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L'ASPETTO COGNITIVO DELLE EMOZIONI - Rudolf Allers

Rudolf Allers
Se esiste un argomento trasversale e comune a tutte le correnti della psicologia, questo è il tema delle
emozioni. Ed è proprio sulle emozioni che la seconda tappa del percorso sulla vis cogitativa si
sofferma, con il lungo ed approfondito articolo The cognitive aspect of emotions, comparso per la
prima volta sulla rivista The Tomist nel 1942.
La modernità in cui viviamo dà grande importanza alle emozioni. Basta affacciarsi ad una delle
numerose produzioni mass-mediatiche per accorgersi che le canzoni mirano a "regalare emozioni", i
programmi televisivi devono "emozionare", fino alle lacrime, con storie struggenti ed esasperate, i
romanzi vengono costruiti al fine di suscitare "contraccolpi emotivi continui", come se dovessero
accompagnare i lettori sulle montagne russe, le news alimentano una sete ininterrotta di
"emozionalità", simile ad una ferita che necessita di una quantità di sale sempre più ampia per
raggiungere il livello di sensibilità, ecc. Le emozioni hanno di gran lunga soppiantato i temi storici
della ragione e della virtù. Sono diventate il nuovo punto focale della società, dei rapporti, della vita
psichica. Non sorprende, dunque, se i rapporti d'amicizia e d'amore si formano - e quindi si
"sformano" - sulla base di un sentire emotivo, invece che su di un giudizio di valore. Molti filosofi,
sociologi e psicologi, con sfumature diverse, hanno descritto tale fenomeno, come F. Botturi:
"L'esperienza e la concezione affettive contemporanee si concentrano così sempre più
nell'emozionale. Ma l'emozione è autoreferenziale, in essa l'alterità è presente solo come occasione
esterna, ed è istantanea, ripetitiva, intensiva. La situazione diviene preoccupante, quando tutta
l'affettività tende a risolversi in emozione e l'emozionalismo diviene una forma culturale
predominante" (Libertà in relazione, in Famiglia e Dico: una mutazione antropologica, I quaderni
della sussidiarietà, Fondazione per la sussidiarietà 2007, pag. 29).

In psicologia un punto di svolta particolarmente importante è avvenuto con la pubblicazione delle


teorie di Antonio Damasio. Il celebre neuroscienziato di origini portoghesi ha utilizzato con
intelligenza i dati provenienti dalla ricerca clinica e sperimentale per dimostrare che le emozioni
svolgono un ruolo importante anche nei processi cognitivi, come quelli implicati nelle decisioni.
Damasio ha condotto una campagna contro la filosofia cartesiana che separa nettamente la res
cogitans, ossia il pensiero, dalla res extensa, ossia la materia, di cui fanno parte anche le emozioni in
quanto risposte dell'organismo. Le emozioni, però, sono la prova che una separazione netta tra le due
realtà non è veritiera: esse hanno a che fare e con il corpo e con le componenti cognitive. Damasio ha
così sdoganato un dogma razionalista, di tipo illuminista, che intendeva la ragione come "pura" in
quanto opposta alla corporeità. Vi sono accenni platonici in questa concezione. Purtroppo, la bontà
della critica all'errore di Cartesio si ferma qui. Damasio, infatti, viene portato in fallo dalla stessa
filosofia che aveva contrastato: l'abolizione del dualismo, sia in campo metafisico che antropologico,
lo conduce ad abbracciare il monismo, ossia il materialismo. Cartesio non negava l'esistenza di una
realtà non-materiale, ossia spirituale (res cogitans). La poneva erroneamente in contrasto con la realtà
corporea (res extensa). Il materialismo, invece, vuole spiegare la realtà spirituale come emanazione
della realtà materiale. Dall'illuminismo razionalista si passa al positivismo scientista. Il passo è breve.
Gli effetti di questa concezione metafisica non tardano a creare guai sul piano antropologico: le
emozioni vengono innalzate al pari delle potenze cognitive, creando non poca confusione sul ruolo
che esse svolgono nello sviluppo e nelle dimensioni propriamente razionali, come il giudizio.
Damasio contribuisce così alla confusione generale, diventando persino un'icona dell'emozionalismo
e di una falsa rappresentazione antropologica.
Eppure, ottocento anni prima di Damasio, quattrocento prima di Spinoza e più di trecento prima di
Cartesio, Tommaso d'Aquino aveva definito l'uomo come un sinolo: un composto di anima e corpo.
L'unitarietà del composto e la stretta interrelazione delle sue componenti erano state descritte con
accuratezza ben prima dei tentativi contemporanei. Ed è su queste basi che si fonda il contributo
allersiano, il quale costituisce un punto d'incontro e di giudizio tra la filosofia tomista e la psicologia
contemporanea. Sul piano antropologico è la vis cogitativa la potenza che "entra in gioco" nelle
risposte emozionali. Esse nascondono un giudizio di valore - ossia una valutazione - della situazione.
Sulla base di questa valutazione Allers dimostra che le emozioni possono essere la strada, in alcuni
casi, per il riconoscimento dello "stato ontico", ossia della posizione che l'individuo occupa
nell'ordine della realtà.
L'articolo inizia con una descrizione dettagliata ed approfondita di alcune emozioni e del modo con
cui esse svelano la posizione dell'uomo nel reale. Nella seconda parte l'analisi procede con svariati
approfondimenti, tra cui una importante precisazione sul ruolo che la vis cogitativa svolge nel quadro
generale dell'antropologia così come delineata dalla filosofia tomista. Un'antropologia filosofica che
dovrebbe essere insegnata nelle facoltà di psicologia in quanto fondamento sicuro anche per le
scoperte scientifiche più recenti.
L’aspetto cognitivo delle emozioni
La psicologia tradizionale considera gli stati emotivi come i riflessi consci, per così dire, dei
moti degli appetiti sensitivi. Ogni volta che un valore, incarnato in qualche oggetto
particolare, viene appreso dalla potenza cogitativa (vis cogitativa) e consegue un
corrispondente moto dell’appetito, si ha nella coscienza una delle passioni dell’anima
(passiones animae), che varia a seconda della relazione oggettiva tra il bene e la persona.
Forse è stato troppo poco sottolineato che questa psicologia prende in considerazione non
solo il lato soggettivo, ma anche la situazione totale in cui si trova la persona. In questo
senso, la psicologia Tomista è veramente “moderna”. È solo di recente che la psicologia
ha scoperto che questa dipendenza degli stati mentali e di tutto il comportamento si regola
sulla situazione generale.

Nella psicologia tradizionale, la percezione del movente, il bene o il male, in quanto


incarnato in alcuni oggetti, è raggiunta dal quarto senso interno, la potenza cogitativa (vis
cogitativa).1 La cognizione della bontà o della cattiveria dell’oggetto, dell’evento o della
situazione, precede il moto dell’appetito e, quindi, la consapevolezza di uno stato
emozionale. Benché lontana, la vecchia concezione concorda con alcune recenti teorie.
Tuttavia, mentre queste teorie concepiscono le emozioni come un semplice
rispecchiamento di un insieme di circostanze biologicamente rilevanti oppure – come
sostiene la famosa teoria di James-Langi-Sergi – considerano le emozioni come la
consapevolezza dei cambiamenti corporei, mossi da forze biologiche scatenate dalle
circostanze ambientali, la tradizione Scolastica dissente. Un fattore cognitivo deve entrare
in gioco. Per gli appetiti, ed anche per i loro effetti emozionali, è valida l’affermazione
secondo cui niente può essere voluto tranne quello che è precedentemente noto.
Rimpiazzate “voluto” con “cercato” e l’affermazione si applica agli appetiti tanto quanto alla
volontà razionale.

C’è una grande divergenza di opinioni riguardo la natura e la definizione delle emozioni. Il
Wittenberg Symposium sui Sentimenti e le Emozioni, del 1928, elenca tante definizioni
quanti sono i partecipanti. E le cose non sono cambiate da allora. Quindi sembra
opportuno riassumere brevemente la concezione di emozione che soggiace alla presente
discussione.

Un'emozione è uno stato mentale di natura particolare attraverso cui un individuo risponde
alla presa di coscienza di una situazione piacevole o spiacevole, o a qualsiasi altro aspetto
di una situazione che implichi bontà o cattiveria. Questa risposta è dell’intero individuo,
mentale e corporale, non solamente della mente o della coscienza.
Quindi l’emozione presuppone la presa di coscienza dell’aspetto valoriale di una
situazione. Questa presa di coscienza può essere semplicemente l’apprensione sensoriale
come quella che si trova anche negli animali e che viene accreditata, dalla psicologia
tradizionale, alla vis estimativa, una potenza dei sensi interni. Tale presa di coscienza
sensoriale può verificarsi anche nell’uomo. Tuttavia di solito la consapevolezza del valore,
nell’uomo, è di un ordine superiore, vale a dire una apprensione intellettuale, fondata sulla
presa di coscienza sensoriale di un valore particolare in quanto incarnato nella situazione.

Le associazioni corporali associate alle emozioni diventano in parte consce e colorano la


coscienza emozionale. L’emozione può essere descritta come la coscienza di un
cambiamento “che colpisce” l’intera persona. Si riferisce agli oggetti come cause, non nel
modo della cognizione e neppure in quello dell’appetito.

Al contrario di alcune idee moderne, la psicologia tradizionale non attribuisce all’emozione


alcuna potenza cognitiva. Non è neanche la base della valutazione. Né l’ “interesse” né il
“piacere” costituiscono la consapevolezza di un valore o della bontà. Una cosa è d’
“interesse” perché è buona, o cattiva; non diviene bella o brutta perché la persona è
interessata ad essa. La filosofia dei valori, come concepita da R. B. Perry, 2 è piuttosto un
capovolgimento del vero stato delle cose, come la teoria di James è piuttosto un
capovolgimento riguardo la relazione tra emozione e cambiamenti corporali. Il professor
Perry è rimasto fedele allo spirito del suo maestro.

L’unica cosa che è indubitabilmente vera è che si ha una stretta relazione tra la
consapevolezza del valore e gli stati emotivi. Questa relazione è stata interpretata in modo
nuovo da due autori. Max Scheler, nel suo Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei
valori3 ha sostenuto una teoria della conoscenza emotiva dei valori. Alexius von Meinong
ha parlato di valori come “dignitativi” e come oggetto proprio di una particolare classe di
stati emozionali cognitivi. I valori sono, secondo questo filosofo, “presentati” alla coscienza
attraverso gli stati emozionali.4 Non è intenzione di chi scrive entrare all’interno di una
critica dettagliata di queste due teorie. Si farà menzione solamente a poche obiezioni, che
apparentemente non si incontrano in queste concezioni.

Per primo c’è il fatto di cui ha riferito G. E. Moore, il fatto che valutiamo non solo gli oggetti
ma anche i nostri sentimenti. Questa sottolineatura è stata diretta principalmente contro
coloro che rendono gli stati sentimentali, di piacere o di dispiacere, la vera base della
valutazione. Ma questa non si applica in modo diverso alle teorie della cognizione
emozionale del valore. In entrambi i casi porta ad un continuo retrocedere. In più, è
inconcepibile che uno stato sentimentale sia percepito da un sentimento di second’ordine.5
In secondo luogo, la prova di una semplice consapevolezza è evidentemente opposta alla
teoria della cognizione emozionale del valore. Ognuno, probabilmente, è a conoscenza di
casi in cui è cosciente di un valore, incarnato in un oggetto particolare, e ciononostante
non reagisce emotivamente. Possiamo perfettamente “vedere” il valore di un quadro, e
comunque non averne piacere, non perché, ad es., lo disapproviamo in quanto immorale o
qualcosa di simile, ma perché “ci lascia freddi”. E neppure è vero che un valore è
riconosciuto in un certo momento e non riconosciuto in un altro, benché le nostre reazioni
emotive possano presentare differenze considerevoli. Una sinfonia non diventa meno
bella, anche per la nostra mente, se non ci attrae nello stato d’animo in cui ci troviamo in
un momento particolare.

Inoltre, la relazione tra emozioni e valori si rende evidente attraverso la consapevolezza


immediata come se fosse di un tipo diverso dalla relazione cognitiva tra, diciamo, un
oggetto dei sensi ed una percezione, o una verità intellettuale ed un giudizio. Il linguaggio
tiene conto di queste differenze. Noi vediamo, percepiamo, pensiamo qualcosa, o
pensiamo a “qualcosa”. Ma siamo tristi per o riguardo a, arrabbiati a causa di, abbiamo
vergogna di, siamo preoccupati circa, e così via. Certamente, il linguaggio non è sempre
una guida affidabile. Ma, dopo tutto, è la cristallizazione, per così dire, della psicologia
popolare e per una certa misura è una testimonianza delle idee generali dell’umanità.

Scheler ha enfatizzato molto l’ “oggettività” dei valori e quindi ha attribuito ai “sentimenti


intenzionali”, di cui ha parlato, una vera capacità cognitiva. È discutibile se questi
“sentimenti intenzionali” possano essere del tutto dimostrati. A questo scrittore sembra
come se fosse sempre possibile una separazione, attraverso l’analisi introspettiva, da una
parte dei sentimenti o degli stati emotivi, dall’altra della consapevolezza del valore.
L’argomento principale, certamente, è l’accadimento dei due stati indipendentemente l’uno
dall’altro.

Mentre i filosofi e gli psicologi erano generalmente d’accordo che i sentimenti fossero
“meramente soggettivi” e denotassero solo una modificazione dell’io come risposta ad
alcune affezioni, un pensatore, che a quel tempo fu a malapena notato, ha sviluppato,
incidentalmente, una concezione davvero differente. Questa concezione fu elaborata né
con un’intenzione filosofica né con una psicologica. Quest’uomo, che aveva da offrire una
nuova interpretazione degli stati emozionali, non era interessato alle questioni filosofiche,
bensì a quelle religiose. Ma la sua era una capacità sconcertante di analisi psicologica,
eguagliata solo da un suo contemporaneo che era il suo opposto in altre cose. Il primo
autore è il teologo Danese Sören Kierkegaard; il suo opposto è Frederick Nietzsche.
Kierkegaard voleva mostrare come l’uomo potesse essere al meglio quando realizza
pienamente la sua situazione e si abbandona alla grazia divina. Nietzsche voleva “svelare”
le profondità della natura umana e mostrare l’uomo al suo peggio, sebbene desiderasse
anch’egli sollevare l’uomo dalla sua ignobiltà. Mentre Kierkegaard aveva concepito
l’ascesa dell’uomo dipendentemente dal riconoscimento dell’essenziale finitezza della
natura umana, Nietzsche sperava che l’uomo si sarebbe sollevato da se stesso grazie alla
sua forza propria. Mentre il primo proclamava, con un’assiduità ineguagliata, forse, dai
tempi dei Padri, che l’uomo è la creatura del Dio infinito, l’altro esclamava con forza, “Dio è
morto”, e vedeva in ogni religione l’espressione della codardia e del risentimento.

Benché Nietzsche fosse un acuto osservatore e benché anticipò molte delle intuizioni
psicologiche degli anni successivi, ciononostante si dimostrò meno abile a stimare le
profondità della natura umana di quanto fece Kierkegaard. La concezione di mente di
Nietzsche fu handicappata dal suo marcato punto di vista naturalistico, dalla sua
prospettiva biologista, dal suo entusiasmo per la scienza e per le idee evoluzionistiche. Di
conseguenza, non poteva non concepire le emozioni se non come un fenomeno valutabile
biologicamente, indicativo di salute o malattia, di forza o di debolezza, di potere o di
schiavitù. Le idee di Nietzsche, quindi, possono essere estromesse dall’attuale contesto.

Delle idee di Kierkegaard, invece, solo quelle che riguardano gli stati emozionali saranno
prese in considerazione. Kierkegaard, come è stato evidenziato, non era uno psicologo.
La sua penetrante analisi delle emozioni è semplicemente un anello della catena della
riflessione attraverso cui tenta di sviluppare un’antropologia filosofica, un’idea di uomo
basata certamente su principi filosofici, ma soprattutto sulla verità rivelata e sulla
testimonianza della coscienza. Kierkegaard è introspettivo al massimo grado, e lo è con
un successo inaspettato. La sua visione ha influenzato scrittori che sono molto lontani
dall’appassionata testimonianza religiosa di Kierkegaard.

Due emozioni hanno ricevuto un’attenzione particolare nei lavori di Kierkegaard: l’angoscia
e la disperazione. Riguardo alla prima ha scritto un trattato a parte, Il Concetto
dell’Angoscia, e la seconda è uno dei fondamenti del suo La Malattia Mortale. 6 L’autore
stesso definisce come “psicologici” questi due lavori. L’analisi di questi due stati che verrà
prodotta di seguito è largamente dovuta a Kierkegaard, ma anche ad alcuni autori che
hanno fatto dell’angoscia un oggetto speciale di studio e che dipendevano in molti modi
dalle idee del Danese. Sembra superfluo, quindi, riassumere il punto di vista di
Kierkegaard in dettaglio.

La psicologia scientifica non è influenzata da Kierkegaard o da Nietzsche. Tra


coloro che sono impegnati non tanto nello studio dei fatti e delle operazioni mentali,
quanto della mente o della personalità, alcuni si sono appropriati consciamente o
inconsciamente di molte delle idee contenute negli scritti di Kierkegaard e di Nietzsche
facendole proprie. La psicoanalisi utilizza diverse nozioni e diversi termini introdotti da
Nietzsche. Una corrente della psicopatologia è ampiamente alimentata dalle fonti
Kierkegaardiane. Freud disse che non aveva familiarità con alcuno dei lavori di Nietzsche
quando concepì le nozioni di base del suo sistema. La somiglianza, però, è troppo
spiccata per una mera coincidenza. Non abbiamo ragioni per dubitare dell’affermazione di
Freud. Ma, come il sottoscritto ha sottolineato altrove7, esistevano molti canali attraverso
cui le idee di Nietzsche possono aver raggiunto Freud ed esser state da lui apprese senza
che lui sapesse da dove queste idee provenissero.

Non solamente gli psicopatologi e gli psicologi che erano interessati alle questioni della
psicologia scientifica o sperimentale non avrebbero potuto né voluto replicare, ma anche i
filosofi furono influenzati sia da Nietzsche che da Kierkegaard. Le idee del primo si
diffusero ampiamente. Esse non ci occuperanno qui. Le nozioni di Kierkegaard divennero
visibili nel lavoro filosofico di Martin Heidegger.8 Di questo lavoro saranno prese in
considerazione solo quelle parti che hanno a che fare con la natura ed il significato degli
stati emozionali. L’analisi più dettagliata di Heidegger è sull’angoscia. Qualcuno sottolinea
altre emozioni che si trovano incidentalmente.

