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Filosofia della storia (modulo 2)

Storia delle emozioni, Jan Plamper


Introduzione
L’amigdala è l’organo che nelle neuroscienze viene considerato il responsabile della paura: la sede
basilare dell’emozione più basilare. Fu scoperta da Karl Burdach ma solo negli anni ’30 furono
condotti esperimenti sul suo ruolo nell’attivazione del sistema neurovegetativo in relazione alla
percezione di un pericolo (ciò che viene generalmente definito “paura”). Joseph LeDoux sostiene
che la paura percorra due strade: la più veloce è l’amigdala e la più lenta attraverso la corteccia
(dove avviene un raffronto con le esperienze passate). Questi percorsi sarebbero fondati sulla base
della nostra biologia evolutiva, ed è grazie a questi che il corpo umano può prepararsi a fuggire o
ad affrontare un pericolo (ne va dunque della vita o della morte dell’individuo). La paura rappresenta
senza dubbio un caso particolare poiché è piuttosto facile cucirle addosso delle costanti
antropologiche in veste neurobiologica. Dunque possiamo dire con certezza che questa emozione
abbia caratteri puramente universali, biologici, extratemporali, essenziali ecc.? In realtà non sarebbe
del tutto corretto parlare dell’amigdala come “organo della paura” poiché, già a livello biologico,
notiamo come siano molto sfumati i confini tra questi ammassi di cellule a cui viene attribuita
l’emozione e le zone adiacenti. Inoltre sarebbe anche inesatto attribuire all’amigdala solo la
funzione di produrre queste emozioni negative.
L’antropologia ha sempre rilevato differenti rapporti con la paura in relazione all’epoca e alla
cultura. I maori, ad esempio, attribuivano la paura dei soldati prima della battaglia a uno spirito che
li possedeva, dunque una causa non più interna bensì esterna e trascendente. Delineiamo così un
secondo polo di ricerca sulle emozioni, uno “debole”, antideterminista e legato al costruttivismo
sociale e al relativismo culturale. La dicotomia tra universalismo e costruttivismo può risultare
molto divisiva all’interno di un discorso comune sul carattere e le origini delle emozioni e sono vari
anche i tentativi di incastrare questi due elementi, magari mitigandone l’uno a vantaggio dell’altro.
Da questi problemi deriva anche la domanda se le emozioni siamo una costante antropologica o
possano effettivamente avere una storia.
Questi contrasti derivano dalla divisione artificiale tra la sfera naturale e quella culturale. La natura
non è sempre stata una categoria chiusa e ben determinata come fu invece a partire dall’affermarsi
della scienza illuminista. La natura passò dal rappresentare una categoria aperta e in continuo
divenire, dapprima all’essere una condizione pre-sociale/politica (Rousseau e Hobbes); in seguito
divenne sinonimo di “primitivo” e infine gli illuministi la associarono all’idea di corpo, in particolare
ai suoi aspetti più intrinseci ed essenziali. La semantica della natura si fuse poi con quella
dell’ambiente e, insieme a quella del corpo, queste due istanze ne monopolizzarono l’intero spettro
di significati: in questi sensi parliamo di “scienze naturali”. Queste sono scienze nomotetiche in
quanto hanno come obiettivo la formulazione di leggi generali attraverso sperimentazioni, le scienze
umanistiche sono invece idiografiche poiché analizzano l’oggetto di studio nella sua specificità e
unicità. L’obiettivo di questo libro è quello di superare tale dicotomia tracciando una storia delle
emozioni.
Che cosa sono le emozioni?
Per rispondere a questa domanda non basta l’apporto di una sola disciplina. Possiamo affermare
che fino al 1860 si occuparono di questo argomento primariamente la filosofia e la teologia, seguite
dalla retorica, dalla medicina e dalla letteratura, in seguito se ne occupò la psicologia sperimentale
e solo negli ultimi vent’anni le neuroscienze e le scienze della vita. Ad oggi comunque non esistono
studi completi e organici su questa disciplina, per questo risulta necessario costruirne una
metastoria. Sarebbe piuttosto semplicistico pensare che duemila anni di pensiero sulle emozioni
possano essere sostituiti da vent’anni studi scientifici e inoltre non si possono ignorare le
prospettive extra-occidentali. Nel corso della storia di questo pensiero ci si è però riferiti alle
emozioni con vari appellativi, è possibili raggrupparli tutti in una maxi-categoria omogenea? Già
definire cosa sia un’emozione sembra essere un problema piuttosto difficile, tuttavia ci possono
essere elementi comuni: ad esempio in molti lemmi si è ritrovato un punto comune nel concetto del
muoversi (e-motion). Plamper usa emozione e sentimento come sinonimi, al contrario viene usato
il termine affetto riferendolo maggiormente alla sfera corporea, pre-verbale e inconscia.

Una delle prime definizioni di emozione (pathos) la abbiamo con Aristotele nella Retorica. Esse sono
per lui le cause del mutamento degli uomini in relazione al dolore e al piacere. Per lui, comunque,
ogni emozione può essere percepita in modo positivo e negativo. Da alcuni studiosi questa teoria
viene ricondotta al senso comune della Grecia classica. Concentrandosi sull’ira Aristotele ci mostra
un esempio dell’eterogeneità di piacere e dolore in una stessa emozione: l’ira è sì una situazione
dolorosa ma ha in sé la prospettiva piacevole della vendetta. Alla vendetta inoltre possiamo
collegare il ruolo della fantasia che rappresenterà una sfera fondamentale nell’indagine sulle
emozioni. Tuttavia fu solo con lui e Platone che le emozioni vennero considerate stati interni al
soggetto: per Omero ed i presocratici esse erano qualcosa che proveniva da fuori ed è
probabilmente da queste loro concezioni che deriva una buona parte del nostro lessico riguardo a
questo campo semantico. Aristotele attribuiva inoltre a convinzioni, opinioni e credenze la capacità
di limitare il “flusso” delle emozioni, per questo ammetteva la necessità di una educazione emotiva
per i giovani.
Gli stoici condividevano con Aristotele quest’ultima riflessione ma d’altra parte sostenevano la pura
vanità delle emozioni alle quali bisognava preferire uno stato di apatheia o atarassia (pensiamo ai
Pensieri di Marco Aurelio o alla neostoica Martha Nussbaum). Particolarmente interessante fu la
dottrina dei temperamenti di Galeno: egli combinava i 4 umori della dottrina ippocratica con gli
attributi tipici dei 4 elementi per ottenere 4 temperamenti fondamentali che potevano essere
moderati grazie a un’educazione morale. Una concezione fondamentale è quella dell’anima
tripartita (razionale – irascibile – concupiscibile) introdotta da Platone e messa poi in discussione da
Agostino che elaborò un modello di anima gerarchico indirizzato verso il desiderio di Dio. Egli
ipotizzava una categoria unitaria di emozioni soggetta alla volontà che può essere retta (se si
concentra sulla vita dopo la morte) o perversa (se si concentra sui beni terreni). Qua vediamo già il
dualismo emozione-ragione che si cristallizzerà con Cartesio. È in effetti nella sua fondazione
dell’essere sul pensiero (cogito ergo sum) che Antonio Damasio ravvisa il grande errore di Cartesio:
l’idea che le azioni che normalmente attribuiamo alla mente possano esistere separate dal corpo.
Alcuni studi recenti hanno messo in evidenza la relazione tra le emozioni e la ragione cartesiana ma
ciò non deve far perdere di vista che Cartesio intenda le emozioni soprattutto dal punto di vista
fisico, come reazioni meccaniche del corpo (su questi studi si basò Le Brun per la costruzione delle
sue tavole tassonomiche).
Spinoza come monista è invece considerato l’antitesi di Cartesio ed è stato recentemente riscoperto
dalle tendenze incentrate sulla rivalutazione del corpo. Anima e sentimenti sono aspetti della
medesima realtà e possono essere studiati secondo un metodo geometrico (Ethica Ordine
Geometrico Demonstrata). I sentimenti sono in primo luogo parte della natura, obbediscono a leggi
generali e si possono suddividere in azioni (origine interna) e passioni (origine esterna): le emozioni
di base sono gioia, tristezza e desiderio. La sua riscoperta, da parte di correnti ecologiche e
postmarxiste, ha portato alla valutazione della carica emozionale della materia in quanto tale che
si traduce poi nella riflessione sull’incarnazione dei processi mentali. Spinoza ha inoltre anticipato
alcuni elementi delle neuroscienze come l’idea del rapporto di mimesi parallela che lega mente e
corpo.
Hobbes considera lo stato di natura come una esplosione di emozioni ma dà a questa condizione
una lettura sostanzialmente negativa: solo una moderazione nata da un rapporto equilibrato tra le
componenti emotive può condurre alla situazione civile. Le emozioni sono moti del corpo, collegate
alla volontà e orientate a oggetti esterni (rifiuto o desiderio). Le due direzioni producono le emozioni
di base con una varietà quasi infinita di deviazioni. I filosofi morali scozzesi del XVIII sec.
introdussero poi il concetto di empatia declinandola in senso utilitaristico: per Shaftesbury le
emozioni, in quanto giocano un ruolo fondamentale nella ricerca della felicità, hanno una valenza
morale. Hume considerò addirittura la ragione schiava delle emozioni: sono ad esempio le emozioni
che ci impediscono di fare del male agli altri per trarne vantaggio. Scheler riprenderà poi da Hume
l’idea dell’empatia come “contagio affettivo” che il suo corrispondente contemporaneo nella teoria
dei neuroni-specchio.
Con l’illuminismo le emozioni subiscono una degradazione in quanto sfera della non-ragione. Solo
Rousseau si distinse come pioniere del culto dell’autenticità emotiva che caratterizzava l’idillio dello
stato di natura. Educazione sentimentale significava per lui un ritorno a quello stato primigenio. Al
contrario Kant fu fortemente illuminista nella sua prospettiva radicalmente anti-emotiva. Le
emozioni sono l’antitesi della ragione morale, una sorta di malattia dell’animo che può essere
curata solo dall’autocontrollo.

Chi prova emozioni?


Nel corso della storia delle emozioni non sempre si è stati concordi ad attribuire la capacità di
provarle a tutti gli esseri viventi o addirittura agli esseri umani. Oggi è diffusa l’idea che quella
emotiva sia una sfera comune e irriducibile di tutti gli uomini, ma cos’è che distingue questa
peculiarità dall’Altro dell’uomo? Una lunga tradizione è stata più propensa a vedere nell’emozione
un elemento animale, pre-razionale, ma fu dal XVIII sec. che questa prospettiva perse sostenitori.
Inizialmente venne riconosciuta agli animali la capacità di provare tuttalpiù sensazioni slegate dalla
dimensione valutativa, ma in seguito si riconobbe la porosità tra l’esperienza umana e quella
animale. Alla fine del XIX sec. fu poi Darwin nel suo L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli
animali a mettere definitivamente in discussione la differenza tra animali e umani, tali conclusioni
vennero confermate anche dagli studi della nascente fisiologia. La linea che divide uomo e animale
nella sfera emotiva doveva dunque essere ritracciata.
Un discorso analogo è quello che riguarda le macchine umanoidi. Anche qui troviamo una riflessione
tradizionale che tratta la possibilità di robot o automi di provare e suscitare sentimenti (Frankenstein
o Il mago sabbiolino di Hoffmann). Chi non riesce a provare sentimenti per una macchina come
quella di A.I. – Intelligenza artificiale può essere tacciato di deficienza emotiva? Gli esperimenti
affermano che alla base della possibilità di empatizzare con qualcuno ci sia il meccanismo della
rispecchiabilità fisica. Tuttavia è stato osservato anche che, nel momento in cui una macchina
appaia troppo simile all’organismo umano, possa suscitare disgusto nell’interlocutore. Questo è
dovuto, secondo Catrin Misselhorn, all’interruzione del processo di identificazione tra oggetto e
idea: io vedo il robot, empatizzo con lui in quanto sembra essere un uomo ma, essendo conscio del
suo essere artificiale, riconosco che la mia percezione è disturbata. Possiamo in conclusione
affermare che non esista un soggetto assolutamente privilegiato nella capacità di provare emozioni.

Dove sono le emozioni?


Questa non è affatto una questione banale: come già accennato non è affatto rara la concezione
che considera le emozioni forze esterne e trascendenti che sfuggono al controllo degli uomini.
Alcuni pensano invece che le emozioni siano legate al funzionamento di un particolare organo e ne
subiscano quindi l’influenza. Di questa tradizione fa parte, ad esempio, l’idea che il cervello sia il
luogo di produzione della mente, dunque anche dei processi emotivi. Una spia fondamentale in
merito alla localizzazione delle emozioni è data dal linguaggio: alcune comunità aborigeni
australiane connettono la capacità di elaborare processi emotivi alla capacità di ascolto, per questo
i bambini, segnati da un profondo individualismo, sono definiti “sordi”. In molte altre culture gli
occhi sono considerati un mezzo di veicolazione privilegiato per le emozioni, in Cina addirittura
questo ruolo è svolto dalle sopracciglia. Altre culture invece mettono in secondo piano il ruolo del
viso a vantaggio della corporeità nella sua interezza, il linguaggio del corpo è inoltre fortemente
soggetto a una differenziazione culturale, può dunque succedere che il sorriso in altre culture
esprima vergogna o lutto. Si tenga in mente che questi aspetti non sono immutabili ma si sono
concretizzati attraverso un processo storico. Basterebbe comunque restare in Europa per
comprendere quanto siano varie le risposte date a questa domanda.

Le emozioni hanno una storia?


È giusto dire che le emozioni abbiano una storia o sono solo le loro concettualizzazioni e
interpretazioni ad averla? La prospettiva universalistica ritiene che esista un sostrato trans-storico
e dunque immutabile. Non è senza dubbio da escludere, ma non si può negare che
nell’autopercezione del soggetto che prova l’emozione abbia un effetto anche il come la si
concepisca, il che è un fatto prevalentemente culturale. È stato scoperto che esiste un circuito di
feedback tra la “concettualizzazione” emotiva e la sensazione emotiva corrispondente, tant’è che
l’una può influenzare limitando o amplificando l’altra (su questo si basa l’idea di base della
Programmazione neurolinguistica). Senza dubbio il corpo pone dei limiti reali all’espressione delle
emozioni, ma questi sono poca cosa (quasi banali) rispetto all’enorme massa di dati rivelati dalle
esperienze culturali.

Quali fonti in una storia delle emozioni?


Senza dubbio per indagare questa sfera sono necessarie fonti in cui le persone parlino in prima
persona dei propri sentimenti, tuttavia questo complica la situazione poiché per la maggior parte
gli scritti (tra gli ego-documenti annoveriamo diari, autobiografie e memorie) di questo tipo non
erano pensati per la pubblicazione. Un lavoro interessante è quello degli archeologi che, a partire
dagli indizi dei luoghi della vita quotidiana, cercano di ricostruire l’effetto emotivo che i protagonisti
potrebbero aver sperimentato. Un discorso analogo può essere fatto per la storia della diplomazia
che pone l’accento sulla dimensione rituale e simbolica di questi incontri tra diverse culture. A
partire da queste fonti si può analizzare il lessico delle emozioni per decostruire differenze,
ambiguità e malintesi. Nel XX sec. in questi casi giocheranno un ruolo fondamentale i media e, per
contrasto, inizierà ad affermarsi una cultura della riservatezza: i capi di stato non rappresentano più
unicamente se stessi ma tutta la popolazione. Cionondimeno l’episodio del cane di Putin
nell’incontro con la Merkel ci insegna come le armi emotive giochino un ruolo imprescindibile anche
nei contesti più formali.
Non è però da dimenticare che, per non scadere in uno sterile relativismo culturale, è necessario
delineare i tratti fondamentali della metacategoria dell’emozione sulla quale basare poi una
possibile ricerca:
• Ad esempio essa è un puro automatismo o anche l’immaginazione gioca un suo ruolo?
• Che ruolo hanno poi le pratiche non verbali, ovvero qual è il rapporto con la dimensione
corporea?
• La valutazione e il giudizio che ruolo giocano?
• In che rapporto stanno le emozioni con la sfera morale?

Storia delle emozioni: una storia


Lucien Febvre e la storia delle emozioni
La storia delle emozioni ha inizio ufficiale con Lucien Febvre, fondatore nel 1929 degli Annales
d’histoire économique et sociale. Un momento cruciale fu la sua partecipazione a un convegno sulla
Sensibilità nell’uomo e nella natura dalla quale nacque un appello rivolto ai colleghi affinché
mettessero al centro della ricerca le emozioni e la loro analisi psicologica. In soli trecento anni di
storia si è formato un abisso nel modo di rapportarsi con le emozioni dunque nessuna storiografia
canonica, volente o nolente, può ignorare questo aspetto nella propria ricerca. Febvre proponeva
l’analisi delle emozioni da una prospettiva diacronica ovvero concentrandosi sulla descrizione delle
variazioni di significato del concetto di emozione nel tempo. Fu influenzato fortemente da
antropologi quali Lèvy-Bruhl, Blondel e Wallon: probabilmente fu l’avanzare dei fascismi a
sollecitare una riflessione sulle emozioni e le loro qualità intersoggettive (concetto del contagio
mimetico). Febvre interpretava la storia come un processo lineare di repressione da parte della ratio
ai danni dell’emotio in cui però quest’ultima esplose nell’esperienze traumatiche dell’inizio del ‘900:
per questo la sua analisi predilige la trattazione di emozioni negative.

