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A Giuseppe Maffei per il materiale e le idee,

a Alfredo Ferrarin per essere prima persona e poi docente,

a Marcello Brunini per avermi fatto conoscere Hillman e molto altro.

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INTRODUZIONE

Per intendere bene le cose,


bisogna lavorare di immagini
Italo Svevo, La coscienza di Zeno

La tensione fra la molteplicità e l’unità, la molteplicità del reale e

l’unità possibile di un principio razionale che di quella sia la chiave

di comprensione, è un dato costante del pensiero occidentale.

Di questa tensione anche noi tratteremo, leggendola in un campo

conoscitivo, quello della psicoanalisi, che ha prodotto, in pochissimo

tempo, una vulgata di amplissima diffusione e che è stata capace di

marcare profondamente il sentire della nostra società, proprio per il

suo porsi ad un punto di confluenza di diversi saperi

tradizionalmente istituiti, quali la medicina, la filosofia, la religione,

la politica, e per il suo proporsi spesso come una delle prospettive

sull’esistenza umana che aspirano ad essere onnicomprensive, fino

quasi a divenire un sapere, lato sensu, salvifico, che ha la pretesa di

dare agli uomini e alle donne del nostro tempo una “luce” sul posto

della loro vita in un universo che a molti appare sempre più grande

e freddo.

Faremo ciò, descrivendo ed interrogando il pensiero di un autore

contemporaneo, James Hillman (Atlantic City-USA, 1926), che lo ha

trattato in maniera specifica, unendo una vigorosa vis polemica nei

confronti della tradizione psicologica, ma anche di quelle religiosa e

filosofica, ad un’originale rilettura di certi percorsi culturali del

passato.

3
Interrogheremo il suo pensiero con gli strumenti della riflessione

razionale, forse non quelli preferiti da Hillman per ragioni che

vedremo nel corso di questo lavoro, cercando però, allo stesso

tempo, di stare anche al suo gioco, fatto più di evocazioni e rimandi,

di fantasia ed immagini, per arrivare ad una comprensione più

simpatetica del suo pensiero e poterne così cogliere guadagni e

perdite per quanto riguarda la questione che ci interessa.

Il lavoro sarà così articolato: dopo un breve cenno a come le

tematiche dell’uno e del molteplice nell’animo umano si pongono

nelle due correnti principali della nostra cultura, la cultura greca, e

si questa specialmente la filosofia, e la tradizione giudaico-cristiana

(particolarmente presente in Hillman come bersaglio polemico),

vedremo, nel secondo capitolo, come Freud, iniziatore della

psicoanalisi, e Jung, caposcuola della psicologia analitica a cui

Hillman, anche se non con i vincoli di una stretta ortodossia, più

immediatamente si riferisce, affrontano il problema nelle loro

ricerche psicologiche. In seguito, nel terzo capitolo, analizzeremo in

modo più puntuale il pensiero di Hillman, le sue fonti e il suo

sviluppo, per concludere, nell’ultimo capitolo, interrogando l’autore

americano sul punto specifico dell’unità e della molteplicità nella

psiche umana al fine di coglierne le prospettive ma anche le

problematiche non risolte del suo pensiero.

Fin da ora possiamo anticipare un’avvertenza di cui occorre tener

conto nell’affrontare il pensiero di questo autore: in lui il punto di

arrivo del pensiero esercita un’attrazione così forte che spesso la via

4
percorsa per arrivarvi pecca di un metodo rigoroso. Non di rado il

pensiero degli autori è semplificato al fine di crearsi alleati o nemici

funzionali allo svolgimento narrativo del mito che il pensiero di

Hillman mette in scena.

Queste pecche metodologiche non rendono però il suo pensiero

meno stimolante ed è proprio perché mossi da esso che ci

accingiamo a trattarne.

5
Cap.1 Lo sfondo del problema

1.1 Unità e molteplicità dell’anima nel pensiero greco

Comunemente con il termine “anima” noi indichiamo un’entità

dotata di una sua sostanzialità indipendente dal corpo e che

custodisce ciò che, nella persona, è il nucleo della sua singolarità,

sia come genere rispetto agli altri (la sua caratteristica tipicamente

umana che dovrebbe distinguerla da tutti gli altri esseri non umani),

sia come individuo a sé stante rispetto agli altri individui dello

stesso genere (la sua personalità irripetibile).

Questa concezione nel pensiero greco arcaico è sostanzialmente

assente e, seppure troviamo il termine “psyché” che, più tardi, sarà

utilizzato per indicare l’anima quale noi la intendiamo, ad esso, negli

scritti greci antichi, è attribuito un significato affatto diverso.

Per capire questa concezione, si deve partire dall’etimologia che, fin

da Platone1, è stata addotta per spiegare il significato del termine e

che ricollega psyché a psychein, soffiare. C’è quindi un

collegamento fra l’anima ed il respiro, collegamento che, come

1“Per rispondere subito, credo che coloro i quali le hanno dato il


nome di anima (psychè) abbiano pensato qualcosa di simile, ossia
che è ciò che, quando è presente nel corpo, è causa per esso del
vivere, dandogli la capacità di respirare e rinfrescandolo
(anapsychon); ma appena si allontana ciò che rinfresca
(anapsychon) , il corpo (soma) vien meno e muore. Per questo, mi
sembra che l'abbiano chiamata anima (psychè)” Cratilo 399D-E (trad.
M.L.Gatti).

6
vedremo, non è esclusivo della cultura greca.

In Omero questa identificazione fra l’anima ed il soffio vitale

dell’uomo è chiaramente espressa:

" Mentre parlava così la morte l'avvolse,

la vita (psyché) volò via dalle membra e scese nell'Ade,

piangendo il suo destino, lasciando la giovinezza e il

vigore"

(Iliade, XVI 855-7)

E il soffio è così chiaramente materializzato che, al momento della

morte, se ne indica anche la via seguita per andarsene dal corpo:

"…ma la vita (psychè) di un uomo, perché torni indietro,

rapir non la puoi e nemmeno afferrare, quando ha passato

la siepe dei denti."

(Iliade, IX 408-9)

Concludendo, possiamo dire che, nel pensiero greco pre-filosofico,

l’anima è identificata con il soffio vitale dell’uomo: tanto dura quella

tanto l’uomo vive; non c’è relazione fra l’anima e l’attività senziente

dell’uomo.

Quando e come questo significato muta in maniera così radicale per

trasformarsi nell’accezione di anima che è poi rimasta nel pensiero

occidentale?

7
Un primo momento di passaggio, ancorché discutibile per quanto

riguarda la profondità della trasformazione del significato, lo

possiamo trovare in Eraclito di cui si cita il seguente detto:

"I confini dell'anima (psychès peirata) non li potrai trovare,

quando pur li cercassi per ogni via, tanto profondo è il suo

logos" (B45)

Questo frammento è testimonianza di una consapevolezza, e cioè

che la realtà dell’anima è qualcosa che l’uomo fatica a comprendere

“tanto è profondo il suo logos” e questo mal si concilia con la

concezione omerica che identifica anima e soffio vitale. Ancora:

"Occhi e orecchi sono cattivi testimoni per gli uomini che

abbiano anime barbare"(B107)

Qui l’espressione “anime barbare” è associata ad un impedimento

alla comprensione dell’esperienza dei sensi e quindi ad un’attività

che noi definiremmo intellettuale.

"Quando un uomo è ubriaco, è condotto da un fanciullo

imberbe, barcollando, senza capire in che direzione va, dal

momento che ha l'anima umida (hygren psychen)"(B117)

"L'anima asciutta è sapientissima ed eccellente" (aue

8
psychè sophotàte kai arìste) (B118)

Anche questi due frammenti associano a qualità dell’anima, ancora

espresse in maniera molto materialistica, qualità della persona che

non sono riducibili alla semplice vita fisica.

Possiamo dunque dire che Eraclito non sviluppa una dottrina

dell’anima (ed anche lo avesse fatto la frammentarietà dei suoi

scritti che ci sono rimasti non ci permetterebbe di ricostruirla), ma

sicuramente testimonia come già al sorgere della riflessione

filosofica la concezione dell’anima si fosse approfondita ed arricchita

di caratteristiche non riducibili al dato biologico.

E’ con Platone che ci troviamo di fronte ad una riflessione

sull’anima, profonda e complessa, che ci mostra elementi a noi

assai più familiari.

In sintonia con il particolare taglio del nostro lavoro, della complessa

dottrina platonica sull’anima noi vedremo solo la parte riguardante

la dialettica tra unità e molteplicità così come essa è sviluppata nei

suoi dialoghi.

I dialoghi importanti per la formulazione di questa teoria sono, per

l'anima individuale, il Fedone, il Fedro, la Repubblica. Possiamo

dire, ad un primo sguardo, che il maggior elemento di apparente

contrasto presente fra questi dialoghi consiste nel fatto che nel

Fedone l'anima è detta essere di natura semplice ed unitaria,

mentre nel Fedro e nella Repubblica l'anima appare di natura

complessa, composta di più parti distinte tra loro.

9
Nel Fedone, dialogo dedicato principalmente alla dimostrazione

dell’immortalità dell’anima argomentata da un Socrate in procinto di

bere la cicuta, una delle argomentazioni che è utilizzata a questo

scopo è legata proprio alla natura semplice dell’anima che, non

essendo composta di parti distinte, non può essere soggetta alla

dissoluzione. Leggiamo il testo:

“Orbene, ciò che è stato composto o che ha una struttura

composta, non conviene che sia passibile di questo, ossia

di essere soggetto a decomposizione, in quello stesso

modo in cui è stato composto? E, se esiste qualcosa che

non sia composto, non conviene ad esso, più che a

qualsiasi altro, il non essere soggetto a questo?”2

e dopo aver dimostrato come all’anima, affine al mondo divino

dell’intelligibile più che a quello materiale del sensibile, competa la

stessa semplicità delle Idee, conclude:

“E ora osserva, o Cebete, se da tutte le cose che abbiamo

dette non consegua che l’anima sia in sommo grado simile

a ciò che è divino, immortale, intelligibile, uniforme,

indissolubile, sempre identico a se medesimo, mentre il

corpo è in sommo grado simile a ciò che è umano,

mortale, multiforme, inintelligibile, dissolubile e mai

2 Fedone 78c (trad. G.Reale).

10
identico a se stesso”3

Al Fedone, dove la semplicità dell’anima faceva da sostegno alla

dimostrazione della sua immortalità, sembrano doversi contrapporre

il Fedro e la Repubblica dove l’anima viene descritta come un

qualcosa che è differenziato al suo interno.

Nel Fedro, la metafora del carro, dove un auriga cerca di controllare

due cavalli che spesso tirano in direzioni fra loro opposte, manifesta

un’elementare esperienza della vita psichica e cioè il conflitto che

avvertiamo in noi fra impulsi opposti, segno di una differenza fra

principi diversi egualmente presenti ed operanti nel nostro animo.

Questa esperienza della conflittualità interna, che nel Fedro è

utilizzata in chiave immediatamente morale, per riflettere sul

cammino che l’anima deve fare per ritornare a quel mondo delle

Idee in cui essa ha la propria origine, nella Repubblica viene invece

sviluppato prima di tutto in chiave antropologica per ricercare una

comprensione più profonda dell’anima e della sua essenza

articolata.

Il problema viene qui posto, infatti, in modo radicale: il principio con

cui ricerchiamo il sapere, proviamo i moti irascibili dell'animo e

desideriamo i piaceri del corpo è unico? E’ l'anima tutta intera che ci

fa agire in tal senso per ciascuno di questi tipi d'azione, oppure ci

sono nell'uomo tre principi distinti?

3 Fedone 80a-b (trad. G.Reale).

11
“Insomma si tratta di scoprire, se noi con una parte della

nostra anima impariamo, con un’altra ci adiriamo, e con

un’altra ancora desideriamo i piaceri del cibo, del sesso e

gli altri imparentati con questi; oppure se ciascuna di tali

azioni, quando vi siamo attratti la compiamo col concorso

di tutta l’anima”4

L'argomento svolto da Platone mostra che nell'uomo vi sono più

principi; ciò è suggerito dall'esperienza, già vista nel Fedro, degli

impulsi fra loro opposti che si agitano in noi. Ora, poiché uno stesso

soggetto d’azione non può volere e non volere, nello stesso tempo,

il medesimo oggetto, si dovrà ammettere che esistono nell'anima

due principi diversi: quello che desidera e quello che impedisce:

“Allora, se c’è qualcosa che trattiene quest’anima

assetata, vuol dire che in essa si trova una certa facoltà

diversa da quella che suscita la sete e la spinge a bere

come un animale; e questo perché, come abbiamo già

detto, un medesimo essere non potrebbe fare con la

stessa parte di sé, nello stesso tempo e rispetto al

medesimo oggetto azioni contrarie”5

Esiste poi un terzo principio, quello dell'animo irascibile, il principio

di quel moto che chiamiamo "collera": ci arrabbiamo, per esempio,


4 Repubblica 436a-b (trad. R.Radice).
5 Repubblica 439b (trad. R.Radice).

12
quando pensiamo di aver subito un’ingiustizia ma anche quando

cediamo a qualche desiderio eccessivo può capitare che ci facciamo

prendere dalla collera verso noi stessi per aver ceduto (qui Socrate

cita il caso di Leonzio che cede al desiderio di guardare i cadaveri di

alcune persone condannate a morte e poi si adira con se stesso per

avervi ceduto6). Secondo Platone questo terzo principio, quando

l'anima è in conflitto con se stessa, va in aiuto della ragione a cui

egli pensa sia più vicina, contrariamente all’opinione a cui è data

voce per bocca di Glaucone che invece la vede come più affine a

quella desiderativa.

Su questo punto la dottrina platonica non è però univoca in quanto,

nel Timeo, all’anima irascibile è data una sede corporea, e

precisamente nel petto, dove essa ha una funzione di limitazione

degli appetiti, che sono invece collocati nel ventre, e per questo

essa è collocata più vicino alla testa, sede dell’anima razionale7.

En passant, possiamo registrare qui un altro dato che ci tornerà utile

nel proseguo della nostra ricerca. Là dove Platone assegna all’anima

appetitiva ed all’irascibile un luogo nel corpo, la stessa operazione

la compie anche nei confronti dell’immaginazione, da lui collocata

nel fegato:

"Ma sapendo che questa parte dell’anima non avrebbe

compreso la ragione, e che, se anche, in certo senso, ne

avesse avuto qualche sensazione, non sarebbe proprio


6 Repubblica 440a (trad. R.Radice).
7 Timeo 69c-70a (trad. G.Reale).

13
della sua natura curarsi delle ragioni, e che di notte e

durante il giorno sarebbe stata allettata soprattutto da

immagini e da parvenze, un dio, fatto un progetto contro

di questo, compose la figura del fegato e la collocò nella

sua dimora. E fece in modo che fosse denso e lucido e

dolce, e avesse anche amarezza, affinché la potenza dei

pensieri che proviene dall’intelligenza riflettendosi in esso

come in uno specchio che riceve le forme e fa vedere le

immagini, facesse paura alla parte concupiscibile

dell’anima"8

Anche qui, come per l’irascibile, l’immaginazione è al servizio della

lotta dell’anima razionale per tenere alla briglia le facoltà appetitive,

tentativo che, collegando l’immaginazione soprattutto ai sogni con

cui gli déi comunicano ed ammoniscono gli esseri umani, la vede

come una specie di ammonimento permanente contro il desiderio

non regolato dall’intelligenza.

Per tornare al nostro discorso su unità e molteplicità dell’animo

umano, sembrerebbe qui che la tripartizione dell’anima sia piuttosto

una bipartizione, con una sottodivisione interna alla parte priva di

ragione. Le due parti inferiori dell'anima, in effetti, sono corporee e

identificabili con organi fisici, il che sembrerebbe creare una cesura

fra queste e l’anima razionale. Il fatto però, che, anche in questa

sede, si riaffermi l’alleanza tra animosità e razionalità, crea una

8 Timeo 71a-b (trad.G.Reale).

14
certa indeterminatezza su dove esattamente la linea di confine

debba passare. Forse è per questo che Platone, alla fine della

Repubblica, dopo aver ribadito che l'immortalità dell'anima

praticamente costringe a pensarla come qualcosa di semplice,

afferma che la vera natura dell'anima sarà visibile solo a

prescindere dal contatto con il corpo:

“Dunque, ad ammettere l’immortalità dell’anima ci

costringe l’attuale discorso ed anche altri argomenti. Ma

per sapere quale sia in verità non si deve esaminare, come

ora facciamo, quando è contaminata dalla sua comunione

col corpo e da tanti altri vizi, ma quando sia

completamente purificata”9

Un simile discorso, declinato però su un registro più morale che

antropologico, lo troviamo anche nel Gorgia il cui mito escatologico,

che chiude la lunga discussione su cosa sia veramente bene per

l’uomo fra Socrate da una parte e Gorgia, Polo e Callicle, personaggi

che rappresentano le varie declinazioni della sofistica, dall’altra,

afferma che l’anima, nel suo essere buona o cattiva, possa essere

giudicata solo quando essa sia stata denudata da tutto e

primariamente dal corpo, e che il giudizio possa essere emesso solo

da un’anima a sua volta denudata:

9 Repubblica 611b-c (trad. R.Radice).

15
“Inoltre dovranno essere giudicati nudi, senza tutti questi rivestimenti:

bisogna che vengano giudicati dopo la morte. E anche il giudice dovrà

essere nudo e morto e l’anima stessa del giudice dovrà contemplare

direttamente l’anima stessa del giudicato”10

Questo sembra offrire un modo di armonizzare la concezione del

Fedone di un'anima semplice, incomposta e che proprio su questi

attributi fonda la sua immortalità, e la concezione della Repubblica

di un'anima composita. L'anima è un'entità composita fino a quando

è legata al corpo, ma una parte di essa, quella razionale, che non

perisce con esso, può essere conosciuta in modo a sé stante nella

sua semplicità e continua a vivere anche dopo la morte

contemplando il mondo delle Idee in cui essa stessa affonda le sue

radici. Tutti i moti più tipici della vita psichica che sperimentiamo in

questa vita sono invece parte dell’attività alle due parti inferiori e

avranno fine con la morte dell'uomo ed il dissolvimento dell’unità di

anima e corpo. Va comunque notato che anche queste parti

inferiori, legate al corpo, sono dette 'anime'. E' chiara a Platone

l'idea che l'anima costituisca un'entità, allo stesso tempo unitaria e

internamente differenziata che coordina una molteplicità di atti

diversi anche se questa organicità ha, per lui, una precisa gerarchia

di perfezione e quindi di dignità, manifestata sia dalla simbologia

corporea del Timeo che dall’immagine dell’auriga e dei due cavalli

del Fedro.

10 Gorgia 523e (trad. G.Reale).

16
Ed è, per la continuazione del nostro discorso, questa idea di

organicità gerarchica e quella di una pratica di vita che metta

sempre più in evidenza la differente dignità di queste parti

gerarchicamente ordinate, esaltando la più perfetta a scapito delle

altre, che risulterà particolarmente rilevante.

Vediamo ora come affronta questa dialettica fra unità e molteplicità

dell’animo umano Aristotele.

Possiamo dire fin da ora che l’idea di un’organicità gerarchica

dell’anima è ereditata dallo Stagirita ma ciò che cambia

radicalmente è l’approccio attraverso cui si arriva a questo. Mentre

in Platone, infatti, la via percorsa per esplorare lo spirito umano era

discendente, psicologica ed antropomorfica, partendo

immediatamente dai fenomeni più tipici della vita umana quali la

conoscenza e il conflitto tra desideri e valori morali, Aristotele fa

della sua trattazione in materia, che ci è stata trasmessa nel suo

trattato Sull’anima uno studio che, adottando un metodo

ascendente che parte dalle manifestazioni più elementari della vita

biologica per arrivare solo alla fine alle manifestazioni più

complesse della soggettività, è più di tipo biologico che non

psicologico. Ed anzi all’inizio della sua trattazione egli critica il

metodo di coloro che, indagando sull’anima, si limitano a

considerarne la realizzazione che ritroviamo nell’uomo:

“Infatti quelli che oggi discutono e fanno ricerche

sull’anima sembrano prendere in considerazione la sola

17
anima umana. Si deve invece far attenzione a che non ci

sfugga se ci sia un’unica definizione di anima, com’è unica

la definizione di animale, o se sia diversa per ciascuna

anima”11

E’ all’interno di questo percorso che Aristotele si ritrova, dopo

appunto aver definito l’anima, in base all’analisi dei fenomeni

biologici più elementari, come “la forma di un corpo naturale che ha

la vita in potenza”12, ad affrontare il problema della possibile

molteplicità di questo principio a partire dalla molteplicità delle

funzioni che esso svolge:

“Per ora ci si limiti ad affermare quanto segue: l’anima è il

principio delle facoltà menzionate ed è definita da esse,

ovvero dalla facoltà nutritiva, sensitiva, razionale e dal

movimento. Ma ciascuno di questi principi è un’anima o

una parte dell’anima? E se è una parte, è separabile

soltanto logicamente o d anche spazialmente?”13

La risposta che Aristotele dà a questa domanda rivela come agisca

in lui l’idea di una differenza ontologica fra la razionalità e le altre

facoltà di cui l’anima è responsabile, differenza che è la radice della

distinzione di valore e di dignità che è riconosciuta a questa facoltà

11 De anima, 402b, (trad. G.Movia).


12 De anima, 412a, (trad. G.Movia).
13 De anima, 413b, (trad. G.Movia).

18
a confronto con tutte le altre:

"Riguardo poi all’intelletto e alla facoltà teoretica nulla è

ancora chiaro, ma sembra che sia un genere diverso di

anima, e che esso solo possa essere separato (dal corpo

ndr), come l’eterno dal corruttibile"14

E’ interessante, nell’ottica del nostro lavoro, come una facoltà che,

nella nostra concezione antropologica, attribuiamo specificamente

all’uomo quale l’immaginazione, sia da Aristotele assegnata ad ogni

organismo vivente che sia dotato di sensibilità e quindi sia, come

questa, vista come molteplice in potenza e quindi, in linea di

principio divisibile, se il corpo è a sua volta diviso in segmenti capaci

di vivere separatamente:

"Infatti come a proposito delle piante si nota che alcune

continuano a vivere anche se vengono divise e le loro parti

vengono separate le une dalle altre (e ciò perché l’anima

che si trova in esse è unica in atto in ciascuna pianta, ma

molteplice in potenza), la stessa cosa vediamo che accade

anche per le altre specie di anima, ad esempio negli insetti

quando vengono sezionati. E infatti ciascun segmento ha

la sensazione e il movimento locale, e se ha la sensazione

possiede pure l’immaginazione e la tendenza, poiché

14 De anima, 413b, (trad. G.Movia).

19
dov’è la sensazione ci sono pure il dolore e il piacere, e

dove si trovano questi necessariamente c’è anche il

desiderio"15

Ancora, per noi è interessante notare come, confrontando i due

brani sopra riportati, si colga come l’immaginazione, vista dalla

parte dell’anima sensitiva e quindi del corpo, sia ritenuta altra

rispetto alla razionalità e se questa è separabile dal corpo,

contrariamente agli altri tipi di anima che Aristotele aveva prima

dimostrato essere inseparabili da esso e con esso corruttibili16 è

però, nello stesso soggetto, unica sia in atto che in potenza mentre

l’immaginazione, come facoltà sensitiva e non intellettiva, è, nel

medesimo corpo, unica in atto ma molteplice in potenza.