La filosofia di Heidegger è troppo complicata per essere anche solo abbozzata. 9 La


sua interpretazione dell’angoscia è parte integrale del sistema, ma questa parte può
essere staccata dal tutto e può essere considerata alla luce della psicologia descrittiva. Un
breve riassunto della visione di Heidegger sull’angoscia ci permetterà di proporre le
correzioni e gli ampliamenti che questo punto di vista sembra richiedere.

Heidegger enfatizza giustamente la differenza tra paura ed angoscia, come


Kierkegaard aveva fatto in precedenza. La paura, sostiene il filosofo tedesco, è la risposta
a qualcosa di minaccioso (il termine das Abträgliche dovrebbe essere tradotto meglio con
“nocivo”) che viene appresa in quanto proviene da una precisa direzione che è conosciuta
come lo è la cosa minacciosa stessa. Si sta avvicinando; non è ancora qui, ma è ad una
distanza relativamente breve. La paura implica la possibilità che la minaccia non si
realizzerà. Dal momento che l’oggetto pauroso è conosciuto, esso appartiene al mondo in
cui l’uomo abita.

L’angoscia o l’ansia sono abbastanza differenti. Ciò che crea angoscia è


essenzialmente l’ignoto, “dove siamo non è a casa”; come dice un’espressiva
parola tedesca, das Un-heimliche, che dà nome esattamente al sentimento generico di
stranezza, di misteriosità, che trattiene la mente in una situazione completamente nuova e
sconosciuta. Così come qualcosa di angoscioso è sconosciuto, così è la direzione e il
luogo da cui colpirà. Si può parlare di un’esperienza di angoscia quando non c’è
apparentemente niente per cui essere angosciati, ad es., nel completo silenzio. Ipsa quies
rerum mundique silentia terrent (Cf. Valerio Flacco, Argonautica, II, 41). La ben nota
proprietà angosciante del buio totale perdura qui allo stesso modo. Quindi, l’angoscia ha
una caratteristica avvolgente. È ovunque, non c’è via di scampo, specialmente da quando
l’ignoto angosciante, benché sia ignoto, è anticipato come inevitabile. È sicuro che colpirà
da qualche parte, e colpisce col potere di annientare. Non colpisce ancora, se no
vorremmo che cessasse, ma non si trova ad una distanza particolare, ci è
immediatamente vicino. In quanto ignoto esso non può essere localizzato; ciononostante è
ovunque, circondandoci, schiacciandoci, opprimendoci. (L’oppressione è una delle più
evidenti caratteristiche dell’esperienza dell’angoscia, che fornisce a questo stato il suo
nome in Greco, Latino e tedesco, la radice comune “ang” che si riferisce ad una restrizione
o ad un confinamento in uno spazio troppo angusto).

Heidegger considera quindi due aspetti dell’angoscia: la mente, o piuttosto la


persona, è angosciata per qualcosa ed è angosciata a causa di qualcosa, ossia, l’uomo è
consapevole – sebbene con una forma peculiare di consapevolezza – della minaccia e di
essere minacciato.10

Ciò che è minacciato e ciò per cui l’uomo trema, quando è nell’angoscia, è, secondo
Heidegger, l’ “essere nel-mondo”. Questo essere nel mondo è per questo filosofo il vero e
proprio modo di essere, l’esistenza dell’uomo è essere nel mondo. Questa interpretazione
particolare non sarà discussa per il momento. Però, è necessario interrogarsi sulla bontà
dell’analisi fenomenologica o descrittiva.

È vero che l’angoscia anticipa alla persona la possibilità di annichilimento. Questo


annichilimento, contrariamente a quanto Heidegger sembra suggerire, non è la perdita
dell’essere nel mondo, ma la perdita di valore. Questo diventa chiaro se si esaminano le
modificazioni dell’angoscia. Ognuna di esse ha in comune la caratteristica di una “caduta”
imminente. L’angoscia teme la caduta da un livello raggiunto o conseguito ad uno
inferiore, fino ad un non valore assoluto che, certamente, è anche il livello della non
esistenza. Ens et bonum, convertuntur.11

Heidegger ha una concezione veramente peculiare del das Nichts, il Nulla. È il niente e
ciononostante è forte abbastanza da minacciare l’annichilimento. C’è indubitabilmente una
relazione tra l’angoscia ed il Nulla. Ma a chi scrive appare di una modalità piuttosto
differente dall’interpretazione di Heidegger. Il Nulla non è ciò che minaccia
l’annichilimento, come crede Heidegger, ma il punto a cui l’uomo è guidato da un potere
infinitamente superiore al proprio, e dove l’annichilimento lo aspetta. L’angoscia ci fa
sentire “senza potere”. Ma questa nozione è senza senso di fronte al Nulla; possiede un
significato solo se ci troviamo di fronte a qualche potere superiore al nostro. Il Nulla non è
ciò che minaccia ma piuttosto il luogo dove siamo minacciati – se tale espressione mi è
permessa. L’angoscia rivela all’uomo la sua nullità.

Heidegger ha trascurato non poco questo aspetto, visto che ha dichiarato che
nell’angoscia l’uomo è messo di fronte alla sua finitudine. Ma la finitudine senza un infinito
non ha senso. L’infinito è, natura rei, il fondamento; il finito esiste solo a causa di e rispetto
all’infinito; è secondario. Che l’infinito sia “scoperto” solo a partire dal finito non comporta
alcuna differenza. Conosciamo molti esempi in cui ciò che viene prima nella natura
(natura) è successivo alla nostra conoscenza (quod nos). E neppure dovremmo essere
distratti dalla forma grammaticale della negazione. Il linguaggio possiede sempre un nome
negativo per ciò che è effettivamente positivo. “Innocenza” è uno degli esempi più spiccati.

Nel comprendere se stesso come essere finito, in quel momento l’uomo afferra l’infinito,
benché in modo vago ed inadeguato. L’infinito è ciò che minaccia l’annichilimento.
L’essere nella sua pienezza, l’, mette di fronte l’essere finito e contingente alla
necessità di realizzare la sua finitezza e contingenza.

Però l’uomo comprende la stretta relazione tra l’angoscia e l’attitudine alla ribellione.
L’essere finito, reso consapevole della sua finitezza, si rivolta e si impone in un non
serviam. (Qui possono essere trovate le ragioni dell’angoscia e della vanagloria sfrenata o
ambizione che sono al vertice dei disturbi chiamati nevrotici. Kierkegaard ha intuito
qualcosa di tutto questo, benché non fosse interessato primariamente alla psicopatologia).

L’angoscia, allora, dischiude alla persona che sperimenta questa emozione qualcosa della
natura sua propria o dell’uomo. Questa “conoscenza”, se si merita di essere chiamata in
questo modo nei suoi stadi iniziali, diviene vera conoscenza solo nella riflessione. La
riflessione, però, non è possibile mentre l’angoscia perdura, dal momento che questa
emozione paralizza tutte le attività. La consapevolezza della finitudine è comunque
presente; anche mentre l’angoscia continua l’uomo è conscio della sua contingenza e
finitudine, benché solo in un modo implicito e non-riflessivo. Colpisce che qualcosa del
genere sia adombrato nelle parole: “La paura del Signore è l’inizio della saggezza”.

La consapevolezza della finitudine e contingenza, ossia, della natura dell’essere creato,


spiega anche la stretta relazione tra l’angoscia ed il sentimento della colpa. L’ansia della
coscienza, nei casi puri, non è semplice paura della punizione. La paura del servo, dice
San Bernardo, è il grado più basso dell’obbedienza. Tale ansia può sorgere al di là di ogni
idea di punizione, proprio come una buona azione può essere compiuta al di là di ogni
ricompensa. La buona coscienza non implica alcuna idea di ricompensa futura; il bene non
è compiuto con l’obiettivo di essere un meritevole (bene meritus), ma con l’obiettivo del
giusto e del bene stesso. È il più perfetto esercizio di libertà, che Sant’Anselmo ha definito
così: “la rettitudine è serva a causa di se stessa” (rectitudo propter se servata). La
consapevolezza di aver fallito nel preservare questa rettitudine e così di mantenere la
propria posizione nei confronti dell’ordine della giustizia porta al sentimento della colpa,
proprio come la consapevolezza del fallimento nel riconoscere la posizione nei confronti
dell’ordine dell’essere è all’origine dell’angoscia. L’angoscia certamente può cessare di
esistere, o anche può smettere di essere possibile, quando l’uomo pienamente realizza il
suo essere come contingente, finito, dipendente, e mantenuto nell’esistenza dall’infinito
potere ed essere in Persona. Superba anima formidinis ancilla, come ha detto San
Giovanni Climaco. (Incidentalmente, è interessante notare che tra i diversi pseudonimi che
Kierkegaard ha utilizzato, figura anche quello di Climaco). Tuttavia, potrebbe essere
discutibile se la libertà dall’angoscia possa essere raggiunta in questa vita. La piena
realizzazione ed accettazione di cosa significhi essere una creatura può essere raggiunta,
forse, solo nella “visione faccia a faccia [di Dio]”.

Kierkegaard ha scritto copiosamente, in La malattia per la morte, di uno stato, che


difficilmente si potrebbe dire della mente, piuttosto della persona umana, che chiama
“disperazione”. Infatti, la parola che utilizza non ha equivalenti in Inglese o in qualsiasi
altro linguaggio a parte quelli di origine germanica.12

È discutibile se la disperazione così come è concepita da Kierkegaard possa essere


ritenuta una emozione, poiché questa disperazione è uno stato delle cose essenzialmente
ignoto alla consapevolezza. L’uomo è in uno stato di disperazione, ma non lo sa. Questa
disperazione esiste in due forme: “volendo disperatamente essere se stessi” e “volendo
disperatamente non essere se stessi”. In entrambi i casi, mi sembra, questa disperazione
ha la natura di una rivolta. Colui che disperatamente vuole essere se stesso desidera
diventare l’assoluto. Questo era il tipo di disperazione di Nietzsche – “Se Dio esistesse,
come potrei sopportare di non esserlo io stesso”. Quindi, “Dio è morto”. Ma colui che
desidera, con la stessa disperazione, di non essere se stesso, che desidera quindi di
essere trasformato in altro, anch’egli è in rivolta contro la sua natura ricevuta – dal Fato o
da Dio, a seconda di come vede. Vuole essere di più attraverso il divenire altro. Entrambe
le imprese sono condannate a fallire. Non possono neppure iniziare, se non in un modo
immaginario e fittizio. (Anche qui, il collegamento con i problemi della psicologia della
nevrosi è evidente). Un’impresa impossibile, obbligata a fallire, il cui fallimento può essere
previsto con assoluta certezza, può condizionare uno stato di disperazione. Diciamo:
“Dispero di raggiungere mai questo o quell’obiettivo”, perché siamo consapevoli
dell’impossibilità.

Ora, quello che Kierkegaard chiama disperazione è apparentemente non l’emozione in sé


ma un modo di questo desiderio insensato di liberarsi di sé, esistenzialmente, diventando
altro, o, essenzialmente, essendo completamente ed esclusivamente se stessi, ossia, in
modo indipendente. L’autore usa la formula “volendo disperatamente”, indicando così che
la disperazione è qualcosa di insito in questo assurdo tentativo. Ma questa formula lascia
aperta la questione se la disperazione possa trovarsi anche al di fuori della situazione
descritta da Kierkegaard. Egli sembra implicare che la disperazione e questo forte
desiderio siano realmente distinti, sebbene forse essi non siano separabili nel senso che
la disperazione non esiste indipendentemente da questo forte desiderio. Potrebbe essere
che solo il desiderio causi uno stato di vera disperazione, ma può anche essere che la
disperazione possa essere collegata ad altre situazioni.

Per rispondere a questa domanda è necessaria un’analisi della disperazione veramente


completa, reale e programmata, un compito che non può essere iniziato qui. Una cosa,
però, sembra essere sicura. La disperazione è la risposta della persona ad una situazione
finale che comporta un grande male. Questo è anche il significato che l’Aquinate
conferisce a desperatio. La disperazione, allora, è un’altra forma in cui l’uomo diventa
consapevole ed affronta l’assolutezza della sua finitudine. L’aspetto della finitudine così
come si rivela nella disperazione è differente da quello rivelato nell’angoscia, o nell’asia
della coscienza. Questi due ultimi stati rivelano all’uomo il suo stato attraverso il regno
dell’essere e del valore. La disperazione gli insegna – o potrebbe insegnargli, se non lo fa,
come Kierkegaard indica, si destreggia con qualche trucco per rimanere inconsapevole del
proprio stato di disperazione – il limite del suo potere. Nelle due forme di disperazione
descritte da Kierkegaard è visibile la catastrofe e la sconfitta finale della “volontà di
potenza”, l’idea centrale di Nietzsche. Molto prima di quando l’uomo possa evolversi in
uno stato superumano, come Nietzsche sperava, egli cade preda della disperazione.

L’ “origine” dell’angoscia è stata individuata, dagli autori che possiedono una visione
principalmente biologica, nel fatto della morte ed in tutte quelle situazioni che, comprese
consciamente o no, sono premonitrici della finitudine della vita. Ma sembra accordarsi
maggiormente ai fatti sostenere che l’angoscia della morte (il termine comune, “paura
della morte”, deve essere scartato perché la morte è essenzialmente ignota) è solo un
caso dell’angoscia generale che è collegata alla rivelazione della finitudine. Che la vita
finisca è solo un aspetto di questa finitudine.

La finitudine umana presenta un triplice aspetto. È finitudine dell’essere, e alla sua


rivelazione corrisponde l’emozione dell’angoscia, ed ad un livello meno profondo
l’emozione della paura, dal momento che la situazione spaventosa possiede il carattere
della minaccia in comune con la situazione angosciante. Secondariamente, la finitudine è
la limitazione della realizzazione dell’ideale, che sia un ideale vero o falso. L’uomo è
condannato a rimanere sempre molto al di sotto di come vorrebbe essere. Certamente, ci
sono molte persone, troppe, che non ammettono mai a se stesse, ancor meno agli altri, di
essere lontani da quello che vogliono o che un tempo volevano essere. Se ancora
ammettono i loro precedenti ideali, sono propensi a parlarne sorridendo, in un modo
parzialmente pietoso, schernendo la stoltezza delle idee giovanili, ed enfatizzando quanto
più chiari, più sensibili, più consapevoli di “quale sia realmente la vita” essi siano diventati.
Queste sono persone che, secondo Kierkegaard, sono in uno stato di disperazione senza
conoscerlo. Se fossero diventati consapevoli del loro stato, avrebbero compiuto il primo
passo oltre, proprio perché la contrizione è il passo attraverso cui l’uomo, aiutato
certamente dalla grazia divina, eleva se stesso al di sopra del livello in cui commettere il
peccato era per lui “naturale”. La disperazione è l’emozione corrispondente alla finitudine
che risulta evidente nella distanza tra la visione ideale e l’essenza reale dell’uomo. Se si
volesse fare una deroga alla terminologia adottata da altri, si potrebbe dire che l’angoscia
è collegata alla finitudine dell’esistenza e la disperazione alla finitudine dell’essenza.
Tuttavia, l’uomo non è impotente nel realizzarsi, nel diventare pienamente se stesso,
ossia, nell’attualizzare tutte le sue potenzialità, ma è incapace di realizzare i suoi obiettivi
nel mondo esterno. Le azioni più grandi, anche se al momento procurano intensa
soddisfazione ai propri creatori, sono inevitabilmente inferiori rispetto all’ispirazione e
all’aspettativa dipinta nella loro mente. L’incapacità di affrontare il mondo oggettivo come
si vorrebbe, rivela all’uomo un altro aspetto della sua finitudine, attraverso cui è reso
consapevole che non è in grado di dare forma al mondo, neppure al mondo degli esseri
subumani, secondo i suoi desideri. C’è la resistenza della materia, delle cose e delle
persone; ci sono condizioni materiali e temporali indipendenti dalla volontà umana.

Queste esperienze, innumerevoli e di diversa intensità, rendono evidente all’uomo non


solo la sua mancanza di potere, il fatto che è ben lontano dall’onnipotenza, benché possa
sognarla, ma piuttosto gli assicurano di appartenere al mondo. Nessuna esperienza è in
grado di confutare il solipsismo teorico (per quanto mai pratico) quanto la resistenza
incontrata da parte degli altri. E niente dà così ragione all’interpretazione realistica dell’
“essere nel mondo” quanto il fatto della durezza e non malleabilità delle cose materiali.
L’importanza dell’esperienza della resistenza per la giustificazione del realismo è stata
enfatizzata recentemente da diversi pensatori (ad. es., N. Hartmann).

“Essere nel mondo” significa anche “essere con altri” (Mitsein, come dice Heidegger).
Così, questo vince la solitudine dell’individuo, qualche volta così tanto che la persona
cessa di essere totalmente se stessa e si perde, inghiottita da “molti”. (Incidentalmente si
può notare che su questo punto non solo Heidegger è decisamente debitore verso
Kierkegaard, ma anche che esiste una curiosa somiglianza tra le idee di Kierkegaard-
Heidegger da una parte, e di Nietzsche dall’altra. Viene in mente l’espressione “troppi” di
quest’ultimo. Heidegger, per questo motivo, non è totalmente indipendente da Nietzsche).

In questo aspetto della finitudine umana c’è una caratteristica che Kierkegaard ha potuto
definire una inversione “dialettica”. Il fatto che, visto da un solo lato, deprime l’uomo
rivelando la sua finitudine, gli conferisce, visto da un’altra prospettiva, una sicurezza che
non avrebbe mai chiamato sua se fosse stato perfettamente isolato. È al livello di questa
consapevolezza – che, però, non ha bisogno di essere realizzata ed abitualmente non lo è
in modo esplicito – che si sviluppa la comunione con gli altri.

È una delle caratteristiche più spiccate nella filosofia di Heidegger il fatto che egli si
dilunghi spesso sull’aspetto tragico, o al meno su quello spiacevole, dell’esistenza umana,
e che non disponga di parole né sull’amore né sulla pietà né su qualsiasi altro della
“Sympathiegefȕhle” a cui Scheler ha rivolto così tanta attenzione e su cui ha emanato così
tanta luce.13 Ma se è vero che gli stati emotivi, benché il loro ruolo possa essere altro,
hanno la funzione di rivelare all’uomo, in un modo particolare, qualcosa della sua
posizione nell’ordine delle cose, il suo “stato ontico”, e, di conseguenza, della sua natura,
sarebbe estremamente improbabile che solo le emozioni negative, come l’angoscia o la
disperazione, fossero dotato di tale potere.

