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Capitolo 2, Cognitivismo
Cosa accomuna i cognitivisti? 2 caratteristiche di base
• Verificabilità empirica
• Interdisciplinarietà dei modelli mentali proposti
Questi presupposti permettono il dialogo fra le diverse discipline che compongono la scienza cognitiva,
passando per la mediazione della neuropsicologia.
Il modello cognitivo neuropsicologico che proponiamo, presenta degli elementi di continuità e discontinuità
con la storia del cognitivismo.
La necessità di una proposta che tenga in considerazione il soggetto, richiede una riformulazione ontologica
dell’oggetto di studio: se l’uomo è un esserci, lo studio del suo comportamento deve partire dal suo essere-
nel-mondo, e non da una mente che non lo incontra mai (noumeno). Stessa cosa per il corpo, che secondo
Ricoeur, è la prima alterità dell’ipseità, ossia unico luogo della mia esperienza che costituisce sia il punto di
partenza che di arrivo di una qualsiasi operazione riflessiva. L’ipseità è un esistenziale pre-riflessivo e da
questo ne consegue l’identità narrativa, ossia la capacità di assumersi riflessivamente. L’ipseità, ossia il fatto
di sentirsi sempre se stessi nell’esperienza, non è una aggiunta, ma qualcosa che ci caratterizza come esseri
umani.
Cognitivismo: esordi
Una delle critiche che viene rivolta al cognitivismo, è quella di avere dei presupposti cartesiani, questo
perché sostiene come la conoscenza del mondo passi per atti riflessivi prodotti dai processi mentali, come se
l’esperienza fosse muta. In questi termini, il mondo ci appare significativo solo a partire dalla razionalità, e
l’esperienza diventa significativa solo se illuminata dai processi mentali. Quindi sia la dicotomia mente-
corpo, sia la natura riflessiva e privata del significato, sono concezioni cartesiane dell’uomo. Sottostante al
passaggio dal significato > all’informazione, possiamo ritrovare l’analogia uomo-computer, fondata verso il
1940 dalla cibernetica. Quest’ultima ha il pregio di aver portato l’interdisciplinarietà nella psicologia, al fine
di una comprensione del comportamento umano, ma ha portato con sé anche l’analogia riduzionistica uomo-
computer, che tutt’ora il cognitivismo sta cercando di superare. I concetti che caratterizzano la cibernetica
sono: informazione, feedback (retroazione) e programmazione. Il padre della cibernetica è Norbert Wiener
che nel 43 scrisse insieme ad un fisiologo e un ingegnere: Behavior, purpose and Teleology dove propone
una nozione di feedback come operazione atta all’autoregolazione del comportamento. In più fa una
distinzione fra comportamento:
• Teleologico: è il comportamento finalizzato, ossia il feedback > l’output comportamentale è il
prodotto dell’input esterno e della rielaborazione dell’input.
• Non teleologico: non feedback
• Propone analogia fra il feedback delle macchine e il feedback motorio: entrambe regolano il proprio
comportamento attraverso operazioni di retroazioni (verifica del risultato del comportamento). Un
esempio di feedback non funzionante lo osserviamo nei pazienti con lesione che presentano atassia
cerebellare.
Questo articolo viene considerato uno dei primi lavori cognitivisti ed espone tre caratteristiche che
domineranno la successiva psicologia cognitivista:
• Interdisciplinarietà: la cibernetica è una scienza interdisciplinare per due ragioni: da una parte cerca
di spiegare il comportamento secondo una logica computazionale applicabile anche alle macchine,
dall’altra per farlo, ha bisogno della collaborazione tra specialisti.
• Metafora dominante: per spiegare il comportamento adottano l’analogia mente-macchina
• Neuropsicologia: la capacità di compiere movimenti volontari viene valutata in base alle evidenze
neurofisiologiche.
Queste caratteristiche faranno parte sia della seconda cibernetica, che della “rivoluzione cognitivista” della
fine degli anni cinquanta.
Seconda cibernetica (o teoria dei sistemi che si osservano) > mossa in primis da Heinz Von Foerster che
insieme a matematici, ingegneri, neurofisiologi ecc. si trova a sviluppare ulteriormente i principi della prima
cibernetica, cambiando però l’oggetto di studio: non il sistema, ma il sistema come viene “inteso” da colui
che lo osserva. La seconda cibernetica darà origine a nuovi filoni come il costruttivismo e questo sarà il
fondamento epistemologico sia della psicoterapia cognitiva di seconda generazione, sia del primo post-
razionalismo di Vittorio Guidano.
Cognitivismo: non solo cognizione
Nel 1960 Miller (psicolinguista), Glanter (psicologo matematico) e Pribram (neurofisiologo) nel testo Plans
and the structure of Behavior trattano fra temi dalla memoria alla personalità e dal comportamento animale
alla psicopatologia. Quindi fin dall’inizio il cognitivismo intende la cognizione umana come > insieme di
facoltà umane quali memoria, linguaggio, emozioni, sentimenti ecc. Questo lo si vede anche con la nascita
nel 79 della Cognitive Science Society che unisce i vari studiosi della disciplina: il loro scopo è la
comprensione della mente umana attraverso lo scambio di molte discipline fra cui l’intelligenza artificiale,
antropologia, filosofia, pedagogia e neuroscienze. Quindi l’interdisciplinarietà è indispensabile per la
comprensione della mente umana. Questo comporta inevitabilmente, che i cognitivisti possano a volte fare
ricerca a partire da presupposti ontologici ed epistemologici molto diversi, come Fodor con i suoi
presupposti computazionali e Bruner con la sua visione dei processi mentali naturalmente intersoggettivi.
Quindi ciò che accomuna i cognitivisti sono due assunti:
• Interdisciplinarietà: la mente umana, data la sua complessità, deve essere indagata grazie al
contributo di differenti settori.
• Verificabilità empirica e coerenza interdisciplinare: i modelli esplicativi devono essere coerenti con
le altre discipline cognitiviste che si occupano dello stesso oggetto di studio e devono poter essere
convalidati sperimentalmente.
“Neuro” e “psi”
Se il cognitivismo è una disciplina sperimentale, in terza persona e interdisciplinare, definire la
neuropsicologia appare più complicato, e soprattutto, cosa differenzia questa dalla neuropsicologia cognitiva
o clinica, dalla psicofisiologia, psicobiologia ecc.?
Le discipline che associano “neuro”/ “bio” a “psi” cercano di spiegare qualcosa in più rispetto la relazione
fra processi psichici e processi biologici. Queste discipline abbracciano posizioni estremiste: i dualisti
radicali, che sostengono come la mente e la materia siano due sostante irriducibili l’una all’altra, e i monisti
materialisti (riduzionisti ed eliminativisti) che aspirano a una sostituzione del linguaggio psicologico a favore
di un linguaggio biologico. Invece le scienze senza “psi”, come le neuroscienze e la neurofisiologia, studiano
i processi della biologia nervosa oppure processi psicologici, ma alla luce della sola teoria biologica (quindi
amiconi dei monisti). Rispetto a questo, la fenomenologia rifiuta qualsiasi disciplina che applica un metodo
che intende spiegare l’uomo esclusivamente in base alla sua biologia.
Galimberti: “Se si isola il corpo dall’esistenza, se lo si astrae dal suo vissuto quotidiano, ciò che si incontra
non è più la corporeità che l’esistenza viva, ma l’organismo che la biologia descrive”.
La posizione che vogliamo assumere è fondamentalmente ermeneutica e la neuropsicologia lo è, quindi
potrebbe rappresentare quella teoria intercampo (concetto utilizzato da Bechtel in un lavoro dedicato al
rapporto fra filosofia della mente e scienza cognitiva) per spiegare come associare i fenomeni studiati da due
differenti campi di ricerca (in questo caso fenomenologia e neuroscienze) senza che una teoria venga ridotta
a un’altra. Questo è possibile perché entrambe, pur utilizzando linguaggi diversi, studiano quasi la stessa
cosa. Perché la neuropsicologia è una disciplina con una base ermeneutica? Perché cerca di tradurre un
modello del funzionamento psicologico in uno neurale e viceversa: per esempio nella TMS, il compito del
neuropsicologo è quello di facilitare l’emergenza di una esperienza attraverso una stimolazione cerebrale, ed
è un confronto tra due modi di dire quasi la stessa cosa.
Psicoterapia cognitiva
Ciò che è importante sapere circa lo sviluppo della psicologia cognitiva è che non esiste un paradigma
unitario, ma solo due vincoli essenziali entro cui si fa psicoterapia cognitiva: adottare dei modelli di
intervento empiricamente validabili e confrontarsi con tutti coloro che studiano diversamente quasi la stessa
cosa.
• Psicoterapia cognitiva nasce ufficialmente negli anni 60, quindi dopo i primi esordi della cibernetica
e della prima psicologia sperimentale
• Beck e Ellis sono considerati padri della psicoterapia cognitiva, invece Bandura è una via di mezzo
tra la psicoterapia comportamentale e quella cognitivista, data la sua teoria dell’apprendimento
sociale.