1.2 Unità e molteplicità dell’uomo nella visione

biblica e cristiana

Mi sembra importante a questo punto esplorare anche il territorio

della Bibbia riguardo al punto oggetto della nostra ricerca per due

ragioni: la prima è che, unitamente alla sorgente che da Atene

scaturisce, quella che invece proviene dalla sorgente di

Gerusalemme ha egualmente contribuito a dare forma alla visione

del mondo e dell’uomo che è la nostra e poi perché Hillman, come

15 De anima, 413b, (trad. G.Movia).


16 De anima, 413a, (trad. G.Movia).

20
vedremo, ha fra gli obiettivi preferiti della sua critica la visione

psicologica da lui definita, con termine teologico, monoteistica che

lui attribuisce alla tradizione cristiana, dominante, anche nelle sue

versioni secolarizzate, in Occidente; diventa quindi importante dare,

in modo sintetico, conto anche di questa visione per avere pochi ma

necessari punti di riferimento.

Il primo e fondamentale di questi punti è che la cultura semitica,

incarnata nelle Scritture dell’Antico e Nuovo Testamento, si muove

in una direzione ben diversa da quella che abbiamo visto sopra a

proposito dei Greci; essa rimane ad uno stadio pre-filosofico,

disinteressandosi alle domande sull’essenza dell’uomo e

concentrandosi invece sull’aspetto della vita umana che, in modo

più immediato ed evidente, si manifesta nelle sue relazioni

orizzontali (mondo e le altre persone) e verticali (Dio). Invano

dunque cercheremmo le analisi raffinate di un Platone o di un

Aristotele; possiamo invece trovare una concezione unitaria

dell’essere umano che si differenzia in diversi aspetti, i quali, però,

mai, se non in rari casi influenzati dal contatto con la cultura greca,

sottintendono una reale differenziazione ontologica.

Questi aspetti sono essenzialmente tre, esemplificati dai tre

vocaboli principali che la Bibbia usa per parlare dell’uomo:

basar/sarx, nefes/psyché, ruah/pneuma.

Questi lemmi, come già detto, non vanno intesi come designazioni

di componenti della persona umana bensì come aspetti sotto i quali

essa può essere considerata senza che questo indichi una reale

21
composizione interna.

Con il termine basar, tradotto dai LXX per lo più con sarx si indica

l’uomo inteso come “carne”, quindi come datità biologica, sempre

però inteso come un tutto e non solo nel senso parziale che noi

diamo al termine “corpo”17. Con questo termine si identifica anche il

genere umano nel suo complesso (cfr. l’espressione “ogni carne”

per significare tutti gli essere umani). Una caratteristica di questo

termine è quella di portare con sé anche il senso di fragilità,

caducità tipico della condizione umana18.

Il termine nefes tradotto con psyché indica la vitalità dell’uomo,

affine al senso di anima come lo abbiamo trovato in Omero ma ben

distante da quello che invece caratterizza l’uso platonico del

termine.

"Allora il Signore Dio modellò l’uomo con la polvere della

terra e soffiò nelle sue narici un alito di vita; così l’uomo

divenne un essere vivente"19

La condizione di “essere vivente” (nefes hajjah) accomuna all’uomo

a tutti gli altri esseri che popolano la terra; infatti poco sopra

troviamo, nel primo racconto biblico della creazione, le parole “E

Dio disse: ‘Brulichino le acque d’un brulichio di esseri viventi” dove

17 “O Dio, tu sei il mio Dio (…), a te anela la mia carne” (Salmo 63,2) e qui
chiaramente si intende la totalità dell’essere umano.
18 “Ogni carne è come l’erba e tutta la sua gloria come il fiore del campo (…) secca

l’erba appassisce il fiore” (Isaia 40,6.8).


19 Genesi 2,7.

22
quest’ultima espressione traduce ancora nefes hajjah.

Con questo non si deve pensare che l’uso di nefes non abbia,

quando si riferisce all’uomo, delle differenze che ne marchino la

maggior complessità rispetto agli animali. Il termine, infatti, serve

anche ad indicare il desiderio20, la passione, l’amore21 anche se

questi significati non sono dagli autori biblici sviluppati fino a farne

un’antropologia esplicita.

Il terzo termine, ruah tradotto nei LXX con pneuma, che può

tradurre anche “vento”, è usato, spesso in abbinamento con nefes,

per indicare il respiro umano ma è il vocabolo di uso esclusivo

quando si tratta di parlare dello spirito di Dio che è visto come la

sorgente ed il custode22 anche dello spirito dell’uomo al punto che

ruah, anche quando designa il soffio umano, non di rado viene usato

con un senso morale e religioso23.

Possiamo dunque affermare che il termine ruah indica l’uomo nelle

sue manifestazioni più elevate secondo la mentalità ebraica e cioè

quelle morali e, soprattutto, religiose.

Il destino ultraterreno degli esseri umani è espresso dal termine refa

che potremmo assimilare alle ombre omeriche, sono “residui” della

persona umana, che non hanno più una vita autenticamente umana.

Non siamo quindi, a questo stadio dello sviluppo biblico, in presenza

20 “Di te ha sete l’anima (nefes) mia” (Salmo 63,2).


21 “Dimmi o amore dell’anima (nefes) mia dove vai a pascolare il gregge” (Cantico
dei Cantici 1,7).
22 “Lo spirito di Dio mi ha fatto ed il soffio dell’Onnipotente mi ha dato vita” (Giobbe

33,4).
23 cfr. per esempio l’espressione “corto respiro” per impazienza (Proverbi 14,29) e

“lungo respiro” per pazienza (Siracide 7,8).

23
di una dottrina di una vita oltre la morte nei termini in cui la

troviamo, per esempio nel Nuovo Testamento.

Questa visione dell’uomo, unitaria pur nella pluralità delle

prospettive, ha una sola eccezione nell’Antico Testamento, e cioè il

libro della Sapienza, scritto in piena età ellenistica, probabilmente

nell’ambiente del giudaismo alessandrino. In questo libro si

asserisce, sotto l’influenza delle concezioni ellenistiche, una certa

indipendenza dell’anima dal corpo anche se questa indipendenza

non assume mai i toni dell’opposizione fra l’una e l’altro che

troviamo nella filosofia platonica.

Nel Nuovo Testamento c’è una sostanziale continuità, anche se qua

e là si trovano affermazioni dal sapore più ellenistico, con quanto

abbiamo visto a proposito dell’Antico Testamento. E’ più chiaro il

fatto che la morte del corpo visibile non significa la fine della

persona, idea questa che si era fatta strada già nell’Antico

Testamento nei suoi strati più vicini all’epoca neotestamentaria,

anche se l’idea assolutamente dominante sia nell’Antico che nel

Nuovo Testamento di risurrezione dei corpi, di cui, nell’annuncio

cristiano, la resurrezione di Gesù è primizia e causa, non consente,

se ci si attiene strettamente ai testi, di ricavarne un’idea di

un’immortalità dell’anima separata dal corpo, come stadio almeno

transitorio della esistenza24.

In conclusione, possiamo dire che la Bibbia ha dell’uomo una visione


24Ci sono, a onor del vero, pochi testi paolini (p.es. seconda lettera ai Corinzi 5,1-10)
ed un testo evangelico (Matteo 10,28) che potrebbero essere letti in questo senso ma
la tendenza è quella di interpretarli nel quadro della concezione prevalente che dà
assoluta preminenza all’idea di risurrezione.

24
assolutamente unitaria (Hillman direbbe “monoteistica”) e lo

sviluppo teologico successivo in epoca patristica e medioevale si è

dedicato, con maggiore o minor successo, soprattutto a bilanciare

questo aspetto con le concezioni greche che, nel frattempo,

avevano fornito gran parte del vocabolario concettuale della

teologia cristiana, a volte privilegiando le influenze aristoteliche

(soprattutto Alberto Magno e Tommaso d’Aquino), per lo più

preferendo quelle platoniche.

Rispetto all’urgenza escatologica del Nuovo Testamento che

aspettava da un momento all’altro il ritorno di Cristo, e con lui la

risurrezione dei corpi, la lunga attesa del giudizio universale, che

difficilmente sarebbe terminata prima della morte dei singoli fedeli,

faceva prevalere nettamente la considerazione dell’esistenza

dell’anima separata dal corpo rispetto a quella unitaria della Bibbia,

tendenza che si è conservata, almeno nel sentire cristiano comune,

praticamente fino ad oggi.

Le analisi patristiche (soprattutto Agostino) e medioevali delle

facoltà dell’anima altro non facevano che riproporre l’idea di

complessità gerarchicamente organizzata che già abbiamo visto

dove l’anima razionale (a sua volta ulteriormente differenziata, per

creare uno spazio ulteriormente nobilitato alla presenza divina nel

cuore del singolo fedele) era, come l’auriga del Fedro, costretta a

tenere sotto controllo con mezzi naturali e soprannaturali, i livelli

inferiori che, toccati dalle conseguenze del peccato originale,

recalcitrano alle indicazioni dell’intelligenza.

25
Questo aspetto della filosofia cristiana, e cioè la rilettura patristica e

medioevale, della dottrina aristotelica sulle potenze dell’anima, ci

introduce ad un aspetto che può essere rilevante ai fini della

presente ricerca.

Il testo biblico di Genesi 1, nel raccontare la creazione dell’uomo, ai

vv.26-27 riporta le seguenti parole:

"E Dio disse:‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra

somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del

cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i

rettili che strisciano sulla terra’ Dio creò l’uomo a sua

immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina

li creò."

Se stiamo al testo, le interpretazioni più probabili di questa

espressione “immagine e somiglianza” vanno cercate nel ruolo

dell’uomo dell’essere luogotenenente di Dio di fronte alle altre

creature25 e nella costitutiva relazionalità dell’uomo, a somiglianza

di quella divina, che nella differenziazione sessuale26 trova la sua

prima ed esemplare realizzazione.

Non c’è nella Scrittura uno sviluppo di questo aspetto ma esso, a

partire dall’epoca patristica, dette il via a tutta una serie di

25 Gli studiosi di Antico Testamento paragonano l’uomo alle immagini dei re orientali
poste nelle città che erano ritenute essere portatrici di una qualche presenza del re
stesso.
26 Nel testo ebraico è chiaro che l’immagine e la somiglianza sono conferiti all’uomo

inteso come un’unità uomo-donna che si differenzia solo poi nei due generi.

26
speculazioni teologiche ulteriormente stimolate dal dato nuovo del

cristianesimo rispetto all’ebraismo e cioè la divinità di Cristo, Figlio

di Dio e la dottrina, che da qui prende origine, della Trinità.

Se Dio è allo stesso tempo uno e trino, anche la sua immagine

nell’uomo deve riflettere la stessa caratteristica.

E’ in questa constatazione che si radica il discorso che Agostino, nel

suo De Trinitate, fa per ritrovare, con un moto ascendente dall’uomo

a Dio, le tracce che lo conducano ad una migliore comprensione del

mistero trinitario.

Egli comincia a cercare nell'uomo esteriore (De Trinitate, XI)

l'immagine della Trinità, ma deve verificare come essa sia

ritrovabile solo nell'uomo interiore e più precisamente nella mente

dell'uomo. Egli va dunque alla ricerca di queste trinità mentali e fra

le varie che gli sembra di scorgere due sono quelle su cui insiste

maggiormente: mens, notitia, amor in cui però lo spirito (mens)

sembra prendere il sopravvento sulle altre due funzioni notitia e

amor, le quali sono rispetto ad esso accidentali, e l'altra che egli

definisce “evidentior trinitas”, memoria (fondo dello spirito),

intelligentia (conoscenza), voluntas (amore).27 Questa seconda

trinità avendo un duplice oggetto -Dio e l'uomo- si esprime come

memoria, intelligenza e amore di sé28 oppure come memoria,

intelligenza, amore di Dio,29 ed è questo il massimo grado di

somiglianza tra Dio e l'uomo (dato che verrà ripreso da tutta la

27 De Trinitate., XV, 3-5.


28 De Trinitate, X.
29 De Trinitate, XIV-XV.

27
teologia medioevale) in quanto la prima e principale attività divina è

la conoscenza di sé anche se pure questa rimane pur sempre una

“somiglianza dissimile”.30 Ma di quanto fosse limitata questa

possibilità di rintracciare la Trinità all'interno della struttura

psicologica dell'uomo ne era consapevole lo stesso Agostino al

punto che nell'ultimo libro del suo De Trinitate è lui stesso a

dissolvere i fili teologici che aveva nella parte precedente dell'opera

faticosamente intessuto.31

Il più grosso limite da lui riscontrato nella propria elaborazione sta

nel fatto che le tre potenze dell'anima non sono l'anima stessa,

mentre in Dio le Persone sono identiche alla sostanza.32 Oppure (ma

è in fondo la stessa cosa), come dice altrove, le tre funzioni fanno

insieme solo una persona, e non mai le tre ipostasi.33

Credo che questo aspetto sia interessante, in quanto, da un punto di

vista metafisico, la Trinità come crux theologorum (non a caso, fino

a tempi recentissimi, essa ha vissuto un esilio dorato nei manuali di

teologia, lontana da qualunque applicazione concreta sia nelle altre

branche teologiche che nella vita comune dei cristiani) testimonia

un tentativo di mediazione fra molteplicità del reale ed unità

dell’arché ponendo questa dialettica all’interno del principio stesso

nel rapporto fra l’unità della sostanza e la trinità delle persone

divine.
30 De Trinitate, XV, 14,24-16,26; A. TRAPÉ, Patrologia, vol.III, Torino 1978, p.
405.
31 De Trinitate. XV,7.

32 Ep. 169 ad Evodium, 2, 6 : “tria haec: memoria, intelligentia, voluntas animae

insunt, non eadem tria est anima, illa vera Trinitas non inest, sed ipsa Deus est”.
33 De Trin, XV, 7, 12.

28
Il riflesso psicologico di questa tensione è la possibilità aperta di una

pluralità all’interno dell’uomo anche se le riletture occidentali di

questo tema teologico, influenzate dal fatto che la teologia trinitaria

latina ha sempre dato la preferenza all’unità della sostanza più che

alla trinità delle ipostasi, di fatto non sono riuscite ad andare al di là

della differenziazione gerarchicamente ordinata che vedeva nella

mens/intelligentia l’apex animae e la più autentica essenza

dell’animo umano34.

A questo punto, giunti alla fine di questa velocissima trattazione,

abbiamo, spero, disegnato lo sfondo su cui si svolgerà l’azione che

abbiamo in mente di descrivere.

Alla fine dell’Ottocento, a partire da una psicologia che già da

qualche decennio si è distaccata dalla filosofia per darsi una veste

scientifica ed in un clima dove, dopo le vertigini razionalistiche, sia

di segno idealistico che positivistico, il dominio incontrastato

dell’intelligenza nell’uomo è messo in crisi da Schopenauer prima e

da Nietzsche poi, si affronta il tema dell’unità e della molteplicità

presenti nell’animo umano con un approccio nuovo che parte dalle

manifestazioni patologiche del comportamento per risalire,

attraverso di queste, alle strutture più nascoste di una anima-

psyché ormai divenuta psiche, oggetto di una ricerca che si vuole

scientifica.

34Va detto che la tradizione mistica fa eccezione a questa tendenza generale della
teologia occidentale ma ci manca qui lo spazio per approfondirne le peculiarità.

29
Cap.2 “Uno, nessuno e centomila”

2.1 Janet e il problema delle personalità multiple

Come abbiamo detto terminando il primo capitolo, la psicologia di

fine ‘800, rifiutando le sue radici filosofiche e speculative, cerca di

proporsi come scienza positiva e, basandosi su dati oggettivi e sul

metodo sperimentale, cerca di produrre risultati che delle scienze

allora ritenute esemplari per il loro rigore riproducano il grado di

certezza.

Si abbandonano dunque, per quanto riguarda la tematica dell’unità

e della molteplicità dell’anima, le rielaborazioni speculative fatte a

partire dallo schema aristotelico, rimasto a grandi linee

praticamente inalterato, per cercare attraverso esperimenti e

misurazioni ma anche attraverso l’uso di tecniche ipnotiche una

comprensione dell’articolazione della psiche umana che fosse quasi

il corrispettivo psicologico delle descrizioni anatomiche dei libri di

medicina e che permettesse di distaccarsi da quella che Charcot,

iniziatore in Francia degli studi sull’isteria, chiamava “petite

psychologie à l’eau de rose”.

Ma, accanto alle misurazioni ed agli esperimenti condotti su soggetti

il cui funzionamento psichico poteva essere definito normale, dati

assai più interessanti potevano essere raccolti a partire dalle

30
esperienze condotte su soggetti portatori di patologie.

I casi di isteria e di personalità multiple si moltiplicavano ed

attiravano l’interesse di scienziati, pronti a studiarli con i metodi più

diversi, come anche quello di una certa opinione pubblica attirata da

quel che di morboso che sempre ci spinge a guardare ciò che è

difforme dalla normalità sociale, quasi come un rito che ci rassicuri

invece sulla nostra conformità ad essa. Allo stesso tempo, in un

periodo in cui l’ingenua fede nel progresso ereditata dal Positivismo

cominciava, almeno per gli osservatori più avvertiti, a tramontare

questi casi sembravano essere i segni premonitori del declino e

della caduta dell’impero dell’Io unico e monolitico che, nelle sue

varie incarnazioni, dominava incontrastato la scena da Cartesio in

poi.

Questa crisi dell’Io si annunciava già da lungo tempo ed era stata

praticamente contemporanea alla sua costruzione, come in

un’opera di contrappunto, dove, a mano a mano che se ne

gettavano le fondamenta, si creavano sotto di esse quei vuoti che

avrebbero potuto e di fatto ne provocarono il crollo35.

Come avvenne tutto ciò?

Nel tentativo, come abbiamo già detto, di costruire una psicologia

che fosse all’altezza delle altre scienze medico-biologiche, si adottò

anche per la psiche umana il modello cellulare che, a partire dalla

scoperta della cellula come componente fondamentale di ogni

organismo biologico da parte di Schleiden per i vegetali e di


35Per un’acuta analisi di questo processo cfr. R.BODEI, Destini personali, Milano
2002, p.36-52.

31
Schwann per gli animali, era allora un paradigma alla moda per

leggere ogni tipo di fenomeno ad ogni livello di complessità. Si

cominciò a pensare dunque all’animo umano come un aggregato di

più centri di coscienza indipendenti fra loro36 e di cui l’Io manifesto

costituiva una specie di monarca sempre in pericolo di essere

rovesciato dai suoi sudditi quando le condizioni psichiche

trapassavano nella patologia.

Questa teoria si diffuse soprattutto in Francia ad opera di Taine,

Ribot, Binet e Janet e poi, attraverso l’influenza da essi esercitata si

diffuse, come vedremo anche nelle teorie dell’allora nascente

psicoanalisi attraverso i contatti avuti, come vedremo, da Freud e

Jung con questo ambiente.

Per Taine, che parte da una posizione sensista à la Condillac con la

fondamentale differenza che le percezioni non riflettono la realtà

come tale, le sensazioni producono nell’essere umano un polypiers

d’images che sono, come le cellule per il corpo, le componenti base

della psiche e la coscienza è solo il palcoscenico su cui queste

immagini vengono proiettate. Un’immagine, abbandonata a se

stessa, può facilmente divenire allucinazione e delirio e solo il

contrappeso dello scorrere delle altre immagini, diretto da un Io

ridotto a vigile del traffico, impedisce che ciò avvenga.

Spendiamo ora alcune parole sulla concezione che della personalità

multipla (o disturbo dissociativo della personalità, come viene

36Va ricordato che fino agli inizi del ‘900 si pensavano le cellule come una sorta di
individui autonomi riuniti in una sorta di federazione all’interno di un organismo.

32
chiamato nella terminologia attuale) ha Pierre Janet37 che scegliamo

in quanto sia Freud che Jung hanno avuto con lui contatti

abbastanza rilevanti.

Partendo dagli studi sull’isteria, allora assai in voga, Janet propone

per questo disturbo un’eziologia psichica invece che organica, come

invece molti suoi contemporanei pensavano.

La personalità normale è, per lui, definibile come sintesi ed

integrazione dei diversi contenuti di coscienza.

"Quando si associano un certo numero di fenomeni

psicologici, generalmente avviene nella mente un fatto

nuovo ed importantissimo: la loro unità, constata e capita,

fa nascere un particolare giudizio che si chiama idea

dell’io. Si tratta, diciamo, di un giudizio e non di

un’associazione di idee: quest’ultima riproduce i fenomeni

gli uni di seguito agli altri, li giustappone automaticamente

e, con ciò, ci dà occasione di constatarne l’unità. Di

giudicarne la somiglianza; ma non costituisce in sé e per

sé un tale rapporto di unità e somiglianza. Il giudizio, al

contrario, sintetizza i fatti diversi, ne constata l’unità, e, a

proposito dei diversi fenomeni psicologici risvegliati dalle

impressioni sensoriali o dal gioco automatico

37Pierre Janet (1859-1947) studiò dapprima filosofia e poi medicina. Fu allievo di


Ribot e succedette a Charcot come direttore del laboratorio psicologico della
Salpetriere. Fu docente di psicologia sperimentale alla Sorbo ed al Collège de France.
Nel 1904 fondò il “Journal de psychologie normale et pathologique”, una delle più
autorevoli riviste francesi di psicologia.

33
dell’associazione, forma un’idea nuova: quella di

personalità."38

L’Io, la personalità non sono una struttura spontanea ma il frutto di

un giudizio, qualcosa che impegna le energie psichiche e che

dunque non può, al contrario della mera associazione di idee, essere

considerato spontaneo.

Per questo, quando per qualche ragione questa funzione si

indebolisce, le immagini restano isolate senza che ci sia nessun tipo

di struttura astratta che le aggreghi e questo porta all’emergere di

comportamenti che sottratti al controllo della coscienza “normale”,

in qualche caso, danno l’impressione di una vera e propria

personalità alternativa che si manifesta nei casi di minor gravità nei

momenti di allentamento della coscienza, come nel sogno o in

alcuni fenomeni indotti quali l’ipnosi. Nei casi più gravi produce vere

e proprie dissociazioni della personalità che, nel passato, sono

spesso state interpretate come possessioni diaboliche, fenomeni

medianici o altre cose di questo tipo:

"In alcuni individui, per un motivo o per l’altro, la vita

organica, la sensibilità, l’intelligenza si sovraeccitano, si

esaltano, mentre la volontà rimane in uno stato di

debolezza, di mollezza, d’intermittenza. Cosa ci sarà allora

di più naturale, di più semplice, di più facile da concepire


38P.JANET, L’automatismo psicologico, I, VII, trad. parziale in P.JANET, La
passione sonnambulica e altri scritti, Napoli 1996, p.72.

34
di una rottura momentanea e parziale del legame

gerarchico? Il fenomeno che tiene occupati (i tavoli

parlanti) non è altro infatti che tale sospensione più o

meno completa, più o meno prolungata, dell’azione della

volontà sull’organismo, sulla sensibilità, sull’intelligenza

che conservano ogni loro attività, e i vari gradi di tale

disgiunzione, come le diverse forme che essa riveste, si

susseguono molto naturalmente le une con le altre"39

Interessante per noi è notare come Janet chiami i dati elementari

della psiche, quelli di cui l’Io dovrebbe produrre la sintesi, sempre

“images”. Per esempio:

"Per capire la memoria alternante degli ipnotizzati, siamo

stati portati a supporre che essa sia dovuta a una

modificazione periodica (spontanea o provocata) nello

stato della sensibilità e, conseguentemente, nella natura

delle immagini che servono a formare i fenomeni

psicologici complessi e in particolare il linguaggio. Tale

modificazione avviene soprattutto in pazienti più o meno

anestesici allo stato normale e consiste allora nel ripristino

momentaneo di una certa categoria di immagini di cui i

pazienti hanno generalmente perso possesso. Questa

modificazione può essere più o meno completa e, in alcuni


39P.JANET, L’automatismo psicologico, I, VII, trad. parziale in P.JANET, La
passione sonnambulica e altri scritti, Napoli 1996, p.170.

