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Psicoterapia cognitiva neuropsicologica

Cap. 1, Oggetto e soggetto di studio della psicologia


La scienza moderna per studiare l’uomo adotta un approccio in terza persona che tende a categorizzare un
modo di essere di una persona > Marta è depressa. Questa riduzione possiamo definirla l’operazione inversa
dell’individualizzazione e di conseguenza abolisce la singolarità e peculiarità dell’individuo. L’approccio
delle scienze naturali diventa utile se si inserisce in una dialettica con l’approccio in prima persona, sancendo
un passaggio che si dirige dal piano epistemologico al pianto ontologico.
Possiamo identificare due modi di fare scienza dell’uomo: il materialismo riduttivista e il costruttivismo
radicale. Alla base del materialismo riduttivista possiamo ritrovare la riduzione galileiana: Galilei sosteneva
che il corpo sensibile, ossia quello che vediamo, tocchiamo e sentiamo, non è un corpo reale, ma una
illusione. Nella realtà possiamo trovare solo corpi materiali esteri, sostanze materiali estese. Di conseguenza,
se la visione del corpo cambia, anche la conoscenza che facciamo del corpo muta, bisogna dunque secondo
Galilei, affidarci a una scienza delle forme pure: la geometria.
I presupposti sottesi al costruttivismo radicale riguardano la contro-riduzione cartesiana che riporta la
sensibilità (resa illusoria da Galileo) nella sfera dell’Io: difatti individua nel cogito, nell’atto cognitivo, una
certezza prima dalla quale scaturisce ogni conoscenza. Cartesio risolve il passaggio dall’ontologia
all’epistemologia con l’ego-cogito.
La questione di fondo rimane: come trattare l’esperienza umana secondo metodi scientifici (astratti e
categoriali) senza svuotare l’oggetto di studio? Come conciliare la descrizione impersonale scientifica con
l’ontologica irriducibilità a qualsiasi categoria formale tipica dell’uomo? Sottostanti a queste domande, si
articolano una serie di problemi che possono essere così definiti:
• Com’è possibile agire clinicamente seguente teorie oggettivamente validate, senza oggettivizzare il
paziente?
• Com’è possibile realizzare una procedura psicoterapica adatta al singolo se questa è scientificamente
valida solo se manualizzata?
• Come far dialogare le scienze dell’oggetto (approcci scientifico-naturalisti) con le scienze del
soggetto?
Il primo problema tira in causa l’indagine scientifica sul Sé e sulla coscienza, che ha creato due posizioni
contrapposte e inconciliabili. Da una parte troviamo i naturalisti che ritengono che la coscienza sia
un’illusione e che di conseguenza ogni indizio circa il Sé vada ritrovato nella mera attività cerebrale.
Dall’altra troviamo gli antiriduzionisti che vedono i fenomeni mentali come irriducibili, fino ad arrivare a
estremisti che cadono in un moderno dualismo cartesiano. Appare evidente che per i naturalisti lo studio
dell’esperienza umana debba passare per metodiche scientifico-naturali che presuppongono una
categorizzazione di comportamenti osservabili. Per gli antiriduzionisti invece, la comprensione
dell’esperienza umana possiede un ché di noumenico che di conseguenza non può essere di certo accessibile
all’indagine in terza persona. Una possibile mediazione fra le due posizioni può essere rappresentata dalla
visione ermeneutico-fenomenologica.
Il secondo problema, quello della manualizzazione delle procedure psicoterapiche, prevede un aspetto
ontologico e uno razionale:
• Ontologico: com’è possibile applicare la stessa metodologia di cura a persone diverse? È come se la
psicopatologia fosse un qualcosa che si aggiunge nello stesso modo e secondo un’identica
eziopatogenesi, a individui con storie differenti.
• Razionale: com’è possibile nella pratica, creare protocolli terapeutici così complessi capaci di
sussumere l’intero ventaglio della psicopatologia?
Il terzo problema, in parte collegato al primo, sottolinea la necessità di trovare un mediatore fra le posizioni
neuroscientifiche (materialiste) e la psicologia. Il modello cognitivo neuropsicologico assume proprio questa
posizione da mediatore, ossia una posizione ermeneutica. Nello specifico, attua una traduzione fra il
linguaggio specialistico delle neuroscienze e quello della psicologia, che cercano di dire in modi diversi
quasi la stessa cosa. Sottolineiamo il quasi che impedisce appunto che i due linguaggi si riducano a uno.
Vedremo come la mediazione interdisciplinare della neuropsicologia, come scienza ermeneutica, possa porsi
come mediatore fra le neuroscienze che si occupano del corpo (Korper) e la psicologia che si occupa della
carne (Leib).
Frammenti fenomenologici
Heidegger nel 1927 fece un seminario dal titolo I problemi fondamentali della fenomenologia dove definisce
alcuni problemi del ruolo della scienza, dell’essere umano e della psicologia:
Sulla scienza: tutte le scienze hanno per tema l’ente, le scienze positive trattano ad esempio della natura e da
questa ritagliano di volta in volta ambiti sempre più determinati. La natura, che sia fisica o psichica, risponde
nell’esperimento, a ciò che le si chiede. Di conseguenza l’indagine può soltanto confermare l’impostazione
di fondo da cui si muove, ma non è in grado di scoprire il senso dell’ente. (non sono sicura di quello che ho
scritto)
Sull’essere umano: il termine Dasein indica un ente determinato, l’ente che noi siamo, e il modo d’essere
dell’esserci noi lo indichiamo con il termine esistenza. Per esempio possiamo dire di un corpo che sussiste,
ma che non esiste. Al contrario dell’esserci, di noi stessi, non si può dire che sussiste, bensì che esiste.
Sulla psicologia: la psicologia vede l’esserci umano soltanto in sogno, perché deve presuppore
necessariamente la costituzione ontologica dell’esserci umano e del suo modo di essere, che chiamiamo
esistenza. Ma questi presupposti ontologici rimangono irraggiungibili per la psicologia in quanto scienza
dell’ente. La psicologia deve farseli dare proprio dalla filosofia come ontologia.
Individuo e diagnosi
Il caso di Marta, ragazza di 24 anni diagnosticata secondo l’approccio nosografico-descrittivo come depressa
reattiva. Rispetto alla ragazza di poniamo il problema che conduce al “Chi?” di Marta, difatti la sua diagnosi
può interessare oltre il 5% della popolazione generale, quindi la diagnosi accomuna Marta a diversi milioni
di persone che condivide con lei segni e sintomi. Infine la suddetta diagnosi individua un apparente rapporto
causale fra l’improvvisa rottura affettiva e la natura (i modi) della sofferenza di Marta. Porci il problema del
“Chi?” ci permette di restituire a Marta la sua carne e la sua storia.
Quale carne e quale storia?
Che cosa significa restituire a Marta la sua carne? Secondo Marleau-Ponty ognuno di noi è la propria carne,
di conseguenza possiamo accomunare il concetto carne al Leib husserliano, quindi useremo il termine carne
per indicare Leib e lasceremo la parola corpo per indicare il Korper, ossia ciò che rimane dopo la mia morte
e i cui organi possono essere donati. Solo attraverso la carne possiamo affrontare il tema dell’essere sempre
mio, ossia dell’ipseità.
Heidegger: L’esserci non è mai, come ogni ente, identico a se stesso in senso ontologico formale e non è
neppure consapevole di questa identità, distinguendosi così da ogni cosa naturale. L’esserci ha invece
un’identità specifica con se stesso: l’ipseità. Esso è fatto in modo tale che si possiede, e solo per questo può
anche perdersi.
Per rispettare l’unicità dell’altro e della sua esperienza, dobbiamo considerare i modi in cui siamo pre-
riflessivamente presenti a noi stessi. L’ipseità è intesa come: essere sempre se stesso nel senso che
l’esperienza è sempre la mia esperienza, la possiedo, la sento mia, e ogni volta che faccio esperienza mi
sento come me stesso in questa esperienza. Quindi il “Chi?” è un soggetto di esperienza che deve essere
colto attraverso i suoi modi di fare esperienza e non attraverso categorie astratte che possono potenzialmente
essere applicate a chiunque. Ricoeur ci aiuterà ad affrontare il tema dell’identità personale: “il tempo diviene
tempo umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo; per contro il racconto è significativo nella
misura in cui disegna i tratti dell’esperienza temporale”. Quindi attraverso il racconto di Sé possiamo
raffigurare la propria esperienza in una storia; questo processo è un doppio binario che da una parte, porta la
carne al verbo, dall’altra ci consente in psicoterapia, di ritornare dal verbo alla carne. (la verbalizzazione
consente di tradurre ed esporre la propria esperienza in una narrazione, creando una strada a doppio senso
che va dalla carne al verbo).
Scienza e ontologia: ripensare i fondamenti dell’umano per superare le banalità razionaliste
Heidegger sottolinea come ogni scienza positiva sia in grado di cogliere solo un aspetto dell’ente e non può
spiegare con i propri strumenti i presupposti che la fondano: “la psicologia come ogni scienza positiva, ha
bisogno che venga preliminarmente delimitata la costituzione ontologica dell’ente che ha per tempo. Ma la
costituzione dell’essere che ha come oggetto di indagine è irraggiungibile per la scienza, dal momento che
l’essere non è un ente e di conseguenza ha bisogno di essere colto in modo diverso da come l’ente è colto.
Ogni scienza positiva di un ente implica una conoscenza a priori e comprensione a priori dell’essere di
questo ente, anche se la scienza non sa nulla di una tale comprensione, né è in grado di concettualizzare ciò
che in essa (comprensione?) è compreso. La costituzione ontologica dell’ente è accessibile solo alla filosofia
in quanto scienza dell’essere.”.
Le scienze positive come la psicologia o le neuroscienze tematizzano l’ente in prospettive teoriche che hanno
alla base differenti presupposti ontologici. Inoltre è impossibile definire l’oggetto di studio di una scienza
psicologica senza una precedente determinazione dell’essere umano, l’unico essere che si pone il problema
dell’essere e degli oggetti di studio delle scienze. Una posizione neopositivista potrebbe obiettare che
l’essere umano può essere scomposto in sottosistemi e che questi sono possibili oggetti di studio. Questo è
vero, ma la spiegazione dei sottosistemi che compongono l’uomo, non tiene conto per esempio dei motivi
umani, storici e narrativi che portano l’uomo ad agire, ma spiega semplicemente i corrispettivi biologici
dell’agire. Quindi, senza una preliminare ricerca ontologica, l’intera impalcatura scientifica rimane senza
presupposti.
Quindi, quale ontologia per l’essere umano? Secondo Crick non siamo nient’altro che un ammasso di
neuroni, invece in un’ottica psicologica la persona è un concetto primitivo nella quale non si può risalire al di
là di esso senza presupporlo. La biologia e le neuroscienze possono fare a meno della differenza ontologica
nella misura in cui già lo presuppongano e quindi ne studino questo o quell’aspetto derivato.
Ontologia e scienza
L’uomo esiste, e questa è la sua natura ontologica, mentre le cose del mondo sussistono. La diagnosi
nosografica-descrittiva si pone sul piano della sussistenza, rimaniamo sempre su una visione ontica. La
visione moderna dell’uomo, che origina con Cartesio e Galilei, è basata sull’ontologia della scolastica
medievale che a sua volta non si distanzia tanto dalla metafisica aristotelica. Francisco Suàrez, nelle
Disputationes metaphysicae, sistematizza la tutta la problematica ontologica: associa all’ontologia generale
(metafisica generale) associa l’ontologia della natura (cosmologia), ontologia dello spirito (psicologia) e
l’ontologia di Dio (teologia). Secondo Suàrez l’ente può essere:
ens infinitum > Dio
ens finitum > tutto ciò che non è Dio
ens increatum > Dio
ens creatum > tutto il resto
Suàrez intende l’ens creatum come qualcosa che può essere chiarito soltanto attraverso una descrizione, ossia
attraverso degli attributi. Però solo Dio può arrivare all’essere, ossia al di là degli attributi dell’ente, l’uomo
può cogliere l’ente solo attraverso la descrizione di questo o quell’attributo. Ma qualunque descrizione non
coglierà mai l’essere della cosa, poiché secondo l’ottica medievale e la filosofia moderna, possiede un essere
inaccessibile a un ens creatum come l’uomo. Solo in Dio essenza ed esistenza coincidono. Per l’ente (ens
creatum) l’esistenza è dovuta a qualche causa.
Per capire la descrizione del Sé attraverso categorie (diagnosi) bisogna analizzare la filosofia del soggetto
partendo da Cartesio e riferendoci a Kant. La visione kantiana dell’essere umano crea uno sfondo dal quale
emergono la maggior parte degli approcci psicologici alla soggettività. Proprio il superamento dell’ontologia
classica, che inquadra l’uomo come “cosa sussistente” e “categorizzabile”, ci consentirà di compiere un
passo in avanti rispetto al cognitivismo tradizionale. I concetti ontologici di Cartesio derivano dalla
metafisica classica (d’Aquino, Suàrez, Duns Scoto), ma Cartesio introduce in più un focus sul ruolo del
soggetto in modo da stabilire un punto di partenza sicuro dal quale muoversi per giungere a una conoscenza
certa e indubitabile. Per Cartesio ogni cogitare, ossia ogni giudizio, desiderio, azione è: io giudico, io
desidero, io agisco. Questo tipo di soggetto moderno, obbliga a derivare tutto il resto (natura, mondo ecc.)
dal soggetto stesso: quindi mentre posso essere certo della res cogitans, tutto ciò che mi sta di fronte divetna
oggetto, res extensa, e di questa non posso essere certo e posso parlarne solo in funzione di un previo e certo
Io-Soggetto. Da questa visione all’Io penso kantano e poi all’idealismo tedesco il passo è breve. Kant con
l’Io penso, assicura alla res cogitans un dominio assoluta sulla res extensa: l’ente, la cosa, il pc e il bicchiere
diventano tutte rappresentazioni determinate dall’Io penso. La filosofia trascendentale di Kant è la sua
ontologia e questa è un’ontologia delle categorie. Del pensiero ontologico medievale rimane che l’essere non
può essere colto nella sua essenza, resiste il noumenico non accessibile. Il soggetto kantiano è un soggetto
autocosciente perché consapevole dei propri predicati, e questa autocoscienza è l’ontologia del soggetto. da
qui risulta facile operare una svolta in senso idealistico ossia un’autocoscienza come spirito assoluto.
Il problema che abbiamo cercato di delineare in questo paragrafo può essere così riassunto: come può una
psicologia scientifica (ossia scienza positiva) definire il proprio oggetto di studio in modo da poterlo studiare
per quello che è? Lo sforzo ontologico, ossia tentare di capire la natura propria dell’essere umano, non
rappresenta per la psicologia l’unico modo per definire il proprio oggetto di studio? Coloro che sostengono
non sia necessaria l’ontologia per fare psicologia, non si rendono conto che utilizzano l’ontologia medievale,
quella della sussistenza, dell’ens creatum e quindi si approcciano all’uomo con la stessa metodologia che ci
fa giungere alle cose create e prodotte.
La differenza ontologica
Le scienze naturali non si pongono il problema circa la natura ontologica dell’ente che stanno studiando,
danno per scontato che il loro oggetto di studio sia sussistente. Una cosa che sussiste può essere colta
attraverso le categorie, ossia compreso attraverso la categorizzazione delle sue strutture e funzioni.
Nell’uomo invece, la sua natura ontologica si declina nell’esistenza e questa non può essere colta attraverso
una categoria formale o spiegazione funzionale. Difatti Heidegger afferma: “l’essenza dell’esserci consiste
nella sua esistenza, l’esserci non ha dunque il modo di essere di ciò che è semplicemente presente nel
mondo”. Secondo Heidegger l’esserci si possiede: l’ipseità, l’essere sempre mio dell’esperienza nel mio
scambio quotidiano con il mondo, è qualcosa di irriducibile a qualunque categoria. L’irriducibilità è data
dall’ipseità che è presente in tutti i modi di essere dell’essere umano. L’esistenza è l’essere dell’esserci.
Cogliere l’uomo attraverso categorie, significa cogliere gli aspetti secondari (proprietà) che non riguardano
l’essere. L’ente può essere un “Chi?” (esistenza) o un “Che cosa?” (semplice presenza, sussistenza), ma
l’esserci si comprendere attraverso i suoi modi di essere, non attraverso categorie. La riflessione
sull’ontologia del proprio oggetto di studio, non è un plus che si aggiunge alla disciplina, ma è qualcosa che
deve precedere l’indagine scientifica, poiché determina la metodologia di indagine applicata sull’oggetto di
studio. Le neuroscienze studiano l’uomo come se fosse una cosa, scomponendolo nelle sue componenti
strutturali, invece la psicologia e in particolare la psicoterapia, non può evitare di considerare l’uomo nella
sua esistenza (essenza), nei suoi modi di essere ogni volta diverso, ma sempre se stesso, perché perderebbe il
suo oggetto (soggetto) di studio.
Le metodologie in terza persona e quelle in prima persona, possono dialogare proficuamente poiché dicono
in modo diverso quasi la stessa cosa. Ma la domanda di fondo che muove questo libro è: esiste un metodo
razionale per le discipline che voglio cogliere il singolo individuo? Ossia che non voglio utilizzare astrazioni
categoriali? Se io volessi studiare Marta, devo per forza riportarla a schemi astratti del suo funzionamento o
sono possibili altre metodologie altrettanto razionali? La differenza ontologica e l’evidenza dell’ipseità
(l’essere sempre mio dell’esperienza) ci illustrano il problema di quale sia il metodo attraverso il quale
cogliere l’essere umano in prima persona. Vedremo che questo metodo deriva dalla fenomenologia-
ermeneutica il cui corrispettivo in psicologia e psicoterapia è l’approccio ermeneutico-fenomenologico.
Epistemologia e scienza
Il problema se si possono considerare scientifiche le discipline storiche e umanistiche deriva dalla
contrapposizione fra ermeneutica ed epistemologia. L’ermeneuta, l’interpreta, non è in grado di stabilire se il
massaggio che trasmette sia vero o falso, questo è compito dell’episteme che sancisce o meno la verità della
cosa, ossia nella sua accezione più vasta di sapere razionale. La differenza tra ermeneutica e scientistica
diventa comprensibile se riprendiamo le due posizioni sopra citate: la prima, rappresentata da Dilthey, ritiene
impossibile una comprensione dell’umano attraverso l’approccio scientifico naturalistica, difatti l’autore
propone due differenti modi scientifici, quello delle scienze della natura e quello delle scienze dello spirito,
divisione che però causa un baratro fra il problema della spiegazione e quello della comprensione. Il secondo
approccio segue invece il sogno positivista di una scienza unificata, ricordato la manifesto degli empiristi
logici del Circolo di viene che vede appunto una concezione scientifica fondata sull’unificazione della
scienza basata a sua volta da una ricerca sistematica e un sistema globale di concetti. Alla base di questi due
diversi approcci ritroviamo una differente visione dei concetti di “verità” e di conseguenza di “scientificità”.
Per i neopositivisti e per la filosofia analitica la verità è un’adeguazione del “pensiero alla cosa” ossia il
processo con il quale il pensiero, nella sua attività conoscitiva, tende ad aderire pienamente alla realtà,
processo raggiunto anche attraverso una coerenza interna del linguaggio. Per l’ermeneutica, da Heidegger in
poi, la verità rimanda al concetto greco di alétheia, ossia apertura, disvelamento, condizione prima di ogni
singolo vero. Solo perché siamo in questo mondo, con questa storicità culturale e sociale, e solo perché i
fenomeni si manifestano in questo mondo secondo storia e cultura, che possiamo parlare di verità come
adeguazione del pensiero alla cosa. Secondo Heidegger, la verità appartiene alla costituzione ontologica
dell’esserci stesso: “rispetto a chi sostiene che la verità è in sé qualcosa di eterno (…) certo 2+2 fa 4 ed è una
verità che non dipende da alcun soggetto, ma la verità è solamente e fintanto che vi è l’esserci che disvela,
che esiste nella verità? Le leggi di Newton, non sono vere dall’eternità e non erano vere prima che Newton le
scoprisse. Sono diventate vere solo nella e con la scoperta, perché questa è la loro verità”. Solo finché
l’essere umano esiste, risulta possibile questo incontro tra un modo di manifestarsi dell’ente e un modo di
coglierlo dell’essere umano. La teoria della relatività rispetto a teorie precedenti, è più vera nel senso che i
fenomeni indagati vengono incontrati attraverso un orizzonte più ampio, c’è più disvelamento. La teoria
della relatività disvela maggiormente l’ente indagato rispetto alle teorie di Newton. Se la verità è possibile
solo per un essere che vive nella verità, allora la conoscenza scientifica che si basa su verità come
l’adeguamento è conseguente ai modi dell’esserci in quel specifico momento storico. Quindi l’epistemologia
e l’ermeneutica possono riferirsi al concetto di verità come conformità e verità come apertura
(disvelamento). Ma la dicotomia epistemologia-ermeneutica è una contrapposizione cieca, perché non si può
sostenere che l’ermeneutica e le scienze umane siano frutto d’intuizione, mentre l’epistemologia sia il luogo
della logica. Non esiste attività scientifica che non sia anche interpretazione, e non esiste alcuna
interpretazione che non abbia anche qualche forma di coerenza logica. Le scienze dure non operano su fatti
bruti, ma su concetti che possono spiegare la realtà, proprio perché derivano da una pre-comprensione non
scientifica della realtà stessa.
*dalle precisazioni sul metodo scientifico e quindi da Galileo in poi, la natura è diventata comprensibili nei
termini della matematica, e nella misura in cui essa si lascia quantificare.
La psicologia cognitiva standard ha adottato un metodo d’indagine della mente umana accomunabile a quello
adottato dalle scienze naturali per studiare l’organismo. Se da una parte è apprezzabile perché procede
secondo scienze, dall’altra traduce l’uomo in sistema formale-razionale, quindi paga la verificabilità
empirica con l’eliminazione del suo oggetto di studio, ossia l’uomo. L’uomo secondo categorie e funzioni
elude il “Chi?”, ma se l’ontologia ci permette di differenziare il corpo dalla carne e se il corpo può essere
studiato con i paradigmi delle scienze, rimane da proporre il metodo per lo studio della “carne che io sono”.
La disciplina che studia l’esperienza in prima persona è la fenomenologia: scienza dell’esperienza. Invece la
disciplina che studia l’autobiografia, il personaggio che io sono nel racconto di me, è l’ermeneutica. Da qui
la matrice filosofica di fondo, la fenomenologia-ermeneutica, il cui corrispettivo psicologico è il metodo
ermeneutico-fenomenologico.