• Cognitivismo italiano: Liotti e Guidano
Il primo post-razionalismo
Primo post-razionalismo > di Guidano che termina proprio il termine alla fine degli anni 80 per indicare il
cambiamento epistemologico del cognitivismo tradizionale, che secondo lui era ancora attaccato
all’empirismo e ai suoi assunti di base. Questi per Guidano erano due: 1) esiste un ordine esterno dato dove il
senso delle cose è oggettivamente contenuto 2) si può osservare e comprendere in modo oggettivo e univoco
l’ordine esterno. Per superare quest’impasse empirista della psicologia cognitiva, Guidano assume una
prospettiva costruttivista. Questa va fatta risalire alla seconda cibernetica, che porta avanti una concezione
dell’uomo come naturalmente auto-referenziale: esso è un sistema dotato di vincoli organizzativi e apertura
strutturale. Ogni uomo fa esperienza in base ai suoi vincoli sensoriali, e giunge a dare significato
all’esperienza attraverso un atto riflessivo. L’Io che agisce ed esperisce, e il Me che dà significato
all’esperienza, produce il Sé. L’auto-organizzazione del sistema coincide con la sua organizzazione di
significato personale (OSP). Per Guidano l’OSP va intesa come un processo unitario la cui coerenza interna
va ricercata nel modo di elaborare la conoscenza. Questo modello teorico mantiene alcuni problemi che
derivano dalle teorizzazioni kantiane, problemi che possiamo sussumere attraverso la seguente frase “Non ci
sono fatti, solo interpretazioni”. Possiamo quindi dire che il modello teorico del primo post-razionalismo
mantiene una visione del Sé tipicamente moderna: continuità, unitarietà e inferiorità. Tuttavia dobbiamo
riconoscere a Guidano il merito di aver proposto una psicologia cognitiva meno meccanicistica rispetto la
tradizione cognitivista classica.
L’approccio cognitivo neuropsicologico: primi concetti
L’uomo della fenomenologia ermeneutica è:
• Il Dasein di Heidegger
• Il corpo che sono io di Merleau-Ponty
• L’identità narrativa di Ricoeur
Il suo approccio vede il comprendere come un atto legato all’ambiente culturale, a un corpo e a una
situazione personale ricostruibile narrativamente. L’incontro tra fenomenologia e l’ermeneutica supera
l’alternativa che si pone fra lo scegliere l’esperienza in prima persona (mente fenomenologica) e l’esperienza
in terza persona (mente cognitiva). > non ho capito il collegamento fra fenomenologia ermeneutica e
approccio cognitivo-neuropsicologico
La psicoterapia cognitivo-neuropsicologica è > un modello di cura la cui teoria deriva dall’incontro tra i
linguaggi delle scienze umane e quelli delle scienze biologiche. Neuropsicologico è il metodo per realizzare
la traduzione tra i diversi linguaggi specialistici, fra biologia e psico-fenomenologia. Si tratta di una
prospettiva ermeneutica di tipo teorico e di ordine tecnico-applicativo.
• Livello teorico: rappresenta il mediatore fra le discipline che cercano di dire ognuna con il suo
linguaggio, quasi la stessa cosa
• Livello tecnico-applicativo: fornisce un metodo per l’articolazione di una tecnica psicoterapeutica
fondata su presupposti ermeneutici e semiotici
Infine, l’intera psicopatologia va considerata come parte della più ampia neuropsicopatologia.
Sto capitolo è incomprensibile e inutile
Post- modernità
• È un concetto che non ha un significato prettamente cronologico: con post-moderno ci riferiamo a
modo diverso di rapportarsi al moderno (né di opposizione, né di superamento), ossia un modo
critico di vedere la modernità, sancito da Nietzsche con la morte di Dio e Heidegger con la fine della
metafisica
• Quindi possiamo dire che i modi che caratterizzavano il Sé moderno, non sono gli stessi dell’uomo
post-moderno
2 mesi
• Compaiono le protoconversazioni
• Il gioco diventa sempre più interattivo grazie a capacità motorie e attenzione più focalizzata
• Migliore capacità di differenziazione e distinzione degli altri
4 mesi > maggiore attenzione e manipolazione degli oggetti, che permette di conseguenza una maggiore
attenzione al mondo. Questo nuovo modo di accesso al mondo, ha un corrispettivo relazionale a 6 mesi.
6 mesi > interagisce con i pari secondo interessi e senza la mediazione del caregiver, in più riconosce la
musica e reagisce con movimenti corpo “seguendo” il ritmo > questo dimostra la sua nuova capacità di
sentirsi anche attraverso altre cose che non siamo il caregiver. In un certo senso il bambino diventa più ricco
di “mondo”. A questa età il bambino comincia a sintonizzarsi con alcune regolarità e questo dipende anche
dalle routine che ha con il caregiver: per esempio la ninna nanna rappresenta un’attività routinaria e
possiamo considerarla un primo accesso alla narrativa, poiché con questa condivide una struttura simile:
inizio, apice e fine.
9 mesi > pointing, attenzione condivisa e intersoggettività secondaria > il bambino accede alla triade sé-
caregiver-mondo. È capace di questo non tanto grazie allo sviluppo di un’attenzione più sofisticata, ma
grazie alla consapevolezza e comprensione che la mamma può prestare attenzione anche ad altro (il target)
che non sia il bambino, quindi che questo altro, compete con il bambino per l’attenzione della madre.
1 anno di vita > il bambino acquisisce una progressiva indipendenza motoria e questa è correlata con:
capacità di esplorare il mondo e quindi di avere diverse prospettive del mondo, maggiori competenze
motorie sono correlate a maggiori capacità cognitive ed emotive. Per esempio i bambini cominciano a
gattonare dal 7 al 9 mese di vita e questo gli permette di calibrare la distanza dalla madre.
Sviluppo emozioni secondarie > di norma le teorie delle emozioni sostengono che per sviluppare le
cosiddette emozioni secondarie o culturali, ci sia bisogno di un minimo di coscienza autoriflessiva, ossia la
capacità di vedersi con gli occhi dell’altro (quindi ci si aspetta che queste emozioni compaiono verso i 15-18
mesi). Lewis parla dello sviluppo emotivo in questi termini: le emozioni primarie si sviluppano attraverso la
differenziazione di due polarità: piacere/dispiace e interesse/disinteresse, invece le emozioni secondarie
richiedono un’acquisizione delle norme culturali di riferimento. Rispetto a questa visione abbiamo due
obiezioni:
• Di ordine teorico: è improbabile che il bambino cominci a sentire quel vasto range di emozioni
sociali solo quando in lui compare la coscienza riflessiva (ossia verso i 18 mesi). Dato che l’esserci è
sempre emotivamente situato (in un mondo) e il bimbo fin da subito mostra capacità relazionali,
seppur rudimentali, ci dovrà essere un corrispettivo emozionale (e quindi le emozioni sociali)
• Di ordine empirico-sperimentale: Riccardo Draghi-lorenz ha dimostrato sperimentalmente che la
gelosia compare già verso il 6 mese di vita, ed è possibile vedere che compaiono precocemente
anche la timidezza e l’imbarazzo. Di conseguenza si è deciso di non chiamare queste emozioni
secondarie, ma non-basic emotions, semplicemente perché non fanno parte delle primissime (prime
settimane di vita) manifestazioni emotive.
4, sviluppo 12-24
Apprendimento del linguaggio > verso i 12 mesi, i bimbi cominciano a pronunciare parole-frase per
esprimere routine o concetti a bassa complessità e questo apprendimento avviene perché vi è una mediazione
simbolica da parte dei caregivers che permette l’associazione fra significante (televisione) e significato
(scatola ecc). Sono le persone che si riferiscono a quello o quell’altro oggetto e non le parole in sé e per sé,
quindi il contesto e l’alterità hanno un’importanza fondamentale per apprendere i significati. Quindi
coerentemente all’approccio ermeneutico-fenomenologico che qui stiamo adottando, il bambino accede al
significato perché fa parte di una comunità linguistica dove le parole significano (di solito) per tutti la stessa
cosa. Quindi ci sono significati condivisi che permettono di comunicare con la comunità di appartenenza.
Infine il bimbo capisce la parola sensata (significate) perché ha già acquisito il senso pratico del significato.
18 mesi > il bimbo inizia a collegare due, tre parole che riflettono una sequenza di eventi; inizia ad usare il
pronome personale “Io” e inizia a riconoscersi allo specchio.
5, alcune note significative sullo sviluppo della consapevolezza di Sé
Come già anticipato, dobbiamo fare una distinzione fra:
• Ipseità: consapevolezza pre-riflessiva di Sé
• Identità personale: consapevolezza riflessiva di essere un Sé
L’identità personale si realizza appieno con lo sviluppo dell’identità narrativa, ossia la possibilità di una
narrazione di Sé. Tuttavia, questo non significa che non possiamo essere riflessivamente consapevoli di sé in
assenza del racconto di sé. La consapevolezza di Sé nel tempo, possiamo dire che è associata a una specifica
apertura di mondo. E siccome nel bimbo le sue diverse aperture di mondo sono mediate dai caregivers,
possiamo plausibilmente aspettarci che la presenza del caregiver faciliti il bambino a riconoscersi nel tempo.
Nel senso che la familiarità offerta dalla presenza del caregiver possa influire sul senso di continuità
personale. Sembra che questa ipotesi sia sostenuta da un esperimento condotto da Silvia Zocchi (2018 dove
penso ci sia anche lo zampino di Liccione) dove ha osservato tanti bimbi di 3 anni in due condizioni: quella
sperimentale dove i bimbi stavano con la madre, e quella di controllo dove i bimbi stavano con lo
sperimentatore. I risultati hanno mostrato una migliore capacità di riconoscimento di Sé nel tempo nella
condizione con la madre e possiamo ipotizzare che la madre favorisce un senso di familiarità situazionale
che aumenta la probabilità del bambino di autoriconoscersi.
