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Una delle prime definizioni di emozione (pathos) la abbiamo con Aristotele nella Retorica. Esse sono
per lui le cause del mutamento degli uomini in relazione al dolore e al piacere. Per lui, comunque,
ogni emozione può essere percepita in modo positivo e negativo. Da alcuni studiosi questa teoria
viene ricondotta al senso comune della Grecia classica. Concentrandosi sull’ira Aristotele ci mostra
un esempio dell’eterogeneità di piacere e dolore in una stessa emozione: l’ira è sì una situazione
dolorosa ma ha in sé la prospettiva piacevole della vendetta. Alla vendetta inoltre possiamo
collegare il ruolo della fantasia che rappresenterà una sfera fondamentale nell’indagine sulle
emozioni. Tuttavia fu solo con lui e Platone che le emozioni vennero considerate stati interni al
soggetto: per Omero ed i presocratici esse erano qualcosa che proveniva da fuori ed è
probabilmente da queste loro concezioni che deriva una buona parte del nostro lessico riguardo a
questo campo semantico. Aristotele attribuiva inoltre a convinzioni, opinioni e credenze la capacità
di limitare il “flusso” delle emozioni, per questo ammetteva la necessità di una educazione emotiva
per i giovani.
Gli stoici condividevano con Aristotele quest’ultima riflessione ma d’altra parte sostenevano la pura
vanità delle emozioni alle quali bisognava preferire uno stato di apatheia o atarassia (pensiamo ai
Pensieri di Marco Aurelio o alla neostoica Martha Nussbaum). Particolarmente interessante fu la
dottrina dei temperamenti di Galeno: egli combinava i 4 umori della dottrina ippocratica con gli
attributi tipici dei 4 elementi per ottenere 4 temperamenti fondamentali che potevano essere
moderati grazie a un’educazione morale. Una concezione fondamentale è quella dell’anima
tripartita (razionale – irascibile – concupiscibile) introdotta da Platone e messa poi in discussione da
Agostino che elaborò un modello di anima gerarchico indirizzato verso il desiderio di Dio. Egli
ipotizzava una categoria unitaria di emozioni soggetta alla volontà che può essere retta (se si
concentra sulla vita dopo la morte) o perversa (se si concentra sui beni terreni). Qua vediamo già il
dualismo emozione-ragione che si cristallizzerà con Cartesio. È in effetti nella sua fondazione
dell’essere sul pensiero (cogito ergo sum) che Antonio Damasio ravvisa il grande errore di Cartesio:
l’idea che le azioni che normalmente attribuiamo alla mente possano esistere separate dal corpo.
Alcuni studi recenti hanno messo in evidenza la relazione tra le emozioni e la ragione cartesiana ma
ciò non deve far perdere di vista che Cartesio intenda le emozioni soprattutto dal punto di vista
fisico, come reazioni meccaniche del corpo (su questi studi si basò Le Brun per la costruzione delle
sue tavole tassonomiche).
Spinoza come monista è invece considerato l’antitesi di Cartesio ed è stato recentemente riscoperto
dalle tendenze incentrate sulla rivalutazione del corpo. Anima e sentimenti sono aspetti della
medesima realtà e possono essere studiati secondo un metodo geometrico (Ethica Ordine
Geometrico Demonstrata). I sentimenti sono in primo luogo parte della natura, obbediscono a leggi
generali e si possono suddividere in azioni (origine interna) e passioni (origine esterna): le emozioni
di base sono gioia, tristezza e desiderio. La sua riscoperta, da parte di correnti ecologiche e
postmarxiste, ha portato alla valutazione della carica emozionale della materia in quanto tale che
si traduce poi nella riflessione sull’incarnazione dei processi mentali. Spinoza ha inoltre anticipato
alcuni elementi delle neuroscienze come l’idea del rapporto di mimesi parallela che lega mente e
corpo.