Parlando genericamente, sembra che queste emozioni negative impediscano la


conoscenza oggettiva più di quanto facciano gli stati emotivi positivi. Certamente, esiste
una cecità per i fatti nati nell’ottimismo. Ma la distorsione dell’obiettività scatenata dal
pessimismo di solito va molto più lontano. Non è solo perché possiede un coraggio
maggiore ed un punto di vista più fiducioso che l’ottimista generalmente si realizza
maggiormente del pessimista. La storia sembra insegnare che i pessimisti non hanno
realizzato nulla di veramente notevole. È anche, e forse principalmente, perché l’ottimista,
fin quando utilizza la sua ragione, possiede una concezione più vera della realtà.

La reazione emozionale provocata dalla consapevolezza della resistenza insormontabile


della realtà è, ovviamente, la rabbia. Questo si accorda con la nozione che il malum
arduum è l’oggetto proprio dell’appetito irascibile e condiziona la rabbia. Sebbene questa
emozione qualche volta possa liberare forze impreviste nella persona, è soprattutto rabbia
impotente, specialmente quando diversi fatti che ci rendono arrabbiati appartengano al
passato. Che questo o quello sia avvenuto, sia stato fatto, da se stessi o da altri, è la
ragione più comune per la rabbia. Il fattore tempo, infatti, è una delle più grandi restrizioni
imposte alla volontà umana. L’azione compiuta, l’evento realizzato, sono al di là di ogni
potere umano. A disfare ciò che è stato fatto è abbastanza spesso il desiderio del cuore,
per non essere mai soddisfatto. Nella rabbia l’uomo è reso consapevole dell’inesorabilità
delle leggi della materia e del tempo molto più forzatamente che in qualsiasi riflessione ed
analisi. Ma è anche reso consapevole del fatto che lui stesso è parte di questa realtà a cui
rifiuta di essere assoggettato in modo così caparbio. È reso consapevole del fatto che le
leggi che governano la realtà governano anche la sua propria esistenza.

Per ripeterlo ancora una volta: quando la passione ha preso possesso della mente, tale
consapevolezza non sorge nella coscienza. Ma l’esperienza da cui la mente riflessiva può
elaborare e, così, estrarre un tale insight è reale nella situazione emozionale della rabbia.
Lo stesso è vero, rispettivamente, per tutte le altre emozioni se esse raggiungono una
certa intensità. Se esse non sono così intense da colmare la mente intera, espellendo ogni
ragionamento ed ogni riflessione, un simile insight può svilupparsi anche mentre
l’emozione perdura. D’altra parte, più profonda è l’emozione, maggiore è la chance che la
mente, retrospettivamente, divenga consapevole dei fatti rivelati.

Quando l’uomo realizza che è parte della realtà, ed allo stesso tempo che egli è unico
come individuo e come rappresentante della razionalità nel regno degli esseri, gli è
permesso sviluppare un’altra attitudine, davvero differente, nei confronti della realtà,
l’attitudine chiamata dell’amore. Questa parola è così ambigua che è estremamente
difficile avere a che fare con il suo oggetto. Primo, all’amore è stato attribuito un senso
così vago dal linguaggio comune che il suo vero significato è piuttosto confuso. Le
persone usano questa parola indiscriminatamente per riferirsi ad un semplice piacere,
come di un qualche cibo, e per le emozioni più alte che uniscono l’amico con l’amico,
l’amante con l’amato, l’uomo e Dio. Secondariamente, molte modalità di utilizzare questa
parola si fondano su di una denominatio a potiori. Questo è vero per l’Eros di Platone, così
come per l’amor in Tommaso d’Aquino. L’amor naturalis è amore solo per analogia.
Platone, però, ed ancor di più gli scrittori medievali, avevano in mente le forme più alte e
più pure dell’amore quando avevano attribuito a questo termine un senso così ampio. Nei
tempi moderni un tipo di amore, cioè l’amore che nasce tra i due sessi, è stato considerato
come il solo amore vero e primario, di cui tutte le altre forme di amore sono modificazioni o
derivazioni. Questa visione è sviluppata fino all’estremo nella psicoanalisi.

È vero che l’amore, in senso stretto e pieno, si può dire solamente nei confronti delle
persone. L’amore tra l’uomo e la donna, quindi, è vero amore. Ma da questo non segue
che questo particolare tipo di amore sia l’origine di tutte le altre tipologie. Questa falsa
interpretazione naturalistica è stata criticata da Scheler e da altri. Il vero amore si può dire
essere caratterizzato dalle seguenti caratteristiche: il vero amore desidera il bene più alto
per l’amato; di sua natura, quindi, non solo ha il desiderare, ma è necessitato a donare.
Altri tratti fondamentali sono riassunti nella frase contenuta nel capitolo De Caritate nel
trattato De Adhaerendo Deo.14 Questo passaggio recita: L’Amore porta l’amante fuori di se
e lo mette al posto dell’amato; e colui che ama è con la persona amata più che con se
stesso (Trahit enim amor amantem extra se et collocat eum in locum amati; et plus est qui
ama tubi amat quam ubi animat). Quindi, queste parole indicano la natura estatica del vero
amore, il suo movimento verso l’amato, e la sua tendenza ad unire se stessi con l’amato.
Non si può tentare qui una dettagliata analisi dell’amore. E neppure è intenzione di questo
articolo contribuire alla psicologia descrittiva degli stati emotivi. La loro descrizione è
d’interesse solo per quanto rende visibile in qualche modo l’ “aspetto cognitivo”.

Se l’angoscia in modo deciso rende l’uomo consapevole della sua nullità, della sua
finitudine e contingenza, l’amore lo rassicura del suo essere e del suo valore. L’amante
ama donare, e solo cos’ha valore può fare doni. “Bonum diffusivum sui” non solo
sottolinea una caratteristica della bontà; afferma anche l’unica fonte da cui ogni dono può
originare. Colui che può donare e i cui doni vengono apprezzati, è reso sicuro del suo
valore, e grazie a questo, a causa della convertibilità dell’essere e del valore, è anche reso
sicuro del suo vero essere. La nullità che, contrariamente a quello che Heidegger
pretende, non è fuori dall’uomo, ma all’interno, radicata nel suo essere, è vinta e, ovvero,
neutralizzata nell’amore.

La tendenza a donare non è una semplice “espressione” di amore; è la natura dell’amore.


Desiderare il bene dell’amato necessariamente porta alla volontà di far partecipe l’amato
di ogni bene che personalmente si apprezza fortemente. L’incapacità dell’amato di
partecipare può diventare un serio ostacolo all’amore. Qualcuno dice che è stupido per
due persone “fatte l’una per l’altra” non sposarsi perché una, ad esempio, è un’ardente
appassionato di musica mentre l’altro rimane freddo alle più grandi composizioni. Non è
così stupido, dopo tutto. L’amore vuole dare, e questo significa, dove nessun bene
tangibile è in dubbio, condividere. L’amore può diventare mutilato se viene deprivato delle
sue manifestazioni fondamentali. È vero, molti matrimoni tra persone che sono
ampiamente differenti e non condividono tutti gli interessi, i piaceri, e gli “amori”, sono
abbastanza felici. Tuttavia, si può dubitare se questi matrimoni realizzino tutta la felicità di
cui le due persone sono capaci.

Molto si può imparare su queste cose dall’osservazione dei bambini. Essi non hanno
niente di “reale” da donare; non sono in grado di fare grandi cose, non hanno molte
proprietà, e coloro che le hanno sanno che provengono dalle persone che amano e a cui
desiderano dimostrare il loro amore. Sentono un forte bisogno di tale dimostrazione, che è
più di una semplice dimostrazione. Molte delle emozioni umane, forse si potrebbe andare
oltre e dire molte delle performance della mente, raggiungono la piena completezza ed
effettività solo se vengono esternalizzate in un modo o in un altro. Ma se un bambino
acquisisce qualcosa da sé, qualcosa non datogli, ma, per esempio, trovato, lui lo porterà a
sua madre o suo padre e renderà l’oggetto un dono. Potrebbe essere un sasso colorato, o
qualsiasi altro oggetto insignificante. L’innata saggezza dell’amore ha insegnato ai genitori
di non rifiutare un dono simile e di non giudicarlo dal proprio punto di vista, ma di entrare
nello spirito del bambino, di ammirare quello che lui ammira, di elogiare quello che dona. È
un errore grave e qualche volta anche disastroso sbeffeggiare i doni infantili dei bambini.
Apprezzandoli, si dà al bambino una sicurezza rigenerata del suo valore personale.
Questa è necessaria tanto che, senza una tale sicurezza, il valore delle altre persone
rimane nascosta alla mente del bambino e, poi, dell’adulto.

In questo senso, allora, l’amore è il vero antagonista dell’angoscia (come Kierkegaard ha


visto). L’angoscia isola, l’amore unisce. Una pallida reminiscenza di questa opposizione
tra amore ed angoscia sembra essere in opera nell’istintiva adesione agli altri così spesso
osservata negli stati di angoscia. Ma l’adesione dell’angoscia è di una natura
completamente differente dalla natura dell’adesione dell’amore. La prima è una pretesa,
ed esprime una domanda mai soddisfatta, perché essenzialmente incapace di
soddisfazione; la seconda è essenzialmente un dare ed un prendere nello stesso tempo,
espressione del movimento verso l’unità, caratteristica dell’amore.

Sostenere che le caratteristiche principali dell’amore si applicano anche all’odio suona


paradossale, ma solo fin quando non si penetra al di sotto della superficie delle
apparenze. Infatti, l’odio dà forma ad un forte legame tra chi odia e l’odiato proprio come
l’amore lo fa tra l’amante e l’amato. Una vita piena di odio per una persona può essere
svuotata di senso se questa persona scompare. Il vuoto creato da certe circostanze,
anche quando la morte della persona odiata è stata causata proprio da colui che odia, può
diventare così intenso che l’odio originariamente mirato verso una persona può diffondersi
ad altre.

L’odio è l’opposto dell’amore a livello delle relazioni umane. Ma l’angoscia è l’opposto di


entrambi, certamente più dell’amore che dell’odio, perché isola e separa l’individuo dai
suoi piaceri. L’odio può diventare anche un legame che unisce diverse persone contro una
persona odiata (cospirazione). L’odio è meno antagonista dell’angoscia perché alla fine
conduce ad aumentare l’isolamento. Ha un potere corrosivo, e distrugge, a volte
gradualmente, tutte le relazioni d’amore, lasciando l’individuo solo con il suo odio. Questa
può essere una delle ragioni del perché c’è spesso discordia tra cospiratori. Le ragioni
apparenti sembrano essere altre, come l’invidia, l’ambizione, e il piacere. L’odio comune,
dopo tutto, costituisce un’unità diretta ad un fine estrinseco, mentre l’amore lega una
persona direttamente alle altre.

Si dice che l’amore sia cieco. Le madri innamorate sono inconsapevoli anche dei più
grandi difetti dei loro figli. Un amante “idealizza” la persona amata così tanto da apparire ai
suoi occhi come il punto di paragone di tutto, per quanto mediocre ed insignificante, se
non peggio, possa apparire ad un esterno. La cecità dell’amore viene accusata di portare
a molte delusioni e disillusioni. L’aureola dell’amato sparisce spesso molto velocemente.
Matrimoni d’amore, riporta lo scettico Montaigne, finiscono in disastro molto più spesso dei
matrimoni di ragione. In quest’ultimo caso c’è una valutazione oggettiva dell’altro; si entra
nella vita matrimoniale con gli occhi aperti, non rapiti dalla passione e confidando in
un’immagine totalmente fantasmagorica, creata da se stessi.

Tuttavia, l’affermazione genericamente accettata della cecità dell’amore necessita di


essere corretta. Scheler ha protestato energicamente contro questa convinzione, e
sostiene che “l’amore rende in grado di vedere”. Chi scrive ha anch’egli sottolineato che
l’amore non sempre acceca, e che può anche essere particolarmente acuto, in un senso
preciso.15

L’amore vede un oggetto molto più chiaramente che l’occhio oggettivo e disinteressato
dell’osservatore casuale. L’amore scopre le potenzialità dell’amato. La sua illusione
spesso consiste nel prendere per attualizzato ciò che è ancora potenziale. E la sua colpa
è spesso che, a causa di questa illusione, dimentica il compito di battersi per il bene più
alto dell’amato, ossia, per la sua perfezione e, quindi, l’attualizzazione delle sue
potenzialità. Infatti, senza una qualche attitudine all’amore non si scoprirebbe mai il valore
delle persone o delle cose. L’amore stesso non è lo strumento della conoscenza degli
oggetti, e neppure dei valori personali, ma è, per così dire, il medium in cui tale
conoscenza diventa possibile. L’amore rende accessibile alla mente gli aspetti positivi
della realtà che altrimenti può rimanere completamente inconsapevole del bene, della
bellezza, e di tutti i tipi di valore. In modo simile, anche l’odio e le sue modificazioni,
l’invidia o la gelosia, rendono la vista acuta. A dispetto della sua volontà di sminuire, di
negare i valori nella persona invidiata, l’invidia è forzata con riluttanza a conoscere questi
valori. In effetti essa vive attraverso questo riconoscimento riluttante.

Forse si può aggiungere che la realizzazione dell’amore è il correlato, a livello


dell’antropologia filosofica, del comandamento dell’amore nella morale e nella fede.
Soltanto amando se stesso l’uomo può divenire consapevole dei valori che rappresenta,
per quanto insignificante e vile la sua personalità e statura possano apparirgli. La
psicologia ci insegna quanto grande l’handicap della perdita della consapevolezza del
proprio valore diventi nella fondazione delle relazioni umane. Colui che non è sicuro del
proprio valore non può amare veramente; egli “non ha nulla da dare” dal momento che
dubita del valore di se stesso e l’amore richiede che lui dia se stesso. Così, l’amore di sé,
nel senso corretto del termine, è la base su cui l’amore del prossimo si può sviluppare. H.
Bergson ha ragione quando sottolinea che il vero odio dell’umanità, la vera misantropia,
sorge solo quando un uomo ha prima imparato ad odiare se stesso.

Mentre l’amore rivela all’uomo il proprio valore, lo rende anche consapevole dei suoi
obblighi nei confronti dei suoi compagni. La mera realizzazione intellettuale del ricambiare
gli altri e il fatto che l’attualizzazione delle potenzialità umane richiede soprattutto
l’influenza degli agenti umani e sociali non è sufficiente a produrre un vero senso di
obbligazione. Tale senso si sviluppa solo se c’è una concreta consapevolezza
dell’uguaglianza ontologica e della solidarietà morale dell’umanità. Per accettare il proprio
posto tra questa moltitudine uniforme, è necessario di nuovo essere sicuri del proprio
valore personale.

Sebbene il ruolo delle emozioni sia stato lungamente frainteso da coloro che enfatizzano
l’incoraggiamento delle reazioni emotive nell’educazione, essi hanno visto qualcosa di
vero. Senza una qualche emozionalità minima, la conoscenza rimane ampiamente scarsa.
Essendo sicuro del proprio valore, l’uomo può riconoscere i valori più alti dei propri, senza
apprendere questo come una minaccia al proprio valore ed alla propria esistenza. Senza
la capacità di amare, la vera ammirazione ed il rispetto difficilmente si sviluppano.
Entrambi questi stati emotivi sono risposte, ed allo stesso tempo sono le condizioni, per il
riconoscimento dei valori più alti.

Collegato all’ammirazione c’è lo stupore. “Spiegare” lo stupore come un effetto di un


presunto “istinto di curiosità” è un’impresa condannata a fallire. Al di là della discutibilità
della nozione di “istinto” ci sono altre ragioni per scartare un’interpretazione così
semplicistica.16 Lo stupore, eventualmente, porta ad un movimento di curiosità e ad un
tentativo di chiarire i fatti che generano stupore. Ma lo stupore è il primo, e la curiosità è
seconda. Platone vide più chiaramente di questi difensori dell’istinto quando sostenne che
lo stupore era l’inizio della saggezza. Nell’atteggiamento di stupore l’uomo è reso
consapevole dei suoi limiti, ma questa consapevolezza è differente da quella depressiva
attraverso cui l’uomo è riportato alla sua finitudine. Lo stupore gli rivela la grandezza
dell’essere e, in un certo limite, anche la sua propria grandezza. È prerogativa dell’uomo il
fatto che possa porre domande.

La lista degli esempi non può prolungarsi all’infinito. Per quanto interessante e conclusiva
possa essere una lista completa delle emozioni ed una loro analisi rispetto a questa tesi,
ciò vorrebbe significare una precedente indagine di tutte le emozioni ed un tentativo di
raggrupparle secondo alcuni principi di base. Questo è possibile, ma rende necessaria
una discussione troppo lunga per essere posta qui. Si farà menzione, quindi, solo ad altre
due emozioni.

La compassione non è basata, come molti credono, sulla realizzazione di patimenti e


sofferenze che possono colpire se stessi, ma su quelle riconosciute in un altro. La
compassione è una realizzazione del dolore sofferto da un altro come dell’altro. Non
diventa del tutto fittizia essendo il suo oggetto il soffrire di un’altra persona. La
compassione deve anche essere distinta dalle emozioni scatenate da una tragedia vista
su di una scena. La sofferenza reale di un altro essere umano non ha la potenza
“catartica” che Aristotele attribuisce alla tragedia prodotta sul palco. La vera compassione
non deve neppure essere confusa con il brivido che proviamo quando siamo messi di
fronte alla sciagura, al dolore, alla sofferenza di ogni tipo, ed ancor meno al sussulto di
disgusto. Queste altre emozioni molto spesso colorano la compassione e la deprivano
della sua natura pura ed originale. La frequenza della loro mescolanza, però, non altera la
natura essenziale della compassione. E neppure ci deve sviare la nota di condiscendenza,
di superiorità, che così facilmente si aggiunge alla compassione. La persona sana si sente
superiore, se vuole sentirsi in questo modo, alla persona malata e disabile. Colui che è in
grado di essere caritatevole grazie ai suoi mezzi, difficilmente può fallire nel sentirsi
superiore a colui che riceve. È abbastanza significativo che apparentemente in tutte le
forme di civiltà colui che supplica assume una postura che lo pone “sotto” l’uomo in grado
di aiutarlo. L’inclinazione e il desiderio di superiorità sono così forti nell’uomo che essi
spesso distruggono ogni vera compassione.

