità di sale sempre più ampia per
raggiungere il livello di sensibilità, ecc. Le emozioni hanno di gran lunga soppiantato i temi storici
della ragione e della virtù. Sono diventate il nuovo punto focale della società, dei rapporti, della vita
psichica. Non sorprende, dunque, se i rapporti d'amicizia e d'amore si formano - e quindi si
"sformano" - sulla base di un sentire emotivo, invece che su di un giudizio di valore. Molti filosofi,
sociologi e psicologi, con sfumature diverse, hanno descritto tale fenomeno, come F. Botturi:
"L'esperienza e la concezione affettive contemporanee si concentrano così sempre più
nell'emozionale. Ma l'emozione è autoreferenziale, in essa l'alterità è presente solo come occasione
esterna, ed è istantanea, ripetitiva, intensiva. La situazione diviene preoccupante, quando tutta
l'affettività tende a risolversi in emozione e l'emozionalismo diviene una forma culturale
predominante" (Libertà in relazione, in Famiglia e Dico: una mutazione antropologica, I quaderni
della sussidiarietà, Fondazione per la sussidiarietà 2007, pag. 29).
C’è una grande divergenza di opinioni riguardo la natura e la definizione delle emozioni. Il
Wittenberg Symposium sui Sentimenti e le Emozioni, del 1928, elenca tante definizioni
quanti sono i partecipanti. E le cose non sono cambiate da allora. Quindi sembra
opportuno riassumere brevemente la concezione di emozione che soggiace alla presente
discussione.
Un'emozione è uno stato mentale di natura particolare attraverso cui un individuo risponde
alla presa di coscienza di una situazione piacevole o spiacevole, o a qualsiasi altro aspetto
di una situazione che implichi bontà o cattiveria. Questa risposta è dell’intero individuo,
mentale e corporale, non solamente della mente o della coscienza.
Quindi l’emozione presuppone la presa di coscienza dell’aspetto valoriale di una
situazione. Questa presa di coscienza può essere semplicemente l’apprensione sensoriale
come quella che si trova anche negli animali e che viene accreditata, dalla psicologia
tradizionale, alla vis estimativa, una potenza dei sensi interni. Tale presa di coscienza
sensoriale può verificarsi anche nell’uomo. Tuttavia di solito la consapevolezza del valore,
nell’uomo, è di un ordine superiore, vale a dire una apprensione intellettuale, fondata sulla
presa di coscienza sensoriale di un valore particolare in quanto incarnato nella situazione.
L’unica cosa che è indubitabilmente vera è che si ha una stretta relazione tra la
consapevolezza del valore e gli stati emotivi. Questa relazione è stata interpretata in modo
nuovo da due autori. Max Scheler, nel suo Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei
valori3 ha sostenuto una teoria della conoscenza emotiva dei valori. Alexius von Meinong
ha parlato di valori come “dignitativi” e come oggetto proprio di una particolare classe di
stati emozionali cognitivi. I valori sono, secondo questo filosofo, “presentati” alla coscienza
attraverso gli stati emozionali.4 Non è intenzione di chi scrive entrare all’interno di una
critica dettagliata di queste due teorie. Si farà menzione solamente a poche obiezioni, che
apparentemente non si incontrano in queste concezioni.
Per primo c’è il fatto di cui ha riferito G. E. Moore, il fatto che valutiamo non solo gli oggetti
ma anche i nostri sentimenti. Questa sottolineatura è stata diretta principalmente contro
coloro che rendono gli stati sentimentali, di piacere o di dispiacere, la vera base della
valutazione. Ma questa non si applica in modo diverso alle teorie della cognizione
emozionale del valore. In entrambi i casi porta ad un continuo retrocedere. In più, è
inconcepibile che uno stato sentimentale sia percepito da un sentimento di second’ordine.5
In secondo luogo, la prova di una semplice consapevolezza è evidentemente opposta alla
teoria della cognizione emozionale del valore. Ognuno, probabilmente, è a conoscenza di
casi in cui è cosciente di un valore, incarnato in un oggetto particolare, e ciononostante
non reagisce emotivamente. Possiamo perfettamente “vedere” il valore di un quadro, e
comunque non averne piacere, non perché, ad es., lo disapproviamo in quanto immorale o
qualcosa di simile, ma perché “ci lascia freddi”. E neppure è vero che un valore è
riconosciuto in un certo momento e non riconosciuto in un altro, benché le nostre reazioni
emotive possano presentare differenze considerevoli. Una sinfonia non diventa meno
bella, anche per la nostra mente, se non ci attrae nello stato d’animo in cui ci troviamo in
un momento particolare.
Mentre i filosofi e gli psicologi erano generalmente d’accordo che i sentimenti fossero
“meramente soggettivi” e denotassero solo una modificazione dell’io come risposta ad
alcune affezioni, un pensatore, che a quel tempo fu a malapena notato, ha sviluppato,
incidentalmente, una concezione davvero differente. Questa concezione fu elaborata né
con un’intenzione filosofica né con una psicologica. Quest’uomo, che aveva da offrire una
nuova interpretazione degli stati emozionali, non era interessato alle questioni filosofiche,
bensì a quelle religiose. Ma la sua era una capacità sconcertante di analisi psicologica,
eguagliata solo da un suo contemporaneo che era il suo opposto in altre cose. Il primo
autore è il teologo Danese Sören Kierkegaard; il suo opposto è Frederick Nietzsche.
Kierkegaard voleva mostrare come l’uomo potesse essere al meglio quando realizza
pienamente la sua situazione e si abbandona alla grazia divina. Nietzsche voleva “svelare”
le profondità della natura umana e mostrare l’uomo al suo peggio, sebbene desiderasse
anch’egli sollevare l’uomo dalla sua ignobiltà. Mentre Kierkegaard aveva concepito
l’ascesa dell’uomo dipendentemente dal riconoscimento dell’essenziale finitezza della
natura umana, Nietzsche sperava che l’uomo si sarebbe sollevato da se stesso grazie alla
sua forza propria. Mentre il primo proclamava, con un’assiduità ineguagliata, forse, dai
tempi dei Padri, che l’uomo è la creatura del Dio infinito, l’altro esclamava con forza, “Dio è
morto”, e vedeva in ogni religione l’espressione della codardia e del risentimento.
Benché Nietzsche fosse un acuto osservatore e benché anticipò molte delle intuizioni
psicologiche degli anni successivi, ciononostante si dimostrò meno abile a stimare le
profondità della natura umana di quanto fece Kierkegaard. La concezione di mente di
Nietzsche fu handicappata dal suo marcato punto di vista naturalistico, dalla sua
prospettiva biologista, dal suo entusiasmo per la scienza e per le idee evoluzionistiche. Di
conseguenza, non poteva non concepire le emozioni se non come un fenomeno valutabile
biologicamente, indicativo di salute o malattia, di forza o di debolezza, di potere o di
schiavitù. Le idee di Nietzsche, quindi, possono essere estromesse dall’attuale contesto.
Delle idee di Kierkegaard, invece, solo quelle che riguardano gli stati emozionali saranno
prese in considerazione. Kierkegaard, come è stato evidenziato, non era uno psicologo.
La sua penetrante analisi delle emozioni è semplicemente un anello della catena della
riflessione attraverso cui tenta di sviluppare un’antropologia filosofica, un’idea di uomo
basata certamente su principi filosofici, ma soprattutto sulla verità rivelata e sulla
testimonianza della coscienza. Kierkegaard è introspettivo al massimo grado, e lo è con
un successo inaspettato. La sua visione ha influenzato scrittori che sono molto lontani
dall’appassionata testimonianza religiosa di Kierkegaard.
Due emozioni hanno ricevuto un’attenzione particolare nei lavori di Kierkegaard: l’angoscia
e la disperazione. Riguardo alla prima ha scritto un trattato a parte, Il Concetto
dell’Angoscia, e la seconda è uno dei fondamenti del suo La Malattia Mortale. 6 L’autore
stesso definisce come “psicologici” questi due lavori. L’analisi di questi due stati che verrà
prodotta di seguito è largamente dovuta a Kierkegaard, ma anche ad alcuni autori che
hanno fatto dell’angoscia un oggetto speciale di studio e che dipendevano in molti modi
dalle idee del Danese. Sembra superfluo, quindi, riassumere il punto di vista di
Kierkegaard in dettaglio.
Non solamente gli psicopatologi e gli psicologi che erano interessati alle questioni della
psicologia scientifica o sperimentale non avrebbero potuto né voluto replicare, ma anche i
filosofi furono influenzati sia da Nietzsche che da Kierkegaard. Le idee del primo si
diffusero ampiamente. Esse non ci occuperanno qui. Le nozioni di Kierkegaard divennero
visibili nel lavoro filosofico di Martin Heidegger.8 Di questo lavoro saranno prese in
considerazione solo quelle parti che hanno a che fare con la natura ed il significato degli
stati emozionali. L’analisi più dettagliata di Heidegger è sull’angoscia. Qualcuno sottolinea
altre emozioni che si trovano incidentalmente.
Ciò che è minacciato e ciò per cui l’uomo trema, quando è nell’angoscia, è, secondo
Heidegger, l’ “essere nel-mondo”. Questo essere nel mondo è per questo filosofo il vero e
proprio modo di essere, l’esistenza dell’uomo è essere nel mondo. Questa interpretazione
particolare non sarà discussa per il momento. Però, è necessario interrogarsi sulla bontà
dell’analisi fenomenologica o descrittiva.
Heidegger ha una concezione veramente peculiare del das Nichts, il Nulla. È il niente e
ciononostante è forte abbastanza da minacciare l’annichilimento. C’è indubitabilmente una
relazione tra l’angoscia ed il Nulla. Ma a chi scrive appare di una modalità piuttosto
differente dall’interpretazione di Heidegger. Il Nulla non è ciò che minaccia
l’annichilimento, come crede Heidegger, ma il punto a cui l’uomo è guidato da un potere
infinitamente superiore al proprio, e dove l’annichilimento lo aspetta. L’angoscia ci fa
sentire “senza potere”. Ma questa nozione è senza senso di fronte al Nulla; possiede un
significato solo se ci troviamo di fronte a qualche potere superiore al nostro. Il Nulla non è
ciò che minaccia ma piuttosto il luogo dove siamo minacciati – se tale espressione mi è
permessa. L’angoscia rivela all’uomo la sua nullità.
Heidegger ha trascurato non poco questo aspetto, visto che ha dichiarato che
nell’angoscia l’uomo è messo di fronte alla sua finitudine. Ma la finitudine senza un infinito
non ha senso. L’infinito è, natura rei, il fondamento; il finito esiste solo a causa di e rispetto
all’infinito; è secondario. Che l’infinito sia “scoperto” solo a partire dal finito non comporta
alcuna differenza. Conosciamo molti esempi in cui ciò che viene prima nella natura
(natura) è successivo alla nostra conoscenza (quod nos). E neppure dovremmo essere
distratti dalla forma grammaticale della negazione. Il linguaggio possiede sempre un nome
negativo per ciò che è effettivamente positivo. “Innocenza” è uno degli esempi più spiccati.
Nel comprendere se stesso come essere finito, in quel momento l’uomo afferra l’infinito,
benché in modo vago ed inadeguato. L’infinito è ciò che minaccia l’annichilimento.
L’essere nella sua pienezza, l’, mette di fronte l’essere finito e contingente alla
necessità di realizzare la sua finitezza e contingenza.
Però l’uomo comprende la stretta relazione tra l’angoscia e l’attitudine alla ribellione.
L’essere finito, reso consapevole della sua finitezza, si rivolta e si impone in un non
serviam. (Qui possono essere trovate le ragioni dell’angoscia e della vanagloria sfrenata o
ambizione che sono al vertice dei disturbi chiamati nevrotici. Kierkegaard ha intuito
qualcosa di tutto questo, benché non fosse interessato primariamente alla psicopatologia).