Hobbes considera lo stato di natura come una esplosione di emozioni ma dà a questa condizione
una lettura sostanzialmente negativa: solo una moderazione nata da un rapporto equilibrato tra le
componenti emotive può condurre alla situazione civile. Le emozioni sono moti del corpo, collegate
alla volontà e orientate a oggetti esterni (rifiuto o desiderio). Le due direzioni producono le emozioni
di base con una varietà quasi infinita di deviazioni. I filosofi morali scozzesi del XVIII sec.
introdussero poi il concetto di empatia declinandola in senso utilitaristico: per Shaftesbury le
emozioni, in quanto giocano un ruolo fondamentale nella ricerca della felicità, hanno una valenza
morale. Hume considerò addirittura la ragione schiava delle emozioni: sono ad esempio le emozioni
che ci impediscono di fare del male agli altri per trarne vantaggio. Scheler riprenderà poi da Hume
l’idea dell’empatia come “contagio affettivo” che il suo corrispondente contemporaneo nella teoria
dei neuroni-specchio.
Con l’illuminismo le emozioni subiscono una degradazione in quanto sfera della non-ragione. Solo
Rousseau si distinse come pioniere del culto dell’autenticità emotiva che caratterizzava l’idillio dello
stato di natura. Educazione sentimentale significava per lui un ritorno a quello stato primigenio. Al
contrario Kant fu fortemente illuminista nella sua prospettiva radicalmente anti-emotiva. Le
emozioni sono l’antitesi della ragione morale, una sorta di malattia dell’animo che può essere
curata solo dall’autocontrollo.
Sociocostruttivismo: antropologia
Varietà di emozioni
La depressione è considerata dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders un disturbo
psichico il che, al contrario dei modelli scientifici che l’hanno definita precedentemente, ha aiutato
il processo di medicalizzazione. Gananath Obeyesekere riprese questo tema nello Sri Lanka ma notò
un quadro diverso. Un amico americano gli fece notare che un suo amico nativo del luogo
presentasse tutti i sintomi canonici di un disturbo depressivo. Obeyesekere fu costretto, dati alla
mano, a convenire con questa diagnosi nonostante non avesse mai pensato al suo amico come un
soggetto patologico: questo perché il modello culturale di riferimento non conosceva questo stato
di squilibrio psichico. L’amico era un buddhista praticante, dunque stava già nella sua cultura l’idea
che il mondo fisico e il corpo materiale fossero qualcosa di sporco e inessenziale: ciò non
rappresentava dunque un disturbo patologico nonostante la “sintomatologia” richiamasse questo
quadro. Per i buddhisti il corpo è caduco, in perenne decomposizione, l’ideale occidentale di eterna
giovinezza è qui massimamente distante. La “sofferenza ontologica” in senso buddhista non aveva
legame col concetto occidentale di depressione, dunque definire depresso l’amico buddhista
sarebbe stato tacciabile di etnocentrismo.
Trawick studiando l’amore materno fra i Tamil, nell’India meridionale, si rese conto di come questo
si manifestasse attraverso denigrazioni, prese in giro e insulti. Ancora Fajans, studiando i Baining in
Papua Nuova Guinea, scoprì una curiosa correlazione tra la fame alimentare e la solitudine. Urban
invece notò che i Tupinambà manifestassero la gioia di un benvenuto attraverso lacrime e pianti,
Wikan a Bali scoprì invece che la celebrazione di un lutto è sempre accompagnate da risate. Tutte
queste scoperte mettono a dura prova la concezione panculturale delle emozioni: forse neanche il
sentire rappresenta un’esperienza geograficamente e temporalmente universale per l’umanità?
Nelle Saghe degli Islandesi viene concesso ampio spazio alla descrizione delle emozioni ma,
stranamente dal nostro punto di vista, un’emozione forte si esprime sempre tramite la
manifestazione corporea del gonfiarsi. Ammesso anche che le emozioni possano persistere simili
nel tempo è quasi innegabile che i loro oggetti cambino: tra XIX e XX sec. si era sparsa a macchia
d’olio la paura di essere sepolti vivi ma la I Guerra Mondiale spazzò stranamente via questa fobia,
forse in virtù dei progressi tecnici che permettevano di stabilire con più precisione se una persona
fosse realmente morta o meno. Notiamo dunque che, almeno nel campo delle emozioni, il lavoro
degli storici e quello degli antropologi risulta molto simile.