35
pazienti, che sono distratti più che realmente anestesici,

consistere semplicemente nel predominio momentaneo di

certe immagini generalmente trascurate.40"

I “residui” psicologici delle percezioni sono dunque immagini e

questi gruppi di immagini, se non controllati dall’Io, possono

acquisire un’autonomia che si manifesta all’esterno attraverso

comportanti anormali di vario genere.

En passant, possiamo dire che questa spiegazione dell’isteria e la

sua terapia, mediante la rievocazione e la catarsi degli eventi

traumatici che hanno fatto perdere all’Io la presa su questi gruppi di

immagini, furono formulate da Janet ben avanti Freud. Questa

circostanza ed il fatto che Janet rivendicava la precedenza per

quanto riguardava la formulazione dell’idea di inconscio rimase

sempre come un’ombra nei rapporti fra lui e Freud.41.

L’accenno ai rapporti, formalmente deferenti, ma, in verità, un po’

freddi che nei confronti di Janet intratteneva Freud, ci consente di

cominciare a parlare dell’approccio che quest’ultimo ebbe nei

confronti del problema della personalità multipla che in parte volle

porsi proprio come consapevole differenziazione rispetto alle

concezioni janetiane.

40 P.JANET, L’automatismo psicologico, I, VII, trad. parziale in P.JANET, La


passione sonnambulica e altri scritti, Napoli 1996, p.65-66.
41 cfr. per questa diatriba H.ELLENBERGER, La scoperta dell’inconscio, Torino

1976.

36
2.2 Freud e l’eziologia delle neuropsicosi da difesa

Nell’articolo “Le neuropsicosi di difesa”42 pubblicato nel 1894 Freud

procede ad un tentativo di spiegazione delle forme isteriche a

partire da una critica alle teorie di Janet sull’isteria, come dovuta

alla debolezza della capacità psichica di sintesi delle immagini

mentali, per proporre un’eziologia alternativa che si basa sull’idea di

rimozione.

All’inizio dell’articolo egli afferma che, dopo Janet e Breuer43 e i loro

studi in merito, non si può negare come all’isteria si accompagni

una dissociazione della coscienza ma sulle sue cause e soprattutto

sul peso che essa abbia in queste patologie egli si dichiara distante

dalle idee janetiane.

Mentre il “médecin philosophe” parigino vede in questa

dissociazione un carattere primario delle patologie isteriche, Freud

vi vede solo un fenomeno di tipo secondario e derivato che non

intacca davvero l’unità dell’Io che è, esso stesso, l’autore dell’atto

attraverso il quale si compie la dissociazione della coscienza:

"Ho potuto dimostrare più volte che nella prima di queste

forme la dissociazione del contenuto della coscienza è il

42S.FREUD, Le neuropsicosi di difesa, in Opere vol.II, Torino 1968.


43Joseph Breuer (1842-1925), psichiatra viennese, si dette alla terapia delle nevrosi
utilizzando l’ipnosi prima ed il metodo catartico poi. Dal 1880 al 1895 collaborò con
Freud col quale pubblico gli Studi sull’isteria (1895) ma poi, dissentendo da lui sul
peso dato alla sessualità nell’eziologia dei fenomeni isterici, si distaccò in modo
graduale ma, alla fine, totale dalle teorie dell’iniziatore della psicoanalisi.

37
risultato di un atto di volontà compiuto dal paziente; il che

significa che essa ha inizio con uno sforzo di volontà, la cui

ragione può essere specificata. Con ciò naturalmente non

voglio dire che il paziente intenda causare una

dissociazione della propria coscienza. Le sue intenzioni

sono differenti, ma invece di raggiungere lo scopo,

producono questa dissociazione di coscienza"44

Il significato teorico di questa affermazione è chiaro: non c’è, come

per la scuola francese, un substrato molteplice di immagini più

arcaiche in cui l’Io affonda le proprie radici e che cerca di tenere, in

qualche modo, a bada; un substrato che, in particolari condizioni di

debolezza dell’Io, siano esse congenite o sopraggiunte in seguito ad

eventi traumatici, rialza la testa e mette in discussione l’egemonia

di esso. Per Freud, è invece l’Io che continua a controllare la

situazione, tentando di cancellare quelle idee che per le loro

caratteristiche, sono incompatibili con la coscienza, solo che questi

suoi tentativi sortiscono effetti inaspettati e sgradevoli che si

manifestano, appunto, nei fenomeni isterici.

"Questi pazienti, come ho potuto dedurre dall’analisi,

avevano goduto buona salute mentale fino al momento in

era accaduto un episodio di incompatibilità nella loro vita

ideazionale – vale a dire fino a quando il loro Io si era

44 S.FREUD, Le neuropsicosi di difesa, in Opere vol.II, Torino 1968, p.121-122.

38
trovato a dover far fronte ad un’esperienza, una idea o un

sentimento che gli causava un affetto talmente penoso

che il soggetto aveva deciso di dimenticarlo poiché non

aveva alcuna fiducia nella propria capacità a risolvere la

contraddizione tra questa idea ed il proprio Io per mezzo di

un’attività-di-pensiero (…) Semplicemente l’Io non può

portare a termine il compito che porta dallo sforzo di

volontà del paziente all’inizio del sintomo nevrotico, si è

assegnato, e che consiste nel trattare l’idea incompatibile

come non arrivée"45

E’ quindi l’Io che, nella concezione di Freud della dissociazione della

coscienza, resta incontrastato protagonista, ancorché un poco

sfiduciato di sé e quindi maldestro nei propri tentativi. Come, allora,

nella teoria del padre della psicoanalisi, viene affrontato il rapporto

tra unità e molteplicità della psiche?

Mette conto qui affrontare le varie topiche della psiche proposte da

Freud che sono il luogo dove questa problematica viene affrontata.

Nello sviluppo del suo pensiero, egli propone due distinte topiche: la

prima che articola la psiche secondo i gradi di coscienza e quindi in

Inconscio, Preconscio e Conscio; la seconda che la articola secondo

le funzioni svolte in una sorta di dramma psicologico di cui esse

sono i personaggi: Io, Es e Super-Io.

I predecessori di queste suddivisioni sono senz’altro i tentativi di

45 S.FREUD, Le neuropsicosi di difesa in Opere complete vol.II, Torino 1968, p.

39
localizzazione cerebrali delle varie funzioni di cui Freud era a

conoscenza in quanto medico e fisiologo, particolarmente di quella

dovuta a Meynert la cui localizzazione della coscienza nella

corteccia cerebrale e degli istinti nelle regioni sub-corticali lascerà

traccia, almeno come immagine evocativa, anche nelle teorie

freudiane.

Per arrivare alla individuazione delle varie parti della psiche, Freud

parte, come abbiamo già visto in Platone, da una riflessione

sull’esperienza psicologica; la differenza fondamentale è che egli

utilizza non l’esperienza psicologica normale bensì la patologia

secondo l’assioma che il funzionamento psicologico normale è

opaco all’indagine e solo le situazioni patologiche rivelano i

meccanismi e le strutture della psiche.

Come abbiamo visto sopra, parlando dei disturbi isterici, centrale,

nell’eziologia freudiana, è l’idea di rimozione: qualcosa che provoca

alla coscienza un affetto penoso e insopportabile viene tolto dal

campo della consapevolezza e l’energia affettiva investita su

quell’idea viene spostata su qualcos’altro. Ma nonostante questo

lavoro, le rappresentazioni rimosse hanno un luogo in cui

permangono, per quanto questo luogo sia al di là dei limiti della

coscienza. E’ questa constatazione che permette a Freud di

sistematizzare l’intuizione, avuta da Leibniz già nel ‘70046, che

l’attività di pensiero non coincidesse completamente con il campo

della consapevolezza.

46 G.LEIBNIZ, Nuovi saggi sull’intelletto umano, Bari 1963.

40
Freud riconosce questo debito filosofico e fa di questa intuizione un

concetto chiave della sua teoria. A mediare fra questa bipolarità di

coscienza ed inconscio, colloca una zona intermedia, il Pre-Conscio

che si differenzia per l’assenza di resistenza a che i suoi contenuti

vengano alla coscienza.

Le caratteristiche di Conscio e Inconscio si definiscono quasi per

contrapposizione: temporale è il funzionamento del Conscio,

intemporale quello dell’Inconscio, quest’ultimo è regolato

esclusivamente dal principio del piacere mentre è il principio di

realtà che domina il funzionamento della parte consapevole della

psiche; alla trasparenza ed alla linearità della logica del conscio fa

da contraltare l’impermeabilità dell’Inconscio anche semplicemente

al principio di non contraddizione.

Questa metafora delle “province psichiche” ha, nella teorizzazione

freudiana varie funzioni: la prima è quella di differenziare i contenuti

delle varie parti della psiche, ancora essa serve, attraverso il

sistema delle “censure”, a tracciare i confini fra le varie zone della

psiche; infine, attraverso questa organizzazione spaziale si

differenziano anche le varie leggi che regolano il funzionamento

delle varie parti47.

Attraverso questa metafora spaziale, Freud riesce ad analizzare,

quasi come in un laboratorio di chimica, la “sostanza” della psiche,

ne rende comprensibile il funzionamento scomponendone le parti e

rispettando così il significato del termine “psicoanalisi” con cui

P.RICOEUR, voce Psicoanalisi-Teoria psicoanalitica in Enciclopedia del


47

Novecento, Roma 1981, p725-726.

41
aveva battezzato la metodologia terapeutica da lui inventata.

Quando, in una fase successiva del suo pensiero, Freud si dedica

maggiormente alla teorizzazione meta-psicologica ed allarga

l’ampiezza della sua visione fino ad abbracciare anche i fenomeni

collettivi e culturali, si ha un certo cambiamento delle categorie del

suo pensiero che produce, a partire dagli anni ’20, una seconda

topica psichica.

Se, come abbiamo detto, l’inconscio è un concetto chiave del

pensiero psicoanalitico di Freud, è proprio da un’evoluzione di

questo concetto che questa seconda fase prende origine. Il termine

“inconscio” non è qui più utilizzato come un sostantivo che designa

uno dei “luoghi” della psiche bensì come aggettivo che può

qualificare il funzionamento di una parte o dell’altra di essa; si arriva

così all’affermazione sorprendente che anche l’Io (ed il Super-io di

cui non abbiamo ancora parlato) può essere inconscio:

"Se dunque si verifica che nell’analisi la resistenza non

diviene cosciente al paziente, ciò significa o che il Super-io

e l’Io in situazioni molto importanti possono operare

inconsciamente, oppure – ciò che sarebbe ancora più

rilevante – l’Io e il Super-io stessi sono in qualche loro

parte inconsci."48

Questa differenza nel concetto di inconscio produce un’articolazione

48 S.FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, Torino 1969, p.475-476.

42
della psiche che ha origini e finalità diverse. La prima aveva come

linea di differenziazione delle varie parti l’accesso, facile, possibile o

impossibile ai loro contenuti, la seconda si sviluppa sull’asse della

persona umana (l’Io) ed il suo rapporto con le istanze impersonali

(l’Es) e sovra-personali (il Super-io). Siamo dunque nell’ambito di

una teoria della persona umana che viene definita in termini di forza

o debolezza dell’Io e quindi dei suoi rapporti di dipendenza con

queste altre istanze che lo fondano come una sorta di “materia

prima” (l’Io per Freud nasce come differenziazione dell’Es a partire

dal contatto con il mondo esterno) e lo controllano (il Super-io)

attraverso l’introiezione dei divieti sociali.

Queste istanze, con cui l’Io deve fare i conti, sono assunzioni

teoriche che servono a rendere ragione, come abbiamo detto sopra,

di alcuni fenomeni psicologici come le pulsioni più profonde e

resistenti oppure la coscienza morale che osserva, accusa e giudica

l’operato dell’Io.

Nel suo dare una spiegazione genetica dell’Io e del Super-io, Freud

sembra, non si sa quanto consapevolmente, recuperare certe idee

dagli echi janetiani, le stesse che nell’articolo del 1894 aveva

criticato. Scrive infatti:

"Nell’adempiere tale funzione, l’Io deve osservare il mondo

esterno, depositarne una fedele riproduzione nelle tracce

mnestiche delle sue percezioni, tenere lontano, mediante

l’esercizio dell’ <<esame di realtà>>, ciò che in questa

43
immagine del mondo esterno è un’aggiunta proveniente

dalle fonti interne d’eccitamento. (…) Ciò che però

caratterizza l’Io in modo del tutto particolare,

differenziandolo dall’Es, è una tendenza a sintetizzare i

contenuti, a riassumere e unificare i suoi processi psichici

la quale manca completamente all’Es. (…) L’Io evolve dalla

percezione delle pulsioni alla loro padronanza, ma

quest’ultima viene raggiunta solo se la rappresentanza

[psichica] delle pulsioni viene inquadrata in un’unità più

ampia, inclusa in un contesto coerente."49

Anche per Freud, l’Io è la facoltà di sintesi che si incarica di

collegare fra loro le immagini che rappresentano il mondo esterno e

le immagini delle pulsioni interne in un tutto coerente che limiti e

regoli le seconde attraverso l’esame di realtà compiuto per mezzo

delle prime. Ma questo lavoro, l’Io deve compierlo in condizioni

piuttosto improbe perché:

"Un proverbio ammonisce di non servire

contemporaneamente due padroni. Il povero Io ha la vita

ancor più dura: serve tre padroni, severi e si dà da fare per

mettere d’accordo le loro esigenze piene di pretese.

Queste sono sempre divergenti e spesso sembrano essere

inconciliabili; nessuna meraviglia se l’Io fallisce tanto

49 S.FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, Torino 1969, p.481-482.

44
spesso nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo

esterno, il Super-io e l’Es"50

Si ritorna dunque a ciò che abbiamo visto in Janet e cioè che la

maggiore o minore forza dell’Io, attraverso una maggiore o minore

capacità di sintesi delle immagini delle rappresentazioni, produce un

equilibrio più o meno grande fra le diverse forze in gioco, un

equilibrio che vede l’Io nelle vesti di un equilibrista che cammina su

un filo teso sull’abisso in cui si agitano, in lotta fra loro, le pulsioni

più primordiali, le esigenze morali dettate dalla convivenza sociale

ed introiettate nella psiche individuale, le sfide che il mondo esterno

lancia alla persona ed alla sua capacità di sopravvivenza.

E’ per questo che lo sforzo della psicoanalisi è quello di un

estensione della possibilità e del campo d’azione dell’Io per renderlo

sempre più indipendente dalle altre istanze psichiche:

"Gli sforzi terapeutici della psicoanalisi seguono una linea

in parte simile. La loro intenzione è in definitiva di

rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di

ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua

organizzazione, così che possa annettersi nuove zone

dell’Es. Dove era l’Es, deve diventare l’Io. Si tratta di

un’opera di bonifica come, ad esempio, il prosciugamento

dello Zuiderzee"51
50 S.FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, Torino 1969, p.483.
51 S.FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, Torino 1969, p.485.

45
Là dove la distanza fra Freud e Janet continua ad essere grande è

nel punto che le rappresentazioni, ancorché insufficientemente

organizzate dall’Io, non divengono mai, come nel pensiero della

scuola francese, autonome, delle personalità in qualche misura

indipendenti da quella abituale. L’Es è impersonale, il Super-io è

sovrapersonale, essi sono come delle forze naturali con cui l’Io deve

fare i conti sullo sfondo di un mondo, per dirla con Weber, ormai

disincantato, anche nella sua dimensione psichica. Con Carl Gustav

Jung vedremo come il mondo psichico comincia a reincantarsi e le

immagini che popolano la psiche ricominciano a prendere vita

autonoma.

2.3 Complessi e archetipi: Jung e il “piccolo popolo”

dell’anima

Anche Jung si confronta con il problema della scissione della

coscienza ed anche lui parte dalla teoria di Janet de l’ “abaissement

du niveau mental” ma, mentre Freud contestava tutto questo, egli

accoglie la teoria di Janet ed anzi la porta alle sue conseguenze

domandandosi cosa (o chi) prende il comando quando la “faiblesse

de la volonté” rende l’Io incapace di resistere alla marea montante

delle immagini non più sotto il suo controllo. Egli esamina questa

questione studiando la genesi non delle nevrosi, come Janet e

46
Freud, ma bensì della schizofrenia, il caso più estremo di scissione

della personalità.

In “Psicogenesi della schizofrenia”52 (1939), conferenza tenuta

presso la sezione di psichiatra della Royal Society of Medicine, egli

analizza la maniera con cui l’Io lotta per tenere sotto controllo le

immagini delle profondità della psiche e come, in qualche caso,

questa lotta lo veda soccombere e quindi disgregarsi. Per far questo

egli utilizza alcuni concetti che caratterizzano la psicologia

junghiana e che avranno conseguenze importanti nello sviluppo del

pensiero di quella scuola di psicologia che lui chiamò “psicologia

analitica”.

Quali sono questi concetti e in che modo concorrono alla

spiegazione, che Jung dà, della psicogenesi della schizofrenia?

"Sotto la pressione di un estremo abaissement la totalità

psichica si scinde in complessi e il complesso dell’Io cessa

di avere tra questi la parte più importante. Esso non è che

uno dei molti complessi, che sono tutti ugualmente

importanti, o forse persino più importanti dell’Io. Tutti

questi complessi acquistano un carattere personale, pur

restando frammenti. (…) In un simile stato mentale è del

tutto comprensibile che qualche parte più indomabile della

psiche del paziente raggiunga un certo grado di

autonomia."53
52 C.G.JUNG, Psicogenesi della schizofrenia in Opere vol.III, Torino 1971.
53 C.G.JUNG, Psicogenesi della schizofrenia in Opere vol.III, Torino 1971, p.252.

47
Il primo concetto chiave che compare e che dobbiamo analizzare è

quello di complesso.

Anche se nel linguaggio comune questo termine è legato all’idea del

“complesso di Edipo” freudiano, questo è praticamente l’unico uso

che Freud fa di questo termine che egli definì in alcune sue lettere

“un concetto teorico poco soddisfacente” o addirittura “una

mitologia junghiana” anche se poi è costretto ad ammettere che

"La parola ‘complesso’ (…) ha conquistato diritto di

cittadinanza nella psicoanalisi, come termine adeguato e

spesso indispensabile per la descrizione riassuntiva di uno

stato psicologico. Nessun altro fra i nomi e le designazioni

coniati per le esigenze della psicoanalisi ha raggiunto

popolarità così grande, né è incorso così spesso in

applicazioni abusive a detrimento di formulazioni

concettuali più precise"54

Questo concetto, che fu introdotto nella terminologia psichiatrica da

Jung stesso, finalmente resta quasi un termine tecnico che assume il

suo pieno significato solo all’interno della teoria junghiana anche se

poi, in senso generico, fu usato anche da altri autori 55. Come viene

definito questo termine?

54 S.FREUD, Per la storia del movimento psicoanalitico in Opere vol.VII, Torino


1975, p.402-403.
55 Cfr. anche l’idea di “complesso di inferiorità” di Adler.

48
"Gli elementi della vita psichica, sensazioni,

rappresentazioni e sentimenti sono presenti alla coscienza

sotto forma di determinate unità che, per tentare

un’analogia con la chimica, si possono paragonare alle

molecole. Esempio: io incontro per la strada un vecchio

amico: nel mio cervello si forma un’immagine, un’unità

funzionale: l’immagine del mio amico X. In questa unità

(“molecola”) distinguiamo tre componenti (“radicali”):

percezione sensoriale, componenti intellettuali

(rappresentazione, immagini mnemoniche, giudizi, ecc.),

tono affettivo. Queste tre componenti sono unite in un

saldo legame, cosicché non appena compare l’immagine

mnemonica di X, di regola sono presenti anche tutti gli

elementi ad essa associati (…). Per ciò sono autorizzato a

parlare, in proposito, di un’unità funzionale (…) che noi

definiamo col nome di complesso a tonalità affettiva.

Inteso in questo senso il complesso è un’unità psichica

superiore. Se esaminiamo il nostro materiale psichico (per

esempio sulla base dell’esperimento dell’associazione),

troviamo che praticamente ogni associazione appartiene

all’uno o all’altro complesso"56

Il complesso è dunque, per Jung, un insieme di rappresentazioni che


56C.G.JUNG, Psicologia della dementia precox in Opere vol.III, Torino 1971, p.46-
48.

49
portano con sé una forte carica affettiva che è per lui, in continuità

con il pensiero del suo maestro Bleuler57, il fondamento della vita

psichica58. Questi complessi, nel loro insieme formano la psiche e

ognuno di essi ha una certo grado, più o meno grande, di

autonomia. Ma giunto a questo punto Jung fa un’affermazione che è

densa di conseguenze:

"Nel soggetto normale, il complesso dell’Io è l’istanza

psichica suprema: con questo termine intendiamo la

massa delle rappresentazioni dell’Io, che noi immaginiamo

accompagnata dal potente e sempre vivo tono affettivo

del proprio corpo. Il tono affettivo è uno stato affettivo

sempre accompagnato da innervazioni somatiche. L’Io è

l’espressione psicologica dell’insieme strettamente

associato di tutte le sensazioni somatiche. Le personalità

del soggetto, perciò, è il complesso più saldo e più forte, e

(se c’è la salute) s’impone attraverso tutte le tempeste

psicologiche"59

57 Eugen Bleuler (1857-1939) psichiatra svizzero, fu direttore dell’Ospedale


psichiatrico di Zurigo e lì ebbe fra i suoi collaboratori Jung e Binswanger (fra i
fondatori della psichiatria fenomenologica). Attraverso Jung entrò in contatto con
Freud e la psicoanalisi ma senza mai assumerla interamente nella sua pratica
psichiatrica che oscillò sempre fra una visione organicistica ed una psicodinamica. Fu
lui ad inventare il termine “schizofrenia” che sostituì quello allora in uso di dementia
precox.
58 “Il fondamento essenziale della nostra personalità è l’affettività. Pensiero e azione

non sono, per così dire, che un sintomo dell’affettività”, C.G.JUNG, Psicologia della
dementia precox in Opere vol.III, Torino 1971, p.46.
59 C.G.JUNG, Psicologia della dementia precox in Opere vol.III, Torino 1971, p.48.

50
Secondo Jung, dunque, l’Io non è qualitativamente diverso dalle

altre rappresentazioni cariche di caratteristiche affettive, esso è

solamente il complesso prevalente sugli altri, una prevalenza, però,

che è messa in pericolo se, per qualche patologia, esso non è in

grado di mantenere il controllo degli altri complessi e non accade

più che esso “s’impone attraverso tutte le tempeste psicologiche”.

Se questa è la caratteristica dell’Io è evidente che l’unità della

psiche è una costruzione fondata su una molteplicità, che è quella

dei complessi, che è sempre viva ed attiva e può ad ogni momento

incrinare il controllo dell’Io.

Quando i complessi si attivano in misura eccessiva, in quel

momento abbiamo la scissione della personalità e accade che i

complessi comincino ad agire come personalità, almeno in parte,

autonome.

"I complessi, come mostra l’esperienza di associazione,

interferiscono con l’intenzione della volontà e disturbano

l’attività della coscienza; provocano disturbi della memoria

e blocchi del processo di associazione; affiorano e

scompaiono obbedendo a una loro propria legge;

ossessionano temporaneamente la coscienza, oppure

influenzano in maniera inconscia la parola e l’azione. Si

comportano quindi come esseri autonomi, cosa questa

particolarmente evidente, in stati abnormi. Nelle voci degli

alienati assumono addirittura un carattere di Io personale,

51
analogamente agli spiriti che si annunciano mediante una

scrittura automatica e tecniche del genere.