L’angoscia, allora, dischiude alla persona che sperimenta questa emozione qualcosa della
natura sua propria o dell’uomo. Questa “conoscenza”, se si merita di essere chiamata in
questo modo nei suoi stadi iniziali, diviene vera conoscenza solo nella riflessione. La
riflessione, però, non è possibile mentre l’angoscia perdura, dal momento che questa
emozione paralizza tutte le attività. La consapevolezza della finitudine è comunque
presente; anche mentre l’angoscia continua l’uomo è conscio della sua contingenza e
finitudine, benché solo in un modo implicito e non-riflessivo. Colpisce che qualcosa del
genere sia adombrato nelle parole: “La paura del Signore è l’inizio della saggezza”.
L’ “origine” dell’angoscia è stata individuata, dagli autori che possiedono una visione
principalmente biologica, nel fatto della morte ed in tutte quelle situazioni che, comprese
consciamente o no, sono premonitrici della finitudine della vita. Ma sembra accordarsi
maggiormente ai fatti sostenere che l’angoscia della morte (il termine comune, “paura
della morte”, deve essere scartato perché la morte è essenzialmente ignota) è solo un
caso dell’angoscia generale che è collegata alla rivelazione della finitudine. Che la vita
finisca è solo un aspetto di questa finitudine.
“Essere nel mondo” significa anche “essere con altri” (Mitsein, come dice Heidegger).
Così, questo vince la solitudine dell’individuo, qualche volta così tanto che la persona
cessa di essere totalmente se stessa e si perde, inghiottita da “molti”. (Incidentalmente si
può notare che su questo punto non solo Heidegger è decisamente debitore verso
Kierkegaard, ma anche che esiste una curiosa somiglianza tra le idee di Kierkegaard-
Heidegger da una parte, e di Nietzsche dall’altra. Viene in mente l’espressione “troppi” di
quest’ultimo. Heidegger, per questo motivo, non è totalmente indipendente da Nietzsche).
In questo aspetto della finitudine umana c’è una caratteristica che Kierkegaard ha potuto
definire una inversione “dialettica”. Il fatto che, visto da un solo lato, deprime l’uomo
rivelando la sua finitudine, gli conferisce, visto da un’altra prospettiva, una sicurezza che
non avrebbe mai chiamato sua se fosse stato perfettamente isolato. È al livello di questa
consapevolezza – che, però, non ha bisogno di essere realizzata ed abitualmente non lo è
in modo esplicito – che si sviluppa la comunione con gli altri.
È una delle caratteristiche più spiccate nella filosofia di Heidegger il fatto che egli si
dilunghi spesso sull’aspetto tragico, o al meno su quello spiacevole, dell’esistenza umana,
e che non disponga di parole né sull’amore né sulla pietà né su qualsiasi altro della
“Sympathiegefȕhle” a cui Scheler ha rivolto così tanta attenzione e su cui ha emanato così
tanta luce.13 Ma se è vero che gli stati emotivi, benché il loro ruolo possa essere altro,
hanno la funzione di rivelare all’uomo, in un modo particolare, qualcosa della sua
posizione nell’ordine delle cose, il suo “stato ontico”, e, di conseguenza, della sua natura,
sarebbe estremamente improbabile che solo le emozioni negative, come l’angoscia o la
disperazione, fossero dotato di tale potere.
Per ripeterlo ancora una volta: quando la passione ha preso possesso della mente, tale
consapevolezza non sorge nella coscienza. Ma l’esperienza da cui la mente riflessiva può
elaborare e, così, estrarre un tale insight è reale nella situazione emozionale della rabbia.
Lo stesso è vero, rispettivamente, per tutte le altre emozioni se esse raggiungono una
certa intensità. Se esse non sono così intense da colmare la mente intera, espellendo ogni
ragionamento ed ogni riflessione, un simile insight può svilupparsi anche mentre
l’emozione perdura. D’altra parte, più profonda è l’emozione, maggiore è la chance che la
mente, retrospettivamente, divenga consapevole dei fatti rivelati.
Quando l’uomo realizza che è parte della realtà, ed allo stesso tempo che egli è unico
come individuo e come rappresentante della razionalità nel regno degli esseri, gli è
permesso sviluppare un’altra attitudine, davvero differente, nei confronti della realtà,
l’attitudine chiamata dell’amore. Questa parola è così ambigua che è estremamente
difficile avere a che fare con il suo oggetto. Primo, all’amore è stato attribuito un senso
così vago dal linguaggio comune che il suo vero significato è piuttosto confuso. Le
persone usano questa parola indiscriminatamente per riferirsi ad un semplice piacere,
come di un qualche cibo, e per le emozioni più alte che uniscono l’amico con l’amico,
l’amante con l’amato, l’uomo e Dio. Secondariamente, molte modalità di utilizzare questa
parola si fondano su di una denominatio a potiori. Questo è vero per l’Eros di Platone, così
come per l’amor in Tommaso d’Aquino. L’amor naturalis è amore solo per analogia.
Platone, però, ed ancor di più gli scrittori medievali, avevano in mente le forme più alte e
più pure dell’amore quando avevano attribuito a questo termine un senso così ampio. Nei
tempi moderni un tipo di amore, cioè l’amore che nasce tra i due sessi, è stato considerato
come il solo amore vero e primario, di cui tutte le altre forme di amore sono modificazioni o
derivazioni. Questa visione è sviluppata fino all’estremo nella psicoanalisi.
È vero che l’amore, in senso stretto e pieno, si può dire solamente nei confronti delle
persone. L’amore tra l’uomo e la donna, quindi, è vero amore. Ma da questo non segue
che questo particolare tipo di amore sia l’origine di tutte le altre tipologie. Questa falsa
interpretazione naturalistica è stata criticata da Scheler e da altri. Il vero amore si può dire
essere caratterizzato dalle seguenti caratteristiche: il vero amore desidera il bene più alto
per l’amato; di sua natura, quindi, non solo ha il desiderare, ma è necessitato a donare.
Altri tratti fondamentali sono riassunti nella frase contenuta nel capitolo De Caritate nel
trattato De Adhaerendo Deo.14 Questo passaggio recita: L’Amore porta l’amante fuori di se
e lo mette al posto dell’amato; e colui che ama è con la persona amata più che con se
stesso (Trahit enim amor amantem extra se et collocat eum in locum amati; et plus est qui
ama tubi amat quam ubi animat). Quindi, queste parole indicano la natura estatica del vero
amore, il suo movimento verso l’amato, e la sua tendenza ad unire se stessi con l’amato.
Non si può tentare qui una dettagliata analisi dell’amore. E neppure è intenzione di questo
articolo contribuire alla psicologia descrittiva degli stati emotivi. La loro descrizione è
d’interesse solo per quanto rende visibile in qualche modo l’ “aspetto cognitivo”.
Se l’angoscia in modo deciso rende l’uomo consapevole della sua nullità, della sua
finitudine e contingenza, l’amore lo rassicura del suo essere e del suo valore. L’amante
ama donare, e solo cos’ha valore può fare doni. “Bonum diffusivum sui” non solo
sottolinea una caratteristica della bontà; afferma anche l’unica fonte da cui ogni dono può
originare. Colui che può donare e i cui doni vengono apprezzati, è reso sicuro del suo
valore, e grazie a questo, a causa della convertibilità dell’essere e del valore, è anche reso
sicuro del suo vero essere. La nullità che, contrariamente a quello che Heidegger
pretende, non è fuori dall’uomo, ma all’interno, radicata nel suo essere, è vinta e, ovvero,
neutralizzata nell’amore.
Molto si può imparare su queste cose dall’osservazione dei bambini. Essi non hanno
niente di “reale” da donare; non sono in grado di fare grandi cose, non hanno molte
proprietà, e coloro che le hanno sanno che provengono dalle persone che amano e a cui
desiderano dimostrare il loro amore. Sentono un forte bisogno di tale dimostrazione, che è
più di una semplice dimostrazione. Molte delle emozioni umane, forse si potrebbe andare
oltre e dire molte delle performance della mente, raggiungono la piena completezza ed
effettività solo se vengono esternalizzate in un modo o in un altro. Ma se un bambino
acquisisce qualcosa da sé, qualcosa non datogli, ma, per esempio, trovato, lui lo porterà a
sua madre o suo padre e renderà l’oggetto un dono. Potrebbe essere un sasso colorato, o
qualsiasi altro oggetto insignificante. L’innata saggezza dell’amore ha insegnato ai genitori
di non rifiutare un dono simile e di non giudicarlo dal proprio punto di vista, ma di entrare
nello spirito del bambino, di ammirare quello che lui ammira, di elogiare quello che dona. È
un errore grave e qualche volta anche disastroso sbeffeggiare i doni infantili dei bambini.
Apprezzandoli, si dà al bambino una sicurezza rigenerata del suo valore personale.
Questa è necessaria tanto che, senza una tale sicurezza, il valore delle altre persone
rimane nascosta alla mente del bambino e, poi, dell’adulto.
Si dice che l’amore sia cieco. Le madri innamorate sono inconsapevoli anche dei più
grandi difetti dei loro figli. Un amante “idealizza” la persona amata così tanto da apparire ai
suoi occhi come il punto di paragone di tutto, per quanto mediocre ed insignificante, se
non peggio, possa apparire ad un esterno. La cecità dell’amore viene accusata di portare
a molte delusioni e disillusioni. L’aureola dell’amato sparisce spesso molto velocemente.
Matrimoni d’amore, riporta lo scettico Montaigne, finiscono in disastro molto più spesso dei
matrimoni di ragione. In quest’ultimo caso c’è una valutazione oggettiva dell’altro; si entra
nella vita matrimoniale con gli occhi aperti, non rapiti dalla passione e confidando in
un’immagine totalmente fantasmagorica, creata da se stessi.
L’amore vede un oggetto molto più chiaramente che l’occhio oggettivo e disinteressato
dell’osservatore casuale. L’amore scopre le potenzialità dell’amato. La sua illusione
spesso consiste nel prendere per attualizzato ciò che è ancora potenziale. E la sua colpa
è spesso che, a causa di questa illusione, dimentica il compito di battersi per il bene più
alto dell’amato, ossia, per la sua perfezione e, quindi, l’attualizzazione delle sue
potenzialità. Infatti, senza una qualche attitudine all’amore non si scoprirebbe mai il valore
delle persone o delle cose. L’amore stesso non è lo strumento della conoscenza degli
oggetti, e neppure dei valori personali, ma è, per così dire, il medium in cui tale
conoscenza diventa possibile. L’amore rende accessibile alla mente gli aspetti positivi
della realtà che altrimenti può rimanere completamente inconsapevole del bene, della
bellezza, e di tutti i tipi di valore. In modo simile, anche l’odio e le sue modificazioni,
l’invidia o la gelosia, rendono la vista acuta. A dispetto della sua volontà di sminuire, di
negare i valori nella persona invidiata, l’invidia è forzata con riluttanza a conoscere questi
valori. In effetti essa vive attraverso questo riconoscimento riluttante.
Mentre l’amore rivela all’uomo il proprio valore, lo rende anche consapevole dei suoi
obblighi nei confronti dei suoi compagni. La mera realizzazione intellettuale del ricambiare
gli altri e il fatto che l’attualizzazione delle potenzialità umane richiede soprattutto
l’influenza degli agenti umani e sociali non è sufficiente a produrre un vero senso di
obbligazione. Tale senso si sviluppa solo se c’è una concreta consapevolezza
dell’uguaglianza ontologica e della solidarietà morale dell’umanità. Per accettare il proprio
posto tra questa moltitudine uniforme, è necessario di nuovo essere sicuri del proprio
valore personale.
Sebbene il ruolo delle emozioni sia stato lungamente frainteso da coloro che enfatizzano
l’incoraggiamento delle reazioni emotive nell’educazione, essi hanno visto qualcosa di
vero. Senza una qualche emozionalità minima, la conoscenza rimane ampiamente scarsa.
Essendo sicuro del proprio valore, l’uomo può riconoscere i valori più alti dei propri, senza
apprendere questo come una minaccia al proprio valore ed alla propria esistenza. Senza
la capacità di amare, la vera ammirazione ed il rispetto difficilmente si sviluppano.
Entrambi questi stati emotivi sono risposte, ed allo stesso tempo sono le condizioni, per il
riconoscimento dei valori più alti.