Excursus I. Sociologia
Quello che per l’antropologia è la cultura per la sociologia è il sociale. Nella storia della sociologia si
possono trovare riferimenti alla sfera emotiva già in Simmel, Weber e Sorokin. Per Talcott Parsons
la prima variabile strutturale che pone in essere un individuo in relazione a una situazione è quella
tra affettività (bisogni immediati) e neutralità affettiva (bisogni a lungo termine). Negli anni 80 Arlie
Hochschild (Managed Heart) introdusse il concetto di “lavoro emotivo” riferendosi a professioni,
quali la hostess, in cui viene richiesto di sentire (e non solo di mostrare) una particolare emozione.
Se questa forzatura risulta eccessivamente in contrasto con l’emozione realmente provata ne deriva
una “dissonanza emotiva”. Le hostess erano dunque incoraggiate a considerare la cabina di volo
non come un posto di lavoro ma come la propria casa e i passeggeri come propri ospiti (paragonabile
al metodo Stanislavskij). Gli assistenti di volo dovevano dunque costruirsi una memoria emotiva in
modo da riuscire a immagazzinare emozioni da “utilizzare” in caso di necessità (ad esempio nel caso
in cui un passeggero si riveli particolarmente scorbutico). Se scusare i comportamenti non bastava
si poteva invece distrarsi o coltivare fantasie aggressive.
Oltre a comportare un forte di rischio di alienazione psichica il lavoro emotivo si configura come
eminentemente sessuato: sono i lavori statisticamente femminili a richiedere un maggiore lavoro
emotivo. Le bambine fin da piccole vengono incoraggiate a coltivare un rapporto di resistenza, e
non di espressione, con l’aggressività. Agli uomini viene invece richiesto solitamente un lavoro
emotivo negativo che, sotto il punto di vista psico-emotivo, sembrerebbe risultare più leggero in
quanto liberatorio. Il lavoro emotivo è divenuto sempre più importante nell’economia di mercato
del terziario e il problema della dissonanza emotiva tra Io autentico e non autentico è sempre più
diffuso. Ci sono congruenze con il concetto di Goffman di maschera sociale ma Hochschild sottolinea
come ai lavoratori non venga richiesta solo una recitazione di superficie ma una deep acting che
richiede il coinvolgimento di sentimenti privati e autentici. Questo discorso risulta particolarmente
attuale in culture (quale quella americana) in cui si osserva una sorta di culto dell’autenticità.
Victor Turner divide la sociologia delle emozioni in 7 aree:
1. La biologia evolutiva. Si ritiene che le emozioni siano ancorate nella regione evolutivamente
più antica della corteccia cerebrale. Le emozioni erano il linguaggio antecedente alla parola.
2. L’interazionismo simbolico. Fonda le proprie ricerche sulle emozioni sul ruolo dell’Io nella
comunicazione interpersonale.
3. La drammaturgia. Che si riferisce agli approcci che si rifanno alle maschere di Goffman. Il
comportamento degli individui comporta sempre una “presentazione” del Sé a un pubblico.
4. Il rituale dell’integrazione. Studia il ruolo dei rituali sociali in riferimento all’energia con la
quale viene caricata una situazione. La violazione di questi riti provoca rabbia utile a
rafforzare la solidarietà di gruppo.
5. Le teorie di scambio. Che interpreta le interazioni sociali come relazioni di tipo economico.
6-7. Potere/status e Stratificazione. Cercano una definizione teorica della disuguaglianza
sociale.