Capitolo 2, Cognitivismo
Cosa accomuna i cognitivisti? 2 caratteristiche di base
• Verificabilità empirica
• Interdisciplinarietà dei modelli mentali proposti
Questi presupposti permettono il dialogo fra le diverse discipline che compongono la scienza cognitiva,
passando per la mediazione della neuropsicologia.
Il modello cognitivo neuropsicologico che proponiamo, presenta degli elementi di continuità e discontinuità
con la storia del cognitivismo.
La necessità di una proposta che tenga in considerazione il soggetto, richiede una riformulazione ontologica
dell’oggetto di studio: se l’uomo è un esserci, lo studio del suo comportamento deve partire dal suo essere-
nel-mondo, e non da una mente che non lo incontra mai (noumeno). Stessa cosa per il corpo, che secondo
Ricoeur, è la prima alterità dell’ipseità, ossia unico luogo della mia esperienza che costituisce sia il punto di
partenza che di arrivo di una qualsiasi operazione riflessiva. L’ipseità è un esistenziale pre-riflessivo e da
questo ne consegue l’identità narrativa, ossia la capacità di assumersi riflessivamente. L’ipseità, ossia il fatto
di sentirsi sempre se stessi nell’esperienza, non è una aggiunta, ma qualcosa che ci caratterizza come esseri
umani.
Cognitivismo: esordi
Una delle critiche che viene rivolta al cognitivismo, è quella di avere dei presupposti cartesiani, questo
perché sostiene come la conoscenza del mondo passi per atti riflessivi prodotti dai processi mentali, come se
l’esperienza fosse muta. In questi termini, il mondo ci appare significativo solo a partire dalla razionalità, e
l’esperienza diventa significativa solo se illuminata dai processi mentali. Quindi sia la dicotomia mente-
corpo, sia la natura riflessiva e privata del significato, sono concezioni cartesiane dell’uomo. Sottostante al
passaggio dal significato > all’informazione, possiamo ritrovare l’analogia uomo-computer, fondata verso il
1940 dalla cibernetica. Quest’ultima ha il pregio di aver portato l’interdisciplinarietà nella psicologia, al fine
di una comprensione del comportamento umano, ma ha portato con sé anche l’analogia riduzionistica uomo-
computer, che tutt’ora il cognitivismo sta cercando di superare. I concetti che caratterizzano la cibernetica
sono: informazione, feedback (retroazione) e programmazione. Il padre della cibernetica è Norbert Wiener
che nel 43 scrisse insieme ad un fisiologo e un ingegnere: Behavior, purpose and Teleology dove propone
una nozione di feedback come operazione atta all’autoregolazione del comportamento. In più fa una
distinzione fra comportamento:
• Teleologico: è il comportamento finalizzato, ossia il feedback > l’output comportamentale è il
prodotto dell’input esterno e della rielaborazione dell’input.
• Non teleologico: non feedback
• Propone analogia fra il feedback delle macchine e il feedback motorio: entrambe regolano il proprio
comportamento attraverso operazioni di retroazioni (verifica del risultato del comportamento). Un
esempio di feedback non funzionante lo osserviamo nei pazienti con lesione che presentano atassia
cerebellare.
Questo articolo viene considerato uno dei primi lavori cognitivisti ed espone tre caratteristiche che
domineranno la successiva psicologia cognitivista:
• Interdisciplinarietà: la cibernetica è una scienza interdisciplinare per due ragioni: da una parte cerca
di spiegare il comportamento secondo una logica computazionale applicabile anche alle macchine,
dall’altra per farlo, ha bisogno della collaborazione tra specialisti.
• Metafora dominante: per spiegare il comportamento adottano l’analogia mente-macchina
• Neuropsicologia: la capacità di compiere movimenti volontari viene valutata in base alle evidenze
neurofisiologiche.
Queste caratteristiche faranno parte sia della seconda cibernetica, che della “rivoluzione cognitivista” della
fine degli anni cinquanta.
Seconda cibernetica (o teoria dei sistemi che si osservano) > mossa in primis da Heinz Von Foerster che
insieme a matematici, ingegneri, neurofisiologi ecc. si trova a sviluppare ulteriormente i principi della prima
cibernetica, cambiando però l’oggetto di studio: non il sistema, ma il sistema come viene “inteso” da colui
che lo osserva. La seconda cibernetica darà origine a nuovi filoni come il costruttivismo e questo sarà il
fondamento epistemologico sia della psicoterapia cognitiva di seconda generazione, sia del primo post-
razionalismo di Vittorio Guidano.
Cognitivismo: non solo cognizione
Nel 1960 Miller (psicolinguista), Glanter (psicologo matematico) e Pribram (neurofisiologo) nel testo Plans
and the structure of Behavior trattano fra temi dalla memoria alla personalità e dal comportamento animale
alla psicopatologia. Quindi fin dall’inizio il cognitivismo intende la cognizione umana come > insieme di
facoltà umane quali memoria, linguaggio, emozioni, sentimenti ecc. Questo lo si vede anche con la nascita
nel 79 della Cognitive Science Society che unisce i vari studiosi della disciplina: il loro scopo è la
comprensione della mente umana attraverso lo scambio di molte discipline fra cui l’intelligenza artificiale,
antropologia, filosofia, pedagogia e neuroscienze. Quindi l’interdisciplinarietà è indispensabile per la
comprensione della mente umana. Questo comporta inevitabilmente, che i cognitivisti possano a volte fare
ricerca a partire da presupposti ontologici ed epistemologici molto diversi, come Fodor con i suoi
presupposti computazionali e Bruner con la sua visione dei processi mentali naturalmente intersoggettivi.
Quindi ciò che accomuna i cognitivisti sono due assunti:
• Interdisciplinarietà: la mente umana, data la sua complessità, deve essere indagata grazie al
contributo di differenti settori.
• Verificabilità empirica e coerenza interdisciplinare: i modelli esplicativi devono essere coerenti con
le altre discipline cognitiviste che si occupano dello stesso oggetto di studio e devono poter essere
convalidati sperimentalmente.

“Neuro” e “psi”
Se il cognitivismo è una disciplina sperimentale, in terza persona e interdisciplinare, definire la
neuropsicologia appare più complicato, e soprattutto, cosa differenzia questa dalla neuropsicologia cognitiva
o clinica, dalla psicofisiologia, psicobiologia ecc.?
Le discipline che associano “neuro”/ “bio” a “psi” cercano di spiegare qualcosa in più rispetto la relazione
fra processi psichici e processi biologici. Queste discipline abbracciano posizioni estremiste: i dualisti
radicali, che sostengono come la mente e la materia siano due sostante irriducibili l’una all’altra, e i monisti
materialisti (riduzionisti ed eliminativisti) che aspirano a una sostituzione del linguaggio psicologico a favore
di un linguaggio biologico. Invece le scienze senza “psi”, come le neuroscienze e la neurofisiologia, studiano
i processi della biologia nervosa oppure processi psicologici, ma alla luce della sola teoria biologica (quindi
amiconi dei monisti). Rispetto a questo, la fenomenologia rifiuta qualsiasi disciplina che applica un metodo
che intende spiegare l’uomo esclusivamente in base alla sua biologia.
Galimberti: “Se si isola il corpo dall’esistenza, se lo si astrae dal suo vissuto quotidiano, ciò che si incontra
non è più la corporeità che l’esistenza viva, ma l’organismo che la biologia descrive”.
La posizione che vogliamo assumere è fondamentalmente ermeneutica e la neuropsicologia lo è, quindi
potrebbe rappresentare quella teoria intercampo (concetto utilizzato da Bechtel in un lavoro dedicato al
rapporto fra filosofia della mente e scienza cognitiva) per spiegare come associare i fenomeni studiati da due
differenti campi di ricerca (in questo caso fenomenologia e neuroscienze) senza che una teoria venga ridotta
a un’altra. Questo è possibile perché entrambe, pur utilizzando linguaggi diversi, studiano quasi la stessa
cosa. Perché la neuropsicologia è una disciplina con una base ermeneutica? Perché cerca di tradurre un
modello del funzionamento psicologico in uno neurale e viceversa: per esempio nella TMS, il compito del
neuropsicologo è quello di facilitare l’emergenza di una esperienza attraverso una stimolazione cerebrale, ed
è un confronto tra due modi di dire quasi la stessa cosa.
Psicoterapia cognitiva
Ciò che è importante sapere circa lo sviluppo della psicologia cognitiva è che non esiste un paradigma
unitario, ma solo due vincoli essenziali entro cui si fa psicoterapia cognitiva: adottare dei modelli di
intervento empiricamente validabili e confrontarsi con tutti coloro che studiano diversamente quasi la stessa
cosa.
• Psicoterapia cognitiva nasce ufficialmente negli anni 60, quindi dopo i primi esordi della cibernetica
e della prima psicologia sperimentale
• Beck e Ellis sono considerati padri della psicoterapia cognitiva, invece Bandura è una via di mezzo
tra la psicoterapia comportamentale e quella cognitivista, data la sua teoria dell’apprendimento
sociale.
• Cognitivismo italiano: Liotti e Guidano

Il primo post-razionalismo
Primo post-razionalismo > di Guidano che termina proprio il termine alla fine degli anni 80 per indicare il
cambiamento epistemologico del cognitivismo tradizionale, che secondo lui era ancora attaccato
all’empirismo e ai suoi assunti di base. Questi per Guidano erano due: 1) esiste un ordine esterno dato dove il
senso delle cose è oggettivamente contenuto 2) si può osservare e comprendere in modo oggettivo e univoco
l’ordine esterno. Per superare quest’impasse empirista della psicologia cognitiva, Guidano assume una
prospettiva costruttivista. Questa va fatta risalire alla seconda cibernetica, che porta avanti una concezione
dell’uomo come naturalmente auto-referenziale: esso è un sistema dotato di vincoli organizzativi e apertura
strutturale. Ogni uomo fa esperienza in base ai suoi vincoli sensoriali, e giunge a dare significato
all’esperienza attraverso un atto riflessivo. L’Io che agisce ed esperisce, e il Me che dà significato
all’esperienza, produce il Sé. L’auto-organizzazione del sistema coincide con la sua organizzazione di
significato personale (OSP). Per Guidano l’OSP va intesa come un processo unitario la cui coerenza interna
va ricercata nel modo di elaborare la conoscenza. Questo modello teorico mantiene alcuni problemi che
derivano dalle teorizzazioni kantiane, problemi che possiamo sussumere attraverso la seguente frase “Non ci
sono fatti, solo interpretazioni”. Possiamo quindi dire che il modello teorico del primo post-razionalismo
mantiene una visione del Sé tipicamente moderna: continuità, unitarietà e inferiorità. Tuttavia dobbiamo
riconoscere a Guidano il merito di aver proposto una psicologia cognitiva meno meccanicistica rispetto la
tradizione cognitivista classica.
L’approccio cognitivo neuropsicologico: primi concetti
L’uomo della fenomenologia ermeneutica è:
• Il Dasein di Heidegger
• Il corpo che sono io di Merleau-Ponty
• L’identità narrativa di Ricoeur
Il suo approccio vede il comprendere come un atto legato all’ambiente culturale, a un corpo e a una
situazione personale ricostruibile narrativamente. L’incontro tra fenomenologia e l’ermeneutica supera
l’alternativa che si pone fra lo scegliere l’esperienza in prima persona (mente fenomenologica) e l’esperienza
in terza persona (mente cognitiva). > non ho capito il collegamento fra fenomenologia ermeneutica e
approccio cognitivo-neuropsicologico
La psicoterapia cognitivo-neuropsicologica è > un modello di cura la cui teoria deriva dall’incontro tra i
linguaggi delle scienze umane e quelli delle scienze biologiche. Neuropsicologico è il metodo per realizzare
la traduzione tra i diversi linguaggi specialistici, fra biologia e psico-fenomenologia. Si tratta di una
prospettiva ermeneutica di tipo teorico e di ordine tecnico-applicativo.
• Livello teorico: rappresenta il mediatore fra le discipline che cercano di dire ognuna con il suo
linguaggio, quasi la stessa cosa
• Livello tecnico-applicativo: fornisce un metodo per l’articolazione di una tecnica psicoterapeutica
fondata su presupposti ermeneutici e semiotici
Infine, l’intera psicopatologia va considerata come parte della più ampia neuropsicopatologia.
Sto capitolo è incomprensibile e inutile