Un’intensificazione del fenomeno dei complessi conduce a

stati morbosi, i quali altro non che scissioni più o meno

estese, o molteplici, in cui i singoli frammenti conservano

una vita propria e insopprimibile"60

Si incrina così l’idea della persona come individualità monolitica e vi

si sostituisce quella di una moltitudine di complessi uniti da una rete

di relazioni dinamiche che può, ma anche no, avere al centro il

complesso autonomo dell’Io.

"Oggi giorno tutti sanno che la gente ‘ha complessi’. Ciò

che non è altrettanto ben risaputo, benché molto più

importante dal punto di vista teorico, è che i complessi

hanno noi. Ma anche la più semplice formulazione della

psicologia complessa non può evitare il fatto

impressionante della loro autonomia, e più profondamente

si penetra nella loro natura – potrei quasi dire nella loro

biologia – più chiaramente essi rivelano il loro carattere di

psiche spezzate"61

Si noti en passant che, proprio per il ruolo preponderante dato, nella


60 C.G.JUNG, Determinanti psicologiche del comportamento umano in Opere
vol.VIII, Torino 1976, p.139-140.
61 C.G.JUNG, Considerazioni generali sulla teoria dei complessi in Opere vol.VIII,

Torino 1971, p.114.

52
sua teoria ai complessi, Jung aveva dapprima pensato di

denominare la sua teoria “psicologia complessa” e solo in seguito

passò alla definizione, tuttora corrente, di “psicologia analitica”.

Questa forte accentuazione dell’autonomia dei complessi comporta

anche un approccio terapeutico profondamente diverso rispetto a

quello di Freud. Mentre lo psicoanalista austriaco considera il

complesso come un blocco, un nodo che non consente un corretto

funzionamento della psiche e cerca quindi di scioglierlo attraverso il

recupero cosciente dell’evento traumatico che lo ha originato, Jung

invece cerca, considerando insopprimibile l’autonomia dei

complessi, di collegarli fra loro e con l’Io perché si abbia una più

compiuta coscienza di sé. Non si tratta dunque, riprendendo la

metafora freudiana, di prosciugare lo Zuiderzee ma piuttosto di

avere regolari collegamenti fra le varie isole dell’arcipelago

solcando le acque che le dividono le une dalle altre.

Jung, proprio perché vede l’Io come un complesso all’interno degli

altri complessi, dà alla totalità della psiche (che comprende quindi

l’Io al suo interno) il nome di “Sè”. Esso è definito da Jung:

"Il Sé non è soltanto il centro ma anche l’intero perimetro

che abbraccia coscienza e inconscio insieme; è il centro di

questa totalità, così come l’Io è il centro della mente

cosciente."62

62 C.G.JUNG, Psicologia e alchimia in Opere vol.XII, p.444.

53
Ma c’è ancora un aspetto che dobbiamo sottolineare e cioè la

dimensione sovrapersonale di una parte rilevante della psiche

individuale. Studiando il materiale manifestato dagli psicotici egli

riscontra in esso forti somiglianze con motivi simbolici presenti nelle

culture appartenenti alle epoche ed ai contesti geografici più diversi.

Questo materiale collettivo ed inconscio si organizza per Jung in

forme a priori che costituiscono come delle possibilità di esperienza

psicologica precedenti l’esistenza individuale. Queste forme lo

psichiatra di Zurigo le chiama, sostenendo di averne ricavato il

concetto da Platone, “archetipi”63.

Se i complessi mettono in pericolo il ruolo centrale dell’Io nella

psiche, gli archetipi ancora di più incrinano il suo ruolo in quanto si

pongono come delle possibilità di esistenza già tracciate, dei copioni

già scritti che l’Io, spesso inconsapevolmente, si trova a recitare e

che, personificati nelle figure degli antichi dei e demoni, quasi lo

possiedono. Anche qui, come per i complessi, l’unica possibilità

dell’Io di mantenere un relativo controllo della situazione è quella di

prendere consapevolezza dell’esistenza e della forza delle immagini

archetipiche presenti nelle profondità della psiche e di intessere un

dialogo con esse che, lungi dal demitizzarle, scoprendo in esse solo

delle rappresentazioni degli istinti, come nella psicoanalisi, le faccia

diventare vivificanti per l’esistenza personale riconnettendola alle

sue sorgenti collettive

63Non ci diffondiamo ora sul concetto di archetipo in Jung perché, costituendo una
delle fonti principali della psicologia di Hillman, sarà esaminato in modo
approfondito nel capitolo seguente.

54
2.4 Conclusione

In questo breve percorso abbiamo visto, analizzando come la

psicologia a cavallo fra XIX e XX secolo ha affrontato il problema

della scissione della personalità, come al problema filosofico del

rapporto tra unità e molteplicità dell’anima umana sia risposto con

una progressiva messa in crisi della polarità unitaria a favore di

quella molteplice.

Se la psicologia dei médecins philosophes, fra cui abbiamo scelto

Janet come rappresentante, vede nell’Io un monarca costantemente

insidiato dalle immagini multiple che popolano la mente, Freud, pur

riconoscendo la fragilità dell’Io e smascherandone le astuzie, lo

vede ancora come protagonista di una vicenda drammatica che gli

chiede di fare i conti con le istanze pulsionali e le introiezioni dei

tabù sociali. Jung, portando alle conseguenze più forti questa

detronizzazione dell’Io, lo vede come un complesso fra gli altri che si

alimenta, come gli altri, a delle sorgenti psichiche che lo precedono

e lo superano, essendo radicate nelle profondità della memoria

collettiva dell’umanità. In James Hillman vedremo come questa

demitizzazione dell’Io si spinga ancora più in là, fin quasi a renderlo

qualcosa di ingombrante e da cui liberarsi.

55
Cap.3 Una “visione” della psiche

James Hillman è, nel campo della psicoanalisi64 della seconda metà

del XX secolo una delle personalità che più sono state capaci di

rompere schemi che, dalle teorizzazioni di Freud e di Jung a cavallo

fra ‘800 e ‘900, avevano fissato limiti e metodi di questa disciplina.

Hillman, a partire da una rilettura critica della tradizione junghiana,

da cui prende le mosse, produce un approccio assai originale da lui

denominato “psicologia archetipica” che, come già si era verificato

per Freud e Jung, non si limita ad essere strumento terapeutico ma

diventa vera Weltanschaaung.

Svilupperemo così la nostra analisi: dopo aver descritto per sommi

capi, nel primo paragrafo, l’insieme della vita e del lavoro di

Hillman, in due excursus, approfondiremo due delle categorie chiave

del suo pensiero che egli mutua, come egli stesso ammette, da due

altri autori: l’idea di “archetipo” da Jung e quella di “immaginale” da

Corbin.

3.1 Uno sguardo d’insieme sull’opera di Hillman

James Hillman nacque a Atlantic City nel 1926 e fra il 1944 ed il

1946 presta servizio militare nella Marina Americana. Venne


64Ma credo che lui per primo rifiuterebbe ormai di farsi classificare semplicemente
come psicoanalista avendo ormai dagli anni ’80 del secolo scorso aperto i propri
orizzonti di ricerca alle dimensioni più ampie della cultura occidentale nella sue varie
forme.

56
assegnato ad un ospedale militare dove si occupava di persone non

vedenti a causa di ferite di guerra. Questo incontro con una

sofferenza psichica molto profonda depositò in lui un germe che

avrebbe fruttificato in seguito con l’esperienza dell’analisi:

"Tra il ’44 e il ’46 ho prestato servizio in Marina lavorando

negli ospedali. Mi affidarono l’assistenza a ciechi, sordi e

mutilati. Io lavoravo quasi solo con i ciechi. (…) Così mi

trasferii dalla caserma all’ospedale per abitare insieme ai

malati, il che in teoria non era permesso; ma sentivo il

bisogno di capire più a fondo, e il solo modo mi sembrava

quello di essere più vicino. (…) Comunque a diciannove

anni la psicoterapia mi aveva già conquistato, sebbene

non conoscessi ancora la parola"65

Dopo questa esperienza, Hillman si trasferì in Europa, dapprima in

Germania dove lavorò come giornalista e in seguito a Parigi, dove

studiò letteratura, ed a Dublino dove studiò filosofia.

Fu in questo periodo che lesse i primi testi psicoanalitici, Tipi

psicologici di Jung e L’interpretazione dei sogni di Freud che però

non produssero in lui una grandissima impressione.

Finiti gli studi a Dublino, Hillman partì per l’India dove entrò in

contatto con le religioni e le filosofie orientali ma soprattutto,

attraverso la registrazione e l’analisi dei propri sogni, con la propria


65J.HILLMAN, Il linguaggio della vita. Conversazioni con Laura Pozzo, Roma 2003,
p.127-128.

57
psiche.

Da lì, dove nel frattempo aveva letto ancora molte opere di Jung, si

trasferì a Zurigo dove cominciò a studiare, contemporaneamente,

nell’Università locale ed allo Jung Institut dove conobbe Jung stesso,

anche se non in maniera molto approfondita:

"Per me i suoi scritti sono diventati sempre più importanti.

Mi sono profondamente calato nella parte. Ma Jung non ha

avuto un ruolo diretto. Sembrerà strano, ma non ho mai

cercato di incontrarlo, nemmeno quando avrei potuto. L’ho

visto a conferenze e ricevimenti negli anni Cinquanta, e

qualche volta l’ho incontrato per discutere questioni

relative all’Istituto, ma ci sono stati quattro anni in cui

avrei potuto andare a trovarlo e non l’ho fatto"66

In questo periodo egli si dedicò ad un approfondimento dell’eredità

junghiana, che non fu però semplicemente ripetizione scolastica di

quanto detto dal “maestro” bensì accentuazione progressiva degli

aspetti di essa più legati alla teoria degli archetipi, preferita ad altre

parti della metapsicologia di Jung.

Fu ancora in questo periodo che egli entrò in contatto, attraverso le

annuali conferenze di Eranos, a cui aveva partecipato con altri in

veste di iniziatore lo stesso Jung, con molte personalità della cultura,

esterne alla psicologia che lo influenzarono. Fra queste merita una


66J.HILLMAN, Il linguaggio della vita. Conversazioni con Laura Pozzo, Roma 2003,
p.134.

58
menzione particolare Henry Corbin, studioso piuttosto eterodosso

del pensiero islamico di cui parleremo più diffusamente nel secondo

Excursus.

Egli continuò l’attività terapeutica e accademica fino a diventare

direttore di studi dello Jung Institut fino alla fine degli anni ’60,

quando per tre anni interruppe l’attività terapeutica, “sintomo” di un

ripensamento di essa che poi prese forma nella sua prima opera

teorica che proprio a questo era dedicata:

“Retrospettivamente mi è chiaro che la crisi della mia

attività terapeutica coincise con la crisi del mio matrimonio

e col prendere forma del mio libro sulla re-visione dei

principi della cura”67

Questo ripensamento critico si concretizzò in tre opere, che sono il

cardine della visione hillmaniana: “Il mito dell’analisi” (1972), “Il

sogno e il mondo infero” (1973) e “Re-visione della psicologia”

(1975). Mentre nei primi due si sottopone ad esame critico l’idea di

analisi come scioglimento dei nodi psicologici (“Il mito dell’analisi”)

e l’idea che il sogno sia riflesso e residuo della vita diurna (“Il sogno

e il mondo infero”), nel terzo le intuizioni accumulate negli anni

partoriscono una visione complessiva in cui la psicologia viene vista

non solo come un discorso sull’anima (nozione centrale in Hillman

ed a cui ha dedicato un’intera opera, “Anima. Anatomia di una


67J.HILLMAN, Il linguaggio della vita. Conversazioni con Laura Pozzo, Roma 2003,
p.141.

59
nozione personificata” del 1989) ma come un discorso dell’anima

che parla attraverso le patologie e la cura.

E’ ancora in questo periodo e precisamente nel 1970 che egli fonda

la rivista Spring che divenne lo spazio in cui il vasto arcipelago di

autori che all’indirizzo psicologico hillmaniano e che lui stesso aveva

denominato, per differenziarsi dalla junghiana “psicologia analitica”,

“psicologia archetipica”, pubblicava i propri lavori.

Dopo questo periodo, la nozione di anima già centrale in Hillman fu

riletta alla luce del pensiero neoplatonico di Plotino e dei

neoplatonici del Rinascimento italiano, come “anima del mondo” e

questo comportò un’uscita dalla visione strettamente individuale

della psicologia, delle sue patologie e quindi della loro terapia, per

rivolgersi al più ampio campo della società nei suoi varie aspetti:

economia, politica, cultura, etc.

"In luogo della nozione comune di realtà psichica, fondata

su un sistema di soggetti privati esperienti e di oggetti

pubblici morti, vorrei proporre un’idea che prevale in molte

culture (definite primitive e animistiche dagli antropologi

culturali dell’Occidente) e che, per un breve periodo, era

tornata in auge anche nella nostra attraverso Firenze e

Marsilio Ficino. Mi riferisco all’anima del mondo del

platonismo, che significa semplicemente il mondo infuso

d’anima"68
68J. HILLMAN, “Anima mundi. Il ritorno dell’anima nel mondo” in J.HILLMAN,
L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Milano 2002, p.129.

60
Questo anche a livello della pratica psicoterapeutica comporta un

cambiamento di prospettiva che porta la psicologia ad assumersi un

nuovo ruolo nella società contemporanea, guarendo da quel

narcisismo che la affligge, come Hillman sostiene in una conferenza

del 1988 intitolata significativamente “Dallo specchio alla

finestra”69.

Questa critica diviene quasi un “programma di riforma” in un libro-

intervista70, anch’esso non casualmente intitolato “Cento anni di

psicoterapia e il mondo va sempre peggio”71 in cui così si esprime:

"Abbiamo avuto cento anni di analisi, la gente diventa

sempre più sensibile, e il mondo peggiora sempre più.

Forse è arrivato il momento di guardare in faccia questa

realtà. Continuiamo a situare la psiche dentro la pelle. Per

dare una localizzazione alla psiche si va dentro (…) Quello

che resta fuori è un mondo che si va deteriorando. Perché

la terapia non se ne è accorta? Perché la psicoterapia è

lavorare soltanto su ciò che sta dentro l’anima.

69 J.HILLMAN, Dallo specchio alla finestra in J.HILLMAN, Oltre l’umanismo,


Bergamo 1996, p.87-107.
70 E’ curioso notare come in “Il linguaggio della vita”, Milano 2003,
precedentemente pubblicato in Italia col titolo di “Intervista su amore, anima e
psiche”, Hillman cominci affermando il proprio disagio di fronte alle interviste e poi
di libri di questo genere ne abbia pubblicati almeno quattro. Forse è vero quello che
egli afferma, sempre in questo libro: “La verità dev’essere velata. Protetta dall’ironia.
Quest’intervista non può funzionare, né rivelare nulla al lettore, se questi non ne
accetta il lato sofistico, ironico e insincero” (p.18).
71 J.HILLMAN-M.VENTURA, Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre

peggio, Milano 1998.

61
Rimuovendo l’anima dal mondo e non riconoscendo che

l’anima è anche nel mondo, la psicoterapia non può più

fare il proprio lavoro. Gli edifici sono malati, le istituzioni

sono malate, il sistema bancario è malato, e così la scuola,

il traffico – la malattia è là fuori. Lei lo sa, l’anima la si

scopre sempre attraverso la patologia. (…) Ma non

potrebbe l’analisi avere fantasie nuove su di sé, che

facessero dello studio dell’analista una cellula nella quale

si prepara la rivoluzione? (…) Per rivoluzione io intendo

rovesciamento. Non sviluppare, non spiegare, ma

rovesciare quel sistema che, tanto per cominciare, ci ha

portato in analisi"72

L’ultima fase della produzione di Hillman, quella tuttora in corso, si

esprime attraverso libri che, utilizzando il quadro di riferimento

teorico delineato nelle opere precedenti, riflettono su tematiche

molto ampie (la guerra73, la vecchiaia74, il percorso biografico come

realizzazione di una sorta di vocazione già assegnata 75), mostrando

un certo eclettismo ma, forse, anche una minore originalità che nel

passato.

Resta da vedere se l’oramai quasi ottantenne James Hillman non ci

riserverà qualche altra sorpresa, cambiando ancora pelle.

72 J.HILLMAN-M.VENTURA, Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre


peggio, Milano 1998 p.5-45 passim.
73 J.HILLMAN, Un terribile amore per la guerra, Milano 2005.

74 J.HILLMAN, La forza del carattere, Milano 2000.

75 J.HILLMAN, Il codice dell’anima, Milano 1997.

62
3.2 Gli elementi chiave del pensiero di James Hillman

Per delineare i punti chiave del pensiero di Hillman credo che ci si

possa affidare a quello che è l’unico testo sistematico in cui il

pensatore americano ha provato a delineare le proprie idee. Questo

testo è la voce “Psicologia archetipica” che appare nella

Enciclopedia del Novecento76. Questo testo mira a delineare le linee

fondamentali di quel pensiero che, come lui stesso dice, si propone

di:

"travalicare l’ambito degli studi psicoterapeutici e delle

indagini cliniche per collocarsi nella cultura

dell’immaginazione occidentale"77

La psicologia archetipica va dunque intesa primariamente in

riferimento con la cultura e l’immaginario occidentali globalmente

presi prima che con l’ambito della psichiatria o della psicologia

tradizionalmente intesa.

Dopo aver dichiarato quale sia l’orizzonte entro cui si muove questo

movimento culturale, Hillman passa a dichiarare i debiti che esso ha

verso alcuni pensatori che nel loro percorso intellettuale hanno

delineato idee di cui la psicologia archetipica si nutre. Egli ne


76 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma
1981, p.813-827.
77 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma

1981, p.813.

63
identifica due principali: Carl Gustav Jung e Henry Corbin.

L’idea fondamentale di Jung che passa nella psicologia archetipica è,

come facilmente si può immaginare dal nome scelto per questo

itinerario di pensiero, quella degli archetipi. Prima di provare a

comprendere gli archetipi come Hillman li “immagina” (il termine

non è casuale), può essere utile, in un breve excursus, vedere come

Jung è arrivato a formulare questa teoria.

Excursus I: La teoria degli archetipi in Jung

Il termine “archetipo” è centrale nel pensiero junghiano. Egli giunge

a formulare questa idea a partire da una constatazione clinica:

"Lo stesso materiale si trova in nevrotici, pittori e poeti

moderni, e anche in soggetti piuttosto normali sottoposti a

un accurato esame dei loro sogni. Inoltre, paralleli

estremamente suggestivi si trovano nella mitologia e nel

simbolismo di tutti i popoli e di tutti i tempi"78

Per spiegare questo fatto, Jung ipotizza che una parte del nostro

inconscio non sia mai stata conscia, che non sia dunque effetto di

una rimozione più o meno lontana nel tempo ma che appartenga ad

un deposito inconscio collettivo che è comune a tutti e che si

esprime nei simboli culturali, onirici e nei deliri degli psicotici:

78 C.G.JUNG, Psicogenesi della schizofrenia in Opere vol.III, Torino 1971, p.251.

64
"Perciò è meglio spiegare molti sogni come residui di

impressioni coscienti, mentre altre provengono

direttamente da fonti inconsce, che non sono mai state

nella coscienza. I sogni del primo tipo hanno un carattere

personale e sono in accordo con le leggi di una psicologia

personalistica; quelli del secondo tipo hanno un carattere

collettivo, in quanto essi contengono particolari immagini

mitologiche, leggendarie o generalmente arcaiche (…)

Entrambi i tipi di sogni si rispecchiano nella sintomatologia

della schizofrenia. Questa presenta, proprio come i sogni,

una mescolanza di materiale personale e collettivo"79

A queste forme, come abbiamo già accennato nel capitolo

precedente, Jung dà il nome di archetipi, riprendendo, così lui

afferma, il concetto da Platone ed il termine da Filone

Alessandrino80.

Nell’opera junghiana questo termine ha due distinti significati: il

primo è quello di una forma a priori che organizza il comportamento

che sarebbe innata e non acquisita

"Il pulcino non ha imparato il modo con cui uscirà dall’uovo: esso lo

possiede a priori"81
79 C.G.JUNG, Psicogenesi della schizofrenia in Opere vol.III, Torino 1971, p.253-
254.
80 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.4.

81 C.G.JUNG, Simboli della trasformazione in Opere vol.V, Torino 1970, p.322.

65
Ciò che è innato non è dato da contenuti specifici bensì da schemi

che aprono possibilità comportamentali e che sono ereditati così

come è ereditato il cervello umano:

"(…) negare l’ereditarietà di questi binari equivarrebbe a negare

l’ereditarietà del cervello. Chi la nega dovrebbe, per essere logico,

affermare che il bambino viene al mondo con un cervello da scimmia. Ma

poiché nasce con un cervello umano, prima o poi questo cervello

comincerà a funzionare in maniera umana"82

La parte più stimolante ma anche più problematica della teoria

junghiana sugli archetipi è però quella per la quale essi, da semplici

schemi comportamentali, diventano degli istinti forniti di una loro

specifica energia psichica, dei complessi innati che la persona non

acquisisce dall’esperienza diretta bensì ereditata come una sorta di

DNA psichico.

Questa parte della teoria Jung la formula riflettendo anche sui dati

degli studi etnologici mettendoli a confronto con i dati empirici

ricavati dalla pratica clinica. Egli infatti afferma:

"Archetipo è una parafrasi esplicativa dell’éidos platonico. Ai nostri fini

tale designazione poiché ci dice che, per quanto riguarda i contenuti

dell’inconscio collettivo, ci troviamo davanti a tipi arcaici o meglio

82 C.G.JUNG, Energetica psichica in Opere vol.VIII, Torino 1976, p.62.

66
ancora primigeni, cioè immagini universali presenti fin da tempi remoti.

L’espressione représentations collectives, che Lévy-Bruhl usa per

designare le figure simboliche delle primitive visioni del mondo, si

potrebbe usare senza difficoltà anche per i contenuti inconsci, poiché

significa più o meno la stessa cosa"83

Come si esprimono questi contenuti inconsci primigeni all’interno di

queste culture?

"Nelle tradizioni primitive della tribù gli archetipi si presentano

modificati in una speciale accezione. Certamente non si tratta più di

contenuti dell’inconscio: essi si sono ormai trasformati in formule consce,

perlopiù tramandate in veste di ‘insegnamento esoterico’, tipica forma di

trasmissione di contenuti collettivi originariamente derivanti

dall’inconscio. Altra ben nota espressione degli archetipi sono il ‘mito’ e

la ‘fiaba’. Ma anche qui si tratta di forme specificamente improntate,

trasmesse nel corso di lunghi periodi"84

Se nelle culture tradizionali gli archetipi sono oggettivati nei racconti

mitologici e nei simboli, come può accadere che essi siano stati

ricacciati nell’inconscio ed oggi si manifestino attraverso i deliri

degli schizofrenici?

Egli, per ricostruire questo processo, parte da una domanda:

83 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.4.


84 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.4-
5.

67
"Per quale motivo la psicologia è la più giovane delle scienze empiriche?

Perché l’inconscio non è stato già scoperto da molto tempo e non è stato

rivelato il suo tesoro di immagini eterne?"85

e la risposta è di una sconcertante semplicità:

"Semplicemente perché avevamo, per tutto ciò che è psiche, una formula

religiosa molto più bella e più vasta dell’esperienza"86

Da qui in poi il discorso di Jung si concentra sull’analisi

dell’esperienza religiosa dell’uomo nel corso della storia, esperienza

che è colta come luogo del rapporto fra l’umanità e le proprie

immagini archetipiche, ed a misura che questa cambia, le immagini

vivono una vita che sa adattarsi al passaggio, per esempio, dal

politeismo pagano al monoteismo giudaico-cristiano. Ma in questa

evoluzione egli coglie un punto di rottura, quasi un momento in cui

gli archetipi sono costretti alla “clandestinità”:

"L’iconoclastia della Riforma ha però letteralmente praticato una breccia

nel baluardo formato dalle immagini sacre e, da allora, le va sgretolando

una dopo l’altra. Entrando in collisione con la ragione al suo destarsi, la

loro condizione divenne precaria"87

85 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.7.