Gli anni Novanta II. L’antropologia delle emozioni e le difficoltà di superare la dicotomia tra
sociocostruttivismo e universalismo
Il corpo: natura o cultura? Pascal Eitler e Monique Scheer sostengono una concezione culturalizzata
del corpo che deve essere inteso soprattutto nella sua storicizzazione. Abilità, handicap e abitudini,
una volta acquisiti, modificano in maniera concreta l’esperienza corporea. La forma del corpo è
concreta e mutante, esattamente come quella della lingua, dunque i sentimenti vengono prodotti
anche materialmente. Questo vale anche per quella parte del corpo che nel tempo ha acquistato un
ruolo privilegiato nel discorso sulle emozioni: il cervello. Si ha sempre a che fare con sviluppi della
materia cerebrale conseguiti a breve termine secondo la biografia individuale. Questo rende
instabili e perennemente aperte anche le ricerche delle neuroscienze: vengono studiati i processi di
materializzazione. Il poststrutturalismo riuscirebbe a correggere il riduzionismo scientifico
concentrando la propria ricerca sulla pratica corporea (trying emotion). Solo in questo modo
possono essere superate le contrapposizioni dicotomiche, in primis quella anima/corpo, per riuscire
a concepire l’idea di un mindful body. Con i suoi studi sui balinesi Unni Wikan scoprì l’idea di un Io
collegato in maniera unitaria al cuore e al viso in una concezione olistica incapace di distinguere una
parte “profonda” e una “superficiale”. Per loro le emozioni sarebbero delle sorta di feeling-thoughts
studiabili solo nel loro procedere empirico, per questo gli antropologi dovrebbero immergersi nella
cultura studiata. Così si possono riscoprire anche pratiche cliniche ancestrali che collegano
l’emozione al corpo: si pensi alla relazione concreta tra riso e felicità.
Sempre nella direzione del superamento della dicotomia è utile nominare lo studio di James
Mitchell in merito ai suicidi per amore della lingua in India. Rappresentavano risvolti macabri di una
protesta politica, ma da cosa dipende la possibilità di togliersi la vita per una lingua? È possibile che
si intersechino concezione culturali che vedono la lingua stessa come un essere vivente se non
addirittura come manifestazione di una divinità. Questi e altri fattori favorirono la radicalizzazione
di un legame affettivo con la lingua Telugu, portato poi all’estremo coi suicidi che furono fermati
solo da una ri-organizzazione dei confini territoriali su base linguistica.
Freud e l’assenza di una sua teoria delle emozioni: verso una lacuna
È difficile immaginare che la teoria psicoanalitica freudiana, che studia in un ambito a stretto
contatto con la sfera psico-emotiva (angoscia, malattie psichiche, traumi ecc.) non abbia sviluppato
una vera e propria teoria delle emozioni. Possiamo ripercorrere questa ambiguità attraverso il Caso
Katharina degli Studi sull’isteria. Questa ragazza disse a Freud di soffrire di attacchi di panico e
mancanza di respiro, un “accesso d’angoscia” fu la prima diagnosi. Nella psicoanalisi le emozioni
sono prese in considerazione ma principalmente come fenomeni superficiali, spie di processi
chimici più profondi. Freud intuì poi che questi disturbi potessero essere riconducibili a
un’esperienza traumatica: K. aveva visto dalla finestra suo zio sopra sua cugina, e fu quello l’inizio
delle sue crisi. Dopo aver raccontato questo seguirono dei litigi tra lo zio e la zia ma, scavando oltre,
si scoprì che K. stessa era stata vittima di abusi da parte di questo zio. Stabilito questo fatto, che
probabilmente il soggetto riviveva con angoscia collegata al trauma sessuale, K. sembrava essere
guarita. Freud riportò alcuni anni dopo che lo zio era in realtà il padre di Katharina.
La psicoanalisi gira dunque continuamente intorno alle emozioni senza mai trovarne la spiegazione.