La lista degli esempi non può prolungarsi all’infinito. Per quanto interessante e conclusiva
possa essere una lista completa delle emozioni ed una loro analisi rispetto a questa tesi,
ciò vorrebbe significare una precedente indagine di tutte le emozioni ed un tentativo di
raggrupparle secondo alcuni principi di base. Questo è possibile, ma rende necessaria
una discussione troppo lunga per essere posta qui. Si farà menzione, quindi, solo ad altre
due emozioni.
Un uomo può aiutare un altro senza provare compassione. Può agire così al di là di un
senso del dovere o di obbligo, o perché considera una tale azione in accordo alla propria
dignità – noblesse oblige – o perché la vista della sofferenza gli è dolorosa e vuole lui
stesso essere sollevato piuttosto che sollevare l’altro. La vera compassione probabilmente
è rara. Ma lo sono tutte le emozioni grandi e vere. Il termine “indole” è stato spesso
utilizzato nei confronti delle capacità emozionali. In accordo con questa idea, ci sono
persone che sono particolarmente dotate nel modo di reagire emozionalmente, come altre
lo sono rispetto ai risultati intellettuali, scientifici, artistici o politici. Infatti, le differenze
individuali che riguardano la reattività emozionale non sono per nulla inferiori, e forse sono
anche più marcate, di quelle che riguardano altre forze della mente. Le persone capaci di
vera compassione sono eccezioni.
Questo, però, non riduce l’importanza della compassione per una comprensione del posto
occupato dalle emozioni nell’esistenza umana. L’insensibilità emozionale di molti è una
piccola obiezione contro l’interpretazione delle emozioni che viene abbozzata qui, proprio
come l’incapacità di comprendere la matematica superiore o la speculazione astratta è un
argomento contro la classificazione di tali capacità tra le capacità della mente umana. Si
sospetta che l’insensibilità emozionale, per molti, non sia dovuta ad un’incapacità originale
ma piuttosto ad altri fattori, tra i quali giocano un ruolo preminente la paura di
conseguenze ulteriori e la preferenza per una vita indisturbata.
Senza dubbio, la compassione rende l’uomo consapevole della sorte generale del genere
umano. Mentre il terrore ed alcune altre emozioni rivelano all’uomo la sua finitudine
individuale, personale, la compassione fa che lui realizzi la finitudine del genere umano in
generale. Essendo molto più che una semplice considerazione ed un fremito per la
sofferenza di un’altra persona – che lascia l’uomo nell’isolamento – essa contribuisce alla
realizzazione della solidarietà del genere umano. Assicura l’individuo della sua
“appartenenza”. Egli concepisce se stesso come un membro della grande comunità del
genere umano. È rivelativo che le visioni che negano l’uguaglianza degli uomini inclinino
anche ad una svalutazione della compassione, che tali ideologie considerano come una
debolezza, un sentimentalismo, ed indegna per la “mente eroica”17.
La seconda emozione, i cui commenti chiudono questo breve sommario, merita particolare
attenzione. Il disgusto18 è provocato ogni volta che vediamo, o annusiamo, o gustiamo
alcune cose, eventualmente anche quando le tocchiamo, specialmente cose fredde e
viscide. È, però, discutibile se tutte queste reazioni, per quanto collegate, siano della
stessa natura. È possibile che debba essere fatta una distinzione tra il disgusto come vera
emozione e il tipo di impressione che noi chiamiamo nauseante.
Si può dubitare fortemente che gli oggetti disgustosi ricordino all'uomo la sua corruttibilità.
La situazione descritta spesso dai poeti e dagli scultori del tardo Medio Evo, e ritratta
anche in alcuni famosi dipinti del primo Rinascimento, dà espressione a questa idea: una
lapide che rappresenta un cadavere in decomposizione, serpenti e vermi che strisciano
fuori dalla cassa coperta solo da residui di carne, e l'iscrizione: “Così appaio, tu apparirai
uguale”; il Trionfo della morte al Campo Santo di Pisa, si dice essere un'opera di Traini,
che mostra delle persone, ben vestite, a cavallo, mentre tremano prima di una tomba
aperta e del suo contenuto; anche la leggenda di Buddha che fuggì i suoi guardiani e, la
prima volta che lasciò i confini del suo castello, incontrò un uomo malato, anziano, e un
cadavere, e così prese consapevolezza, da quest'unica esperienza, della futilità ed
incertezza delle cose terrestri.
Con alcune persone ogni cosa che ricorda loro del decadimento o della disintegrazione
assume la caratteristica del disgusto. Per loro, una persona malata, qualsiasi sia il suo
disturbo, è essenzialmente disgustosa. La materia in decadimento e il tutto che si
disintegra diventano senza senso. Chimici e medici sono stati spesso definiti privi della
reazione “naturale” del disgusto, poiché non esitano a impugnare oggetti che per altri sono
assolutamente disgustosi. In parte questo è certamente effetto dell’abitudine. Ma in parte è
anche dovuto al fatto che le cose disgustose non sono prive di senso per quegli studenti.
Non è la semplice insensibilità che può far parlare un medico di “un bel cancro”. Si è detto
che “una sostanza chimica fuori luogo è sporco, mentre lo sporco come quello di un
soggetto di una indagine chimica è una sostanza”. Qualcosa fuori posto è senza senso;
per quanto sia pieno di significato, poiché appartiene ad un tutto più grande, perde la
qualità della disgustosità.
Così l’esperienza del disgusto evidenzia all’uomo il valore della totalità. Lo fa, certamente,
per contrasto. Ma questo non è un fatto insolito. Noi apprezziamo l’innocenza
specialmente attraverso l’esperienza della colpa, la salute specialmente grazie
all’esperienza della malattia, e il possesso di molti beni specialmente quando e perché
siamo minacciati dal perderli o li abbiamo già persi.
Il disgusto riferisce delle possibilità del decadimento e del declino. Non è senza un
profondo significato che chiamiamo “disgustoso” il comportamento di un uomo che si
abbassa al di sotto del livello medio dell’umanità. Il dissoluto, l’ubriacone, il sudicione, ed
altri sono “disgustosi” perché pongono davanti ai nostri occhi una tale possibilità. Alcune
persone considerano disgustosi ogni specie di animale. Questa reazione si osserva anche
nei riguardi delle scimmie, quegli animali che paiono come una caricatura subumana della
natura umana. È anche importante che il limite di ciò che è qualificato come disgustoso
varia considerabilmente con gli individui e, specialmente, con il loro ceto o con le richieste
che fanno a se stessi ed agli altri. L’attitudine alla compostezza morale che così facilmente
degenera in fariseismo concepisce molte cose come disgustose che per un'altra mentalità
non sono così. Come avviene per le morali è così anche per altre cose. I concetti di pulizia
variano considerevolmente, e quello che per una persona è sufficientemente pulito è
disgustosamente sporco per un'altra. In questo atteggiamento l'aspetto positivo del
disgusto diviene evidente. La linea di confine che definisce ciò che è concepito come
disgustoso definisce anche, così per dire, il valore e la statura della persona.
La presente discussione sembra aver raggiunto il punto in cui diventa lecito un riassunto
preliminare. Non si pretende che la concezione delle emozioni avanzata qui definisca
l'emozione in ogni dettaglio. Bisogna ammettere che le emozioni hanno altre funzioni al di
là del rivelare all'uomo qualcosa del suo “stato ontico”. Ma si sostiene che questo aspetto
delle emozioni sia di enorme importanza.
La semplice esperienza delle emozioni non è equivalente ad una piena conoscenza del
loro significato ontologico. Tale conoscenza si sviluppa solo se la consapevolezza fornita
dagli stati emotivi si eleva, per così dire, al livello della riflessione. Rispetto a questa,
l'emozione è molto simile alla consapevolezza sensoriale. I semplici sensa non hanno
alcun significato; un sensum come tale è senza significato. Diventa significativo solo
quando viene sintetizzato con gli altri, ed anche con le memorie e, soprattutto, con le
nozioni intellettuali. Una cosa semplicemente sentita è solamente lì. Solo quando è
riconosciuta come tale acquista significato. Il riconoscimento in quanto tale significa di più,
nella vita umana, che la consapevolezza che qualcosa è già stato “visto prima”. Il
riconoscimento si esprime chiamando la cosa sentita “una” cosa di questa o quell'altra
natura. Anche se per la mente cosciente non è niente di più che “una cosa”, il suo “essere
qualcosa” è una nozione astratta. In modo simile, la “conoscenza emotiva” non fornisce
alla mente nessuna conoscenza definitiva fintanto che non si unisce alla riflessione.
La riflessione deve spostarsi su di una caratteristica degli stati emozionali che, pare, non
ha ancora trovato l'attenzione che merita. Il linguaggio comune spesso parla di emozioni
“profonde” o “superficiali”. Gli stessi termini, in verità, sono utilizzati anche in riferimento
all'intuito; ad una persona è attribuito un intuito più profondo in alcune questioni rispetto ad
un'altra. Parliamo inoltre di profondità e superficialità come attributi della personalità. Ma
sembra che la profondità sia una proprietà principalmente delle emozioni. Siamo
“profondamente” mossi. Profondo sembra avere differenti significati quando è applicato
alla conoscenza ed alle emozioni. La profondità della conoscenza si riferisce alla struttura
conoscibile delle cose. Ha una conoscenza più profonda chi conosce maggiormente il
rapporto tra il fatto considerato e gli altri fatti. Quanto più conosce le relazioni causali, circa
il significato del fenomeno e le interconnessioni, tanto più profonda sarà la conoscenza
che possiede. La profondità, quando viene attribuita alle emozioni, invece, non si riferisce
al mondo “oggettivo”, ma alla persona interessata dalle emozioni. La profondità non è uno
degli strati della realtà – o dell'ideazione, come potrebbe essere il caso del “non io” - ma
del soggetto stesso.19 Sembrerebbe che l'espressione “profondo”, quindi, sia
maggiormente appropriata quando applicata alle emozioni piuttosto che ad altre
esperienze. Un intuito o una conoscenza “più profonda”, nel senso comune, è, infatti, “più
ampia”, include un gran numero di relazioni tra termini differenti. È discutibile se l'uso di
“strato” e, in corrispondenza, di “profondo” nei riguardi degli oggetti di scienza sia
legittimo.20 Parlando ontologicamente, quello che è al di sotto della superficie è il regno
dell'essere sostanziale che, indiscutibilmente, è al di là della portata della scienza. C'è solo
un punto nell’intero campo dell'esperienza possibile dove la mente cosciente afferra la
sostanza stessa, benché tutt'altro che nel modo adeguato, e questo avviene
nell'esperienza di sé. L'auto esperienza non significa, in questo senso, introspezione, e
neppure un'analisi introspettiva diretta alle “funzioni” o agli “atti”. Benché questo tipo di
auto esperienza sia estremamente valida, molto più di quanto alcuni psicologi, accecati dai
loro ideali per la cosiddetta psicologia scientifica, siano disposti ad ammettere, essa non è
l'immediata consapevolezza del proprio essere. Il proprio essere rimane, per così dire,
ancora oltre o al di sotto degli atti conosciuti attraverso l'introspezione più accurata. È negli
stati emozionali “profondi” che la coscienza afferra qualcosa del proprio vero essere. 21
Nel recensire alcune delle attuali teorie sulle emozioni, quelle che pretendono di fornire
una “spiegazione” nei termini della biologia possono essere scartate. A questo proposito,
si è verificato solo un piccolo progresso da quando Callicles ha proposto la teoria del
piacere come una riparazione o una restaurazione dopo lo “vuotamento”. 22 E neppure
necessitano di essere considerate quelle concezioni che rendono le emozioni indici di
vantaggio o di svantaggio. Queste sono troppo antiche. Originariamente il riferimento era
ad uno stato di perfezione più alto (come in Spinoza: il Piacere è il passaggio dell'uomo da
una perfezione minore ad una superiore). Un'epoca che ha imparato a considerare le
semplici funzioni vitali come le uniche rilevanti ed è dominata dal materialismo è costretta,
ovviamente, a distorcere il senso originario.