Un uomo può aiutare un altro senza provare compassione. Può agire così al di là di un
senso del dovere o di obbligo, o perché considera una tale azione in accordo alla propria
dignità – noblesse oblige – o perché la vista della sofferenza gli è dolorosa e vuole lui
stesso essere sollevato piuttosto che sollevare l’altro. La vera compassione probabilmente
è rara. Ma lo sono tutte le emozioni grandi e vere. Il termine “indole” è stato spesso
utilizzato nei confronti delle capacità emozionali. In accordo con questa idea, ci sono
persone che sono particolarmente dotate nel modo di reagire emozionalmente, come altre
lo sono rispetto ai risultati intellettuali, scientifici, artistici o politici. Infatti, le differenze
individuali che riguardano la reattività emozionale non sono per nulla inferiori, e forse sono
anche più marcate, di quelle che riguardano altre forze della mente. Le persone capaci di
vera compassione sono eccezioni.

Questo, però, non riduce l’importanza della compassione per una comprensione del posto
occupato dalle emozioni nell’esistenza umana. L’insensibilità emozionale di molti è una
piccola obiezione contro l’interpretazione delle emozioni che viene abbozzata qui, proprio
come l’incapacità di comprendere la matematica superiore o la speculazione astratta è un
argomento contro la classificazione di tali capacità tra le capacità della mente umana. Si
sospetta che l’insensibilità emozionale, per molti, non sia dovuta ad un’incapacità originale
ma piuttosto ad altri fattori, tra i quali giocano un ruolo preminente la paura di
conseguenze ulteriori e la preferenza per una vita indisturbata.

Senza dubbio, la compassione rende l’uomo consapevole della sorte generale del genere
umano. Mentre il terrore ed alcune altre emozioni rivelano all’uomo la sua finitudine
individuale, personale, la compassione fa che lui realizzi la finitudine del genere umano in
generale. Essendo molto più che una semplice considerazione ed un fremito per la
sofferenza di un’altra persona – che lascia l’uomo nell’isolamento – essa contribuisce alla
realizzazione della solidarietà del genere umano. Assicura l’individuo della sua
“appartenenza”. Egli concepisce se stesso come un membro della grande comunità del
genere umano. È rivelativo che le visioni che negano l’uguaglianza degli uomini inclinino
anche ad una svalutazione della compassione, che tali ideologie considerano come una
debolezza, un sentimentalismo, ed indegna per la “mente eroica”17.

La seconda emozione, i cui commenti chiudono questo breve sommario, merita particolare
attenzione. Il disgusto18 è provocato ogni volta che vediamo, o annusiamo, o gustiamo
alcune cose, eventualmente anche quando le tocchiamo, specialmente cose fredde e
viscide. È, però, discutibile se tutte queste reazioni, per quanto collegate, siano della
stessa natura. È possibile che debba essere fatta una distinzione tra il disgusto come vera
emozione e il tipo di impressione che noi chiamiamo nauseante.

La nausea è primariamente una mera reazione vegetativa attraverso cui l’organismo


risponde a sostanze che non vanno d’accordo con lo stomaco. La nausea è uno stato
generale in cui una sensazione spiacevole da parte dello stomaco, il vomitare o almeno la
propensione a farlo, è in primo piano. Gli altri sintomi corporei, come la fiacchezza, il
sudore freddo, il senso generale di malessere, sembrano essere fenomeni secondari. Le
strette relazioni tra la cavità orale, il senso del gusto, le sensazioni tattili, la deglutizione,
da una parte, e le funzioni dello stomaco dall’altra – come mostrato dai vari riflessi
secretori rilasciati dalla bocca –, forniscono una spiegazione al fatto che esistano gusti
nauseanti, anche se non se ne ha mai avuto esperienza in precedenza. Nella maggior
parte dei casi, però, l’effetto nauseante dei gusti o degli odori sembra fondarsi
sull’associazione e sull’esperienza precedente. È stato ripetutamente osservato che i
bambini mostrano poca riluttanza a cose che un adulto qualificherebbe come nauseanti.

L'emozione di disgusto è apparentemente condizionata soprattutto dalle impressioni visive


e tattili. Se si considerano i fattori puramente sensoriali di queste impressioni, c'è poco che
possa spiegare l'effetto particolare che essi hanno su molte persone. La freddezza e la
viscosità, ad esempio, sono sensazioni come molte altre, e non è intelligibile perché esse
acquistino una connotazione così peculiare. E non è neppure disgustosa, se considerata
come un semplice complesso di impressioni visive, niente di più che colore, forma, e
luogo. Ancora più incomprensibile, se si considerano solamente i semplici sensa, è il
disgusto che molte persone sperimentano quando vedono il sangue.

La reazione di disgusto sembra essere primariamente legata al decadimento della materia


organica o a qualche parte di un organismo separata dal tutto a cui appartiene. Un braccio
amputato è sentito da molti come una cosa disgustosa mentre non possiede nulla di tale
qualità quando è ancora al suo posto nell'organismo. Le ferite sono disgustose perché
esse indicano fortemente la corruttibilità della materia organica; esse diventano tanto più
disgustose a seconda di quanto il decadimento diventa visibile (suppurazione). La ferita
pulita come quella provocata dal bisturi del chirurgo è meno disgustosa che una ferita
irregolare e lacerata dovuta ad un accidente. Lo stesso capello che ammiriamo su di una
donna può apparire disgustoso se lo vediamo cadere e staccarsi da un ornamento.

Si può dubitare fortemente che gli oggetti disgustosi ricordino all'uomo la sua corruttibilità.
La situazione descritta spesso dai poeti e dagli scultori del tardo Medio Evo, e ritratta
anche in alcuni famosi dipinti del primo Rinascimento, dà espressione a questa idea: una
lapide che rappresenta un cadavere in decomposizione, serpenti e vermi che strisciano
fuori dalla cassa coperta solo da residui di carne, e l'iscrizione: “Così appaio, tu apparirai
uguale”; il Trionfo della morte al Campo Santo di Pisa, si dice essere un'opera di Traini,
che mostra delle persone, ben vestite, a cavallo, mentre tremano prima di una tomba
aperta e del suo contenuto; anche la leggenda di Buddha che fuggì i suoi guardiani e, la
prima volta che lasciò i confini del suo castello, incontrò un uomo malato, anziano, e un
cadavere, e così prese consapevolezza, da quest'unica esperienza, della futilità ed
incertezza delle cose terrestri.

Con alcune persone ogni cosa che ricorda loro del decadimento o della disintegrazione
assume la caratteristica del disgusto. Per loro, una persona malata, qualsiasi sia il suo
disturbo, è essenzialmente disgustosa. La materia in decadimento e il tutto che si
disintegra diventano senza senso. Chimici e medici sono stati spesso definiti privi della
reazione “naturale” del disgusto, poiché non esitano a impugnare oggetti che per altri sono
assolutamente disgustosi. In parte questo è certamente effetto dell’abitudine. Ma in parte è
anche dovuto al fatto che le cose disgustose non sono prive di senso per quegli studenti.
Non è la semplice insensibilità che può far parlare un medico di “un bel cancro”. Si è detto
che “una sostanza chimica fuori luogo è sporco, mentre lo sporco come quello di un
soggetto di una indagine chimica è una sostanza”. Qualcosa fuori posto è senza senso;
per quanto sia pieno di significato, poiché appartiene ad un tutto più grande, perde la
qualità della disgustosità.

Così l’esperienza del disgusto evidenzia all’uomo il valore della totalità. Lo fa, certamente,
per contrasto. Ma questo non è un fatto insolito. Noi apprezziamo l’innocenza
specialmente attraverso l’esperienza della colpa, la salute specialmente grazie
all’esperienza della malattia, e il possesso di molti beni specialmente quando e perché
siamo minacciati dal perderli o li abbiamo già persi.

Una caratteristica nel comportamento di disgusto merita un’osservazione. Il sentimento


individuale di essere disgustato proviene della cosa disgustosa come se fosse pericolosa
o, almeno, minacciosa di contaminazione. In effetti, la cosa disgustosa raramente è
pericolosa o nociva in qualche modo. D’altra parte, c’è una stretta relazione tra il terrore e
il disgusto. Alcune persone si perdono, dall’esperienza del disgusto, in uno stato mentale
che rassomiglia al terrore. Il disgusto può diventare, in alcuni, così intenso da sfinire o
rendere inabili al movimento. Heidegger potrebbe dire che al di là della questione del
decadimento abita il Nulla. È vero in alcuni esempi, ma difficilmente lo è in tutti.

Il disgusto riferisce delle possibilità del decadimento e del declino. Non è senza un
profondo significato che chiamiamo “disgustoso” il comportamento di un uomo che si
abbassa al di sotto del livello medio dell’umanità. Il dissoluto, l’ubriacone, il sudicione, ed
altri sono “disgustosi” perché pongono davanti ai nostri occhi una tale possibilità. Alcune
persone considerano disgustosi ogni specie di animale. Questa reazione si osserva anche
nei riguardi delle scimmie, quegli animali che paiono come una caricatura subumana della
natura umana. È anche importante che il limite di ciò che è qualificato come disgustoso
varia considerabilmente con gli individui e, specialmente, con il loro ceto o con le richieste
che fanno a se stessi ed agli altri. L’attitudine alla compostezza morale che così facilmente
degenera in fariseismo concepisce molte cose come disgustose che per un'altra mentalità
non sono così. Come avviene per le morali è così anche per altre cose. I concetti di pulizia
variano considerevolmente, e quello che per una persona è sufficientemente pulito è
disgustosamente sporco per un'altra. In questo atteggiamento l'aspetto positivo del
disgusto diviene evidente. La linea di confine che definisce ciò che è concepito come
disgustoso definisce anche, così per dire, il valore e la statura della persona.

Così il disgusto diviene un opposto dell'ammirazione. Se il primo rivela le possibilità della


natura umana sotto di noi, l'ammirazione ci fa intravedere le possibilità al di sopra di noi
stessi. Ma entrambe sono possibilità della natura umana a cui ognuno partecipa. Il
risultato eccellente o la personalità che merita ammirazione, quindi, sono di una natura
che dà conforto, anche se non pensiamo di poter raggiungere lo stesso grado di
perfezione. Il fatto che ci sono i santi e gli eroi ci dà una maggiore fiducia nella natura
umana, e così implicitamente in noi stessi.

La presente discussione sembra aver raggiunto il punto in cui diventa lecito un riassunto
preliminare. Non si pretende che la concezione delle emozioni avanzata qui definisca
l'emozione in ogni dettaglio. Bisogna ammettere che le emozioni hanno altre funzioni al di
là del rivelare all'uomo qualcosa del suo “stato ontico”. Ma si sostiene che questo aspetto
delle emozioni sia di enorme importanza.

La semplice esperienza delle emozioni non è equivalente ad una piena conoscenza del
loro significato ontologico. Tale conoscenza si sviluppa solo se la consapevolezza fornita
dagli stati emotivi si eleva, per così dire, al livello della riflessione. Rispetto a questa,
l'emozione è molto simile alla consapevolezza sensoriale. I semplici sensa non hanno
alcun significato; un sensum come tale è senza significato. Diventa significativo solo
quando viene sintetizzato con gli altri, ed anche con le memorie e, soprattutto, con le
nozioni intellettuali. Una cosa semplicemente sentita è solamente lì. Solo quando è
riconosciuta come tale acquista significato. Il riconoscimento in quanto tale significa di più,
nella vita umana, che la consapevolezza che qualcosa è già stato “visto prima”. Il
riconoscimento si esprime chiamando la cosa sentita “una” cosa di questa o quell'altra
natura. Anche se per la mente cosciente non è niente di più che “una cosa”, il suo “essere
qualcosa” è una nozione astratta. In modo simile, la “conoscenza emotiva” non fornisce
alla mente nessuna conoscenza definitiva fintanto che non si unisce alla riflessione.

La rappresentazione degli stati emozionali incontra grandi difficoltà. È anche discutibile se


una tale rappresentazione esista in generale. Molti hanno sottolineato che il ricordare una
situazione emotiva significa viverla una seconda volta. I dati “oggettivi” della situazione
possono essere rievocati ed immaginati, ma l'emozione non è un'emozione rievocata; è
una emozione veramente riprodotta, ossia, realmente presente. Sebbene l'intensità
dell'emozione possa essere inferiore nel caso della rappresentazione, spesso è
abbastanza sufficiente da creare uno stato della mente che uguaglia quello esistito
nell'esperienza effettiva. Esistono anche molti esempi di emozioni di grande intensità che
vengono rilasciate da situazioni puramente immaginarie. (Questo fenomeno rende
opportuna un'analisi degli stati emozionali che si riferiscono alle esperienze personali,
effettive o fittizie, e delle emozioni che si riferiscono ad altre persone, ad esempio quando
si prende parte ad un gioco. Questo problema, però, è troppo complicato per essere
affrontato qui).

La riflessione deve spostarsi su di una caratteristica degli stati emozionali che, pare, non
ha ancora trovato l'attenzione che merita. Il linguaggio comune spesso parla di emozioni
“profonde” o “superficiali”. Gli stessi termini, in verità, sono utilizzati anche in riferimento
all'intuito; ad una persona è attribuito un intuito più profondo in alcune questioni rispetto ad
un'altra. Parliamo inoltre di profondità e superficialità come attributi della personalità. Ma
sembra che la profondità sia una proprietà principalmente delle emozioni. Siamo
“profondamente” mossi. Profondo sembra avere differenti significati quando è applicato
alla conoscenza ed alle emozioni. La profondità della conoscenza si riferisce alla struttura
conoscibile delle cose. Ha una conoscenza più profonda chi conosce maggiormente il
rapporto tra il fatto considerato e gli altri fatti. Quanto più conosce le relazioni causali, circa
il significato del fenomeno e le interconnessioni, tanto più profonda sarà la conoscenza
che possiede. La profondità, quando viene attribuita alle emozioni, invece, non si riferisce
al mondo “oggettivo”, ma alla persona interessata dalle emozioni. La profondità non è uno
degli strati della realtà – o dell'ideazione, come potrebbe essere il caso del “non io” - ma
del soggetto stesso.19 Sembrerebbe che l'espressione “profondo”, quindi, sia
maggiormente appropriata quando applicata alle emozioni piuttosto che ad altre
esperienze. Un intuito o una conoscenza “più profonda”, nel senso comune, è, infatti, “più
ampia”, include un gran numero di relazioni tra termini differenti. È discutibile se l'uso di
“strato” e, in corrispondenza, di “profondo” nei riguardi degli oggetti di scienza sia
legittimo.20 Parlando ontologicamente, quello che è al di sotto della superficie è il regno
dell'essere sostanziale che, indiscutibilmente, è al di là della portata della scienza. C'è solo
un punto nell’intero campo dell'esperienza possibile dove la mente cosciente afferra la
sostanza stessa, benché tutt'altro che nel modo adeguato, e questo avviene
nell'esperienza di sé. L'auto esperienza non significa, in questo senso, introspezione, e
neppure un'analisi introspettiva diretta alle “funzioni” o agli “atti”. Benché questo tipo di
auto esperienza sia estremamente valida, molto più di quanto alcuni psicologi, accecati dai
loro ideali per la cosiddetta psicologia scientifica, siano disposti ad ammettere, essa non è
l'immediata consapevolezza del proprio essere. Il proprio essere rimane, per così dire,
ancora oltre o al di sotto degli atti conosciuti attraverso l'introspezione più accurata. È negli
stati emozionali “profondi” che la coscienza afferra qualcosa del proprio vero essere. 21

Nel recensire alcune delle attuali teorie sulle emozioni, quelle che pretendono di fornire
una “spiegazione” nei termini della biologia possono essere scartate. A questo proposito,
si è verificato solo un piccolo progresso da quando Callicles ha proposto la teoria del
piacere come una riparazione o una restaurazione dopo lo “vuotamento”. 22 E neppure
necessitano di essere considerate quelle concezioni che rendono le emozioni indici di
vantaggio o di svantaggio. Queste sono troppo antiche. Originariamente il riferimento era
ad uno stato di perfezione più alto (come in Spinoza: il Piacere è il passaggio dell'uomo da
una perfezione minore ad una superiore). Un'epoca che ha imparato a considerare le
semplici funzioni vitali come le uniche rilevanti ed è dominata dal materialismo è costretta,
ovviamente, a distorcere il senso originario.

Le cosiddette definizioni ideate da H. Spencer per il piacere e per il dolore e, in


un'applicazione più ampia, per le emozioni in generale, non sono definizioni ma semplici
riproposizioni di quello che è osservabile da chiunque.23 La critica a cui queste cosiddette
definizioni furono soggette da parte di diversi autori24 ha dimostrato che non c’era ragione
per ripetere le stesse banalità. Così E. L. Thorndike, piuttosto che di piacere e di dolore,
parla di soddisfazione e di stimolo fastidioso. Soddisfazione significa “quello stato che, nel
caso degli esseri umani, è benvenuto, amato, preferito che esista piuttosto che non
esista”.25
Non molto più utili sono le teorie che connettono le emozioni con la “frustrazione”. Se con
questa parola si intende che le emozioni sorgono quando un movimento appetitivo non
trova immediatamente uno sfogo, allora c'è qualcosa di vero in questa concezione,
sebbene non copra tutti i casi. Specificamente, una tale teoria fallisce nello spiegare la
gioia del possesso. Per inciso, anche questa concezione ha i suoi predecessori, per
esempio nell'idea di Herbart che le emozioni sorgano dalla mutua inibizione delle “idee”.

Lo studio psicologico delle emozioni ha sofferto del pregiudizio generale che i “sentimenti”,
il piacere e il dolore, debbano essere considerati come i fenomeni più semplici e più
elementari e che le emozioni “più elevate” di conseguenza debbano essere analizzate da
tali sentimenti più qualche altro fattore. Questa concezione si basa sull'assunzione non
provata che i “sentimenti semplici” siano gli stessi in ogni circostanza, ossia, che esista
solo un tipo di piacevolezza o di dispiacere. Le ricerche recenti, però, hanno mostrato che
anche il “semplice” piacere può essere qualitativamente differente. Il piacere da
soddisfazione è di un'altra natura rispetto al piacere da funzione (come nell'attività di
gioco) o il piacere di creazione.26

Tuttavia, gli autori che hanno a che fare con le emozioni, nonostante le differenze
d’interpretazione, sono d'accordo su di un punto: le emozioni sono stati soggettivi, ossia
non hanno un rimando diretto al mondo oggettivo. Esse sono indici, per la coscienza, non
delle situazioni esterne, ma delle situazioni interne. Esse sono considerate come “stati” del
soggetto, o come le manifestazioni di tali stati alla coscienza. Esse non sono
gegenstandlich, ma zustandlich.27

La natura delle emozioni come modi del soggetto è riportata in vario modo a seconda della
concezione generale degli autori. L'introspezione, dice R. S. Woodworth, “rende
affascinante”, sebbene non evidente, la conclusione che i sentimenti siano atteggiamenti
reattivi dell'organismo.28 F. Krueger sostiene che le emozioni sono distinte da tutte le altre
modalità di esperienza ma sono in connessione con esse; esse sono “qualità complesse
della totalità dell'esperienza effettivamente esistente”.29 A. Willwoll appoggia Krueger,
come molti altri autori, ad esempio Stieler.30 Una caratteristica particolare enfatizzata da E.
Raitz de Prentz è la passività delle emozioni. Esse sono soggettive e sorgono in
conseguenza delle impressioni o delle situazioni senza alcuna attività da parte del
soggetto, come pure risposte.31 Bisogna ricordare il concetto di passiones animae, il cui
termine, come è noto, si riferisce in senso stretto agli stati emotivi, sebbene abbia anche
un significato generale. È vero che anche in un atteggiamento puramente recettivo la
mente è attiva in modo più spontaneo che nelle emozioni. La percezione comporta attività,
almeno per il fatto che c'è un girarsi verso l'oggetto, un'attenzione fissa su di esso, e così
via.