La storia delle emozioni prima di Lucien Febvre


Tuttora manca un’analisi sistematica della storiografia sulle emozioni prima del XX sec. Una delle
prime attestazioni di interesse di questa tematica la si può ravvisare in Tucidide che considerava
l’emozione il motore dell’agire umano. I sentimenti, che non sono mai irrazionali, costituiscono la
base che fonda le deviazioni delle azioni umane dalla routine quotidiana per distruggere così lo
status quo. Dopo di lui Polibio tornò a concentrarsi su questa tematica: “i sentimenti personali
diventano storia quando sono dei re”. Tuttavia considera di più facile comprensione le emozioni
attribuite a un soggetto collettivo piuttosto che quelle individuali, ciononostante anche lui afferma
che costituiscano il motore delle azioni umane.
L’ascesa delle scienze naturali diede origine a una spaccatura all’interno dell’analisi sulle emozioni
generata dall’introduzione del bisogno di oggettività. In merito una figura fondamentale è quella di
Wilhelm Dilthey che nella sua Introduzione alle scienze dello spirito metteva in discussione il
monopolio dell’oggettività rivendicato dalle scienze naturali. Le emozioni sono un fatto spirituale e,
che lo si voglia o meno, concorrono a formare la totalità dell’esperienza umana, dunque una loro
naturalizzazione costituisce un allontanamento dalla realtà, dunque un minor grado di oggettività.
Il ricercatore di area umanistica deve mobilitare le sue percezioni (anche emotive) per “fondersi”
con l’attore storico oggetto del suo studio. C’è un dibattito sul fatto che Dilthey abbia o meno
abbandonato questa strada pro-emotiva dedicandosi unicamente a un’ermeneutica storica.
Karl Lamprecht si occupò delle emozioni da una prospettiva psico-antropologica. Per lui compito
dell’antropologia sarebbe stato quello di chiarificare le nozioni su affetti e sentimenti, invece alla
storia sarebbe toccato studiarne le manifestazioni concrete. In particolare studia queste
manifestazioni sotto il segno del progresso nazionale: questa prospettiva fu poi conservata in Georg
Steinhausen e Kurt Breysig. Steinhausen distingue cinque fasi evolutive della sensibilità tedesca che
si muovono verso l’epoca di un’emotività marcata tra il XVIII e il XIX sec. e anche Breysig parte da
una prospettiva simile, tuttavia nessuno degli autori da noi citati lasciava un vero e proprio spazio
all’analisi del mutamento delle emozioni nel corso del tempo.
Non si può comunque negare a questi autori un’influenza nel nostro campo di studio: lo storico
dell’arte Aby Warburg, che aveva studiato con Lamprecht, introdusse il concetto di formula patetica
col quale si indica una gestualità caricata emotivamente come una sorta di intertestualità iconico-
emotiva che si conserva nel tempo. Anche secondo Georg Simmel qualsiasi analisi storico-sociale
cadrebbe in un cieco determinismo se non fossimo in grado di indagare motivazioni psichiche,
pensieri e sentimenti nel loro elemento essenziale. I sentimenti svolgono infatti una funzione
aggregatrice per le masse. Max Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo elabora una
scala di distinzione delle confessioni protestanti basata su un termometro emotivo.
Ancora John Huizinga, sotto l’influsso dell’orrore della Grande Guerra scrisse L’autunno del
Medioevo dove descrive questa età come una continua oscillazione tra pianto e ira irrefrenabile. La
dimensione emotiva era caratterizzata da una mancanza di controllo: la giustizia era vincolata al
bisogno di vendetta; la religione fondata sul bisogno di reprimere una smodata lussuria. Anche
Huizinga ricade nella formulazione dell’idea di un processo emotivo lineare che vede nel
Rinascimento l’inizio della presa di controllo delle emozioni.

La storia delle emozioni accanto e dopo Febvre


Nel 1939 uscì in Svizzera Il processo di civilizzazione di Norbert Elias, un classico di sociologia. Elabora
una teoria dell’età moderna europea che prevede un lineare e progressivo controllo degli affetti.
Prima dell’età moderna gli uomini non avevano un Super-io, dunque le emozioni si manifestavano
in modo più libero e diretto. Elias parla di economia degli affetti, questo sistema deve rimanere
sempre equilibrato: se un’emozione sparisce da una parte (tabù sociali) deve ricomparire dall’altra
(autorepressioni psichiche), il che portò a manifestazioni patologiche. C’è ovviamente molto Freud
in questa riflessione ma merito di Elias fu soprattutto quello di fornire all’indagine sulle emozioni
una solida terminologia. La sua idea di emozione era piuttosto aperta: da una parte riconosceva
l’esistenza di leggi naturali che dominano la situazione emotiva ma dall’altra considera irriducibile
il ruolo del processo storico. Queste due componenti (essenzialista e costruttivista) danno forma a
un’interazione indissolubile e con questa visione Elias anticipa le concezioni sintetiche degli anni
90, tuttavia non ebbe la stessa fortuna nella sua vicina contemporaneità. In quel periodo erano le
concezioni delle emozioni astoriche e universalistiche ad avere la meglio.
Theodore Zeldin costruisce una storia della Francia facendola ruotare attorno a 6 passioni
fondamentali. L’attenzione era rivolta alla storia economica dei lavoratori, in particolare a come
vivessero le emozioni nella loro sfera privata. La parte più consistente dell’opera era fondata sulle
conseguenze dell’epoca dell’individualismo sul rapporto con le emozioni. Possiamo interpretare
questo paradigma innovativo come reazione di sfiducia alla corrente di storia sociale, influente negli
anni 70, che si concentrava maggiormente sulle regolarità e le strutture. Egli partiva dal presupposto
del dominio dell’emotio sulla ratio sostenendo che il comportamento umano fosse oscuro e
confuso, questo molto prima che il poststrutturalismo avanzasse l’ipotesi dell’essenza
pluristratificata dell’individuo. Per Zeldin ogni azione è unica, vige dunque una grande variabilità, in
questo approccio ricorda i sociologi Bourdieu e Luhmann. Zeldin fu inoltre tra i primi a introdurre la
riflessione sul carattere soggettivo che influenza il lavoro di analisi dello storico.
Negli anni 70 si andò poi sviluppando una “psicostoria” (Gay, deMause e Loewenberg) che fu
criticata per la rigidità delle sue categorie psicoanalitiche e psicologiche: ad esempio l’idea di
ricondurre il principio luterano del sola fide all’esperienza infantile del monaco tedesco. Questo non
vuol dire che in certi casi questo metodo non possa essere applicato con profitto. In merito ci furono
studiosi (ricercatori di Gottinga) che cercarono di superare la rigidità della descrizione dei rapporti
familiari di stampo freudiano. Questi misero anche in discussione l’idea che l’amore romantico fosse
una prerogativa dell’età moderna. Secondo le teoriche femministe (Bock e Duden) a questa
romanticizzazione dei rapporti si sarebbe invece collegato un tentativo di trattenere la donna in un
ruolo di subalternità: l’amore costituirebbe la retribuzione del lavoro femminile di cura.
Negli anni 80 e 90 il linguistic turn fu di capitale importanza nel portare alla comprensione di come
certe differenze di genere, ritenute da sempre naturali, fossero in realtà costruite storicamente. In
questa ricerca, tuttavia, le emozioni non costituivano ancora un elemento centrale, cionondimeno
non si può negare l’apporto del movimento femminista nella decostruzione del discorso sulle
emozioni stereotipicamente femminili. Furono poi gli Stearns (Peter e Carol) a proporre di scindere
l’esperienza individuale delle emozioni dalla normativa su di esse (emotionology). Gli storici si
sarebbero dovuti occupare principalmente di questa seconda sfera, dunque di come le istituzioni
influenzino storicamente la sfera emotiva individuale (vediamo allora che queste due sfere risultano
pur sempre correlate). Uno dei problemi principali per gli Stearns fu quello delle fonti: oltre i
documenti personali presero anche in considerazione le classiche fonti sociostoriche (scioperi,
dimostrazioni, rivoluzioni ecc.). Loro vedevano la storia delle emozioni come ampliamento della
storia sociale, tuttavia si distinguevano dagli storici sociali delle Nuova Sinistra nell’accentuazione
del carattere irruento e irrazionale delle emozioni collegati agli eventi di protesta collettiva. Un
punto di stacco si impose con l’affermarsi negli Stati Uniti delle life sciences che avrebbero dovuto
introdurre il discorso sulle emozioni a una prospettiva oggettiva, empirica e universalista. Fu William
Reddy a introdurre nella storia delle emozioni concetti base della psicologia cognitiva.

L’11 settembre e la storia delle emozioni


The Navigation of Feeling di Reddy uscì il 9/10/2001, ma fu l’evento del giorno successivo a
condurre al boom nello studio delle emozioni. Le ipotesi iniziali di un odio irrazionale e fanatico
furono subito buttate giù ma uno dei punti fondamentali su cui soffermarsi fu quello del ruolo dei
media in questa vicenda. Il discorso sulle emozioni, sulla capacità e le modalità di elaborazione di
un evento traumatico e così via, divennero di dominio pubblico. Il poststrutturalismo, col suo
concentrarsi sul linguaggio, si rivelò inefficace per spiegare i caratteri pre-linguistici e immediati di
quell’evento. Fu allora che le bioscienze presero definitivamente il sopravvento sulle scienze umane
in relazione a questo discorso (che non si limitava alla discussione sulle emozioni ma riguardava
tutte le questioni tradizionalmente “filosofiche”). Fu il lavoro dei neurobiologi a suscitare
particolare interesse. Sempre più spesso si sentì parlare di emotional turn in questo senso, seppur
relegando gli studi sull’argomento nell’ambito dell’oggettività scientifica.
C’è da sottolineare che per ora si è parlato di storia delle emozioni da una prospettiva
principalmente occidentale ma non si possono ignorare gli studi di carattere etnografico sulle
differenze nella sfera emotiva che contraddistinguono i popoli nel mondo. In un’ottica
squisitamente storiografica risulta molto interessante il lavoro di Egon Flaig sui gesti emotivamente
cariche dei politici dell’antica Roma. Sottolinea come in quelle circostanze non fosse affatto raro
cercare di tentare di smuovere l’animo del proprio avversario politico attraverso queste “strategie”
emotive volte ad ammorbidire l’interlocutore e a mandare un messaggio al popolo riguardo al
carattere del proprio avversario. Questi non erano dunque vezzi di personaggi singoli ma vera e
propria prassi politica.

Barbara Rosenwein e le comunità emotive


Un campo di studio importante nella storia delle emozioni, aiutato in parte dall’opera di Huizinga, è
sicuramente la medievistica. Rosenwein in particolare si occuperà di uno studio sull’ira dimostrando
il carattere tutt’altro che infantile di questa emozione nelle manifestazioni analizzate in questo
periodo. Lei definisce il modello di studio delle emozioni come manifestazioni irrazionali e
contingenti “pneumatico” e lo attribuisce ai lavori di Elias e Huizinga. Oppone poi a questa tesi le
ricerche della psicologia cognitiva e del costruttivismo sociale sostenendo che la tesi per cui “la
storia dell’Occidente fosse la storia di un crescente controllo sulle emozioni” fosse
fondamentalmente errata. I processi cognitivi che regolano le emozioni risultano quindi razionali.
Rosenwein propose poi il concetto di comunità emotive volto a denotare un gruppo di agenti che
condividono un rapporto simile in relazione a determinate categorie emozionali (“costellazioni” di
emozioni). Questo fu particolarmente utile per abbandonare le prospettive di una storia delle
emozioni in chiave meramente nazionale. Le comunità emozionali (che possono essere anche
unicamente testuali) condividono medesime norme di espressione e valutazione dei sentimenti
intersecandosi tra loro. Una comunità emotiva si individua a partire dell’individuazione di un ambito
comunitario e da cui si estrapolano narrazioni e modelli ricorrenti utili a comprendere le teorie sulle
emozioni che i membri della comunità condividono. Rosenwein ritiene che anche molti termini del
gergo emotivo abbiano una funzione normativa e siano da intendere come script emotivi.
L’idea delle comunità emotive è tra gli approcci più affascinanti per cogliere la comunitarizzazione
delle emozioni. Tuttavia si potrebbe imputare a questa teoria il difetto di non essere abbastanza
aperta e porosa (eccessivamente poststrutturalista) come un concetto riguardo alla storia delle
emozioni potrebbe richiedere. Il merito che possiamo attribuire a Rosenwein è quello di aver posto
l’accento sul carattere continuamente mutevole (anche dopo la “secolarizzazione” moderna) delle
emozioni. Si parla di ricadute emotive, mutamenti nella comunicazione, nella concezione e nella
valutazione morale delle emozioni. Alcuni studi prediligono operare confronti sincronici piuttosto
che diacronici, così fece Reddy per comprendere l’origine della distinzione tra amore romantico e
passionale oppure Klimò e Rolf analizzando le differenze tra Rausch nazista ed entuziazm stalinista.
Ad un certo punto la storia delle emozioni acquista i tratti di una storia della scienza e della
comunicazione.

Sociocostruttivismo: antropologia
Varietà di emozioni
La depressione è considerata dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders un disturbo
psichico il che, al contrario dei modelli scientifici che l’hanno definita precedentemente, ha aiutato
il processo di medicalizzazione. Gananath Obeyesekere riprese questo tema nello Sri Lanka ma notò
un quadro diverso. Un amico americano gli fece notare che un suo amico nativo del luogo
presentasse tutti i sintomi canonici di un disturbo depressivo. Obeyesekere fu costretto, dati alla
mano, a convenire con questa diagnosi nonostante non avesse mai pensato al suo amico come un
soggetto patologico: questo perché il modello culturale di riferimento non conosceva questo stato
di squilibrio psichico. L’amico era un buddhista praticante, dunque stava già nella sua cultura l’idea
che il mondo fisico e il corpo materiale fossero qualcosa di sporco e inessenziale: ciò non
rappresentava dunque un disturbo patologico nonostante la “sintomatologia” richiamasse questo
quadro. Per i buddhisti il corpo è caduco, in perenne decomposizione, l’ideale occidentale di eterna
giovinezza è qui massimamente distante. La “sofferenza ontologica” in senso buddhista non aveva
legame col concetto occidentale di depressione, dunque definire depresso l’amico buddhista
sarebbe stato tacciabile di etnocentrismo.
Trawick studiando l’amore materno fra i Tamil, nell’India meridionale, si rese conto di come questo
si manifestasse attraverso denigrazioni, prese in giro e insulti. Ancora Fajans, studiando i Baining in
Papua Nuova Guinea, scoprì una curiosa correlazione tra la fame alimentare e la solitudine. Urban
invece notò che i Tupinambà manifestassero la gioia di un benvenuto attraverso lacrime e pianti,
Wikan a Bali scoprì invece che la celebrazione di un lutto è sempre accompagnate da risate. Tutte
queste scoperte mettono a dura prova la concezione panculturale delle emozioni: forse neanche il
sentire rappresenta un’esperienza geograficamente e temporalmente universale per l’umanità?
Nelle Saghe degli Islandesi viene concesso ampio spazio alla descrizione delle emozioni ma,
stranamente dal nostro punto di vista, un’emozione forte si esprime sempre tramite la
manifestazione corporea del gonfiarsi. Ammesso anche che le emozioni possano persistere simili
nel tempo è quasi innegabile che i loro oggetti cambino: tra XIX e XX sec. si era sparsa a macchia
d’olio la paura di essere sepolti vivi ma la I Guerra Mondiale spazzò stranamente via questa fobia,
forse in virtù dei progressi tecnici che permettevano di stabilire con più precisione se una persona
fosse realmente morta o meno. Notiamo dunque che, almeno nel campo delle emozioni, il lavoro
degli storici e quello degli antropologi risulta molto simile.

Sentimenti nella letteratura di viaggio e nella prima antropologia


Già Erodoto e Tacito sapevano che nell’area europea convivessero diversi modi di sentire. A livello
extraeuropeo fu invece notato dai grandi navigatori che, salutati da visi straordinariamente
espressivi, temevano che questi potessero celare l’inganno. Molti si chiesero se i sentimenti degli
indigeni tahitiani fossero autentici o semplice frutto di una recita. Il problema dell’autenticità dei
sentimenti dei nativi divenne primario nel momento in cui si dovette stabilire se la conversione al
cristianesimo fosse realmente riuscita. Per risolvere questi problemi si fece largo una nuova
disciplina: l’etnologia (o antropologia), seppur il suo interesse per le emozioni fu solo marginale. C’è
dunque una o più umanità? Rende di più una prospettiva universalista o particolarista?
Per monogenismo intendiamo l’accentuazione del ruolo delle strutture mentali universali: i suoi
sostenitori proponevano una visione progressista del darwinismo finalizzata a riconoscere
l’uguaglianza all’uomo occidentale delle popolazioni oppresse. Vi sono qui alcuni parallelismi col
paradigma del buon selvaggio (Ashley-Cooper, Rousseau e Hobbes) in cui la componente emotiva
ha sempre giocato un ruolo fondamentale: i selvaggi vivono i sentimenti più puri. Ma l’approccio
monogenico fu fornito di una base solida dalla teoria dell’evoluzione: l’uomo come noi lo
conosciamo non è che un momento dell’evoluzione. Darwin considerava l’espressione delle
emozioni universale: il suo obiettivo era di tracciare una linea di continuità tra l’esperienza
dell’Homo sapiens (nella sua interezza) e quella animale.