6, appunti neuroscientifici sullo sviluppo del linguaggio
Vi era l’ipotesi, ora falsificata, che il linguaggio umano si fosse evoluto a partire dal sistema di
vocalizzazione animale. Quindi che il sistema di vocalizzazione dei primati non umani fosse l’antenato del
linguaggio umano.
• Il sistema di vocalizzazioni nell’uomo, non ha niente a che fare con il linguaggio
• L’area di Broca è il corrispettivo dell’area F5, e possiede parte del sistema mirror e proprietà motorie
coinvolte nei movimenti orolaringeri, orofacciali e brachiomabuali. Secondo alcuni, le origini del
linguaggio vanno viste come uno sviluppo che deriva dalla mutua interazione mano-bocca da cui ha
preso il via la voce. Ha senso perché 1) abbiamo il riflesso palmo-mentoniero ossia una pressione del
palmo, nel neonato causa una apertura della bocca, 2) lo vediamo dal pointing e da come la
manipolazione di oggetti permetta di poter accedere alla rete coerente di rimandi e quindi di accedere
ai significati del mondo.
7, inclinazioni e sviluppo di Sé tra stabilità del carattere e variabilità delle situazioni
Facciamo di nuovo una differenza fra il Sé riflessivo e quello pre-riflessivo:
• Il sé è determinato dal sentirsi sempre lo stesso ogni volta, poiché siamo emotivamente situati nelle
diverse circostanze
• Successivamente e solo grazie all’acquisita capacità di poter configurare l’esperienza in schemi
narrativi, possiamo creare un nucleo identitario che risponde alla domanda “Chi?”, che è sempre lo
stesso nonostante la mutevolezza tipica della vita (identità narrativa)
• Gli studi di Trevarthen, Draghi-lorenz e altri mostrano che l’alterità co-determina la costituzione
dell’ipseità. Solo perché siamo da sempre con l’altro presso le cose, che posso riflessivamente
costituirmi come un Io riflessivo.
• La ricerca di Silvia Zocchi mostra che il riconoscimento di Sé nel tempo (prima dello sviluppo di
una narrativa) è mediato affettivamente
• L’identità narrativa emerge dalla dialettica fra ipseità e medesimezza; il racconto di Sé dipende
dall’esperienza di Sé. Quindi l’identità narrativa nasce dai modi esperienziali che a loro volta
prevedono caratteristiche di medesimezza pre-riflessiva.
• Invece lo sviluppo emotivo origina dalla dialettica ipseità e alterità e si dispiega nel continuum
inward-outward. Quindi abbiamo uno sviluppo di Sé dove l’emozionarsi è caratterizzato da una
attenzione ai segnali del corpo con il fine di mantenere un senso di stabilità personale > inward,
oppure uno sviluppo di Sé dove l’emozionarsi è caratterizzato da una attenzione maggiore ai segnali
dell’altro e del contesto con il fine di mantenere un senso di stabilità personale > outward.
Capitolo 5, neuropsicologia
Approccio scientifico > cerca di oggettivare l’esperienza, ossia trovare degli universali in modo da poter
garantire la ripetibilità scientifica. La psicopatologia, per essere scientifica, deve adottare lo stesso metodo:
quindi oggettivizzare l’esperienza del paziente, questo diventa un problema se si applica nell’agire clinico,
perché non permette di poter accedere a quello specifico individuo. Quindi l’approccio scientifico spiega gli
universali della sofferenza umana (che non significa comprendere).
In questo capitolo delineiamo un inquadramento psicodiagnostico, ossia l’arco neuropsicopatologico, con il
fine di superare le antinomie di origine cartesiana.
2, ripensare la neuropsicopatologia evitando sia il dualismo cartesiano sia il materialismo riduttivista
Recentemente assistiamo ad un dibattito fra psicopatologi e filosofi circa la natura della patologia
psichiatrica, partendo la una critica rispetto l’idea che la psicopatologia possa essere spiegata solo attraverso
la neurobiologia (materialismo riduttivista). Il focus del dibattito non riguarda né la metodologia né le teorie
sull’umano, ma l’ontologia della persona. Abbiamo visto che sia dualismo che materialismo hanno dei
problemi, per esempio il riduzionismo se vede il corpo solo come organismo, si troverà a studiare solo la
corporeità (a descriverla) e non l’esistenza. Noi siamo anche il nostro corpo fisico, quindi tutte le patologie
avranno un corrispettivo neurale, ma questo non significa che la traccia neurale sia la fenomenologia del
disturbo o che necessariamente preceda e causi il disturbo. Quindi, se la traccia neurale non è un buon
criterio per la diagnosi differenziale, cosa distingue una patologia organica da una funzionale?
Il criterio dovrebbe essere l’eziopatogenesi: ossia la causa di una malattia. Quindi queste sono diverse nel
caso in cui parliamo di un tumore cerebrale o di una depressione che si manifesta in seguito ad un lutto.
Tuttavia abbiamo detto che le scienze sostengono a ragione che non esistono fenomeni psicologici senza un
corrispettivo neurofisiologico e questo ci porta al tema del rapporto mente-cervello: come può un evento
psicologico trasformarsi in una reazione neurofisiologica? (e viceversa). Ma, se assumiamo una posizione
fenomenologica dove l’uomo è un Dasein, cade la distinzione ontologica fra cervello-mente.
Abbiamo visto che le discipline specialistiche ci dicono quasi la stessa cosa usando linguaggi diversi. E
abbiamo visto che la distinzione fra scienze della natura e dello spirito è una cosa che risale già da Dilthey.
Questa distinzione si è poi accentuata diventando irrisolvibile quando le due scienze hanno assunto modi
conoscitivi diversi: la spiegazione delle scienze naturali e i metodi interpretativi delle scienze storiche.
Questa forma mentis nasconde una visione dualistica. Lo stesso problema lo ritroviamo nella distinzione
della filosofia analitica nata con Wittgenstein: abbiamo giochi linguistici diversi per le scienze naturali, che
usano per spiegare termini come causa, legge e fatto, mentre i giochi linguistici dell’azione umana usano
termini come: motivi, intenzioni e ragioni. Secondo Ricoeur questa differenza deriva da un fraintendimento e
dal fatto che la causa ha un significato univoco. Se prendiamo il concetto di causa humeniano, si parla di
causa quando gli antecedenti e i conseguenti sono logicamente indipendenti. Questo non vale per le azioni
umani, dove non posso separare l’azione motivata dai motivi sottostanti: mi accendo una sigaretta perché
voglio fumare, il desiderio e motivo che sottende l’azione non è logicamente separabile dall’azione motivata.
Quindi per Ricoeur la contrapposizione fra causa e motivo e alla base della dicotomia fra le scienze bio e psi.
3, Il dualismo semantico come unica risposta alla duplice appartenenza dell’uomo al bios e al logos
Approccio ermeneutico per comprendere l’azione > vederla all’interno di un continuum dove i due estremi
sono: la causalità senza motivazione, la motivazione senza causalità.
Esempio causalità senza motivazione > le alterazioni emotivo-comportamentali di un tumore cerebrale
Esempio motivazione senza causalità > litigio con un collega
La maggior parte dei comportamenti umani si situa nel mezzo, ma com’è possibile studiare scientificamente
il comportamento umano nella dialettica spiegazione-comprensione?
Ricoeur: qual è quell’essere che ha la doppia appartenenze al bios e al logos, che è sia corpo tra i corpi (cosa
fra le cose) che essere capace di riflettere e giustificare la sua condotta. L’uomo è tale proprio perché
appartiene al tempo stesso al regime della causalità e a quello della motivazione, quindi della spiegazione e
della comprensione.
Quindi abbiamo detto che i due ambiti disciplinari si incontrano nel condividere gli stessi, o quasi, ambiti di
indagine: la psicologia studia la vergogna, così come appare fenomenologicamente, ma nulla vieta alle
neuroscienze di studiare i substrati neuronali della vergogna. Le due discipline possono confrontarsi tramite
il paradigma della traduzione, che rende più comprensibile un accadimento umano che si situa
contemporaneamente fra esistenziale e naturale, umano e fisico-biologico.
4, la neuropsicopatologia e il criterio ermeneutico della comprensibilità storia dell’insorgenza dei disturbi
emotivo-comportamentali
La duplice appartenenza al mondo naturale e psicologico perché non dovrebbe essere un nuovo dualismo
ontologico? Piuttosto lo possiamo intendere come un dualismo semantico. La neuropsicopatologia non va
divisa da una nuova dicotomia, ma può trarre beneficio se la inseriamo in un continuum
neuropsicopatologico dove gli estremi sono:
le cause eziopatogenetiche > da spiegarsi per lo più con le discipline bio, amica della causalità fisica >
abbiamo detto che la traccia organica sottostante alla psicopatologia non ci dice niente sulla causa e motivo
che hanno generato la psicopatologia e la traccia
motivazioni eziopatogenetiche > da comprendere per lo più attraverso le scienze umane, attraverso la storia
di vita
ora sorge un problema: come facciamo a situare una patologia nel polo delle cause o nel polo delle
motivazioni? Ossia, qual è il criterio che ci permette di collocare quella neuropsicopatologia in questa o
quella parte del continuum?
L’ordine temporale > non è sufficiente perché vale sia per la spiegazione causale sia per i motivi
La traccia neurale > non è sufficiente perché può essere: causa, co-occorenza, oppure effetto
Il ruolo che gioca l’identità personale > la domanda è: i cambiamenti emotivo-comportamentali del paziente
sono spiegabili attraverso il funzionamento dell’organismo o comprensibili attraverso la storia di vita? È
proprio la maggiore o minore importanza della precipua storia di vita che paziente che ci permette di
collocare la psicopatologia nei due estremi neuropsicopatologici di tipo storico o non storico.