C'è, però, un'altra proprietà delle emozioni che, forse, è più caratteristica e ci permette di
penetrare maggiormente nella natura di questi stati mentali rispetto alla semplice passività.
Apparentemente gli psicologi hanno grandemente prestato attenzione a questa proprietà
dell'emozione, ma essa è stata portata allo scoperto da E. Husserl. Mentre ogni altro
fenomeno mentale, specialmente quelli della cognizione, presenta alla mente riflessiva
vari aspetti o lati, questa peculiarità è risultata mancante nelle emozioni. Husserl, per
descrivere gli aspetti mutevoli di altri fenomeni mentali, usa il termine abschatten, ossia,
essere differentemente colorato, o apparire in differenti tonalità. Niente del genere è
rintracciabile nelle emozioni. “Se guardo un'emozione, ho qualcosa di assoluto, non ha
facce che possano presentare se stesse come sono in un determinato momento e
diversamente in un altro. Posso pensare in modo vero o falso circa un'emozione, ma cosa
c'è prima dello sguardo è assolutamente nelle sue qualità, intensità, e così via”.32 E
neppure si può negare che in questo “assoluto” la mente sia consapevole di una modifica,
non tanto di se stessa, ma di ciò di cui la mente stessa è parte e manifestazione. Husserl
ha enfatizzato anche più vigorosamente di Cartesio la certezza dell’ego cogitans. In
questo senso si pone all’interno della grande tradizione che sorge dal scio me scire di
Sant’Agostino e conduce, senza interruzione, fino a Cartesio ed a tutti i filosofi da lui
influenzati. Si è trattato di qualcosa di più che semplice cortesia rivolta alle istituzioni
francesi, che lo hanno invitato, che ha fatto sì che Husserl chiamasse le sue lezioni di
Parigi Meditations Cartésiennes.33

L’espressione “modificazioni del soggetto” o dell’ego, se si preferisce, necessita ancora di


una chiarificazione. Cosa modifica l’ego, così che diventi consapevole di esser stato
modificato? La caratteristica della passività inerente agli stati emozionali indica che queste
modificazioni in qualche modo giungono da “fuori”. Questo “fuori” non dev’essere inteso in
senso spaziale. Esso designa l’intero reame del non io, includendo quindi non solo le cose
e le persone, ma anche le verità e i valori. D’altra parte, gli stati emozionali in particolare
sono personali e “soggettivi”. A quest’ultimo termine è stata attribuita, nella filosofia
moderna, una connotazione dispregiativa, abbastanza immeritatamente. L’esperienza
soggettiva può essere considerata di minor valore o di minor importanza solo se si ha
precedentemente accertato che la “conoscenza pubblica”, in grado di essere verificata da
chiunque utilizzi i metodi appropriati, è superiore ad ogni altra conoscenza in tutte le
condizioni. Questa asserzione è molto meno “auto evidente” di quanto creda l’empirista.
L’intera questione della relatività del valore e l’importanza del “soggettivo” e dell’
“oggettivo” deve essere esaminata nuovamente. Tale esame dovrebbe costituire il primo
obiettivo dell’empirismo. Tale scuola si fonda sull’importanza della prova, come sempre
avviene ogni volta che la filosofia pretende di correggere e soppiantare l’evidenza del
senso comune. Non è sufficientemente semplice dichiarare che ogni affermazione non
soggetta a “verifica”, modellata secondo lo schema della scienza, sia ipso facto “senza
senso”. Fin quando questo reclamo non viene sostenuto da qualche principio evidente
esso stesso è “senza senso”, poiché non può essere provato da nessun tipo di
esperimento. Questo dev’essere tenuto a mente se si desidera difendere la giustezza di
una psicologia di tipo non “scientifico”. Le discussioni nel modo in cui sono qui riportate
vengono considerate inaccettabili da coloro che sono assuefatti dall’idolatria della scienza
e disprezzano tutte le altre forme di esperienza.

Dal momento che le emozioni sono modificazioni dell’esperienza che l’io ha di se stesso,
esse sono, almeno in questo aspetto fondamentale, al di là della comprensione della
psicologia “scientifica”. Di conseguenza, l’attenta lettura dei libri di testo e delle riviste
piene di ricerche degli sperimentalisti si dimostra futile se il lettore sta cercando qualche
informazione sulla natura degli stati emozionali. Benché “oggettivi” e “scientifici”, gli
psicologi non possono aiutare a diventare consapevoli dell’esistenza e del ruolo delle
emozioni. Alcuni restringono le loro considerazioni alla manifestazione apparente delle
emozioni, ai cambiamenti corporei ed al comportamento; altri considerano la situazione
completa in cui l’organismo sviluppa una reazione emozionale. Alcuni si permettono anche
di inserire qualche dato dell’introspezione. Il risultato delle loro osservazioni ed idee si
riassume in questo modo: le emozioni sopraggiungono ogni qual volta l’organismo si trova
in una situazione che ha qualche influenza sul suo benessere. Le emozioni di minor
intensità si dimostrano di aiuto; se troppo intense esse possono diventare un ostacolo alla
reazione adeguata. Di media intensità esse rinforzano gli agenti del comportamento
appetitivo o comunicativo. Esse sono indici di “interesse”, di utilità o pericolosità, o,
nell’uomo, di ogni sorta di valore.

C’è qualche relazione tra l’interpretazione delle emozioni così come generalmente
accettata e le concezioni presentate nelle pagine precedenti a mo’ di tentativo? La risposta
dipende dall’idea che ci si può fare sulle situazioni in cui l’organismo, o piuttosto la
persona – dal momento che non sappiamo nulla degli stati emotivi negli animali, di cui
possiamo osservare solo il comportamento che assomiglia al nostro quando sperimentano
un’emozione – risponde attraverso un’emozione. In accordo con la tesi difesa qui, queste
situazioni devono essere di una natura tale da provocare una comprensione dello “stato
ontico” dell’uomo in generale e della persona individuale in particolare.
A tale riguardo è interessante che le emozioni si sviluppino con l’età, e che ci sia un
preciso parallelismo tra le capacità cognitive ed emotive. Questo significa che le emozioni
diventano più differenziate quanto più grande diviene la capacità di distinguere tra le
situazioni. Nei bambini appena nati e fino ad un’età di circa tre mesi si osserva solo uno
schema generale di eccitazione.34 All’età di tre mesi gli schemi reattivi di bisogno,
eccitazione, e piacere sono chiaramente distinguibili. Il bisogno distingue, attorno all’età di
sei mesi, il confine con gli altri corpi. La sensibilità somatica, dopo tutto, è uno dei risultati
dell’organizzazione sensoriale, e potrebbe ben essere che anche qui una specie sensibile
(species sensibilis) e l’intero processo della consapevolezza sensoriale entrino in gioco.
Infatti, possediamo un’immagine del nostro corpo, per quanto di solito non sia chiaramente
sviluppata. Ma essa soggiace a ogni nostra conoscenza riguardante le posture del corpo e
la localizzazione degli stimoli che toccano il corpo in qualche punto, e può essere
disturbata dai processi patologici.35

La consapevolezza del corpo, però, non è la consapevolezza di sé. Quando noi


conosciamo noi stessi pensando, non abbiamo una diretta conoscenza delle funzioni
corporali che sono coinvolte. Non importa se il cervello sia attivo nel pensare, come
“organo del pensiero” o come supporto alla base sensoriale per il pensiero astratto. Il
punto principale è che l’uomo è conscio del suo pensare senza sapere nulla del suo
cervello. In più, noi conosciamo il nostro corpo come “nostro”, come “appartenente” a noi
stessi. Il sé può essere confuso, nel linguaggio comune, con il corpo. Ma frasi come “ho
bruciato la mia mano”, rivelano la consapevolezza che la verità esiste anche nella mente
comune, non riflessiva, poco sofisticata.

I fatti sono stati in qualche modo oscurati dalla proposizione Cartesiana, specialmente
dall’ergo. Questa parola implica che l’uomo sa di essere se stesso poiché pensa.
Apparentemente lo stato delle cose viene meglio descritto dicendo: cogito cogitationes
meas – io penso i miei pensieri. Infatti, ognuno dei nostri pensieri – o, genericamente
parlando, dei nostri stati mentali – viene direttamente e incontestabilmente caratterizzato
come “proprio”. Non c’è bisogno di riflessione su questo fatto; è originariamente ed
assolutamente evidente. Non c’è modo di dubitare anche “metodologicamente” che ogni
stato mentale osservato direttamente è il mio. La formula Agostiniana “so che sono io che
so” (scio me scire) traduce i fatti meglio della proposizione Cartesiana.36

Questa conoscenza o consapevolezza del proprio sé è, però, peculiare. In modo


immediato, essa è solo consapevolezza di essere (o dell’esistenza, per usare un termine
di alcuni filosofi recenti). L’esistenza come tale non è in alcun modo determinata;
l’esistenza è semplicemente “esserci” o Dasein, come dice Heidegger. Questo filosofo,
infatti, tenta di caratterizzare l’esistenza con alcune proprietà, o caratteristiche, o qualsiasi
termine sembri appropriato. Heidegger è perfettamente conscio che tutti questi termini
connotano significati che lui vuole siano esclusi. Egli, perciò, conia per queste espressioni
dell’esistenza il termine “esistenziali”. Da ciò, per inciso, diventa chiaro che si male
interpreta la nozione di Heidegger di esistenza se si vede in essa la stessa cosa dell’esse
o dell’existere della Scolastica o di altre filosofie tradizionali. (Le relazioni tra esse e
Dasein e la forma che l’intera questione della distinzione tra essenza ed esistenza assume
nella filosofia di Heidegger necessitano davvero di chiarificazione).

Quello che Heidegger trascura è che oltre a questi cosiddetti “esistenziali” ci sono altre
determinazioni – o almeno una determinazione – che sono d’importanza fondamentale.
Forse non trascura questo fatto, ma lo spoglia, a causa del suo punto di vista generale, del
suo significato. Il fatto è che l’uomo è conscio del valore. Il termine conscio non deve
essere indebitamente accentuato. Non è la stessa consapevolezza con cui conosciamo,
ad esempio, un fatto tangibile o una verità pensabile. Si potrebbe parlare di “co
consapevolezza”, comparabile alla conoscenza dell’io, che nelle parole di Kant deve
accompagnarsi a tutti i nostri atti mentali. Questo io non è solo lì, non è solo essente, ma
anche essendo dotato di un preciso valore.

Il merito o il valore implicano una relazione. Questa non va intesa nel senso banale, e
falso, che il valore si riferisce ad una relazione che si ottiene tra un soggetto ed un
oggetto, come se le cose avessero un valore solo “per me”. La relazione a cui si allude qui
è quella che si ottiene tra i valori. Nessun valore viene appreso nel perfetto isolamento.
Ogni valutazione comporta un punto di vista sull’ordine complessivo dei valori.

È stato troppo poco riconosciuto che i nostri giudizi di valore e della loro importanza
poggiano su considerazioni differenti dalle molte altre che permettono ogni tipo di misura o
di classificazione. Le dimensioni sono giudicate mediante alcune unità con le quali in
paragone tali dimensioni sono maggiori o minori. Il termine “unità” non significa che in tutte
le stime ci riferiamo ad una unità nota e misurabile; ma la procedura di stima è dello
stesso tipo come se applicassimo un criterio di paragone. Nella valutazione, però,
procediamo in modo abbastanza differente. Nel senso comune la dimensione inizia da un
punto zero; la prima soglia oltre questo punto definisce l’unità. La valutazione non conosce
tale zero. Non c’è zero nella bontà morale o nella bellezza estetica. E neppure si può dire,
in modo significativo, che un valore morale o estetico sia così tante volte maggiore di
qualche altro valore. Le “misure” dei valori estetici attraverso fattori accidentali, come il
numero delle persone a cui piace l’oggetto preso in considerazione, o il prezzo pagato per
un dipinto, le copie vendute di un libro, e così via, non sono vere “misure” del valore
estetico.

Cosa intendiamo quando diciamo, ad es., che un dipinto di Tintoretto vale di più che uno di
Carracci, o che le commedie di Shakespeare sono “migliori” di quelle di Massinger? Molti
risponderanno che un tale modo di esprimersi indica semplicemente la soddisfazione
maggiore che deriva da una delle due cose sottoposte a paragone. Anche
un'osservazione superficiale è sufficiente per invalidare questa affermazione, nonostante
la sua incessante ripetizione da parte degli autori della notorietà. È un complimento al
senso estetico ed alla comprensione del pubblico se un'opera d'arte piace a molti, ma
piacere a molti non è necessariamente un criterio di arte. Se fosse così, la grandezza
dell'arte diventerebbe completamente relativa, così che ciò che era arte ieri non lo è più
oggi, ma potrebbe ritornare ad esserlo domani. La mancanza di senso di tale opinione è
ancora più evidente se rivolta ai valori morali.

Il giudizio sui valori poggia su di un processo davvero curioso che potrebbe essere definito
l' “apprezzamento che parte dal massimo”. L'uomo porta in se stesso, per qualche motivo,
una “idea” di valore assoluto, che rappresenta il massimo di ogni classe di valori, l'assoluta
bellezza, l'assoluta bontà. Definendo un dipinto davvero bello, non affermiamo che esso è
distante di così tante misure dallo zero della bellezza, ma che si avvicina più di tanti altri
alla “bellezza ideale”, benché non abbiamo avuto esperienza di questo ideale, e neppure
l'avremo, almeno non in questo mondo. Lo stesso è vero per la bontà.

Ogni valore di cui diventiamo consapevoli è posto, automaticamente come sembra, in


qualche punto su di una scala, la cui fine serve come punto di partenza. Un oggetto
valutabile non è semplicemente valutabile, ma è sempre quantitativamente valutabile,
ossia, è sempre messo in relazione col massimo del valore.37 Benché il giudizio che inizia
dal massimo è, forse, caratteristico della sola valutazione, il fatto che un dato oggetto
denoti, in se stesso, il suo posto nell'ordine a cui appartiene, non è qualcosa di
eccezionale. È piuttosto l'aspetto generale della conoscenza. Un'impressione sensoriale
non necessita della massima intensità tollerabile per essere appresa come molto forte. Si
suppone che una persona che non ha mai visto nessun'altra tonalità di rosso, al di là di un
pallido rosa, sia in grado di concepire una maggiore rossezza, sebbene possa essere
incapace di immaginare una tale tonalità. Esistono analogie con la via eminentiae a tutti i
livelli dell'essere e dell'esperienza.38

L'auto valutazione implica, quindi, un'apprensione, benché imperfetta, del posto che
possiede l'individuo, in quanto incarna un preciso valore, nell'ordine dei valori, l'ordine
speciale “personale” e l'ordine dei valori in generale. Ma il valore non esiste in se stesso; è
il valore di un essente. Giudicando qualcosa noi assegniamo ad essa un posto non solo
nell'ordine dei valori ma anche nell'ordine dell'essere. È così che il nostro giudizio sulla
posizione ontologica di un essente si basa sulla valutazione o sul valore che noi
percepiamo come appartenente alla cosa piuttosto che sull'analisi comprensiva delle
proprietà della cosa. Siamo guidati in tale analisi dal valore che abbiamo appreso.

Queste valutazioni seguono le leggi loro proprie che sfidano, in un senso, il “razionale”,
ossia, ogni dimostrazione comparabile con i metodi della scienza. Ci sono principi evidenti
che non possono essere ridotti a principi più fondamentali. Così, l'ovvia superiorità delle
persone al di sopra delle cose è un principio evidente. Esso può essere correlato,
certamente, ai principi ontologici e metafisici. Ma se diciamo che, ad. es., la persona
umana possiede una dignità più grande di tutte le cose materiali, a causa della sua natura
razionale, siamo portati a chiederci quali siano i fondamenti della maggiore dignità della
natura razionale. E procedendo oltre, arriviamo alle considerazioni che sostengono il
valore maggiore di una sostanza semplice, spirituale ed immortale, o il valore maggiore
della cognizione degli universali, o il valore maggiore dell'auto-determinazione. Alla fine
dobbiamo ricorrere ai principi ultimi ed evidenti della valutazione. 39

Tuttavia, il fatto che la valutazione sia posteriore agli intuiti più fondamentali non comporta
il sostenere che il valore o la bontà antecedono l’essere o la verità. Sebbene una tale
opinione possa essere sostenuta, ed è stata sostenuta 40, non può essere dimostrata da un
semplice riferimento agli atti della mente umana o, se si preferisce, della persona umana.
La valutazione ed il suo oggetto proprio, il valore, possono essere antecedenti solo nei
riguardi di noi stessi.

Così, sembra che la valutazione sia al vertice di tutte le nostre posizioni nei confronti della
realtà, includendo il nostro sé.41

La valutazione, però, deve essere considerata come una vera operazione cognitiva; non
può essere collocata tra le potenze appetitive. È possibile, se si vuole, chiamarla
“precosciente”, sebbene sia probabilmente più corretto parlare di una cognizione pre-
riflessiva o non riflessa. Non c’è dubbio che la cognizione non riflessa, non solo dei valori,
occupi un posto importante nella vita umana. Una grande parte delle nostre prestazioni,
del nostro orientamento ai contesti, e simili tratti di condotta sono originariamente non
riflessi, o sono diventati così attraverso un’automatizzazione secondaria. Le impressioni
ricevute dai sensi sono immediatamente utilizzate per la regolazione del comportamento,
senza che siano fatti oggetto di riflessione.