Capitolo 3, Identità personale


Com’è possibile essere sempre la stessa persona nonostante il cambiamento? Come facciamo a rimanere gli
stessi nonostante il tempo che passa?
queste domande pongono il problema dell’identità personale, che va affrontato facendo una distinzione fra
medesimezza: ciò che non muta
ipseità: l’essere sempre mio dell’esperienza
il problema dell’identità non è stato adeguatamente affrontato dal cognitivismo, soprattutto rispetto l’analisi
ontologica di che cosa intendiamo per identità, di conseguenza la riflessione cognitivista si è basata
unicamente sulla medesimezza glissando il fattore ipseità.
Il concetto di identità è cambiato in base al momento storico, difatti possiamo fare una distinzione fra il
concetto di identità personale durante la pre-modernità, modernità e post.
Pre-modernità
• Categorie normative-sociali, quindi stratificazione sociale
• In epoca medievale abbiamo l’identità assoluta di Dio, e tutto ciò che viene creato da Dio, caduco e
imperfetto.
• Non esisteva realmente un problema circa l’identità, nella pre-modernità contavano simultaneamente
solo due aspetti: differenza da Dio, e unità identitaria con il proprio gruppo sociale di appartenenza.
Non c’era bisogno di autodifferenziarsi, poiché questa erano già prescritte nelle norme sociali che si
manifestavano esteriormente attraverso i vestiti, le abitazioni, il lavoro ecc.
• Ogni soggetto viene identificato e ridotto alle pratiche che condivide con gli altri soggetti che
appartengono al suo gruppo sociale, di conseguenza non c’è bisogno di indagare rispetto le sue
intenzioni e motivazioni, come se l’osservazione del comportamento fosse sufficiente (intenzione
coincide con azione)
• La realtà non è riducibile all’identità
Modernità (America, cogito, metodo scientifico, riforma protestante)
• Aspetti tipici della Modernità
• Il mito del progresso necessario e infinito
• Dominare la natura
• Emanciparsi dalla metafisica
• Oggettivismo, rilevare il vero
• Che schifo l’esperienza fenomenica
• Universalismo naturalistico, ossia che se la ragione è presente in tutti gli uomini, allora tutti
gli uomini sono uguali, per motivi naturali
• Categorie kantiane
• Il Sé moderno è res cogitans, interiore e continuo
• L’identità dà forma all’esperienza e alla realtà

Post- modernità
• È un concetto che non ha un significato prettamente cronologico: con post-moderno ci riferiamo a
modo diverso di rapportarsi al moderno (né di opposizione, né di superamento), ossia un modo
critico di vedere la modernità, sancito da Nietzsche con la morte di Dio e Heidegger con la fine della
metafisica
• Quindi possiamo dire che i modi che caratterizzavano il Sé moderno, non sono gli stessi dell’uomo
post-moderno

Possiamo distinguere “diversi tipi” di identità:


• Identità numerica: A=A dove A è identica a se stessa
• Identità specifica: A=B dove A e B sono uguali in base ad alcuni/ un elemento pertinente, tipo Mario
e Maria sono due nevrotici, dove la nevrosi compone un’identità specifica.
Identificare qualcuno attraverso la sola medesimezza, significa riferirci all’identità specifica. Infatti la
medesimezza si riferisce a una specie di nucleo immutabile (una sostanza) della persona, che rimane lo
stesso e permette ogni cambiamento. Di conseguenza è come dire che l’identità di Mario è la sua
introversione, o il fatto che sia ossessivo, o basarla sul suo codice genetico. Ma in questo modo abbiamo
identificato un carattere, una categoria diagnostica e un corpo biologico, non abbiamo identificato Mario,
sposato tre volte, che ama il calcio e odia le campane. Queste appena citate, sono forme d’identità in terza
persona, ma l’identità dovrebbe essere il sentirsi sempre se stessi nei costanti cambiamenti. Quindi se la
relazione d’identità deve avere due termini, uno di questi termini deve essere l’ipseità, ovvero l’essere mio
dell’esperienza, che aggiunge quel senso di “proprietà”. Secondo Ricoeur, l’altro polo è il racconto di Sé.
Quindi possiamo vedere un legame fra l’esperienza e il racconto di quella esperienza che forma l’identità
personale, dove quest’ultima dipenderà dai limiti e dalle possibilità dei propri modi di fare esperienza e della
propria narrazione.
L’identità cosale e identità del Chi
Ad un medico l’identità basata sulla pura medesimezza, può anche bastare. Mario di 44 anni è identità a
quando ne aveva 5 e a quando ne avrà 70, poiché ha lo stesso codice genetico. Tuttavia questo tipo di identità
non è pertinente per la psicologia, che non cerca un corpo, ma la carne. Alla psicologia serve l’identità in
prima persona: Chi sono io?. Solitamente ad una domanda del genere risponderemmo secondo categorie:
sono una studentessa, single, italiana, di 24 anni ecc.
Per Ricoeur l’identità è un qualcosa di dinamico nel tempo, una dialettica fra medesimezza e ipseità, che
rende l’Io una totalità chiusa e compita da un lato, quello dell’Io-idem, e dall’altro una totalità aperta e
soggetta a mutamenti ed evoluzione, l’io-ipse. Quindi medesimezza e ipseità sono in relazione.
Identità medesimezza > Ricoeur intende il lato statico dell’identità, il nucleo permanente del sé, sede sia dei
tratti innati della personalità (carattere), sia dei tratti acquisiti dall’esperienza e assimilati. Per l’autore il
carattere è quell’insieme di elementi che permette di reidentificare un soggetto come lo stesso nonostante il
passare del tempo. Il carattere per Ricoeur è il che cosa del chi.
Identità ipseità > si riferisce al lato dinamico del processo di identificazione, aprendo il soggetto
all’esperienza dell’altro da sé. Per l’autore in questa è importante la promessa, ossia un esempio di come il sé
permane nel tempo, nonostante i cambiamenti, attraverso la parola data. Infatti il soggetto deve rimanere
fedele alla promessa dal momento in cui la formula al momento in cui la realizza, fedele nel significato
perciò identico a se stesso.
Per Ricoeur la dialettica non è solo fra ipseità e medesimezza, ma anche fra la tendenza all’uscire fuori di sé,
aprendosi all’altro, e il bisogno di una chiusura stabilizzante dall’altro. Quindi la struttura ontologica
dell’essere umano è in costante conflitto fra due tendenze apparentemente contraddittorie, stare con l’altro,
ma difendere la propria autosufficienza: il soggetto deve imparare, durante la propria vita, a riconoscere la
propria finitezza e ad abituarsi alla costante tensione rispetto alle molteplici possibilità di diventare se stesso
nel rapporto con l’altro.
L’uomo è fin da subito capace di differenziarsi dal contesto e dagli altri e questa è una prima forma di
Identità corporea, un Sé carnale. Quindi possiamo dire che il punto di partenza per identificarmi con me
stesso è l’essere sempre mio dell’esperienza (cita anche l’esperimento di Castiello).
Un altro bias rispetto l’identità riguarda il fatto che sia riflessiva: mi riconosco in questo perché mi credo una
rappresentazione mentale di me. Tuttavia alcuni nostri aspetti possono apparire anche a livello pre-riflessivo,
per esempio attraverso l’attivazione del sistema specchio se io sono un ballerino classico e osservo un altro
ballerino di danza classica. (pag. 72 ma non ho capito un cazzo)
6. Il fallimento degli approcci costruttivisti nel rendere conto dell’identità personale
La visione ontologica dell’uomo degli approcci costruttivisti, è identica all’uomo cognitivista razionalista:
l’uomo kantiano.
• Percepisce la realtà in modo pre-riflessivo, poiché ha degli schemi a priori
• L’esperienza è muta e richiede un atto riflessivo per diventare significativa, ossia oggettivarla come
il contenuto di un “Me”
• Crea un regresso, perché se l’esperienza dipende da un “me”, chi giustifica e mi consente di
conoscere “me”?
La maggior parte degli approcci clinici, considera l’identità-idem, basata su un Sé cartesiano, che riduce la
variabilità dell’esperienza all’identità del sistema. Di conseguenza, il modo discontinuo in cui facciamo
esperienza non viene considerato come un modo di essere nel mondo, ma come una alterazione della
continuità. Qui si fonda l’idea che la psicopatologia sia il risultato dell’incapacità di integrare eventi di vita e
di conseguenza la cura si basa sulla consapevolezza con il fine di integrare l’evento discrepante. In questo
modo però, la mutevolezza del Sé (Io) viene ridotta alla permanenza di Sé (Me). In questa ottica, l’identità è
l’auto-organizzazione del sistema stesso e non una relazione. Siccome non vogliamo un’identità colta solo
sull’essere identico del funzionamento del sistema, richiediamo un rapporto tra esperienza e configurazione
narrativa dell’esperienza. Grazie all’identità narrativa, posso riconoscere il personaggio come sempre lo
stesso, nonostante la variabilità dell’esperienza.
Identità narrativa come mediazione tra medesimezza e ipseità
L’identità personale può cogliere sia l’ipseità che la medesimezza? Secondo Ricoeur è l’identità narrativa
che raccoglie in un unicum i due aspetti, dove quell’unico è la storia di Sé. In questo modo avremo una
relazione di identità dove i due termini sono: l’ipseità, l’essere sempre mio dell’esperienza, e l’identità
narrativa che configura la sua esperienza in una storia. Come io sono il mio corpo, sono anche il mio
racconto, l’aspetto importante non è il fatto che venga raccontato da me, ma che mi appartiene. Infatti la
memoria autobiografica è diversa da quella semantica, poiché quest’ultima contiene la ricetta del
cicciopancake, la prima conserva il mio primo giorno a Crossfit, e questo mi appartiene. Tuttavia la memoria
autobiografica contiene altri ricordi come:
• Il non-ricordo > sono i ricordi che mi appartengono, ma che non sento di averli vissuti, come il fatto
che sono nata a Comiso.
• I quasi-ricordi > sono ricordi che sentiamo che ci appartengono parzialmente, o perché non è stato
completamente memorizzato, o perché è stato dimenticato.
Infine ciò che caratterizza i ricordi episodici della propria vita, e che questi sono inseriti in un frame spazio-
temporale, infatti questi ricordi hanno un significato proprio anche perché sono obbligata a disporli nella
sequenza temporale che fa parte della mia vita.
8, siamo nel mondo, ogni volta, in una atmosfera emotivamente intonata di significati, ancora prima di
qualsiasi riflessione
Il nostro Leib, il corpo che sono, la carne, fa esperienza in questa o quella tonalità emotiva (Stimmung).
• Questa non è un’emozione, perché non ha un contenuto/oggetto intenzionale, tuttavia sono una delle
condizioni per l’emergenza di altri stati intenzionali. La tonalità emotiva, Stimmung, si riferisce al
nostro essere nel mondo secondo una certa modalità.
• Indica in tedesco:
• Tonalità: stimme vuol dire voce, stimmen, invece, accordo (tipo degli strumenti). Come uno
strumento può essere accordato o meno, così anche la stimmung, che nelle sue diversi parti è
intonato uniformemente su un certo tono.
• Situazione, atmosfera: questo implica che nella Stimmung ci si trova, non la si decide.
Inoltre crolla la dicotomia esterno-interno: l’atmosfera crea una sintonia tra la coscienza e il
mondo
• Legato al concetto di stimmung troviamo quello di Befindlichkeit, ossia “fenomeno originario
dell’esserci” “esperienza fondamentale”, il sentirsi, l’essere in un certo stato d’animo, in una certa
tonalità affettiva che precede il sentimento o l’emozione. Befindlichkeit è una dimensione di senso
della stimmung (mi sembra di aver capito). E con questo Heidegger intende la stimmung, l’essere
intonato nel mondo, in modo armonico o stonato, che permette poi ogni esperienza di significato.
• La seconda dimensione di senso delle Stimmungen, tonalità affettive, e che queste sono una specie di
“ferita feconda” che fanno in modo che il mondo si apra. Le tonalità affettive creano un alone dello
stare umano, mai neutrale, ma sempre intonato. Ci muoviamo perché originariamente siamo mossi
proprio dagli stati avvettivi, che non diventano il luogo di una semplice apertura, ma permettono un
vero e proprio movimento-verso. Il movimento affettivo è quindi apertura e movimento.
9, aspetti fenomenologici e neuroscientifici della comprensione pre-riflessiva
L’esperienza è in sé significativa, senza il bisogno di un contributo riflessivo, ma da cosa deriva questa
significatività?
• Visione cognitivista standard e costruttivista > hanno una visione dell’uomo kantiana, di
conseguenza l’esperienza e la realtà è auto-referenziale, viene trasformata dal soggetto che gli dà un
significato. Quindi il significato va ricercato nelle strutture fondamentali della coscienza, ossia il
luogo dove emerge ogni senso e risiede il logos.
• Visione fenomenologica > ha una prospettiva olistica, dove il soggetto è situato e il senso di un
oggetto emerge dalle possibilità di azione su di esso, e queste dipendono dalla rete di rimandi del
soggetto che ne fa esperienza. Essere nel mondo significa essere ogni volta in una certa atmosfera,
stimmung, dove si manifestano oggetti significativi. Quindi io vedo un computer, mia nonna una
macchina da scrivere più sottile, dove sta la differenza? Nelle menti o nei diversi essere nel mondo?
Obv la seconda. Quindi non c’è una mente che crea, ma ci sono io che sono immersa nel mondo
dove l’oggetto si manifesta in base alla rete coerente di rimandi che formano il mondo. Gli oggetti
sono lì, e saranno lì anche quando me ne vado, non c’è un ordine percettivo imposto dal soggetto.
Per Heidegger la percezione è determinata da un mondo che apre e permette la nostra esperienza
delle cose (quindi le cose non dipendono da una nostra interpretazione).
• Visione neuropsicologica > rispetto l’importanza del significato pre-riflessivo, abbiamo dei
contributi neuropsicologici:
• Damasio e il marker somatico: l’attivazione del marker fa emergere un sentimento
situazionale, un’atmosfera, e grazie a questa che si possono prendere decisione congrue e
legate ai successivi atti riflessivi.
• Neuroni specchio visuo-motori: questi neuroni scaricano anche quando osserviamo soltanto
l’oggetto, dove si attiva il programma motorio che si attiverebbe se si volesse interagire con
l’oggetto. Quindi vedere l’oggetto significa simulare quello che potremmo fare con
quell’oggetto, simulare un’azione potenziale. Quindi gli oggetti non sono identificati e
categorizzati solo in base all’apparenza, ma anche in base della relazione dinamica che
l’osservatore può avere con quell’oggetto, che gli dà una valenza significativa in base ai
possibili utilizzi.
• Neuroni bi-modali: hanno funzioni somato-sensoriali e visive e sono coinvolti nella
rappresentazione peripersonale del soggetto. Quindi lo spazio dipende dall’attività di circuiti
neuronali che organizzano l’insieme di movimenti che per quando diversi, permettono di
agire sull’ambiente. Quindi lo spazio umano è tale perché sussume il range, dominio, delle
nostre possibilità d’azione.
In sintesi: l’essere del soggetto non va ricercato nella testa/cervello, poiché emerge di volta in volta dal
nostro essere situati in questa o quella situazione, con quella o questa tonalità emotiva. Stessa cosa vale per
l’esperienza, questa non è muta, ma è di per sé significativa. Quindi la dicotomia dentro-fuori, mondo-
soggetto ecc., non sussiste, semplicemente c’è un esserci già da sempre nel mondo. Allo stesso modo il
mondo non è lo stesso per tutti, ma si manifestano aperture di mondo in base alle azioni e passioni di
quell’essere nel mondo: il fenomeno è uno, ma si dà in modi diversi. Infine la comprensione (quindi anche il
dare significati ad oggetti e tutto quello visto sopra) delle possibilità di azione e passione, presuppongono
sempre un Altro, una cultura e una storia. Se riconosco il telefono come un aggeggio per comunicare, vuol
dire che simultaneamente riconosco qualcuno con cui comunicare.
10. Neuroni specchio, senso e significato. La comprensione dell’altro deriva dalla comune appartenenza alla
stessa rete coerente di rimandi.
I neuroni bimodali e visuo-motori, sono due esempi dell’abitabilità del mondo, questo è possibile perchè
possiamo muoverci in esso già a livello pre-riflessivo. L’essere è sempre essere-lì (being there).
Che cosa accade invece quando ci troviamo nella situazione con l’altro? Una spiegazione fenomenologica la
offre Gallese quando parla di simulazione incarnata: comprendo l’altro perché a livello pre-riflessivo, simulo
la sua azione. Ma se osservo Mario che prende un bicchiere, comprendo la sua intenzione di bere solo sulla
base di una comprensione motoria o mi serve qualcosa in più?
Ci sono alcune azioni che esauriscono il loro significato, come aprire un ombrello, altre azioni offrono solo
qualche indizio, come aprire la porta di casa (come faccio a sapere se vuole entrare per uccidere la moglie o
abbracciarla?). Quindi, il solo sistema specchio non può permetterci di cogliere il significato totale di
un’azione, ma può darci degli indizi. Il significato è tale solo nella narrazione.
11, L’emozionarsi: corpo e altro