Patologie non storiche > tipo un trauma cerebrale, non necessita della storia dell’individuo per essere
compresa e può essere spiegata nei termini della biofisica.
Patologie storiche > la morte di una persona cara è quasi totalmente comprensibile in termini non-neurali.
In entrambi i casi possiamo avere delle manifestazioni osservabili, la differenza è che le patologie non
storiche producono un cambiamento che per lo più non richiedere i modi di essere (storici) del paziente.
Quindi l’eziopatogenesi non può essere compresa senza fare riferimento ai significati di una specifica e
irripetibile storia di vita.
5, il continuum neuropsicopatologico: patologie non storiche vs patologie storiche
Quindi abbiamo detto: la neuropsicopatologia è > il dominio delle alterazioni emotivo-comportamenti che si
articola lungo un continuum dove i due estremi sono occupati dalle patologie storiche e patologie non
storiche. Quindi la storicità è quel criterio che permette di fare una differenza, è la discriminante diagnostica.
(e che ci permette di superare a livello eziopatogenetico la differenza cartesiana fra patologie organiche e
funzionali).
Infine abbiamo detto che questa visione non si traduce in un dualismo delle sostanze cartesiano, ma semmai
in un dualismo semantico che cerca di tradurre neuropsicologicamente il nostro essere nel mondo, la nostra
duplice appartenenza al mondo fisico delle cose e al mondo storico dell’esserci.
Patologie storiche > di solito derivano da una frattura identitaria > che è un’alterazione dell’identità tra
esperienza e racconto; oppure vi sono delle esperienze che sono parzialmente e del tutto non riconfigurate,
perché troppo discrepanti con la propria identità.
Patologie non storiche > a volte vengono definite come patologie dell’ipseità che possono essere congenite o
acquisite (anche se preferiamo usare patologie non storiche per quelle acquisite, e dell’ipseità per quelle
congenite)
Patologia dell’ipseità > qualsiasi alterazione dell’organismo alla quale corrisponde nell’individuo una ipseità
difettosa, nel senso di modi atipici-riduttivi di fare esperienza che producono delle conseguenti atipiche-
riduttive aperture di mondo. Conserviamo questa etichetta per le patologie congenite (autismo, sindromi
genetiche ecc.) che determinano da subito una modalità atipica-riduttiva di essere nel mondo.
• Identità narrativa > fa da mediatore nella dialettica ipseità e medesimezza e dipende dalla precedente
dialettica
• Dialettica pre-riflessiva > fra ipseità e alterità che si articola a livello tacito fra i due canali del corpo
e Altro (persone, cose, regole ecc.)
• Ipseità è la forma pre-riflessiva del se stesso, è il sentirsi pre-riflessivamente se stessi che
corrisponde a una apertura di mondo emotivamente intonata
Infine possiamo dire che non tutta la neuropsicopatologia comporta una sofferenza psicologica.
La cooperazione interpretativa
concetto preso in prestito da Umberto Eco che affermava che nel leggere un testo è presente un accordo fra il
letto e l’autore del libro: in psicoterapia l’accordo riguarda la possibilità che il terapeuta si faccia co-autore
dei significati dell’esperienza del paziente. Questo concetto sostituisce quello classico di “alleanza
terapeutica”: quest’ultimo si riferisce a qualcosa che se messo “sotto i riflettori” dell’analisi ci dice poco o
niente, in che senso alleanza? Nel senso che entrambi i protagonisti della relazione si alleano per raggiungere
la cura? Allora cosa differenzia la relazione terapeutica dal rapporto medico e paziente? viceversa il concetto
di cooperazione è più pragmatico: “io paziente per essere aiutato devo raccontarmi e tu terapeuta devi
possedere quelle competenze ermeneutiche e psicoterapiche che ti permettano di cogliere i significati della
mia esperienza” risulta quasi un concetto più medico. Tuttavia va ricordato che il testo deve essere
comprensibile per il paziente, non per il clinico. Il paziente deve quindi rivelare quei modi di essere nel-
mondo che si nascondono dietro al testo, così da potersene riappropriare e per avviare il processo di
metamorfosi del Sé (ricomposizione identitaria). In questa comunanza di obiettivi è possibile indagare il
testo e accettare la fatica dello sforzo interpretativo.
Aspetti nosografico-descrittivi
I disturbi depressivi si distinguono dai disturbi Bipolari per l'assenza di episodi maniacali, ipomaniacali o
misti. Nel DSM-5 troviamo la seguente classificazione:
1. Disturbo depressivo Maggiore > uno o più episodi, per almeno due settimane umore depresso o
perdita di interesse, accompagnati da almeno altri cinque o più sintomi depressivi. Cinque o più dei
seguenti sintomi per due settimane, della quale almeno uno è o 1) umore depresso o 2) perdita di
interesse o piacere:
3) significativa perdita di perso o aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell'appetito
4) insonnia o ipersonnia
5) agitazione o rallentamento psicomotoria
6) faticabilità o mancanza di energia
7) sentimenti di autosvalutazione o colpa eccessivi o inappropriati di accusa o colpa per essersi
ammalato
8) ridotta capacità di pensare o di concentrarsi, o indecisione
9) pensieri ricorrenti di morte, ideazione suicidaria senza un piano, o tentativo di suicidio o ideazione di
un piano specifico (non vi è mai stato un episodio maniacale o ipomaniacale, non è attribuibile a
sostanze e non è meglio specificato da disturbo schizoaffettivo, schizofrenia etc)
2. Disturbo depressivo persistente (ex distimia) > è l'unione fra il disturbo depressivo maggiore cronico
e disturbo distimico del DSM4; quindi, almeno per due anni umore depresso, quasi tutti i giorni,
accompagnato da altri sintomi che non soddisfano la diagnosi per disturbo depressivo maggiore.
3. disturbo disforico premestruale
4. disturbo depressivo indotto da sostanze/farmaci
5. con altra specificazione/senza specificazione
6. dovuto a un'altra condizione medica
Ritornando alla tristezza e la rabbia, queste producono una specifica attivazione corporea, a causa della loro
peculiare intensità, che favorisce lo sviluppo di un senso di stabilità personale mantenuto sul versante
inward, quindi di tipo corporeo-viscerale. Questo modo di mantenere la stabilità del Sè produrrà dei modi di
raccontarsi, delle configurazioni narrative altrettanto coerenti, quindi caratterizzate da impotenza e
inadeguatezza. Quindi i modi di esser-ci saranno caratterizzati da una visceralità di tristezza e rabbia e
riconfigurati secondo temi di solitudine, inadeguatezza e impotenza, che andrà a strutturare una identità
personale basata sulla medesimezza.
Guardiamo l'inazione in base ai vari contributi teorici:
1) Secondo l'ipotesi di Power e Dalgleish, la tristezza depressiva va letta in base al suo significato
relazionale, ossia un utilizzare il proprio tormento per mantenere il legame con l'altro, per esempio Schneider
sottolinea come non sia raro vedere come la tristezza nel depresso scompaia quando nessuna la osserva, e
come questa ritorni non appena il medico si avvicina. Tuttavia, questa ipotesi di Power e Dalgleish sembra
essere falsificata dall'inazione, poiché l'isolamento e la solitudine che ne derivano, non permettono di usare
la tristezza come "segnalatore sociale".
2) un esempio di teoria delle emozioni è quella proposta da Arciero e Bondolfi, che sottolineano come le
emozioni abbiamo il ruolo del muovere "da dentro verso l'esterno" e che quindi portino l'uomo a ri-orientarsi
tramite la generazione di nuove possibilità d'azione. In questo senso la tristezza può essere letta come una
incapacità di cambiare la situazione in atto e la rabbia come un tentativo di modificare la propria situazione
attuale, di aprire nuove possibilità d'azione.
3) Seligman e collaboratori hanno fatto studi sull'"impotenza appresa", ossia studi storici che hanno mostrato
come si possa indurre nei cani questa condizione, ossia uno stato di totale inazione per evitare dolorose
scariche elettriche. Il concetto di "inazione appresa" è stato usato da Seligman per spiegare alcuni aspetti
della depressione.
Alcuni soggetti polarizzati nel versante inward, caratterizzati da rimuginio depressivo e ripiegamento totale
su di sé, possono arrivare ad eliminare l’alterità. Sono casi in cui il soggetto è iper-focalizzato sui propri stati
dolorosi e angoscianti, dove il corrispettivo neurale conduce a una iperattivazione della pain-matrix. Di
conseguenza il mondo e gli altri, vengono percepiti come non modificabili e impotenti.
Invece i soggetti polarizzati sul versante outward, sembrano reagire in modi diversi.
Per molte persone ammettere apertamente il proprio stato depressivo, significa perdere il proprio status, la
propria dignità da essere umano: Schneider parla di “depressioni inautentiche” e queste si situano in un
panorama dove da una parte vi è una selezione delle persone che dichiarano al medico per un dispiacere, e
dall’altra il fatto che molti anni fa, le generazioni passate non avrebbero considerato questo stato come una
malattia. Di conseguenza il soggetto può decidere di “assumersi la responsabilità, il proprio destino”
nonostante presenti una vera e propria depressione clinica.