Lo studio psicologico delle emozioni ha sofferto del pregiudizio generale che i “sentimenti”,
il piacere e il dolore, debbano essere considerati come i fenomeni più semplici e più
elementari e che le emozioni “più elevate” di conseguenza debbano essere analizzate da
tali sentimenti più qualche altro fattore. Questa concezione si basa sull'assunzione non
provata che i “sentimenti semplici” siano gli stessi in ogni circostanza, ossia, che esista
solo un tipo di piacevolezza o di dispiacere. Le ricerche recenti, però, hanno mostrato che
anche il “semplice” piacere può essere qualitativamente differente. Il piacere da
soddisfazione è di un'altra natura rispetto al piacere da funzione (come nell'attività di
gioco) o il piacere di creazione.26
Tuttavia, gli autori che hanno a che fare con le emozioni, nonostante le differenze
d’interpretazione, sono d'accordo su di un punto: le emozioni sono stati soggettivi, ossia
non hanno un rimando diretto al mondo oggettivo. Esse sono indici, per la coscienza, non
delle situazioni esterne, ma delle situazioni interne. Esse sono considerate come “stati” del
soggetto, o come le manifestazioni di tali stati alla coscienza. Esse non sono
gegenstandlich, ma zustandlich.27
La natura delle emozioni come modi del soggetto è riportata in vario modo a seconda della
concezione generale degli autori. L'introspezione, dice R. S. Woodworth, “rende
affascinante”, sebbene non evidente, la conclusione che i sentimenti siano atteggiamenti
reattivi dell'organismo.28 F. Krueger sostiene che le emozioni sono distinte da tutte le altre
modalità di esperienza ma sono in connessione con esse; esse sono “qualità complesse
della totalità dell'esperienza effettivamente esistente”.29 A. Willwoll appoggia Krueger,
come molti altri autori, ad esempio Stieler.30 Una caratteristica particolare enfatizzata da E.
Raitz de Prentz è la passività delle emozioni. Esse sono soggettive e sorgono in
conseguenza delle impressioni o delle situazioni senza alcuna attività da parte del
soggetto, come pure risposte.31 Bisogna ricordare il concetto di passiones animae, il cui
termine, come è noto, si riferisce in senso stretto agli stati emotivi, sebbene abbia anche
un significato generale. È vero che anche in un atteggiamento puramente recettivo la
mente è attiva in modo più spontaneo che nelle emozioni. La percezione comporta attività,
almeno per il fatto che c'è un girarsi verso l'oggetto, un'attenzione fissa su di esso, e così
via.
C'è, però, un'altra proprietà delle emozioni che, forse, è più caratteristica e ci permette di
penetrare maggiormente nella natura di questi stati mentali rispetto alla semplice passività.
Apparentemente gli psicologi hanno grandemente prestato attenzione a questa proprietà
dell'emozione, ma essa è stata portata allo scoperto da E. Husserl. Mentre ogni altro
fenomeno mentale, specialmente quelli della cognizione, presenta alla mente riflessiva
vari aspetti o lati, questa peculiarità è risultata mancante nelle emozioni. Husserl, per
descrivere gli aspetti mutevoli di altri fenomeni mentali, usa il termine abschatten, ossia,
essere differentemente colorato, o apparire in differenti tonalità. Niente del genere è
rintracciabile nelle emozioni. “Se guardo un'emozione, ho qualcosa di assoluto, non ha
facce che possano presentare se stesse come sono in un determinato momento e
diversamente in un altro. Posso pensare in modo vero o falso circa un'emozione, ma cosa
c'è prima dello sguardo è assolutamente nelle sue qualità, intensità, e così via”.32 E
neppure si può negare che in questo “assoluto” la mente sia consapevole di una modifica,
non tanto di se stessa, ma di ciò di cui la mente stessa è parte e manifestazione. Husserl
ha enfatizzato anche più vigorosamente di Cartesio la certezza dell’ego cogitans. In
questo senso si pone all’interno della grande tradizione che sorge dal scio me scire di
Sant’Agostino e conduce, senza interruzione, fino a Cartesio ed a tutti i filosofi da lui
influenzati. Si è trattato di qualcosa di più che semplice cortesia rivolta alle istituzioni
francesi, che lo hanno invitato, che ha fatto sì che Husserl chiamasse le sue lezioni di
Parigi Meditations Cartésiennes.33
Dal momento che le emozioni sono modificazioni dell’esperienza che l’io ha di se stesso,
esse sono, almeno in questo aspetto fondamentale, al di là della comprensione della
psicologia “scientifica”. Di conseguenza, l’attenta lettura dei libri di testo e delle riviste
piene di ricerche degli sperimentalisti si dimostra futile se il lettore sta cercando qualche
informazione sulla natura degli stati emozionali. Benché “oggettivi” e “scientifici”, gli
psicologi non possono aiutare a diventare consapevoli dell’esistenza e del ruolo delle
emozioni. Alcuni restringono le loro considerazioni alla manifestazione apparente delle
emozioni, ai cambiamenti corporei ed al comportamento; altri considerano la situazione
completa in cui l’organismo sviluppa una reazione emozionale. Alcuni si permettono anche
di inserire qualche dato dell’introspezione. Il risultato delle loro osservazioni ed idee si
riassume in questo modo: le emozioni sopraggiungono ogni qual volta l’organismo si trova
in una situazione che ha qualche influenza sul suo benessere. Le emozioni di minor
intensità si dimostrano di aiuto; se troppo intense esse possono diventare un ostacolo alla
reazione adeguata. Di media intensità esse rinforzano gli agenti del comportamento
appetitivo o comunicativo. Esse sono indici di “interesse”, di utilità o pericolosità, o,
nell’uomo, di ogni sorta di valore.
C’è qualche relazione tra l’interpretazione delle emozioni così come generalmente
accettata e le concezioni presentate nelle pagine precedenti a mo’ di tentativo? La risposta
dipende dall’idea che ci si può fare sulle situazioni in cui l’organismo, o piuttosto la
persona – dal momento che non sappiamo nulla degli stati emotivi negli animali, di cui
possiamo osservare solo il comportamento che assomiglia al nostro quando sperimentano
un’emozione – risponde attraverso un’emozione. In accordo con la tesi difesa qui, queste
situazioni devono essere di una natura tale da provocare una comprensione dello “stato
ontico” dell’uomo in generale e della persona individuale in particolare.
A tale riguardo è interessante che le emozioni si sviluppino con l’età, e che ci sia un
preciso parallelismo tra le capacità cognitive ed emotive. Questo significa che le emozioni
diventano più differenziate quanto più grande diviene la capacità di distinguere tra le
situazioni. Nei bambini appena nati e fino ad un’età di circa tre mesi si osserva solo uno
schema generale di eccitazione.34 All’età di tre mesi gli schemi reattivi di bisogno,
eccitazione, e piacere sono chiaramente distinguibili. Il bisogno distingue, attorno all’età di
sei mesi, il confine con gli altri corpi. La sensibilità somatica, dopo tutto, è uno dei risultati
dell’organizzazione sensoriale, e potrebbe ben essere che anche qui una specie sensibile
(species sensibilis) e l’intero processo della consapevolezza sensoriale entrino in gioco.
Infatti, possediamo un’immagine del nostro corpo, per quanto di solito non sia chiaramente
sviluppata. Ma essa soggiace a ogni nostra conoscenza riguardante le posture del corpo e
la localizzazione degli stimoli che toccano il corpo in qualche punto, e può essere
disturbata dai processi patologici.35
I fatti sono stati in qualche modo oscurati dalla proposizione Cartesiana, specialmente
dall’ergo. Questa parola implica che l’uomo sa di essere se stesso poiché pensa.
Apparentemente lo stato delle cose viene meglio descritto dicendo: cogito cogitationes
meas – io penso i miei pensieri. Infatti, ognuno dei nostri pensieri – o, genericamente
parlando, dei nostri stati mentali – viene direttamente e incontestabilmente caratterizzato
come “proprio”. Non c’è bisogno di riflessione su questo fatto; è originariamente ed
assolutamente evidente. Non c’è modo di dubitare anche “metodologicamente” che ogni
stato mentale osservato direttamente è il mio. La formula Agostiniana “so che sono io che
so” (scio me scire) traduce i fatti meglio della proposizione Cartesiana.36
Quello che Heidegger trascura è che oltre a questi cosiddetti “esistenziali” ci sono altre
determinazioni – o almeno una determinazione – che sono d’importanza fondamentale.
Forse non trascura questo fatto, ma lo spoglia, a causa del suo punto di vista generale, del
suo significato. Il fatto è che l’uomo è conscio del valore. Il termine conscio non deve
essere indebitamente accentuato. Non è la stessa consapevolezza con cui conosciamo,
ad esempio, un fatto tangibile o una verità pensabile. Si potrebbe parlare di “co
consapevolezza”, comparabile alla conoscenza dell’io, che nelle parole di Kant deve
accompagnarsi a tutti i nostri atti mentali. Questo io non è solo lì, non è solo essente, ma
anche essendo dotato di un preciso valore.
Il merito o il valore implicano una relazione. Questa non va intesa nel senso banale, e
falso, che il valore si riferisce ad una relazione che si ottiene tra un soggetto ed un
oggetto, come se le cose avessero un valore solo “per me”. La relazione a cui si allude qui
è quella che si ottiene tra i valori. Nessun valore viene appreso nel perfetto isolamento.
Ogni valutazione comporta un punto di vista sull’ordine complessivo dei valori.
È stato troppo poco riconosciuto che i nostri giudizi di valore e della loro importanza
poggiano su considerazioni differenti dalle molte altre che permettono ogni tipo di misura o
di classificazione. Le dimensioni sono giudicate mediante alcune unità con le quali in
paragone tali dimensioni sono maggiori o minori. Il termine “unità” non significa che in tutte
le stime ci riferiamo ad una unità nota e misurabile; ma la procedura di stima è dello
stesso tipo come se applicassimo un criterio di paragone. Nella valutazione, però,
procediamo in modo abbastanza differente. Nel senso comune la dimensione inizia da un
punto zero; la prima soglia oltre questo punto definisce l’unità. La valutazione non conosce
tale zero. Non c’è zero nella bontà morale o nella bellezza estetica. E neppure si può dire,
in modo significativo, che un valore morale o estetico sia così tante volte maggiore di
qualche altro valore. Le “misure” dei valori estetici attraverso fattori accidentali, come il
numero delle persone a cui piace l’oggetto preso in considerazione, o il prezzo pagato per
un dipinto, le copie vendute di un libro, e così via, non sono vere “misure” del valore
estetico.
Cosa intendiamo quando diciamo, ad es., che un dipinto di Tintoretto vale di più che uno di
Carracci, o che le commedie di Shakespeare sono “migliori” di quelle di Massinger? Molti
risponderanno che un tale modo di esprimersi indica semplicemente la soddisfazione
maggiore che deriva da una delle due cose sottoposte a paragone. Anche
un'osservazione superficiale è sufficiente per invalidare questa affermazione, nonostante
la sua incessante ripetizione da parte degli autori della notorietà. È un complimento al
senso estetico ed alla comprensione del pubblico se un'opera d'arte piace a molti, ma
piacere a molti non è necessariamente un criterio di arte. Se fosse così, la grandezza
dell'arte diventerebbe completamente relativa, così che ciò che era arte ieri non lo è più
oggi, ma potrebbe ritornare ad esserlo domani. La mancanza di senso di tale opinione è
ancora più evidente se rivolta ai valori morali.
Il giudizio sui valori poggia su di un processo davvero curioso che potrebbe essere definito
l' “apprezzamento che parte dal massimo”. L'uomo porta in se stesso, per qualche motivo,
una “idea” di valore assoluto, che rappresenta il massimo di ogni classe di valori, l'assoluta
bellezza, l'assoluta bontà. Definendo un dipinto davvero bello, non affermiamo che esso è
distante di così tante misure dallo zero della bellezza, ma che si avvicina più di tanti altri
alla “bellezza ideale”, benché non abbiamo avuto esperienza di questo ideale, e neppure
l'avremo, almeno non in questo mondo. Lo stesso è vero per la bontà.