Si deve distinguere tra “preconscio” e processi non riflessivi della mente. Gli eventi mentali
su cui la ragione non accende la sua luce non sono ancora, per questa ragione, “inconsci”
o “preconsci”. Il fallimento nel discriminare tra i vari livelli delle attività mentali –
specialmente il livello sensoriale e razionale – ha indotto molti ad estendere
irragionevolmente il campo dell' “inconscio”. Molte cose sono state chiamate con questo
nome che, in verità, non sono inconsce ma subrazionali, non “fuori” dalla coscienza, ma
semplicemente non pienamente realizzate, dal momento che tale realizzazione richiede la
riflessione e, quindi, un'operazione da parte delle facoltà razionali.

Il fatto di una consapevolezza o cognizione non riflessa implica una particolarità ulteriore
che può sollevare un'obiezione contro i punti di vista proposti. Le risposte emozionali non
sono solo “irrazionali” nel senso che sono indipendenti e antecedenti ad ogni controllo
intellettuale. Esse sono “irrazionali” anche nel senso di essere abbastanza spesso
irragionevoli, infondate, ed incontrano disapprovazione dagli altri tanto quanto da se
stessi.

Le emozioni non sono giudicate da standard loro propri. Un'azione è giudicata secondo i
principi che regolano l'azione in generale; è considerata giusta o sbagliata.
Un'affermazione è vera o falsa, secondo i principi dell'ordine del concreto o dell'astratto.
Un'emozione, però, è giustificata o non lo è. Essa non è né vera né falsa, né giusta né
sbagliata in se stessa. È “in armonia” con la situazione oggettiva, oppure no. Il tipo di
situazione non è un contenuto affermato dalla stessa emozione, ma è constatato da
un'analisi generalmente conseguente, realizzata dalle potenze cognitive. È sbagliato
sentirsi contenti a causa della sfortuna di un altro; ma la contentezza percepita come tale
non è sbagliata, e neppure è giusta. È sbagliata solo in date circostanze. È giustificato se
ci si sente afflitti a causa della perdita di una persona cara; non è giustificato essere tristi a
causa della perdita di un oggetto “amato”. L'afflizione stessa, però, non è giustificata né
ingiustificata. Così, le emozioni non conoscono nessun principio regolativo intrinseco.
Esse occupano il proprio posto in un ordine che non è esso stesso emozionale o
direttamente collegato all'emozione. L'ordine secondo cui le emozioni si ritiene che siano
giustificate o che non lo siano è l'ordine sia dei valori morali che di quelli estetici. 42

Non si può dubitare che le emozioni spesso sopraggiungano senza una situazione
oggettiva che fornisca una ragione sufficiente per un certo tipo di risposta emozionale o di
qualsiasi altro tipo. Questo fatto sembra rendere discutibile la visione proposta qui, ossia,
che l’uomo, nell’emozione, diventi consapevole del suo “stato ontico”. Se le emozioni sono
così frequentemente fuori luogo e non della giusta tipologia, esse non possono essere
considerate come una fonte affidabile di un qualche tipo di consapevolezza. Ancor di più,
le emozioni sono definite “meramente soggettive” per diverse ragioni, tra cui una deve
essere riportata in questo contesto. Alla stessa situazione oggettiva gli uomini rispondono
in modo molto differente. L’emozione come uno stato attraverso cui l’uomo diventa
consapevole del suo “stato ontico”, rivelerebbe differenti aspetti ad ogni individuo.

Questa obiezione, però, la si può affrontare con due considerazioni.

Primo, si deve essere attenti a non confondere l’” obiettività” di un processo cognitivo con
l’ “affidabilità”. Una prestazione cognitiva può essere attaccata da molti pericoli di errore, e
rivelare così, in certe condizioni, il vero stato delle cose e così essere “oggettiva”. Il fatto
che gli sbagli o che gli errori avvengano, in se stesso, non è un argomento decisivo contro
qualsiasi metodo o procedura.

Secondariamente, l’inaffidabilità delle emozioni, considerate nel loro aspetto cognitivo, può
non esistere del tutto. Non c’è bisogno di una stretta correlazione tra alcune situazioni
oggettivamente definite e delle emozioni ugualmente ben definite. Affinché l’uomo diventi
consapevole, per mezzo di uno stato emotivo, del suo “stato ontico”, l’unica condizione è
che ci siano le emozioni. Lo “stato ontico”, infatti, è antecedente ed indipendente da ogni
particolare situazione. Questo stato, di conseguenza, è immutabilmente lo stesso qualsiasi
sia la situazione. Anche un’emozione ingiustificata può rivelare questo stato. La potenza
rivelatrice, ad es., della vergogna, è la stessa se si prova vergogna perché si ha
commesso un peccato, o perché si è colpevoli di una rottura delle regole convenzionali.
Se o no la risposta emozionale particolare sia giustificata non abolisce il fatto che
un’emozione di questa o quell’altra natura sia stata esperita. Se abbiamo paura di un
pericolo reale o immaginario, la paura è in entrambi i casi la stessa esperienza. O, come
un famoso psichiatra una volta pose la questione: “Se sogni una tigre, la tigre è fittizia, ma
la paura è reale”. Noi possiamo amare una persona “indegna del nostro amore”. Ma quello
che l’amore ci può rivelare rispetto allo “stato ontico” dell’uomo può diventare evidente
qualunque sia la natura dell’amato e per quanto infondato il nostro atteggiamento possa
essere.

Ci sono altri atteggiamenti emotivi che, attraverso la loro vera natura, sono sempre ed
essenzialmente ingiustificati, come l’odio. L’odio, nel vero senso del termine, è diretto
contro le persone. Noi “odiamo” altri oggetti solo in un senso metaforico, o personificandoli
(come possiamo “odiare” un cavallo che è la causa di un incidente ad una persona
amata), o utilizzando la parola “odio” al posto del più corretto “detestare”. Il sentimento
d’odio può anche propagarsi da una persona odiata ad altre cose ad essa collegate,
proprio come l’amore rende preziose ed amabili cose che noi associamo con l’amato,
come segno del ricordo. Per quanto totalmente ingiustificate, queste emozioni possono
rivelare qualcosa dello “stato ontico” dell’uomo.

È abbastanza corretto parlare delle emozioni come stati “soggettivi”. Non hanno un diretto
riferimento agli oggetti che sono conosciuti dalle potenze cognitive. In realtà è necessario
ideare un termine particolare per designare l’ “oggetto” di cui gli stati emozionali mediano
la conoscenza.43

La soggettività delle emozioni, così, non può essere trasformata in un argomento contro la
funzione cognitiva prevista qui. Quello che è conosciuto non è che ciò che attraverso
l’emozione particolare è effettivamente rilasciato. Giustificata o no, l’emozione mantiene il
suo carattere e il suo riferimento ontico.

Un’altra obiezione, però, apparentemente porta un peso maggiore. Ci sono emozioni che
possono essere dette “spurie” e possono dirsi mancanti della caratteristica di uno stato
mentale “genuino”. La nozione di stati mentali genuini e non genuini è stata proposta da
W. Haas e A. Pfaender. Uno stato genuino è uno in cui la persona vive, ovvero, nella sua
totalità, mentre uno stato mentale non-genuino permette a vari “strati” di consapevolezza
di rimanere non integrati. Un uomo che ripone assiduamente tutta la sua attenzione al suo
lavoro, ma nella cui mente c’è un’ansia costante, per esempio, per il suo figlio malato a
casa, è in uno stato non genuino. Questo termine non connota un giudizio; è
semplicemente descrittivo. E neppure implica una differenza di “intensità”; un uomo può
essere maggiormente attento in un modo non genuino rispetto ad un altro che si trova in
uno stato genuino.

C’è tuttavia un certo tipo di emozioni non genuine in cui si perde la maggior parte
della loro vera natura. Quello a cui si è alluso potrebbe essere meglio esemplificato
dall’abitudine o attitudine della “sentimentalità”. Una persona sentimentale non solo
reagisce emozionalmente in un modo ingiustificato – ossia, fuori proporzione con l’evento
che scatena l’emozione – ma le sue emozioni sono percepite come frivole da un
osservatore, ed in qualche modo distorte, come se fossero alterate dalla loro direzione
originale ed appropriata da un agente segreto all’interno della mente di questa persona.
L’impressione di frivolezza, abbastanza curiosamente, può persistere nonostante una
grande esibizione delle manifestazioni emozionali. Questo è vero anche per certe
personalità anormali, solitamente qualificate come “isteriche”.

Le emozioni di una persona sentimentale non sono genuine perché questo tipo di persona
è così auto-centrato e così dedito alla continua contemplazione di se stesso –
frequentemente nella modalità dell’autocommiserazione – che non sarà mai capace di uno
stato di coscienza veramente integrato. Lo stato emozionale non si impadronirà mai di una
tale persona. Il suo modo di esperire le emozioni è parallelo al modo in cui alcune persone
apparentemente amano l’arte, la musica, o la poesia, laddove in verità l’unica cosa che
essi amano è la loro capacità di piacere. Esse sono, per metterla piuttosto crudamente,
continuamente in ammirazione di se stesse per la propria comprensione dell’arte, ecc. è
come se stessero continuamente dicendo a se stesse: “Come meravigliosamente io
apprezzo questo”. E così, sono focalizzate principalmente su se stesse e per nulla
sull’oggetto. Questo oggetto è per loro una semplice opportunità per mostrare, per lo più di
fronte all’audience della propria consapevolezza, la loro capacità di apprezzamento. La
persona sentimentale si comporta allo stesso modo. Basta ascoltare le sue ripetute
assicurazioni che la sua è una natura estremamente emotiva e sensibile per diventare
consapevoli del forte elemento di egocentrismo. Le reazioni emozionali di tali persone
sentimentali sono spesso inadeguate, fuori proporzione. Essi piangeranno lacrime amare,
ad esempio, a causa della sofferenza degli animali, si opporranno empaticamente e
irragionevolmente contro ogni tipo di esperimento eseguito sul “povero coniglio”, e
saranno totalmente impassibili per il fatto che ci sono bambini affamati, persone che
vivono nei bassifondi affollati.

Ognuno probabilmente conosce tali tipi. Essi colpiscono anche l’osservatore casuale in
quanto artificiali, non veri, come se fossero attori. Essi stessi, tuttavia, credono nella
profondità e nella genuinità delle loro emozioni. Se, però, queste emozioni non sono
realmente come essi credevano che fossero, possono esse rivelare a tali individui
qualcosa della loro posizione ontica? Si impone da sola una risposta negativa. Ma, allora,
come si può credere alle sue emozioni? Se la persona sentimentale illude se stessa,
ognuno può trovarsi nella stessa condizione. Egli può conoscere così poco quanto il
sentimento individuale conosce la realtà delle sue emozioni. Chiunque basandosi su
qualunque conoscenza che può raccogliere attraverso le sue esperienze emotive può
essere seriamente fuorviato e giungere a conclusioni che mancano di ogni validità
oggettiva. Di conseguenza, tutte le conclusioni tratte dall’esperienza emozionale non
possono essere certe, e devono essere scartate. A questo ragionamento si può
controbattere che la stessa distinzione evidenziata prima, si applica anche qui, vale a dire
quella tra oggettività ed affidabilità.

Secondariamente, bisogna ammettere che non ogni esperienza qualificata dal soggetto
come emozione profonda e genuina può essere accreditata di queste proprietà. Potrebbe
essere vero che non ci siano criteri sicuri attraverso cui un soggetto sarebbe in grado di
verificare la genuinità delle sue emozioni, sebbene ciò ammetta alcune restrizioni. Ma c’è il
fatto che le emozioni non-genuine e frivole siano riconosciute come tali dall’osservatore.
Certamente non da ogni osservatore, e forse da nessuno in alcuni casi. Il semplice fatto,
però, che una tale “diagnosi” sia del tutto possibile non ci deve far dubitare dell’asserzione
che nessun criterio affidabile possa essere trovato.

Uno di questi criteri consiste nell’effetto che l’emozione ha sulla totalità della vita e della
personalità di colui che sperimenta l’emozione. A titolo illustrativo è possibile riferirsi al ben
noto errore degli psichiatri naturalisti nel considerare come patologiche ogni tipo di visione
o di fenomeno estatico, semplicemente perché gli stati, apparentemente della stessa
natura, avvengono in persone mentalmente malate. Tuttavia, c’è un’enorme differenza. Lo
stato estatico di origine soprannaturale – o anche un’estasi naturale come accade a volte
agli artisti – esita in un innalzamento della vita, in un passo ulteriore in avanti e in alto nel
dispiegarsi della personalità, un arricchimento della mente. Lo stato patologico, invece, è
un sintomo di disintegrazione progressiva della personalità.44

In modo simile, le emozioni vere e genuine, anche quelle di natura depressiva, hanno, o
almeno possono avere, un’influenza positiva sulla personalità. Il dolore ed il cordoglio
spesso hanno accresciuto la comprensione dell’uomo di se stesso e della natura umana.
Ed anche le emozioni negative hanno tale influenza. La personalità sentimentale non
diventa più ricca, più profonda, più perfetta, indulgendo in emozioni non genuine.
Piuttosto, più a lungo questa abitudine persiste, più superficiale tale persona diventa.
Inoltre, gradualmente perde la capacità di un vero riconoscimento dei valori. Ogni cosa gli
appare come ugualmente importante, perché reagisce agli eventi più insignificanti con
quello che considera una profonda emozione. Così, non è in grado di reagire con
un’intensità maggiore quando emerge una ragione seria, poiché egli ha, per così dire,
speso la sua energia emozionale in troppe occasioni insignificanti. Egli ha deplorato così
tanto la perdita di un animale domestico che la sua reazione non può essere più forte
quando sua madre muore. Una tale degenerazione del senso dei valori non può che
diventare una tendenza verso un graduale impoverimento della personalità.

Le emozioni vere, pienamente sviluppate e genuine sono probabilmente tanto rare quanto
tutte le altre cose perfette. Non ogni persona è in grado di sperimentare l’emozione così
che la sua esperienza diventi una vera rivelazione dello “stato ontico”. Tuttavia, questo
non nega la capacità di una conoscenza tale a coloro che, per natura o per altre ragioni,
sono incapaci di emozioni profonde e genuine. Il fatto che una emozione non raggiunga
uno stadio perfetto, fraintendendo lo stato imperfetto per la cosa reale, non è un grande
ostacolo.45 L’uomo in qualche modo è consapevole del ruolo fondamentale giocato dalla
emozioni nella sua vita, e spesso ammette a se stesso, seppur difficilmente, di provare
vergogna nel perdere la più alta emozionalità. Egli può trasformare questo difetto in una
virtù e diventare uno stoico. O può chiudere i suoi occhi e convincere se stesso che le sue
esperienze emozionali molto imperfette sono tutto ciò che si può aspettare. Se, però,
realizza dove si trova, può ottenere la stessa conoscenza di chiunque sia capace delle
risposte emotive più intense e profonde.

Deve essere fatto un riferimento, in questo contesto, ad un punto toccato prima. Ogni tipo
di esperienza che esiste in differenti gradualità permette alla mente di concepire livelli non
attualmente sperimentati. (L’aspetto psicologico come quello ontologico della via
eminentiae merita uno studio più approfondito di quello che può essere svolto qui. Ma il
fatto è facilmente appurato, anche se la sua interpretazione, a livello ontologico e
psicologico, può presentare alcune difficoltà). Questa “estrapolazione” oltre il livello
attualmente sperimentato permette all’uomo di afferrare, se in un modo meno
impressionante, ma ancora adeguato, la vera natura dell’emozione che esperisce. L’unica
condizione – ma è difficile da adempiere – è che un uomo sia perfettamente onesto nei
riguardi di se stesso e che sia disposto a sottoporre le sue emozioni ad un esame così da
scoprire se siano genuine e giustificate, o mancanti di genuinità e collegate ad oggetti che
non giustificano il tipo di risposta. L’ostacolo più grande, certamente, è la vanità dell’uomo.
Questo è il caso più frequente, dal momento che l’emozione, essendo caratterizzata come
soggettiva e personale, sembra “appartenere” più alla persona in sé che alle idee, alle
immagini, ai concetti e a fenomeni simili, che sono collegati al mondo oggettivo. All'uomo
non piace riconoscere che è stato ingannato dalle apparenze, o portato all'errore nei suoi
giudizi; ma gli piace ancor meno riconoscere che i suoi “sentimenti” sono sbagliati.

Sembra giusto enfatizzare ancora una volta che lo stato emozionale non supplisce in se
stesso una vera conoscenza dello “stato ontico”. L'emozione è solo un medium attraverso
cui (l'id quo) una tale conoscenza diventa possibile. La conoscenza risulta da una
successiva riflessione sullo stato emozionale ed il suo “riferimento oggettivo”. Ci sono
analogie a questo nel campo della conoscenza sensoriale. Una semplice consapevolezza
dei sensa, o dei sensi che sono in qualche modo stimolati [affected, ndr], non equivale alla
cognizione.
Ad es., sebbene la minaccia da parte di una potenza infinita, l'imminenza o, almeno, il
possibile annientamento dell'essere contingente e finito sia “trasmessa” nell'emozione del
terrore, questa implicazione diventa un contenuto della consapevolezza solo attraverso la
riflessione. Quindi niente può essere più di errore che il rimuovere o anche solamente lo
svalutare l'importanza della ragione per l'uomo, che governa la sua vita e perfeziona la
sua personalità. Al contrario, la ragione rimane l'unica luce che guida che ci rende in grado
di vedere le cose come esse sono, la loro natura universale, e di concepire gli intenti e gli
obiettivi da raggiungere con la nostra volontà.

Un'ulteriore questione dev'essere presa brevemente in considerazione. Potrebbe


sembrare, a prima vista, come se parlando di un “aspetto cognitivo” degli stati emozionali
venisse suggerita una nuova forma di cognizione che non potrebbe trovare posto nel
sistema della psicologia tradizionale. Sembra come se fosse postulata una facoltà
cognitiva di cui la teoria generalmente accettata è ignorante. Questa impressione, però, si
fonda su di un malinteso. Non solo il punto di vista sostenuto in questo articolo non
introduce alcuna nuova facoltà dell'ordine cognitivo, ma esso può essere sostenuto in
modo coerente solo se le nozioni sulle facoltà della natura umana sono mantenute proprio
come vengono insegnate dalla psicologia tradizionale.