Ricoeur individua 3 alterità dell’ipseità:


• Il corpo
• L’altro
• La coscienza morale
Queste tre non sono un’aggiunta al Sé, ma sono costitutive dell’essere sempre mio dell’esperienza: mi
riconosco perché sono il mio corpo, perché sono da sempre con l’altro presso le cose, e perché mi
mantengono nel tempo anche attraverso una norma morale, una promessa ecc.
Vi è una prospettiva che intende l’emozionarsi come una modalità dell’essere nel mondo. L’emozionarsi è il
significato incarnato della situazione che sta accadendo: ossia, il sentimento di Sé (carne) che emerge da un
contesto specifico, e in caso, da una specifica relazione interpersonale. Quindi l’emozionarsi è allo stesso
tempo: un sentirsi carnale, un avvertirsi, e un modo di comprendere la situazione che sta accadendo. Il senso
di stabilità varierà in base a se questo si focalizza di più sul corpo o sull’altro. Queste due modalità di
stabilità personale sono collegate a due stili emotivi, quindi due modalità diverse dell’emozionarsi (essendo
però due casi limite, solitamente la gente si emoziona in modo intermedio oppure tramite le due modalità
attivate contemporaneamente):
inward: il senso di stabilità personale deriverà principalmente dalla percezione dei propri stati viscerali. Le
persone con uno stile emotivo inwardness avranno una modalità di emozionarsi più “calda” e viscerale.
outward: il senso di stabilità personale attecchirà per lo più dalla valutazione della situazione in corso. Le
persone con uno stile emotivo tendente all’outwardness hanno una modalità più “fredda” e cognitiva, più
legata alla valutazione dell’altro e/o del contesto.
Questi due stili emotivi rispondono coerentemente alla dicotomia legata alla domanda: viene prima
l’emozione o la cognizione? Dipende! Dalla persona e dal suo stile emotivo. Queste due modalità di
emozionarsi hanno anche un supporto neuroanatomico: uno studio fMRI vengono mostrati degli stimoli
paurosi, ed emersa una diversa attivazione cerebrale (di fronte agli stessi stimoli elicitanti) collegata ai
diversi stili:
Soggetti inward > attivazione maggiore dell’amigdala, ippocampo e corteccia prefrontale mesiale > esprime
una modalità di spaventarsi più viscerale e “calda”.
Soggetti outward > attivazione più intensa della corteccia del giro fusiforme, della corteccia occipitale
associativa e della corteccia prefrontale dorsolaterale. In questi soggetti la paura è anche un fenomeno
cognitivo che deriva da una valutazione riflessiva on-line.
12, Dall’esperienza al racconto: proprietà e pre-comprensione dell’esperienza.
Per fare in modo che un’esperienza possa essere raccontata, servono due condizioni: la proprietà e la pre-
comprensione dell’esperienza:
• Proprietà: affinché un’esperienza possa essere raccontata, in primis deve essere avvertita come
propria (questa esperienza mi appartiene), e poi può essere raccontata attraverso un processo
identitario con un atto riflessivo/narrativo.
• Pre-comprensione: l’esperienza deve avere un senso, un significato, altrimenti non c’è differenza fra
le azioni e le reazioni (movimenti fisici). Per poter raccontare qualcosa, ci deve essere una pre-
comprensione dell’azione e della passione (credo si riferisca a quella parte dei significati
dell’esperienza pre-riflessivi).
13, la comprensione pratica è già mediata simbolicamente, Mimesis I
Siamo nella prefigurazione > Ricoeur chiama questa prima fase della rappresentazione dell’azione, Mimesis
I. Il rapporto tra teoria dell’azione e teoria narrativa è duplice:
• è sia rapporto di presupposizione > da una parte il dispositivo concettuale dell’azione è presupposto
nella configurazione narrativa
• è sia rapporto di trasformazione > dall’altra parte l’azione viene integrata nel contesto, quindi
connesso ad altri fatti
inoltre se l’azione può essere raccontata vuol dire che ha già in sé un significato simbolico specifico: per
esempio il gesto di alzare il braccio avrà un significato in base al contesto: può essere salutare, chiare un taxi
o esprimere un voto.
14, dall’esperienza al racconto: configurazione
La configurazione di una storia è dinamica, sempre nell’atto di farsi. La prima mediazione di Mimesis II
avviene, per esempio, tra gli avvenimenti nella loro singolarità e la storia raccontata: l’intreccio ha la
potenzialità di comporre una storia sensata a partire dai diversi e molteplici eventi, facendo sì che questi
eventi superino la loro significazione particolare per assumere il senso che regge l’intero sviluppo della
trama a cui essi contribuiscono (è questo il valore del tema della storia). La seconda mediazione agisce a
livello temporale, costruendo un tempo narrativo che fa da mediatore tra il tempo cronologico degli episodi e
la totalità temporale del racconto; mediante questa «sintesi dell’eterogeneo».
Turning points > punti di svolta di un’autobiografia, anche questi sono dinamici
15, ascoltare il racconto: Mimesis III (rifigurazione)
Per Ricoeur la Mimesis III crea un ponte fra il mondo del testo e il mondo dell’ascoltatore/lettore:
“elaborando il racconto di una vita di cui non sono l’autore rispetto all’esistenza, me ne faccio coautore
rispetto al senso”. Infatti la comprensione di un testo dipende anche dallo specifico lettore. Ci sono delle
differenze fra quello che intende Ricoeur e quello che intendiamo noi nella psicoterapia: nel nostro caso la
rifigurazione mimetica si riferisce al fatto che il paziente ci racconta della sua esistenza, così come può farlo
in quel preciso momento della sua vita. Questa storia viene consegnata al terapeuta, che potrà essere un
buono o un cattivo ermeneuta. Sarà un cattivo ermeneuta se:
• attua una violazione dell’interpretazione > ossia se interpreta la storia sulla base di una teoria pre-
confezionata
• ridondanza dell’interpretazione > sia se evita qualsiasi fatica interpretativa limitandosi ad accudire il
paziente rendendogli il racconto più facilmente sopportabile.
Entrambe sono possibili perché dal racconto del paziente scaturiscono nuove possibilità di senso che il testo
stesso offre: le nuove possibilità di senso del testo, devono essere però avvertite dal paziente come proprie.
Infine, vi è una dialettica fra il linguaggio e la realtà/mondo/esperienza: come dice Ricoeur, il linguaggio può
parlare del mondo solo perché lo ha inizialmente abbandonato: il linguaggio procede così, la sua prima
conquista riguarda il significato che vi è in se stessa e per se stessa, e dopo questo momento, attua un
movimento di riconquista del reale grazie proprio alla prima conquista.
16, identità on-line e identità del personaggio
Dalle stronzate dette fino a mo’, possiamo ricavare queste considerazioni:
• l’uomo è un essere nel mondo, che coglie il proprio Sé attraverso l’esperienza
• l’esperienza ha già sempre un senso, un significato. Questo perché viviamo in una rete di possibili
azioni e passioni che costituiscono il nostro essere umano (non sono quindi un qualcosa in più).
• L’attività riflessiva è capace di tematizzare l’esperienza: lo fa tramite un processo di
imitazione/rappresentazione dell’agire. È un processo che parte dal livello dell’immediata pre-
comprensione dell’azione fino al racconto che offriamo all’altro.
• L’ipseità non è il risultato di un atto riflessivo, ma accade ogni volta
• L’identità in terza persona (codice genetico o categorie) è sempre e solo un’identità-idem, una sola
faccia dell’identità personale che risponde alla domanda “che cosa sono io?”. Se una persona vuole
identificarsi solo attraverso ciò che non muta, mi toglie la storia, mi deumanizza.
• Possiamo cogliere entrambe le facce dell’identità personale solo in prima persona: è una relazione
A=B, dove il primo termine è l’esperienza di Sé, e il secondo è il racconto dell’esperienza. Quindi
abbiamo esperienza e configurazione narrativa. L’essere sempre mio dell’esperienza e la percezione
di sentire come proprio il racconto è condizione necessaria per parlare di identità: da una parte
riconosco l’esperienza come mia, dall’altra il mio racconto di “me”. L’identità personale (nel senso
che quella persona è unica, sempre la stessa) è una funzione narrativa, perché solo nel racconto io
sono sempre lo stesso personaggio, perciò si dice identità narrativa.
• Ogni esperienza, se riconosciuta, non può che essere identificata e poi forse tematizzata con il
racconto.
• La natura pre-riflessiva dell’esperienza è supportata anche dalle neuroscienze: l’esserci implica il ci
e questo ci non è un qualcosa di aggiunto a una mente, disincarnata e de-contestualizzata, ma io mi
ritrovo presso le cose, ogni volta.

Capitolo 4, Significati, sviluppo, mondo


1, Considerazioni preliminari
L’approccio cognitivista standard e cognitivo-costruttivista condivide l’opinione che l’essenza dell’uomo è
rappresentata dalla sua razionalità: ossia la sua conoscenza viene costruita attraverso categorie mentali, siano
categorie a-priori o organizzazioni di significati personali. Quindi la conoscenza avviene attraverso una
categorizzazione (tramite queste categorie) dello stimolo e non vi è quindi un contatto con “l’essere del
mondo” poiché questo viene sempre filtrato dalle categorie. Alla base di questa visione troviamo da una
parte Cartesio e dall’altra Kant, invece nella psicoterapia cognitiva lo ritroviamo in Guidano che afferma:
“l’esperienza del Sé e del mondo è riordinata e strutturata attraverso capacità logico-linguistiche che
permette di riordinare “a posteriori” l’esperienza attraverso le categorie “vero/falso” “soggettivo/oggettivo”
ecc.”. A questo si contrappone l’approccio fenomenologico Heideggeriano che vede “L’ego cogito è uno
spazio chiuso, per conoscere deve rappresentarsi al di fuori di lei un mondo, di conseguenza bisogna
ricercare un punto di partenza per la conoscenza diverso dall’ego cogito (coscienza), per fare esperienza
della cosa stessa bisogna partire dalla sfera dell’esser-ci”. Legato alla tematica del come conosciamo,
appartiene anche il tema e le domande rispetto a quale sia la natura del significato (ricordiamo che lo scopo
iniziale della psicologia cognitiva riguardava lo studio del significato e come gli uomini lo costruissero).
Difatti l’approccio psicopatologico e psicoterapico del primo post-razionalismo di Guidano porta avanti
l’idea cartesiana secondo cui l’ego cogito/io penso deve accompagnare le nostre “rappresentazioni”. Secondo
questa ottica la natura del significato si caratterizza come una costruzione, quindi il significato è una
organizzazione che avviene da parte del sistema, e questa è l’idea sottostante alla visiona moderna
dell’essere umano che si contrappone alla visione post-moderna.
Visione moderna: vi troviamo Guidano e Husserl che vedono la possibilità di cogliere il significato perché vi
sono appunto atti di coscienza che lo costruiscono, quindi la domanda alla base è: perché percepiamo un
oggetto e non meri dati sensoriali? Per questa visione se non ci fosse una intuizione categoriale non
potremmo proprio avere esperienza di un oggetto come qualcosa di significativo.
Visione post-moderna (non cartesiana): Heidegger quasi capovolge la domanda moderna e afferma che certi
atti di coscienza sono possibili solo perché un determinato senso si è reso disponibile alla conoscenza, quindi
che cosa permette il rendersi disponibile di certe oggettualità?
Quindi alla base di questo discorso vi è il problema: qual è la natura del significato? Cosa permette al
significato “computer” di emergere rendendosi oggetto di apprendimento?

2, Il significato è nel mondo


Per l’approccio costruttivista nel mondo esiste un computer, ossia un insieme “grezzo” di dati sensoriali, che
viene costruito da un “me” fino al produrre un significato che può essere diverso in base alle soggettive
categorie del significato personale: quindi per me è un computer, per mia nonna può essere una macchina da
scrivere. Rispetto a questo possiamo fare alcune osservazioni:
• Il computer esisteva prima di me
• Il computer è stato costruito da una casa produttrice, perché esiste internet e che ha stabilito un
determinato prezzo
Quindi il significato del computer rimanda primariamente a un mondo, a una rete coerente di riferimenti, e
poi successivamente viene colto da me: il suo significato e la sua esistenza precede la coscienza individuale,
il singolo esserci. Inoltre il suo significato non può dipendere dal singolo esserci, ma deriva dall’oggetto in sé
ossia dalla sua rete coerente di rimandi che caratterizza il mondo. È questa rete coerente che permette
all’oggetto nel suo essere di manifestarsi a quell’ente che è l’esserci, ovviamente non si manifesta al cane
che invece è chiuso nella sua rete di istinti e quindi non è aperto all’essere e al suo manifestarsi (quindi ai
significati). La rete di rimandi si manifesta in modi diversi in base al nostro specifico esserci*, quindi il
fenomeno è uno, ma si può manifestare in modi diversi in base a se sono io ad incontrarlo o l’altro.
*secondo Heidegger colui che nel cogliere l’oggetto ne fa un altro uso, non lo coglie veramente o coglie
parzialmente la rete coerente di rimandi e il senso dell’oggetto. Se io uso il computer come posacenere ne
faccio un uso “povero” che esclude il vero essere dell’oggetto. Dall’altra parte l’alienazione dell’oggetto
dalla specifica rete di rimandi può anche permettere nuove dotazioni di senso (poesia, arte ecc.)
Quindi l’approccio costruttivista standard vede il significato come una costruzione che avviene da parte di
un soggetto, quindi è un significato “situato” in primis “nella testa delle persone” che vivono in una
comunità con altri soggetti. Però la coscienza viene dopo l’esistenza, quindi siamo coscienti perché prima di
tutto siamo esseri-nel-mondo e il mondo permette l’incontro con le cose, e quindi dopo avviene la coscienza
delle cose.
3, Sviluppo 0-12
Siccome i significati sono possibili perché siamo nel mondo, bisogna capire il percorso evolutivo che
permette al bambino di incontrali. Nei bambini l’accesso al mondo dei significati avviene attraverso la
mediazione dei caregivers. Tuttavia il bambino non è un esserino privo di intenzionalità, senza
comportamenti prosociali alla stregua di una reattività senso-motoria come lo intendevano Freud, Piaget e
Skinner, ma è un essere dotato di tutta una serie di abilità innate che gli permettono di entrare in relazione
con l’altro, questo lo vediamo da:
• Gli studi di Castiello di feti che dalla 14 settimana pianificano azioni verso il gemello
• Capacità del bimbo a 36 ore dalla nascita di distinguere espressioni di felicità, sorpresa e tristezza
dando risposte imitative e coerenti ad ognuna di queste emozioni > questo mostra subito come
l’imitazione sia una competenza intersoggettiva attiva e partecipativa
• Capacità dei neonati di reagire con angoscia al disagio di altri bambini, è una conferma dell’altro
come soggetto (cazzata, è contagio emotivo, lo hanno anche i topi)
• Imitazione neonatale > non imitano e basta, ma cercano attivamente di provocare un comportamento
nell’altro per poi imitarlo, quindi sono capaci di entrare in relazione. Inoltre hanno delle aspettative
rispetto all’altra, attendono qualcosa da qualcuno e questo è una dimostrazione di un rudimentale
senso del Sé sul versante dell’ipseità (la promessa).
• Quando Ricoeur dice che l’altro e il corpo sono due alterità costitutive dell’ipseità, intende dire il
sentirsi sempre lo stesso e l’essere mio dell’esperienza, possono realizzarsi nell’apertura del mondo e
dell’altro. Quindi per il bambino il caregiver diventa una condizione necessaria per poter accedere al
sé e ai significati umani condivisi. Comprendere l’altro significa comprendersi attraverso i segni
espressivi che partendo dal proprio corpo incontrano l’altro in un mondo comune.
Queste evidenze vanno contro all’idea di Freud, Piaget e Skinner che vedono il neonato alla stregua di una
reattività senso-motoria senza intenzionalità e senza comportamenti attivamente prosociali.
Cicli di intimità della diade > questi sono possibili proprio perché siamo il nostro corpo: il bambino può
esperire e modulare il senso di Sé seguendo i ritmi di attivazione e disattivazione fisiologica che accadono
nell’intimità della diade. In questo, la comprensione dell’altro non richiede un atto riflessivo, ma avviene
attraverso il corpo, che permette di condividere un senso tramite una mutua regolazione. Le regolarità e le
differenze degli scambi comunicativi, sono due caratteristiche necessarie per lo sviluppo di:
• Autodeterminazione
• Comprensione dell’altro
• Accesso ai significati del mondo
Questi tre aspetti si incontrano nel senso carnale di Sé del bambino. Il corpo è il luogo dove
contemporaneamente si dispiegano:
• Ipseità (essere mio dell’esperienza)
• L’altro (colui che agisce e patisce con me nell’interazione
• Il mondo (l’accesso ai significati condivisi a partire dalle coerenti interazioni con il caregiver)