86 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.7.
87 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.11.

68
Si è tentato di in varie maniere di rimediare a questa “perdita di

immagini” e Jung identifica due di questi modi: l’adozione di

immagini derivate da altre culture per rimediare alla carenza delle

immagini simboliche cristiane ormai rifiutate e per di più usurate da

un lungo uso, così come ad un certo punto della loro storia i Romani

rinunciarono ai propri dèi, ormai ridotti a sterili nomi di una fredda

“religione civile” per accogliere gli dèi asiatici e il Dio cristiano, ma

questo non può funzionare oggi perché queste dottrine orientali,

lontane dalle nostre radici, se adottate sarebbero solo il segno di un

tradimento di se stessi.

L’altra via è quella di riempire questo vuoto con idee politiche e

sociali, quindi di una secolarizzazione delle immagini, trasformate in

ideali, processo che, per Jung, termina con il nietzscheano “al di là

del bene e del male” e cioè con il tentativo di rimuovere

semplicemente la questione, tentativo vano perché:

"(…)presto o tardi il conto dev’esser saldato, e siamo costretti a

confessare a noi stessi che esistono problemi assolutamente insolubili con

i nostri mezzi."88

Ma c’è ancora un altro esito possibile a questo seppellimento delle

immagini nell’inconscio, e cioè la patologia:

88 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980,p.19.

69
“L’umanità non può nulla nei confronti dell’umanità, e gli dèi, come

sempre, le additano il destino. Oggi gli dèi sono chiamati ‘fattori’, nome

che deriva da facere=fare. I ‘fattori’ stanno dietro le quinte del teatro del

mondo. E’ così nelle cose grandi come nelle piccole. Per quanto riguarda

la coscienza, siamo noi i padroni di noi stessi, sembriamo addirittura noi

i ‘fattori’; ma se varchiamo le porte dell’Ombra89, ci accorgiamo con

spavento che di questi ‘fattori’ siamo oggetto”90

Si impone quindi un nuovo modo di integrare le immagini nella coscienza, una

trasformazione della personalità attraverso un processo simbolico che è, come dice

Jung stesso “un esperienza nell’immagine e dell’immagine”91. Questo processo ha

però i suoi pericoli da non prendere alla leggera:

"Sebbene in un primo tempo tutto sia vissuto in immagine, cioè

simbolicamente, non si tratta affatto di pericoli immaginari, ma di rischi

effettivi, dai quali può in certi casi dipendere un destino. Il pericolo

principale è quello di soccombere al fascinante influsso degli archetipi,

pericolo specialmente concreto ‘se non rendiamo coscienti’ a noi stessi le

immagini archetipiche. Allorché c’è già una predisposizione alla psicosi,

può addirittura accadere che le figure archetipiche, nelle quali in virtù

della loro luminosità naturale è insita una certa autonomia, si liberino

del tutto da ogni controllo cosciente, conseguendo piena indipendenza e

89 Nel linguaggio junghiano l’Ombra è il termine con viene indicata la parte oscura,
inferiore della personalità, il lato indifferenziato che si contrappone all’Io cosciente.
90 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.21.

91 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.36.

70
generando fenomeni di possessione. (…) L’elemento patologico non

risiede nell’esistenza delle rappresentazioni, ma nella dissociazione della

coscienza, divenuta incapace di dominare l’inconscio.92"

Il risultato dunque di quello che Weber chiamò il “disincantamento

del mondo” è che, per usare un’immagine icastica di Jung,

"Gli dèi sono divenuti malattie; Zeus non governa più l’Olimpo ma

piuttosto il plesso solare e produce strani esemplari per lo studio

medico93"

Prima di vedere come Hillman rielabora la teoria junghiana degli

archetipi, val la pena di vedere come essa è stata accolta o criticata

dagli autori successivi a Jung e che a lui si sono ispirati in qualche

modo.

Eric Neumann distingue nell’archetipo quattro aspetti: a) un aspetto

dinamico che si esprime nel fatto che, in modo inconscio ma

regolare ed indipendente dall’esperienza individuale, l’archetipo

determina il comportamento, b) un aspetto simbolico che è la forma

con cui l’archetipo si manifesta in specifiche immagini psichiche

percepite dalla coscienza, c) un contenuto “che è il senso racchiuso

in esso che si concreta in un’immagine archetipica che può essere

92 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980,


p.37-38.
93 C.G.JUNG, Commento al “Segreto del fiore d’oro” in Opere vol.XIII, Torino 1983

p.56

71
elaborata o assimilata dalla coscienza94 d) una struttura che è il

modo in cui i precedenti tre elementi si organizzano fra loro.

All’interno dello junghismo non sono però mancate voci critiche che

hanno invece contestato la teoria degli archetipi; fra esse c’è quella

di Mario Trevi che ha cercato di sottoporre a vaglio critico tutto

quello che nel pensiero di Jung sapesse di sostanzialismo,

valorizzando invece gli spunti epistemologici e metodologici. Data

questa linea teorica, gli archetipi non potevano non essere un punto

particolarmente sensibile del percorso di revisione critica condotto

da Trevi nei confronti del pensatore zurighese. Egli infatti scrive:

"Se gli archetipi sono quegli invarianti metastorici e universali

dell’immaginazione ma inevitabilmente anche del pensiero e dell’agire

umano di natura formale e non contenutistica in cui, dopo innumerevoli

tentennamenti, Jung stesso sembra configurarli, allora essi

rappresentano quel cosmo immutabile che, insediato nel più profondo

dell’inconscio, dovrebbe rendere ragione dell’uniformità occultata

nell’infinita varianza della cultura. Come tali essi sono ipostasi molto

prossime a quelle della metafisica religiosa, e noi non riusciamo a

comprendere come l’uomo, nel suo perenne trascorrere culturale, possa

attingerli e, anche solo sommariamente, descriverli"95

Questo deposito invariante di immagini sembra a Trevi una comoda

94 E.NEUMANN, La Grande Madre (1956), trad.italiana Roma 1981


95 M.TREVI, Per uno junghismo critico, Milano 1987, p.100.

72
scorciatoia che Jung usa per eludere il disagio e la problematicità

che vengono dall’inesauribile complessità dell’immaginazione e

dell’inconscio umani che viene ricondotta a questo unico schema

teorico dell’archetipo, analogamente a quanto Freud aveva fatto

mediante lo schema trauma-rimozione:

"In realtà l’archetipo, pur nella sua discendenza platonica, ancorando

l’uomo all’immutabile, lo riporta alla natura e nella natura lo sommerge

abolendone irrimediabilmente l’eccezionalità"96

Torniamo ora al nostro discorso per vedere come Hillman ha

recepito e rielaborato gli archetipi di Jung.

Fra i due significati del termine “archetipo”, che abbiamo visto

nell’Excursus, Hillman sceglie senza esitazione il secondo. Anzi egli

volutamente contesta che ci sia un qualunque tipo di archetipo

noumenico di cui, secondo lo schema kantiano, le immagini

archetipiche sarebbero solo una manifestazione. E’ questo un

residuo idealistico che egli contesta a Jung. Per Hillman le immagini

sono sempre fenomeniche e non c’è un altro o un altrove a cui esse

rimandino.

"Nella terminologia junghiana, queste figure del substrato mitico della

96 M.TREVI, Per uno junghismo critico, Milano 1987, p.101.

73
psiche sono "archetipi". Diversamente da Jung, tuttavia, che ha

sottolineato come gli archetipi in quanto tali siano inconoscibili e non

rappresentabili (noumenici), Hillman preferisce parlare di "immagini

archetipiche", riferendo l'aggettivo "archetipico" alla natura polimorfa,

polivalente e insondabile di ogni immagine; un'immagine archetipica è

un'immagine con applicazioni multiple e in pratica inesauribili. In questo

senso l'aggettivo "archetipico" deve essere preso come un indicatore del

valore di un'immagine, che le dà il significato più ampio, più ricco e più

profondo possibile"97

Questo punto è estremamente interessante perché il rifiuto di

lavorare sulle immagini attraverso una teoria semantica, la

necessità dunque di restare aderenti all’immagine in sé, senza

cercare niente al di là di essa, costituisce uno dei punti chiave del

pensiero hillmaniano.

Un’applicazione pratica di questo punto l’abbiamo nella sua “teoria”

del sogno esposta principalmente in Il sogno e il mondo infero98 . Il

legame tra teoria del sogno e teoria delle immagini archetipiche è

posto dallo stesso Hillman:

"L’immagine è stata il mio punto di partenza per la re-visione in senso

archetipico della psicologia. Nel presente libro, tale attenzione per le

immagini viene portata avanti e elaborata in maniera più

97 R.AVENS, James Hillman Verso una psicologia poetica in L'immaginale vol.II


(1984), n.2, p.13.
98 J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero(1979), trad. italiana Milano 2003.

74
particolareggiata. Anzi questo libro fa da ponte (o da tunnel) per entrare

negli altri miei scritti. Qui infatti la psicologia dell’immagine è situata

più decisamente all’interno di una psicologia dei sogni e della morte"99

Il punto centrale che differenzia l’approccio di Hillman al sogno a

paragone di quello psicoanalitico classico rappresentato da Freud è

il rapporto fra sogno e vita diurna. Freud infatti legge il sogno come

un residuo del mondo diurno; il sogno è dunque un riflesso della

veglia, riflesso che può essere rielaborato e che quindi ha bisogno,

per essere compreso, di una difficile opera di riconduzione del sogno

alla vita del giorno. Così Hillman spiega questo approccio:

"Adesso i contorni del conflitto si profilano in modo chiaro: da un lato, il

sogno appartiene completamente al sonno; dall’altro, l’interpretazione

deve riportare il sogno nel mondo diurno, salvandolo, diciamo, o

‘riscattandolo’ (secondo la metafora di Freud) dalla sua infera follia e

immersione nel principio del piacere. Freud vuole svegliare Psiche,

strapparla al suo amplesso nel mondo notturno del piacere erotico, al

narcisistico godimento della sua stessa ricchezza di immagini. Ecco la

sua ambizione. E il suo libro non si intitola ‘La natura dei sogni’, o ‘Lo

studio dei sogni’, né ‘Il mondo dei sogni’. Si intitola Die Traumdeutung,

‘L’interpretazione dei sogni’, e per interpretazione Freud intende, come

ripetutamente precisa, ‘traduzione’ nella lingua della vita di veglia"100

99 J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero, Milano 2003, p.15.


100 J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero, Milano 2003, p.22.

75
Ogni tentativo di interpretazione è per Hillman “un peccato contro

l’immaginazione”:

"Noi pecchiamo contro l’immaginazione ogni volta che interroghiamo

un’immagine per conoscerne il significato, pretendendo che le immagini

siano tradotte in concetti. Il serpente attorcigliato nell’angolo non può

essere tradotto nella mia paura, nella mia sessualità o nel mio complesso

materno senza venirne ucciso"101

Qual è invece l’alternativa proposta da Hillman? Quali le differenze

rispetto agli approcci classici al sogno?

"Nello sviluppare la mia tesi, seguirò sia Freud sia Jung (ma non farò

solo questo): Freud in quanto sosterrò che il sogno non ha niente a che

vedere con il mondo della veglia ma è la psiche che parla a se stessa

nella propria lingua; e Jung in quanto sosterrò che nell’Io deve avvenire

un adattamento al mondo notturno. Non li seguirò, invece, laddove mi

rifiuto di portare il sogno nel mondo diurno in altra forma che non sia la

sua, con il sottinteso che, per me, il sogno non può essere considerato né

come un messaggio da decifrare nell’interesse del mondo diurno (Freud),

né come un modo di compensarlo (Jung). (…) E’ questo stile diurno del

pensiero (realtà letterali, paragoni naturalistici, dualismi di opposti, un

procedere sequenziale) che dobbiamo accantonare, se vogliamo seguire il

101 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.89.

76
sogno nel suo territorio nativo. Là il pensiero si muove per immagini,

somiglianze corrispondenze"102

Non c’è quindi dietro alle immagini del sogno nient’altro che esse

stesse, non c’è un rimando ad un significato di nessun genere e

quindi ogni interpretazione è solo il punto di vista dell’Io che cerca,

di fronte agli abissi di questo mondo infero che gli si apre nel sogno,

di conservare la propria posizione di predominio.

"L’eroe aggredisce l’immagine, scacciando la morte dal suo trono, come

se per l’Io il riconoscimento dell’immagine comportasse la morte.103"

E’ invece l’Io che deve apprendere dai sogni a porsi alla scuola delle

immagini:

"Il mondo infero è una prospettiva interna all’immagine, per mezzo della

quale la nostra coscienza è iniziata al mondo infero"104

Cosa vuol dire questo rimanere nella prospettiva interna

all’immagine?

Se l’immagine non rimanda a nient’altro che a se stessa, il mondo

delle immagini è un sistema auto-referenziale, un mondo a parte in

cui si deve entrare e la porta d’ingresso di questo mondo è data

102 J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero, Milano 2003, p.24-25.


103 J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero, Milano 2003, p.144.
104 J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero, Milano 2003, p.178.

77
dall’immaginazione, dalle fantasie e dai sogni.

Questa posizione non è però priva di difficoltà ed è proprio nel suo

libro sul sogno che esse si rivelano. Infatti nell’ultimo capitolo egli si

mette a fare un lavoro intepretativo per grandi categorie oniriche.

La contraddizione con tutto quello che ha scritto in precedenza non

sfugge ovviamente neppure a Hillman che infatti dice in apertura di

questo capitolo:

"Questo capitolo è fuori luogo in un libro sulle immagini (…). I libri

tradizionali sui sogni ti dicono sempre qualcosa sul significato dei sogni.

Evitare del tutto di farlo tradirebbe l’aspettativa archetipica del lettore

nei confronti di un libro che reca la parola ‘sogno’ nel titolo. Sicché

questo capitolo cerca di destreggiarsi tra il desiderio di non far torto al

lettore e quello di non far torto al sogno."105

E questa parziale resa alle aspettative tradizionali verso i libri sui

sogni è forse il segnale che se, per Hillman, è chiara la pars

destruens e cioè cosa non fare con i sogni e quindi con le immagini,

non altrettanto chiara è la pars construens e cioè, in positivo, cosa

farci. Non si riesce ad andare al di là di un generico lasciar parlare le

immagini, quasi fossero opere d’arte da contemplare il che ci

richiama ad un paradigma estetico che riemerge spesso nelle opere

di questo autore106.

105J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero, Milano 2003, p.177-179 passim.


106Per una critica serrata all’approccio di Hillman al sogno cfr. W.A. SHELBURNE,
A critique of James Hillman’s approach to dream in The Journal of Analytical

78
Tutti questi aspetti della psiche umana ci rimandano a questo

mondo che ha una sua consistenza che per essere di tipo metaforico

non è, per Hillman, meno reale è questo il mondo che egli chiama,

riprendendo un’espressione dell’islamista francese Henry Corbin,

“mundus imaginalis”

Excursus II: Henry Corbin e l’immaginale


Henry Corbin nasce a Parigi nel 1903 e, dopo aver fatto gli studi di

filosofia che termina nel 1925 studiando con Etienne Gilson, si

dedica all’approfondimento della lingua araba, conseguendo il suo

diploma in orientalistica nel 1928. Il suo percorso spirituale inizia

dall’incontro con Louis Massignon e passa attraverso l’iniziazione

alla teosofia orientale, attraverso l’opera di Sohravardî, che

Massignon gli aveva fatto conoscere e un’esplorazione sistematica

dell’Oriente simbolico.

In Germania incontra Heidegger, di cui sarà il primo traduttore in

Francia.

A partire dal 1949, insieme a Jung, Eliade, Durand e altri intellettuali

del tempo, prende parte agli incontri del gruppo di Eranos, di cui

condivide lo spirito anti-accademico e aperto a più vari contributi

culturali.

Nel frattempo passa diversi anni in Turchia e, alla fine della Seconda

Guerra Mondiale, parte per l’Iran dove, fonda, all’interno dell’Istituto

Franco-Iraniano, il dipartimento di Iranologia.

Psychology, Vol.29 (1984) n.1, p.35-56

79
Dal 1955, Corbin si divide tra Parigi, dove insegna all’École des

Hautes Études, e Teheran, dove dirige questo dipartimento.

Nel 1959 esce una delle sue opere più rilevanti, “Imagination

créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabî”107, fondamentale per capire

la nozione di “mondo immaginale”.

Nel 1961 pubblica “Terre céleste et corps de résurrection”, la

“Histoire de la philosophie islamique”, en 1968 e i quattro volumi di

“En Islam iranien” a partire dal 1971. Corbin muore a Parigi il 7

ottobre 1978.

Entrando più in profondità nel pensiero di Corbin, possiamo vedere

come già nell’introduzione all’opera su Ibn ‘Arabi, l’autore precisi

subito il suo scopo:

“Ciò che qui viene proposto è il valore straordinario che l’immagine e

l’Immaginazione assumono per l’esperienza spirituale”108

L’idea di immagine e di immaginazione che sottostà al pensiero di

Corbin è però piuttosto diversa da quella comune. Egli dice infatti:

"Non è dell’immaginazione nel senso corrente del termine che qui si

discuterà: non si tratterà né di fantasia, profana o meno, né dell’organo

preposto a secernere un immaginario identificato con l’irreale, ovvero di

107 traduzione italiana H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo,


Roma-Bari 2005.
108 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005,

p.8.

80
ciò che consideriamo l’organo della creazione estetica."109

Cosa intende dunque Corbin con “immaginazione”?

"Si tratterà piuttosto di una funzione assolutamente fondamentale,

ordinata ad un suo universo peculiare, di cui l’immaginazione è

propriamente l’organo della percezione (…) Si proverà a mostrare in

quale senso questa immaginazione è creatrice: lo è in quanto essa è

essenzialmente immaginazione attiva, e in quanto tale attività le

conferisce la qualità essenziale di immaginazione teofanica. Essa assume

una funzione incomparabile, tanto imprevedibile, in rapporto al senso

inoffensivo o peggiorativo che generalmente attribuiamo al termine

immaginazione, che avremmo preferito designarla con un neologismo, e

per la quale siamo giunti ad impiegare il sostantivo immaginatrice"110

E’ l’insoddisfazione verso l’universo concettuale che si è creato

intorno all’immaginazione nel pensiero occidentale e che egli ritiene

assolutamente insufficiente ad esprimere la ricchezza e la densità

del pensiero orientale che fa sì che il suo creare neologismi non si

arresti qui. Ed il più denso di conseguenze per il suo pensiero, e per

la nostra ricerca è quello di mundus imaginalis e del concetto di

“immaginale” in senso lato. Perché egli sente il bisogno di questo

109 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005,


p.5.
110 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005,

p.5-8 passim.

81
termine?

" La scelta di queste due parole si è imposta a me già da qualche tempo,

perché mi era impossibile accontentarmi della parola ‘immaginario’.

Questa non è per nulla una critica rivolta a coloro che l'uso della lingua

costringe a ricorrere a tale parola, perché stiamo proprio cercando

insieme di ridarle un valore positivo. Tuttavia, quali siano i nostri sforzi,

non possiamo impedire che nell'uso corrente e non premeditato il termine

‘immaginario’ equivalga a ‘irreale’, significhi qualcosa che è al di fuori

dell'essere e dell'esistere, insomma qualcosa di ‘utopistico’."

Secondo Corbin, il mundus imaginalis della teosofia mistica è un

mondo mediano e mediatore, che si pone tra il mondo empirico

della percezione sensibile e il mondo della pura intuizione

intellettiva.

" I nostri teosofi mistici s'accordano su uno schema che si articola in tre

universi o piuttosto tre categorie d'universi. Vi è il mondo fisico sensibile,

che include tanto il nostro mondo terrestre (governato dalle anime

umane) quanto l'universo siderale (governato dalle anime delle Sfere); è

il mondo sensibile, il mondo del fenomeno (molk). Vi è il mondo

soprasensibile dell'anima o degli angeli-anime, il Malakùt in cui si

trovano le città mistiche Jabalqa, Jabarsa e Hurqalya, e che comincia

"alla superficie convessa della IX Sfera". Vi è l'universo delle pure

82
intelligenze arcangeliche. A questi tre universi corrispondono tre organi

di conoscenza: i sensi, l'immaginazione, l'intelletto, triade a cui

corrisponde la triade dell' antropologia: corpo, anima, spirito, triade che

regola la triplice crescenza dell'uomo che si estende da questo nostro

mondo alle sue resurrezioni negli altri mondi. Noi constatiamo subito che

non siamo più ridotti al dilemma del pensiero e dell'estensione, allo

schema di una cosmologia e di una gnoseologia limitate al mondo

empirico e al mondo dell'intelletto astratto, Tra i due viene a porsi un

mondo intermedio, quello che i nostri autori chiamano 'tilam al-mithtil

mondo dell'immagine, mundus imaginalis: un mondo ontologicamente

altrettanto reale del mondo dei sensi e del mondo dell'intelletto; un

mondo che richiede una facoltà di percezione che gli sia propria, facoltà

che ha una funzione cognitiva, un valore ‘noetico’, altrettanto reali di

quelli della percezione sensibile o dell'intuizione intellettuale, Tale

facoltà è il potere immaginativo, quello appunto che dobbiamo stare

attenti a non confondere con l'immaginazione che l'uomo cosiddetto

moderno identifica con la ‘fantasia’, e che, secondo lui, non emette che

dell'’immaginario’."111

L’immaginale è quindi il ponte tra il sensibile e l’intelligibile,

rendendo immateriali le forme sensibili e fornendo “immagini” alle

forme intelligibili. La potenza immaginativa non solo non è

degradata alla pura “fantasia”, intesa in senso riduttivo, ma è

rivalutata nella sua potenzialità di mediazione tra due mondi.


111 CORBIN H., Mundus imaginalis in Anima 2002, Bergamo 2002, p.14-15.

83
Qualsiasi figura divina o non divina, fino alle forme più elementari,

non può essere contemplata che attraverso una figura “concreta”,

sensibile o immaginale, che la rende “visibile” esteriormente o

mentalmente; questo perché la stessa creazione è opera

dell’Immaginazione divina ed è questa Immaginazione che si

manifesta allo spirito dell’iniziato ed è quindi teofanica.

"Riscontriamo l’idea che la divinità possieda la potenza di immaginare, e

che, immaginandolo, Dio abbia creato l’universo; che questo universo sia

stato tratto da Dio dalle virtualità e dalle potenze eterne del suo proprio

essere"112

“L’operazione teofanica iniziale (…) è concepita come Immaginazione

attiva creatrice, Immaginazione teofanica, Nube primordiale,

Immaginazione assoluta o teofanica (…) La Nube è infatti il Creatore

(…). Allo stesso modo, essa è la creatura, in quanto manifestata. (…) In

questa Nube sono dunque manifestate tutte le forme dell’essere,

dall’ordine degli Arcangeli più elevati, (…) fino ai minerali e alla natura

inorganica; tutto ciò che si differenzia dalla pura essenza dell’Essere

Divino in sé, generi, specie individui, tutto è creato in questa Nube. (…)

Così la Creazione è Epifania, cioè passaggio dallo stato di occultamento

di potenza, allo stato luminoso, manifestato e rivelato; Come tale, essa è

l’atto dell’Immaginazione divina primordiale.”113

112 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005,


p.159.
113 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005,

84
Mettendo in evidenza la visione mistica, Corbin ne presenta alcuni

caratteri fondamentali: essa sfugge al tempo lineare del quotidiano,

è sincronica; nascendo dall’immaginale, è un’ “interfaccia”, una

mediazione tra il mondo delle Essenze e quello della percezione;

infine, è attiva e creatrice, perché l’immagine, nella visione mistica,

è pienamente “reale”, nel senso che è trasformatrice del mondo.