Le emozioni (o le passiones animae) sorgono – secondo l'interpretazione tradizionale –


come correlati dei movimenti degli appetiti sensoriali. Questi appetiti vengono stimolati
dalla consapevolezza dei beni o dei mali, concepiti nell'oggetto particolare o nella
situazione che l'individuo sta attualmente affrontando. Questa consapevolezza è il risultato
della potenza cogitativa (vis cogitativa). Tale senso interno, quindi, è la facoltà che media
la cognizione implicata nell'emozione. È stato dimostrato altrove (si veda la nota 1) che la
valutazione è un'azione della vis cogitativa. Ogni apprensione sotto l'aspetto della bontà
poggia sull'attività di questa facoltà. Questa è stata trascurata ed alcuni autori sono stati
costretti da questa incuria a costruzioni piuttosto imbarazzanti, come, ad es., l'accreditare
le facoltà appetitive di una capacità cognitiva.

Un qualche dubbio potrebbe prevalere riguardo le origini della consapevolezza del valore
di sé. È poco probabile che un senso, anche uno dei sensi interni, sia in grado di rendere
la persona stessa un oggetto della cognizione. Tuttavia, questo problema non diverge in
alcun modo da quello della consapevolezza dell'esistenza individuale. 46

Prima di riassumere i punti di vista suggeriti, a titolo di prova, sembra raccomandabile


sottolineare che il ruolo delle emozioni così come considerato non è l'unico che questi stati
mentali giocano nell'economia totale della vita dell'uomo e nelle sue relazioni con il non-io.
Le emozioni realizzano diversi altri compiti.

Una conoscenza dei valori attraverso gli stati emozionali, accreditandoli di “intenzionalità”,
è una finzione, forzata da alcuni filosofi e psicologi dalla loro incapacità di considerare
diversamente l'apprensione dei valori. Qui la nozione della vis cogitativa occupa un posto
importante che è lasciato vuoto dalle moderne concezioni psicologiche. Il fatto, però che le
emozioni come tali non siano l’id quo i valori sono conosciuti non impedisce loro
dall'esercitare un'enorme influenza sui nostri atteggiamenti nei confronti dei valori. C'è
un'influenza reciproca (che procede avanti ed indietro, così per dire) delle emozioni ed i
movimenti correlati degli appetiti sensitivi da una parte, e l'azione della vis cogitativa
dall'altra. L'aspetto del valore delle cose appreso da questa potenza rilascia un movimento
desiderativo, e l'emozione corrispondente, alternativamente, rende la facoltà cognitiva più
sensibile all'oggetto di valore. Sebbene i valori possano essere riconosciuti senza una
conseguente risposta emotiva, non c'è dubbio che questi valori siano appresi con maggior
chiarezza se una tale risposta ha luogo. Di questo fatto, una spiegazione potrebbe essere
data nei termini dei punti di vista suggeriti qui. Tuttavia, una discussione su questo punto è
meglio riservarla per un altro luogo.

Secondariamente, le emozioni agiscono sugli appetiti come fattori di rinforzo. Non è forse
possibile parlare in modo generico della priorità dell'emozione e dei movimenti degli
appetiti come fenomeni consci. Apparentemente, ci sono occasioni in cui la mente è
conscia prima di una emozione e quindi di qualche desiderio, che allora si dice essere
condizionato dallo stato emozionale; e ci sono occasioni in cui la sequenza sembra essere
opposta, il desiderio o brama47 sorge per primo, e l'emozione segue.

In quest'ultimo caso, l'emozione è certamente sperimentata come un rinforzo del


movimento desiderativo. Questa sembra essere anche la principale funzione
dell'emozione. Essa agisce, se un tale paragone sembra possibile, come una valvola di
rinforzo in un apparecchio radiofonico.

Le correnti deboli che arrivano nella parte ricevente dell'apparecchio (l'antenna) vengono
rinforzate così da poter causare delle vibrazioni udibili nella parte afferente, ad es.,
l'altoparlante. Le emozioni allo stesso modo sono difficilmente il motivo agente che
determina l'azione o il comportamento (con l'eccezione, certamente, delle forme
puramente espressive del comportamento). Le cause dell'azione sono i valori come
appresi nel mondo oggettivo o nel non-io. Ma questi valori, come appresi, di solido
possiedono una forza dinamica troppo piccola per rilasciare un qualche tipo di energia
d'azione. La loro efficacia deve essere resa più grande dall'intervento, o dall'inserimento,
delle emozioni. Questo è particolarmente vero dei valori che devono essere appresi come
qualcosa di più che una reazione ad una semplice piacevolezza.

Alcuni autori, tra cui M. Scheler e N. Hartmann meritano di essere menzionati, sostengono
che più alto sia un valore minore diventi la capacità di determinare il comportamento.
Questo è vero in senso descrittivo, ma non dice nulla, come questi filosofi sostengono,
sulla natura dei valori più alti, o per questa questione, su alcun valore. Infatti, per quanto
rari siano tali casi, sappiamo di persone a cui un valore come la verità teoretica attrae
tanto fortemente quanto i valori sensoriali attraggono la maggioranza delle personalità
comuni. Ancora rari, ma più numerosi dei casi riportati prima, sono coloro che reagiscono
con notevole intensità agli alti valori morali, persone per cui la sofferenza delle loro amate
creature “significa di più” che la più grande opera d’arte o il più intenso piacere sensoriale,
o anche la gratificazione della vanità.

Dal momento che le eccezioni non confermano, ma piuttosto invalidano ogni regola,
possiamo sicuramente sostenere che non c’è una regola che sostiene l’inutilità dei valori
più elevati. Non sono i valori più alti che sono inutili, è la persona umana che è
indifferente. Queste, ovviamente, sono affermazioni completamente differenti: l’efficacia
dei valori più alti è negata, non in modo assoluto, ma solo in alcuni casi (non simpliciter,
ma solo secundum quid).

Alcune persone che hanno sviluppato una comprensione particolarmente profonda dei
valori possono agire in accordo con questa sola comprensione, senza che intervenga
l’emozione. Ma questi sono casi eccezionali. La persona comune reagisce ai valori solo se
un’emozione corrispondente di forza sufficiente viene suscitata. Pertanto è davvero
desiderabile che le emozioni vengano considerate nell’educazione, ma è un errore
rendere lo sviluppo della vita emozionale come un traguardo dei provvedimenti educativi.

L’ultimo aspetto importante delle emozioni è senza dubbio quello che è stato considerato
fondamentale dai filosofi più o meno orientati in modo naturalistico, l’aspetto ossia che
connette l’emozione con lo stimolo o le situazioni che incoraggiano o mettono in pericolo la
vita. Questo può essere vero in alcuni casi, può essere vero in particolare per le bestie,
ma non è vero in modo assoluto e generale per l’uomo. Molti degli stati emozionali
dell’uomo non hanno un collegamento diretto con la conservazione o con il mantenimento
della vita. Una tale relazione deve essere costruita, e di solito è costruita sulla base delle
nozioni evoluzionistiche. Se una tale spiegazione funzioni o meno, non c’è bisogno che sia
indagato qui. Dal punto di vista della psicologia descrittiva, almeno, non vi è quasi alcuna
indicazione di una tale connessione.

Per riassumere brevemente le principali idee presentate nelle pagine precedenti: si


sostiene che le emozioni rendano evidente alla mente lo “stato ontico” dell’uomo, ossia, il
posto che occupa nell’ordine dell’essere. Questa conoscenza, in quanto mediata
dall’emozione, è irriflessa e giunge a chiarezza e certezza solo attraverso la riflessione
sulla totalità della situazione emozionale quando, conseguentemente, l’intelletto si è
focalizzato su questa situazione. L’aspetto cognitivo dell’emozione non appartiene
all’emozione in quanto tale ma alla potenza cogitativa, le cui apprensioni rilasciano lo stato
emozionale. L’oggetto proprio di questa apprensione è il lato valoriale dell’essere. I valori
non sono appresi semplicemente come questo o quel valore, ma sempre e
necessariamente come valori di questa o di quella grandezza. Un bene di ordine inferiore
non è colto come il bene più alto possibile, anche se nessun bene maggiore sia stato
ancora sperimentato. Con questa connotazione del posto occupato da un dato valore
esistono analogie anche in altri campi dell’esperienza.

L’emozione, però, non semplicemente rivela l’aspetto valoriale di un oggetto o di una


situazione. Questo viene fatto concretamente dalla vis cogitativa, sia che consegua una
risposta emozionale sia che non consegua. Le emozioni sono state definite come
“meramente soggettive”. Questo non è vero, in quanto hanno qualche tipo di “riferimento
oggettivo”. È vero, però, in quanto come stati emozionali rivelano la relazione particolare
del soggetto con l’ordine dei valori e così con il valore proprio del soggetto.

L’uomo è in grado di raggiungere una visione del suo “stato ontico” anche attraverso il
semplice ragionamento senza che le emozioni necessariamente intervengano.
L’emozionalità di una consapevolezza immediata o sperimentale è, certamente, molto più
grande. In questo giace una parte dell’importanza che una vita emozionale ben sviluppata
ha per il dispiegarsi della personalità. La semplice emozione, un semplice abbandono
negli scompigli emozionali, senza che si aggiunga l’attività chiarificatrice dell’emozione, è
più dannosa che buona. Per quanto l’emozione possa essere importante, è ancora la luce
della ragione che si dimostra l’unica guida affidabile.

Le emozioni, come rivelatrici dello “stato ontico”, indicano principalmente la finitudine della
natura umana. Se quello che esse rivelano viene correttamente compreso, l’uomo diventa
più conscio della sua posizione come creatura, come essere finito e contingente. Allo
stesso tempo, è sollevato dall’idea depressiva che la conoscenza della finitudine, della
contingenza e dell’assoluta dipendenza può indurre. Egli quindi realizza che in nessun
luogo la sua posizione è stata meglio definita che nelle parole del Salmo Ottavo: “Cos’è
l’uomo?”. L’uomo è niente; egli non è degno che Dio si ricordi di lui. Eppure è stato fatto
poco meno degli angeli. La sua posizione è così alta nell’ordine degli esseri creati che
quasi raggiunge il livello della natura angelica.

Mentre le emozioni depressive e, comunemente parlando, negative rivelano all’uomo la


sua nullità, il suo vero “non essere” – in confronto all’Essere Stesso – le altre emozioni lo
rassicurano sul suo valore. Il terrore, minacciando l’annichilimento e rivelando la sua
intrinseca possibilità, vigorosamente evidenzia all’uomo la sua finitudine, il limite, il suo
essere niente, sebbene egli sia qualcosa. Ma l’amore, e tutte le altre emozioni che rivelano
all’uomo la sua capacità di valere, la sua possibilità di crescita, e l’indistruttibilità del suo
valore, nonostante il riconoscimento di valori più grandi di quelli che lui può chiamare suoi,
queste emozioni significano non solo arricchimento di vitalità, non solo gioia e piacere, ma
anche il lieto riconoscimento dell’ordine dei valori al cui interno l’uomo occupa,
paradossalmente, un posto così importante.

Rudolf Otto, nel suo libro sul Sacro, parla dei vari aspetti della natura Divina: Dio come il
mysterium tremendum, il mysterium fascinosum, e così via. La speculazione razionale può
infatti condurci a simili concezioni. Ma noi trepidiamo non semplicemente perché
sappiamo che c’è una ragione per tremare, e non amiamo semplicemente perché
sappiamo che c’è una ragione per amare. La nostra fede può essere intellettualmente
perfetta, eppure essere “fredda”. La convinzione razionale può essere sufficiente alla
volontà per determinare se stessa nei confronti di un atto di fede e dell’obbedienza alla
legge divina. La ragione può anche convincerci della finitudine della nostra natura e
dell’esistenza di Dio. La ragione, così, può contribuire anche alla conversione. E la fede
necessita di non essere meno forte, la convinzione di non essere meno radicata, la
volontà di obbedire ai comandamenti non meno efficace, per ogni mancanza della risposta
emozionale. L’emozione non è una conditio sine qua non per la vita religiosa. Se così
fosse, non potrebbe essere garantita alcuna costanza ed alcuna continuità a questa vita,
dal momento che le emozioni dipendono da così tanti fattori al di là di ogni controllo della
volontà cosciente.

D'altra parte, una vita emozionale ben sviluppata può contribuire molto
all'approfondimento degli atteggiamenti religiosi. Non è vano, ad esempio, che il dono
delle lacrime sia elencato tra le grazie particolari accordate da Dio ad alcune persone
elette. E neppure non è senza profondo significato che i santi siano, comunemente
parlando, tanto grandi nei riguardi delle loro risposte emozionali quanto di altre azioni. La
gioia poetica di San Francesco di Assisi, l'originale brio di San Filippo Neri, l'amore
ardente per i poveri e per i sofferenti caratteristica così universale delle personalità dei
santi, come molti altri tratti noti nell'agiografia, necessitano solo di essere menzionati per
rendere evidente la stretta relazione tra una vita perfetta ed una capacità per una solida
risposta emozionale.

La risposta emozionale, però, è solida quando è “giustificata”, ossia, proporzionata alla


situazione oggettiva a cui risponde. Un semplice culto dell'emozionalità, come fine a se
stesso, causerà più danno che bene nel cammino verso la vita perfetta. Anche l'emozione,
al di là della sua importanza, della sua spontaneità, della sua carica, deve essere soggetta
al controllo delle facoltà razionali. Non è l'emozione stessa che decide sulla sua giustezza
o erroneità. Un tale giudizio viene approvato solo dalla ragione. Qui come altrove è alla
retta ragione che appartengono i giudizi ultimi, ed è alla buona volontà che compete
l'esecuzione.

1 R. Allers, “The Vis Cogitativa and Evaluation,” The New Scholasticism, XV (1941), p. 195 (tr. It.
“La Vis Cogitativa e la valutazione” in Psicologia e Cattolicesimo, Giugno 2013, cfr.
http://www.psicologiacattolicesimo.blogspot.it/2013/06/la-vis-cogitativa-e-la-valutazione-di.html)

2 Per una critica della filosofia dei valori di Perry, cf. H. E. Cory, “Value, Beauty and Professor
Perry”, The Thomist, IV (1942), 1.

3 Halle a. S.: M. Niemeyer, 1916. Apparso prima nel Jahrbuch für Philosophie und
phaemomenologische Forschung di Husserl [in italiano, San Paolo, Milano 1996; oppure:
Bompiani, Milano 2013, con testo tedesco a fronte].

4 “Uber emotionale Praesentation,” Sitz. Ber. Wiener Akad. d. Wissensch. Phil. Kl. 1917.

5 G. E. Moore, Principia ethica.

6 Il concetto dell’angoscia, 2007, editore SE, Milano. La malattia mortale, 2008, editore SE,
Milano.

7 The Successful Error, New York, Sheed & Ward, 1940 (inedito in italiano).

8 Essere e Tempo, 1929, tr. It. Mondadori, Milano, 2011. Cos’è la metafisica?, 1929, tr. it. Adelphi,
Milano, 2001.

9 Heidegger è eccessivamente difficile da leggere, anche per chi ha una perfetta familiarità con la
lingua tedesca. Gli articoli pubblicati da W. H. Cerf, “An Approach to Heidegger”, e da W. H.
Werkmeister, “An Introduction to Heidegger’s Existential Philosophy”, Philosophy and
Phenomenological Research, I (1940), 177, and II (1941), 79, sono utili per una prima
comprensione.

10 La modalità di Heidegger di utilizzare la lingua tedesca è peculiare e spesso arbitraria.


Conferisce nuovi ed insoliti significati ad alcuni termini e ne conia di nuovi. Qualche volta l’uso
che fa delle parole getta una luce inaspettata su significati che abitualmente vengono ignorati. Ma
qualche altra volta il lettore difficilmente può evitare la sensazione che molte delle frasi di
Heidegger, specialmente di carattere ontologico, siano in verità solo miscugli del linguaggio.
Questo diviene evidente ogni volta che si tenta di tradurre le idee di Heidegger in una lingua diversa
dal tedesco. Allora le affermazioni che presenta come ovvie diventano più che discutibili.
Werkmeiester, nell’articolo menzionato nella nota (9), esprime un punto di vista simile.
Si è tentati di chiedersi perché e come un filosofo di indubbia capacità, spassionatamente interessato
ai problemi dell’essere, debba fare così tanto affidamento su di una evidenza così marginale come è
il significato delle parole. Questo può essere parzialmente spiegato ricordando che Heidegger è il
pupillo di Husserl. Quest’ultimo crede che ogni modalità di esperienza appartenga e corrisponda ad
un modo di essere, almeno nel senso di esse intentionale. Quale possa essere stata la concezione
ontologica fondamentale di Husserl non è un problema di questa discussione.
L’altra ragione, che può essere assunta con un buon motivo, deve essere trovata all’interno dello
sviluppo e del lavoro dello stesso Heidegger. Uno dei suoi primi scritti, quello grazie a cui ha
ricevuto la venia legendi in filosofia, ha a che fare con il linguaggio. Il titolo è Die Kategorien und
Bedeutungslehre des Duns Scotus (Tubingen Mohr, 1916). Il tema è un’analisi della Grammatica
Speculativa, un trattato che figura tra gli scritti di Duns Scoto, ma il cui autore, come M. Grabmann
fu in grado di dimostrare, è Tommaso di Erfurt (Thomas Erfordiae) del quattordicesimo secolo
(Grabmann, Mittelalterliches Geistesleben, Vol I. Munich: M. Hueber, 1926). Incidentalmente,
Grabmann menziona un fatto che può servire come spiegazione per l’errore di attribuzione.
Tommaso era rettore i un convento apud Scotus ad Erfurt, e così lui stesso divenne Scotus.
Curiosamente, Heidegger ha ignorato questa connessione.
I trattati De Grammatica Speculativa o De Modis Significandi contengono un riferimento alla stretta
corrispondenza tra modi di essere, di comprendere, e di esprimersi. Questa idea è mantenuta anche
dagli autori che, attraverso la loro adesione al nominalismo e, di conseguenza, alla visione che le
parole siano segni arbitrari (signa ad placitum) – mentre i concetti sono segni naturali (signa
naturalia) – devono abbandonare la stretta corrispondenza tra i concetti o i loro modi, e le parole.
L’abitudine piuttosto singolare di Heidegger di trattare un’ambiguità nelle parole come se si
riferisse necessariamente a un duplice fatto ontologico, e la sua abitudine di creare molti idiomi e
molte particolarità del linguaggio, può essere ricondotta alle idee di cui fu imbevuto quando
studiava il trattato di Thomas Erfordiae. Questo è molto probabile poiché avendo a che fare
completamente con “Scotus” tenta di modernizzare il più possibile le nozioni medievali. Scopre
strette somiglianze tra i punti di vista dell’autore medievale ed alcune idee moderne, in particolare
Husserliane. Così, la fusione di una delle sue fondamentali intuizioni filosofiche con la concezione
modista, sembra costituire una spiegazione non improbabile.