Emozioni nei classici dell’antropologia


Emile Durkheim aveva il suo interesse principale nell’organizzazione delle società. In effetti lui tentò
di rispondere al problema dell’autenticità dei nativi dando delle spiegazioni dell’emozione in chiave
sociale: ad esempio “il lutto non è un movimento naturale […] [ma] un dovere imposto dal gruppo”.
Questa teoria diventerà, con Erving Goffman, la formulazione della differenziazione tra maschere
sociali e “facce autentiche”. Questo ovviamente si ricollega anche al ruolo della religione. Lévi-
Strauss, pensatore strutturalista e tra gli antropologi più importanti del ‘900, si occupò del
totemismo e del rapporto tra emozioni e religione. Secondo lui tutti gli studiosi che l’avevano
preceduto avevano dato al totemismo un movente emotivo rinunciando a una spiegazione
razionale. Lévi-Strauss giudica la misteriosità della sfera emotiva come inadatta per fondare
spiegazioni su pratiche concrete: “un dato non è primario perché è incomprensibile”. Dunque per
lui le emozioni non spiegano niente, semmai risultano (dal corpo o dallo spirito): sempre
conseguenze mai cause. Il suo è ovviamente un approccio materialista: l’espressione corporea
stessa è l’emozione. Egli fu considerato di volta in volta un aristotelico intenzionalista o un
riduzionista (bestia nera dei costruttivisti sociali).
Bronislaw Malinowski è il pioniere dell’osservazione partecipata e il suo diario rappresenta dunque
una fonte importante per capire le emozioni di un antropologo durante le esperienze di campo:
tristezza, depressione e paura accompagnarono il suo viaggio in Nuova Guinea. In seguito
l’osservazione dei propri stati d’animo rientrò addirittura tra i dati presi in considerazione dagli
antropologi: i sentimenti dei soggetti di studio sono sempre in relazione con quegli degli osservatori.
William Rivers, antropologo e psichiatra, lavorò sui pazienti affetti da disturbo da stress post-
traumatico. Il suo allievo Alfred Radcliffe-Brown definiva sentiment un “sistema organizzato di
tendenze emotive concentrate su un oggetto”. La tenuta della società dipende quindi dalla
regolarità di questi sentiment nella mente dei suoi membri, dunque non sono innati ma modellati
dall’azione della società sull’individuo. Ruth Benedict, oltre a rendere famosa la distinzione tra
shame cultures (come il Giappone) e guilt cultures (come gli USA), esaminò profondamente il
problema delle emozioni giapponesi. La cultura giapponese delle emozioni si rivela come un mix tra
amore e rispetto che implica però anche l’obbligo (sentirsi in debito), dunque quei sentimenti non
vengono valutati semplicemente in relazione a come vengono dati nella loro purezza. Margaret
Mead, col suo studio nelle Samoa, elaborò una forma di relativismo culturale che rappresentò
terreno fertile anche per la rivoluzione sessuale. Ad esempio l’idea di un’emozione “priva di causa”
per un samoano non definisce necessariamente i tratti di una personalità particolarmente emotiva,
infatti i samoani sono generalmente moderati nei sentimenti.
I coniugi Geertz si concentrano sul carattere rituale dell’espressione delle emozioni. Hildred
sosteneva l’esistenza di emozioni culturalmente universali che subiscono però gli influssi
dell’educazione culturale dell’infanzia. Considerava inoltre il conflitto edipico come parte
integrante di ogni processo di crescita. Riservò un ruolo fondamentale poi, oltre alla teoria delle
influenze nell’infanzia, anche alle concezioni (assumptions) che la società si fa sulla vita emotiva. Ci
furono tuttavia antropologi che scollegavano di netto le emozioni dalla cultura: J.C. Beaglehole
riteneva che le emozioni, represse nella quotidianità, venissero invece liberate nel momento
culturale di certe ritualità. Molte pratiche sacre vennero lette come frutto manifesto di emozioni
represse. Le emozioni, di per sé universali, vengono filtrate, incanalate o distorte nelle pratiche
culturali. Una prova dell’esistenza di emozioni innate sarebbe ad esempio la “sinestesiacolori-
emozioni”.

La prima antropologia delle emozioni: gli anni Settanta


I sentimenti degli eschimesi
Jean Briggs è considerata tra i pionieri della moderna antropologia delle emozioni. Arrivata tra la
tribù eskimese degli Utku e accolta nel nucleo familiare del capo-tribù, si accorse presto che l’idea
iniziale della ricerca sulle pratiche sciamaniche avrebbe dato pochi frutti. Decise quindi di dedicarsi
all’analisi delle emozioni: sia come osservazione antropologica che sulla base delle sue proprie
infrazioni alle norme emotive della tribù. Briggs, infatti scivolò rapidamente ai margini di quella
piccola società. Come si legge nel titolo delle sue ricerche (Never in Anger) la regola principale era:
mai arrabbiarsi. Per gli Utku diventare adulti vuol dire acquisire ihuma che potremmo tradurre con
“ragione” che è primariamente la capacità di controllare le emozioni. Solo certe categorie, come
appunto i bambini, sono scusate per comportamenti esuberanti, ma c’è di più. Alla piccola di
famiglia (Saarak) veniva concesso molto più egoismo e scatti d’ira di quelli normalmente accettabili
da un bambino occidentale. La sua fase pre-ihuma finì (ovviamente in maniera graduale) quando
nacque la piccola Qayaq con la quale entrò in competizione per il latte materno, allora i genitori
iniziarono a concederle minori privilegi ma la ihuma sarebbe comunque dovuta arrivare da sola.
Ma la studiosa comprese meglio il significato del controllo delle emozioni solo quando fu lei in prima
persona a mancare nell’osservanza delle regole sociali. Distingue
principalmente 3 fasi della sua esperienza:
• All’inizio la sua esperienza rappresentava una curiosità;
• Fu poi percepita come una bimba piagnucolosa;
• Nelle fasi finali rappresentò invece un vero e proprio
elemento di disturbo.
Nella prima fase l’antropologa viveva da sola e veniva spesso visitata
(probabilmente perché per la loro percezione la solitudine
rappresentava essenzialmente una punizione), nonostante il suo
desiderio di privacy. Molti dei suoi comportamenti e la sua facile
irritabilità iniziarono comunque ad essere visti di cattivo occhio dalla
tribù. Con l’inverno fu costretta a trasferirsi nell’igloo della famiglia del capo-tribù Inuttiaq che
considerava arrogante, egoista e patriarcale. Questo stress aggravò la situazione di difficoltà nel
controllare le proprie emozioni. Le emozioni dovevano insomma venir fuori ed era quasi impossibile
per lei utilizzare il metodo degli Utku, facendole uscire attraverso il riso. Un episodio significativo fu
quello in cui Briggs cercò di prendere le difese della tribù contro dei turisti americani, il che fu visto
come un mancato rispetto delle norme di cortesia della tribù. Inuttiaq era un chiaro esempio di
quello che gli Utku pretendevano come controllo emotivo: il suo era un temperamento sì impulsivo
ma allo stesso tempo di grande autocontrollo, come una bomba sempre sul punto di esplodere
senza mai farlo, in questo modo incuteva timore al resto della tribù. Gli Utku attribuivano ai
“pensieri grevi” un potere autonomo che può far ammalare o uccidere. Una delle innovazioni più
importanti di Briggs è quella di aver incluso in un’analisi sistematica anche i dati riguardanti la sua
esperienza emotiva soggettiva, la sua è “la prima monografia antropologica sulle emozioni che
comprovò con notevole evidenza la contingenza culturale dell’espressione delle emozioni”.
Espressione poiché non è tanto il fatto che gli Utku non provassero rabbia ma quanto fossero in
grado di reprimerla.

Emozioni “hypercognized” e “hypocognized”


Robert Levy era poco incline a sostenere che le emozioni siano un mero prodotto culturale. Studiò,
come Briggs, l’ira ma stavolta a Tahiti alla cui popolazione veniva tradizionalmente attribuita la
peculiarità di un rapporto più naturale con i sentimenti (soprattutto l’amore). A lui si deve la
differenziazione tra emozioni socialmente rilevanti (hypercognized) e irrilevanti (hypocognized).
Partendo quindi da emozioni universali queste possono poi essere distinte per il peso che hanno in
ciascuna cultura (il che è ovviamente variabile sia geograficamente che storicamente). Ad esempio
potremmo dire che per gli Utku la rabbia fosse un’emozione hypercognized. A Tahiti la regola da
seguire era l’opposto: l’ira andava sempre sfogata per farla uscire dal corpo, potrebbe altrimenti far
male al fisico. Anche a livello relazionale preferiscono sempre che la rabbia venga espressa
attraverso la parola.
Levy notò anche una differenza nell’elaborazione del lutto che, nella società tahitiana, prevede
rapidi passaggi dal pianto alle risate. Ma anche la localizzazione corporea presentava notevoli
differenze. Per la maggior parte dei soggetti interpellati ira, desiderio e paura avevano la propria
sede nell’intestino. Sembravano invece essere assenti metaconcetti quali sentimento, affetto ed
emozione (teniamo a mente che siamo prima del sociocostruttivismo). Levy tradisce forse un
approccio etnocentrico nell’applicare categorie occidentali (quali la depressione) ai comportamenti
dei soggetti che li maschererebbero con spiegazioni sovrannaturali. Collega poi la notoria
promiscuità sessuale tahitiana al timore di una relazione stabile e a una relativa perdita di libertà.

“Linguistic turn” e sociocostruttivismo


Negli anni ’70 era diffusa l’idea che le emozioni avessero un medesimo nucleo che nelle diverse
culture verrebbe espresso differentemente. Fu invece con la vittoria del poststrutturalismo e la
svolta linguistica che si mise in discussione anche il carattere universale delle emozioni in sé. Tutte
le categorie fondative e derivate dall’oggettività scientifica di stampo illuminista vengono ora
rivalutate: l’esperienza emotiva diventa in sé eminentemente culturale.

Tagliatori di teste per liberarsi da un peso


Nel 1980 Michelle Rosaldo pubblica Knowledge and Passion dando
inizio al decennio del sociocostruttivismo. Condusse insieme a suo
marito una ricerca presso gli Ilongot, un’etnia stanziata in una zona
boschiva delle Filippine. I due studiosi riscontrarono in questa cultura
un rapporto particolare con le emozioni specialmente in riferimento a
una pratica al tempo quasi estinta, quella dei cacciatori di teste. Un
uomo, quando il suo cuore è “pesante”, decide di andare a uccidere,
senza particolare preoccupazione riguardo all’identità della vittima.
L’obiettivo è quello di sfogare il peso della liget (energia) e il momento
culmine per il cacciatore è quello in cui strappa la testa della vittima e
la scaraventa a terra, liberandosi così del peso opprimente. Vi è una
sorta di purificazione attraverso questa violenza. La spiegazione di
questa pratica non va dunque ricercata tanto nella funzione rituale quanto nel rapporto dei
cacciatori con le proprie emozioni: sono queste, infatti, a suscitare il desiderio di uccidere. I Rosaldo,
al contrario della maggior parte degli antropologi, sono partiti dall’analisi dei moti interni all’uomo
per poi spiegarne le manifestazioni sociali.
La liget è l’espressione dell’autonomia maschile che doveva essere messa in pratica ma allo stesso
tempo controllata, come preparazione al rapporto sessuale monogamico: la caccia alle teste
rappresenta il punto di passaggio che segna la vittoria del beya (sapere) sulla liget. Nonostante la
maggior parte degli Ilongot si fosse ormai convertita al cristianesimo si poteva notare una certa
nostalgia per quelle pratiche, dimostrazione del fatto che avesse un reale effetto positivo
sull’esperienza dei cacciatori. Le categorie emotive sono dunque concettualizzate in stretta
dipendenza da eventi esterni, per quanto riguarda l’interno le emozioni si autoregolavano senza
bisogno di una vera e propria coscienza, come appunto motion of heart. Questa potrebbe costituire
una prova del fatto che il Sé e il suo rapporto con la società siano costruiti e non dati a priori: la
soggettività è dunque un qualcosa di storico e plastico. Ad esempio gli Ilongot sono una prova del
carattere culturale dell’idea che vuole le donne “biologicamente” più emotive degli uomini.

Poesie – non lacrime – come medium di emozioni autentiche


Nel lavoro di Lila Abu-Lughod emerge quanto le questioni dell’antropologia delle emozioni siano
legate al problema di genere. Fu introdotta personalmente dal padre a una tribù beduina (Aulad
Ali) in Egitto, il che fu di grande aiuto per farla integrare fin da subito nel gruppo. Stranamente fu
uno strano mix di vicinanza (il fatto di essere di origini arabe) e distanza (il fatto di non essere
egiziana) a favorire l’integrazione dell’antropologa. Fu adottata dall’anziano della tribù: i beduini
vivevano in famiglie patrilineari che, dopo la II guerra mondiale, avevano abbandonato il
nomadismo. Questo comportò una segregazione tra uomini e donne, con una maggiore restrizione
nella libertà di movimento di queste. Al contrario il benessere raggiunto grazie al commercio
permetteva a un uomo di poter mantenere più mogli.
Nell’ambito femminile si usava cantare le ghinnawa (“canzoncine”), in gran parte improvvisare:
erano composizioni molto brevi, che richiamavano per contenuti il blues e che dovevano suscitare
compassione in chi avrebbe ascoltato. Questo era uno dei pochi contesti in cui le donne potevano
esprimere le loro emozioni, nonostante presso gli Aulad Ali le manifestazioni verbali di emozioni
venissero tacciate di inautenticità. Erano finestre sul Sé beduino in cui le donne potevano esprimere
con la massima libertà i propri stati d’animo. Queste composizioni obbedivano a regole ferree, il
che appare paradossale per l’idea occidentale di emozione improntata sulla spontaneità. La cultura
emotiva beduina era fortemente improntata sull’autocontrollo: era considerato sconveniente per
le donne parlare di amore “romantico” o di gelosia in pubblico. Per questo si crea un interessante
contrasto tra il disinteresse stoico (che sembra sfociare quasi in egoismo) manifestato dalle donne
in pubblico e il contenuto emotivo delle composizioni private. Questo non vuol dire che una delle
due sfere sia più autentica dell’altra (come nella teoria delle maschere di Goffman) ma
semplicemente che anche l’idea occidentale del Sé autentico è passibile di decostruzione. È il
carattere ambiguo delle ghinnawa, contemporaneamente formalizzate e improvvisate, a
conservare lo spazio per l’espressione delle emozioni.

Sociocostruttivismo allo zenit


Catherine Lutz studiò gli abitanti dell’atollo di Ifaluk. Anche il suo studio si distingue per un notevole
grado di autoriflessione: lei è alla ricerca di una cultura in cui i sentimenti non siano
automaticamente collegati alla femminilità. In effetti Lutz tradisce il pregiudizio romantico dei Mari
del Sud come culla di una società migliore. Le emozioni non hanno il carattere tanto naturale e
immediato che spesso gli si attribuisce, ma si basano su “una rete di associazioni spesso implicite”.
Lei è interessata alle emozioni non tanto nel loro carattere essenziale ma come “pratica ideologica”.
Tra gli Ifaluk le emozioni hanno un carattere principalmente intersoggetivo, esteriore e sono indice
dello status sociale, il che indica un’esperienze prettamente culturale. Si concentra sull’aspetto
pragmatico e performativo dell’esperienza emotiva: ad esempio la song (ira) degli Ifaluk era
interessante non tanto per il suo carattere semantico quanto per l’infrazione morale e lo status
sociale che segnalava, solo dei personaggi potenti potevano infatti avvalersene. I capi tribù,
incarnazione della song e del fago (misto di empatia, amore e malinconia), erano delle sorta di gangli
in cui si incanalava la volontà collettiva.
La contingenza delle emozioni di Lutz emergeva di continuo nel rapporto con l’Altro. Dunque potè
distinguere il modello emotivo euroamericano “bifronte”, in cui le emozioni hanno un carattere sia
negativo che positivo (come carattere rivoluzionario ad esempio), dall’etnopsicologia Ifaluk, che
presenta un modello emotivo olistico che faceva sconfinare le emozioni anche nella sfera
intersoggettiva (immaginiamo che ci si riferiva alle emozioni con la prima persona plurale). Lutz
collega questa concezione olistiche all’esperienza faccia-a-faccia dell’esperienza relazionale Ifaluk
che non ha conosciuto l’evento del capitalismo.

Sociocostruttivismo accanto a Rosaldo, Abu-Lughod e Lutz


In India era sorta una complessa teoria estetica, il rasa (succo, gusto), che organizza l’espressione
delle emozioni in riferimento alla danza e al teatro. Ogni rasa viene collegato a un’espressione del
volto, a un gesto della mano, a un colore, a una divinità e a uno “state of being/doing the actor
embody” (bhava). Rasa ha con bhava la stessa relazione che ha il vino con l’uva: il rasa è ciò che uno
sente quando sperimenta i bhava degli attori. Le foto dimostrano come si tratti di una concezione
delle emozioni alternativa rispetto a quelle occidentali (a quelle di Ekman e Tomkins ad esempio).
Gli spettatori vengono collocati una sorta di campo emotivo (ma anche corporeo e mentale) quando
fanno esperienza della rappresentazione, tant’è che Apffell-Marglin parla di “pensiero incarnato”
più che di emozione. Questa prospettiva scardina la visione occidentale del Sé individuale come
facente esperienza dell’Io “più basso”. Al contrario secondo questa teoria l’Io nella sua completezza
sarebbe colto proprio in questa esperienza olistica: non c’è differenziazione tra un Io più o meno
autentico. Anche il metodo espressivo cambia: le lettere, che in occidente sono una forma
secondaria (quasi inautentica) di espressione, in certe culture orientali assumono un’importanza
centrale a discapito delle interazioni faccia a faccia nella lingua quotidiana. Ciò ribalta la tendenza
occidentale all’attribuire al linguaggio orale una carica emotiva maggiore rispetto a quello scritto.