Parliamo di Beppe, un paziente che si presenta con uno stato di parziale derealizzazione. Quest’ultimo si
manifesta dopo un violento litigio con la moglie, dove Beppe, una volta terminato il litigio, si addormenta sul
divano e si sveglia alle 3 già in preda di questo stato. Nel corso dei colloqui emerge che Beppe, orientato dal
punto di vista emotivo sul versante outward, è andato progressivamente verso una vera e propria
disgregazione dell’identità personale. Essendo per l’appunto outward, questa disgregazione della propria
identità deriva dalla consapevolezza di non essere più “un punto di riferimento” per sua moglie, difatti lui è
cambiato agli occhi di lei. Negli ultimi mesi lei si è staccata emotivamente da lui e questo avvento è stato
solo parzialmente riconfigurato da Beppe, inoltre durante il famoso litigio, lei lo colpisce con uno schiaffo,
lui reagisce spingendola e facendola cadere a terra, finché freddamente, lei le dice che l’unico errore della
sua vita è stato sposarlo. Beppe rimane sul divano ad aspettare che la moglie ritorni per fare pace, come tutte
le volte, ma questo non accade. Quindi, gli aspetti depressivi di Beppe sono collegati a una delle perdite più
grandi che un uomo possa subire: la perdita dell’immagine di sé, questo porta:
Emozione:
Sentimento: è la consapevolezza dell’emozione, come abbiamo detto, siamo sempre “emotivamente
situati”, ma è solo la consapevolezza di avere un’emozione che ci fa provare un sentimento.
In questo senso le aree somatosensitive del cervello sono importanti, in particolare l’insula e le regioni
somatosensoriali che ci avvertono, on line, lo stato del nostro corpo e di conseguenza ci segnalano quei
possibili cambiamenti corporei che generano l’emozione. Da questo punto avviene un contributo corticale
che ci permette la consapevolezza del cambiamento e quindi il sentimento. Quindi provare un sentimento e
avvertire i cambiamenti corporei, sono due processi che vanno di pari passo (anche perché senza la
consapevolezza di questo non si proverebbe il sentimento).
Nei disturbi fobici, la relazione fra sentimento e consapevolezza enterocettiva è interrotta: difatti in questi
soggetti il focus è per lo più sul corpo e la consapevolezza enterocettiva dell’emozione viene separata
dall’emozione stessa che continua ad alimentarsi creando uno stato di allerta.
Joseph LeDoux è stato fra i primi a indagare il processamento della paura, dimostrando che vi è una
differenza fra risposta alla paura e valutazione della paura. L’amigdala può essere stimolata dagli organi di
senso (vista, tatto ecc.) direttamente dall’amigdala, e produce una risposta all’azione che ri-posiziona la
persona rispetto la situazione che sta vivendo. Questo ri-posizionamento può avvenire in due modi, in base a
se lo stimolo è stato processato secondo la via alta o la via bassa:
Via alta (high road) > gli stimoli sensoriali passano per la prima stazione, ossia il talamo, per poi
essere trasmessi alla corteccia sensoriale (nel caso di stimolo visivo, viene trasmessa a V1 nella corteccia
occipitale) che a sua volta trasmette l’informazione all’amigdala che prepara la risposta all’azione. In questo
caso il ri-posizionamento avviene in modo cosciente ossia attraverso una valutazione di ciò che sta
accadendo nel contesto. Questa risposta viene processata in 300 millisecondi (perché passa pure per la via
del cosa e del dove).
Via bassa (low road) > gli stimoli sensoriali passano per il talamo che a sua volta invia il segnale
direttamente all’amigdala che prepara all’azione finalizzata ad esprimere l’emozione. In questo caso il ri-
posizionamento avviene in modo implicito, senza consapevolezza cosciente della situazione; quindi, avviene
una risposta alla paura. Questa risposta è più rapida, impiega 150 o 200 millisecondi, poiché non vi è un
contributo corticale che richiede più tempo.
Nonostante il ruolo dell’amigdala sia centrale per la paura, alcuni studi hanno evidenziato che questa non si
attiva di fronte ad una esposizione ripetuta a stimoli fobogenici, questo implica che ci sono altre aree
coinvolte nel processamento di questo stimolo. L’amigdala sembra però fondamentale per generare una
attivazione psicofisica immediata, che prepara il corpo all’azione nel caso di potenziali pericoli (low road).
Inoltre, questa struttura sembra sensibile al fattore esperienza e questo potrebbe contribuire a preparare la
persona all’insorgenza di disturbi ansiosi.
Un altro aspetto importante riguarda il fatto che l’amigdala sembra attiva fin dalla nascita; tuttavia, non sono
altrettanto attive le strutture che inibiscono l’attivazione dell’amigdala, ossia quelle cortico-ippocampali. Di
conseguenza in neonato potrebbe provare paura o ansia intense senza poter modulare l’emozione. Rispetto a
questo il caregiver assume un ruolo fondamentale rispetto a due soluzioni:
1) Calmare il bambino dopo che la paura o l’ansia è già emersa, e questo favorisce l’interiorizzazione
delle strategie regolatorie
2) Prevenire le situazioni paurose-angoscianti che potrebbero far emergere queste emozioni nel
bambino, la prevenzione in questo caso diminuisce la possibilità che il bambino sviluppi una
ipersensibilità neurale agli stimoli paurosi che potrebbe derivare da una esposizione ripetuta alla
paura. Difatti, disfunzioni dell’amigdala sono correlate ai disturbi d’ansia.
I pazienti che soffrono d’ansia, rispetto ai soggetti di controllo, possono presentare una iper-attivazione
dell’amigdala di fronte ad espressioni di rabbia e disprezzo, che in termini comportamentali può tradursi in
una iper-vigilanza interpersonale e sopravvalutazione del pericolo. Fortunatamente l’amigdala e i circuiti
neurali a essa correlati, sembrano essere molto plastici, di conseguenza interventi psicoterapici e/o
farmacologici volti a diminuire l’intensità e la frequenza rispetto la paura, sembrano tradursi anche in una
diminuzione dell’attivazione dell’amigdala.
Fobia sociale da paura: in questo caso la paura dei fobici riguarda il giudizio sociale per le loro
attivazioni fisiologiche particolari, tipo arrossimento o aumento del battito, come quella esposta da Roberto
durante la festa a casa di conoscenti.
Fobia sociale ansiosa: i fobici sociali ansiosi sembrano meno legati alla dimensione corporea, e la
paura del giudizio riguarda più performance cognitive o comportamentali.
Ci sono casi dove abbiamo una duplice e contemporaneo focus, sia sul corpo e sul contesto e quindi un
soggetto che usa contemporaneamente uno stile emotivo inward e outward.
Conclusioni
Abbiamo visto che nella maggior parte dei disturbi d’ansia, l’alterità coincide quasi con l’ipseità. Difatti le
persone che emozionano con modalità inward, e che quindi sviluppano una personalità auto-diretta, possono
essere più predisposte a sviluppare questo tipo di sintomatologia. In questi casi l’emozionarsi è
particolarmente intrecciato alla consapevolezza enterocettiva. La patologia, e quindi l’alterazione
dell’identità personale, può in questi casi derivare dal fatto che l’emozione che prova il soggetto è distaccata
dalla situazione e di conseguenza avviene una magnificazione dei corrispondenti cambiamenti del corpo.
Tuttavia, abbiamo visto che anche le persone che si emozionano con modalità outward possono sviluppare
disturbi ansiosi. In questi casi però, l’alterazione del normale stato fisiologico deriva da una valutazione
dell’alterità (contesto, persone, situazioni) e quindi è meno propensa a cadere in duraturi disturbi d’ansia.
Magnificazione dell’enterocezione
Co-percezione di Sé a partire dall’alterità
In questo senso un giudizio negativo da parte di una persona significativa può innescare un intenso
sentimento di paura, come un intenso sentimento di paura visibile dall’esterno, può causare un aumento della
paura di ricevere un giudizio sociale negativo. L’equilibrio fra le polarità inward e outward, può orientarsi
più su un versante o più su un altro.
Ipocondria > la combinazione delle due polarità è più orientata sul versante inward
Isteria > più orientata sul versante outward
In entrambi i casi, l’alterazione dell’identità deriva da un focus eccessivo sugli aspetti sensoriali corporei
dell’emozione, fino al non riconoscere l’emozionarsi come una specifica modalità del soggetto di esser-ci, e
con la conseguente percezione che i segnali del corpo derivano da una causa esterna. (manca un pezzettino
pag. 193)
Isteria
È una manifestazione sintomatologica che ha bisogno quasi sempre di qualche forma di alterità
(persone, contesti, situazioni significative). Se il suo mix inward-outward è più spostato sul versante
outward, sarà allora il contesto a pesare di più nel condizionare il modo del paziente di fare esperienza.
Bisogna capire il “come” del sintomo (paralisi, anestesia ecc.) e il suo “perché”: all’interno di
un’ottica fenomenologica, il fatto che i sintomi siano così eclatanti e visibili, dipende da una parte dalla
maggiore intensità del paziente nell’emozionarsi, e dall’altra parte dalla necessità del soggetto di avere
un’alterità per sentirsi emotivamente situati. Infatti, questi pazienti alternano momenti in cui presentano
svariate psicopatologie, a periodi dove vi è una totale remissione dei sintomi. Essendo spostata sul versante
outward, sarà il contesto a decidere dei sintomi (se presenti o ristabilire un periodo di normalità) in base alla
situazione del momento e il tipo di livello di stabilità personale che può offrire al paziente. Ergo, il bisogno
di essere al centro dell’attenzione determina l’intensità e la manifestazione dei sintomi, in base al contesto il
sintomo può essere magnificato o narcotizzato.