2 mesi
• Compaiono le protoconversazioni
• Il gioco diventa sempre più interattivo grazie a capacità motorie e attenzione più focalizzata
• Migliore capacità di differenziazione e distinzione degli altri
4 mesi > maggiore attenzione e manipolazione degli oggetti, che permette di conseguenza una maggiore
attenzione al mondo. Questo nuovo modo di accesso al mondo, ha un corrispettivo relazionale a 6 mesi.
6 mesi > interagisce con i pari secondo interessi e senza la mediazione del caregiver, in più riconosce la
musica e reagisce con movimenti corpo “seguendo” il ritmo > questo dimostra la sua nuova capacità di
sentirsi anche attraverso altre cose che non siamo il caregiver. In un certo senso il bambino diventa più ricco
di “mondo”. A questa età il bambino comincia a sintonizzarsi con alcune regolarità e questo dipende anche
dalle routine che ha con il caregiver: per esempio la ninna nanna rappresenta un’attività routinaria e
possiamo considerarla un primo accesso alla narrativa, poiché con questa condivide una struttura simile:
inizio, apice e fine.
9 mesi > pointing, attenzione condivisa e intersoggettività secondaria > il bambino accede alla triade sé-
caregiver-mondo. È capace di questo non tanto grazie allo sviluppo di un’attenzione più sofisticata, ma
grazie alla consapevolezza e comprensione che la mamma può prestare attenzione anche ad altro (il target)
che non sia il bambino, quindi che questo altro, compete con il bambino per l’attenzione della madre.
1 anno di vita > il bambino acquisisce una progressiva indipendenza motoria e questa è correlata con:
capacità di esplorare il mondo e quindi di avere diverse prospettive del mondo, maggiori competenze
motorie sono correlate a maggiori capacità cognitive ed emotive. Per esempio i bambini cominciano a
gattonare dal 7 al 9 mese di vita e questo gli permette di calibrare la distanza dalla madre.
Sviluppo emozioni secondarie > di norma le teorie delle emozioni sostengono che per sviluppare le
cosiddette emozioni secondarie o culturali, ci sia bisogno di un minimo di coscienza autoriflessiva, ossia la
capacità di vedersi con gli occhi dell’altro (quindi ci si aspetta che queste emozioni compaiono verso i 15-18
mesi). Lewis parla dello sviluppo emotivo in questi termini: le emozioni primarie si sviluppano attraverso la
differenziazione di due polarità: piacere/dispiace e interesse/disinteresse, invece le emozioni secondarie
richiedono un’acquisizione delle norme culturali di riferimento. Rispetto a questa visione abbiamo due
obiezioni:
• Di ordine teorico: è improbabile che il bambino cominci a sentire quel vasto range di emozioni
sociali solo quando in lui compare la coscienza riflessiva (ossia verso i 18 mesi). Dato che l’esserci è
sempre emotivamente situato (in un mondo) e il bimbo fin da subito mostra capacità relazionali,
seppur rudimentali, ci dovrà essere un corrispettivo emozionale (e quindi le emozioni sociali)
• Di ordine empirico-sperimentale: Riccardo Draghi-lorenz ha dimostrato sperimentalmente che la
gelosia compare già verso il 6 mese di vita, ed è possibile vedere che compaiono precocemente
anche la timidezza e l’imbarazzo. Di conseguenza si è deciso di non chiamare queste emozioni
secondarie, ma non-basic emotions, semplicemente perché non fanno parte delle primissime (prime
settimane di vita) manifestazioni emotive.

4, sviluppo 12-24
Apprendimento del linguaggio > verso i 12 mesi, i bimbi cominciano a pronunciare parole-frase per
esprimere routine o concetti a bassa complessità e questo apprendimento avviene perché vi è una mediazione
simbolica da parte dei caregivers che permette l’associazione fra significante (televisione) e significato
(scatola ecc). Sono le persone che si riferiscono a quello o quell’altro oggetto e non le parole in sé e per sé,
quindi il contesto e l’alterità hanno un’importanza fondamentale per apprendere i significati. Quindi
coerentemente all’approccio ermeneutico-fenomenologico che qui stiamo adottando, il bambino accede al
significato perché fa parte di una comunità linguistica dove le parole significano (di solito) per tutti la stessa
cosa. Quindi ci sono significati condivisi che permettono di comunicare con la comunità di appartenenza.
Infine il bimbo capisce la parola sensata (significate) perché ha già acquisito il senso pratico del significato.
18 mesi > il bimbo inizia a collegare due, tre parole che riflettono una sequenza di eventi; inizia ad usare il
pronome personale “Io” e inizia a riconoscersi allo specchio.
5, alcune note significative sullo sviluppo della consapevolezza di Sé
Come già anticipato, dobbiamo fare una distinzione fra:
• Ipseità: consapevolezza pre-riflessiva di Sé
• Identità personale: consapevolezza riflessiva di essere un Sé
L’identità personale si realizza appieno con lo sviluppo dell’identità narrativa, ossia la possibilità di una
narrazione di Sé. Tuttavia, questo non significa che non possiamo essere riflessivamente consapevoli di sé in
assenza del racconto di sé. La consapevolezza di Sé nel tempo, possiamo dire che è associata a una specifica
apertura di mondo. E siccome nel bimbo le sue diverse aperture di mondo sono mediate dai caregivers,
possiamo plausibilmente aspettarci che la presenza del caregiver faciliti il bambino a riconoscersi nel tempo.
Nel senso che la familiarità offerta dalla presenza del caregiver possa influire sul senso di continuità
personale. Sembra che questa ipotesi sia sostenuta da un esperimento condotto da Silvia Zocchi (2018 dove
penso ci sia anche lo zampino di Liccione) dove ha osservato tanti bimbi di 3 anni in due condizioni: quella
sperimentale dove i bimbi stavano con la madre, e quella di controllo dove i bimbi stavano con lo
sperimentatore. I risultati hanno mostrato una migliore capacità di riconoscimento di Sé nel tempo nella
condizione con la madre e possiamo ipotizzare che la madre favorisce un senso di familiarità situazionale
che aumenta la probabilità del bambino di autoriconoscersi.
6, appunti neuroscientifici sullo sviluppo del linguaggio
Vi era l’ipotesi, ora falsificata, che il linguaggio umano si fosse evoluto a partire dal sistema di
vocalizzazione animale. Quindi che il sistema di vocalizzazione dei primati non umani fosse l’antenato del
linguaggio umano.
• Il sistema di vocalizzazioni nell’uomo, non ha niente a che fare con il linguaggio
• L’area di Broca è il corrispettivo dell’area F5, e possiede parte del sistema mirror e proprietà motorie
coinvolte nei movimenti orolaringeri, orofacciali e brachiomabuali. Secondo alcuni, le origini del
linguaggio vanno viste come uno sviluppo che deriva dalla mutua interazione mano-bocca da cui ha
preso il via la voce. Ha senso perché 1) abbiamo il riflesso palmo-mentoniero ossia una pressione del
palmo, nel neonato causa una apertura della bocca, 2) lo vediamo dal pointing e da come la
manipolazione di oggetti permetta di poter accedere alla rete coerente di rimandi e quindi di accedere
ai significati del mondo.
7, inclinazioni e sviluppo di Sé tra stabilità del carattere e variabilità delle situazioni
Facciamo di nuovo una differenza fra il Sé riflessivo e quello pre-riflessivo:
• Il sé è determinato dal sentirsi sempre lo stesso ogni volta, poiché siamo emotivamente situati nelle
diverse circostanze
• Successivamente e solo grazie all’acquisita capacità di poter configurare l’esperienza in schemi
narrativi, possiamo creare un nucleo identitario che risponde alla domanda “Chi?”, che è sempre lo
stesso nonostante la mutevolezza tipica della vita (identità narrativa)
• Gli studi di Trevarthen, Draghi-lorenz e altri mostrano che l’alterità co-determina la costituzione
dell’ipseità. Solo perché siamo da sempre con l’altro presso le cose, che posso riflessivamente
costituirmi come un Io riflessivo.
• La ricerca di Silvia Zocchi mostra che il riconoscimento di Sé nel tempo (prima dello sviluppo di
una narrativa) è mediato affettivamente
• L’identità narrativa emerge dalla dialettica fra ipseità e medesimezza; il racconto di Sé dipende
dall’esperienza di Sé. Quindi l’identità narrativa nasce dai modi esperienziali che a loro volta
prevedono caratteristiche di medesimezza pre-riflessiva.
• Invece lo sviluppo emotivo origina dalla dialettica ipseità e alterità e si dispiega nel continuum
inward-outward. Quindi abbiamo uno sviluppo di Sé dove l’emozionarsi è caratterizzato da una
attenzione ai segnali del corpo con il fine di mantenere un senso di stabilità personale > inward,
oppure uno sviluppo di Sé dove l’emozionarsi è caratterizzato da una attenzione maggiore ai segnali
dell’altro e del contesto con il fine di mantenere un senso di stabilità personale > outward.

Capitolo 5, neuropsicologia
Approccio scientifico > cerca di oggettivare l’esperienza, ossia trovare degli universali in modo da poter
garantire la ripetibilità scientifica. La psicopatologia, per essere scientifica, deve adottare lo stesso metodo:
quindi oggettivizzare l’esperienza del paziente, questo diventa un problema se si applica nell’agire clinico,
perché non permette di poter accedere a quello specifico individuo. Quindi l’approccio scientifico spiega gli
universali della sofferenza umana (che non significa comprendere).
In questo capitolo delineiamo un inquadramento psicodiagnostico, ossia l’arco neuropsicopatologico, con il
fine di superare le antinomie di origine cartesiana.
2, ripensare la neuropsicopatologia evitando sia il dualismo cartesiano sia il materialismo riduttivista
Recentemente assistiamo ad un dibattito fra psicopatologi e filosofi circa la natura della patologia
psichiatrica, partendo la una critica rispetto l’idea che la psicopatologia possa essere spiegata solo attraverso
la neurobiologia (materialismo riduttivista). Il focus del dibattito non riguarda né la metodologia né le teorie
sull’umano, ma l’ontologia della persona. Abbiamo visto che sia dualismo che materialismo hanno dei
problemi, per esempio il riduzionismo se vede il corpo solo come organismo, si troverà a studiare solo la
corporeità (a descriverla) e non l’esistenza. Noi siamo anche il nostro corpo fisico, quindi tutte le patologie
avranno un corrispettivo neurale, ma questo non significa che la traccia neurale sia la fenomenologia del
disturbo o che necessariamente preceda e causi il disturbo. Quindi, se la traccia neurale non è un buon
criterio per la diagnosi differenziale, cosa distingue una patologia organica da una funzionale?
Il criterio dovrebbe essere l’eziopatogenesi: ossia la causa di una malattia. Quindi queste sono diverse nel
caso in cui parliamo di un tumore cerebrale o di una depressione che si manifesta in seguito ad un lutto.
Tuttavia abbiamo detto che le scienze sostengono a ragione che non esistono fenomeni psicologici senza un
corrispettivo neurofisiologico e questo ci porta al tema del rapporto mente-cervello: come può un evento
psicologico trasformarsi in una reazione neurofisiologica? (e viceversa). Ma, se assumiamo una posizione
fenomenologica dove l’uomo è un Dasein, cade la distinzione ontologica fra cervello-mente.
Abbiamo visto che le discipline specialistiche ci dicono quasi la stessa cosa usando linguaggi diversi. E
abbiamo visto che la distinzione fra scienze della natura e dello spirito è una cosa che risale già da Dilthey.
Questa distinzione si è poi accentuata diventando irrisolvibile quando le due scienze hanno assunto modi
conoscitivi diversi: la spiegazione delle scienze naturali e i metodi interpretativi delle scienze storiche.
Questa forma mentis nasconde una visione dualistica. Lo stesso problema lo ritroviamo nella distinzione
della filosofia analitica nata con Wittgenstein: abbiamo giochi linguistici diversi per le scienze naturali, che
usano per spiegare termini come causa, legge e fatto, mentre i giochi linguistici dell’azione umana usano
termini come: motivi, intenzioni e ragioni. Secondo Ricoeur questa differenza deriva da un fraintendimento e
dal fatto che la causa ha un significato univoco. Se prendiamo il concetto di causa humeniano, si parla di
causa quando gli antecedenti e i conseguenti sono logicamente indipendenti. Questo non vale per le azioni
umani, dove non posso separare l’azione motivata dai motivi sottostanti: mi accendo una sigaretta perché
voglio fumare, il desiderio e motivo che sottende l’azione non è logicamente separabile dall’azione motivata.
Quindi per Ricoeur la contrapposizione fra causa e motivo e alla base della dicotomia fra le scienze bio e psi.
3, Il dualismo semantico come unica risposta alla duplice appartenenza dell’uomo al bios e al logos
Approccio ermeneutico per comprendere l’azione > vederla all’interno di un continuum dove i due estremi
sono: la causalità senza motivazione, la motivazione senza causalità.
Esempio causalità senza motivazione > le alterazioni emotivo-comportamentali di un tumore cerebrale
Esempio motivazione senza causalità > litigio con un collega
La maggior parte dei comportamenti umani si situa nel mezzo, ma com’è possibile studiare scientificamente
il comportamento umano nella dialettica spiegazione-comprensione?
Ricoeur: qual è quell’essere che ha la doppia appartenenze al bios e al logos, che è sia corpo tra i corpi (cosa
fra le cose) che essere capace di riflettere e giustificare la sua condotta. L’uomo è tale proprio perché
appartiene al tempo stesso al regime della causalità e a quello della motivazione, quindi della spiegazione e
della comprensione.
Quindi abbiamo detto che i due ambiti disciplinari si incontrano nel condividere gli stessi, o quasi, ambiti di
indagine: la psicologia studia la vergogna, così come appare fenomenologicamente, ma nulla vieta alle
neuroscienze di studiare i substrati neuronali della vergogna. Le due discipline possono confrontarsi tramite
il paradigma della traduzione, che rende più comprensibile un accadimento umano che si situa
contemporaneamente fra esistenziale e naturale, umano e fisico-biologico.
4, la neuropsicopatologia e il criterio ermeneutico della comprensibilità storia dell’insorgenza dei disturbi
emotivo-comportamentali
La duplice appartenenza al mondo naturale e psicologico perché non dovrebbe essere un nuovo dualismo
ontologico? Piuttosto lo possiamo intendere come un dualismo semantico. La neuropsicopatologia non va
divisa da una nuova dicotomia, ma può trarre beneficio se la inseriamo in un continuum
neuropsicopatologico dove gli estremi sono:
le cause eziopatogenetiche > da spiegarsi per lo più con le discipline bio, amica della causalità fisica >
abbiamo detto che la traccia organica sottostante alla psicopatologia non ci dice niente sulla causa e motivo
che hanno generato la psicopatologia e la traccia
motivazioni eziopatogenetiche > da comprendere per lo più attraverso le scienze umane, attraverso la storia
di vita
ora sorge un problema: come facciamo a situare una patologia nel polo delle cause o nel polo delle
motivazioni? Ossia, qual è il criterio che ci permette di collocare quella neuropsicopatologia in questa o
quella parte del continuum?
L’ordine temporale > non è sufficiente perché vale sia per la spiegazione causale sia per i motivi
La traccia neurale > non è sufficiente perché può essere: causa, co-occorenza, oppure effetto
Il ruolo che gioca l’identità personale > la domanda è: i cambiamenti emotivo-comportamentali del paziente
sono spiegabili attraverso il funzionamento dell’organismo o comprensibili attraverso la storia di vita? È
proprio la maggiore o minore importanza della precipua storia di vita che paziente che ci permette di
collocare la psicopatologia nei due estremi neuropsicopatologici di tipo storico o non storico.
Patologie non storiche > tipo un trauma cerebrale, non necessita della storia dell’individuo per essere
compresa e può essere spiegata nei termini della biofisica.
Patologie storiche > la morte di una persona cara è quasi totalmente comprensibile in termini non-neurali.
In entrambi i casi possiamo avere delle manifestazioni osservabili, la differenza è che le patologie non
storiche producono un cambiamento che per lo più non richiedere i modi di essere (storici) del paziente.
Quindi l’eziopatogenesi non può essere compresa senza fare riferimento ai significati di una specifica e
irripetibile storia di vita.
5, il continuum neuropsicopatologico: patologie non storiche vs patologie storiche
Quindi abbiamo detto: la neuropsicopatologia è > il dominio delle alterazioni emotivo-comportamenti che si
articola lungo un continuum dove i due estremi sono occupati dalle patologie storiche e patologie non
storiche. Quindi la storicità è quel criterio che permette di fare una differenza, è la discriminante diagnostica.
(e che ci permette di superare a livello eziopatogenetico la differenza cartesiana fra patologie organiche e
funzionali).
Infine abbiamo detto che questa visione non si traduce in un dualismo delle sostanze cartesiano, ma semmai
in un dualismo semantico che cerca di tradurre neuropsicologicamente il nostro essere nel mondo, la nostra
duplice appartenenza al mondo fisico delle cose e al mondo storico dell’esserci.
Patologie storiche > di solito derivano da una frattura identitaria > che è un’alterazione dell’identità tra
esperienza e racconto; oppure vi sono delle esperienze che sono parzialmente e del tutto non riconfigurate,
perché troppo discrepanti con la propria identità.
Patologie non storiche > a volte vengono definite come patologie dell’ipseità che possono essere congenite o
acquisite (anche se preferiamo usare patologie non storiche per quelle acquisite, e dell’ipseità per quelle
congenite)
Patologia dell’ipseità > qualsiasi alterazione dell’organismo alla quale corrisponde nell’individuo una ipseità
difettosa, nel senso di modi atipici-riduttivi di fare esperienza che producono delle conseguenti atipiche-
riduttive aperture di mondo. Conserviamo questa etichetta per le patologie congenite (autismo, sindromi
genetiche ecc.) che determinano da subito una modalità atipica-riduttiva di essere nel mondo.
• Identità narrativa > fa da mediatore nella dialettica ipseità e medesimezza e dipende dalla precedente
dialettica
• Dialettica pre-riflessiva > fra ipseità e alterità che si articola a livello tacito fra i due canali del corpo
e Altro (persone, cose, regole ecc.)
• Ipseità è la forma pre-riflessiva del se stesso, è il sentirsi pre-riflessivamente se stessi che
corrisponde a una apertura di mondo emotivamente intonata
Infine possiamo dire che non tutta la neuropsicopatologia comporta una sofferenza psicologica.