L'auto valutazione implica, quindi, un'apprensione, benché imperfetta, del posto che
possiede l'individuo, in quanto incarna un preciso valore, nell'ordine dei valori, l'ordine
speciale “personale” e l'ordine dei valori in generale. Ma il valore non esiste in se stesso; è
il valore di un essente. Giudicando qualcosa noi assegniamo ad essa un posto non solo
nell'ordine dei valori ma anche nell'ordine dell'essere. È così che il nostro giudizio sulla
posizione ontologica di un essente si basa sulla valutazione o sul valore che noi
percepiamo come appartenente alla cosa piuttosto che sull'analisi comprensiva delle
proprietà della cosa. Siamo guidati in tale analisi dal valore che abbiamo appreso.
Queste valutazioni seguono le leggi loro proprie che sfidano, in un senso, il “razionale”,
ossia, ogni dimostrazione comparabile con i metodi della scienza. Ci sono principi evidenti
che non possono essere ridotti a principi più fondamentali. Così, l'ovvia superiorità delle
persone al di sopra delle cose è un principio evidente. Esso può essere correlato,
certamente, ai principi ontologici e metafisici. Ma se diciamo che, ad. es., la persona
umana possiede una dignità più grande di tutte le cose materiali, a causa della sua natura
razionale, siamo portati a chiederci quali siano i fondamenti della maggiore dignità della
natura razionale. E procedendo oltre, arriviamo alle considerazioni che sostengono il
valore maggiore di una sostanza semplice, spirituale ed immortale, o il valore maggiore
della cognizione degli universali, o il valore maggiore dell'auto-determinazione. Alla fine
dobbiamo ricorrere ai principi ultimi ed evidenti della valutazione. 39
Tuttavia, il fatto che la valutazione sia posteriore agli intuiti più fondamentali non comporta
il sostenere che il valore o la bontà antecedono l’essere o la verità. Sebbene una tale
opinione possa essere sostenuta, ed è stata sostenuta 40, non può essere dimostrata da un
semplice riferimento agli atti della mente umana o, se si preferisce, della persona umana.
La valutazione ed il suo oggetto proprio, il valore, possono essere antecedenti solo nei
riguardi di noi stessi.
Così, sembra che la valutazione sia al vertice di tutte le nostre posizioni nei confronti della
realtà, includendo il nostro sé.41
La valutazione, però, deve essere considerata come una vera operazione cognitiva; non
può essere collocata tra le potenze appetitive. È possibile, se si vuole, chiamarla
“precosciente”, sebbene sia probabilmente più corretto parlare di una cognizione pre-
riflessiva o non riflessa. Non c’è dubbio che la cognizione non riflessa, non solo dei valori,
occupi un posto importante nella vita umana. Una grande parte delle nostre prestazioni,
del nostro orientamento ai contesti, e simili tratti di condotta sono originariamente non
riflessi, o sono diventati così attraverso un’automatizzazione secondaria. Le impressioni
ricevute dai sensi sono immediatamente utilizzate per la regolazione del comportamento,
senza che siano fatti oggetto di riflessione.
Si deve distinguere tra “preconscio” e processi non riflessivi della mente. Gli eventi mentali
su cui la ragione non accende la sua luce non sono ancora, per questa ragione, “inconsci”
o “preconsci”. Il fallimento nel discriminare tra i vari livelli delle attività mentali –
specialmente il livello sensoriale e razionale – ha indotto molti ad estendere
irragionevolmente il campo dell' “inconscio”. Molte cose sono state chiamate con questo
nome che, in verità, non sono inconsce ma subrazionali, non “fuori” dalla coscienza, ma
semplicemente non pienamente realizzate, dal momento che tale realizzazione richiede la
riflessione e, quindi, un'operazione da parte delle facoltà razionali.
Il fatto di una consapevolezza o cognizione non riflessa implica una particolarità ulteriore
che può sollevare un'obiezione contro i punti di vista proposti. Le risposte emozionali non
sono solo “irrazionali” nel senso che sono indipendenti e antecedenti ad ogni controllo
intellettuale. Esse sono “irrazionali” anche nel senso di essere abbastanza spesso
irragionevoli, infondate, ed incontrano disapprovazione dagli altri tanto quanto da se
stessi.
Le emozioni non sono giudicate da standard loro propri. Un'azione è giudicata secondo i
principi che regolano l'azione in generale; è considerata giusta o sbagliata.
Un'affermazione è vera o falsa, secondo i principi dell'ordine del concreto o dell'astratto.
Un'emozione, però, è giustificata o non lo è. Essa non è né vera né falsa, né giusta né
sbagliata in se stessa. È “in armonia” con la situazione oggettiva, oppure no. Il tipo di
situazione non è un contenuto affermato dalla stessa emozione, ma è constatato da
un'analisi generalmente conseguente, realizzata dalle potenze cognitive. È sbagliato
sentirsi contenti a causa della sfortuna di un altro; ma la contentezza percepita come tale
non è sbagliata, e neppure è giusta. È sbagliata solo in date circostanze. È giustificato se
ci si sente afflitti a causa della perdita di una persona cara; non è giustificato essere tristi a
causa della perdita di un oggetto “amato”. L'afflizione stessa, però, non è giustificata né
ingiustificata. Così, le emozioni non conoscono nessun principio regolativo intrinseco.
Esse occupano il proprio posto in un ordine che non è esso stesso emozionale o
direttamente collegato all'emozione. L'ordine secondo cui le emozioni si ritiene che siano
giustificate o che non lo siano è l'ordine sia dei valori morali che di quelli estetici. 42
Non si può dubitare che le emozioni spesso sopraggiungano senza una situazione
oggettiva che fornisca una ragione sufficiente per un certo tipo di risposta emozionale o di
qualsiasi altro tipo. Questo fatto sembra rendere discutibile la visione proposta qui, ossia,
che l’uomo, nell’emozione, diventi consapevole del suo “stato ontico”. Se le emozioni sono
così frequentemente fuori luogo e non della giusta tipologia, esse non possono essere
considerate come una fonte affidabile di un qualche tipo di consapevolezza. Ancor di più,
le emozioni sono definite “meramente soggettive” per diverse ragioni, tra cui una deve
essere riportata in questo contesto. Alla stessa situazione oggettiva gli uomini rispondono
in modo molto differente. L’emozione come uno stato attraverso cui l’uomo diventa
consapevole del suo “stato ontico”, rivelerebbe differenti aspetti ad ogni individuo.
Primo, si deve essere attenti a non confondere l’” obiettività” di un processo cognitivo con
l’ “affidabilità”. Una prestazione cognitiva può essere attaccata da molti pericoli di errore, e
rivelare così, in certe condizioni, il vero stato delle cose e così essere “oggettiva”. Il fatto
che gli sbagli o che gli errori avvengano, in se stesso, non è un argomento decisivo contro
qualsiasi metodo o procedura.
Secondariamente, l’inaffidabilità delle emozioni, considerate nel loro aspetto cognitivo, può
non esistere del tutto. Non c’è bisogno di una stretta correlazione tra alcune situazioni
oggettivamente definite e delle emozioni ugualmente ben definite. Affinché l’uomo diventi
consapevole, per mezzo di uno stato emotivo, del suo “stato ontico”, l’unica condizione è
che ci siano le emozioni. Lo “stato ontico”, infatti, è antecedente ed indipendente da ogni
particolare situazione. Questo stato, di conseguenza, è immutabilmente lo stesso qualsiasi
sia la situazione. Anche un’emozione ingiustificata può rivelare questo stato. La potenza
rivelatrice, ad es., della vergogna, è la stessa se si prova vergogna perché si ha
commesso un peccato, o perché si è colpevoli di una rottura delle regole convenzionali.
Se o no la risposta emozionale particolare sia giustificata non abolisce il fatto che
un’emozione di questa o quell’altra natura sia stata esperita. Se abbiamo paura di un
pericolo reale o immaginario, la paura è in entrambi i casi la stessa esperienza. O, come
un famoso psichiatra una volta pose la questione: “Se sogni una tigre, la tigre è fittizia, ma
la paura è reale”. Noi possiamo amare una persona “indegna del nostro amore”. Ma quello
che l’amore ci può rivelare rispetto allo “stato ontico” dell’uomo può diventare evidente
qualunque sia la natura dell’amato e per quanto infondato il nostro atteggiamento possa
essere.
Ci sono altri atteggiamenti emotivi che, attraverso la loro vera natura, sono sempre ed
essenzialmente ingiustificati, come l’odio. L’odio, nel vero senso del termine, è diretto
contro le persone. Noi “odiamo” altri oggetti solo in un senso metaforico, o personificandoli
(come possiamo “odiare” un cavallo che è la causa di un incidente ad una persona
amata), o utilizzando la parola “odio” al posto del più corretto “detestare”. Il sentimento
d’odio può anche propagarsi da una persona odiata ad altre cose ad essa collegate,
proprio come l’amore rende preziose ed amabili cose che noi associamo con l’amato,
come segno del ricordo. Per quanto totalmente ingiustificate, queste emozioni possono
rivelare qualcosa dello “stato ontico” dell’uomo.
È abbastanza corretto parlare delle emozioni come stati “soggettivi”. Non hanno un diretto
riferimento agli oggetti che sono conosciuti dalle potenze cognitive. In realtà è necessario
ideare un termine particolare per designare l’ “oggetto” di cui gli stati emozionali mediano
la conoscenza.43
La soggettività delle emozioni, così, non può essere trasformata in un argomento contro la
funzione cognitiva prevista qui. Quello che è conosciuto non è che ciò che attraverso
l’emozione particolare è effettivamente rilasciato. Giustificata o no, l’emozione mantiene il
suo carattere e il suo riferimento ontico.
Un’altra obiezione, però, apparentemente porta un peso maggiore. Ci sono emozioni che
possono essere dette “spurie” e possono dirsi mancanti della caratteristica di uno stato
mentale “genuino”. La nozione di stati mentali genuini e non genuini è stata proposta da
W. Haas e A. Pfaender. Uno stato genuino è uno in cui la persona vive, ovvero, nella sua
totalità, mentre uno stato mentale non-genuino permette a vari “strati” di consapevolezza
di rimanere non integrati. Un uomo che ripone assiduamente tutta la sua attenzione al suo
lavoro, ma nella cui mente c’è un’ansia costante, per esempio, per il suo figlio malato a
casa, è in uno stato non genuino. Questo termine non connota un giudizio; è
semplicemente descrittivo. E neppure implica una differenza di “intensità”; un uomo può
essere maggiormente attento in un modo non genuino rispetto ad un altro che si trova in
uno stato genuino.
C’è tuttavia un certo tipo di emozioni non genuine in cui si perde la maggior parte
della loro vera natura. Quello a cui si è alluso potrebbe essere meglio esemplificato
dall’abitudine o attitudine della “sentimentalità”. Una persona sentimentale non solo
reagisce emozionalmente in un modo ingiustificato – ossia, fuori proporzione con l’evento
che scatena l’emozione – ma le sue emozioni sono percepite come frivole da un
osservatore, ed in qualche modo distorte, come se fossero alterate dalla loro direzione
originale ed appropriata da un agente segreto all’interno della mente di questa persona.
L’impressione di frivolezza, abbastanza curiosamente, può persistere nonostante una
grande esibizione delle manifestazioni emozionali. Questo è vero anche per certe
personalità anormali, solitamente qualificate come “isteriche”.