Antropologia delle emozioni sociocostruttivista, un bilancio provvisorio


Nello sviluppo dell’antropologia sociocostruttivista ha giocato un ruolo fondamentale l’ascesa del
poststrutturalismo insieme alla lotta dei movimenti di emancipazione (femminile, omosessuale e
lesbico) grazie alla quale i concetti di genere e identità vengono tematizzati come costrutti storico-
sociali. Un altro concetto fondante di questa tendenza è quello dell’autoriflessione che considera il
background sociale e territoriale a cui uno studioso è legato: la restituzione dell’immagine di una
cultura dipende dalla cultura dalla quale viene osservata. Certo è che l’eccessiva rigidità della
metodologia sociocostruttivista può condurre ad aporie: anche l’autoriflessione, oltre che i suoi
contenuti, può essere tacciata di non essere niente di più che una costruzione.
Su queste basi si è fondato un confronto costruttivo tra scienze storiche (diacroniche) e antropologia
(sincronica) che ha il suo punto di divergenza principale nelle fonti interrogate. C’è tuttavia da
analizzare un’ulteriore contraddizione. I movimenti di emancipazione degli anni 60 (sulla scia anche
di concetti fondamentali dello studio antropologico come quello di psychic unity of mankind
elaborato da Franz Boas) promuovevano una forma di universalismo culturale (tutte le razze, i sessi
ecc. sono uguali alla base) ma questo veniva tacciato dai costruttivisti come una visione
eurocentrica. Gli stessi concetti universali su cui fondare la lotta per l’emancipazione sarebbero meri
costrutti storico-culturali. Una cultura potrebbe essere dunque ricostruita solo a partire dalla
propria logica, si tratta del cosiddetto “dilemma della cultura”. Il sociocostruttivismo, se non si
vuole sprofondarlo nell’incertezza nominalista, non può essere portato all’estremo: bisogna
postulare dei metaconcetti su cui fondare l’analisi (non possiamo sostenere che la rabbia sia un
costrutto sociale se non possiamo utilizzare il termine “rabbia”), non si può fare a meno di tutto il
realismo.

Excursus I. Sociologia
Quello che per l’antropologia è la cultura per la sociologia è il sociale. Nella storia della sociologia si
possono trovare riferimenti alla sfera emotiva già in Simmel, Weber e Sorokin. Per Talcott Parsons
la prima variabile strutturale che pone in essere un individuo in relazione a una situazione è quella
tra affettività (bisogni immediati) e neutralità affettiva (bisogni a lungo termine). Negli anni 80 Arlie
Hochschild (Managed Heart) introdusse il concetto di “lavoro emotivo” riferendosi a professioni,
quali la hostess, in cui viene richiesto di sentire (e non solo di mostrare) una particolare emozione.
Se questa forzatura risulta eccessivamente in contrasto con l’emozione realmente provata ne deriva
una “dissonanza emotiva”. Le hostess erano dunque incoraggiate a considerare la cabina di volo
non come un posto di lavoro ma come la propria casa e i passeggeri come propri ospiti (paragonabile
al metodo Stanislavskij). Gli assistenti di volo dovevano dunque costruirsi una memoria emotiva in
modo da riuscire a immagazzinare emozioni da “utilizzare” in caso di necessità (ad esempio nel caso
in cui un passeggero si riveli particolarmente scorbutico). Se scusare i comportamenti non bastava
si poteva invece distrarsi o coltivare fantasie aggressive.
Oltre a comportare un forte di rischio di alienazione psichica il lavoro emotivo si configura come
eminentemente sessuato: sono i lavori statisticamente femminili a richiedere un maggiore lavoro
emotivo. Le bambine fin da piccole vengono incoraggiate a coltivare un rapporto di resistenza, e
non di espressione, con l’aggressività. Agli uomini viene invece richiesto solitamente un lavoro
emotivo negativo che, sotto il punto di vista psico-emotivo, sembrerebbe risultare più leggero in
quanto liberatorio. Il lavoro emotivo è divenuto sempre più importante nell’economia di mercato
del terziario e il problema della dissonanza emotiva tra Io autentico e non autentico è sempre più
diffuso. Ci sono congruenze con il concetto di Goffman di maschera sociale ma Hochschild sottolinea
come ai lavoratori non venga richiesta solo una recitazione di superficie ma una deep acting che
richiede il coinvolgimento di sentimenti privati e autentici. Questo discorso risulta particolarmente
attuale in culture (quale quella americana) in cui si osserva una sorta di culto dell’autenticità.
Victor Turner divide la sociologia delle emozioni in 7 aree:
1. La biologia evolutiva. Si ritiene che le emozioni siano ancorate nella regione evolutivamente
più antica della corteccia cerebrale. Le emozioni erano il linguaggio antecedente alla parola.
2. L’interazionismo simbolico. Fonda le proprie ricerche sulle emozioni sul ruolo dell’Io nella
comunicazione interpersonale.
3. La drammaturgia. Che si riferisce agli approcci che si rifanno alle maschere di Goffman. Il
comportamento degli individui comporta sempre una “presentazione” del Sé a un pubblico.
4. Il rituale dell’integrazione. Studia il ruolo dei rituali sociali in riferimento all’energia con la
quale viene caricata una situazione. La violazione di questi riti provoca rabbia utile a
rafforzare la solidarietà di gruppo.
5. Le teorie di scambio. Che interpreta le interazioni sociali come relazioni di tipo economico.
6-7. Potere/status e Stratificazione. Cercano una definizione teorica della disuguaglianza
sociale.

“I fioristi trasformano i sentimenti in fiori”: Eva Illouz


Eva Illouz si occupa della commercializzazione dell’amore e della parallela idealizzazione di questo
sentimento. È proprio nell’era del capitalismo, in cui tutto può essere comprato, che si è affermato
il bisogno di una sfera (quella sentimentale) che potesse venir considerata esente da queste logiche,
ma è davvero così? In realtà, ad oggi, l’amore si intreccia strettamente con i meccanismi del mercato
e della pubblicità i quali riproducono le divisioni sociali e le contraddizioni del capitalismo. In
Consuming the Romantic Utopia viene sottolineato un evento peculiare collocabile tra gli anni 20 e
30: la morale edonistica proletaria si impone su quella della pudicizia borghese. L’accesso all’amore
viene aperto a tutti, di conseguenza diventa qualcosa che può essere comprato. È in questo periodo
che si afferma il mito della negatività del matrimonio che inizia ad essere percepito nei termini di
una fatica lavorativa, l’amore, per contrasto, poteva solo configurarsi come la fuga dalla routine, la
vacanza, il tempo libero. L’amore è dunque l’extra-ordinario, ma è chiaro come questa percezione
sia stata creata culturalmente.
Il problema nel concepire romanticamente una storia matrimoniale sta nella difficoltà a mantenere
l’equilibrio tra una componente calcolistica e una spontanea. Si tratta di fatto di un vero e proprio
paradosso: il legame romantico può essere motivato solo da un interesse egoistico e tuttavia è
veramente convincente solo se l’individuo prova disinteresse. Un’altra contraddizione sta nel
carattere miticamente interclasse della relazione amorosa che, fatti alla mano, finisce sempre per
riprodurre le divisioni di classe tradizionali. Per spiegare questo viene ripreso il concetto di habitus
di Bourdieu: potenziali partner segnalano (a livello metaintenzionale) l’appartenenza allo stesso
ceto attraverso marker fisici consolidati. Queste dinamiche non fanno che riprodurre una logica
romantica basata essenzialmente su cliché la cui riproduzione rischia di rivelare il carattere
consumisitico del sentimento ma il cui abbandono rischia di tagliare fuori dal mercato. Una
conseguenza di queste contraddizioni è la fobia delle relazioni stabili: si teme di legarsi perché si
ritiene che nel libero mercato dell’amore si possa sempre trovare qualcuno di meglio. Quello che
colpisce del lavoro di Illouz è la vena di disillusione, di fatto rivela come dell’amore romantico sia
rimasto ben poco.

Gli anni Novanta I. Antropologia delle emozioni oltre il sociocostruttivismo


Dopo la stagione delle crociate anti-etnocentriche la sinistra liberal tornò a concentrarsi sul bisogno
di trovare un elemento di unità e coesione sulla cui base condurre delle battaglie sociali univoche.
Si iniziò ad accorgersi come un multiculturalismo di facciata stesse oscurando il problema della
disuguaglianza economica. In merito si iniziò a mettere in dubbio l’approccio cultural-costruzionista
allo studio delle emozioni, Lyon ritrovò un punto di incontro interculturale nella categoria chiave del
corpo. I discorsi sociali e culturali possono essere compresi a pieno solo nell’ottica di un’esperienza
incarnata (re-embodied) studiata attraverso la biologia.
Excursus II. La linguistica delle emozioni. Anna Wierzbicka e la metalingua-semantico naturale
(NSM) degli universali culturali
Anna Wierzbicka contestò l’idea che le parole emotive non costituissero un attore privilegiato nel
discorso sulle emozioni. Lei ritiene possibile una metalingua culturalmente universale che appunto
chiama NSM. Ogni lingua umana fa uso di queste componenti universali: compito del linguista è
quello di comprendere questi universali per capire come realmente si strutturi il rapporto dell’uomo
con le emozioni. L’obiettivo è quello di scovare i concetti essenziali per stabilire un canone costante
in ogni lingua, un esempio è questo:
1. Tutte le lingue hanno una parola per FEEL;
2. In tutte le lingue le emozioni possono venire categorizzate come “bene” o “male”;
3. Tutte le lingue hanno parole paragonabili per “piangere” o “sorridere”;
4. In tutte le culture si possono collegare emozioni ad espressioni facciali;
5. Tutte le lingue hanno interiezioni “emotive”;
6. Tutte le lingue hanno “termini emotivi”;
7. Tutte le lingue hanno termini che collegano le emozioni con previsioni, desideri e giudizi in
riferimento ad afraid, angry e ashamed;
8. In tutte le lingue si collegano emozioni a sintomi fisici;
9. In tutte le lingue le emozioni possono essere descritte in riferimento a sensazioni corporee;
10. In tutte le lingue le emozioni possono essere descritte in riferimento a immagini corporee;
11. In tutte le lingue esistono costruzioni grammaticali per descrivere emozioni a base cognitiva.
Su questo canone si può costruire una mini-lingua universale da usare come tertium comparationis
tra le lingue. È anche vero che metaconcetti così generali rischiano di portare alle cosiddette verità
meramente triviali.

Zoltàn Kovecses e le metafore


Secondo Zoltàn Kovecses il contenuto della
rabbia non può esaurirsi nella parola
“rabbia” ma come concetto comprende un
alto numero di formulazioni (sbuffare,
esplodere, ribollire) riconducibili a
concezioni metaforiche. In questo caso il
punto comune di queste metafore è
sicuramente l’idea del calore: la rabbia è
qualcosa di intenso che, raggiunto un certo
livello, può portare alla perdita di controllo.
Non esistono tuttavia metafore “pure” per le emozioni ma si tratta di metafore generali che ruotano
intorno all’idea di forza ed energia. Anche lui ritiene poco fertile la dicotomia tra sociocostruttivismo
e universalismo e propone una mediazione. Le emozioni hanno una base “fisica” (l’aumento della
temperatura nella rabbia ad esempio) che traccia dei vincoli su cui vanno a costruirsi metafore
pressoché, ma mai del tutto, universali. Possiamo definire questo paradigma come un
“costruttivismo a base corporea”.

Gli anni Novanta II. L’antropologia delle emozioni e le difficoltà di superare la dicotomia tra
sociocostruttivismo e universalismo
Il corpo: natura o cultura? Pascal Eitler e Monique Scheer sostengono una concezione culturalizzata
del corpo che deve essere inteso soprattutto nella sua storicizzazione. Abilità, handicap e abitudini,
una volta acquisiti, modificano in maniera concreta l’esperienza corporea. La forma del corpo è
concreta e mutante, esattamente come quella della lingua, dunque i sentimenti vengono prodotti
anche materialmente. Questo vale anche per quella parte del corpo che nel tempo ha acquistato un
ruolo privilegiato nel discorso sulle emozioni: il cervello. Si ha sempre a che fare con sviluppi della
materia cerebrale conseguiti a breve termine secondo la biografia individuale. Questo rende
instabili e perennemente aperte anche le ricerche delle neuroscienze: vengono studiati i processi di
materializzazione. Il poststrutturalismo riuscirebbe a correggere il riduzionismo scientifico
concentrando la propria ricerca sulla pratica corporea (trying emotion). Solo in questo modo
possono essere superate le contrapposizioni dicotomiche, in primis quella anima/corpo, per riuscire
a concepire l’idea di un mindful body. Con i suoi studi sui balinesi Unni Wikan scoprì l’idea di un Io
collegato in maniera unitaria al cuore e al viso in una concezione olistica incapace di distinguere una
parte “profonda” e una “superficiale”. Per loro le emozioni sarebbero delle sorta di feeling-thoughts
studiabili solo nel loro procedere empirico, per questo gli antropologi dovrebbero immergersi nella
cultura studiata. Così si possono riscoprire anche pratiche cliniche ancestrali che collegano
l’emozione al corpo: si pensi alla relazione concreta tra riso e felicità.
Sempre nella direzione del superamento della dicotomia è utile nominare lo studio di James
Mitchell in merito ai suicidi per amore della lingua in India. Rappresentavano risvolti macabri di una
protesta politica, ma da cosa dipende la possibilità di togliersi la vita per una lingua? È possibile che
si intersechino concezione culturali che vedono la lingua stessa come un essere vivente se non
addirittura come manifestazione di una divinità. Questi e altri fattori favorirono la radicalizzazione
di un legame affettivo con la lingua Telugu, portato poi all’estremo coi suicidi che furono fermati
solo da una ri-organizzazione dei confini territoriali su base linguistica.

Sviluppi recenti nell’antropologia delle emozioni universalista


Gli antropologi universalisti sostenevano l’esistenza di una struttura assiomatica costante
all’interno di tutte le società. Karl Heider, antropologo linguistico, sosteneva la presenza di emozioni
di base (riprese da Ekman). Compito dell’antropologo sarebbe dunque quello di tracciare una linea
di separazione tra quegli elementi universali e basilari dalle cosiddette display rules culturalmente
diverse. Assiomi:
3. Il comportamento emotivo è un mix di elementi panculturali e culturalmente specifici;
4. Entrambi gli schemi devono essere considerati contemporaneamente;
5. L’antropologo deve definire gli influssi culturali sulle emozioni.
Vi è dunque uno spazio conservato anche agli elementi specificamente culturali in contrapposizione
alle correnti universaliste della psicologia. La teoria di Heider si appoggia all’assioma delle emozioni
di base di Ekman, assunto tutt’altro che dimostrato, ma bisogna ammettere che, anche in caso di
confutazione di Ekman, il suo lavoro rimanga valido. Heider ha concentrato la sua analisi su 4 lingue
classificando le parole emotive trovando sia punti comuni ma anche numerose “sfumature” che
fanno divergere alcuni concetti di base. L’idea di Heider delle emozioni come stati misti considerati
da una prospettiva processuale (flusso delle emozioni):

evento passato → definizione culturale → stato interiore → reazione culturale → espressione


Come notiamo vi è una composizione complessa di elementi psicologici e culturali che porta ad una
differenziazione notevole nel modo di sperimentare un flusso emotivo. Si può rimproverare di non
considerare la possibilità di stati emotivi prodotti internamente. In fin dei conti possiamo sostenere
che la divisione dicotomica si sia rivelata inefficace per spiegare il caos della realtà per quanto
riguarda l’esperienza emotiva.