Essere al centro dell’attenzione è l’unico modo per sentirsi emotivamente situati. Questo bisogno
può far luce anche su altre psicopatologie come: l’anoressia secondaria, fobia sociale ansiosa e alcune forme
di ipersessualità
L’isteria non è più una diagnosi a se stante, ma possiamo ritrovare alcune manifestazioni isteriche in alcune
psicopatologie presenti nel DSM 5:
1) Disturbo da Sintomi somatici: uno o più sintomi somatici procurano alterazioni della vita quotidiana.
Vi sono inoltre pensieri, sentimenti o comportamenti eccessivi legati a sintomi somatici. Quindi:
pensieri sproporzionati circa la gravita; o livello alto di ansia costante per la salute o i sintomi; o
energia e tempo dedicati in modo eccessivo a questi.
2) Disturbo di conversione: uno o più sintomi che alterano le funzioni motorie volontarie o sensoriali,
dove però i sintomi non sono compatibili con condizioni neurologiche o mediche conosciute.
3) Disturbo da Ansia di Malattia: preoccupazione che dura da almeno 6 mesi, di avere o contrarre una
grave malattia. I sintomi somatici non sono presenti e se lo sono, sono di lieve intensità.
4) Disturbo fittizio provocato a Sé: la caratteristica importante è quella di procurarsi intenzionalmente
segni o sintomi fisici o psichici, o l’autoinduzione di un infortunio o malattia. Quindi il soggetto si
presenta agli altri come malato o ferito.
5) Disturbo fittizio provocato ad Altri: ossia vi è una falsificazione di segni o sintomi fisici/psicologici,
o l’induzione di un infortunio o di una malattia a un altro individuo, associato ad un inganno certo.
L’individuo presenta la vittima (l’altra persona) agli altri come malata o ferita dove il
comportamento ingannevole è palese.
6) Disturbi dissociativi: sconnessione e/o discontinuità delle funzioni della coscienza, memoria,
identità, emotività e percezione del corpo, controllo motorio e comportamento, solitamente integrate.
Fra i disturbi dissociativi distinguiamo:
a. Amnesia dissociativa: incapacità di ricordare importanti notizie personali, traumatica o
stressogena, e che risulta troppo estesa per essere una normale dimenticanza.
b. Disturbo dissociativo dell’identità: presenza di due o più distinte identità che assumono
spesso il controllo del comportamento del soggetto, e vi è inoltre una incapacità di ricordare
notizie personali. Il disturbo riguarda la frammentazione dell’identità piuttosto che la
proliferazione di personalità separate.
c. Disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione: presenza di persistenti o ricorrenti
esperienze di depersonalizzazione, derealizzazione o entrambe
Il caso di Maria
Riportiamo un caso di Isteria descritto da Primo Lorenzi nel “Il corpo vissuto”
Maria era una bambina molto fantasiosa, che dai 3 anni aveva sviluppato un amico immaginario, per il resto
era molto normale. All’età di 8 anni ha subito, più volte, le attenzioni sessuali di un anziano, amico di
famiglia, i cui genitori affidavano a volte la bambina. Maria ha tenuto la cosa nascosta per tempo, per poi
confidarsi, in parte, con la madre. Questo crea delle reazioni molto vive e diventa l’argomento principale in
casa, Maria rimane impressionata da come la cosa in breve tempo passò dall’essere poco rilevante all’avere il
massimo dell’attenzione. Dopo gli episodi di abuso, avvenuti fra gli 8 e 10 anni, Maria ha sviluppato una
forma di timore per ogni figura maschile adulta. Anche con la pubertà, l’atteggiamento evitante e fobico è
rimasto, nonostante le varie lusinghe amorose. A 17 anni si innamora di un compagno di classe, si fidanzano
e lei le concede anche dei modesti contatti fisici che però vive con molta angoscia. Riemergono anche i
ricordi degli abusi, arricchiti da varie fantasie che presero spunto da giornali, pubblicità, racconti delle
amiche, Maria ha trovato molta difficoltà nel sottoporre tutto a un esame di realtà. Il rapporto con il ragazzo
si fa difficile, a causa dei continui sbalzi d’umore di Maria, a volte lo cerca con passione, altre lo rifiuta in
modo rabbioso. In quel periodo emergono le prime manifestazioni cliniche importanti, che portano Maria
varie volte al pronto soccorso per poi farlo in modo stabile per un trattamento psichiatrico. Maria a 17 anni e
rientrando da scuola riferisce di aver subito aggressioni da 3 giovani, percosse, violenza sessuale. La ragazza
viene portata al pronto soccorso: ha bruciature, segni delle percosse, un piccolo distacco della retina per un
ugno che lamenta di aver ricevuto in pieno volto. Tuttavia, la ginecologa riferisce che l’imene è integro e non
vi sono segni. Alcune settimane dopo accade un nuovo episodio nel garage del condominio, dopo alcuni
giorni si verifica un altro episodio all’interno della casa di Maria, con aggressione in pieno giorno. Viene
sporta denuncia, ma nonostante le ricerche, non salta fuori niente. La storia con il ragazzo va in frantumi,
Maria ha tutto il corpo devastato e percosso, che inizialmente era al centro dell’attenzione, anche dei curiosi,
ma che adesso suscita quasi insofferenza. Anche i genitori, di fronte ai nuovi episodi, la portano al pronto
soccorso giusto per farla medicare, il suo corpo non sembra interessare più a nessuno. Maria è bella, robusta
e lievemente in sovrappeso, ma di quella formosità che risulta molto attraente. Allora inizia a dimagrire, non
mangia e vomita, e in poco tempo perde 20 kg, il suo corpo è di nuovo al centro dell’attenzione. Il suo corpo
viene notato, ma è protetto dalle avance che turbano Maria. A 19 anni ha concluso il suo primo anno di
trattamento, inizia una nuova storia di amore, dove sono presenti anche dei contatti fisici, ma senza
partecipazione affettiva, senza quelle fantasie erotiche che a volte invadono la sua mente prepotenti. Il suo
corpo è ritornato ad essere un fardello, ma il dimagrimento si interrompe e le crisi dissociative diventano rare
e non hanno più quelle manifestazioni somatiche così eclatanti finalizzate a suscitare qualcosa nell’ambiente.
Appunti neuroscientifici sull’Isteria
Nonostante le varie ricerche, non è ancora nota la natura dei disturbi emotivi e i corrispettivi neurofisiologici
dell’isteria. Quello che però ci dicono le ricerche, è che queste non sono il frutto di una simulazione: in uno
studio di John Stono, sono stati osservati i disturbi alla flessione alla caviglia lamentati dai pazienti isterici,
con un gruppo di controllo sano. Ai soggetti sani è stato chiesto di simulare il problema alla caviglia, ed
entrambi i gruppi sono stati scannerizzati con fMRI mentre muovevano la caviglia. I gruppi hanno mostrato
patterns neurali abbastanza diversi. Tuttavia, altre ricerche mostrano come i sintomi isterici non siano
spiegabili in base a qualche alterazione motoria o sensoriale.
Un altro studio ha monitorato 7 pazienti isterici con paralisi unilaterale di entrambi gli arti, o solo uno
superiore o inferiore. L’aspetto interessante dello studio riguarda il fatto che i pazienti sono stati monitorati
sia durante il decorso della patologia, sia dopo la guarigione. I risultati mostrano una diminuzione
dell’attività dei gangli della basa e del talamo controlaterali al deficit. Tuttavia, dopo la guarigione,
l’ipoattivazione di queste aree non c’era più.
Questi risultati fanno pensare che potrebbe esserci una alterazione della via neurale cortico-striata-talamica
coinvolta nelle azioni motorie volontarie. Sappiamo che i gangli della base (circuiti premotori) è dipendente
dalle informazioni del contesto e dalle esperienze. Anche il caudato, che riceve informazioni dall’amigdala e
corteccia orbito-frontale, memorizza la componente emotiva degli eventi e quindi elicita o sopprime
determinati comportamenti motori in base alla situazione emotiva.
Questi risultati ci suggeriscono come una conversione motoria isterica sia in grado di inibire l’intenzione e la
prontezza d’azione (es. paralisi) grazie a reti neurali per lo più collegate ad aspetti emotivi (tipo i gangli e il
caudato) e motivazionali. Secondo alcuni studiosi, i disturbi da conversione sarebbero un’evoluzione di
meccanismi psicobiologici primitivi che, al pari del freezing, hanno uno scopo adattivo. Come sostengono
Arciero e Bondolfi, la paralisi isterica sembra avere alla base un processo cosciente, e non inconscio, e
questo è supportato dal fatto che la somministrazione di sedativi alle persone isteriche, possono portare un
momentaneo ritorno della funzionalità motoria prima deficitaria. La ricerca scientifica sul disturbo isterico
sembra confermare:
1) Importanza del contesto per lo scopo di manifestare una sintomatologia
2) Il fatto che l’inibizione dell’azione ha una natura emotiva e motivazionale
3) Il fatto che la risposta isterica potrebbe avere una natura primitiva e adattiva neurofisiologica
4) Il fatto che i sintomi isterici e la simulazione di questi, non coincidano
Ipocondria
L’ipocondriaco, a differenza dell’isterico, vive i propri segnali del corpo con una emotività che va
dal timore all’angoscia
Il nucleo patologica della sua esperienza deriva dalla mancanza di equilibrio fra i suoi modi di
emozionarsi inward ed outward. Questo si traduce nelle convinzioni di avere una malattia.