Le emozioni di una persona sentimentale non sono genuine perché questo tipo di persona
è così auto-centrato e così dedito alla continua contemplazione di se stesso –
frequentemente nella modalità dell’autocommiserazione – che non sarà mai capace di uno
stato di coscienza veramente integrato. Lo stato emozionale non si impadronirà mai di una
tale persona. Il suo modo di esperire le emozioni è parallelo al modo in cui alcune persone
apparentemente amano l’arte, la musica, o la poesia, laddove in verità l’unica cosa che
essi amano è la loro capacità di piacere. Esse sono, per metterla piuttosto crudamente,
continuamente in ammirazione di se stesse per la propria comprensione dell’arte, ecc. è
come se stessero continuamente dicendo a se stesse: “Come meravigliosamente io
apprezzo questo”. E così, sono focalizzate principalmente su se stesse e per nulla
sull’oggetto. Questo oggetto è per loro una semplice opportunità per mostrare, per lo più di
fronte all’audience della propria consapevolezza, la loro capacità di apprezzamento. La
persona sentimentale si comporta allo stesso modo. Basta ascoltare le sue ripetute
assicurazioni che la sua è una natura estremamente emotiva e sensibile per diventare
consapevoli del forte elemento di egocentrismo. Le reazioni emozionali di tali persone
sentimentali sono spesso inadeguate, fuori proporzione. Essi piangeranno lacrime amare,
ad esempio, a causa della sofferenza degli animali, si opporranno empaticamente e
irragionevolmente contro ogni tipo di esperimento eseguito sul “povero coniglio”, e
saranno totalmente impassibili per il fatto che ci sono bambini affamati, persone che
vivono nei bassifondi affollati.
Ognuno probabilmente conosce tali tipi. Essi colpiscono anche l’osservatore casuale in
quanto artificiali, non veri, come se fossero attori. Essi stessi, tuttavia, credono nella
profondità e nella genuinità delle loro emozioni. Se, però, queste emozioni non sono
realmente come essi credevano che fossero, possono esse rivelare a tali individui
qualcosa della loro posizione ontica? Si impone da sola una risposta negativa. Ma, allora,
come si può credere alle sue emozioni? Se la persona sentimentale illude se stessa,
ognuno può trovarsi nella stessa condizione. Egli può conoscere così poco quanto il
sentimento individuale conosce la realtà delle sue emozioni. Chiunque basandosi su
qualunque conoscenza che può raccogliere attraverso le sue esperienze emotive può
essere seriamente fuorviato e giungere a conclusioni che mancano di ogni validità
oggettiva. Di conseguenza, tutte le conclusioni tratte dall’esperienza emozionale non
possono essere certe, e devono essere scartate. A questo ragionamento si può
controbattere che la stessa distinzione evidenziata prima, si applica anche qui, vale a dire
quella tra oggettività ed affidabilità.
Secondariamente, bisogna ammettere che non ogni esperienza qualificata dal soggetto
come emozione profonda e genuina può essere accreditata di queste proprietà. Potrebbe
essere vero che non ci siano criteri sicuri attraverso cui un soggetto sarebbe in grado di
verificare la genuinità delle sue emozioni, sebbene ciò ammetta alcune restrizioni. Ma c’è il
fatto che le emozioni non-genuine e frivole siano riconosciute come tali dall’osservatore.
Certamente non da ogni osservatore, e forse da nessuno in alcuni casi. Il semplice fatto,
però, che una tale “diagnosi” sia del tutto possibile non ci deve far dubitare dell’asserzione
che nessun criterio affidabile possa essere trovato.
Uno di questi criteri consiste nell’effetto che l’emozione ha sulla totalità della vita e della
personalità di colui che sperimenta l’emozione. A titolo illustrativo è possibile riferirsi al ben
noto errore degli psichiatri naturalisti nel considerare come patologiche ogni tipo di visione
o di fenomeno estatico, semplicemente perché gli stati, apparentemente della stessa
natura, avvengono in persone mentalmente malate. Tuttavia, c’è un’enorme differenza. Lo
stato estatico di origine soprannaturale – o anche un’estasi naturale come accade a volte
agli artisti – esita in un innalzamento della vita, in un passo ulteriore in avanti e in alto nel
dispiegarsi della personalità, un arricchimento della mente. Lo stato patologico, invece, è
un sintomo di disintegrazione progressiva della personalità.44
In modo simile, le emozioni vere e genuine, anche quelle di natura depressiva, hanno, o
almeno possono avere, un’influenza positiva sulla personalità. Il dolore ed il cordoglio
spesso hanno accresciuto la comprensione dell’uomo di se stesso e della natura umana.
Ed anche le emozioni negative hanno tale influenza. La personalità sentimentale non
diventa più ricca, più profonda, più perfetta, indulgendo in emozioni non genuine.
Piuttosto, più a lungo questa abitudine persiste, più superficiale tale persona diventa.
Inoltre, gradualmente perde la capacità di un vero riconoscimento dei valori. Ogni cosa gli
appare come ugualmente importante, perché reagisce agli eventi più insignificanti con
quello che considera una profonda emozione. Così, non è in grado di reagire con
un’intensità maggiore quando emerge una ragione seria, poiché egli ha, per così dire,
speso la sua energia emozionale in troppe occasioni insignificanti. Egli ha deplorato così
tanto la perdita di un animale domestico che la sua reazione non può essere più forte
quando sua madre muore. Una tale degenerazione del senso dei valori non può che
diventare una tendenza verso un graduale impoverimento della personalità.
Le emozioni vere, pienamente sviluppate e genuine sono probabilmente tanto rare quanto
tutte le altre cose perfette. Non ogni persona è in grado di sperimentare l’emozione così
che la sua esperienza diventi una vera rivelazione dello “stato ontico”. Tuttavia, questo
non nega la capacità di una conoscenza tale a coloro che, per natura o per altre ragioni,
sono incapaci di emozioni profonde e genuine. Il fatto che una emozione non raggiunga
uno stadio perfetto, fraintendendo lo stato imperfetto per la cosa reale, non è un grande
ostacolo.45 L’uomo in qualche modo è consapevole del ruolo fondamentale giocato dalla
emozioni nella sua vita, e spesso ammette a se stesso, seppur difficilmente, di provare
vergogna nel perdere la più alta emozionalità. Egli può trasformare questo difetto in una
virtù e diventare uno stoico. O può chiudere i suoi occhi e convincere se stesso che le sue
esperienze emozionali molto imperfette sono tutto ciò che si può aspettare. Se, però,
realizza dove si trova, può ottenere la stessa conoscenza di chiunque sia capace delle
risposte emotive più intense e profonde.
Deve essere fatto un riferimento, in questo contesto, ad un punto toccato prima. Ogni tipo
di esperienza che esiste in differenti gradualità permette alla mente di concepire livelli non
attualmente sperimentati. (L’aspetto psicologico come quello ontologico della via
eminentiae merita uno studio più approfondito di quello che può essere svolto qui. Ma il
fatto è facilmente appurato, anche se la sua interpretazione, a livello ontologico e
psicologico, può presentare alcune difficoltà). Questa “estrapolazione” oltre il livello
attualmente sperimentato permette all’uomo di afferrare, se in un modo meno
impressionante, ma ancora adeguato, la vera natura dell’emozione che esperisce. L’unica
condizione – ma è difficile da adempiere – è che un uomo sia perfettamente onesto nei
riguardi di se stesso e che sia disposto a sottoporre le sue emozioni ad un esame così da
scoprire se siano genuine e giustificate, o mancanti di genuinità e collegate ad oggetti che
non giustificano il tipo di risposta. L’ostacolo più grande, certamente, è la vanità dell’uomo.
Questo è il caso più frequente, dal momento che l’emozione, essendo caratterizzata come
soggettiva e personale, sembra “appartenere” più alla persona in sé che alle idee, alle
immagini, ai concetti e a fenomeni simili, che sono collegati al mondo oggettivo. All'uomo
non piace riconoscere che è stato ingannato dalle apparenze, o portato all'errore nei suoi
giudizi; ma gli piace ancor meno riconoscere che i suoi “sentimenti” sono sbagliati.
Sembra giusto enfatizzare ancora una volta che lo stato emozionale non supplisce in se
stesso una vera conoscenza dello “stato ontico”. L'emozione è solo un medium attraverso
cui (l'id quo) una tale conoscenza diventa possibile. La conoscenza risulta da una
successiva riflessione sullo stato emozionale ed il suo “riferimento oggettivo”. Ci sono
analogie a questo nel campo della conoscenza sensoriale. Una semplice consapevolezza
dei sensa, o dei sensi che sono in qualche modo stimolati [affected, ndr], non equivale alla
cognizione.
Ad es., sebbene la minaccia da parte di una potenza infinita, l'imminenza o, almeno, il
possibile annientamento dell'essere contingente e finito sia “trasmessa” nell'emozione del
terrore, questa implicazione diventa un contenuto della consapevolezza solo attraverso la
riflessione. Quindi niente può essere più di errore che il rimuovere o anche solamente lo
svalutare l'importanza della ragione per l'uomo, che governa la sua vita e perfeziona la
sua personalità. Al contrario, la ragione rimane l'unica luce che guida che ci rende in grado
di vedere le cose come esse sono, la loro natura universale, e di concepire gli intenti e gli
obiettivi da raggiungere con la nostra volontà.
Un qualche dubbio potrebbe prevalere riguardo le origini della consapevolezza del valore
di sé. È poco probabile che un senso, anche uno dei sensi interni, sia in grado di rendere
la persona stessa un oggetto della cognizione. Tuttavia, questo problema non diverge in
alcun modo da quello della consapevolezza dell'esistenza individuale. 46
Una conoscenza dei valori attraverso gli stati emozionali, accreditandoli di “intenzionalità”,
è una finzione, forzata da alcuni filosofi e psicologi dalla loro incapacità di considerare
diversamente l'apprensione dei valori. Qui la nozione della vis cogitativa occupa un posto
importante che è lasciato vuoto dalle moderne concezioni psicologiche. Il fatto, però che le
emozioni come tali non siano l’id quo i valori sono conosciuti non impedisce loro
dall'esercitare un'enorme influenza sui nostri atteggiamenti nei confronti dei valori. C'è
un'influenza reciproca (che procede avanti ed indietro, così per dire) delle emozioni ed i
movimenti correlati degli appetiti sensitivi da una parte, e l'azione della vis cogitativa
dall'altra. L'aspetto del valore delle cose appreso da questa potenza rilascia un movimento
desiderativo, e l'emozione corrispondente, alternativamente, rende la facoltà cognitiva più
sensibile all'oggetto di valore. Sebbene i valori possano essere riconosciuti senza una
conseguente risposta emotiva, non c'è dubbio che questi valori siano appresi con maggior
chiarezza se una tale risposta ha luogo. Di questo fatto, una spiegazione potrebbe essere
data nei termini dei punti di vista suggeriti qui. Tuttavia, una discussione su questo punto è
meglio riservarla per un altro luogo.
Secondariamente, le emozioni agiscono sugli appetiti come fattori di rinforzo. Non è forse
possibile parlare in modo generico della priorità dell'emozione e dei movimenti degli
appetiti come fenomeni consci. Apparentemente, ci sono occasioni in cui la mente è
conscia prima di una emozione e quindi di qualche desiderio, che allora si dice essere
condizionato dallo stato emozionale; e ci sono occasioni in cui la sequenza sembra essere
opposta, il desiderio o brama47 sorge per primo, e l'emozione segue.
Le correnti deboli che arrivano nella parte ricevente dell'apparecchio (l'antenna) vengono
rinforzate così da poter causare delle vibrazioni udibili nella parte afferente, ad es.,
l'altoparlante. Le emozioni allo stesso modo sono difficilmente il motivo agente che
determina l'azione o il comportamento (con l'eccezione, certamente, delle forme
puramente espressive del comportamento). Le cause dell'azione sono i valori come
appresi nel mondo oggettivo o nel non-io. Ma questi valori, come appresi, di solido
possiedono una forza dinamica troppo piccola per rilasciare un qualche tipo di energia
d'azione. La loro efficacia deve essere resa più grande dall'intervento, o dall'inserimento,
delle emozioni. Questo è particolarmente vero dei valori che devono essere appresi come
qualcosa di più che una reazione ad una semplice piacevolezza.
Alcuni autori, tra cui M. Scheler e N. Hartmann meritano di essere menzionati, sostengono
che più alto sia un valore minore diventi la capacità di determinare il comportamento.