Secondo altre letture le interpretazioni freudiane delle emozioni come “cartelli indicatori” si
affiancano a una teoria degli affetti più biologica e meccanicistica. Freud partiva dal presupposto di
un’economia psichica che comportava stimoli indifferenziati e sensazioni differenziate. Lo stato
affettivo sarebbe una sorta di “componente energetica” sottoposta, nell’apparato psichico, a una
legge di conservazione (repressione emotiva che può far insorgere angoscia o manifestazioni
ossessivo-compulsive). Questo è richiamato nelle idee di Elias e rappresenta il filone definito della
“ambivalenza emotiva” che aveva per Freud una dimensione anche biografica. Un altro filone mette
invece in risalto il problema dell’angoscia. Freud elabora la teoria dell’Ur-Angst, una sorta di
angoscia fisiologica primordiale del bambino alla nascita: le manifestazioni successive sarebbero
dunque una riproduzione di quella situazione. Nel suo “irradiarsi” questa angoscia (come tensione
verso il benessere individuale) dà luogo a manifestazioni più complesse che stanno al centro della
creazione della cultura.
Si è sviluppata di recente la neuropsicoanalisi che combina le emozioni, in senso neuroscientifico,
con i concetti base della psicoanalisi. Yoram Yovel ha combinato la teoria freudiana delle pulsioni
con gli ECS (processi neurochimici universali fondati sulla biologia evolutiva) di Jaak Panksepp. Gli
ECS sono responsabili delle attività di base universali e man mano che ci si sposta nelle aree superiori
della corteccia subcorticale diventano sempre più complessi. Yovel ha cercato dunque di costruire
una teoria dell’amore partendo dal presupposto che sia frutto di una combinazione di ECS (come
“Ricerca”, il più vicino alla libido, “Tristezza” di “Cura”), l’obiettivo principale era quello di superare
l’approccio limitato a sistemi libidinali/istintivi/emotivi come quello che prevede il legame di
attaccamento. Va comunque detto che questo approccio presuppone una lettura bio-evolutiva
della pulsione sessuale, il che è molto lontano dall’idea di amore romantico. La psicoanalisi ha
comunque lasciato un’eredità importante in campo terapeutico attraverso lo sfruttamento della
capacità curativa della narrazione. Questa ha una forza iterativa e performativa che permette di de-
attivare le emozioni negative collegate a certe esperienze: il solo fatto di riuscire a definire
un’emozione avrebbe una proprietà curativa. La Narrative Exposure Therapy (NET) si richiama a
studi neuroscientifici sull’effetto dell’etichettatura dell’emozione sul sistema limbico. Il processo si
base essenzialmente su un principio di adattamento.
Giacomo Rizzolati, Vittorio Gallese, Marco Iacoboni, i neuroni specchio e le emozioni sociali
Dalla loro scoperta a Parma tra il 1995-96, con i neuroni-specchio si è cercato di risolvere
praticamente tutti i quesiti riguardo alla natura delle emozioni. Studiando dei macachi Rizzolati e
Gallese riscontrarono che nella corteccia premotoria i neuroni reagivano solo in due casi: quando
l’animale compiva un determinato movimento (afferrare un frutto) e quando osservava quello
stesso movimento compiuto da un altro esemplare. Nessuno si aspettava di riscontrare una
percezione visiva in quell’area: nacque così l’ipotesi di un collegamento inconscio, neurale, tra
movimenti fisici e cognizione e a un correlato tra imitazione inconscia e capacità cognitive superiori
(non troppo diversa dall’ipotesi di Damasio). Col tempo si estese la validità di questa ipotesi anche
oltre la corteccia premotoria (apprendimento linguistico). Un esperimento dimostrò come il
processo imitativo messo in atto dai neuroni possa influire anche sulle capacità cognitive di un
individuo (come se i neuroni specchio raddoppiassero i neuroni responsabili del comportamento
imitato).