Capitolo 6, patologie non storiche da alterazione dell’ipseità e della progettualità


Criteri diagnostici della progettualità > ossia sono alcune variabili collegate al nostro essere in un mondo
culturalmente regolato. Queste variabili sono prese in considerazione nelle diagnosi in terza persona.
L’uomo è progettato-gettato di conseguenza il mondo ci appare con degli spazi di manovra che non per forza
condividiamo co le latro persone. Di conseguenza il mondo viene formato dal soggetto in ogni istante della
sua vita nell’accadere della sua ipseità. Questo esserci potrà usare un oggetto, mettiamo un computer, in un
modo coerente con la rete di rimandi del mondo, oppure può usare un computer come un posacenere e quindi
fa un uso difettuale dell’oggetto, che non approfitta fino in fondo delle possibilità d’azione che l’oggetto gli
offre.
Mondo > totalità governata da regole di coerenza che rimandano a significati
Progetto > struttura che determina uno spazio di manovra all’interno del quale posso agire. Lo spazio di
manovra e le mie possibilità d’azione riguardano i miei modi di essere progettato verso gli altri e verso il
futuro. Questi modi mi fanno accedere ogni volta a mondi diversi: Venezia mi apparirà in un certo modo se
la visito durante un importante viaggio di lavoro o se la vedo durante una vacanza romantica. Il progetto è
quindi il limite del mio mondo, ossia lo spazio dove il tutto mi si può manifestare. I progetti non sono però
delle costruzioni individuali, ma un modo di esserci e di con-esserci e quindi possono essere più o meno
conformi ad alcune regolarità. La non aderenza a queste regolarità può essere vista da un’altra persona con
stupore, compassione oppure disgusto ecc.
2, la compromissione del funzionamento e i modi della progettualità: considerazioni secondo la diagnostica
nosografica-descrittiva
Nel DSM viene data molta importanza alla compromissione del funzionamento sociale, tuttavia vi possono
essere sintomi psichiatrici senza che vi sia una compromissione del funzionamento sociale (tipo una fobia
per i serpenti quando vivi a Manhattan) e viceversa.
Approccio fenomenologico con contributo di Heidegger > per potersi rapportare a un universo di significati
(penso intenda il mondo) bisogna prima avere un rapporto con se stesso con il tempo. Per Heidegger il
mondo è:
• La totalità della possibilità d’azione > e questo implica che l’essere umano per rapportarsi a se stesso
si deve rapportare al proprio poter-essere, cioè alle proprie possibilità d’azione, a partire dal proprio
poter esser-già.
• Quindi le possibilità sono nel mondo (e non nella mente) > di conseguenza l’autocoscienza appare
quando l’io riflette in ciò che Heidegger chiama l’aver-da-essere, ossia il futuro, a partire dal proprio
esser-già. Esistere per l’uomo significa rapportarsi a se stesso come poter-essere, ossia come una
possibilità (quindi non significa soltanto vivere nel presente).
3, L’accesso al mondo come rete coerente e condivisa di significati e il livello della progettualità
Abbiamo visto che nell’ambito della neuropsicopatologia si può diagnosticare una persona come deficitaria,
in assenza di sofferenza o di un’alterazione identitaria. Questo è possibile solo con una diagnosi in terza
persona rispetto alla possibilità di questa persona di poter accedere al mondo (inteso come rete coerente e
condivisa di significati).
Se essere nel mondo significa essere un progetto-gettato, allora questo vuol dire che ci sono modi differenti
di accedere alla rete coerente di rimandi (collegata a questa ci sono anche le possibili azioni e passioni).
Quindi l’esperienza di vedere una chiesa gotica sarà diversa per chi conosce l’architettura gotica e per chi
non conosce lo stile gotico. Il fenomeno è lo stesso (la chiesa), ma si manifesta in modi diversi secondo le
possibilità d’azione e di passione. Ogni azione è anche una passione e viceversa, quindi rimanere estasiati di
fronte a Notre-Dame è una possibilità d’azione che si rende possibile nell’incontro con la chiesa. Cultura,
tecnica e storia sono aperture di mondo, possibilità d’azione e di passione sempre in divenire (perché
condizionate dalla storia e ambiente).
Progetto > è il modo di rapportarsi alle cose coerente con le possibilità d’azione
Quindi ogni azione-intenzione di un individuo è comprensibile all’altro perché le paragona con la rete
coerente di rimandi di significati nella quale viviamo. Se mi stupisco del comportamento dell’altro, lo faccio
proprio perché considero la sua azione/passione non congruente rispetto al contesto: mi stupisco di vedere
uno travestito da Napoleone se e solo se il carnevale è finito!. Quindi, alcune persone possono essere
diagnosticate in terza persona con un’etichetta anche se non sono sofferenti, quando i loro comportamenti
appaiono poco congruenti con le potenzialità d’azione tipiche di una parte di mondo condivisa.
4, principali ambiti delle patologie non storiche
Patologie non storiche > è presente una difettualità (primaria o secondaria) esperienziale
Patologie storiche > configurazione narrativa dell’esperienza non identitaria
In entrambi i casi ci può essere un’alterazione della progettualità
Ora proviamo a spiegare la sofferenza emotivo-comportamentale delle patologie non storiche
I modi dell’ipseità e le possibili alterazioni nelle patologie non storiche
I vari modi dell’ipseità sono il punto di partenza dei possibili modi di configurare l’esperienza. Tuttavia se
un’alterazione genetica causa una patologia dell’ipseità, avremo:
• Aperture di mondo difettose
• Alterazioni emotivo-comportamentali che andranno spiegate e comprese facendo riferimento alle
modalità esperienziali del paziente (e non basandosi sulla configurazione dell’esperienza
Per esempio le persone autistiche hanno delle caratteristiche senso-motorie particolari che determinano una
determinata apertura di mondo.
Un altro esempio di modi “difettosi” di fare esperienza, lo possiamo vedere quando l’ipseità e troppo
orientata sulla variabilità e poco sul versante della medesimezza. In questi casi la stabilità si poggia su eventi
intercorrenti e non può contare su tratti stabili. Di conseguenza anche la configurazione narrativa tenderà ad
essere poco unitaria.
I modi della progettualità e le possibili alterazioni nelle patologie non storiche
Le compromissioni del funzionamento (lavorativo, personale etc) possono derivare da qualche
neuropsicopatologia, oppure presentarsi da sole come modi difettosi di accedere alla rete coerenti di rimandi.
Un esempio di questo lo vediamo nel ritardo mentale, nel caso in cui non vi sia presente sofferenza
psicologica, il problema riguarda nei loro modi di accedere al modo, che risulta diverso rispetto a quello
degli altri. Quindi il problema non riguarda tanto l’ipseità e nemmeno la configurazione narrativa (che anzi
sarà una storia semplice e quindi coerente con la loro esperienza che sarà meno complessa).
I modi difettuali della progettualità sono quasi sempre diagnosticabili in terza persona.
Patologie non storiche da alterazione dell’ipseità e della progettualità: il caso dell’autismo
La diagnosi secondo il DSM5 si basa sul stabilire il livello di gravità e compromissione della comunicazione
sociale e sui patterns di comportamenti ristretti e ripetitivi.
In generale possiamo dire che l’esordio precoce ci fa supporre un deficit dell’ipseità che deriva da una
qualche anomalia genetica. L’alterazione genetica si traduce quindi una difettualità dell’ipseità: quindi la
persona vivrà esperienza di sé nel mondo atipiche e di conseguenza sarà atipico anche il suo accesso alla rete
coerente di rimandi di significati.
Ci chiediamo come inquadrare la sintomatologia tenendo conto sia dei deficit del comportamento sia della
compromissione della comunicazione e della cognizione sociale. Secondo noi (lui) vi è a monte una
patologia dell’ipseità, quindi un’atipica modalità di accedere alla rete di rimandi (tipica di quell’essere del
mondo) che produce un deficit della cognizione sociale. E di conseguenza il deficit dell’ipseità è a monte
rispetti i modi intendere e interpretare le intenzioni altrui.
Quindi abbiamo un deficit dell’ipseità > comprensibile parzialmente se facciamo riferimento a una coerenza
centrale debole dove il bambino autistico si focalizza e si perde su parti dell’oggetto, di conseguenza fa
anche un uso povero dell’oggetto come se non potesse accedere completamente alle possibilità d’azione che
l’oggetto gli offre > anche le stereotipie e i movimenti ripetitivi fanno in modo che l’ambiente si offra in
modo parziale e di conseguenza saranno parziali anche le possibilità d’azione e i modi di fare esperienza
saranno focalizzati e de-contestualizzati (deficit coerenza centrale). > lo stesso discorso riguarda la
compromissione qualitativa della comunicazione > capiamo una lingua solo se siamo dentro/capiamo le
possibilità d’azione pratiche che sussumiamo attraverso i significati > quindi i significati non sono concetti,
ma possibilità pratiche d’azione e noi ci muoviamo in questi.
Il deficit dell’ipseità impedisce alle persone autistiche di accedere a tutte le possibilità d’azione che si
manifestano agli altri che condividono il suo ambiente, a questo consegue la compromissione qualitativa
della comunicazione sociale (che quindi non è causa ma semmai conseguenza). Non poter accedere
completamente alla rete coerente di rimandi rende difficile sia la comunicazione con l’altro che la
comprensione dell’intenzione altrui. (insomma non condividono la stessa rete di significati).
6, Patologie non storiche da alterazione dell’ipseità e della progettualità: l’esempio della sindrome
prefrontale conseguente a trauma cranico-encefalico
Damasio e il marker somatico > danni area frontale ventromediale > ha mostrato che un deficit ella capacità
di sentire gli stati corporei produce sia deficit emotivi che una compromissione delle capacità di
ragionamento-decisione. I deficit emotivi e interocettivi sono legati a deficit della memoria prospettica (che
non derivano quindi da problemi del ragionamento logico) che si traduce nell’incapacità di sentirsi adesso in
vista del futuro. Come abbiamo detto prima, l’uomo è più di quel che è perché è una possibilità-gettata e
queste possibilità di Sé sono strettamente legate ai modi di sentirsi, ogni volta, come se stessi. Inoltre una
deficitarietà degli orizzonti/possibilità esperienziali si traduce in una configurazione narrativa contratta nel
presente. Da qui nasce l’incapacità di valutare le conseguenze delle proprie azioni, ossia la capacità di
progettarsi
Il fatto che il corpo diventi carne quando percepiamo i suoi cambiamenti, è un mondo cognitivista di
descrivere un aspetto dell’ipseità. Questo perché l’essere sempre mio dell’esperienza si associa all’essere
sempre mio del mio corpo.
Nell’ottica neuroscientifica è stato studiato il ruolo dei circuiti neurali fronto-subcorticali nel produrre
differenti alterazioni emotivo-comportamentali:
• Alterazione circuito “cingolo anteriore-talamo” > apatia, appiattimento emotivo, riduzione
dell’eloquio spontaneo > crea una diminuzione delle possibilità di poter essere e di conseguenza è
come se non ci fossero più significativi poli d’azione. Il risultato è un’esistenza apatica, con ritiro
sociale ed emotività ridotta.
• Alterazione circuito “corteccia prefrontale dorsolaterale-talamo” > comportamenti perseverativi,
rigidità mentale, poca flessibilità cognitiva e in generale problemi esecutivi > sono comportamenti
simil autistici come se il mondo si aprisse all’ipseità in modo parziale e de-contestualizzato.
• Alterazione circuito “corteccia orbitofrontale laterale-talamo” > comportamenti socialmente
inappropriati, disinibizione, irritabilità, mancanza di empatia (es. Phineas Cage) > il mondo si offre
all’ipseità senza il “senso” della progettualità, quindi le possibilità d’azione collassano nella
fattualità, senza profondità temporale (credo intenda senza futuro).
Quindi possiamo dire che questi deficit dei circuiti neurali si traducono in modi diversi di essere nel mondo
caratterizzati da una riduzione delle possibilità d’azione nell’ambiente e di conseguenza da una perdita dei
significati che caratterizzano l’ambiente.
La perdita della progettualità è una delle conseguenze più frequenti di una ipseità difettuale. Anche le
persone autistiche hanno questa deficitarietà: siccome l’uomo è progettato-gettato, il livello della
progettualità deriva dalle possibilità d’azione e a una alterazione della gettatezza non può che associarsi una
diminuzione del progetto.
7, il caso del trauma cranio-encefalico e la storia di Elisabetta
• Elisabetta 30 anni, laureata e nubile
• Trauma dovuto da un incidente automobilistico, all’area frontale ventromediale bilaterale
• Sintomatologia per lo più depressiva, con amnesia anterograda di media entità e una leggera
anosognosia
• Aveva frequentato l’università con l’obiettivo di diventare giornalista (orizzonte d’attesa)
• La sua alterazione identitaria è associata agli orizzonti d’attesa non più realizzabili
• I deficit cognitivi e i disagi motori le impediscono di realizzare il suo desiderio. Elisabetta si rende
conto delle sue ridotte capacità cognitive, ma nonostante questo non modifica il suo orizzonte
d’attesa. Quindi l’orizzonte d’attesa rimane lo stesso nonostante i uovi modi di essere, ma
contemporaneamente ci sono sentimenti depressivi che derivano dal fatto di non poter realizzare il
suo desiderio.
• Utilizzando una strategia psicoterapia bottom-up (credo intenda dall’esperienza) Elisabetta comincia
a configurare le sue esperienze quotidiane in modo identitario (quindi tenendo in considerazione i
deficit motori). L’orizzonte d’attesa principale, diventare giornalista, che significa spostarsi, anche
l’estero ecc. sfuma progressivamente. Elisabetta non riesce a configurare la sua incapacità di
svolgere questa professione a causa dei suoi deficit cognitivi (perché un’operazione identitaria molto
complessa), ma riesce ugualmente a farlo piano piano, configurando le sue esperienze quotidiane
fisicamente faticose. E solo dopo riesce a capire l’enorme fatica fisica che comporterebbe la carriera
da giornalista.
• La rifigurazione dell’esperienza focalizzata per lo più sulla fatica fisica richiesta dal diventare
giornalista, diminuisce le sensazioni positive legate all’obiettivo ed elimina l’orizzonte d’attesa e la
collegata sintomatologia depressiva. Quindi solo attraverso una configurazione identitaria dei nuovi
modi di fare esperienza (quelli post trauma) la paziente diventa capace di modificare il precedente, e
non più identitario, orizzonte d’attesa.
8, psicoterapia e/o riabilitazione?
I pazienti che possono trarre il massimo beneficio da una psicoterapia sono quelli con una patologia storica.
Infatti una alterazione della stabilità personale causata da una frattura identitaria è adatta alla cura con la
parola, facendo in modo che il paziente si riappropri delle sue esperienze con una nuova rifigurazione
narrativa. Invece alcune patologie non storiche, come Elisabetta, hanno bisogno in primis di un ritorno
all’esperienza per poter configurare un racconto identitario che tenga conto nella nuova ipseità difettuale e
dei suoi nuovi modi di abitare il mondo. Quindi la psicoterapia nei pazienti con patologie non storia è “solo”
una parte del complessivo progetto riabilitativo.
Patologie acquisite > creano una frattura che si riversa nell’esperienza e nei possibili modi in cui può
accadere questa esperienza. Insomma c’è un modo di fare esperienza diverso da prima, e di conseguenza
anche il mondo ha perso parte della sua significatività. Avviene una diminuzione delle possibilità d’uso del
contesto.