A questa attività egli dà il nome di “immaginazione attiva”114:

" L'immaginazione attiva è lo ‘specchio’ per eccellenza, il luogo epifanico

delle immagini del mondo archetipico; perciò la teoria del mundus

imaginalis è intimamente collegata a una teoria della conoscenza

immaginativa e della funzione immaginativa. Funzione veramente

centrale, mediatrice a causa della posizione mediana e mediante del

mundus imaginalis. È una funzione che permette a tutti gli universi di

corrispondere simbolicamente gli uni agli altri, e che ci conduce a

rappresentarci sperimentalmente che le stesse realtà sostanziali

assumono forme che corrispondono ad ogni rispettivo universo (…). È la

funzione cognitiva dell'immaginazione che permette di fondare una

conoscenza analogica rigorosa, sfuggendo al dilemma del razionalismo

corrente, che non lascia scelta se non tra i due termini del banale

dualismo: o la ‘materia’ o lo ‘spirito’, dilemma al quale la

p.162-163.
114 Questa espressione, con un significato molto simile, è usata anche da Jung anche se

il procedimento concreto da lui suggerito per avvalersene è diverso dalle vie più
mistiche a cui fa riferimento Corbin.

85
‘socializzazione’ delle coscienze finisce per sostituire quest'altro, non

meno fatale: o ‘storia’ o ‘mito’"115

Questa immaginazione attiva si esprime attraverso il procedimento,

che Corbin riprende dal vocabolario della mistica islamica, del ta’wil

(la cui etimologia suggerisce l’idea del “ricondurre”116)che egli

definisce come

"(…) comprensione simbolica, trasmutazione di ciò che è visibile in cifra

simbolica, intuizione di un’essenza o di una persona in una Immagine,

che non è né l’universale logico né la specie sensibile, ed è insostituibile

per significare ciò che deve essere significato"117

"Il ‘luogo’ dell’incontro non è esterno alla totalità del Creatore-

Creatura, ma è posto sul piano corrispondente all’Immaginazione attiva,

come un ponte gettato fra due sponde. La traversata sarà essenzialmente

una ermeneutica dei simboli (ta’wil), una modalità di comprensione che

trasmuta in simboli i dati sensibili e i concetti razionali consentendo che

si effettui il passaggio. (…) L’Immaginazione è il ‘luogo dell’apparizione’

degli esseri spirituali, Angeli e Spiriti, che vi rivestono la figura e la

forma del loro ‘corpo d’apparizione’; poiché i puri concetti e i dati

sensibili vi si incontrano per affiorare in figure personali, pronte agli


115 H.CORBIN, Mundus imaginalis in Anima 2002, Bergamo 2002, p.14-15.
116 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005,
p.13.
117 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005,

p.14.

86
eventi delle drammaturgie spirituali"118

Vediamo ora come Hillman accoglie questo concetto (o dovremmo

piuttosto dire “immagine”) di mundus imaginalis e lo inserisce nella

sua visione della psiche.

Un primo adattamento che Hillman opera per inserire l’idea

corbiniana di immaginale nella sua re-visione della psicologia è

quello di liberarla dalla forte carica mistica e religiosa che essa

portava con sé.

Il forte legame che Corbin nutriva verso la teo-sofia islamica da cui

aveva ricavato la sua idea di mundus imaginalis mal si adatta alla

visione essenzialmente e volutamente non-religiosa di Hillman che

ha molta cura nelle sue opere di distinguere nettamente la sua

visione della psiche da eventuali appropriazioni di tipo religioso,

rischio molto concreto non solo per il vocabolario che Hillman usa e

che si presta a questo tipo di operazioni ma anche perché la visione

psicologica junghiana portava con sé un afflato che, per quanto non

confessionale, era però fortemente religioso119.

Dove Hillman vede essenzialmente differenza tra queste due

manifestazioni dello spirito umano, la psicologia e la religione, è la

118 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005,


p.165-166.
119 Si legga C.G.JUNG, Ricordi sogni riflessioni per rendersi conto di quanto la

tematica religiosa attraversi tutta la vita di Jung che era, fra l’altro, figlio di un pastore
protestante.

87
fede, il credere all’oggetto in questione. La religione deve credere

che il Dio o gli Dei a cui si rivolge esistono, per la psicologia questo

non è necessario. Non è una professione di ateismo quella che

Hillman fa, per lui anche la morte di Dio è una fantasia religiosa e

chi, come Freud, vuol fondare la psicologia a partire dalla

dimostrazione della illusorietà della religione, ne sta, di fatto,

fondando un’altra120.

Sono, quella della psicologia e della religione, due prospettive

essenzialmente diverse che non interferiscono l’una con l’altra a

meno che l’una o l’altra non decidano di invadere il campo non

proprio.

Hillman vuole evitare anche il rischio che si confonda l’immaginale

con una sorta di catalogo di simboli da antropologia culturale. Non

basta riempirsi la testa di immagini simboliche perché queste

automaticamente diano accesso al mondo immaginale:

"Quando abbiamo perduto l’immaginale, gli archetipi dapprima si

ripresentano all’anima mediante configurazioni figurative. Ma le

immagini simboliche non sono l’unico modo in cui gli archetipi possono

manifestare se stessi. Noi sopravvalutiamo lo studio dei simboli, convinti

di trovare in essi la realtà archetipica. (…) Un Io immaginale non

significa un Io colmo di immagini indotte dalla droga o colmo di

cognizioni sulle immagini."121

120 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.380.


121 J.HILLMAN, Il mito dell’analisi,Milano 1979, p.197.

88
Un’altra prospettiva che Hillman vuole evitare è quella delle, così lui

le definisce, “discipline dell’immaginazione” nate al seguito dello

sviluppo delle varie correnti della psicologia in quanto il rischio che

esse corrono è che sia sempre l’Io a dominare la scena e ad

annettersi il territorio dell’immaginazione.

"Le discipline dell’immaginazione si trasformano in strumenti per

disciplinare le immagini. Senza neppure accorgercene, assumiamo già in

partenza un atteggiamento prevenuto nei confronti del mondo nel quale

vorremmo entrare. (…) La fantasia non ha bisogno di raggiungere una

meta. Essa si sottrae alle istituzioni precise delle discipline spirituali che

impongono intensa concentrazione, scelte in funzione di mete

preordinate, impegno morale ed esercizi fortificanti. (…) Possiamo

esplorare ben poco dell’immaginale fino a che non abbiamo superato il

nostro egocentrismo, quell’Io maiuscolo che appare nel monoteismo della

coscienza (Notiamo en passant questa espressione che sarà oggetto di un

esame più approfondito nel capitolo seguente ndr)"122

La cosa più simile all’immaginale di Corbin che Hillman riesce a

trovare nel pensiero occidentale è la memoria di Agostino, un

thesaurus che custodisce le immagini e le rende disponibili

all’attività immaginativa.

Non è però Agostino in quanto tale il punto di riferimento di Hillman

122 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.88-92 passim.

89
bensì l’Agostino che la storica inglese della cultura Frances Yates

rilegge alla luce dei neoplatonici rinascimentali123 con le loro

influenze ermetiche e l’importanza data proprio alla memoria.124

Il valore dato nel Rinascimento alla memoria è stato dunque colto

da Hillman, e con la volontà di recuperarlo sottraendo la memoria

all’inconscio, in cui era stata rinchiusa soprattutto dalla psicoanalisi

di stampo freudiano.

La prima seria riemersione della memoria nel senso rinascimentale

del termine si è resa possibile infatti, secondo Hillman, proprio con

la teoria degli archetipi dell'inconscio collettivo di Jung, che ha

distinto gli stati inconsci in senso stretto dall’inconscio nel senso più

antico di memoria. Una memoria a cui può essere restituito l’antico

carattere immaginale, a patto di sbarazzarsi del concetto limite

negativo di inconscio.

Come può costruire questo ponte tra memoria personale e memoria

archetipica?

Come si sa, una delle mnemotecniche più usate nel Rinascimento

era quella di pensare la memoria come una serie di luoghi, spesso le

stanze di un palazzo, di cui le cose da ricordare costituiscono come

una sorta di arredamento.

I contenuti della memoria erano collocati in una struttura

immaginale concepita spazialmente, appunto, come insieme di

"luoghi", in modo tale che la catalogazione potesse avvenire in virtù

dell’appartenenza di più idee, eventi, oggetti a un unico significato,


123 Un punto di riferimento storico importantissimo anche per lo stesso Hillman.
124 F.YATES, L’arte della memoria, Torino 1972.

90
più spesso identificato con divinità, personaggi mitici e in alcuni casi

con costellazioni zodiacali. Questi luoghi, queste stanze della

memoria, sono riconosciuti da Hillman nella funzione di universali,

come configurazioni archetipiche entro le quali ogni contenuto

trovava la sua intrinseca intelligibilità125.

La memoria dunque dischiude molteplici luoghi in cui gli eventi

vissuti, i fenomeni di questo mondo, troveranno la loro forma 'vera',

il loro ordinamento, il valore e il significato; il loro regno mitico.

E’ a partire da questa elaborazione che Hillman compie un ulteriore

passo per adattare ai suoi scopi il mundus imaginalis di Corbin.

Questo passo egli lo compie, riprendendo un’intuizione di Casey che

in un suo saggio definisce l’immagine non come ciò che si vede

bensì come il modo in cui si vede126, l’immagine non è altro che la

prospettiva con cui si vedono le cose127. Questo, per Hillman,

consente di superare il dilemma sulla verità o meno del mondo

immaginale: se non è ciò che si vede ad essere rilevante, la

domanda se ciò che si vede sia vero o falso perde di importanza. E’

la modalità con cui si reagisce alle immagini il criterio dirimente

dell’autenticità dell’attività immaginativa.

125 SACCO D., Le trame intrecciate di Mnemosyne in Anima 2002, Bergamo 2002,
p.112.
126 E.S.CASEY, Towards an archetypal imagination in Spring 1974, p.1-32.

127 In questo riconnettendosi alla linea che parte da Husserl e passa per Sartre per cui

le immagini non sono tanto dei contenuti della coscienza quanto la condizione della
coscienza stessa: “Non ci sono, non potrebbero esserci immagini nella coscienza. Ma
l’immagine è un certo tipo di coscienza. L’immagine è un atto e non una cosa.
L’immagine è coscienza di qualche cosa.” J.P.SARTRE, L’immaginazione, Milano
2004, p.150

91
"L’innovazione di Casey, che considera l’immagine non più come

qualcosa che si vede ma come un modo di vedere (un vedere del cuore,

come dice Corbin), è la soluzione che la psicologia archetipica propone

per l’antico dilemma tra immaginazione vera e immaginazione falsa. Per

la psicologia archetipica, la distinzione dipende dalla risposta che si dà

all’immagine e da lavoro che si fa con essa. I suoi criteri si riferiscono

pertanto alla risposta: la risposta metaforica e immaginativa è migliore

di quella fantasiosa o letterale in quanto favorisce l’approfondimento e

l’elaborazione dell’immagine, le altre disperdono o inscrivono

l’immagine in un significato più semplicistico, superficiale o rigidamente

dogmatico"128

Se, seguendo Casey, per Hillman immaginale non è più un

‘qualcosa’ che si vede ma un “come” si vede, penso che, con una

formula sintetica ma non eccessivamente semplificatoria, si possa

dire che per lui immaginale non è più, come per Corbin, un

sostantivo che designa un preciso ambito ontologico, bensì un

aggettivo che definisce un approccio alle cose e vedremo che

questo passaggio dal sostantivo all’aggettivo sia un procedimento di

grande importanza per capire molte delle cose, altrimenti

paradossali , che Hillman dice129.

128 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma


1981, p.815.
129 E’ un po’ lo stesso percorso fatto da Freud che, come abbiamo visto nel cap.2,

nella seconda fase del suo pensiero sull’inconscio comincia a pensare questo non più
tanto come un “luogo” della psiche quanto piuttosto come la caratteristica, la qualità
di certi fenomeni psichici.

92
Il terzo concetto chiave nel pensiero di Hillman, forse quello che più

di ogni altro attraversa tutta la sua opera, è quello di “anima”. Egli

stesso dice:

"La metafora principale della psicologia dev’essere l’anima. Psicologia

(logos della psyche) etimologicamente significa: ragione o discorso

intelligibile dell’anima. E’ compito della psicologia trovare il logos della

psiche, dare all’anima un resoconto adeguato di se stessa. La psiche

come anima mundi, la neoplatonica anima del mondo, esiste da quando

esiste il mondo stesso, e quindi l’altro compito della psicologia è di

ascoltare la psiche che parla attraverso tutte le cose del mondo,

recuperando così il mondo come un luogo per l’anima e dell’anima"130

A questa metafora Hillman ha dedicato un intero libro, Anima

anatomia di una nozione personificata131 in cui egli si confronta in

modo serrato con Jung. La stessa impostazione tipografica del libro

dimostra questa voglia di confronto in quanto il libro sulle pagine di

sinistra riporta una lunga serie di citazioni dalle opere dello studioso

di Zurigo mentre a destra, come in un contrappunto, scorre il

discorso hillmaniano sull’anima o, come più fedelmente al suo

pensiero dovremmo dire proprio in quanto nozione personificata, su

Anima.

130 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma


1981, p.817.
131 J.HILLMAN, Anima. Anatomia di una nozione personificata (ed.originale 1985)

trad.italiana Milano 1989.

93
Se la nozione di anima ha una lunga storia nel pensiero occidentale

sia religioso che filosofico, da cui certo Hillman non può prescindere,

la derivazione immediata a cui egli si rifà è l’uso che di questo

termine fa Jung.

Jung usa questo termine in due distinte accezioni: la prima è la

metafora dell’atteggiamento che il soggetto ha verso la sua

interiorità contrapposto al termine “Persona” che indica invece

quello che esso ha verso l’esterno:

"Io designo con termine Persona l’atteggiamento verso l’esterno, il

carattere esteriore; con il termine Anima l’atteggiamento verso l’interno.

(…) Se la Persona è intellettuale, l’Anima è certamente sentimentale.

Questa caratteristica vale anche per il carattere del sesso"132

Quest’ultima frase ci introduce al secondo significato che Jung da al

termine Anima e cioè la componente femminile contenuta nella

psiche maschile133:

"Nessun uomo è tanto virile da non avere in sé nulla di femminile (…). La

rimozione dei tratti femminili (…) fa sì che queste pretese controsessuali

si accumulino nell’inconscio. L’imago della donna (anima) diventa il

ricettacolo di queste pretese, sicché l’uomo nella scelta amorosa soggiace

spesso alla tentazione di conquistare quella donna che meglio risponde al

C.G.JUNG, Tipi psicologici in Opere vol.VI, Torino 1969, p419-421 passim.


132

Con il termine “Animus” Jung designa la corrispondente caratteristica della psiche


133

femminile.

94
particolare carattere della propria femminilità inconscia; una donna,

dunque, che possa accogliere senza difficoltà la proiezione della sua

anima"134

Hillman parte da queste accezioni junghiane ma le amplia dando a

Anima un ruolo centrale in tutto il suo discorso. Infatti, mentre per

Jung Anima è uno dei molti archetipi della psiche -anche se la sua

funzione, assai importante, è quella di porsi come mediatrice fra l’Io

e la totalità di essa- per Hillman essa è l’archetipo della psiche. A

questo punto si capisce come dalla concezione più tradizionale di

anima legata alla tradizione cristiana, che la vede come il principio

della singolare ed irripetibile individualità di ogni persona, Hillman

possa passare ad una nozione de-personalizzata di Anima che sfocia

poi nella ripresa dell’idea neo-platonica e rinascimentale di Anima

mundi che abbiamo visto essere alla base degli ultimi sviluppi

dell’opera hillmaniana.

Questo passaggio infatti era stato già fatto da Jung stesso a

proposito del concetto di psiche che egli aveva sottratto al ristretto

ambito della soggettività per farne, anche grazie all’idea di

inconscio collettivo e di archetipo, un concetto “oggettivo” ed

esterno all’uomo arrivando a dichiarare che non la psiche è

nell’uomo ma è l’uomo ad essere nella psiche.

Questo porta, nell’orizzonte di Hillman, a vedere nell’anima non la

mia anima bensì un archetipo nel senso impersonale del termine,

134 C.G.JUNG, L’Io e l’inconscio in Opere vol.VII, Torino 1983, p.187-188.

95
cioè come qualcosa che il soggetto riceve dall’esterno e che, se è

personificato quasi sempre con tratti femminili, non per questo vuol

dire che esso sia anche soggettivizzato. A questo proposito Hillman

cita Jung:

"Spesso sembra preferibile parlare non tanto della mia Anima o del mio

Animus, quanto piuttosto dell’Anima e dell’Animus. In quanto archetipi,

queste figure sono entità per metà collettive e impersonali"135

Assistiamo dunque ad un paradossale processo in cui, se da un lato

le nozioni fondamentali della psiche vengono personificate, dall’altro

la psiche stessa viene de-soggettivizzata e collocata fuori dal

singolo individuo. Se non si fa questo si rischia di non cogliere

niente di questa metafora della psiche che è Anima proprio nel

momento in cui ci illudiamo di star lavorando con essa:

"La ‘mia’ Anima è un’espressione propria dell’errore personalistico.

Benché sia vero che le esperienze d’Anima portino con sé una numinosità

della persona, la sensazione di possedere un’interiorità e un’importanza

uniche ed esclusive (esagerazioni e mitologizzazioni di umori, intuizioni o

fantasie), prendere alla lettera queste esperienze, come se fossero

personali in senso letterale, situa Anima dentro il ‘me’. Ma l’esasperata

soggettività degli eventi d’Anima ‘è tutto fuorché personale’, perché è

archetipica. L’Anima è l’archetipo che sta dietro questi personalismi; di

135 C.G.JUNG Psicologia della traslazione in Opere vol.XVI, Torino 1981, p.266.

96
conseguenza quelle esperienze sono personali, ma in senso archetipico, ci

fanno sentire nel medesimo istante archetipici e personali insieme. Ma

prendere alla lettera l’archetipico scambiandolo per il personale è un

errore personalistico"136

E’ però evidente come questa paradossale dialettica tra

personificazione e oggettivizzazione della psiche rischia di restare

troppo confusa e di rimandare alla questione su quale statuto

ontologico possiamo dare a questa figura così come alle altre che

costituiscono la psiche. Ovviamente se Anima e gli altri archetipi

sono nient’altro che metafore, non si deve chiedere ad essa dei

contorni troppo precisi ma Hillman stesso nell’introduzione ad

Anima scrive:

"E’ ben vero che il termine ‘Anima’ delimita una regione problematica

della psiche, che non si presta facilmente ad alcuna sorta di esame. Ma le

difficoltà in cui ci imbattiamo a proposito di Anima nascono dai concetti

indistinti che ne abbiamo non meno che dalla sua natura indistinta (…) Si

potrebbe obiettare che questa vaghezza appunto, ben si addice ad Anima

e che mirare alla chiarezza concettuale è usare l’intelletto in un campo

che non è il suo; i nostri concetti la rispecchiano meglio quando sono

vaghi. Ai miei occhi avanzare questa fin troppo nota argomentazione

significa aver abbracciato Anima in maniera stolta ed essersi lasciati

J.HILLMAN, Anima. Anatomia di una nozione personificata, Milano 1989, p.109-


136

111.

97
trascinare da lei nel fitto del bosco."137

Se dunque Hillman stesso non vuol cedere alla vaghezza intorno ad

Anima, possiamo forse anche noi essere più esigenti verso di lui di

fronte a questa oscillazione fra la personificazione della psiche e la

sua de-soggettivizazione.

Se l’Anima è così centrale nella visione di Hillman, non c’è da

meravigliarsi se l’obiettivo della psicologia archetipica è definito,

prendendo spunto da una frase di John Keats138, “fare anima”.

Hillman nell’articolo per l’Enciclopedia del ‘900 definisce il “fare

anima” come un immaginare, un foggiare immagini che sono la

“materia prima” della psiche e questo conduce ad un vedere in

termini figurati, metaforici, un vedere gli eventi in trasparenza,

liberandoli da una comprensione letterale.

Di questo fare anima il sogno diviene il paradigma, sempre a

partire, lo si capisce, dall’idea hillmaniana di sogno che abbiamo

visto essere completamente diversa da quella classica della

psicoanalisi.

"Il sogno induce a ritenere che la psiche si interessi fondamentalmente

delle proprie immaginazioni e solo secondariamente delle esperienze

soggettive vissute dal sognatore nel mondo diurno, trasformate in

137J.HILLMAN, Anima. Anatomia di una nozione personificata, Milano 1989, p.17


138“Chiamate, vi prego, il mondo la ‘valle del fare anima’. Allora scoprirete a che
serve il mondo” J.KEATS, Lettera del 19 marzo 1819 in Lettere (cur. L.S.Mazzolani),
Torino 1945.

98
immagine, ossia in anima. Il sogno, quindi, è un ‘fare anima’ ogni

notte"139

Ci ritroviamo qui, al punto da cui eravamo partiti: se il sogno era il

paradigma del rapporto con le immagini e il “fare anima” è prima di

tutto un immaginare, non è per nulla strano che il sogno diventi

anche il paradigma di questa attività ed è la nozione di Anima che ci

ha condotto, proprio attraverso le immagini, a gettare uno sguardo

d’insieme alla “visione” hillmaniana della psiche ed è a questa

nozione di Anima che Hillman stesso riconosce la centralità nel suo

percorso, nel suo “fare anima” attraverso le sue opere:

"Guardandomi indietro, mi sembra che Anima sia stata alla base di tutto

il mio lavoro, da Emotion (1960) a Betrayal e alla favola di Psiche/Eros

come mito dell’analisi, fino al ‘fare anima’ e, di recente, all’attenzione

per l’immaginazione estetica e l’anima del mondo (anima mundi). (…) Se

dunque Anima è la mia metafora radicale, sembra psicologicamente

necessario scavare in questa componente che domina il mio pensiero,

colora il mio stile e ha offerto così benevolmente alla mia attenzione tanti

temi"140

Ci resta ora da vedere, nel capitolo che segue, come, a partire da

questo quadro d’insieme, Hillman affronti il problema dell’unità e

139 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma


1981, p.817.
140 J.HILLMAN, Anima. Anatomia di una nozione personificata, Milano 1989, p.11.

99
della molteplicità dell’anima, problema che egli ha chiamato, con

linguaggio di chiara derivazione teologica, problema del “politeismo

psicologico”

100
Cap.4 Dei e uomini

Per capire quale approccio Hillman utilizzi per affrontare la dialettica

tra unità e molteplicità nell’animo umano, useremo come traccia

una serie di articoli141, da lui dedicati a questo argomento, che si

sono snodati lungo un arco di venticinque anni e che quindi ci

permettono di vedere lo sviluppo del pensiero hillmaniano a questo

riguardo con un’ampia prospettiva cronologica.

A partire da questi articoli ci riferiremo poi al resto della produzione

hillmaniana che è ricca di spunti su questo tema.