Appare opportuno chiedersi, in un processo imitativo così stretto, quando sia consistente la capacità
innovativa, tendente al cambiamento, dell’umano. I nostri codici socio-comportamentali sono forse
dettati completamente dalla nostra biologia? Sarebbe forse la censura (così da ridurne l’imitazione)
l’unico modo per limitare certi comportamenti? Gregory Hickok considerò di ridurre l’estensione
dell’ipotesi dei neuroni-specchio ai neuroni sensomotori (quelli responsabili del linguaggio ne
sarebbero estranei), in particolare, a quelli responsabili di metterci in relazione fisica con gli oggetti.
Altri sostennero ancora la poca accuratezza delle tecniche di diagnostica per immagini, usata per
monitorare i neuroni-specchio. C’è poi da dire che già nel all’inizio del 900 Liepmann aveva distinto,
tra i pazienti cerebrolesi divenuti aprassici, un’aprassia ideativa e una ideomotoria. Interessante il
ruolo che ha avuto la divulgazione di questa idea, tramite l’agenzia letteraria di John Brockman, che
ha portato i testi degli scienziati nelle grandi librerie. Il problema sorge quando la tempistica della
ricerca scientifica si trova a sottostare alle necessità di pubblicazione dell’editoria.
Oltre i confini: neuroscienze critiche e autentiche possibilità di cooperazione con le scienze umane
e sociali
Negli ultimi anni neuroscienziati e umanisti hanno iniziato a coltivare un rapporto di collaborazione
più equilibrato, in questo modo anche i primi hanno avuto la possibilità di formarsi una propria
memoria istituzionale. Potremmo parlare della nascita della disciplina delle “neuroscienze critiche”.
Grazie a queste si sta riuscendo ad utilizzare proficuamente le nuove scoperte sul funzionamento
del cervello per risolvere alcuni punti interrogativi aperti sulla cultura e la storia. È opportuno ora
delineare 3 temi con cui si confrontano attualmente le neuroscienze:
Neuroplasticità
A lungo si è ritenuto che, almeno a partire da una certa età, la neurogenesi e la formazione di nuovi
collegamenti tra cellule cerebrali si stabilizzasse. Nuove ricerche hanno però osservato come anche
nei cervelli adulti continuassero a darsi cambiamenti: esperienze biografiche lasciano quindi tracce
nell’architettura dell’“hardware” del cervello. I cervelli si presentano dunque come elementi
culturali e storici mettendo così in dubbio l’universalità che spesso gli veniva attribuita. Questo
condiziona anche la validità degli esperimenti la cui rappresentatività diventa sempre più limitata,
in certi casi fino a scendere alla sfera individuale. Nel momento in cui i neuroscienziati si rendono
conto di non star più studiando “il” cervello ma “un” cervello specifico appare necessaria
l’interlocuzione con studiosi di area umanistica.
Neuroscienze sociali
Per assicurare la validità ecologica (che supera dunque i confini del laboratorio) si è ritenuto
necessario fare appello a studi interdisciplinari. Ad esempio, studiando il funzionamento del
meccanismo dell’empatia si è notato come questo non fosse comprensibile nella sua completezza
se non alla luce di studi nel campo della sociologia (razzismo, sistemi motivazionali ecc.). Alcuni
neuroscienziati sono tutt’ora dell’avviso che solo l’arte sia in grado di restituire una visione olistica
del significato dell’esperienza umana.
Pratiche emotive
L’etnografa Monique Scheer, sulla base di Reddy, ha sviluppato una concezione olistica della storia
delle emozioni attraverso l’idea di un corpo culturalizzato e storicizzato. In primo luogo mette in
discussione l’assunto che la cognizione abbia il suo luogo unicamente nel cervello ma, citando Alva
Noe, mette in gioco anche il corpo e il mondo circostante. È il “corpo contestualizzato” a pensare
insieme al cervello e sostenere un’equiparazione completa di emozione e cognizione vorrebbe dire
perdere questo aspetto incarnato. In questa direzione si pone il concetto, mutuato parzialmente da
Bourdieu, di “pratica emotiva” ovvero: “manipolazioni di corpo e mente per evocare emozioni dove
non ce ne sono”; Scheer identifica 4 modalità.