11 Questa e molte delle seguenti citazioni riassumono brevemente uno studio maggiormente
dettagliato che il sottoscritto ha pubblicato anni fa. “Zur Phaenomenologie und Metaphysik der
Angst”, Religion und Seelenleben, VII (1932) 157-165. (Proc. of the Section of Psychology,
Deutscher Kathol. Akademikerverband).

12 Non è inutile osservare le espressioni utilizzare dai vari linguaggi per fatti così fondamentali
come la disperazione. Il latino, certamente, è la fonte della parola Inglese e Francese, ed anche di
quella Italiana o di qualsiasi altra lingua romanza. Il Greco possiede diversi termini, uno che
semplicemente significa “perdita di speranza”, ma due che forse sono particolarmente caratteristici
della mentalità Greca. Essi riferiscono infatti dell’incapacità di comprendere (), o
l’insolubilità della situazione (). Il termine Tedesco, però, è Verzweifelung, che implica la
nozione di doppio (zwei) e di dubbio (Zweifel), e così indica che nella disperazione non c’è alcuna
soluzione possibile, che ogni dubbio sull’esito è risolto, che il terribile evento o stato è divenuto
irrevocabilmente reale. Che questo sia un aspetto della disperazione non sfugge all’Aquinate, che
dice che la disperazione, eccedendo la misura della paura (mensura timoris), si verifica quando non
c’è chance che avvenga qualsiasi cambiamento. Ma la psicologia popolare, o la mentalità prevalente
delle persone, evidentemente ha percepito differenti caratteristiche specifiche un po’ qui ed un po’
lì.

13 Wesen und Formen der Sympathiegefühle, 2d ed. Bonn: Cohen, 1923 [tr. it. Essenze e forme
della simpatia, Città Nuova, Roma, 1980].

14 Riportata tra i lavori di S. Alberto, ma, nei fatti, come M. Grabmann ha dimostrato, di Giovanni
di Kastl, un Benedettino che scrisse alla fine del quattordicesimo secolo o nei primi anni del
quindicesimo. Mittelalterliches Geisteslaben, Vo. I. Munich: M. Heuber, 1926, pag. 489-525.

15 M. Scheler, op. cit., nota (12); R. Allers, Psychologie des Geschlechtslebens, Munich, Reinhardt,
1922, anche in: Handbuch der vergleichenden Psychologie, ed. G. Kafka, vol. III, ibid.

16 Sull’istinto si veda: K. Goldstein, The Organism, New York, Amer Book Co., 1939; e dello
stesso autore: Human Nature in the Light of Psychopathology, William James Lectures, Cambridge,
Mass. Harvard University Press, 1940. Inoltre Bierens de Haan, Der Instinkt, Leiden, 1940.

17 Per un’analisi completa e penetrante della compassione, si veda il lavoro di Max Scheler citato
nella nota (12).

18 Esistono pochi studi sul disgusto. L’articolo di G. Kafka: “Zur Psychologie des Ekels”, Zschr.
Ang. Psych., XXXIV (1929), 1, merita di essere menzionato, sebbene la teoria ivi proposta – ossia
che il disgusto sia ultimamente collegato e radicato nella sessualità – sia inaccettabile. Cf. J. Hirsch,
Ekel und Abscheu, ibid., 472.

19 È davvero necessario sottolineare che la profondità a cui ci si riferisce qui non ha nulla a che fare
con la profondità di cui “la psicologia del profondo” si vanta. La profondità di cui parla questa
psicologia, ad es. la psicoanalisi, è della stessa natura della profondità della conoscenza. Gli “strati”
che la psicoanalisi considera come la costruzione della personalità umana sono concepiti nei termini
della scienza e non dell'esperienza.

20 Si può essere d'accordo con la pretesa avanzata dal “Circolo di Vienna” in un pamphlet
programmatico che dichiara le intenzioni generali del gruppo: “La scienza”, essi scrivono, “non
conosce profondità; si mantiene decisamente alla superficie del fenomeno”. La scienza, nel senso
stretto in cui questo termine viene usato, può non essere certamente in grado di penetrare al di sotto
della “superficie”. Ma quest'affermazione ha un significato filosofico solo se prima si assume che la
conoscenza esiste solo grazie ed attraverso la scienza. Tale affermazione, però, non appartiene essa
stessa alla scienza ma alla filosofia. Un pensatore che rinnega alla scienza, giustamente, la capacità
di vedere al di sotto della superficie e allo stesso tempo sostiene che la scienza sia l'unica forma
legittima di conoscenza, commette un serio errore logico, e parla di cose di cui, secondo il suo
stesso principio, non può sapere nulla.

21 Questo spiega il perché così tante persone abbiano una precisa avversione per ogni tipo di
emozione profonda e si affannano per fuggire ogni situazione che potrebbe avere come esito una
modifica vera e profonda del loro essere. Esse sono mortalmente spaventate dall'incontrare se
stesse. Kierkegaard ha fatto alcune osservazioni veramente pertinenti anche su questo argomento. I
mezzi attraverso cui vengono evitate tali esperienze sono molteplici. Descriverli è il compito della
psicologia, o dell'antropologia. Quanto meno qualcuno è sicuro di essere una persona vera o di
possedere un vero valore, quanto più si sforzerà di sfuggire la “discesa verso l'inferno dell'auto
conoscenza”, per usare un'espressione con cui Kant ha dato il nome a quello che lui credeva fosse la
condizione necessaria per ogni ascesa verso una conoscenza superiore o forma di esistenza.

22 Gorgia, 494b; si veda anche Timeo, 64a 65b; Aristotele, Etica Nicomachea, VII, 14, 1154a25 ff.
Solo tali teorie si ritiene che abbiano una relazione con i particolari problemi in discussione.

23 H. Spencer, Principles of Psychology, 3d ed., New York, 1986, Vol. I, p. 250.

24 Ad. es., H. R. Marshall, Pain, Pleasure, and Aesthetics, New York, 1984.

25 E. L. Thorndike, “A Pragmatic Substitute for Free Will”. Essays in Honor of W. James, New
York, 1908, pag. 588. La natura tautologica di questa “definizione” è stata sottolineata, ad esempio,
da H. Cason, “The Pleasure Pain Theory of Learning”, Psychologica Review, XXXIX (1932), 440.

26 Aver trascurato consistentemente questi fatti è uno degli errori più seri che compiono gli
psicoanalisti. Essi considerano il piacere da soddisfazione, come equivalente al raggiungimento di
uno scopo istintivo, l'unica forma di piacere. Cf. i commenti del sottoscritto su questo punto, The
Successful Error, New York, 1940, Sheed and Ward, p. 137.

27 Questa caratteristica può essere assente nei sentimenti semplici, specialmente di tipo sensoriale.
Ma le emozioni sono modi della persona, nonostante i loro riferimenti a fatti o situazioni og gettive.

28 R. S. Woodworth, Experimental Psychology, New York, 1939, H. Holt.

29 F. Krueger, Des Wesem der Gefuhle, Leipzig, 1837, pag. 118.

30 A. Willwoll, Seele und Geist, Freiburg i. B., Herder, 1938, pag. 119; G. Stieler, “Die
Emotionen”, Arch. f. d. gesamte Psychologie, 1925, L, 343.

31 E. Raitz de Frents, “Bedeutung, Ursprung und Sein der Gefuhle”, Scholastik, 1927, II, 402.

32 E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phaenomenologie und phaenomenologischen Philosophie,


Halle, a. S., M. Niemeyer, 1913, pag. 81.

33 E. Husserl, Meditations Cartésiennes, Paris, A. Colin, 1931.


34 G. M. Stratton, “Excitement as Undifferentiated Emotion”, Symposium On Feeling and
Emotions, ed. C. Murchison, Worcester, Mass., 1928, Clark University Press.

35 Molti anni fa il sottoscritto ha descritto tali disturbi di “autotopognosia”. L’immagine del proprio
corpo, come una cornice di riferimento per la consapevolezza della nostra postura, ecc., è stata
chiamata, da altri, lo “schema corporeo”. R. Allers, “Uber Storungen der orientierung am eigenen
Korper”, Zentralblatt f. Nervenheilkunde, 1909.

36 Recentemente R. Honigswald ha sottolineato l’importanza del fatto “io so che io so” e


dell’indefinito prolungamento di cui questa affermazione è capace. Certamente, non c’è un regresso
infinito, perché l’ “io so” è ad ogni passo lo stesso. Cf. Prinzipien der Denkpsychologie, 2° ed.,
Leipzig, Teubner, 1928.

37 Sembra possibile costruire, utilizzando questi ed altri criteri di valutazione, una dimostrazione
“assiologica” dell'esistenza di Dio. Tale tentativo è stato fatto da M. Scheler, Der Formalismus in
der Ethik und die materiale Wertethik, Halle a. S., Niemeyer, 1916. Le speculazioni di questo
filosofo, però, sono guastate dalla sua non comprensione delle idee di sommum bonum e di ens
realissimum. Egli infatti argomenta che la riflessione assiologica conduce alla nozione di sommum
bonum, mentre la speculazione metafisica termina con il concetto di ens realissimum, ma che non ci
sia un'evidenza convincente, da trovarsi nella ragione, per l'identità delle due nozioni. La mancanza
di chiarezza in questi punti spiega in qualche modo il perché Scheler, successivamente, sia giunto
alla concezione impossibile di un Dio in divenire; Die Stellung des Menschen im Kosmos,
Darmstadt, 1929, Reichel.

38 I fatti a cui si allude, per quanto il sottoscritto può verificare, sono stati sottolineati per primo da
J. Pikler in un numero di Schriften zur Anpassungtheorie des Empfindungsvorganges, specialmente
quello in cui si discute la legge di Weber, Leipzig, 1919-1929, Barth. Si veda anche Ch. Hartshorne,
Philosophy and Psychology of Sensation, Chicago, 1934, University of Chicago Press; J. P.
Ledvina, A Philosophy and Psychology of Sensation, with Special Reference to Vision, Washington,
D. C., 1941, Catholic University of America Press. Apparentemente senza essere influenzato dai
pochi psicologi che hanno tali punti di vista, D. W. Pratt ha sviluppato un’interpretazione simile
delle sensazioni, specialmente nel campo dell'udito. Si veda il suo Aesthetic Analysis, New York,
1936, Cromwell.

39 Questi principi ultimi non possono essere discussi qui. Sebbene si possa non essere d'accordo
con le affermazioni che compie in tutti i passaggi, i riferimenti di M. Scheler a riguardo, nel suo
grande lavoro sull'etica, meritano pienissima attenzione.

40 Le idee presentate in questo articolo hanno una certa somiglianza, come il sottoscritto ha
scoperto mentre stava ultimando il suo scritto, ai punti di vista di H. Guthrie, Introduction au
problème de l’histoire de la philosophie, Parigi, 1937, Alcan. La somiglianza, che il sottoscritto
percepisce, è più apparente che reale. Le concezioni ontologiche del Dot. Guthrie non possono
essere affrontate qui. Sarebbe necessaria un’attenta analisi per giungere ad una chiarezza sufficiente
nei riguardi della nozione del Dot. Guthrie di una priorità del valore in quanto posta contro quello
che lui chiama l’approccio matematico-logico in filosofia. Nel presente contesto, dobbiamo trattare
esclusivamente l’aspetto cognitivo delle emozioni e l’ontologia solamente per quanto alcuni
riferimenti alla metafisica possano aiutare a comprendere meglio le ragioni del perché gli stati
emozionali giochino un ruolo così importante nella piena comprensione della situazione “ontica”
dell’uomo.

41 Da un’ulteriore riflessione, sembra essere necessariamente così. La valutazione essendo il


risultato della vis cogitativa, che non solo co-opera nel configurare la forma finale della
consapevolezza sensoriale e il fantasma ma, come ratio particularis, è un fattore essenziale in tutte
le azioni particolari, è il vero perno dell’atteggiamento e del comportamento. Le sue azioni
cognitive, quindi, non possono che essere al vertice di tutti gli atteggiamenti nei confronti della
realtà.

42 I fatti riportati sopra costituiscono, come fra parentesi può essere sottolineato, un'obiezione che
non può incontrarsi in qualsiasi teoria che rende i valori, nella loro cognizione ed esistenza,
dipendenti dalle emozioni. Se fosse l'emozione stessa a costituire il valore, il fatto di una emozione
“ingiustificata” non potrebbe essere osservato.
Potrebbe essere che la gioia che una persona prova, eventualmente a causa della sconfitta del suo
nemico, differisca nel tipo di gioia che la stessa persona percepisce quando incontra il suo amato.
L'esistenza di una tale differenza qualitativa può essere ammessa in considerazione della stretta
correlazione tra le parti oggettive e soggettive nei fenomeni mentali. Ma questa non è la questione.
La questione è piuttosto se l'individuo, mentre fa esperienza di una tale gioia, sia consapevole della
differenza. Che questo non sia il caso lo si può supporre da molte osservazioni ed anche dalla
mancanza di un vocabolario corrispondente.
Il giudizio che altri, o eventualmente, il soggetto stesso può pronunciare su di una tale emozione
“ingiustificata” non si fonda su di un'altra emozione. Se ci sentiamo scontenti perché abbiamo
reagito in un modo ingiustificato, ci sentiamo in questo modo a causa del giudizio che abbiamo
formulato sul nostro comportamento. Ma il giudizio non si basa su di una seconda emozione.
Queste considerazioni, incidentalmente, hanno attinenza con la questione grandemente discussa del
ruolo delle emozioni e della loro educazione. Sviluppare l'emotività, o la capacità delle reazioni
emotive, fare attenzione alle emozioni del bambino, è giusto solo se, allo stesso tempo, si fa
attenzione che le emozioni sorgano in occasioni che giustifichino una tale reazione. Non ha senso
sviluppare, ad. es., una capacità di entusiasmo se la mente non è diretta verso le cose che meritano
entusiasmo.
Le reazioni estetiche senza un senso educato ed una comprensione della vera arte non hanno valore.
Dal momento che l'uomo facilmente reagisce in modo emozionale a situazioni che, per loro natura,
non giustificano una simile reazione, il controllo è tanto importante quanto lo sviluppo. Ci sono
molte occasioni in cui rimanere fermi è sbagliato. Ma ce ne sono probabilmente non di meno in cui
reagire in modo emotivo è ingiustificato, o che richiedono un altro tipo di risposta emotiva rispetto
a quella che una mente non educata è probabile che fornisca.

43 A. v. Meinong ha tentato di superare una simile difficoltà terminologica. Egli usa il nome di
“oggetto” per il correlato intenzionale della percezione, e il nome di “oggettivo” per il correlato dei
giudizi (das Objectiv). Agli stati orectici corrisponde il “desiderativo”, ed alle emozioni, come è
stato sottolineato prima, il “dignitativo”. Dal momento che la teoria della “presentazione emotiva”
dei valori sembra inaccettabile al sottoscritto, non gli è possibile adottare i termini di Meinong. Ma
il tentativo del filosofo Austriaco merita di essere ripetuto. Una buona quantità di incomprensione
probabilmente potrebbe essere evitata, se “oggetto” non fosse usato indiscriminatamente per le cose
sensate e per la relazione appresa intellettualisticamente, tra i termini (Sachverhalte), ed in molti
altri modi. Neppure l’ “esistenziale” di Heidegger può essere utilizzato, a causa delle connotazioni
particolari che questo termine possiede in quel sistema filosofico. La conoscenza mediata
dall’emozione, come interpretata qui, non si riferisce a “tratti” o “caratteristiche” dell’esistenza o
all’essere esistente in sé, ma al luogo che questo essere occupa nell’ordine delle cose in generale,
specialmente visto come l’ordine dei bona. Il sottoscritto ammette che i suoi tentativi di escogitare
un nome adatto hanno fallito.

44 Uno degli esempi più significativi di questa incapacità di apprezzare le cose non strettamente del
campo speciale dello psichiatra può essere trovata nel nuovo libro del Dot. G. Zilboorg, A History
of Medical Psychology, New York, 1942, Norton. Questo autore non esita a qualificare Socrate, tra
tutti gli uomini, uno schizofrenico perché “sentiva le voci”, la voce del suo daimonion. Fino ad ora
noi eravamo soliti vedere gli psichiatri naturalisti parlare degli stati nevrotici e psicotici dei santi;
ora i filosofi stanno subendo anch’essi la loro diagnosi. Tuttavia, deve essere evidenziato che non
tutti gli psichiatri, anche se sono lontani dal dire di credere in cose soprannaturali, commettono tali
errori stupidi e superficiali. Il famoso psichiatra Francese P. Janet, per esempio, ha riconosciuto che
nessuna personalità isterica può sviluppare il carattere e neppure essere responsabile dei risultati di
cui la vita di Santa Teresa di Gesù dà testimonianza.

45 È decisamente necessario evidenziare che “perfezione” come è utilizzato qui si riferisce


esclusivamente allo stato di pieno sviluppo. Una cosa è perfetta se essa è tutto ciò che può essere
secondo la sua natura. Non ci si propone, ovviamente, alcune connotazione morale.

46 Qualsiasi altra dettagliata discussione sull'origine della nostra conoscenza di noi stessi viene qui
esclusa. Una tale discussione significherebbe un'analisi completa dei molti fattori che sono stati
accreditati alla possibilità di fornire alla mente una tale conoscenza. La somesthesia principalmente
è stata riconosciuta responsabile, sebbene ci siano diverse ragioni che scoraggino una tale teoria.
Per le finalità previste in questo articolo è sufficiente sottolineare che una conoscenza del valore di
sé non è in alcun modo più misteriosa – che non significa che non ci sia alcun mistero coinvolto – di
una conoscenza della propria esistenza. Forse è un fatto definitivo, non suscettibile di ulteriori
analisi o delucidazioni, che l'uomo semplicemente conosca se stesso come esistente ed in possesso
di un indubbio valore. Il problema, allora, diventa non semplicemente come l'uomo conosce la sua
esistenza ed il suo valore, ma come giunge all'opinione sulla sua esistenza in quanto collegata ad
altri esseri esistenti, e sul suo valore in quanto paragonato all'ordine dei valori, specialmente dei
valori personali. Su quest'ultimo problema le discussioni delle pagine precedenti, il sottoscritto
azzarda a sperare, hanno gettato una qualche luce.

47 Sarebbe bene se la relazione del “desiderio” nel senso usuale della parola con il desiderium,
come elencato dall'Aquinate tra le passiones animae, potesse essere chiarificato. Ma anche questa
questione deve essere scartata a causa della lunga analisi che richiede.

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