4.1 Cosa intende Hillman con “politeismo psicologico”

Il primo articolo, che è del 1971, parte confrontandosi con una frase

di Jung che in Aion scrive:

"Lo stadio Animus-Anima corrisponde al politeismo, quello del Sé al

monoteismo"142

Se si riflette al fatto che, per Jung, il fine dello sviluppo psicologico è


141 J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica seguita da un Poscritto 1981
in D.MILLER e J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.117-154
(l’edizione originale del primo articolo è del 1971); J.HILLMAN, Uno sguardo
pagano sulla Bibbia. “Psicologia: monoteistica o politeistica venticinque anni dopo”
in Anima 1997, Bergamo 1997, p. 48-63.
142 C.G.JUNG, Aion. Ricerche sul simbolismo del Sé in Opere vol.IX/2, Torino 1982,

p.253.

101
dato dall’integrazione dell’Io nel Sé visto come ampliamento della

coscienza e fonte della creatività, si può concludere che per Jung il

monoteismo psicologico è il punto di arrivo dello sviluppo psichico.

Ed è precisamente questa constatazione che dà a Hillman lo spunto

per iniziare il suo discorso polemico nei confronti di quello che egli

chiama precisamente “monoteismo psicologico” che egli considera

una deviazione dalla primitiva ispirazione della psicologia analitica

che, proprio per le nozioni di archetipo e complesso, si presterebbe

ad una concezione di “politeismo psicologico”. Ed è questo, per

Hillman, un punto cruciale dove si sviluppa, per la psicologia, quello

che lui definisce “un conflitto ideativo fondamentale”143.

Egli constata come nella cultura occidentale ci sia, salvo rarissime

eccezioni, una generale tendenza che pone il politeismo in relazione

con stadi evolutivi del pensiero più primitivi e il monoteismo con

quelli più evoluti. Perché avviene questo?

Fedele all’approccio archetipico del suo pensiero egli rintraccia

anche in questa tendenza, che si esprime in teologia come

superiorità del monoteismo sul politeismo, in psicologia nella

superiorità dell’integrazione del Sé sulla pluralità dei frammenti

psicologici dispersi ed, in generale, sulla superiorità dell’Uno sui

Molti, in un archetipo ben preciso che è quello del Senex.

L’archetipo del Senex, che è definito da Hillman, attraverso una

serie di aggettivi, quali lento, freddo, plumbeo, cronico (non nel

senso medico del termine ma nel senso etimologico), è visto in


143 J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica in D.MILLER e
J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.118.

102
strettissima relazione con il monoteismo che dipinge Dio con molti

tratti attribuibili a questo archetipo:

“Nella nostra cultura, inoltre, l’immagine prevalente di Dio è quella di

un Dio senex – onnisciente, onnipotente, eterno, assiso e barbuto, che

governa mediante principi astratti di giustizia, moralità e ordine, e una

fede nelle parole che però non si esplicita nel linguaggio; benevolo ma

iroso quando se ne ostacola il volere, distante dal femminile (celibe) e

dall’aspetto sessuale della creazione; superno, lassù, col suo mondo

geometrico di stelle e pianeti, nella notte fredda e lontana dei numeri –,

un Dio immaginato attraverso l’archetipo del Senex: il Dio eccelso della

nostra cultura è un Dio senex, e noi siamo creati a sua immagine, con una

coscienza che riflette tale struttura.”144

E se, come Hillman fa a più riprese, il dio che viene associato

all’archetipo del Senex è Crono o Saturno, in questa prospettiva

archetipica nessuna sorpresa se il Dio del monoteismo, tenti di

“divorare” gli altri déi. E se la nostra società è la società che già dal

XIX secolo ha proclamato a più riprese la morte di Dio, non per

questo il Senex è meno attivo nella nostra coscienza:

"Benché la teologia della nostra cultura renda testimonianza della morte

del Dio senex col proclamare riforme e rendere meno vincolanti i

J.HILLMAN, Malinconia e una soluzione rinascimentale in J.HILLMAN, Trame


144

perdute, Milano 1985, p.256-257.

103
principi, una potenza arcehtipica non ‘muore’, nel senso di essere

svuotata, inoperante, inerte. Essa permane nel regno immaginale,

attraverso il quale influenza le nostre fantasie e le nostre emozioni

(…)"145

Ed un ambito in cui questa permanenza del Senex è per Hillman

particolarmente evidente è proprio la psicologia con i suoi miti di

integrazione dell’Io, di unificazione della personalità, con il suo

“ossessivo” monoteismo psicologico.

A questa tendenza egli dà il nome di “indirizzo protestante” della

psicologia. Come si manifesta?

"Attualmente lo scorgiamo nel rilievo attribuito all’amore quale panacea,

che non fa differenza fra i vari volti dell’amore né tanto meno, è

consapevole della tradizione nei confronti delle sue costellazioni; lo

scorgiamo nel merito da attribuire al duro lavoro su se stessi; nella

tendenza in terapia ad inculcare un ‘io forte’ mediante la nobilitazione

della scelta, della responsabilità, dell’impegno e la conseguente

manipolazione della colpa; nella fiducia data alla semplicità,

all’ingenuità, all’emozione di gruppo; nel preconcetto anti-intellettuale,

anti-logos, per cui basta la fede – pistis – nell’inconscio o nel processo,

oppure, come rovescio della pistis, nell’asettico obiettivismo scientista

mescolato alle preoccupazioni tipiche del capitalismo – pagamenti,

J.HILLMAN, Malinconia e una soluzione rinascimentale in J.HILLMAN, Trame


145

perdute, Milano 1985, p.257.

104
contratti, clienti, leggi, assicurazioni –; nel rilievo dato alla rivelazione

(sia che provenga dal sogno, dall’oracolo, dall’immaginazione, dalla

psicosi, dall’analista o da Jung): un peculiare connubio fra religiosità

introversa e divulgazione missionaria.

Lo possiamo parimenti riconoscere in quel modello unico di sofferenza

psicologica per il quale il valore della morte è dislocato nella rinascita,

un processo lineare mediante il quale si ottiene una condizione migliore

in cambio di una peggiore."146

Questa lunga citazione ci restituisce, in negativo, un tratto tipico del

pensiero psicologico odierno che è possibile riconoscere nelle sue

manifestazioni sia accademiche che divulgative. Qual è, per Hillman,

il prezzo che si paga per questa visione monoteistica della psiche?

"Quando il nostro modello di individuazione è governato dalla psicologia

monoteistica nel suo indirizzo protestante, ogni fantasia diventa

prigioniera in nome di Cristo147: ogni fantasia non può che trovare

significato se non in termini di unica via, quella di un pellegrino nel suo

procedere verso l’integrazione. (…) Un tempo i nemici della psiche erano

la scienza e poi il pragmatismo clinico, oggi la minaccia alla libertà della

146 J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica in D.MILLER e


J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.133-134.
147 Si parafrasa qui una frase di Gregorio di Nazianzo che nella sua Orazione XLIII

parla di far prigioniero in nome di Cristo ogni pensiero intendendo l’opera di


cristianizzazione della cultura pagana nei suoi elementi più elevati e più facilmente
integrabili nel cristianesimo. Anche qui, come altrove, il bersaglio polemico di
Hillman non è Cristo in quanto figura storica bensì la prospettiva di pensiero di cui
egli costituirebbe l’archetipo.

105
psiche di formare simboli non è altro che il cristianesimo in declino che

torna a reclamare l’anima sotto le vesti di una teologia del sé."148

A questa tendenza non sfugge neanche Jung, per quanto la sua

psicologia si presti, e Hillman ne è l’esempio lampante, ad

un’interpretazione politeistica. Anche lui, ponendo l’accento sulla

totalità, si pone nella prospettiva di un monoteismo del Sé e di una

psicologia che del paradigma cristiano è “vittima”. Se Jung nel corso

della sua vita ebbe forti scontri con i teologi che gli rimproveravano

di essere un eretico rispetto alla fede cristiana149, la sua eresia, per

Hillman, fu un’estensione ed una revisione del dogma cristiano150

ma non una negazione del monoteismo di base.

Non c’è quindi, in una prospettiva psicologica di tipo monoteistico,

spazio per la molteplicità dei fenomeni psichici e tutto quanto è

bloccato dal filtro dell’idea psicologica dominante, quale essa sia, è

scartato come patologia.

Ma non solo, una psicologia monoteistica è essa stessa produttrice

di patologia perché il pluralismo delle fantasie, negato dall’univocità

dell’approccio monoteistico, secondo il classico schema freudiano

del ritorno del rimosso, riappare, patologizzato, sotto forma di

proiezioni che, ritirate dal mondo e rinchiuse nella gabbia dell’unico

Io, possono arrivare ad una frantumazione di esso sotto forma di

148 J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica in D.MILLER e


J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.135.
149 Così anche il pastore protestante che ne tenne l’elogio funebre.

150 Per esempio attraverso l’integrazione dell’Ombra e del femminile nella simbolica

cristiana di Dio.

106
schizofrenia151.

Per Hillman invece, la prospettiva politeistica è l’unica capace di

rendere ragione della molteplicità dei fenomeni psichici:

"Dando a ciascun complesso uno sfondo divino di personaggi e potenze,

la psicologia politeistica troverebbe spazio per ogni scintilla. Non

mirerebbe a raccoglierle in una unità quanto ad integrare ogni

frammento secondo il suo proprio principio, attribuendo a ciascun Dio

quel che gli è dovuto su quella porzione di coscienza – su quel sintomo,

su quel complesso, su quella fantasia – che richiede uno sfondo

archetipico. Accetterebbe la molteplicità di voci la Babele dell’anima e

dell’animus, senza insistere a volerle unificare in una sola figura, ed

accetterebbe anche il processo di dissoluzione nella diversità

attribuendogli un valore pari a quello del processo di coagulazione

nell’unità. Gli Dei e le Dee pagane verrebbero restaurati nel loro

dominio psicologico."152

E’ quindi una visione policentrica quella che la psicologia

“politeistica” propone, una visione dove ogni “voce” trova il suo

spazio per essere ascoltata. Questa visione ha precise conseguenze

antropologiche e cliniche che affronteremo più tardi ma prima

vogliamo rispondere ad una domanda che Hillman stesso sente

151 J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica in D.MILLER e


J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.127.
152 J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica in D.MILLER e

J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.123-124.

107
risuonare: è sua intenzione restaurare, in qualche modo, una

religione politeistica, si inscrive anche il suo nel novero dei vari

tentativi, filosofici, artistici, letterari, di ritornare alla Grecia pagana

come ad una sorta di paradiso perduto?

Hillman ha ben chiara la possibilità che il suo discorso venga

equivocato e considerato come un proclama di tipo religioso; d’altra

parte sia la tradizione freudiana (con il suo ateismo esplicito ma allo

stesso tempo con le sue forti influenze ebraiche) che quella

junghiana che, pur in maniera eterodossa, si muove nell’ambito del

cristianesimo sono state considerate prese di posizione anche

religiose e la teologia del ‘900 è piena di attacchi al pensiero

psicologico o, al contrario, di tentativi di integrarlo in una visione

religiosa.

Quale posizione ha Hillman al riguardo?

Questa domanda così spontanea ci permette già di entrare nel vivo

delle problematiche riguardo alle tensione fra monoteismo e

politeismo perché la risposta di Hillman vorrebbe già essere, almeno

così mi sembra, un esempio di pensiero politeistico.

Nell’articolo del 1971, Hillman fa un’affermazione molto precisa:

"Chiarisco subito che una psicologia politeistica è anche religiosa"153

affermazione che, giungendo in un articolo in cui spesso si critica la

contaminazione psicologica delle religioni e quella religiosa della


153J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica in D.MILLER e
J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.128.

108
psicologia, non può non suonare curiosa.

Essa nell’articolo resta così senza ulteriore spiegazione ma,

aiutandoci con altri lavori di Hillman, possiamo tentare di chiarirne il

senso.

In Re-visione della psicologia del 1975, ampliamento di una serie di

lezioni del 1972, c’è un intero paragrafo che è destinato a chiarire i

rapporti fra psicologia politeistica e religione.

In questo testo egli critica l’approccio dualistico alla relazione fra

religione e psicologia, l’approccio che intima di essere o psicologici o

religiosi. Per Hillman anche questo approccio, per quanto sia

profondo il solco che si traccia tra i due termini, altro non è che il

monoteismo che si ripresenta come schema di pensiero:

"Una scelta tra alternative già presuppone un dualismo, che

archetipicamente porta con sé la spada che divide. (…) La fantasia del

dualismo in ultima istanza si riferisce al monismo ed è perciò assai

diversa da quella del politeismo, Le dualità o sono facce diverse della

stessa cosa oppure presuppongono un’unità come loro precondizione o

meta ultima (identità degli opposti).Persino un dualismo radicalmente

irriconciliabile è solo una lotta tra Uni paralleli. Monismo e dualismo

condividono il medesimo cosmo."154

Se nel rapporto tra psicologia e religione non c’è alternativa, vista

come un “sintomo monoteistico”, quale può essere la prospettiva di

154 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.290-291.

109
relazione fra questi due ambiti del sapere?

"Finché domina la prospettiva archetipica dell’unità e dell’ordine

sistematico, vi saranno sempre tentativi di riconciliazione tra il

monoteismo cristiano e il politeismo pagano, fra teologia e psicologia.

Ma la prospettiva politeistica non richiede nessuna ‘conciliazione’ poiché

in essa c’è spazio per tutto fin dall’inizio."155

E questo spazio è, per Hillman, l’anima come luogo dell’immaginare

e che produce déi buoni sia per la religione che per la psicologia:

"Poiché il movimento della nostra psicologizzazione archetipica è sempre

diretto verso i miti e gli Dei, la nostra psicologizzazione può sembrare in

effetti una teologizzazione, e questo libro un’opera tanto di teologia

quanto di psicologia. In un certo senso è così, e così deve essere, perché

la fusione di psicologia e religione, più che la confluenza di due correnti,

è il risultato della loro comune origine: l’anima. E’ la psiche che tiene

legate l’una all’altra psicologia e religione. (…) Se manteniamo il fare

anima al centro della nostra visione, non possiamo non riconoscere che

gli Dei nell’anima richiedono religione in psicologia. Ma la religione

richiesta dalla psicologia deve riflettere lo stato dell’anima così com’è,

autentica realtà psichica. Ciò significa politeismo perché l’intrinseca

molteplicità dell’anima esige una fantasia teologica ugualmente

155 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.292.

110
differenziata."156

Ma se è questa la relazione tra religione e psicologia, se c’è questa

interpenetrazione, questa reciproca esigenza di integrazione a

partire dalla realtà immaginale dell’anima, quale distinzione ci può

essere fra di loro? Oppure ci ritroviamo anche qui in presenza,

contro gli stessi presupposti di Hillman, di un’unità superiore che

integra ciò solo apparentemente era diverso?

Per Hillman, le differenze fra religione e psicologia ci sono e il

bisogno che esse hanno l’una dell’altra non le elimina.

La prima e la più fondamentale di queste differenze è la fede, la

religione crede ai propri dei e si comporta di conseguenza. E’ per

questo che egli qualifica la religione con la modalità del

“letteralismo”, e cioè l’incapacità di cogliere l’aspetto metaforico di

una fantasia, letteralizzandola attraverso il religioso o, in versione

laica, l’ideologico.

Nella psicologia archetipica, invece, gli Dei sono immaginati, sono

formulati cioè come metafore per modalità di esperienza, non c’è

nessun bisogno di credervi157.

Anche qui, come abbiamo già visto nel capitolo precedente a

riguardo dell’immaginale, il discorso non è tanto su enti, di cui posso

affermare o negare l’esistenza, bensì su modalità, su prospettive:

"Il politeismo psicologico non riguarda tanto il culto quanto gli


156 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.286.
157 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.289.

111
atteggiamenti, il modo di vedere e di dare una collocazione alle cose. La

psicologia non crede agli dei né si rivolge ad essi direttamente. Essi sono

più aggettivali che sostantivali; l’esperienza politeistica trova che

l’esistenza è qualificata dalle presenze archetipiche, e riconosce in queste

qualificazioni i volti degli Dei."158

In quest’ottica, in cui gli Dei sono non entità ma prospettive,

nascono anche le altre differenze fra religione e psicologia

politeistica. La prima si avvicina agli Dei attraverso “il rito, la

preghiera, il culto, il sacrificio, il credo”159, la seconda attraverso

procedimenti suoi propri, la “personizzazione160”, la

“patologizzazione161”, la “psicologizzazione162”.

Come si può vedere, la differenza tra religione e psicologia

archetipica, al di là di un linguaggio simile e di finalità spesso vicine,

è enorme. In un certo senso possiamo dire che la religione, anche se

politeistica nel suo manifestarsi, resta però monoteistica nella sua

158 J.HILLMAN, Poscritto 1981 in D.MILLER e J.HILLMAN, Il nuovo politeismo,


Milano 1983, p.144.
159 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.289.

160 che Hillman definisce come “lo spontaneo avere esperienza, avere visione e

parlare delle configurazioni dell’esistenza come presenze psichiche” (J.HILLMAN,


Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.47) e che egli distingue accuratamente
dalla “personificazione” che per lui si limita ad essere una specie di psicologismo
quasi letterario incapace di prendere sul serio l’autonomia degli Dei creati dal
soggetto.
161 “Iniziamo perciò la nostra revisione della patologizzazione considerandola come

una maniera di raccontare, come un modo in cui la psiche parla a se stessa. Vediamola
come un linguaggio” (J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.154).
162 “La psicologizzazione sospetta la presenza di un’intenzione interiore, non evidente;

ricerca un meccanismo nascosto, un fantasma dentro la macchina, una radice


etimologica, qualcosa di più di quello che appare agli occhi, oppure vede con occhi
diversi. C’è psicologizzazione ogni volta che ci muoviamo verso un livello più
profondo.” (J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.236).

112
prospettiva in quanto non può fare a meno di letteralizzare, attività

questa prettamente monoteistica, gli Dei in cui crede.

Siamo dunque, fra religione e psicologia, su due piani prospettici

completamente diversi.

Ma questa diversità non impedisce di percepire in maniera molto

chiara come, in Hillman, la prospettiva politeistica psicologica sia

valutata in maniera “superiore” a quella religiosa, monoteistica o

politeistica che sia, ed anche se la valutazione sul meglio e sul

peggio sia da lui definita come un’altra tipica manifestazione

monoteistica, neanche lui sembra sfuggire a questa trappola.

Ed è per questo che, a venticinque anni di distanza da quel primo

articolo, egli sente il bisogno di ritornare sull’argomento con una

certa dose di mea culpa per questo monoteismo latente al suo

attacco al monoteismo stesso:

"Quello che non avevo riconosciuto allora, e che adesso comincio a

capire, è che mentre leggevo e interpretavo la posizione monoteistica,

una visione monoteistica guidava il mio stesso sguardo. (…) Agivo da

monoteista nel momento stesso in cui difendevo il politeismo. Prendevo la

Bibbia – l’Ebraismo, il Cristianesimo – con quello stesso letteralismo di

cui l’accusavo."163

E’ a partire da questa autocritica che poi dichiara quale sia

l’obiettivo di questo scritto:


J.HILLMAN, Uno sguardo pagano sulla Bibbia. “Psicologia: monoteistica o
163

politeistica venticinque anni dopo” in Anima 1997, Bergamo 1997, p.50.

113
"Vorrei invece dimostrare come sia possibile rivedere, revisionare

perfino, i racconti biblici fondamentali, in modo tale che il nostro metodo

di lettura, e il significato che emerge dalla lettura, si accordino

felicemente con un modo di sentire pagano. Per ‘modo di sentire pagano’

intendo uno stile che accolga il mito, la personizzazione, la fantasia , la

complessità, e soprattutto l’humour, invece dell’unicità di significato che

porta al dogma."164

Hillman vede dunque più chiaramente il suo bersaglio non più nel

monoteismo in quanto tale o nelle sue incarnazioni storiche bensì in

quella che è la caratteristica principale del monoteismo che è, come

abbiamo già detto sopra, il letteralismo. Ed egli vede un momento

preciso in cui il letteralismo si impossessa della religione ed il

monoteismo come forma religiosa diventa quel monoteismo come

rigidità del pensiero ed univocità dei significati che Hillman attacca:

"La malattia del letteralismo viene con lo scrivere quando cioè le

immagini vengono scolpite (…) I miti non hanno una ‘versione

autorizzata’, come è definita, invece, quella della principale Bibbia

protestante nel mondo di lingua inglese. La migliore autorizzazione dei

miti è l’autorità di chi li racconta. (…) Il mito consente molte versioni; il

mito contiene molte versioni; il mito richiede molte versioni. Niente

J.HILLMAN, Uno sguardo pagano sulla Bibbia. “Psicologia: monoteistica o


164

politeistica venticinque anni dopo” in Anima 1997, Bergamo 1997, p.50.

114
immagini scolpite, politeismo."165

Sembrerebbe qui di essere in presenza della platonica polemica

contro la parola scritta ma esattamente speculari, rispetto a quelle

di Platone, sono le motivazioni che portano Hillman ad andare

contro il depositarsi nei libri scritti dei miti fondatori delle religioni.

Platone infatti, a partire dall’inanità della parola scritta se non c’è

chi la interpreti, la definisce come qualcosa che si fa per gioco e su

soggetti non seri, mentre ciò che è veramente importante lo si

affida alla parola detta che è l’unica veramente capace di portare la

verità166.

Per Hillman è l’esatto contrario, il mettere per scritto le storie

mitiche le irrigidisce in una “versione autorizzata” e ne blocca

quell’interpretazione ironica che sola le metterebbe al riparo dal

letteralismo.

Ed è proprio l’ironia che Hillman propone a rimedio di questa

malattia, di questo peccato originale e cioè dalla caduta che,

facendo precipitare l’anima dal mondo della metafora immaginosa,

la sprofonda nel letteralismo167. E questa immagine della malattia

non è scelta a caso; Hillman infatti riporta a sostegno di questa tesi

alcuni brani del diario di un malato di mente, diari scritti durante il

suo internamento in manicomio nella Londra degli anni ’30 che

165 J.HILLMAN, Uno sguardo pagano sulla Bibbia. “Psicologia: monoteistica o


politeistica venticinque anni dopo” in Anima 1997, Bergamo 1997, p.50.
166 Fedro, 275D-278E.

167 J.HILLMAN, Uno sguardo pagano sulla Bibbia. “Psicologia: monoteistica o

politeistica venticinque anni dopo” in Anima 1997, Bergamo 1997, p.59.

115
sembrano essere segni di una sensibilità hillmaniana ante litteram:

"Ho il sospetto che molte idee deliranti (…) dalle quali sono oppressi i

malati di mente, consistano nello scambiare una forma di discorso

figurata o poetica per un discorso letterale"168

Val la pena di ricordare come il letteralismo e cioè l’incapacità di

cogliere il simbolo come simbolo sia vista come un segno di psicosi

anche da altri autori di orientamento psicoanalitico quali Melanie

Klein e Wilfred Bion.169

Se l’ironia, che Hillman fa simboleggiare dal riso di Sara, moglie di

Abramo, quando sente Dio annunciare al marito che avranno,

seppur vecchi, un figlio170, è la medicina del letteralismo, il

pensatore americano indica anche un altro aspetto che una

comprensione politeistica non può non tenere in conto e cioè

l’attenzione alla particolarità e la rinuncia all’universalità che è

significata dal radicamento degli eventi umani ai luoghi particolari

che ne sono il teatro.

La logica monoteistica si trova più a suo agio in un cosmo spazio-

temporale dove il tessuto di base è il solito ovunque, dove tutte le

differenze sono differenze quantitative, di coordinate nello stesso

spazio e nello stesso tempo, dove sono soltanto le qualità primarie e


168 G.BATESON, Perceval’s Narrative. A Patient’s Account of His Psychosis , 1830-
1832, New York 1974 citato in J.HILLMAN, Uno sguardo pagano sulla Bibbia.
“Psicologia: monoteistica o politeistica venticinque anni dopo” in Anima 1997,
Bergamo 1997, p.58.
169 cfr. a questo proposito H.SEGAL, Sogno, fantasia e arte, Milano 1991.