Capitolo 7, patologie storiche da alterazione dell’identità personale


Il sintomo non è qualcosa che si aggiunge a una persona, ma è una modificazione dei modi di essere nel
mondo di quella persona. Di conseguenza se l’uomo è un esserci, nel mondo come progettato-gettato, le
distinzioni fra corpo e psiche, soggetto e oggetto, corpo e carne, sono solo degli aspetti “derivati” dell’esserci
(c’è sono solo delle parti, un focus parziale). Quindi le scienze che indagano un aspetto derivato dell’esserci,
fanno luce su alcuni modi di essere nel mondo, sia attraverso astrazioni generali (categorie nosografiche
descrittive), sia attraverso specificità storiche (i modi di essere del singolo individuo).
Modi di spiegare e comprendere l’essere umano:
L’essere umano delle etichette diagnostiche del DSM non esiste, ma sono astrazioni utili per la ricerca e
offrono al clinico delle indicazioni statistiche sensate rispetto a quel tipo di sofferenza umana. Inoltre creano
una rete coerente di rimandi che permette la comunicazione clinica.
Un’altra descrizione deriva dalle categorie OSP, organizzazioni di significato personale di Guidano, che
offrono al clinico dei prototipi ideali che fanno luce su alcuni modi di essere nel mondo. Rispetto alle
categorie del DSM, questa danno una visione dinamica. Gli OSP sono dei processi ideali di sviluppo
normativo, poiché la patologia è un’alterazione del processo stesso.
La descrizione della fenomenologia ermeneutica cerca di capire i modi di essere-nel-mondo del singolo
paziente attraverso la sua storia, senza ridurre l’esperienza in modelli pre-costituiti.
Queste tre descrizioni possono eliminarsi reciprocamente oppure dialogare attraverso un’ermeneutica
costruttiva.
2, organico e funzionale, natura e storia. Spiegare e comprendere un fenomeno che in natura è uno: la
persona
Uomo come esserci:
• Ogni esperienza è sempre situata in questa o quella tonalità affettiva
• L’accadere dell’ipseità coincide sempre con il disvelamento di una certa apertura di mondo
• Ad ogni apertura di mondo vi è sempre una pre-comprensione (altrimenti nessun mondo
apparirebbe), ma è solo attraverso il linguaggio che questa pre-comprensione può essere trasformata
(da noi) in significato, quindi l’esperienza configurata in racconto storico
• L’esserci si identifica con se stesso attraverso il racconto di Sé, ma il racconto di Sé si realizza
perché abbiamo la percezione di essere sempre noi stessi ogni volta, presso le stesse cose, con le
stesse tonalità emotive. Riconoscersi come se stessi nella molteplicità dell’esperienza è la condizione
necessaria per creare un racconto di Sé nel tempo.
• Il senso di Sé è sempre accompagnato dai modi di attivazione organismica (penso intenda i
cambiamenti fisiologici corporei). Essere presso le cose con certe tonalità emotiva significa: in prima
persona permette il senso di continuità di Sé, in terza persona risultano come coerenze di attivazioni
organismiche (non so che cazzo vuol dire).
3, attivazioni storiche (cambiamenti neurali storici, esempio di Mario rossi)
Well, torniamo alla dialettica tra scienze naturali e umano e al dialogo costruttivo fra le diverse discipline ai
fini dell’inquadramento diagnostico
Nella quotidianità, i cambiamenti organismici (nello specifico quelli neurali) accompagnano l’accadere
dell’ipseità: una certa attività organismica è una condizione di possibilità, insieme al mondo altrimenti non
esisterebbe l’ipseità, della manifestazione dell’ipseità. I cambiamenti organismici accompagnano un corpo e
la sua storia di vita; per esempio Mario Rossi che sa ballare la capoeira, avrà un’attivazione mirror
nell’osservare un altro ballerino di capoeira. È questa attivazione neurale organismica che avviene in Mario,
e non in me, dipende da un’esperienza che ha vissuto e gli è propria. Quindi le attivazioni organismiche, di
solito si manifestano in modo coerente con i modi di essere della persona.
Un altro esempio di attivazioni organismiche, quindi di cambiamenti neurali storici, in questo caso legato
anche al significato e all’identità narrativa > abuso e maltrattamento in età evolutivo è in relazione spesso
con depressione adulta. Quindi le ripetute esperienze di abuso si declinano in attivazioni affettivo-
situazionale di emozioni come rabbia e tristezza. L’intensità di queste attivazioni favoriscono uno stile
emotivo di tipo inward che in questo caso si accompagna a un’emotività per lo più caratterizzata da rabbia-
aggressività e tristezza- angoscia. L’emozionarsi secondo una modalità inward favorisce lo sviluppo di
un’identità personale polarizzata sulla medesimezza, che in questo caso specifico si traduce in un
riconoscimento di Sé attraverso temi di abbandono e inadeguatezza.
Quindi le attivazioni storiche, ossia (in questo caso) i cambiamenti neurali, sono comprensibili alla luce della
storia di vita del paziente.
4, attivazioni non storiche
Immaginiamo ora che Mario Rossi muoia a causa di un proiettile sparato da un rapinatore mentre Mario
stava al ristorante. Come spiegheremo a un interlocutore, le cause della morte di Mario? È intuitivo che la
spiegazione più adeguata vada a ricercarsi nell’ambito della neurologia. I cambiamenti neurali e il
conseguente decesso, sono perlopiù comprensibili in base al ruolo di quelle reti neurali per far funzionare
l’organismo. Qual è il rapporto tra la storia di vita di Mario Rossi e le modificazioni neurali che sono
accadute nella sua uccisione? È importante conoscere la sua storia? No, perché si tratta di una modificazione
neurale non storica, che non è veicolata alla medesimezza della carne di Mario Rossi.
5, il criterio ermeneutico della comprensione in neuropsicopatologia: l’esempio del suicidio
Mettiamo in questo caso che Mario Rossi, sempre al ristorante, ad una certa si alza e si spara un colpo in
testa. E mettiamo che le lesioni causate siano identiche a quelle del caso precedente. In questo caso, se
qualcuno ci chiedesse la causa della morte di Mario, cosa risponderemmo? Sembra evidente che una
spiegazione esclusivamente biologica non sarebbe sufficiente né per comprendere il fatto né per
eventualmente spiegarlo. Il suicidio è qualcosa che per essere compreso, richiede di partire da un fatto
storico, ossia il fare riferimento a una storia di vita. In questo caso, il testo “decesso” risulta comprensibile
perlopiù alla luce del contesto “storia di vita”.
6, nel mezzo del continuum neuropsicopatologico
La maggior parte delle patologie storiche da alterazione dell’identità si situa in mezzo al continuum storico-
non storico.
• Relazione fra il transporter della serotonina 5-HTTLPR e esperienze precoci avverse, con lo scopo di
comprendere meglio l’insorgenza di una sintomatologia depressiva. Questo 5-HTTLPR è un
polimorfismo che può avere o meno delle varianti alleliche. La presenza dell’allele è associata a una
maggior suscettibilità dell’insorgenza di depressione. Quindi sembra ci sia una interazione tra
genoma ed esperienza: dove l’esperienza può essere difettuale per la presenza di alcuni geni
(situazione non storica), ma solo perché ci sono certi tipi di esperienza specifici (situazione storica)
• Sindrome post traumatica da stress: anche in questo caso sempre che gli eventi che danno origine
alla patologia, non siano sufficienti da sole a spiegare le alterazioni emotivo-comportamentali. Ossia,
gli eventi stressanti hanno un impatto differente in base: alle modalità di configurare l’esperienza e
quindi alla storia di vita (situazione storica), ma sembra esserci anche una sensibilità genetica
(situazione non storica)
7, riflessioni conclusive
In questo capitolo abbiamo distinto le forme psicopatologiche storiche:
• In questi casi l’esperienza o viene configurata in modi non identitari, oppure non viene proprio
configurata
• Nella maggior parte dei casi le alterazioni dell’identità creano delle diminuzioni delle possibilità
esistenziali
• Se essere nel mondo vuol dire essere progettato-gettato, vuol dire che la natura umana ha la
caratteristica della trascendenza: l’uomo esiste nel continuo superamento di Sé. Il proprio essere nel
mondo dove in ogni istante ci progettiamo, oltrepassandoci e superandoci, verso gli orizzonti del Sé.
• Binswanger: nella patologia l’essere gettato nel mondo ha il sopravvento sul progetto del mondo: la
maggior parte dei sintomi sono ripetitivi (ripetizioni di possibilità già date) e de-contestualizzati
(narcotizzazione della situazione). La malattia psichica, nel dare questa o quella diminuzione delle
possibilità dell’esistenza, si manifesta come: focalizzazione della persona sull’immediatezza del
corpo (es. DCA) o focalizzazione stereotipica su comportamenti non progettuali (es. disturbi
ossessivi).

Cap. 8, Il primo colloquio e l’inizio della terapia


Il circolo della mimesis può essere usato nella psicoterapia, per fare in modo che il paziente e il terapeuta
riportando il testo del paziente nel mondo dell’azione e della passione, possano ricomporre le alterazioni di
senso che hanno originato questa o quella frattura dell’identità personale.
L’ermeneutica applicata alla storia del paziente è sempre un’ermeneutica interessata, poiché è diretta al
progetto di cura. Quindi la strategia ermeneutica applicata al progetto di cura riceve delle direzionalità
operative da parte delle conoscenze neuropsicopatologiche. Nell’agire psicoterapeutico possiamo vedere
chiaramente la mediazione neuropsicologica, dialettica, fra le spiegazioni delle scienze naturali e la
comprensione delle scienze umane. Quindi la mediazione neuropsicologica è:
• Sempre in atto nel corso della terapia
• Si articola fra i tipi ideali della neuropsicopatologia descrittiva e il singolo individuo (tipo storico)
• Quindi conoscere gli ideal-tipi dei vari disturbi risulta utile solo se non la usiamo come unica
apertura di senso dalla quale fare emergere tutti i modi di essere del paziente (ossia se non usiamo
l’etichetta per comprendere tutti i modi di essere del paziente). se facessimo così, andremo a cogliere
solo la medesimezza patologica del paziente, confermando da una parte la nostra teoria e dall’altra
de-umanizzando il paziente.
• Questo non significa che i colloqui psicoterapeutici non abbiano una direzionalità tecnica: questa è
data dal testo del paziente, e consiste in un insieme di strategie ermeneutiche che mediano tra
l’Oriente del testo (il passato) e il suo Occidente (il futuro), quindi agisce grazie ai dati stessi del
paziente, nonostante vi siano delle domande del terapeuta incalzanti e progressive che rinnovano
aperture di senso.
2, l’ermeneutica psicoterapeutica
La parola ermeneutica significa > arte di interpretare, in generale possiamo dire che un testo diventa ed è
comprensibile quando mostra un insieme coerente di significati che caratterizza l’insieme delle specifiche
aperture di mondo del paziente. Solo in questo caso le operazioni del terapeuta di decodifica (comprensione
delle strutture linguistiche che formano il testo) e d’inferenza (capacità di formulare deduzioni che rendono il
testo più comprensibile a partire dai significati contestuali) risultano fattibili.
Quindi usando un approccio fenomenologico ed ermeneutico dobbiamo:
• Capire il senso del racconto del paziente, facendo riferimento ai motivi della sofferenza, al loro
esordio e al loro mantenimento.
• Come qualsiasi altra operazione ermeneutica, per fare quello che abbiamo detto al primo punto,
dobbiamo contestualizzare il testo ogni volta.
• Il contesto rende intellegibile il testo e il motivo di ciò lo cambiamo attraverso il continuum dove i
due poli sono rappresentati da:
• Prospettiva internalista: è il termine che crea le condizioni in cui è applicabile e non è il
contesto a delimitarle.
• Prospettiva esternalista: il contesto modifica il significato dei termini > se prendiamo un
testo, ad esempio un saluto, il contesto specifico dove avviene il saluto decide sul suo
significato quindi se va intesto come un saluto affettuoso o come un saluto aggressivo. La
versione estrema di questa prospettiva si chiama contestualismo radicale, e nega l’esistenza
di nuclei semantici stabili: ossia non esiste un saluto in quanto tale, perché è il contesto che
decide e modifica il suo significato ogni volta.
• Durante il colloquio psicoterapico troviamo alcuni testi che si definiscono da soli, nel senso che
hanno un significato intrinseco. Altre volte troviamo testi che sono assolutamente incomprensibile
senza un contesto adeguato.
• Un contesto è fattuale quando permette di comprendere l’azione: per esempio se abbiamo due
contesti fattuali che però presentano la stessa azione di “alzare la mano”, questa avrà un significato
diverso se accade nella fifh-avenue a New York per un taxi, o in un’aula scolastica. Le azioni umane
senza contesto fattuale sono molto rare, sono più comuni nei sistemi formali astratti.
• Il contesto di un evento configurato in una narrazione è sempre tematico, perché l’azione è
intellegibile poiché scaturisce dalla tenzione tra uno spazio di esperienza ossia “il proprio passato e
parte di esso” e un orizzonte d’attesa “il progetto di sé e parte di esso”.
Abbiamo Franco, un uomo di 46 anni che di professione fa l’imprenditore edile, sposato e con un figlio,
Mauro, di 20 anni e studente al primo anno di Ingegneria. Franco arriva in studio per una inspiegabile ansia
generalizzata che lo accompagna da qualche mese insieme a dei rituali e compulsioni. L’ansia è presente
soprattutto la mattina e le compulsioni consistono perlopiù nel bisogno di leggere al contrario i sottotitoli che
compaiono in televisione.
Il terapeuta cerca di contestualizzare l’esordio dei sintomi, andando indietro nel tempo quanto basta per
cercare di capire i motivi (spazio d’esperienza). Franco non riferisce alcun accadimento particolare nei mesi
precedenti all’esordio dei sintomi, ossia fine marzo. Il terapeuta lavora nel presente e fa tenere al paziente un
diario nel quale scrive l’andamento della sintomatologia, che sembra per lo più costante. Nel corso dei
colloqui emerge un fondamentale orizzonte d’attesa, che il paziente stesso non aveva mai posto come tema e
riconfigurato, ossia il fatto che Mauro, dopo la laurea in ingegneria, avrebbe preso il posto del padre
nell’azienda di famiglia, che si tramanda da generazioni. Salta fuori che Mauro non supera gli esami, e che
sta valutando di cambiare corso di laurea. Questi eventi minano la realizzazione dell’orizzonte d’attesa, che
per Franco rappresenta un dei motivi fondamentali delle sue fatiche lavorative. Infatti vi è stato un aumento
della sintomatologia successivamente al mancato superamento degli esami da parte di Mauro.
Quindi il contesto rende possibile il comprendere la sintomatologia, poiché è dato dallo spazio d’esperienza
(il figlio non riesce a superare gli esami, forse non si laurea in Ingegneria ecc) e da uno specifico orizzonte
d’attesa: azienda di famiglia e tradizione, l’impegno di Franco per lasciare l’azienda al figlio e l’idea scontata
che il figlio si sarebbe laureato. Nell’arco di pochi colloqui, Franco riesce a configurare in modi identitari
queste esperienze non tematizzate. Questa appropriazione di sé, secondo identità, produce una modificazione
dell’orizzonte d’attesa e una concomitante riduzione della sintomatologia.
L’esempio di Franco ci permette di spiegare altri aspetti dell’ermeneutica psicoterapeutica:
• In primis il terapeuta deve far emergere la specifica apertura di mondo che il testo del paziente lascia
emergere: in questo caso l’ansia di Franco non è incomprensibile, ma fa parte dei suoi modi di essere
in una specifica storia di vita con determinati progetti di vita.
• Il venir meno di un orizzonte d’attesa è per il paziente motivo di alterazione della sua identità
personale e familiare.
• Tuttavia l’ansia di Franco diventa comprensibile se inseriamo anche le competenze
psicopatologiche: in psicopatologia l’ansia è sempre inquadrabile se la rapportiamo all’attesa verso il
futuro, soprattutto quando i desideri del paziente non dipendono totalmente dalle sue azioni. Nel
caso di Franco l’ansia diventa un indice di uno stato psicopatologico (alterazione dell’identità
personale) nel momento in cui gli appare chiaro che un aspetto dell’identità familiare viene meno
(imprenditori che si riconoscono nell’azienda di famiglia che dura da anni.
• Invece cercare di modificare l’idea irrazionale di Franco di dover decidere del futuro del figlio non
sarebbe servito a una mazza
3, appunti di semiotica dell’esperienza
Siccome uno dei modi che ha il terapeuta per comprendere i modi delle alterazioni identitarie del paziente,
dipende dall’intelligibilità del testo, appare necessario che il terapeuta usi degli strumenti ermeneutici per
aprire la comprensione della narrazione del paziente.
La semiotica, ossia la scienza dei segni, in particolare la semiotica dell’esperienza, ci interessa poiché si
occupa del rapporto tra esperienza e linguaggio.
In una semiotica del corpo, nel corpo vi sarebbe la possibilità di rendere conto dei significati che derivano
dagli specifici modi di essere nel mondo con determinate tonalità emotive. Infatti il corpo è scritto, nel senso
che in esso lasciamo tracce di significato servono a metterlo in rapporto con la società e altri corpi. Ogni
modifica del corpo, come la ginnastica, o ogni cura del corpo, come il banale truccarsi, influisce e modifica
le tracce di significato, in questi modi noi scriviamo il nostro corpo.
Nell’approccio semiotico al corpo Fontanille individua due linee direttrici:
• Il corpo viene considerato come substrato della semiosi (la semiosi ('segno'; dal gr. semeion) indica
un processo mediante cui un'espressione (acustica, visiva, scritta ecc.) assume valore di segno
• Il corpo viene considerato come figura semiotica (una figura che ha un significato)
In soldoni, il corpo come Leib è responsabile della costruzione dell’identità nel discorso, può esistere un Sé
discorsivo perché ho un Me di referenza
4, il primo colloquio: riflessioni strategiche e teoriche
Colloquio psicodiagnostico > è orientato perlopiù alla ricerca dei sintomi e dei segni psicopatologici
Colloquio psicoterapico per un comportamentista ortodosso > il primo colloquio ha lo scopo di valutare
l’intensità e il tipo di sintomi così da poter stabilire quali tecniche comportamentali utilizzare. Quindi
individuare quei sintomi che possono essere in qualche modo modificati con una tecnica terapeutica.
Colloquio psicoterapico cognitivista tradizionale > identificare i pensieri automatici e irrazionali e le
convinzioni distorte, quindi la strategia terapeutica sarà orientata sulla persuasione del paziente.
Costruttivismo del primo post-razionalismo > sarà meno orientato ai sintomi, e di più a capire
l’organizzazione di significato personale del paziente. Scrive Guidano: il clinico deve fare un’ipotesi sulla
possibile organizzazione di significato personale che sta alla base della sintomatologia: sapere il significato
personale permette di trovare il modo più efficace per riformulare il problema del paziente ed evitare di
assumere atteggiamenti che potrebbero essere inopportuni al paziente, in quanto opposti o antitetici alla sua
coerenza.
Modello cognitivo neuropsicologico:
• Ha un approccio alla psicopatologia di tipo ermeneutico-fenomenologico
• Il soggetto ha esperienza perché è un Sé corporeo inserito in un mondo e questo mondo è già un
universo discorsivo della cultura e del linguaggio
• Il bambino già a 3-5 anni inizia a configurare l’esperienza in modo narrativo, in modo sempre più
autonomo rispetto alle narrazioni condivise con i caregivers. In questo modo la propria esperienza
può essere configurata in modo identitario in una narrazione che fa emergere il personaggio (identità
narrativa).
• Quando alcune esperienze:
• Non vengono configurate
• Vengono configurate parzialmente o in modi non identitari
• Allora la storia di Sé diventa incoerente o incompiuta, quindi parzialmente o totalmente
incomprensibile o non autentica (non propria). Quindi cosa accade? Che il senso si stacca dal
contesto, perché il pensiero di Sé si stacca dalla cosa empirica (esperienza). Nel tempo, il senso
staccato dall’esperienza continua a significare secondo idealità (credo che continui a creare
significati secondo un’idea piuttosto che una esperienza), come se fosse un testo autonomo dai
contesti e dall’esperienza di questi contesti. Di conseguenza crea incomprensioni e narrazioni
incomplete.