Pratiche emotive che mobilitano
Stanno in relazione all’uso dei media e hanno un carattere più sociale che individuale. Si fa l’esempio
del corteggiamento: vi è una notevole variabilità nei contesti attraverso il quale i sentimenti
connessi a questa pratica si formano. La pratica del corteggiamento (come tante altre) ha degli
effetti performativi sulle stesse emozioni che lo animano. L’enfasi va messa sulla possibilità che ha
la pratica di mobilitare.
Accanto a queste c’è poi l’habitus che denota una “conoscenza corporea” sedimentata dunque
acquisita e consolidata (tra gli esempi proposti ci sono quelli del musicista e del calciatore molto
simili a quelli di Merleau-Ponty). Nell’habitus si iscrivono però anche differenze culturali, sociali e di
genere: si tratta di qualcosa di inconscio e di parzialmente vincolante ma lascia tuttavia spazio per
modificazioni, che è la componente che definiremmo della agency. Il corpo, tramite
l’apprendimento di pratiche, può essere modificato pur sempre nella cornice di certi limiti fisici
vincolanti. Le emozioni come habitus hanno un carattere circolare e si pongono come un continuum
tra corpo e cognizione che l’individuo non ha, bensì prova. Il soggetto non è precedente
all’emozione ma emerge con essa nel doing emotion. L’analisi di queste pratiche si svolge anche
attraverso la considerazione del linguaggio figurato in termini corporei.
Neurostoria
L’esponente di maggior rilievo è il medievista Daniel Lord Smail, autore di Storia profonda, testo
stroncato dalla critica di Reddy. L’obiettivo di Smail è quello di allargare i confini cronologici della
storia canonica per riscoprire le epoche precedenti all’invenzione delle tecniche di scrittura. Il
concetto di “preistoria” è, in effetti, del tutto arbitrario e ha contribuito alla svalutazione di un
periodo abbastanza ampio dell’esperienza umana. Ovviamente le fonti predilette saranno diverse e
più difficili da decifrare, si tratta di ciò che Smail definisce genericamente “tracce”. L’obiettivo della
deep history è quello di costruire una narrazione che leghi il paleolitico al postlitico. Tra le tracce
che possono essere prese in considerazione Smail dà enorme importanza a quelle accessibili
attraverso le ricerche delle discipline biologiche (DNA) il che costringerebbe a ripensare
parzialmente l’idea di scienze storiche come le concepiamo oggi, ovvero fondate sul concetto di
intenzionalità. Un punto di incontro può essere trovato nella concezione cronologica filogenetica,
dunque aperta.
Smail distingue le emozioni in inconsce-fisiche e sentimenti intesi come prodotti della coscienza in
relazione alle emozioni fisiche. Le emozioni servono a Smail per costruire quel ponte tra periodo
storico e preistorico, per questo gli serve un concetto di emozione anti-intenzionalista ed evolutiva.
Ma a fronte di questa necessaria visione universalista (Smail parla di “substrato biologico”) come
introdurre l’elemento di variabilità altrettanto necessario perché se ne possa tracciare una storia?
L’elemento dinamico e variabile è insito nella realtà stessa, ovvero negli stimoli che innescano i
processi emotivi. Per Smail, in consonanza con Ekman e Tomkins, non si modificano le emozioni ma
solo ciò che le innesca. Tuttavia certe conclusioni sue entrano in contraddizione con questa
prospettiva, ad esempio il fatto che nella relazione coi meccanismi psicotropi sembra molto più
variabile la relazione emotiva personale che il fenomeno reale. Smail si trova costretto a far cadere
la differenziazione tra cognizione ed emozione ed è proprio a causa di queste sue concezioni
riduzioniste che rischia di scadere in ipotesi semplicistiche, trivially true, potremmo dire. Reddy
accusa infine Smail di funzionalismo ovvero di scambiare gli effetti con le cause: è un pericolo serio,
per gli storici, quello di mal interpretare acquisizioni scientifiche facendo sconfinare dall’ambito in
cui sono effettivamente rilevanti.