170 Genesi 18,9-15.

116
non quelle secondarie ad essere importanti.

La logica politeistica, se questa espressione nel quadro hillmaniano

non fosse probabilmente un ossimoro, è invece la logica delle

qualità secondarie, dei colori, degli odori, dei sapori, di tutto quello

che la scienza ha respinto dal mondo delle cose per rinchiuderlo

nella testa del soggetto che percepisce. Questo distanziarsi

fortemente polemico di Hillman dal processo attraverso cui la

ragione dell’età moderna si affrancò dalla fisica qualitativa della

scolastica al prezzo di escludere tutto ciò che nel nuovo paradigma

quantitativo non trovava spazio, mi sembra che lo collochi nella più

ampio corrente che nella seconda metà del ‘900 si è dedicata al

recupero di ciò che la razionalità moderna aveva messo ai margini,

facendo spesso diventare questi “residui” chiave di lettura

privilegiata, ed a volte esclusiva, del reale.

E’ qui, in questa critica della razionalità moderna, dove, in modo

assai naturale, Hillman ricongiunge la sua scelta del politeismo e

quindi della divinità particolare di ciascun luogo con la sua scelta di

portare il proprio discorso psicologico nel mondo lacerato dalla

guerra ed avvelenato dall’inquinamento, quel mondo che di questa

razionalità a molti sembra l’esito obbligato, quella scelta che egli

stesso ha designato con la frase-slogan: “dallo specchio alla

finestra”.171

J.HILLMAN, Uno sguardo pagano sulla Bibbia. “Psicologia: monoteistica o


171

politeistica venticinque anni dopo” in Anima 1997, Bergamo 1997, p.60-63.

117
4.2 Alcune riflessioni critiche

Dobbiamo ora provare a cogliere quali siano le conseguenze della

scelta decisa che Hillman fa del politeismo psicologico, del suo porsi,

nella dialettica fra unità e molteplicità, decisamente dalla parte di

quest’ultima.

Lo facciamo usando come cartina di tornasole l’atteggiamento verso

la patologia e questo per due ragioni: la prima è più teoretica ed è la

costante metodologica di ogni psicologia di stampo non empirista e

cioè che la psiche sana è praticamente opaca all’indagine e che è la

psiche che patologizza quella che può essere presa ad oggetto di

analisi. La seconda, più pratica, è che queste idee di Hillman sono

nate a partire dalla pratica clinica e, anche se poi egli le ampliate,

come del resto hanno fatto prima di lui anche altri grandi psicologi,

a Weltanschaaung, credo che nella pratica clinica debbano

comunque trovare un terreno privilegiato di verifica.

Abbiamo visto sopra, come uno dei procedimenti tipici della

psicologia per Hillman sia la patologizzazione e cioè, rifiutando

quella che egli chiama la “fantasia medicalistica” che vede la

malattia come un’erba maligna da sradicare, vi vede invece un

modo, forse quello privilegiato, del discorso dell’anima.

Questo approccio alla psicopatologia lo si può ritrovare già in Jung

che vede nei sintomi un modo attraverso il quale l’anima esprime

aspetti che non sarebbero altrimenti riconosciuti e paragona i

sintomi stessi ad un rizoma che rivela soltanto una piccola parte di

118
sé (il sintomo) ma la cui completa realtà è nascosta e va rivelata

attraverso l’analisi.

Egli ancora distingue fra sintomi che hanno un valore prospettico e

simbolico da quelli che non hanno questo valore. E’ al terapeuta

riconoscere gli uni dagli altri perché il malato, turbato dalla

formazione sintomatica, non ne sarebbe capace.172

In Hillman però questo residuo approccio terapeutico si dissolve: la

patologia diventa non solo accettabile ma addirittura necessaria e

per questo la fantasia terapeutica deve essere abbandonata.

Hillman a questo riguardo è lapidario:

"Non c’è una cura; c’è invece una rivalutazione."173

Hillman avvicina questa sua prospettiva alla anti-psichiatria di Laing

e di Szasz, e noi in Italia potremmo aggiungere Basaglia, la quale

contestava, negli anni ’70 del XX secolo la distinzione fra anormale

e normale con il conseguente confinamento dell’anormale nei luoghi

di cura. A lato di alcune somiglianze ci sono però anche delle

notevoli differenze, la prima delle quali è proprio nell’atteggiamento

verso la malattia. Mentre, infatti, l’anti-psichiatria nega che esista

una patologia e vuol considerare normale l’anormale, per Hillman

essa esiste ed è proprio anormalità, anormale e patologico essendo

pure l’atteggiamento di chi, come Laing e Szasz, vorrebbe renderla


172 G.MAFFEI, Le nevrosi in A.CAROTENUTO a cura di, Trattato di Psicologia
Analitica, II, Torino 1992, p.333-334.
173 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma

1981, p.823.

119
normale. Ma la realtà dell’anormalità non intacca il punto centrale

della prospettiva hillmaniana e cioè la necessità della psicopatologia

per la psiche; per esprimerci in modo paradossale ma

sostanzialmente esatto, la normalità psicologica è data dalla

presenza della patologia in quanto un’anima che non patologizzi in

qualche maniera sarebbe un’anima che non immagina e che ha

reciso il proprio legame con gli Dei che si esprimono essenzialmente

nelle psicopatologie.

Il paradigma di questo atteggiamento è dato dalla depressione vista

come una discesa verso il basso per entrare in contatto con le

dimensioni della disgregazione insite nell’esistenza umana e quindi

come una versione psicologica delle meditazioni filosofiche e

religiose sulla morte.

Questa dimensione fa paura all’Io eroico della cultura occidentale,

così catturato dai miti della crescita nonché al monoteismo cristiano

che legge nella morte non la disgregazione ma la porta d’ingresso,

per mezzo della risurrezione, ad una vita incorruttibile.

Per Hillman invece

"E' attraverso la depressione che entriamo nelle profondità e nelle

profondità troviamo l’anima. La depressione è essenziale al senso tragico

della vita. Essa inumidisce l’anima arida e asciuga quella troppo umida.

Dà rifugio, confini, centro, gravità, peso e umile impotenza. Essa tien

vivo il ricordo della morte. La vera rivoluzione comincia nell’individuo

che sa essere fedele alla propria depressione. Che non si dibatte per

120
uscirne, preso in un alternarsi di speranza e disperazione, né la sopporta

pazientemente finche la marea non recede, né la teologizza, ma che

scopre invece la coscienza e la profondità di cui essa ha bisogno."174

Ed ancora, parlando della dissociazione di personalità, da cui siamo

partiti nella nostra indagine sulla psicologia ed il suo approccio al

problema dell’uno e del molteplice nell’animo umano, Hillman dice:

"La personalità multipla è l’umanità nella sua condizione naturale. In

altre culture queste personalità multiple hanno nomi, collocazioni,

energie, funzioni, voci, forme animali e perfino formulazioni teoretiche

come specie diverse di anima. Nella nostra cultura la molteplicità della

personalità è considerata o come un’aberrazione psichiatrica o, nel caso

migliore, come frutto di introiezioni non integrate o personalità parziali.

La paura psichiatrica della personalità multipla rivela l’identificazione

della personalità con una funzione parziale l’Io, che, a sua volta, è la

‘messa in scena’ psicologica di una tradizione bimillenaria, che innalza

l’unità sopra la molteplicità. Per la psicologia archetipica, la coscienza

viene data insieme con le varie personalità ‘parziali’"175

Da questo presupposto si propone poi una via “terapeutica”:

"Mentre quasi tutte le psicologie tentano di mettere al bando queste

J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.179-180 .


174

175J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma


1981, p.825.

121
personalità considerandole ‘disgregatrici’, la psicologia archetipica

vuole portare le figure non eroiche a una maggiore consapevolezza e

considera questa tensione con la sfera non egoica, che relativizza la

sicurezza dell’io e l’unicità della sua prospettiva come uno dei più

importanti compiti del ‘fare anima’"176

Dovendo valutare, come abbiamo detto sopra, a partire dalle

problematiche cliniche, la visione di Hillman dobbiamo prima di

tutto coglierne le valenze positive:

"Con Hillman assistiamo, forse, a uno dei più arditi tentativi di

destrutturazione della moderna psicologia dinamica alla ricerca di

origini perdute. In questo autore non si rinviene uno specifico

programma terapeutico né un tentativo sistematico di comprensione

genetica delle psicosi; dall’insieme delle sue opere si ricava piuttosto una

visione generale della psicoterapia, che sembrerebbe adattarsi alla

cosiddetta sistematica asistematicità di Jung. Questo modo di intendere la

psicologia sembra consentire la possibilità di immergersi senza

pregiudizi scientifici nel mondo infero, dionisiaco, e panico (nel senso del

Pan di Hillman) inteso come metafora del mondo psicotico"177

Il guadagno di Hillman sembra dunque, prima di tutto, essere una

176 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma


1981, p.826.
177 P.BERTOLETTI, Psicosi in A.CAROTENUTO a cura di, Trattato di Psicologia

Analitica, II, Torino 1992, p.370.

122
sorta di epoché, un liberare la mente dello psicologo da tutto quello

che potrebbe essere pregiudizio di fronte alla patologia, una

capacità di lasciar parlare il sintomo, di lasciare che l’anima parli,

attraverso la sua sofferenza di se stessa. Questo è innegabile ma…e

poi? Quale modello di terapia si può proporre alla persona che vive

la sofferenza che il sintomo porta con sé?

Come abbiamo visto sopra, già Jung distingueva fra sintomi

simbolici e non, e nella sua opera troviamo anche espressa

l’opinione che la funzione simbolica del sintomo non sia una

caratteristica del sintomo in sé ma che, piuttosto, essa sia data

dall’atteggiamento del paziente verso di esso, che può essere non

solo nemico della persona ma anche amico. Ma allo stesso tempo,

nell’idea di individuazione, e quindi nell’integrazione dell’Io nel Sé

come la totalità delle possibilità psicologiche (e dunque anche delle

possibilità patologiche), egli propone una via che si può discutere

ma che è però possibile praticare, aggiustando il tiro a misura che il

cammino procede. Hillman invece, non propone niente di tutto

questo.

La “ri-valutazione” della patologia attraverso l’accettazione della

sua necessità per la psiche suona un po’ come una sorta di amor

fati psicologico e questo ci induce a vedere in Hillman un legame

ideale con Nietzsche, legame che forse eredita proprio da Jung che

su Nietzsche tenne addirittura dei seminari.178

Questo legame fra l’opera di Nietzsche e quella di Hillman non è


178C.G.JUNG, Nietzsche’s Zarathustra. Notes on the Seminar Given in 1934-1939,
Princeton 1988.

123
passato inosservato; scrive infatti Romano Màdera in una lettera a

Hillman e pubblicata, insieme a molte altre, nel volume “Caro

Hillman”179:

"Queste relazioni tra spirito e anima mi sembrano ricalcare il

neonietzscheanesimo di tanto neopaganesimo, riletto e psichicizzato con

Jung. (…) Non a caso Nietzsche, e molti dopo di lui, parlano di una

Grecia arcaica, fatta rimontare all’arte e al pensiero presocratico,

dovendo poi assegnare Platone e Aristotele, e lo stesso Socrate, ai

precursori della successiva volgarizzazione cristiana"180

E in effetti se si legge Nietzsche e le sue descrizioni dell’uomo nuovo

non poche sono le assonanze che troviamo con Hillman:

"Una voglia e una forza di autodeterminazione, una libertà della volontà

in presenza delle quali uno spirito prende commiato da ogni fede e da

ogni desiderio di certezza, abituato com’è a tenersi a funi e possibilità

lievi, continuando a danzare anche sull’orlo dell’abisso. Un tale spirito

sarebbe lo spirito libero per excellence."181

Alla volontà nietzscheana Hillman sostituisce l’anima e la psiche ma

lo schema sembra essere assai simile come, però, assai simili sono

179 AA.VV., Caro Hillman…, Torino 2004.


180 R.MADERA, Lo spirito dell’ecumene in AA.VV., Caro Hillman…, Torino 2004,
p.123.
181 F.NIETZSCHE, La gaia scienza §347.

124
anche gli esiti quando questo atteggiamento voglia cessare di

essere proclama da farsi ore rotundo per divenire pratica quotidiana

di vita.

Infatti, come il modello nietzscheano del “Divieni ciò che sei”, di una

morale al di là del bene e del male, di una morale essenzialmente

estetica che è per i forti e non per i deboli, anche la strada della

terapia secondo la prospettiva di Hillman182 sembra essere una

strada per pochi, quei pochi che possono verso i loro sintomi nutrire

l’atteggiamento indicato da Hillman:

"Le cose che possiamo portare agli Dei oggi sono i nostri sintomi, nel

senso che quello che dedichiamo agli Dei diviene in virtù di ciò sacro.

Concepiti come sacrificio, i sintomi assumono nuovi significati e ricevono

anima."

Ma, ripeto, quanti potrebbero sostenere un percorso simile senza

esserne schiacciati? Solo chi riesce ad assommare in sé le

caratteristiche che Hillman attribuisce alla personalità “sana” (le

virgolette sono dello stesso Hillman):

“La personalità ‘sana’ o ‘matura’ o ‘ideale’ dovrà dunque prendere atto

della situazione ambigua, teatralmente mascherata. L’ironia, l’umorismo,

la compassione saranno i suoi contrassegni, poiché queste caratteristiche

182Non a caso egli varie volte rileva come l’etimologia di therapeia sia prima di tutto
qualcosa di legato al culto, all’attenzione per qualcuno ed alla cura (non medica) che
se ne ha.

125
rivelano una consapevolezza della molteplicità – di significati, di destini,

di intenzioni – che un determinato soggetto incarna in un determinato

momento. La personalità sana, quindi (…) è piuttosto sul modello

dell’uomo artistico, per il quale immaginare è uno stile di vita e le cui

reazioni sono nel contempo riflessive, animali, immediate. Inutile dire che

questo modello non va inteso letteralmente né considerato esclusivo. Esso

serve a sottolineare certi valori della personalità ai quali la psicologia

archetipica dà importanza: la finezza, la complessità e la profondità

impersonale, la fluidità animale, vitale, che non tiene conto dei concetti di

scelta e decisione, la moralità come dedizione alla plasmazione

dell’anima, la sensibilità alle continuità tradizionali, l’importanza della

patologizzazione e del ‘vivere al limite’, la sensibilità estetica”183

Una strada in ripida salita (o per esprimerci con Hillman e la sua

topica della discesa al mondo infero, in vertiginosa discesa) che non

può non fare una forte selezione fra quanti vi si avventurano.

4.3 Una domanda finale

C’è un ultima domanda che, da persona che un po’ di teologia la

mastica, si è tentati di rivolgere a James Hillman, spero non solo per

l’istintiva reazione verso un pensatore che, per quanto si voglia

astenere, come dice spesso, dal teologizzare, pure di incursioni nel


J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma
183

1981, p.826.

126
campo teologico ne fa molte.

Hillman dice della psicologia archetipica:

"A differenza delle più importanti psicologie del XX secolo che hanno le

loro fonti – la lingua tedesca e la Weltanschaaung monoteistica ebraico-

protestante – nell’Europa del Nord, la psicologia archetipica ha le sue

origini nel Sud. (…) Il ‘Sud’ – oltre a essere un luogo geografico,

culturale, etnico – è anche un luogo simbolico. E’ la cultura

mediterranea, le sue immagini e le fonti testuali, la sua umanità sensuale

e concreta, i suoi Dei e Dee e i loro miti (…)."184

Ecco, dopo questa appassionata dichiarazione di derivazione

mediterranea della psicologia archetipica (e Hillman ha anche un

legame particolare con l’Italia dove ha partecipato a molti convegni

e dove il suo pensiero ha avuto sempre un accoglienza attenta e

talvolta entusiastica), sorprende come il riferimento che nel suo

pensiero si contrappone all’indirizzo psicologico da lui definito

ebraico-protestante sia sempre e soltanto il politeismo greco.

Quanto è nordico tutto questo! Questa nostalgia di una Grecia felix,

prima di Cristo, prima di Platone, prima di Socrate è una costante

del pensiero nord-europeo a cui neanche Hillman, americano ma

vissuto lungamente a Zurigo, sfugge. Egli ne è consapevole, così

come è consapevole che la Grecia di cui lui parla è una Grecia

J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma


184

1981, p.820.

127
immaginata più che conosciuta:

"Ma la ‘Grecia alla quale noi ci vogliamo non è letterale: essa

comprende tutti i periodi dal minoico all’ellenistico, tutte le località

dall’Asia Minore alla Sicilia. Questa ‘Grecia’ rimanda ad una regione

psichica’ storica e geografica, ad una Grecia fantastica o mitica, ad una

Grecia interiore della mente che è soltanto indirettamente connessa con

la geografia e la storia effettive (…)."185

Gli sfugge invece quasi completamente il riferimento al

cristianesimo mediterraneo con i suoi rituali legati alla Madonna, ai

santi e alle sante, ai vari momenti della vita di Cristo sempre

“immaginati” dal popolo per mezzo di un’iconografia lussureggiante.

Sembra quasi che il suo riferimento polemico al cristianesimo sia

costantemente quello del protestantesimo iconoclasta e pietista,

verso il quale ha facile gioco a rimproverare mancanza di

immaginazione e di anima.

Ma, da un punto di vista teologico, c’è nel suo quadro di riferimento

un vuoto ancora più grave che è quello della Trinità e cioè l’aspetto

del credo cristiano in cui, bilanciandosi faticosamente fa

monoteismo e politeismo, l’uno e il molteplice vengono posti in

rapporto dialettico in un gioco teologico che, dalle versioni più

metafisiche a quelle più simboliche, non cessa di alimentare la

spiritualità e la riflessione di coloro che in questo mistero trovano un

185 J.HILLMAN, Saggio su Pan, Milano 1977, p.15

128
orizzonte per la propria vita.

Eppure ci sarebbe stato il precedente a lui vicino sul piano

intellettuale dello scritto di Jung “Saggio d’interpretazione

psicologica del dogma della Trinità”186 che tentava, a partire da un

riferimento religioso assai più rigorosamente segnato da

protestantesimo (come abbiamo già detto, Jung era figlio di un

pastore protestante) di esplorare dal punto di vista psicologico

questo aspetto che Jung ricorda averlo affascinato fin da bambino e

che nel catechismo ricevuto dal padre era stato invece lasciato da

parte perché incomprensibile per lo stesso insegnante187.

Sorprende dunque che questo tema non sia mai stato affrontato da

Hillman nonostante il chiaro legame con una delle sue tematiche

preferite188.

Si scorge qui il rischio che questo restringersi dell’orizzonte ad una

sola delle forme storiche del cristianesimo porti alla creazione di un

facile bersaglio contro cui dirigere le proprie critiche e che l’assenza

di una differenziazione nelle varie articolazioni di questa esperienza

religiosa e culturale sia, ma questo nell’articolo del 1996 lo

riconosce almeno in parte anche Hillman, a forte rischio di

monoteismo.

Giunti alla fine di questa ricerca vorremmo esprimere quello che è il


186 C.G.JUNG, Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della
Trinità in Opere XI, Torino 1979.
187 C.G.JUNG, Ricordi sogni riflessioni, Milano 1994, p.82.

188 Stessa perplessità esprime, però con un forte accento apologetico e con una

conoscenza del pensiero di Hillman apparentemente non troppo approfondita,


un’opera recentemente pubblicata: G.VENTIMIGLIA, Se Dio sia uno, Pisa 2002.

129
valore del pensiero di Hillman al di là delle molte critiche a cui esso
piuttosto evidentemente si presta, quali l’estrema disinvoltura
nell’accostare al proprio pensiero precedenti storici senza una
sufficiente cautela storiografica, il lasciarsi prendere spesso dal
gioco retorico a scapito della chiarezza e del rigore argomentativi189
e, in sintonia con la sua maniera di affrontare le questioni,
vorremmo riportare tutto questo ad un archetipo, non a caso
all’archetipo polarmente opposto a quello del Senex che, secondo
lui, segna il monoteismo letteralista contro cui non cessa di lanciare
i suoi strali e cioè l’archetipo del Puer che Hillman così descrive:

"A causa di questo accesso diretto, verticale allo spirito, di questa

immediatezza, dove visione della meta da raggiungere e meta stessa sono

una cosa sola, la velocità, la fretta – perfino la scorciatoia – sono

indispensabili. Il Puer proprio non sopporta la tortuosità, il tempo e la

pazienza. Non conosce le stagioni e l’attesa, e quando deve riposare o

ritirarsi dal centro dell’azione sembra ‘fissato’ in uno stato atemporale,

ignaro del passare degli anni, non in sintonia con il tempo. Il suo

vagabondare è quello dello spirito senza attaccamenti, e non un’odissea

di esperienze. Il Puer vaga per spendere o per catturare, per accendere,

per tentare la sorte, ma senza lo scopo di tornare a casa. (…) Del resto, il

Puer non è destinato a camminare, ma a volare"190

Per questo il rigore tutto Senex della ricerca minuziosa e attenta, del

rigore metodologico può risultare deluso ed irritato dalle

189 Per un approccio assai critico al pensiero di Hillman si può leggere M.TREVI-
M.INNAMORATI, Contra psychologiam archetypalem in AA.VV., Caro Hillman…,
Torino 2004, p.169-180. Per esempio: “Saremmo semmai perplessi per il Suo modo
di leggere e utilizzare i classici. Nulla vieta di trarre una qualsiasi ispirazione da un
testo, derivandone alcunché di totalmente nuovo. Tutt’altro è invece coinvolgere il
senso del testo nella propria opera additandolo come un precursore del proprio
pensiero” (p.170)
190 J.HILLMAN, Senex e Puer in Puer Aeternus, Milano 1999, p.98-99.

130
intemperanze tutte Puer del pensiero di Hillman ma anche a chi,

come noi, è destinato a camminare, colui che vola può indicare una

strada da percorrere, magari molto dopo di lui, con i lenti passi del

pensiero.

131
BIBLIOGRAFIA CONSULTATA

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134
INDICE

CAP.1 LO SFONDO DEL PROBLEMA............................................................................................................... 6


1.1 Unità e molteplicità dell’anima nel pensiero greco...................................................................6
1.2 Unità e molteplicità dell’uomo nella visione biblica e cristiana............................................. 20
CAP.2 “UNO, NESSUNO E CENTOMILA”....................................................................................................... 30
2.1 Janet e il problema delle personalità multiple........................................................................ 30
2.2 Freud e l’eziologia delle neuropsicosi da difesa..................................................................... 37
2.3 Complessi e archetipi: Jung e il “piccolo popolo” dell’anima............................................... 46
2.4 Conclusione..............................................................................................................................55
CAP.3 UNA “VISIONE” DELLA PSICHE......................................................................................................... 56
3.1 Uno sguardo d’insieme sull’opera di Hillman........................................................................ 56
3.2 Gli elementi chiave del pensiero di James Hillman.................................................................63
Excursus I: La teoria degli archetipi in Jung................................................................................ 64
Excursus II: Henry Corbin e l’immaginale....................................................................................79
CAP.4 DEI E UOMINI.............................................................................................................................. 101
4.1 Cosa intende Hillman con “politeismo psicologico”............................................................ 101
4.2 Alcune riflessioni critiche...................................................................................................... 118
4.3 Una domanda finale...............................................................................................................126
BIBLIOGRAFIA CONSULTATA..........................................................132

135

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