Universalismo e scienze della vita

Paul Ekman e le scienze della vita


Lie to me è una serie televisiva che ha per protagonista uno psicologo in grado di comprendere se
uno stia mentendo decifrando le micro expressions che lasciano necessariamente trasparire le vere
intenzioni del malcapitato. Il modello di questo personaggio era Paul Ekman. Questo personaggio è
una figura fondamentale nella storia delle emozioni, potremmo dire che abbia portato alla ribalta
del grande pubblico il dibattito sulle emozioni. È famoso soprattutto per la teoria delle 6 basic
emotions (BE): felicità, rabbia, disgusto, paura, tristezza e sorpresa. Per lui l’espressione di queste
emozioni si gioca principalmente sul terreno delle espressioni del volto poiché a ciascuna delle
emozioni di base dovrebbe corrispondere un’espressione del volto inconfondibile e incelabile. Se
uno cerca di nasconderle o se le norme sociali (display rules) impediscono la manifestazione egli
sarà comunque tradito dalle micro expressions. Dunque le caratteristiche fondamentali delle
emozioni di base sono questi distinctive universal signals. Nel corso del tempo ci sono state diverse
variazioni su quali fossero queste emozioni di base e ciò ha fatto dubitare della fondatezza di questa
teoria specialmente dalla prospettiva umanistica, ma bisogno contare soprattutto che, trattandosi
di scienza sperimentale, segue un progresso epistemico calibrato sul breve termine. È quindi
accettabile il fatto che la natura di queste BE sia lasciata aperta, tanto che si è parlato anche della
possibilità di combinare queste in emozioni complesse.
Leys si è posta criticamente verso questa teoria e ha tentato di costruirne una genealogia
ripercorrendo il percorso individuale di Ekman: la terapia psicoanalitica iniziata da giovane, il
contatto con la psicologia sperimentale, la prospettiva inizialmente relativista. Una svolta
fondamentale ci fu nell’incontro con Silvan Tomkins che postulava l’esistenza di programmi affettivi
ovvero: reazioni fisiche e modi comportamentali destati da stimoli esterni e indipendenti da fattori
culturali, biografici, volontari ecc. Questi gesti sarebbero da ricondurre a zone del cervello
filogeneticamente più antiche. Le emozioni seguirebbero quindi lo schema stimolo-risposta che
abbiamo ereditato dai nostri avi primitivi (si tratta di una lettura essenzialmente darwinista) in
opposizione all’idea intenzionalista che potremmo distinguere nell’approccio psicoanalitico dello
studio dei significati e nell’Appraisal Theory che ritiene fondamentale il ruolo della valutazione.
Ekman cercò di mettere alla prova sperimentale le idee di Tomkins e lo fece attraverso degli
esperimenti che miravano a comprendere quanto le espressioni facciali potessero costituire delle
spie di stati emotivi universalmente riconoscibili. All’inizio si utilizzarono foto a cui bisognava
attribuire un’emozione ma ci furono diversi dubbi sia perché non fu specificato il carattere
inautentico dei soggetti in foto, sia per il dubbio procedimento di scelta delle BE e infine perché le
espressioni dei soggetti erano risposte a comandi verbalizzati. Si cercò inoltre di eludere il carattere
eccessivamente “limitante” della parola che indica l’emozione per sostituirla con delle sorta di
“parole emotive”, e anche questo sembrò portare risultati positivi ma le critiche non tardarono ad
arrivare:
• Mead definì “artificiali” le espressioni emotive raccolte e in ciò rimane comunque una
fondamentale componente culturale;
• Bateson, marito di Mead, sottolineò come questo esperimento desse risposte di carattere
più comunicativo che essenziale;
• Birdwhistell, che aveva constatato l’inesistenza di espressioni facciali che avessero una
validità culturale universale, invitò Ekman a confrontarsi con culture davvero
“incontaminate”.
Ekman estese dunque gli esperimenti ai Dani della Nuova Guinea e decise di condurre gli
esperimenti sulla base di brevi racconti che avrebbero dovuto stimolare una precisa emozione di
cui i soggetti dovevano riprodurre l’espressione facciale corrispondente. Ritrovò così che, a parte
delle variazioni nelle emozioni del disgusto e della rabbia dettate dalle display rules, le altre
espressioni corrispondevano. Un ulteriore esperimento prevedeva un confronto tra studenti
americani e giapponesi. Furono filmate di nascosto le loro espressioni mentre guardavano video
che avrebbero dovuto urtare la loro sensibilità: il risultato fu che le reazioni emotive risultarono
coincidenti. Il materiale fu poi esaminato attraverso il Facial Action Scoring Technique (FAST)
elaborato da Ekman come valutazione dei movimenti della muscolatura facciale e anche in questo
caso si scoprì un pattern di BE. C’è da dire che Ekman non negasse completamente il fattore
culturale nella manifestazione espressiva delle emozioni. L’accoglienza di questi risultati fu così
positiva che Ekman fu chiamato a sostituire Birdwhistell come consulente del National Institute of
Mental Health. Per Ekman si tratto del trionfo dell’oggettività sul relativismo antropologico, per
Leys fu invece la vittoria della sperimentazione “comoda” e semplificata.
Se nelle scienze della vita l’approccio di Ekman è stato sostituito da quello delle neuroscienze è
paradossalmente in campo umanistico che continua a sopravvivere. L’evidenza empirica fornita dai
suoi esperimenti è in effetti molto debole, vediamo perché:
1. La costruzione degli esperimenti con le foto rivela una certa circolarità. Le emozioni di base
vengono scelte su base intuitiva in modo da ridurre la complessità e la variabilità
dell’esperimento. Sulla base di queste viene chiesto ai soggetti di riprodurne l’espressione
facciale e queste vengono poi valutate col FAST che si basa però a sua volta sulle foto di posa
originarie. Si valutano le espressioni dei soggetti sulla base di un assunto che l’esperimento
dovrebbe dimostrare. Anche la variazione “narrativa” non sembra eliminare il carattere
tautologico dell’esperienza e neanche così si arriva a una omogeneità completa all’interno
di una sola cultura.
2. La narrazione costituisce poi un elemento culturalmente mediato per sua stessa natura.
3. È impossibile studiare culture davvero incontaminate in quanto non ne esistono più. Inoltre
già il fatto di interagire con la cultura la contamina, il che viola il principio di riproducibilità
sperimentale.
4. Non si capisce perché il viso debba avere un ruolo privilegiato nell’espressione delle
emozioni. Questo assunto è storicamente variabile tant’è che nella scienza odierna è stato
sostituito dalla collocazione cerebrale. Molte culture non considerano il viso (e neanche la
vista come senso) strumento di comunicazione emotiva privilegiato.
5. Gli esperimenti si basano su foto di posa inautentiche il cui utilizzo era stato criticato dallo
stesso Ekman.
6. Anche assumendo la possibilità che il viso sia un veicolo privilegiato dell’espressione emotiva
rimane il dubbio che essa possa essere catturata con una precisione sufficiente
dall’istantanea fotografica che soffre della diffrazione temporale data dall’azione del
fotografo.
7. C’è poi una contraddizione nel fatto che Ekman sostenga che le emozioni autentiche si
manifestino nella loro purezza solo quando il soggetto sa di non essere osservato ma
contemporaneamente basi gli esperimenti su foto con soggetti che sanno di essere osservati.
8. C’è poi da dire, in riferimento all’esperimento degli studenti nippo-americani, che l’aver
creato una solitudine fisica, funzionale per Ekman alla manifestazione di emozioni
autentiche, non vuol dire che sia anche psicologica. Fridlund, autore di questa critica,
aggiunge poi che il far interagire i giapponesi con un personaggio autorevole introduce
nell’esperimento variabili culturali. In terzo luogo, secondo Fridlund, non si terrebbe conto
di come la componente linguistica influenzi la lettura dei comportamenti.
La maggior parte di queste critiche provengono dalla psicologia sperimentale. Tuttavia lo studio di
Ekman otterrà una grande fama tanto da entrare in maniera dirompente nel dibattito politico
americano in riferimento alla questione della sicurezza. Ekman promette di riuscire a leggere in
maniera veritiera e univoca le intenzioni di un potenziale terrorista. Sembra chiara in primis
l’eccessiva fiducia sui propri studi e non bisogna dimenticare, a prescindere dall’efficacia, che ci
sarebbe una considerevole violazione della privacy. L’assoluta oggettività e l’ambiente controllato
del laboratorio non potrà mai essere riprodotto completamente nel mondo reale. In breve, la
promessa immantenibile di Ekman costa denaro pubblico che potrebbe essere speso in altro modo
dunque: i costi elevati della prevenzione del terrorismo giustificano i loro benefici relativi?

Charles Darwin, “L’espressione delle emozioni” (1872)


Le due fazioni principali che abbiamo presentato finora si contendono il controllo sul “più
importante libro sulle emozioni di tutti i tempi”. L’edizione del 1998, curata da Ekman il quale ha
operato massicci interventi in cui spiegava dove Darwin fosse nel giusto e dove sbagliasse, segna in
parte il trionfo dell’universalismo. Ekman sostiene poi che nell’edizione del 1955 Mead avrebbe
distorto a tal punto il pensiero di Darwin da renderlo irriconoscibile presentandolo come un
relativista culturale. Ekman cerca dunque di costruire la narrazione di se stesso come eroe che
avrebbe riportato Darwin alla sua chiarezza originaria. Alcuni degli interventi sull’opera dello
scienziato inglese appaiono però molto più indirizzati a un’autocelebrazione del proprio lavoro
(mascherata da un sottile velo di oggettività scientifica) che a un’analisi critica del pensiero
dell’autore.
Il conflitto tra Ekman e l’antropologia emotiva assunse nel tempo caratteri via via più aspri. Gli
antropologi temevano il riconfigurarsi di una svolta ultrascientista paragonabile a quella che aveva
segnato l’esperienza nazionalsocialista. Per questo veniva preferita una forma di universalismo
debole che si concentrava sulle relazioni possibili tra le differenze piuttosto che sulla loro
parificazione. Ekman costituiva una minaccia al pensiero riformista che portava avanti l’idea che le
persone potessero essere educate nei comportamenti. Dall’altro lato della barricata Ekman era poi
attaccato dai simpatizzanti delle gerarchie culturali (suprematisti bianchi ma anche i separatisti
sostenitori radicali dei diritti civili). Ekman ha comunque sempre sostenuto il fondamento
antirazzista delle sue ricerche orientate a riscoprire lo strato di uniformità nell’esperienza delle
diverse culture. Ma qual è dunque l’interpretazione più plausibile di Darwin?
Darwin per la scrittura de L’espressione aveva raccolto materiali per decenni lavorando in modo
induttivo, all’inizio propone dunque tre leggi che, a suo parere, stanno alla base di ogni espressione
di emozione:
1. Principio delle abitudini associate utili. Alcuni atti hanno un’utilità diretta o indiretta in certi
stati d’animo, perché alleviano o soddisfano particolari sensazioni, desideri ecc. Dunque
appena si accenna lo stato d’animo, per abitudine o per associazione, si replica l’atto anche
se non è collegato all’utilità.
Es.: Le persone che si grattano la testa quando sono perplesse quasi come se potessero
davvero far funzionare meglio il cervello così.
2. Principio dell’antitesi. Ogni espressione ha un suo contrario: lo scodinzolare gioioso del cane
si comprende come antitesi della coda rigida in posizione d’attacco, così avviene anche per
certe espressioni umane.
3. Principio dell’azione diretta del sistema nervoso. Certi atti dipendono solo dalla costituzione
del sistema nervoso indipendentemente dalla volontà e, in parte, anche dall’abitudine. Il
tremito della paura è il frutto dell’energia nervosa in eccesso che viene trasmessa alle
estremità.
Nel corso dell’esposizione emergono comunque molte contraddizioni e ambiguità la cui
comprensione è stata resa più ardua dal campanilismo disciplinare. Ricordiamo inoltre che nel suo
percorso Darwin dovette stare attento alle critiche cristiane che non potevano sopportare
un’animalizzazione dell’umano, per questo cercò di non trattare esplicitamente la teoria evolutiva.
Curiosa, inoltre, la scelta di Darwin di concentrarsi unicamente sulle espressioni non-verbali
sminuendo i caratteri volontari e intenzionali dell’espressione.
Accanto a questo approccio chiaramente universalista se ne colloca un altro che va però dalla parte
opposta. Darwin procede spesso secondo un metodo induttivo che spesso si arresta alla fase di
descrizione di comportamenti senza condurli ad una conclusione che li sintetizzi universalmente.
Ad esempio sottolinea come le donne neozelandesi siano in grado di versare copiose lacrime in virtù
di un atto volontario, quando rileva l’ambiguità emotiva che le lacrime possono avere in diverse
parti del mondo o dei diversi modi espressivi di elaborare un lutto. Ekman ignora sistematicamente
questi casi nell’opera darwiniana. La battaglia su quest’opera non accenna a terminare. Gross di
recente ha pubblicato un articolo in cui reclama Darwin come teorico delle scienze umane poiché il
suo approccio terrebbe in conto “il medium, l’occasione e la situazione sociale”. Darwin darebbe poi
anche spazio all’immaginazione e sarebbe più consapevole di Ekman del carattere confusionario in
genere rappresentato dalle emozioni. Il Darwin di Ekman apparirebbe, per Gross, impoverito della
componente che indaga l’uomo nel suo poter essere oltre che nel suo essere.

Gli inizi della ricerca psicologica sulle emozioni


Thomas Dixon si è occupato di tracciare la preistoria che sta alla base dell’opera di Darwin. Perché
si potesse affermare la metacategoria emotions si dovette sacrificare parte della complessità di un
dibattito molto lungo. L’inizio di questa riduzione viene visto nel lavoro dei filosofi morali scozzesi
del 1730 nel quadro del processo di secolarizzazione durante il quale si cercò di riportare queste
categorie dal mondo metafisico(-teologico) a quello della biologia fisica. Spencer, circa un secolo
dopo, si ribellava contro l’idea di un’evoluzione intellettuale dell’uomo guidata da un’istanza
metafisica; Bain non negava l’influenza della volontà ma la inseriva in un circuito anatomico che la
legava al movimento muscolare.
Il caso de L’espressione fu più complicato in quanto sembra trasparire un approccio antidarwiniano,
infatti le emozioni non vennero interpretate come strumenti funzionali alla sopravvivenza ma venne
sottolineato il carattere spesso inutile e superfluo. Una spiegazione per questo approccio vede
Darwin impegnato in una critica alle sue stesse tesi come reazione difensiva verso i cristiani
pesantemente critici verso l’evoluzionismo. Dunque, in definitiva, Darwin avrebbe cercato di
introdurre nello studio spunti di analogia con la dottrina del peccato originale decristianizzandola
(emozioni come “malfunzionamenti” della macchina umana). Questa idea della ricanalizzazione di
assunti teologici è più convincente della prospettiva della secolarizzazione. Sotto l’influsso di questo
ripensamento delle dottrine teologiche si collocano anche i primi passi della psicologia come
disciplina autonoma. Questi cercarono di sviluppare una concezione fisiologica delle emozioni che
si emancipasse dalla volontà e dall’intenzione in modo da essere applicata anche agli animali.
Tradizionalmente questa separazione viene però fatta risalire a William James nel saggio del 1884
What Is an Emotion? In cui si sostiene che l’emozione corrisponda alla sensazione dei cambiamenti
corporei che seguono direttamente la percezione di uno stimolo eccitante (“ci sentiamo dispiaciuti
perché piangiamo” non il contrario). La componente soggettiva è dunque ampiamente trascurabile.
Un’emozione disincarnata sarebbe dunque inesistente e dunque un soggetto privo di sensibilità è
anche privo di emozioni. Il suo approccio sta attraversando un revival con i neojamesiani che si
inseriscono nel quadro dell’embodiment e della embodied cognition.
Fondamentale è in merito l’apporto di Carl Lange (tanto che parliamo di teoria delle emozioni di
James-Lange) che sostiene che se astraessimo i sintomi corporei da una persona che prova
l’emozione non ci rimarrebbe niente. Emergono però delle differenze: in primis il fatto che la teoria
jamesiana si concentrasse principalmente sul ruolo della stimolazione sensoriale e, una volta
passate al cervello, le emozioni rappresentassero semplicemente delle cognizioni, dal cervello
invece non si dipartono segnali in direzione degli organi, per questo parliamo di teoria “periferica”.
Per Lange invece un ruolo fondamentale è occupato dal “centro vasomotorio”, un conglomerato di
neuroni cerebrali, che riceve ed invia segnali nervosi. Dunque la percezione deve passare dal
cervello per essere poi “trasformata” in un’emozione. Sherrington dimostrò poi che il centro
vasomotorio non partecipa alla produzione delle emozioni. A Lange va tuttavia riconosciuto il merito
di aver posto per primo la sede delle emozioni nel cervello. Interessante, inoltre, il lavoro di Wilhelm
Wundt che giunge alle emozioni attraverso le ricerche sulle percezioni sensoriali. Egli va a
distinguere Emotionen, temporalmente limitate, da Affekten, più lunghi e complessi,
(differenziazione che oggi si è ribaltata) e li considerava elaborati dal cervello, erano dunque
“soggettivi” in quanto elaborati dal soggetto senziente. Fu inoltre fondatore del primo laboratorio
di psicologia a Lipsia.

Laboratori per le emozioni ed emozioni in laboratorio


Nei manuali di psicologia la storia delle emozioni procede grossomodo come l’abbiamo trattata
finora proseguendo con la critica di Cannon e Bard a James-Lange che obiettano che i movimenti
fisici non possono essere emozioni in quanto troppo lenti e presenti anche in stati non emotivi. È
poi la volta del behaviorismo (“comportamentismo”) che spiega le emozioni attraverso il
meccanismo del riflesso stimolo-risposta. Questa visione dominò il panorama fino agli anni ’60
quando si poté assistere a una rinascita della ricerca. Tomkins riprese l’approccio darwiniano delle
BE, Arnold elaborò la teoria dell’appraisal (valutazione) e Schachter e Singer una mista tra queste
due. Questo racconto è però troppo semplice per questo è consigliabile concentrarsi, più che sulle
teorie, sulle pratiche.
Angelo Mosso dà una testimonianza dello stupore che lo prese quando riuscì a registrare un
cambiamento fisiologico oggettivo in relazione all’emergere di uno stato emotivo (nello specifico
la contrazione della mano collegata alla paura). Nel XIX sec. si diffuse dunque l’idea che potesse
essere possibile misurare oggettivamente (frequenza cardiaca, pressione sanguigna, pH della saliva
ecc.) le emozioni in laboratorio. La prima difficoltà stava nel capire a quali valori corrispondesse la
baseline di un corpo “non-emotivo”: bisognava scegliere la giusta cavia e portarla alle giuste
condizioni. Problemi in questo senso erano rappresentati anche dai terribili esperimenti sugli
animali che subivano decorticazioni e lobotomie cerebrali per isolare e studiare meglio zone
particolari del cervello. Una volta preparata la cavia si procedeva sottoponendola a stimolazioni e
si poteva osservarne il comportamento o misurare la variazione di un gruppo di valori. Per misurare
queste differenze i vecchi strumenti si rivelarono insufficienti e anche i nuovi strumenti che
nacquero in risposta si rivelarono spesso poco utili o addirittura dannosi per la ricerca. Per lungo
tempo si credette seriamente che questi esperimenti discoprissero allo scienziato l’universo
emotivo dell’uomo: come se l’emozione si scrivesse da sola negli apparecchi di registrazione. Oltre
all’analisi delle sostanze prodotte nella cavia emotiva si procedeva anche iniettando nel corpo della
cavia quei secreti per misurarne l’emozionalizzazione. Il risultato di questo processo fu la
minimizzazione delle componenti soggettiva e verbale delle emozioni e la conseguente
demitizzazione metafisica. I processi fondamentali erano questi:
1. Separazione delle emozioni dagli altri fenomeni;
2. Formulazione della misurabilità;
3. Standardizzazione;
4. Resa grafica visibile.
Questi processi erano variabili e soffrivano spesso di paradossi tra i quali il primo era che già la
possibilità stessa di studiare le emozioni violava uno dei principi fondamentali della sperimentazione
in laboratorio: quello che pone il laboratorio come luogo oggettivo privo di emozioni. Chi assicura
che un valore fisiologico segnalasse uno stato emotivo e non, ad esempio, un’infezione. Non era
inoltre chiarissimo se le cavie non potessero distorcere i risultati tramite la loro volontà. L’emozione
è poi, per definizione, un evento accidentale, il collasso dell’ideale di animale-macchina a cui doveva
affidarsi lo studio sperimentale. Si avvicina in questo ai problemi relativi allo studio della meccanica
quantistica: nel momento in cui si cattura il “valore” dell’emozione fermandola se ne perde il flusso,
quindi l’emozione stessa (Robert Musil).