In questo caso il modo di emozionarsi congiunto è più spostato sul versante inward
Aspetti nosografico-descrittivi del quadro ipocondriaco, Disturbo da Ansia di Malattia
Vediamo i criteri del DSM 5 per diagnosticare il Disturbo da Ansia di Malattia:
1) Preoccupazione di avere o contrarre una malattia
2) I sintomi somatici non sono presenti, e se lo sono, appaiono di lieve intensità
3) Presenza di un elevato livello di ansia rispetto la salute
4) Il soggetto mette in atto eccessivi comportamenti correlati alla saluta o presenta un evitamento
disadattivo, tipo evitare visite mediche
5) La preoccupazione per la malattia è presente da almeno 6 mesi, ma la presunta patologia può
cambiare
6) La preoccupazione non è meglio spiegata da un’altra diagnosi
Riflessione fenomenologiche e il caso di Fausto
È importante comprendere il ruolo della cognizione-riflessione rispetto l’erronea interpretazione dei pazienti
circa i propri segnali corporei, che permane anche dopo svariate visite mediche. Fausto è un paziente di 27
anni che racconta la sua paura di avere un infarto e le diverse volte che si è recato al pronto soccorso per farsi
controllare. Tutte le volte i medici lo hanno rassicurato, ma questo non era sufficiente a placare la paura per
l’imminente infarto, di conseguenza Fausto continua ad andare dal medico e al pronto soccorso della città
vicino.
Perché Fausto non riesce a rassicurarsi? I medici lo rassicurano, e inoltre buona parte di questi pazienti
cambiano nel tempo l’oggetto dell’ipocondria. Quindi sembra che non sia un problema cognitivo che
riguarda il mantenimento e insorgenza dell’ipocondria.
Il problema sembra legato al fatto che l’esperienza del corpo è vissuta con esagerata intensità, e questa
intensità corporea è avvertita dalla persona come estranea poiché è slegata dai contesti che la generano. Le
persone non ipocondriache riconoscono la malattia perché avvertono un senso di estraneità nei confronti
delle sensazioni fisiche che stanno vivendo, nel senso che escono dal range delle normali sensazioni corporee
quotidiane. Quindi le sensazioni corporee devono apparire estranee al normale sentirsi, e solitamente questa
estraneità può essere collegata al contesto (dolore dopo una caduta) oppure rimanere de-contestualizzata
(dolore al petto senza apparenti motivi). Dopo un consulto medico e di fronte alle rassicurazioni, le
sensazioni diventano meno estranee, o perché ricollegate a una causa, oppure perché quelle sensazioni
vengono riconfigurate come una malattia. Che cos’è che non funziona nel caso dell’ipocondriaco? Secondo
Arciero e Bondolfi, questi pazienti mantengono il senso di stabilità personale attraverso l’enterocezione, ma
le sensazioni corporee vengono riconfigurate come malattia, quindi come qualcosa di estraneo (alterità).
Anche le persone sane percepiscono le sensazioni come estranee, ma la differenza con gli ipocondriaci
deriva dal fatto che le persone sane si sentono rassicurate dai medici, gli ipocondriaci no.
Consumare tempo o
Causare disagio significativo
O compromettere il funzionamento nel lavoro, ambito sociale ecc.
Ossessioni: pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti vissuti dal soggetto con ansia o disagio; 2) il
soggetto prova a ignorare o sopprimere tali pensieri con altri pensieri o azioni (compulsioni).
Compulsioni: 1) comportamenti ripetitivi o azioni mentali che la persona si sente obbligata a mettere in atto
in risposta a un’ossessione o secondo regole che devono essere applicate; 2) questi hanno lo scopo di
prevenire o ridurre l’ansia o disagio, o eventi/situazioni temuti. I comportamenti sono eccessivi o non
realisticamente adatti a neutralizzare o a prevenire l’evento/disagio.
Alcuni psicopatologici lamentano la distinzione netta fra ossessioni e compulsioni, come se fossero
indipendenti, quando le ricerche ci dicono che nel 96% dei casi si presentano congiuntamente e dove il
restante 2.1% presentava solo ossessioni e l’1.7% solo compulsioni.
Abramowitz, Dean McKay e Steven Taylor hanno proposto come le ossessioni e compulsioni tendano a
manifestarsi secondo coerenza tematica, di conseguenza propongono alcuni sottotipi di DOC che elenchiamo
in base alla prevalenza:
Contaminazione e rituali di pulizia: la contaminazione può essere concreta o astratta, tipo la paura del
contatto con i germi e la conseguente paura di ammalarsi, oppure la sensazione di una sporcizia interna e la
paura di infettare gli altri. È evidente che nei due casi le emozioni saranno diverse: nel caso della
sintomatologia per la contaminazione concreta, ci sarà angoscia e paura, nel caso di sintomatologia astratta ci
sarà colpa e vergogna.
Disturbo e controllo compulsivo: parte delle teorie cognitiviste hanno spiegato il dubbio ossessivo come
qualcosa legato all’”esagerata responsabilità”, mentre altri modelli sostengono che un ruolo lo giochino le
componenti metacognitive, tipo la scarsa fiducia nei confronti della propria memoria.
Simmetria e ordine: questi possono essere presenti anche in piccoli e adolescenti DOC, oppure presentarsi in
soggetti sani, ma con uno stile di personalità di tipo ossessivo-compulsivo, in concomitanza con episodi
critici dell’esistenza. Inoltre, il bisogno personale di far “andare le cose nel modo giusto” trova un
corrispettivo nelle ricerche di Pierre Janet sul “sentimento di incompletezza”.
Ossessioni pure?: abbiamo detto che un 2.1% dei pazienti con DOC presenta solo ossessioni: è possibile che
queste siano accompagnate da delle compulsioni più silenziose, definite forme di neutralizzazione mentale.
Tuttavia, la presenza di ossessioni senza compulsioni darebbe un calcio ad alcune teorie cognitiviste che
sostengono che la genesi di entrambe deriva da un processo auto generativo.
Ossessioni autogene e ossessioni reattive: l’intrusione mentale può essere autogena o reattiva, dove le
ossessioni autogene creano ansia per il loro contenuto, tipo pensieri sessuali riprovevoli, invece le ossessioni
reattive hanno come oggetto un contenuto realistico, ad esempio la paura di aver investito qualcuno con
l’auto. È una differenza importante ai fini nosografici poiché le ossessioni autogene appaiono più frequenti
nelle patologie psicotiche.
Accumulo compulsivo: L’hoarding (accaparramento) compulsivo è stato inserito nel DSM 5 come Disturbo
da Accumulo, dove i criteri riguardano la difficoltà a gettare via o separarsi dai propri bene,
indipendentemente dal loro reale valore. Quindi vi è un disagio nel buttare via gli oggetti e questo produce
un accumulo che ingombra e invade gli spazi vitali, generando stress, non permettendo di usufruire né gli
oggetti né gli spazi.
Disturbo da Tic: le evidenze neuroscientifiche mostrano come DOC, disturbo da Tic e Sindrome di Tourette
siano correlati rispetto: la precoce età di insorgenza, una certa comunanza nella risposta alla terapia
farmacologica combinata fra SSRI e antipsicotici. Alcuni sostengono che il disturbo da Tic sia una forma
specifica di DOC.
Aspetti ermeneutico-fenomenologici del disturbo ossessivo-compulsivo
Le persone che sviluppano DOC sono più tendenti a mantenere il senso di stabilità personale in
senso outward. Quindi sono persone che si emozionano e si co-percepiscono a partire dall’Alterità: il senso
di Sé si raggiunge anche dalla definizione dell’altro.
Alterità in questo caso è un insieme di norme e valori impersonali e astratti (siano religiosi, morali o
scientifici ecc.), quindi la stabilità personale è mantenuta attraverso l’adesione a questo sistema di
riferimento. Di conseguenza le altre persone e i diversi contesti saranno mediati dal sistema di riferimento.
Una persona potrà apparire piacevole e degna di nota in base alle possibilità che offre al paziente di
mantenersi attraverso il suo impersonale sistema astratto di riferimento.
Se ogni esperienza di Sé (e del Sé) viene ogni volta riconfigurata alla luce di un set di riferimento
impersonale, la frattura identitaria alla base dell’insorgenza del DOC, deriverà dalla mancata corrispondenza
fra l’esperienza e il set di riferimento. Per esempio, un sacerdote che ha plasmato la sua esistenza in modo
conforme ai suoi ideali cattolici, e si è sempre sentito a partire dal grado di corrispondenza fra le sue azioni e
gli ideali, potrebbe incappare in una alterazione identitaria ossessiva dopo un’improvvisa crisi di coscienza
rispetto la propria fede. Come riconfigurare in modo identitario la perdita della fede attraverso un sistema di
riferimento che si regge proprio a partire dalla presenza della fede?. Il senso di incompletezza e imperfezione
psicologica proposta da Pierre Janet deriva proprio da questa impossibilità di far coincidere le proprie azioni
con il sistema astratto con la quale l’ossessivo si co-percepisce.