Questo è vero in senso descrittivo, ma non dice nulla, come questi filosofi sostengono,
sulla natura dei valori più alti, o per questa questione, su alcun valore. Infatti, per quanto
rari siano tali casi, sappiamo di persone a cui un valore come la verità teoretica attrae
tanto fortemente quanto i valori sensoriali attraggono la maggioranza delle personalità
comuni. Ancora rari, ma più numerosi dei casi riportati prima, sono coloro che reagiscono
con notevole intensità agli alti valori morali, persone per cui la sofferenza delle loro amate
creature “significa di più” che la più grande opera d’arte o il più intenso piacere sensoriale,
o anche la gratificazione della vanità.
Dal momento che le eccezioni non confermano, ma piuttosto invalidano ogni regola,
possiamo sicuramente sostenere che non c’è una regola che sostiene l’inutilità dei valori
più elevati. Non sono i valori più alti che sono inutili, è la persona umana che è
indifferente. Queste, ovviamente, sono affermazioni completamente differenti: l’efficacia
dei valori più alti è negata, non in modo assoluto, ma solo in alcuni casi (non simpliciter,
ma solo secundum quid).
Alcune persone che hanno sviluppato una comprensione particolarmente profonda dei
valori possono agire in accordo con questa sola comprensione, senza che intervenga
l’emozione. Ma questi sono casi eccezionali. La persona comune reagisce ai valori solo se
un’emozione corrispondente di forza sufficiente viene suscitata. Pertanto è davvero
desiderabile che le emozioni vengano considerate nell’educazione, ma è un errore
rendere lo sviluppo della vita emozionale come un traguardo dei provvedimenti educativi.
L’ultimo aspetto importante delle emozioni è senza dubbio quello che è stato considerato
fondamentale dai filosofi più o meno orientati in modo naturalistico, l’aspetto ossia che
connette l’emozione con lo stimolo o le situazioni che incoraggiano o mettono in pericolo la
vita. Questo può essere vero in alcuni casi, può essere vero in particolare per le bestie,
ma non è vero in modo assoluto e generale per l’uomo. Molti degli stati emozionali
dell’uomo non hanno un collegamento diretto con la conservazione o con il mantenimento
della vita. Una tale relazione deve essere costruita, e di solito è costruita sulla base delle
nozioni evoluzionistiche. Se una tale spiegazione funzioni o meno, non c’è bisogno che sia
indagato qui. Dal punto di vista della psicologia descrittiva, almeno, non vi è quasi alcuna
indicazione di una tale connessione.
L’uomo è in grado di raggiungere una visione del suo “stato ontico” anche attraverso il
semplice ragionamento senza che le emozioni necessariamente intervengano.
L’emozionalità di una consapevolezza immediata o sperimentale è, certamente, molto più
grande. In questo giace una parte dell’importanza che una vita emozionale ben sviluppata
ha per il dispiegarsi della personalità. La semplice emozione, un semplice abbandono
negli scompigli emozionali, senza che si aggiunga l’attività chiarificatrice dell’emozione, è
più dannosa che buona. Per quanto l’emozione possa essere importante, è ancora la luce
della ragione che si dimostra l’unica guida affidabile.
Le emozioni, come rivelatrici dello “stato ontico”, indicano principalmente la finitudine della
natura umana. Se quello che esse rivelano viene correttamente compreso, l’uomo diventa
più conscio della sua posizione come creatura, come essere finito e contingente. Allo
stesso tempo, è sollevato dall’idea depressiva che la conoscenza della finitudine, della
contingenza e dell’assoluta dipendenza può indurre. Egli quindi realizza che in nessun
luogo la sua posizione è stata meglio definita che nelle parole del Salmo Ottavo: “Cos’è
l’uomo?”. L’uomo è niente; egli non è degno che Dio si ricordi di lui. Eppure è stato fatto
poco meno degli angeli. La sua posizione è così alta nell’ordine degli esseri creati che
quasi raggiunge il livello della natura angelica.
Rudolf Otto, nel suo libro sul Sacro, parla dei vari aspetti della natura Divina: Dio come il
mysterium tremendum, il mysterium fascinosum, e così via. La speculazione razionale può
infatti condurci a simili concezioni. Ma noi trepidiamo non semplicemente perché
sappiamo che c’è una ragione per tremare, e non amiamo semplicemente perché
sappiamo che c’è una ragione per amare. La nostra fede può essere intellettualmente
perfetta, eppure essere “fredda”. La convinzione razionale può essere sufficiente alla
volontà per determinare se stessa nei confronti di un atto di fede e dell’obbedienza alla
legge divina. La ragione può anche convincerci della finitudine della nostra natura e
dell’esistenza di Dio. La ragione, così, può contribuire anche alla conversione. E la fede
necessita di non essere meno forte, la convinzione di non essere meno radicata, la
volontà di obbedire ai comandamenti non meno efficace, per ogni mancanza della risposta
emozionale. L’emozione non è una conditio sine qua non per la vita religiosa. Se così
fosse, non potrebbe essere garantita alcuna costanza ed alcuna continuità a questa vita,
dal momento che le emozioni dipendono da così tanti fattori al di là di ogni controllo della
volontà cosciente.
D'altra parte, una vita emozionale ben sviluppata può contribuire molto
all'approfondimento degli atteggiamenti religiosi. Non è vano, ad esempio, che il dono
delle lacrime sia elencato tra le grazie particolari accordate da Dio ad alcune persone
elette. E neppure non è senza profondo significato che i santi siano, comunemente
parlando, tanto grandi nei riguardi delle loro risposte emozionali quanto di altre azioni. La
gioia poetica di San Francesco di Assisi, l'originale brio di San Filippo Neri, l'amore
ardente per i poveri e per i sofferenti caratteristica così universale delle personalità dei
santi, come molti altri tratti noti nell'agiografia, necessitano solo di essere menzionati per
rendere evidente la stretta relazione tra una vita perfetta ed una capacità per una solida
risposta emozionale.
1 R. Allers, “The Vis Cogitativa and Evaluation,” The New Scholasticism, XV (1941), p. 195 (tr. It.
“La Vis Cogitativa e la valutazione” in Psicologia e Cattolicesimo, Giugno 2013, cfr.
http://www.psicologiacattolicesimo.blogspot.it/2013/06/la-vis-cogitativa-e-la-valutazione-di.html)
2 Per una critica della filosofia dei valori di Perry, cf. H. E. Cory, “Value, Beauty and Professor
Perry”, The Thomist, IV (1942), 1.
3 Halle a. S.: M. Niemeyer, 1916. Apparso prima nel Jahrbuch für Philosophie und
phaemomenologische Forschung di Husserl [in italiano, San Paolo, Milano 1996; oppure:
Bompiani, Milano 2013, con testo tedesco a fronte].
4 “Uber emotionale Praesentation,” Sitz. Ber. Wiener Akad. d. Wissensch. Phil. Kl. 1917.
6 Il concetto dell’angoscia, 2007, editore SE, Milano. La malattia mortale, 2008, editore SE,
Milano.
7 The Successful Error, New York, Sheed & Ward, 1940 (inedito in italiano).
8 Essere e Tempo, 1929, tr. It. Mondadori, Milano, 2011. Cos’è la metafisica?, 1929, tr. it. Adelphi,
Milano, 2001.
9 Heidegger è eccessivamente difficile da leggere, anche per chi ha una perfetta familiarità con la
lingua tedesca. Gli articoli pubblicati da W. H. Cerf, “An Approach to Heidegger”, e da W. H.
Werkmeister, “An Introduction to Heidegger’s Existential Philosophy”, Philosophy and
Phenomenological Research, I (1940), 177, and II (1941), 79, sono utili per una prima
comprensione.
11 Questa e molte delle seguenti citazioni riassumono brevemente uno studio maggiormente
dettagliato che il sottoscritto ha pubblicato anni fa. “Zur Phaenomenologie und Metaphysik der
Angst”, Religion und Seelenleben, VII (1932) 157-165. (Proc. of the Section of Psychology,
Deutscher Kathol. Akademikerverband).
12 Non è inutile osservare le espressioni utilizzare dai vari linguaggi per fatti così fondamentali
come la disperazione. Il latino, certamente, è la fonte della parola Inglese e Francese, ed anche di
quella Italiana o di qualsiasi altra lingua romanza. Il Greco possiede diversi termini, uno che
semplicemente significa “perdita di speranza”, ma due che forse sono particolarmente caratteristici
della mentalità Greca. Essi riferiscono infatti dell’incapacità di comprendere (), o
l’insolubilità della situazione (). Il termine Tedesco, però, è Verzweifelung, che implica la
nozione di doppio (zwei) e di dubbio (Zweifel), e così indica che nella disperazione non c’è alcuna
soluzione possibile, che ogni dubbio sull’esito è risolto, che il terribile evento o stato è divenuto
irrevocabilmente reale. Che questo sia un aspetto della disperazione non sfugge all’Aquinate, che
dice che la disperazione, eccedendo la misura della paura (mensura timoris), si verifica quando non
c’è chance che avvenga qualsiasi cambiamento. Ma la psicologia popolare, o la mentalità prevalente
delle persone, evidentemente ha percepito differenti caratteristiche specifiche un po’ qui ed un po’
lì.
13 Wesen und Formen der Sympathiegefühle, 2d ed. Bonn: Cohen, 1923 [tr. it. Essenze e forme
della simpatia, Città Nuova, Roma, 1980].
14 Riportata tra i lavori di S. Alberto, ma, nei fatti, come M. Grabmann ha dimostrato, di Giovanni
di Kastl, un Benedettino che scrisse alla fine del quattordicesimo secolo o nei primi anni del
quindicesimo. Mittelalterliches Geisteslaben, Vo. I. Munich: M. Heuber, 1926, pag. 489-525.
15 M. Scheler, op. cit., nota (12); R. Allers, Psychologie des Geschlechtslebens, Munich, Reinhardt,
1922, anche in: Handbuch der vergleichenden Psychologie, ed. G. Kafka, vol. III, ibid.
16 Sull’istinto si veda: K. Goldstein, The Organism, New York, Amer Book Co., 1939; e dello
stesso autore: Human Nature in the Light of Psychopathology, William James Lectures, Cambridge,
Mass. Harvard University Press, 1940. Inoltre Bierens de Haan, Der Instinkt, Leiden, 1940.
17 Per un’analisi completa e penetrante della compassione, si veda il lavoro di Max Scheler citato
nella nota (12).
18 Esistono pochi studi sul disgusto. L’articolo di G. Kafka: “Zur Psychologie des Ekels”, Zschr.
Ang. Psych., XXXIV (1929), 1, merita di essere menzionato, sebbene la teoria ivi proposta – ossia
che il disgusto sia ultimamente collegato e radicato nella sessualità – sia inaccettabile. Cf. J. Hirsch,
Ekel und Abscheu, ibid., 472.
19 È davvero necessario sottolineare che la profondità a cui ci si riferisce qui non ha nulla a che fare
con la profondità di cui “la psicologia del profondo” si vanta. La profondità di cui parla questa
psicologia, ad es. la psicoanalisi, è della stessa natura della profondità della conoscenza. Gli “strati”
che la psicoanalisi considera come la costruzione della personalità umana sono concepiti nei termini
della scienza e non dell'esperienza.
20 Si può essere d'accordo con la pretesa avanzata dal “Circolo di Vienna” in un pamphlet
programmatico che dichiara le intenzioni generali del gruppo: “La scienza”, essi scrivono, “non
conosce profondità; si mantiene decisamente alla superficie del fenomeno”. La scienza, nel senso
stretto in cui questo termine viene usato, può non essere certamente in grado di penetrare al di sotto
della “superficie”. Ma quest'affermazione ha un significato filosofico solo se prima si assume che la
conoscenza esiste solo grazie ed attraverso la scienza. Tale affermazione, però, non appartiene essa
stessa alla scienza ma alla filosofia. Un pensatore che rinnega alla scienza, giustamente, la capacità
di vedere al di sotto della superficie e allo stesso tempo sostiene che la scienza sia l'unica forma
legittima di conoscenza, commette un serio errore logico, e parla di cose di cui, secondo il suo
stesso principio, non può sapere nulla.