Verso la ricerca neurologica delle emozioni


La storia della neurologia delle emozioni può essere letta nelle tracce delle genealogie delle
concezioni spaziali che i neuroscienziati hanno applicato al cervello. John Jackson alla fine del XIX
sec. era convinto che le funzioni cognitive fossero localizzate nelle aree superiori, mentre quelle
emotive nelle aree inferiori. Definire metaforiche queste teorie è forse eufemistico considerato le
idee socialmente classiste che influenzavano questa prospettiva: la schizofrenia per Jackson era una
specie di “lotta di classe” cerebrale e il buon funzionamento prevedeva la prevalenza dell’elemento
cognitivo su quello emotivo. Il neurologo Charles Mills ipotizzò che solo la metà destra del cervello
fosse responsabile delle emozioni: su questa ipotesi si dibatté a lungo nella affective neuroscience.
Per studiare queste ipotesi si prendevano in esame le lesioni cerebrali: emozione e lesione venivano
legati da un rapporto di causa-effetto. Se un soggetto lesionato in una zona determinata del cervello
avesse presentato deficit emotivo-comportamentali, allora sarebbe stata la zona lesionata ad
essere responsabile dell’emozione. La prospettiva della localizzazione spaziale si è col tempo rivelata
infruttuosa.

Ricerca nelle risposte emotive del cervello


Furono in effetti i medici a scoprire che le lesioni cerebrali potessero avere a che fare con le
emozioni osservando i comportamenti dei propri pazienti. Peculiare è il caso di Phineas Gage che,
trafitto nel cranio con un’asta di metallo, iniziò a manifestare comportamenti scorbutici e collerici.
L’asta aveva infatti danneggiato la corteccia orbitofrontale e prefrontale che, nella visione
jacksoniana, rappresentava il collegamento tra le funzioni cognitive e quelle “animali”. A questa idea
corrispondeva la terapia attraverso operazioni chirurgiche discutibili: i comportamenti anomali
(schizofrenici e psicotici) potevano dunque essere curati tramite asportazione di determinate aree
del cervello (lobotomie). Queste sono le 3 pietre miliari della ricerca sul rapporto tra emozioni e
cervello:
1. Ipotesi Cannon-Bard. Head dimostrò la presenza di un rapporto tra le lesioni del talamo e
reazioni di ipersensibilità a stimoli dolorosi e, quasi contemporaneamente, Hess imparò a
indurre reazioni emotive specifiche sui gatti tramite stimolazione elettrica. Walter Cannon e
Philip Bard ipotizzarono dunque che la regione talamica fosse un’area chiave per la ricerca
sulle emozioni, esisterebbe dunque un circuito tra le parti corticali del cervello
(evolutivamente più recenti) e quelle subcorticali del talamo. Dunque le emozioni non
possono essere solo nella corteccia.
2. Il circuito di Papez. A partire da Cannon-Bard James Papez descrisse il talamo come una sorta
di interruttore per gli stimoli che distribuisce gli impulsi in un flusso cognitivo orientato
verso l’alto e uno emotivo verso il basso. Il flusso cognitivo è più lento e dà vita a un circuito
in cui gli stimoli vengono organizzati in percezioni, pensieri e ricordi che ritornano poi nel
talamo. Il flusso emotivo è invece più veloce e prende da subito la via verso il sistema
nervoso manifestandosi attraverso reazioni fisiche. Papez suggerisce un’interpretazione del
cervello, tutt’oggi ritenuta corretta, dinamica e interattiva e, secondo lui stesso, col tempo
la ricerca sarebbe riuscita a scoprire sempre nuovi collegamenti che avrebbero tracciato il
quadro di un cervello che vive in un’interazione olistica secondo schemi intensivi.
3. Il sistema limbico. L’elaborazione di questo complesso modello di anatomia cerebrale si
deve a Paul MacLean. Il cervello è composto tra 3 parti collegate: le emozioni più primitive
si trovano complesso R, evolutivamente più antico; le emozioni sociali più complesse
sarebbero collocate nel cervello paleomammifero e comprenderebbero molte aree del
circuito di Papez, l’amigdala e la corteccia prefrontale; la neocorteccia è invece responsabile
del controllo cognitivo delle emozioni. Il processo emotivo va dunque a prendere forma in
un percorso che tocca tutte e tre le parti. Tutt’oggi se parliamo di localizzazione di emozioni
nel cervello ci riferiamo al sistema limbico.

Freud e l’assenza di una sua teoria delle emozioni: verso una lacuna
È difficile immaginare che la teoria psicoanalitica freudiana, che studia in un ambito a stretto
contatto con la sfera psico-emotiva (angoscia, malattie psichiche, traumi ecc.) non abbia sviluppato
una vera e propria teoria delle emozioni. Possiamo ripercorrere questa ambiguità attraverso il Caso
Katharina degli Studi sull’isteria. Questa ragazza disse a Freud di soffrire di attacchi di panico e
mancanza di respiro, un “accesso d’angoscia” fu la prima diagnosi. Nella psicoanalisi le emozioni
sono prese in considerazione ma principalmente come fenomeni superficiali, spie di processi
chimici più profondi. Freud intuì poi che questi disturbi potessero essere riconducibili a
un’esperienza traumatica: K. aveva visto dalla finestra suo zio sopra sua cugina, e fu quello l’inizio
delle sue crisi. Dopo aver raccontato questo seguirono dei litigi tra lo zio e la zia ma, scavando oltre,
si scoprì che K. stessa era stata vittima di abusi da parte di questo zio. Stabilito questo fatto, che
probabilmente il soggetto riviveva con angoscia collegata al trauma sessuale, K. sembrava essere
guarita. Freud riportò alcuni anni dopo che lo zio era in realtà il padre di Katharina.
La psicoanalisi gira dunque continuamente intorno alle emozioni senza mai trovarne la spiegazione.
Secondo altre letture le interpretazioni freudiane delle emozioni come “cartelli indicatori” si
affiancano a una teoria degli affetti più biologica e meccanicistica. Freud partiva dal presupposto di
un’economia psichica che comportava stimoli indifferenziati e sensazioni differenziate. Lo stato
affettivo sarebbe una sorta di “componente energetica” sottoposta, nell’apparato psichico, a una
legge di conservazione (repressione emotiva che può far insorgere angoscia o manifestazioni
ossessivo-compulsive). Questo è richiamato nelle idee di Elias e rappresenta il filone definito della
“ambivalenza emotiva” che aveva per Freud una dimensione anche biografica. Un altro filone mette
invece in risalto il problema dell’angoscia. Freud elabora la teoria dell’Ur-Angst, una sorta di
angoscia fisiologica primordiale del bambino alla nascita: le manifestazioni successive sarebbero
dunque una riproduzione di quella situazione. Nel suo “irradiarsi” questa angoscia (come tensione
verso il benessere individuale) dà luogo a manifestazioni più complesse che stanno al centro della
creazione della cultura.
Si è sviluppata di recente la neuropsicoanalisi che combina le emozioni, in senso neuroscientifico,
con i concetti base della psicoanalisi. Yoram Yovel ha combinato la teoria freudiana delle pulsioni
con gli ECS (processi neurochimici universali fondati sulla biologia evolutiva) di Jaak Panksepp. Gli
ECS sono responsabili delle attività di base universali e man mano che ci si sposta nelle aree superiori
della corteccia subcorticale diventano sempre più complessi. Yovel ha cercato dunque di costruire
una teoria dell’amore partendo dal presupposto che sia frutto di una combinazione di ECS (come
“Ricerca”, il più vicino alla libido, “Tristezza” di “Cura”), l’obiettivo principale era quello di superare
l’approccio limitato a sistemi libidinali/istintivi/emotivi come quello che prevede il legame di
attaccamento. Va comunque detto che questo approccio presuppone una lettura bio-evolutiva
della pulsione sessuale, il che è molto lontano dall’idea di amore romantico. La psicoanalisi ha
comunque lasciato un’eredità importante in campo terapeutico attraverso lo sfruttamento della
capacità curativa della narrazione. Questa ha una forza iterativa e performativa che permette di de-
attivare le emozioni negative collegate a certe esperienze: il solo fatto di riuscire a definire
un’emozione avrebbe una proprietà curativa. La Narrative Exposure Therapy (NET) si richiama a
studi neuroscientifici sull’effetto dell’etichettatura dell’emozione sul sistema limbico. Il processo si
base essenzialmente su un principio di adattamento.

Il boom della psicologia delle emozioni a partire dagli anni ‘60


A partire dagli anni ’60 ci fu un boom di interesse per la psicologia emotiva. La diffusione della
corrente di pensiero esistenzialista, l’entrata delle donne nell’università promossa dal movimento
femminista forse anche la nascita della New Age e del pacifismo concorrono nella riqualificazione
positiva della sfera emotiva.

Una teoria delle emozioni sintetica in prospettiva cognitivo-fisiologica: il modello Schachter-


Singer
Gli psicologi Stanley Schachter e Jerome Singer negli anni ’50 formularono l’ipotesi secondo cui non
ci siano segnali corporei specifici per una determinata emozione ma che invece ci siano solo segnali
corporei generali ai quali, attraverso un processo di valutazione, attribuiamo un’etichetta emotiva.
Gli stati emotivi sarebbero dunque attribuzioni acquisite applicate poi in funzione delle circostanze.
Al contrario, se si è consapevoli del reale motivo di quella eccitazione fisiologica non sussiste lo stato
emotivo e, d’altra parte, senza eccitazione non ci sarebbe proprio etichetta emotiva.
Per dimostrare questa teoria misero in atto un
esperimento a vari step. Reclutarono 184 soggetti
dicendogli che gli avrebbero iniettato un farmaco
vitaminico per la vista, in realtà si trattava di un
preparato adrenalinico che provoca tachicardia,
respiro veloce e aumento di pressione. Un gruppo
fu informato di questi possibili effetti. All’interno di
questi gruppi si crearono ulteriori sottogruppi in cui
i ricercatori cercavano di ricreare situazioni che potessero causare euforia e rabbia. Il risultato
confermò le ipotesi: i soggetti informati non sentivano di aver provato alcuna emozione, quelli non
informati invece sì. Questa è la teoria (“dei due fattori”) più influente nell’ambito della psicologia
accademica e considera emozione e movimento corporeo sempre intrecciati, per questo viene
ricondotto alla teoria neojamesiana e alla psicologia cognitiva.

Emozioni con una dimensione valutativa: la psicologia cognitiva e i modelli di “appraisal”


La psicologa Magda Arnold ha elaborato una teoria emotiva che lascia spazio alla valutazione dello
stimolo che innesca il processo emotivo. Un’emozione sarebbe dunque “la percezione della
tendenza verso un oggetto giudicato positivamente o della fugo verso un […] negativamente,
corroborata da specifiche reazioni fisiche”. Si differenzia dalla teoria stimolo-risposto in quanto
un’emozione è vincolata a una mia valutazione soggettiva (fuggo dal serpente perché so che è
pericoloso). Nonostante questo Arnold continuava a concordare con l’idea che le emozioni
sarebbero necessarie nella lotta per la sopravvivenza. Per questo attribuisce alla valutazione un
nucleo inter-culturale e universale. Il successo di questo approccio è andato di pari passo con la
rivoluzione cognitiva ed è peculiare l’attenzione per il momento del self-report ovvero della
valutazione delle proprie emozioni in forma orale o scritta. Viene spesso messa in relazione con la
filosofia aristotelica e, forse anche per questo motivo, è considerato l’approccio più accessibile per
gli studiosi di preparazione umanistica. Arnold sostiene però che il tipo di valutazione che entra in
gioco nel processo emotivo sia diretta, immediata e non-riflessiva.
Robert Zajonc presentò un modello simile definendo però le emozioni come “postcognitive”.
Considera dunque le emozioni come antecedenti alla consapevolezza (inconscio, immediato, pre-
verbale) ed entrerebbero in gioco soprattutto alla base dei processi decisionali. Il sistema cognitivo
è invece più lento, più complesso, più preciso e culturalmente contingente. Per molti versi Zajonc
viene associato all’idea dell’inconscio freudiano. Zajonc separa nettamente sfera emotiva e
cognitiva (di cui dà una definizione molto ristretta) ed è questo l’errore più grave che molti critici gli
attribuiscono. L’appraisal invece intende cognizione (e dunque la valutazione) in senso più ampio
abbracciando anche la sfera dell’immediatezza.
Le neuroscienze, la risonanza magnetica funzionale e altri metodi di diagnostica per immagini
La risonanza magnetica funzionale (RMF) nasce negli anni 80 come strumento per rendere visibile
l’attività cerebrale. All’entusiasmo iniziale si sommarono però diverse critiche sulla reale utilità di
questo mezzo. La RMF misura variazioni nel contenuto di ossigeno del sangue nel cervello,
deducendone così l’attività neurale (il principio è che i globuli rossi hanno proprietà magnetiche
diverse a seconda del contenuto ossigeno). L’attività neurale, infatti, consuma l’ossigeno del sangue
contenuto nella zona interessata da queste attività. Ciò vuol dire che l’attività neurale viene
misurata indirettamente e solo con uno scarto temporale. In ogni esperimento il soggetto viene
sottoposto a stimoli di varia natura percettiva e su questa base si osserva quali aree sono
interessate nella stimolazione (priming) e si esamina anche, all’inverso, come ciò influisca nel
processo decisionale. È dunque possibile, sulla base delle aree cerebrali attivate, trarre conclusioni
sulle emozioni innescate.
Con questi metodi si è studiata, ad esempio, l’empatia stabilendo come dipenda dal grado di
“parentela” etnica tra i soggetti. Sono chiare, in tal caso, le potenzialità dell’utilizzo di questo
strumento in chiave sociologica. Ha di positivo il fatto di non essere né invasiva né nociva, al
contrario degli strumenti che emettono radiazioni, ed è più precisa di altre tecniche anche se
presenta una risoluzione temporale peggiore. Si sta andando verso un uso combinato di varie
tecniche detto multimodal imaging. Tuttavia sono stati rilevati numerosi limiti nella RMF: il primo
è il fatto che non viene misurato direttamente il dato interessante ma lo si ottiene per correlazione.
Il segnale emodinamico è stato definito un “surrogato” dell’attività neurale. Nel momento di
misurazione l’apparecchio può inoltre confondere eccitazione ed inibizione e bisogna aggiungere
che la risoluzione spaziale dei “blobs” illuminati è molto poco affidabile. I confini delle aree cerebrali
non sono infatti ben distinti ed è dunque difficile distinguere i conglomerati di cellule nervose
specifiche dalle altre. A questo problema si aggiunge il fatto che anche le aree del cervello non
stimolate non sono mai realmente “spente”, l’immagine dell’attività ne risulta dunque distorta.
Nonostante le critiche la diagnostica per immagini ha collezionato un enorme successo, tanto che si
è registrata una diminuzione drastica nel tasso di innovazione degli esperimenti con questo
apparecchio. Anche molti studiosi dell’area umanista sembrano disposti ad abbandonarsi
completamente a questo metodo. Vediamo ora quali sono gli esperimenti più frequenti.

Joseph LeDoux e le due vie della paura


Secondo LeDoux l’emozione della paura conduce lo stimolo scatenante secondo due percorsi
differenti. Il primo passa per l’amigdala che nel giro di 12 millisecondi invia il segnale d’azione a
tutto il corpo. Il secondo passa per la corteccia dove funzioni cognitive superiori stabiliscono se lo
stimolo riveli una reale minaccia o meno e si comporta di conseguenza, questa via ovviamente segue
un percorso più lento. Questa teoria si diffuse molto ampiamente probabilmente anche per il
carattere lineare e simmetrico della sua descrizione, ma non bisogna d’altronde sottovalutare
neanche il suo alto grado di applicabilità nella valutazione critica di disturbi quali fobie e il disturbo
da stress post-traumatico. Nonostante questo successo si moltiplicano anche le critiche sulla
funzionalità di questa teoria: si è messo in dubbio sia il discorso sulle tempistiche differenti degli
stimoli nel seguire il percorso sia la recettività dell’amigdala nei confronti di determinati stimoli
(visivi ad esempio). In realtà le interazioni tra amigdala e corteccia sono molto più fitte di quanto
LeDoux pensasse: l’amigdala più che una via rapida sarebbe una sorta di “interruttore” degli impulsi.
Antonio Damasio e la “Somatic Marker Hypothesis” (SMH)
Damasio è il neuroscienziato più famoso nell’ambito di studio delle emozioni. La SMH afferma che i
processi cognitivi superiori (come la capacità decisionale) sono semplificati, accelerati e migliorati
attraverso i segnali emotivi corporei. Questi somatic marker sono impressioni o tracce
dell’espressione fisica delle emozioni della periferia direttamente nella corteccia prefrontale
ventromediale. Questi marcatori, attribuendo a un’opzione promettente una coloritura emotiva
positiva, migliorano il processo decisionale. Damasio parla sia di body-loop (in cui l’opzione è
segnalata da marcatori fisici come l’aumento del battito cardiaco) che di as-if loop (dove l’opzione
agisce direttamente sul pensiero segnalando l’opzione preferibile). Ciò fu dimostrato in un
esperimento in cui si notò che individui cerebrolesi (alla corteccia prefrontale ventromediale) non
erano in grado di scegliere l’opzione migliore a lungo termine ma tendevano ad optare per una
scommessa molto rischiosa, come se soffrissero di una “miopia sul futuro”. Sulla base di questa
teoria si è riusciti, ad esempio, a stabilire un’analogia tra tossicodipendenza e contrazione dell’HIV:
i tossicodipendenti, che condividerebbero danni cerebrali nell’area ventromediale, hanno meno
capacità di evitare rapporti sessuali pericolosi. È palese il potenziale biopolitico di questo studio:
vorrebbe dire che certi comportamenti negativi non sono frutto di un difetto nella volontà ma sono,
in un certo senso, cablati nel cervello. Pensiamo anche alle possibilità applicative nelle neuroscienze
economiche. Gli studiosi apprezzano l’idea di una cognizione pre-corporea che sta alla base di
questa teoria.
Per quanto riguarda le critiche, in primo luogo viene messa in dubbio la valenza innovativa: teorie
paragonabili sarebbero state elaborate sulla base del sistema limbico. È stato messo in dubbio che
l’esperimento attivi davvero la memoria emotiva e, se così non fosse, non direbbe nulla circa i
marcatori somatici. I soggetti seguirebbero le regole del gioco a un metalivello cognitivo falsificando
i risultati dell’esperimento. Non è inoltre del tutto assodato se le risposte di conduttanza cutanea
(che per Damasio sono la base di lettura dei marker che dovrebbero agevolare il processo
decisionale) siano realmente cause e non effetti postdecisionali di un sistema di feedback. Altri
critici sostengono poi che, anche nel momento in cui queste risposte non siano effetti, sarebbero
tuttalpiù da definire come correlative al comportamento decisionale. Nel frattempo sono stati poi
messi in dubbio sia i contorni della corteccia ventromediale sia l’effettiva presenza in questa dei
marker.