Parliamo di Alberto, uno studente di fisica di 19 anni che in seguito a un piccolo incidente mentre passava in
una rotonda, inizia a sviluppare una sintomatologia ossessiva e compulsiva. Nel corso del colloquio emerge
però che questi tratti erano già presenti all’età di 7 quando per paura di imprecare contro l’insegnante,
ripeteva mentalmente tutta la formazione del Milan. L’incidente diventa per lui importante, perché
riguardando mentalmente le regole rispetto il corretto comportamento in auto, si rende conto che la massima
“se rispetto il codice stradale ho la certezza di non causare danni ad altre persone” non era così valida come
pensava. “l’esagerata responsabilità”, insieme all’indecisione e il perfezionismo di Alberto, rappresentano i
suoi modi di essere nel mondo e i modi con cui mantiene la stabilità del suo Sé, e quindi sentirsi
emotivamente situato. La frattura identitaria deriva quindi dalla mancata corrispondenza fra l’esperienza e il
sistema astratto che utilizza per riconfigurare l’esperienza. Proprio perché quel set di regole astratte e
impersonali non garantisce più una adeguata co-percezione di Sé, Alberto passa dall’essere scrupoloso
nell’aderire al codice stradale, all’essere ossessivo alla guida.
Appunti neuroscientifici sul disturbo ossessivo-compulsivo
Alcune teorie neuroscientifiche propongono un coinvolgimento dei circuiti neurali fronto-sottocorticali nella
sintomatologia DOC, per 3 motivi:
1) Presenza di sintomi ossessivi-compulsivi in alcune patologie dell’Ipseità, tipo Sindrome di Tourette,
morbo di Huntington ecc.
2) Presenza sintomi in alcune patologie non storiche, tipo disfunzioni dei gangli della base
3) Miglioramento dei sintomi dopo un intervento chirurgico su questi circuiti
Il modello cognitivista più accreditato che propone una spiegazione della sintomatologia è quello di David
Mataix-Cols e Odile Van de Heuvel. Gli autori sottolineano un coinvolgimento della via diretta e indiretta
cortico-striata-talamica nella produzione e mantenimento dei sintomi:
Via diretta: disinibisce il talamo, con un conseguente aumento dell’eccitazione nella corteccia
prefrontale. A livello comportamentale abbiamo una prosecuzione dell’azione, data la sensazione positiva.
Via indiretta: attraverso caudato e globo pallido abbiamo una inibizione del talamo che a sua volta
produce una diminuzione dell’eccitazione della corteccia prefrontale. Quindi la persona tenderà a inibire il
comportamento messo in atto, magari riposizionandosi e producendo nuove possibilità d’azione.
Quindi l’ipotesi suggerisce una alterazione tra il ruolo di feedback positivo della via diretta e il rinforzo
negativo della via indiretta. L’alterazione deriva dai livelli serotoninergici che causano una eccessiva
influenza dopaminergica sui circuiti fronto-striatali. Infatti, la serotonina ha effetti inibitori sulla dopamina e
forse questo giustifica la risposta positiva dei pazienti agli SSRI.
In uno studio fMRI , le persone DOC rispetto al controllo, presentano un aumento dell’attivazione del
sistema limbico e regioni fronto-striatali ventrali in compiti a valenza emotiva, e una minore responsività
delle regioni fronto-striatali dorsali nei compiti di tipo esecutivo.
Un’altra regione coinvolta è la corteccia cingolata anteriore, che possiamo dividere per funzioni in due parti:
La sintomatologia DOC deriva > da un’alterazione dell’identità personale che a sua volta deriva da
una mancata corrispondenza fra esperienza e il sistema di riferimento astratto e impersonale con la quale la
persona di co-percepisce (Bondolfi e Arciero).
Alcuni tratti emotivo-comportamentali come: indecisione, insicurezza e scrupolosità, rappresentano
dei modi di essere nel mondo che possono essere associati a un tipo di riconfigurazione dell’esperienza che
avviene attraverso un sistema di significati; infatti, finché questi tratti mantengono un buon senso di stabilità
personale, non sono considerati una psicopatologia ossessiva-compulsiva.
L’ipseità è il suo accadere di volta in volta, viene sempre significata tramite il sistema di riferimento,
di conseguenza il mondo sarà coerente con questi significati. Nello specifico, l’accesso alla rete coerente dei
rimandi è mediato dal sistema con la quale il soggetto si co-percepisce. Di conseguenza, ogni incoerenza fra
l’esperienza e il sistema, causa una perdita del senso di stabilità personale, che si traduce in una
disgregazione identitaria.
Le ossessioni in questo caso sono l’outcome prodotto dalla mancata corrispondenza fra esperienza e
sistema astratto; quindi, le ossessioni spesso sono coerenti con quel sistema astratto.
Le compulsioni sono il tentativo di riconnettere l’esperienza al sistema di riferimento, attraverso un
ri-posizionamento della situazione che accade. Di conseguenza vi è una corrispondenza anche fra il
contenuto delle ossessioni e l’azione compulsiva.
Cap. 13, I disturbi del comportamento alimentare
Secondo la nosografia descrittiva, abbiamo:
anoressia nervosa: rifiuto della persona di mantenere il peso corporeo al di sopra del limite normale
bulimia: episodi di abbuffate alternate da comportamenti compensatori finalizzati a controllare il
peso
binge-eating: episodi di abbuffate, ma senza comportamenti compensatori
quindi abbiamo due macro-criteri diagnostici:
1) alterazione del rapporto con il cibo in base al duplice versante ingestivo (ipo o iperalimentazione) -
escretivo (vomito, uso lassativi ecc.)
2) variabile alterazione della percezione della propria immagine corporea
tuttavia, questi criteri non sono coerenti con le evidenze sperimentali che sottolineano come solo il 20% delle
pazienti anoressiche sovrastime il proprio peso corporeo. Inoltre, la autovalutazione di queste pazienti
sembra caratterizzata da un realismo percettivo, ossia sono accurate nel giudicare il proprio grado di
attrattività. Infine, si è visto che anche le behavioral addiction presentano modi di essere nel mondo che
condividono alcuni aspetti con i DCA.
Per comprendere l’insorgenza e il mantenimento dei DCA, dobbiamo indagare il nucleo patologico presente
nei modi esperienziali-corporei che utilizzano queste pazienti per mantenere il senso di stabilità personale,
così da poter dare una lettura fenomenologica anche delle behavioral addictions. Dobbiamo comprendere un
modo di essere nel mondo, la dialettica ipseità-alterità, che caratterizza queste persone sia prima della
comparsa dei sintomi e spesso, dopo la risoluzione di questi.
Anoressia nervosa
Il secolo scorso, due cause proposte per spiegare l’anoressia, hanno ricevuto particolare successo:
1) alterazione dell’immagine corporea
2) tentativo di aderire ai canoni di bellezza centrati sulla magrezza proposti dai mass media
rispetto alla prima causa, gli studi citati prima (20% e realismo percettivo) sembrano evidenziare come
l’alterazione della percezione corporea, non possa essere l’unica e la principale causa. Per quanto riguarda la
seconda proposto, questa viene scartata dalla storia della medicina, difatti nei secoli scorsi, vi erano patologie
anoressiche simili a quelle attuali, quando i canoni di bellezza e la loro diffusione, non erano nemmeno
pensabili. Per esempio, le sante ascetiche, erano donne che rifiutavano attivamente il cibo, secondo una
forma di ascetismo religioso. Anche l’approccio sistemico-relazionale, che pone come causa i conflitti
familiari, non riesce a spiegare l’anoressia, allo stesso modo la proposta di Guidano, di una dialettica Sé-
Altro caratterizzata dai processi antagonisti adesione-demarcazione. Guidano non tiene conto degli aspetti
preriflessivi, ponendo troppo l’accento al significato nella genesi e mantenimento della sintomatologia.
Può esserci una attribuzione di significato, perché l’esperienza è già previamente significativa di per sé e
questa deve essere riconfigurata identitariamente. Come spiegare l’esperienza della fame nei termini di
attribuzione del significato? Qual è il significato dell’essere affamate che condividono le anoressiche
moderne e le ascetiche religiose?
Assumendo un’ottica fenomenologica, il nucleo esperienziale di queste pazienti è caratterizzato dalla
sensazione di essere affamati. Secondo Arciero e Bondolfi, l’esistenza precedente all’anoressia, va ricercato
nel modo di mantenere il senso di stabilità personale di queste pazienti. Il modo di emozionarsi di queste
pazienti è sul versante outward, dove l’alterità è il primo sistema di riferimento che permette di sentirsi
emotivamente situati. Dove:
La paziente anoressica attua uno spostamento, iniziando a co-percepirsi non più sull’alterità, ma
sull’ipseità attraverso la fame che da una parte permette di sentirsi, dall’altra provoca un ritiro verso
di Sé, a discapito dell’altro.
Questo modo di fare esperienza, ossia il mantenersi affamata, genera nella paziente una sensazione
di orgoglio, capacità e senso di forza di volontà. Quindi mantenersi affamata permette di essere
sempre centrati sul corpo e questa esperienza sarà riconfigurata come la manifestazione di una
capacità positiva, ossia il fatto di essere potenti, quando tutto il mondo e le altre persone appaiono
deboli. Come sottolinea una paziente anoressica, la sua collega sarà pure più esperta, ma è grassa e
non ha forza di volontà, non si sa controllare.
Quindi per potersi continuare a sentire, bisogna attuare un controllo del peso, secondo parametri
oggettivi, così da confermare quel senso di forza e potenza sulla quale poggia il mantenimento
identitario di Sé.
Anche l’esercizio fisico è un modo che permette di sentirsi da una parte, e dall’altra di attuare un
controllo del peso.
La sintomatologia anoressica può manifestarsi anche in alcune forma isteriche, detta sintomatologia
anoressica secondaria. Tuttavia, questa non deriva né da un bisogno di demarcarsi dall’altro, né dalla
necessità di sentirsi tramite il digiuno, piuttosto è un modo di utilizzare il corpo per mettersi al centro
dell’attenzione dell’altro.