21 Questo spiega il perché così tante persone abbiano una precisa avversione per ogni tipo di
emozione profonda e si affannano per fuggire ogni situazione che potrebbe avere come esito una
modifica vera e profonda del loro essere. Esse sono mortalmente spaventate dall'incontrare se
stesse. Kierkegaard ha fatto alcune osservazioni veramente pertinenti anche su questo argomento. I
mezzi attraverso cui vengono evitate tali esperienze sono molteplici. Descriverli è il compito della
psicologia, o dell'antropologia. Quanto meno qualcuno è sicuro di essere una persona vera o di
possedere un vero valore, quanto più si sforzerà di sfuggire la “discesa verso l'inferno dell'auto
conoscenza”, per usare un'espressione con cui Kant ha dato il nome a quello che lui credeva fosse la
condizione necessaria per ogni ascesa verso una conoscenza superiore o forma di esistenza.
22 Gorgia, 494b; si veda anche Timeo, 64a 65b; Aristotele, Etica Nicomachea, VII, 14, 1154a25 ff.
Solo tali teorie si ritiene che abbiano una relazione con i particolari problemi in discussione.
24 Ad. es., H. R. Marshall, Pain, Pleasure, and Aesthetics, New York, 1984.
25 E. L. Thorndike, “A Pragmatic Substitute for Free Will”. Essays in Honor of W. James, New
York, 1908, pag. 588. La natura tautologica di questa “definizione” è stata sottolineata, ad esempio,
da H. Cason, “The Pleasure Pain Theory of Learning”, Psychologica Review, XXXIX (1932), 440.
26 Aver trascurato consistentemente questi fatti è uno degli errori più seri che compiono gli
psicoanalisti. Essi considerano il piacere da soddisfazione, come equivalente al raggiungimento di
uno scopo istintivo, l'unica forma di piacere. Cf. i commenti del sottoscritto su questo punto, The
Successful Error, New York, 1940, Sheed and Ward, p. 137.
27 Questa caratteristica può essere assente nei sentimenti semplici, specialmente di tipo sensoriale.
Ma le emozioni sono modi della persona, nonostante i loro riferimenti a fatti o situazioni og gettive.
30 A. Willwoll, Seele und Geist, Freiburg i. B., Herder, 1938, pag. 119; G. Stieler, “Die
Emotionen”, Arch. f. d. gesamte Psychologie, 1925, L, 343.
31 E. Raitz de Frents, “Bedeutung, Ursprung und Sein der Gefuhle”, Scholastik, 1927, II, 402.
35 Molti anni fa il sottoscritto ha descritto tali disturbi di “autotopognosia”. L’immagine del proprio
corpo, come una cornice di riferimento per la consapevolezza della nostra postura, ecc., è stata
chiamata, da altri, lo “schema corporeo”. R. Allers, “Uber Storungen der orientierung am eigenen
Korper”, Zentralblatt f. Nervenheilkunde, 1909.
37 Sembra possibile costruire, utilizzando questi ed altri criteri di valutazione, una dimostrazione
“assiologica” dell'esistenza di Dio. Tale tentativo è stato fatto da M. Scheler, Der Formalismus in
der Ethik und die materiale Wertethik, Halle a. S., Niemeyer, 1916. Le speculazioni di questo
filosofo, però, sono guastate dalla sua non comprensione delle idee di sommum bonum e di ens
realissimum. Egli infatti argomenta che la riflessione assiologica conduce alla nozione di sommum
bonum, mentre la speculazione metafisica termina con il concetto di ens realissimum, ma che non ci
sia un'evidenza convincente, da trovarsi nella ragione, per l'identità delle due nozioni. La mancanza
di chiarezza in questi punti spiega in qualche modo il perché Scheler, successivamente, sia giunto
alla concezione impossibile di un Dio in divenire; Die Stellung des Menschen im Kosmos,
Darmstadt, 1929, Reichel.
38 I fatti a cui si allude, per quanto il sottoscritto può verificare, sono stati sottolineati per primo da
J. Pikler in un numero di Schriften zur Anpassungtheorie des Empfindungsvorganges, specialmente
quello in cui si discute la legge di Weber, Leipzig, 1919-1929, Barth. Si veda anche Ch. Hartshorne,
Philosophy and Psychology of Sensation, Chicago, 1934, University of Chicago Press; J. P.
Ledvina, A Philosophy and Psychology of Sensation, with Special Reference to Vision, Washington,
D. C., 1941, Catholic University of America Press. Apparentemente senza essere influenzato dai
pochi psicologi che hanno tali punti di vista, D. W. Pratt ha sviluppato un’interpretazione simile
delle sensazioni, specialmente nel campo dell'udito. Si veda il suo Aesthetic Analysis, New York,
1936, Cromwell.
39 Questi principi ultimi non possono essere discussi qui. Sebbene si possa non essere d'accordo
con le affermazioni che compie in tutti i passaggi, i riferimenti di M. Scheler a riguardo, nel suo
grande lavoro sull'etica, meritano pienissima attenzione.
40 Le idee presentate in questo articolo hanno una certa somiglianza, come il sottoscritto ha
scoperto mentre stava ultimando il suo scritto, ai punti di vista di H. Guthrie, Introduction au
problème de l’histoire de la philosophie, Parigi, 1937, Alcan. La somiglianza, che il sottoscritto
percepisce, è più apparente che reale. Le concezioni ontologiche del Dot. Guthrie non possono
essere affrontate qui. Sarebbe necessaria un’attenta analisi per giungere ad una chiarezza sufficiente
nei riguardi della nozione del Dot. Guthrie di una priorità del valore in quanto posta contro quello
che lui chiama l’approccio matematico-logico in filosofia. Nel presente contesto, dobbiamo trattare
esclusivamente l’aspetto cognitivo delle emozioni e l’ontologia solamente per quanto alcuni
riferimenti alla metafisica possano aiutare a comprendere meglio le ragioni del perché gli stati
emozionali giochino un ruolo così importante nella piena comprensione della situazione “ontica”
dell’uomo.
42 I fatti riportati sopra costituiscono, come fra parentesi può essere sottolineato, un'obiezione che
non può incontrarsi in qualsiasi teoria che rende i valori, nella loro cognizione ed esistenza,
dipendenti dalle emozioni. Se fosse l'emozione stessa a costituire il valore, il fatto di una emozione
“ingiustificata” non potrebbe essere osservato.
Potrebbe essere che la gioia che una persona prova, eventualmente a causa della sconfitta del suo
nemico, differisca nel tipo di gioia che la stessa persona percepisce quando incontra il suo amato.
L'esistenza di una tale differenza qualitativa può essere ammessa in considerazione della stretta
correlazione tra le parti oggettive e soggettive nei fenomeni mentali. Ma questa non è la questione.
La questione è piuttosto se l'individuo, mentre fa esperienza di una tale gioia, sia consapevole della
differenza. Che questo non sia il caso lo si può supporre da molte osservazioni ed anche dalla
mancanza di un vocabolario corrispondente.
Il giudizio che altri, o eventualmente, il soggetto stesso può pronunciare su di una tale emozione
“ingiustificata” non si fonda su di un'altra emozione. Se ci sentiamo scontenti perché abbiamo
reagito in un modo ingiustificato, ci sentiamo in questo modo a causa del giudizio che abbiamo
formulato sul nostro comportamento. Ma il giudizio non si basa su di una seconda emozione.
Queste considerazioni, incidentalmente, hanno attinenza con la questione grandemente discussa del
ruolo delle emozioni e della loro educazione. Sviluppare l'emotività, o la capacità delle reazioni
emotive, fare attenzione alle emozioni del bambino, è giusto solo se, allo stesso tempo, si fa
attenzione che le emozioni sorgano in occasioni che giustifichino una tale reazione. Non ha senso
sviluppare, ad. es., una capacità di entusiasmo se la mente non è diretta verso le cose che meritano
entusiasmo.
Le reazioni estetiche senza un senso educato ed una comprensione della vera arte non hanno valore.
Dal momento che l'uomo facilmente reagisce in modo emozionale a situazioni che, per loro natura,
non giustificano una simile reazione, il controllo è tanto importante quanto lo sviluppo. Ci sono
molte occasioni in cui rimanere fermi è sbagliato. Ma ce ne sono probabilmente non di meno in cui
reagire in modo emotivo è ingiustificato, o che richiedono un altro tipo di risposta emotiva rispetto
a quella che una mente non educata è probabile che fornisca.
43 A. v. Meinong ha tentato di superare una simile difficoltà terminologica. Egli usa il nome di
“oggetto” per il correlato intenzionale della percezione, e il nome di “oggettivo” per il correlato dei
giudizi (das Objectiv). Agli stati orectici corrisponde il “desiderativo”, ed alle emozioni, come è
stato sottolineato prima, il “dignitativo”. Dal momento che la teoria della “presentazione emotiva”
dei valori sembra inaccettabile al sottoscritto, non gli è possibile adottare i termini di Meinong. Ma
il tentativo del filosofo Austriaco merita di essere ripetuto. Una buona quantità di incomprensione
probabilmente potrebbe essere evitata, se “oggetto” non fosse usato indiscriminatamente per le cose
sensate e per la relazione appresa intellettualisticamente, tra i termini (Sachverhalte), ed in molti
altri modi. Neppure l’ “esistenziale” di Heidegger può essere utilizzato, a causa delle connotazioni
particolari che questo termine possiede in quel sistema filosofico. La conoscenza mediata
dall’emozione, come interpretata qui, non si riferisce a “tratti” o “caratteristiche” dell’esistenza o
all’essere esistente in sé, ma al luogo che questo essere occupa nell’ordine delle cose in generale,
specialmente visto come l’ordine dei bona. Il sottoscritto ammette che i suoi tentativi di escogitare
un nome adatto hanno fallito.
44 Uno degli esempi più significativi di questa incapacità di apprezzare le cose non strettamente del
campo speciale dello psichiatra può essere trovata nel nuovo libro del Dot. G. Zilboorg, A History
of Medical Psychology, New York, 1942, Norton. Questo autore non esita a qualificare Socrate, tra
tutti gli uomini, uno schizofrenico perché “sentiva le voci”, la voce del suo daimonion. Fino ad ora
noi eravamo soliti vedere gli psichiatri naturalisti parlare degli stati nevrotici e psicotici dei santi;
ora i filosofi stanno subendo anch’essi la loro diagnosi. Tuttavia, deve essere evidenziato che non
tutti gli psichiatri, anche se sono lontani dal dire di credere in cose soprannaturali, commettono tali
errori stupidi e superficiali. Il famoso psichiatra Francese P. Janet, per esempio, ha riconosciuto che
nessuna personalità isterica può sviluppare il carattere e neppure essere responsabile dei risultati di
cui la vita di Santa Teresa di Gesù dà testimonianza.
46 Qualsiasi altra dettagliata discussione sull'origine della nostra conoscenza di noi stessi viene qui
esclusa. Una tale discussione significherebbe un'analisi completa dei molti fattori che sono stati
accreditati alla possibilità di fornire alla mente una tale conoscenza. La somesthesia principalmente
è stata riconosciuta responsabile, sebbene ci siano diverse ragioni che scoraggino una tale teoria.
Per le finalità previste in questo articolo è sufficiente sottolineare che una conoscenza del valore di
sé non è in alcun modo più misteriosa – che non significa che non ci sia alcun mistero coinvolto – di
una conoscenza della propria esistenza. Forse è un fatto definitivo, non suscettibile di ulteriori
analisi o delucidazioni, che l'uomo semplicemente conosca se stesso come esistente ed in possesso
di un indubbio valore. Il problema, allora, diventa non semplicemente come l'uomo conosce la sua
esistenza ed il suo valore, ma come giunge all'opinione sulla sua esistenza in quanto collegata ad
altri esseri esistenti, e sul suo valore in quanto paragonato all'ordine dei valori, specialmente dei
valori personali. Su quest'ultimo problema le discussioni delle pagine precedenti, il sottoscritto
azzarda a sperare, hanno gettato una qualche luce.
47 Sarebbe bene se la relazione del “desiderio” nel senso usuale della parola con il desiderium,
come elencato dall'Aquinate tra le passiones animae, potesse essere chiarificato. Ma anche questa
questione deve essere scartata a causa della lunga analisi che richiede.