Giacomo Rizzolati, Vittorio Gallese, Marco Iacoboni, i neuroni specchio e le emozioni sociali
Dalla loro scoperta a Parma tra il 1995-96, con i neuroni-specchio si è cercato di risolvere
praticamente tutti i quesiti riguardo alla natura delle emozioni. Studiando dei macachi Rizzolati e
Gallese riscontrarono che nella corteccia premotoria i neuroni reagivano solo in due casi: quando
l’animale compiva un determinato movimento (afferrare un frutto) e quando osservava quello
stesso movimento compiuto da un altro esemplare. Nessuno si aspettava di riscontrare una
percezione visiva in quell’area: nacque così l’ipotesi di un collegamento inconscio, neurale, tra
movimenti fisici e cognizione e a un correlato tra imitazione inconscia e capacità cognitive superiori
(non troppo diversa dall’ipotesi di Damasio). Col tempo si estese la validità di questa ipotesi anche
oltre la corteccia premotoria (apprendimento linguistico). Un esperimento dimostrò come il
processo imitativo messo in atto dai neuroni possa influire anche sulle capacità cognitive di un
individuo (come se i neuroni specchio raddoppiassero i neuroni responsabili del comportamento
imitato).
Appare opportuno chiedersi, in un processo imitativo così stretto, quando sia consistente la capacità
innovativa, tendente al cambiamento, dell’umano. I nostri codici socio-comportamentali sono forse
dettati completamente dalla nostra biologia? Sarebbe forse la censura (così da ridurne l’imitazione)
l’unico modo per limitare certi comportamenti? Gregory Hickok considerò di ridurre l’estensione
dell’ipotesi dei neuroni-specchio ai neuroni sensomotori (quelli responsabili del linguaggio ne
sarebbero estranei), in particolare, a quelli responsabili di metterci in relazione fisica con gli oggetti.
Altri sostennero ancora la poca accuratezza delle tecniche di diagnostica per immagini, usata per
monitorare i neuroni-specchio. C’è poi da dire che già nel all’inizio del 900 Liepmann aveva distinto,
tra i pazienti cerebrolesi divenuti aprassici, un’aprassia ideativa e una ideomotoria. Interessante il
ruolo che ha avuto la divulgazione di questa idea, tramite l’agenzia letteraria di John Brockman, che
ha portato i testi degli scienziati nelle grandi librerie. Il problema sorge quando la tempistica della
ricerca scientifica si trova a sottostare alle necessità di pubblicazione dell’editoria.

Le neuroscienze come “cavallo di Troia” nelle scienze umane e sociali


Ad oggi anche le scienze umane basano le loro speculazioni sulle conquiste della scienza moderna
e, in parte, si può osservare come la discussione sugli affetti e le emozioni sia al centro di questo
dibattito. Negli anni ’90 si sviluppò la convinzione di poter rispondere alle più grandi domande della
filosofia grazie alle scoperte della scienza. In parte questo scientismo può essere letto come una
reazione opposta ai movimenti di fondamentalismo cristiano di tendenza anti-illuminista nati negli
USA. La stessa Eve Sedgwick, una delle fondatrici della teoria queer, afferma il pericolo di
soffermarsi eccessivamente sulla critica all’umanesimo laico-liberale per quanto possa far perdere
di vista l’enorme criticità insita nelle destre xenofobe e reazionarie. D’altra parte però bisognerebbe
anche chiedersi se ci sia un dispotismo migliore dell’altro: se le pene corporali inflitte nella Francia
del ‘700 siano in tutto e per tutto peggiori dalle regole di disciplina della psiche imposte nelle carceri
minorili (uno spostamento dalla microfisica alla macrofisica direbbe Foucault), è forse questo
progresso? C’è però una differenza tra l’arrivare dal modernismo al postmoderno e nascere
direttamente nel postmoderno immemori delle componenti di emancipazione insite
nell’umanesimo illuminista, è stato forse un errore dei primi non riuscire a trasmetterle.
Sedgwick scelse allora quello delle emozioni (nella declinazione di Tomkins) come campo di studio
per ritrovare un appiglio nel reale. Usò dunque la teoria della EB per trarre fuori i suoi studenti da
quel vortice di nichilismo politico. Le conquiste scientifiche dovevano aiutare le persone a ritrovare
sicurezza e tranquillità sul piano esistenziale (ad esempio l’idea della predisposizione genetica
all’omosessualità rendeva insensati i tentativi di conversione). Ad esempio, lo storico dell’arte David
Freedberg, partendo dalla SMH e dai neuroni-specchio, cercò di capire se tutte le opere di successo
fossero legate da un sostrato universale che ne giustificasse l’apprezzamento. Egli sosteneva
l’esistenza di segnali emotivi gestuali e fisiognomici che rendono universalmente comprensibili
(laddove si lascia spazio per un grado di capacità comprensiva maggiore o minore) certi quadri in
una sorta di empatia fisico-emotiva. L’idea dell’esistenza di canoni fisico-motori così stabili nella
storia dell’arte è comunque molto difficile da sostenere inoltre appare illogico stabilire che certe
persone possano essere più sensibili a un elemento che dovrebbe essere universale. Infine questo
vincolerebbe le tendenze delle opere arte più apprezzate a un approccio realista. L’obiettivo di
Freedberg era senza dubbio audace: stabilire un canone per difendere l’arte “alta”. Egli arrivò alle
neuroscienze probabilmente attraverso la lettura di Vischer che distingueva tra sensazione
(inconsapevole) e sentimento (consapevole), questo approccio sarebbe stato abbandonato nella
storia dell’arte in favore di un approccio più scientifico, questa visione si è poi sviluppata fino a
rientrare nella neuroestetica.
Un’altra disciplina nata da poco è la neuropolitologia, scienza sociale che nasce col bisogno di
smarcarsi dal poststrutturalismo per ripensare di nuovo insieme cognizione ed emozione. William
Connolly e Brian Massumi sostengono che, nel tentativo di non cadere nel riduzionismo scientifico,
il poststrutturalismo sia caduto nell’errore opposto. Questo non impedisce a questi nuovi teorici
“vitalisti” e “neomaterialisti” di riciclare concetti del poststrutturalismo come la biopolitica
foucaultiana. Interpretano l’emozione come una forma di cognizione sempre situata
affettivamente. L’affetto non è altro che una carica elettrochimica che viene poi organizzata in
percezioni consce, sentimenti e reazioni. Il pensiero stesso quindi ha una collocazione emotiva ed è
sempre da considerare come collocato in uno spazio d’azione (agency) che non è esclusiva
unicamente umana. Sulla base di questa concezione ampia di agency diventano titolari di diritto
molti più oggetti ed esseri viventi. La neuropolitica si è sviluppata principalmente negli ambienti
della sinistra-liberal che vedeva nel ritorno delle destre nazionaliste una forte componente emotiva
e affettiva. La resistenza “razionale” non appariva più sufficiente e lo era tanto meno una dialettica
basata unicamente sulla divisione in classi socio-economiche. Si doveva dunque iniziare a
comprendere i percorsi delle intensità emotive e desideranti che si incarnavano poi in una
determinata ideologia. Connolly è arrivato alla conclusione che le convinzioni si potessero formare
tramite azioni concrete (micropolitica), è dunque necessario, per fare questo, costruire una
complessa “macchina di controrisonanza”. Il risultato è una forma di empatia materialista-
esistenziale (applicativa) di cui però non viene esattamente specificato il contenuto. Va da sé che
queste prospettive propongano una visione molto limitata (la politica della classe media): non
danno motivazioni per una redistribuzione della ricchezza né per altre misure radicali. C’è poi da
specificare che anche la bibliografia scientifica su cui si basano questi politologi è molto limitata
(LeDoux, Damasio, neuroni-specchio ed esperimento Libet) e spesso criticata. Questi testi sono poi
trattati con un approccio prettamente umanistico, al laissez-faire, che fa trasparire poca
competenza della materia e un’attualizzazione ugualmente scarsa.

Affettari di tutto il mondo, unitevi! Le neuroscienze in Hardt, Negri & Co.


Al di fuori delle accademie le conquiste della neuroscienza vengono recepite anche dai movimenti
politici. Michael Hardt e Antonio Negri, in quello che è stato definito “il manifesto comunista del XXI
secolo”, descrivono una società postindustriale con gerarchie piatte, produzione connessa e
informatizzata, statalità decentrata e istituzioni private. Nella descrizione di questo percorso verso
l’immaterialità, accanto al lavoro cognitivo si fa accenno anche al cosiddetto lavoro emotivo,
ovvero: quel tipo si lavoro che produce e modifica degli affetti del lavoratore. Queste passioni sono
viste come un continuum della ragione ed è proprio attraverso questa nuova ontologia dell’umano
che si cerca di riscoprire una nuova fonte da cui nutrire la resistenza. Loro seguono la concezione
foucaultiana del biopetere (top-down): proponendo un’analisi della relazione produttiva tra affetto
e valore scorgono nella carica di questo rapporto la spinta necessaria per liberarsi. Molti si
oppongono a quest’idea che correla l’emotività alla resistenza in quanto temono la
denaturalizzazione della sfera emotiva attraverso un’ontologizzazione: leggendoli come post-
moderni sostiene che facendo slittare il problema da ciò che le persone credono a ciò che le persone
vogliono credere (elemento affettivo) viene meno l’opposizione politica tra le parti e la differenza
viene ridotta a meramente prospettivistica.
Quello di Hardt e Negri sarebbe un autocommiserevole trattato per il ceto medio in cui la povertà
non viene più trattata come una situazione materiale ma come una identitaria (lo stato emotivo
dell’essere-povero). La classe media diventerebbe così vittima del suo non-essere-abbastanza-
povera: l’evidenziazione di Walter Benn Michaels della differenza ideologica oltre quella affettiva-
ontologica serve per combattere l’uso della categoria di passione utilizzato dalla cerchia
conservatrice per nobilitare il lavoro mal pagato.

Prestiti alle neuroscienze: un bilancio provvisorio


Critiche agli esperimenti su cui si basano queste conclusioni provengono dalle neuroscienze stesse.
Gli studiosi di scienze umane, dopo il periodo relativista e poststrutturalista, erano alla ricerca di
verità universali che pensavano di aver trovato nelle neuroscienze: purtroppo la stessa natura
dell’epistemologia di questa disciplina non permette ancora di essere utilizzata per teorie definitive.
Nelle neuroscienze le verità assolute hanno vita e breve e, per questo, è sempre consigliabile cercare
di diffidare da personaggi che propongono una sola ipotesi. Un approccio più responsabile dovrebbe
essere prima di tutto fondato su una lettura di meta-analisi che si occupano di confrontare varie
posizioni all’interno del dibattito delle neuroscienze in modo da non cadere nella trappola di una
prospettiva monolitica.

Oltre i confini: neuroscienze critiche e autentiche possibilità di cooperazione con le scienze umane
e sociali
Negli ultimi anni neuroscienziati e umanisti hanno iniziato a coltivare un rapporto di collaborazione
più equilibrato, in questo modo anche i primi hanno avuto la possibilità di formarsi una propria
memoria istituzionale. Potremmo parlare della nascita della disciplina delle “neuroscienze critiche”.
Grazie a queste si sta riuscendo ad utilizzare proficuamente le nuove scoperte sul funzionamento
del cervello per risolvere alcuni punti interrogativi aperti sulla cultura e la storia. È opportuno ora
delineare 3 temi con cui si confrontano attualmente le neuroscienze:

Specificazione funzionale (o segregazione funzionale)


Fino a poco tempo fa si credeva che solo determinate aree del cervello fossero responsabili di
determinate funzioni e, mentre queste erano attivate, le altre sarebbero state disattivate
(concezione topografica). Ad oggi invece diversi studi dimostrano come questa concezione offra
una descrizione insufficiente del funzionamento del cervello. Già lo stato di quiete (deattivazione)
è messo in discussione da quando si è rilevata la presenza di attività cerebrale collegata alla
soluzione di obiettivi a lungo termine. Viene definita Default Mode Network e denota l’attività
cerebrale in corso parallelamente all’assolvimento di una funzione specifica a breve termine. Si
parla, in questi casi, di mind wandering, ovvero un’attività neuronale spontanea relativa alle
cosiddette zone di distrazione/deconcentrazione. Attraverso questi studi si è scoperto come aree
che prima non sembravano coinvolte nello svolgimento di una determinata funzione siano in grado
di integrare quella funzione, ad esempio nel caso in cui l’area funzionale sia danneggiata. Si è
dunque sviluppata una concezione del cervello dinamica e interattiva: “le emozioni servono anche
a imparare e pensare” dice Ernst Poppel. Percezione, sentimento e ricordo sarebbero risultati di
queste fittissime interconnessioni fortemente dipendenti tra loro, dunque ciascuna di queste
sarebbe prodotta da diverse aree del cervello. Potremmo parlare di specificazione funzionale
solamente da un punto di vista intensivo anche se le tecniche odierne sono ancora troppo imprecise
per mappare con precisione queste connessioni intensive.
Se davvero si dovesse scoprire che non esista una sorta di “modalità inattiva” allora ne risulterebbe
l’impossibilità di distinguere le aree cognitive responsabili della produzione di determinate
funzioni. È in questa prospettiva che si è iniziato a parlare di funzioni cog-affettive che mettono in
luce la necessità di un approccio olistico al problema dell’attività cerebrale dell’umano. Tutte queste
problematiche stanno al centro dello studio della cibernetica, in particolare col modello
dell’omeostasi attiva. L’idea della compenetrazione tra attività e inattività è in effetti attuale anche
nell’esperienza lavorativa di oggi: l’interconnessione costante ha portato alla disgregazione delle
opposizioni binarie lavoro-tempo libero e lavoro-disoccupazione. Tutto è invece caratterizzato da
un lavoro costante il che sta alla base delle rivendicazioni odierne di un reddito minimo garantito.

Neuroplasticità
A lungo si è ritenuto che, almeno a partire da una certa età, la neurogenesi e la formazione di nuovi
collegamenti tra cellule cerebrali si stabilizzasse. Nuove ricerche hanno però osservato come anche
nei cervelli adulti continuassero a darsi cambiamenti: esperienze biografiche lasciano quindi tracce
nell’architettura dell’“hardware” del cervello. I cervelli si presentano dunque come elementi
culturali e storici mettendo così in dubbio l’universalità che spesso gli veniva attribuita. Questo
condiziona anche la validità degli esperimenti la cui rappresentatività diventa sempre più limitata,
in certi casi fino a scendere alla sfera individuale. Nel momento in cui i neuroscienziati si rendono
conto di non star più studiando “il” cervello ma “un” cervello specifico appare necessaria
l’interlocuzione con studiosi di area umanistica.

Neuroscienze sociali
Per assicurare la validità ecologica (che supera dunque i confini del laboratorio) si è ritenuto
necessario fare appello a studi interdisciplinari. Ad esempio, studiando il funzionamento del
meccanismo dell’empatia si è notato come questo non fosse comprensibile nella sua completezza
se non alla luce di studi nel campo della sociologia (razzismo, sistemi motivazionali ecc.). Alcuni
neuroscienziati sono tutt’ora dell’avviso che solo l’arte sia in grado di restituire una visione olistica
del significato dell’esperienza umana.

Prospettive per la storia delle emozioni

“The Navigation of feeling”: William Reddy e il suo tentativo di superare sociocostruttivismo e


universalismo
William Reddy, storico e antropologo esperto della Francia, fu fra i primi a utilizzare i concetti delle
scienze della vita nei suoi lavori. Si allontanano dalla prospettiva del relativismo culturale in quanto
gli impediva di elaborare un indirizzo normativo-politico. Secondo Reddy gli antropologi, se
volessero applicare con coerenza completa l’approccio culturalizzante, si troverebbero nella
situazione di non poter formulare alcun tipo di giudizio (di valore in primis) riguardo al proprio
oggetto di studio. Reddy propone di conciliare universalismo attraverso la teoria degli atti linguistici
di John Austin: l’universalismo sarebbe l’enunciato constativo, che descrive e rappresenta il mondo;
il sociocostruttivismo sarebbe invece performativo, ovvero che agisce sul mondo. Questo significa
che gli enunciati riguardanti le emozioni sarebbero in grado di descrivere il mondo ma anche di agire
su di esso, proprio sulla base di questa duplicità Reddy conia il concetto di emotive. Quando
descriviamo una condizione del mondo attraverso le emozioni assumiamo necessariamente una
posizione valutatrice mirata ad influenzarlo.
Tra le critiche più specifiche mosse a Reddy c’è quella intorno alla sua visione sincronica delle
emozioni, gli viene poi obiettato di non considerare le differenze tra fonti storiche e ricerca sul
campo. Ma qual è il potenziale innovativo delle idee di Reddy? The Navigation of Feeling è così
strutturato: nel primo capitolo si presenta la tesi universalista (psicologia cognitiva), nel secondo
l’antitesi sociocostruttivista (antropologia) e nei due seguenti si cerca di operare una sintesi. La
seconda parte è dedicata all’applicazione della nuova teoria alla storia francese che viene analizzata
secondo il processo scientifico ipotesi-dimostrazione empirica. Importante sottolineare come Reddy
espliciti i valori (libertà e giustizia) che guidano la sua ricerca e che hanno subito una
denaturalizzazione durante il poststrutturalismo. Reddy ritiene impossibile dare una definizione
univoca di emozione, distinguerle chiaramente l’una dalle altre e tanto meno separarle dalla
cognizione e dalla ragione. Per questo preferisce utilizzare il concetto di cogmotion che descrive le
emozioni come overlearned cognitive habits. Esse hanno un legame con degli obiettivi, e per
questo siamo portati a distinguerla in positive e negative, ma hanno anche un’intensità che
determina la possibilità di controllarle. Per quanto riguarda l’apprendimento Reddy sostiene che
non sempre le emozioni provengano da un tale processo. Reddy recupera le nuove scoperte della
psicologia per portarne alla ribalta l’allontanamento da modelli lineari: non è più possibile tracciare
una linea di demarcazione tra processi consci e inconsci, controllati e involontari. Potremmo
sostenere che sia stato il pensiero, ritenuto “razionale”, una volta che se n’è scoperta la molteplicità
di livelli, a fare un passo avanti verso l’emotivo. Reddy riprende poi dall’antropologia la
formulazione della problematica riguardo alla gradazione tra l’elemento universalista e
sociocostruttivista: la definizione ampia di cultura, come la intende Clifford Geertz, non è l’unica
possibile, non è dunque necessario far cadere nella contingenza qualsiasi discussione. Senza porre
dei metaconcetti universali come base per strutturare un qualsiasi discorso, non sarebbe possibile
alcun tipo di giudizio.
È necessario integrare un elemento etico-politico nello studio delle emozioni, costruisce dunque il
suo edificio teorico:
• L’emozione è il materiale cognitivo attivato, sempre orientato verso un oggetto e spesso
limitate al livello inconscio;
• Gli emotives sono, come già detto, atti linguistici a contenuto emotivo;
• Un regime emotivo è l’insieme di emotives e pratiche relative prescritte. Un regime politico
è sempre sostenuto da un regime emotivo;
• Il gioco dei conflitti tra diversi obiettivi emotivi, all’interno di un regime emotivo, dà vita a
una navigazione emotiva. Questi conflitti provocano dolore emotivi e vengono evitati
trovando dei safe space definibili come “rifugi emotivi”;
• Un regime emotivo efficace è quello che concede un maggior grado di libertà emotiva,
ovvero il contrario del dolore emotivo.
Dall’ultimo punto notiamo quindi come sia possibile una valutazione di contesti storico-culturali
diversi a partire da una medesima base. Per questo Reddy può parlare di regimi emotivi rigidi (forte
normatività e bando delle deviazioni) distinguibili da quelli che limitano il controllo delle emozioni
degli individui a contesti specifici. Meno rigido è un regime più si lascia spazio alla diversificazione
delle esperienze emotive (navigazione); un regime rigido, al contrario, infligge sofferenze emotive
a chi non è in grado di uniformarsi e, inoltre, nega una caratteristica peculiare dell’umano, ovvero
la possibilità di mutare scopi e obiettivi. Questa concezione permette di catturare e mettere a fuoco
i conflitti emotivi contenuti in esperienze singole (scisse tra vari obiettivi) concependoli in un circuito
di autoregolamentazione (feedback loop). Nella prospettiva di Reddy gli emotives, come atti
lingusitici, e i sentimenti mutano insieme nel significato.
Storicamente Reddy colloca la svolta emotiva nella Francia del XVIII sec., definendola nei termini di
una reazione al regime rigido di Luigi XIV. Il circuito di autoregolamentazione (che imponeva la
ricerca di rifugi emotivi in cui sfuggire dalle regolamentazioni rigide) fu fatale a questo nascente
sentimentalismo in quanto fu causa di una radicalizzazione. Per Reddy la Rivoluzione francese fu il
tentativo di trasformare l’intera società in un rifugio emotivo di stampo sentimentalista. Il problema
fu che uno stato di permanente manifestazione emotiva rappresenta una situazione fortemente
conflittuale: in questo caso gli obiettivi e le emozioni dei singoli entrano in conflitto sia tra loro che
con l’ideale di regime, è in questo processo che Reddy scorge la causa della crescente diffidenza,
tra i rivoluzionari, nell’autenticità dei sentimenti propri altrui (“io e lui appoggiamo davvero questi
obiettivi e queste battaglie? È sincero il nostro sentimento per questi ideali?”). In breve, potremmo
dire che gli emotives sono giusti se permettono un’abile navigazione tra diversi obiettivi emotivi e
sono invece sbagliati se soffocano questa libertà. Con Napoleone si assisterà all’instaurazione di un
regime post-sentimentalista che vedrà con diffidenza la manifestazione delle emozioni. Interessante
come Reddy rivoluzioni la concezione storica tradizionale che vedeva già con Cartesio
l’instaurazione definitiva del governo della razionalità (dualismo emotio-ratio).
Questa di Reddy è l’opera più rilevante nell’ambito della storia delle emozioni e lui è tra i pochissimi
umanisti in grado di utilizzare al meglio i risultati teorici delle scienze della vita. Non mancano le
critiche al suo lavoro: la prima riguarda la sua tendenza logocentrica che lo porta a ridurre l’analisi
delle emozioni alla teoria degli atti linguistici. La parola non può avanzare nessuna pretesa
universalizzante nell’ambito dell’espressione emotiva (Rosenwein). Anche la relazione tra regime
politico ed emotivo sembra problematica in quanto Reddy sembra modellare la prima unicamente
sull’idea moderna di stato nazionale. Inoltre si contesta a Reddy il fatto di non aver realmente risolto
il dilemma poststrutturalista: oltre l’emozione anche i fondamentali concetti di realtà o verità sono
caduti, Reddy non sembra avanzare proposte per riconquistarli. Vi sono poi dubbi sull’influenza
dell’ideale politico dello storico (democrazia liberale) all’interno della teoria dei regimi:
sembrerebbe infatti che il regime più auspicabile sarebbe proprio quello della democrazia liberale;
questo non rischierebbe forse di rendere il discorso di Reddy circolare? Reddy sostiene di aver
trovato lui stesso i propri valori etico-politici attraverso questo percorso di studio. Con le parole di
Howell potremmo dire semplicemente che le parole di Reddy siano più suggestive che convincenti.

Pratiche emotive
L’etnografa Monique Scheer, sulla base di Reddy, ha sviluppato una concezione olistica della storia
delle emozioni attraverso l’idea di un corpo culturalizzato e storicizzato. In primo luogo mette in
discussione l’assunto che la cognizione abbia il suo luogo unicamente nel cervello ma, citando Alva
Noe, mette in gioco anche il corpo e il mondo circostante. È il “corpo contestualizzato” a pensare
insieme al cervello e sostenere un’equiparazione completa di emozione e cognizione vorrebbe dire
perdere questo aspetto incarnato. In questa direzione si pone il concetto, mutuato parzialmente da
Bourdieu, di “pratica emotiva” ovvero: “manipolazioni di corpo e mente per evocare emozioni dove
non ce ne sono”; Scheer identifica 4 modalità.
Pratiche emotive che mobilitano
Stanno in relazione all’uso dei media e hanno un carattere più sociale che individuale. Si fa l’esempio
del corteggiamento: vi è una notevole variabilità nei contesti attraverso il quale i sentimenti
connessi a questa pratica si formano. La pratica del corteggiamento (come tante altre) ha degli
effetti performativi sulle stesse emozioni che lo animano. L’enfasi va messa sulla possibilità che ha
la pratica di mobilitare.

Pratiche emotive che denominano


Parlare, scrivere e ricordare (ma anche gli emotives di Reddy) sono pratiche emotive in quanto
producono significato. Le emozioni sono di per sé “materia fluida” che, per essere compresa meglio,
viene fissata attraverso queste pratiche di denominazione che la rendono accessibile.

Pratiche emotive che comunicano


La loro funzione principale è lo scambio con gli altri: ci sono un gran numero di modalità attraverso
le quali un’espressione può essere comunicata, l’importante è che il mittente sia in grado di valutare
al meglio la modalità sulla base delle persone coinvolte e delle aspettative sociali. L’obiettivo di
questo studio sarebbe quello di riuscire a ricondurre a un’analisi scientifica il contesto emotivo nel
quale l’espressione di un’emozione viene recepita.

Pratiche emotive che regolano


Racchiude lo studio canonico delle emozioni inteso some riflesso di un sistema normativo di
controllo. Tuttavia nella prospettiva di Scheer queste pratiche non nascondono l’autenticità emotiva
individuale, come in una mera repressione, ma concorrono nel produrla. Tra queste ci sono, ad
esempio, le pratiche che formano le dicotomie utili a controllare le esperienze emotive.

Accanto a queste c’è poi l’habitus che denota una “conoscenza corporea” sedimentata dunque
acquisita e consolidata (tra gli esempi proposti ci sono quelli del musicista e del calciatore molto
simili a quelli di Merleau-Ponty). Nell’habitus si iscrivono però anche differenze culturali, sociali e di
genere: si tratta di qualcosa di inconscio e di parzialmente vincolante ma lascia tuttavia spazio per
modificazioni, che è la componente che definiremmo della agency. Il corpo, tramite
l’apprendimento di pratiche, può essere modificato pur sempre nella cornice di certi limiti fisici
vincolanti. Le emozioni come habitus hanno un carattere circolare e si pongono come un continuum
tra corpo e cognizione che l’individuo non ha, bensì prova. Il soggetto non è precedente
all’emozione ma emerge con essa nel doing emotion. L’analisi di queste pratiche si svolge anche
attraverso la considerazione del linguaggio figurato in termini corporei.

Neurostoria
L’esponente di maggior rilievo è il medievista Daniel Lord Smail, autore di Storia profonda, testo
stroncato dalla critica di Reddy. L’obiettivo di Smail è quello di allargare i confini cronologici della
storia canonica per riscoprire le epoche precedenti all’invenzione delle tecniche di scrittura. Il
concetto di “preistoria” è, in effetti, del tutto arbitrario e ha contribuito alla svalutazione di un
periodo abbastanza ampio dell’esperienza umana. Ovviamente le fonti predilette saranno diverse e
più difficili da decifrare, si tratta di ciò che Smail definisce genericamente “tracce”. L’obiettivo della
deep history è quello di costruire una narrazione che leghi il paleolitico al postlitico. Tra le tracce
che possono essere prese in considerazione Smail dà enorme importanza a quelle accessibili
attraverso le ricerche delle discipline biologiche (DNA) il che costringerebbe a ripensare
parzialmente l’idea di scienze storiche come le concepiamo oggi, ovvero fondate sul concetto di
intenzionalità. Un punto di incontro può essere trovato nella concezione cronologica filogenetica,
dunque aperta.
Smail distingue le emozioni in inconsce-fisiche e sentimenti intesi come prodotti della coscienza in
relazione alle emozioni fisiche. Le emozioni servono a Smail per costruire quel ponte tra periodo
storico e preistorico, per questo gli serve un concetto di emozione anti-intenzionalista ed evolutiva.
Ma a fronte di questa necessaria visione universalista (Smail parla di “substrato biologico”) come
introdurre l’elemento di variabilità altrettanto necessario perché se ne possa tracciare una storia?
L’elemento dinamico e variabile è insito nella realtà stessa, ovvero negli stimoli che innescano i
processi emotivi. Per Smail, in consonanza con Ekman e Tomkins, non si modificano le emozioni ma
solo ciò che le innesca. Tuttavia certe conclusioni sue entrano in contraddizione con questa
prospettiva, ad esempio il fatto che nella relazione coi meccanismi psicotropi sembra molto più
variabile la relazione emotiva personale che il fenomeno reale. Smail si trova costretto a far cadere
la differenziazione tra cognizione ed emozione ed è proprio a causa di queste sue concezioni
riduzioniste che rischia di scadere in ipotesi semplicistiche, trivially true, potremmo dire. Reddy
accusa infine Smail di funzionalismo ovvero di scambiare gli effetti con le cause: è un pericolo serio,
per gli storici, quello di mal interpretare acquisizioni scientifiche facendo sconfinare dall’ambito in
cui sono effettivamente rilevanti.

Prospettive di storia delle emozioni


L’approccio neurale rischia effettivamente di essere una riedizione della tesi determinista, proprio
per questo è necessario avvicinarla sempre con il filtro di un approccio scettico (sull’esempio di
Reddy). Inoltre bisogna stare attenti a trasformare la categoria di emozione in un ricettacolo in cui
collocare tutte quegli elementi della storia umana non spiegabili razionalmente. Un altro pericolo
è rappresentato dalla divisione tra emozioni positive e negative o dalle metafore economiche molto
in uso. Un consiglio utile è quello di rispettare sempre la natura mista delle emozioni.

Storia politica, movimenti sociali ed emozioni


La sociologa Deborah Gould ha scritto la storia sulla manifestazione per i medicinali contro l’AIDS
analizzando questo movimento sociale dal punto di vista degli affetti. Gould ritiene che il processo
alla base di questo movimento fosse la trasformazione del dolore in rabbia. Le azioni di protesta
erano una risposta all’indifferenza e al rancore con cui veniva trattato il problema e tale risposta
non può essere ridotta a un meccanismo razionale poiché in tutte le parti in gioco vi era una
componente emotiva ineliminabile. Interessante, inoltre il discorso sulla variazione nel modo di
recepire l’espressione dei sentimenti nella politica (Muskie-Bush). Non sarebbe sbagliato, in tal
senso, parlare di un emotional turn nella politica (Feeltank Chicago) nel momento in cui si è scoperto
il potenziale sovversivo dell’emotività.

Storia economica ed emozioni


Ancora oggi il crollo di Wall Street del 1929, che portò alla Grande Depressione, costituisce un
enigma per gli storici dell’economia. Harold James mette in evidenza sia il panico scatenato dalla
vendita di azioni sia la tendenza, in questi casi negativi, a ricercare il confronto con episodi storici
paragonabili, laddove nei momenti di euforia si è più propensi a gettare lo sguardo al futuro. Già
Weber comunque era riuscito a sottolineare il rapporto tra i sentimenti e il capitalismo: questo era
infatti in gran parte costruito sulla base di determinati affetti. Interessante sarebbe trattare una
storia emotiva dei lavori, soprattutto in rapporto alla rivoluzione industriale, e magari il ruolo che
giocano nelle pubblicità.

Storia del diritto ed emozioni


Hugo Munsterberg studiando l’affaire Dreyfus notò come una gran parte delle prove contro
l’imputato si basassero sull’osservazioni delle sue espressioni emotive. Stiamo parlando del famoso
“terzo grado” durante il quale si cerca di dedurre la colpevolezza/innocenza dell’imputato dai
movimenti corporei. Oltre questo è però interessante come nel corso della storia siano stati
numerosi i reati riconducibili a un ambito emotivo (omicidio d’onore, offese, lesa maestà ecc.).

Storia dei media delle emozioni


I media, da quando si sono affermati, hanno sempre contribuito pesantemente a plasmare
l’esperienza emotiva della popolazione. I media hanno dimostrato di essere molto di più di semplici
contenitori neutri d’informazione: Christiane Voss parlando dello spettatore al cinema lo definisce
come “corpo filmico surrogato” in quanto entra con la sua stessa fisicità dentro l’architettura
filmica. È proprio in virtù di questa “contraddizione” spazio-temporale che lo spettatore può
sperimentare emozioni particolari come “fenomeni narrativi”, mantenendosi in un Io separato.
Media come il cinema hanno dunque la capacità di porre lo spettatore in uno stato di ambiguità
(dentro e fuori il film). Un discorso parallelo può essere fatto per il teatro laddove molti hanno
riflettuto su come far sì che il pubblico, come corpo collettivo olistico, sperimentasse emozioni nella
maniera più coerente possibile.

“Oral History”, “memory” ed emozioni


Per oral history intendiamo il metodo di studio storico che si basa su testimonianze orali. Le
trascrizioni di queste fonti tengono conto dell’intonazione e di altre caratteristiche prosodiche.
Necessario, in questi casi, abbandonare la pretesa di attingere a fonti più reali o autentiche, si tratta
semplicemente di fonti alternative che dispiegano caratteri diversi da quelli di un testo scritto. Si
potrà al massimo ragionare sulla plausibilità e sulla coerenza di un racconto: il racconto orale è
interessante in quanto restituisce un grado maggiore di autorappresentatività. L’attenzione si deve
necessariamente volgere nelle microprospettive tra cui rientrano anche quei minuziosi e complessi
meccanismi emotivi di cui finora abbiamo illustrato le teorie. In questo senso non si può comunque
trascurare il ruolo distorcente della memoria.

Storici come esseri emotivi


Fin da Tacito si è sviluppato un’ideale dello storico come individuo non emotivo che ha il dovere di
considerare gli eventi da una prospettiva neutra, sine ira et studio. R.G. Collingwood scrisse che
tutto ciò che era irrazionale doveva essere oggetto della psicologia e non dello studio storico.
Storiografia ed emozioni sembrerebbero dunque escludersi, è anche per questo che nei secoli si è
formato lo stereotipo della storiografia come scienza essenzialmente “noiosa”, fatta più per dei
metodici archivisti che per brillanti pensatori. In realtà non fu sempre stato così: fino al 1870 non
era raro per i giovani studenti esercitarsi nell’immedesimazioni scrivendo cronache nello stile degli
storici antichi. Weber sostiene che solo l’entusiasmo di una scoperta possa ripagare tutti i sacrifici
rappresentati dallo studio. D’altra parte risulta chiaro come spesso sia proprio impossibile per lo
storico comporre una storiografia del tutto apatica. Sarà poi il poststrutturalismo a porre una
distanza ironica tra lo storico e l’epoca di riferimento.

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