Qual è quindi il compito del terapeuta ermeneutico fenomenologico?


• Durante il primo colloquio dovrà lasciarsi trasportare dal testo del paziente seguendo il ciclo testo-
contesto.
• Le domande saranno orientate all’intelligibilità del discorso: ogni incomprensione è un potenziale
indizio di un testo incompiuto e quindi di un’identità fratturata. Inoltre le possibilità di comprendere
o meno il testo del paziente dipende anche dal condividere una certa apertura di mondo
• Di solito si inizia il colloquio partendo dal testo del paziente che solitamente coincide con la
sofferenza del paziente. l’incamminarsi verso l’oriente del testo (il passato) permette di
contestualizzarlo e sviluppare le diverse aperture del mondo nelle quali il paziente si era ritrovato a
fare esperienza.
• A volte la discrepanza identitaria viene manifestata dal paziente stesso quando mostra un senso di
estraneità di fronte all’esperienze del sintomo: di solito in questi casi il paziente riporta delle precise
indicazioni temporali circa l’esordio dei sintomi. In questi casi il colloquio può aprirsi con una
richiesta che aiuta e dà una direzione alla ri-appropriazione di Sé: voglio tornare a essere quello che
ero prima.
• In altri casi la frattura identitaria non ha un’indicazione temporale specifica, e questo impedisce al
paziente la sensazione di estraniamento da sé. In questo caso sarà perlopiù il testo, mostrando in
modo oggettivo le sue incoerenze, a fare da bussola rispetto l’andamento del ciclo testo-contesto.
Rispetto a Marta, il terapeuta si è lasciato guidare dal testo, ampliando il contesto e/o cercandone un altro
ogni volta che il racconto sembrava poco comprensibile. In questo modo i motivi di un certo modo di essere
nel mondo, si mostrano attraverso gli stessi fatti.
Le parole di Arciero > le discrepanze che appaiono nel presente, rompono l’unità dell’identità perché
riaccendono nello sfondo tracce inattese, rendendole contemporaneamente incomprensibili. Per fare in modo
che ciò che è stato riacceso si ristabilisca nell’unità dell’identità, è necessario un processo che ordini e
riconfiguri quelle tracce, in modo da integrare e spegnere la prospettiva del presente che ha permesso la
frattura. La ricostruzione dell’identità avviene attraverso uno sforzo di riappropriazione, riflessivo e
contemporaneamente interpretativo.
Quindi il senso che esiste nella rete coerente di rimandi del mondo, diventa nostro quando è sentito nella
carne, nelle aperture del mio mondo che si associa al contemporaneo accadere dell’ipseità. Il compito di
esplicitare il senso secondo i propri storici significati spetta al racconto.
L’intelligibilità del discorso è quella bussola che permette di rilevare le fratture identitaria che sottostanno
all’esordio e al mantenimento della psicopatologia. In questo senso il ciclo testo-contesto deve permettere al
terapeuta di individuare i punti specifici della storia del paziente dove hanno avuto luogo le alterazioni
identitarie.
Presupposti semiotici che facilitano l’accesso al testo del paziente

La coerenza del testo


Secondo Eco, quando interpretiamo un testo, dobbiamo distinguere:
• Intentio auctoris, dell’autore
• Intentio operis, intenzione dell’opera
• Intentio lectoris, intenzione del destinatario
Nel colloquio psicoterapico, questa distinzione ritorna utile per individuare le possibili fratture identitarie:
per esempio in Marta, le interpreta se stessa come una persona incapace (intentio auctoris e lectoris), ma
questa interpretazione è contraddetta dai fatti, dal testo (intentio peris). Quindi possiamo dire che in un’ottica
semiologica, le diverse congetture che si possono fare sulla storia di vita, devono essere coerenti con il testo.
Negoziazione del significato
Il testo è il testo del paziente, quindi qualsiasi configurazione operata nella psicoterapia, deve essere sentita
dal paziente come propria. Eco fa una distinzione fra:
• Uso: è un modo strumentale e personale di interpretare il testo, senza fare attenzione a ciò che il testo
dice effettivamente. In questo caso Ricoeur parla di “violenza dell’interpretazione” quindi una
interpretazione che non permette un’appartenenza al Sé del paziente del nuovo testo e che quindi
risulterà inutile perché non verrebbe fatta propria dal paziente e quindi non produrrebbe alcuna
configurazione di senso.
• Interpretazione: questa rispetta il testo
Contesti situazionali, tematici ed esistenziali
La storia di vita del paziente è un macrotesto, ed è articolato in n-possibili altri testi che sono organizzati
gerarchicamente in una rete di relazioni semantiche.
Ma cos’è un contesto? Esistono 3 tipi di contesti:
• Situazionale: il contesto situazionale è il momento storico e geografico dell’evento, come quando
dico che mi sono sposato a Varese il 23 ottobre 2012, il testo “il mio matrimonio” viene
contestualizzato a livello situazionale, in uno specifico luogo geografico e momento storico. Il
linguaggio non verbale è spesso parte del contesto situazionale: può cambiare di significato se viene
detto mentre si arrossisce, o ad alta o bassa voce.
• Tematico: è lo sfondo semantico dalla quale bisogna partire per interpretare il testo. Un testo come
“con questa vittoria il Torino aumenterà l’introito dovuto ai diritti televisivi” è comprensibile solo a
chi ci capisce di calcio e vive in questo momento storico. L’esserci è sempre in qualche contesto
tematico che fa da sfondo. Questi contesti sono culturali, religiosi, politici, tecnici ecc.
• Esistenziale: il contesto esistenziale è l’interazione tra lo spazio d’esperienza e l’orizzonte d’attesa
C = (SE x OA) ed essendo in interazione di co-determinano.
• Ogni azione del paziente che fa emergere una parte di mondo è un testo
• Per comprendere questa parte di mondo dobbiamo contestualizzare il testo nella più ampia
storia di vita
• L’uomo, in senso heideggeriano, è sempre oltre se stesso, nel futuro: quindi l’uomo è
l’insieme dei suoi progetti e orizzonti di vita.
• Il passato, ossia lo spazio d’esperienza, ha senso alla luce dei progetti, ossia il futuro, e
viceversa
• Il contesto esistenziale è dinamico rispetto due aspetti:
• Ogni contesto è storico quindi i contesti esistenziali si modificano in base
all’unitarietà (identitarietà) del racconto
• Ogni testo è comprensibile solo alla luce di una pluralità di contesti. Di conseguenza
è buona norma iniziare il primo colloquio individuando il Macro contesto
esistenziale > ossia l’insieme delle informazioni esistenziali del paziente; anni,
famiglia, occupazione, luogo di vita ecc. Questi testi rappresentano dei significati
fondamentali per comprendere quello che sarà il racconto. Infatti molti di questi testi
diventeranno contesti dove significare gli aspetti della narrazione. Quindi il
terapeuta deve trovare ogni volta contesti più adatti per rendere comprensibile un
testo e la sua bussola sarà il grado di intelligibilità della storia.
Topic, magnificazione, narcotizzazione, isotopie
Topic > è una scelta che stabilisce di che cosa si sta parlando, quindi è una specie di macro-tema. Di solito
all’inizio della terapia il topic coincide con i problemi del paziente e l’inizio della sintomatologia. Nel corso
della terapia il tipic viene negoziato in base agli accadimenti settimanali, oppure influito da un tema critico
che si sta cercando di rifigurare. Il paziente tende a portare topic esistenziali secondo variabili magnificazioni
e narcotizzazioni. Tipo Marta magnifica il ruolo sociale di Luca e narcotizza l’aspetto umano di Luca. Il
terapeuta dovrà essere attento a far emergere quanto è narcotizzato nel testo. Poi in base al topic il terapeuta
dovrà magnificare o narcotizzare parti del topic per poter guadagnare migliori livelli di comprensione del
testo.
Isotopie > è la coerenza interpretativa ed è un fenomeno semantico. Spesso topic e isotopie coincidono, ma
bisogna tenere a mente che agiscono sue due livelli differenti: il topic è un fenomeno pragmatico, l’isotopia è
un fenomeno semantico.
Apertura e chiusura dei testi
Patologie non storiche > i testi sono perlopiù interpretabili in un’unica direzione, poiché l’evento produce un
cambiamento dei modi di essere del paziente che non richiede particolari interpretazioni
Turning-point > è il punto di svolta esistenziale, che può essere un trauma cranico o qualunque evento non
storico, produce degli effetti che possono essere spiegati causalmente e non dall’interpretazione storica
Fabula e intreccio
Sono due strutture narrative distinte:
fabula > è l’ordine cronologico degli eventi, le azioni ordinate temporalmente. La fabula non si esaurisce con
la nascita del paziente: infatti nella psicoterapia con i bimbi bisogna chiedere ai genitori i motivi, le
aspettative e il contesto che li hanno portati ad avere un figlio, così da poterli contestualizzare.
intreccio > è la storia che emerge dal racconto, la parte superficiale. Il paziente inizia parlare di Sé a partire
dal presente, ossia dal suo problema, e quindi ci presenta l’intreccio e non la fabula. Tuttavia il terapeuta che
lavora secondo il ciclo testo-contesto, è obbligato ad aprire gli eventi secondo l’ordine cronologico che va
dal futuro al passato, dagli orizzonti d’attesa allo spazio di esperienza. Quindi in questo caso il topic diventa
la raccolta della storia di vita dove paziente e terapeuta ricostruiscono l’intera fabula.

La cooperazione interpretativa
concetto preso in prestito da Umberto Eco che affermava che nel leggere un testo è presente un accordo fra il
letto e l’autore del libro: in psicoterapia l’accordo riguarda la possibilità che il terapeuta si faccia co-autore
dei significati dell’esperienza del paziente. Questo concetto sostituisce quello classico di “alleanza
terapeutica”: quest’ultimo si riferisce a qualcosa che se messo “sotto i riflettori” dell’analisi ci dice poco o
niente, in che senso alleanza? Nel senso che entrambi i protagonisti della relazione si alleano per raggiungere
la cura? Allora cosa differenzia la relazione terapeutica dal rapporto medico e paziente? viceversa il concetto
di cooperazione è più pragmatico: “io paziente per essere aiutato devo raccontarmi e tu terapeuta devi
possedere quelle competenze ermeneutiche e psicoterapiche che ti permettano di cogliere i significati della
mia esperienza” risulta quasi un concetto più medico. Tuttavia va ricordato che il testo deve essere
comprensibile per il paziente, non per il clinico. Il paziente deve quindi rivelare quei modi di essere nel-
mondo che si nascondono dietro al testo, così da potersene riappropriare e per avviare il processo di
metamorfosi del Sé (ricomposizione identitaria). In questa comunanza di obiettivi è possibile indagare il
testo e accettare la fatica dello sforzo interpretativo.

5, La strategia del ciclo testo-contesto


Nel caso di Marta l’etichetta “esordio sofferenze depressiva” acquisisce un senso se letto alla luce del
significato che emerge dal contesto di Marta, quindi dal suo spazio di esperienza e orizzonte di attesa. Questa
operazione la chiamiamo “strategia del ciclo testo-contesto” e può essere formalizzata così:
CT (T t0) = SE(t0) x OA(t0)
T0: il testo al tempo t0 è comprensibile grazie > SE t0 ossia lo spazio di esperienza che precede e
accompagna il tempo to e > OA t0 ossia l’orizzonte d’attesa al tempo futuro. Allo stesso modo lo spazio di
esperienza diventa comprensibile se:
SE (t0) x OA (t0) = T 0-1
Il tempo T 0-1 può indicare uno scarto temporale di un giorno, un meso un anno prima del tempo T 0 quindi
può essere sostituito con TX-1.
CT(Tx-1) = SE (tx-1) x OA (tx-1)
6, Il primo colloquio di Marta
• 24 anni inviata dal medico con una diagnosi di depressione reattiva (Disturbo depressivo maggiore
episodio singolo) con nessuna psicopatologia pregressa
• Dai 20 anni frequenta Luca che studiava Giurisprudenza, dopo pochi mesi dal loro incontro vanno a
vivere insieme programmando un potenziale matrimonio.
• Luca si laurea e Marta si diploma in Scienze infermieristiche e dopo la laurea inizia a lavorare in un
centro clinico
• Negli ultimi mesi Luca mostra insofferenza nei confronti di Marta e due mesi prima dell’inizio della
psicoterapia la lascia con una lettera dove spiega l’insieme di motivi che l’hanno portata a lasciarla,
tra cui la differenza culturale e la difficoltà di trovare dialogo su temi comuni.
• In due mesi Marta perde circa 10 kg, mostra insonnia, apatia, chiusura relazionale e smette di
lavorare, il medico le prescrive antidepressiva e la invia in terapia.
T (t giugno 2005 ) > che Marta porta è il suo significato, spiegazione, della rottura stessa. Da questo emerge sia la
sofferenza per la rottura, che si il suo senso di inadeguatezza per non essere abbastanza capace, colta e
all’altezza di Luca. Marta si chiede se riuscirà mai a trovare un uomo che la ami per quello che è, ed emerge
il tema del desiderio di avere una famiglia e dei figli (OA), quindi:
SE (Giugno 2005): convivenza con Luca, inadeguatezza nei confronti di Luca, prospettive di matrimonio e
famiglia, rottura affettiva.
OA (Giugno 2005): figli, famiglia, impossibilità di trovare un uomo capace di renderla felice, perché a lei piacciono
uomini, tipo Luca, che non la considerano all’altezza.
Ci chiediamo, quando è iniziata la frattura identitaria di Marta? Si utilizza il metodo di andare indietro nel
tempo per rendere il contesto attuale, un testo nuovo.
Marta decide di studiare scienze infermieristiche dopo pochi mesi che ha conosciuto Luca, che viveva a
Milano e stava per concludere gli studi e la invita ad andare a convivere con lui. Ma cosa faceva Marta
prima? Chi è Luca per lei? Dobbiamo ampliare il testo. Emerge che quando Marta conosce Luca, aveva
smesso di studiare, da due mesi, in un college inglese a Londra. Dopo essersi diplomata con il massimo e
aver vinto una borsa per merito, aveva deciso di studiare Giurisprudenza a Londra.
Prima incoerenza: fra la sua esperienza reale (merito) e il non sentirsi all’altezza
In più, quando nasce il desiderio di una famiglia e di rinunciare a una carriera lavorativa?
Marta a 17 anni si innamora di Claudio, un meccanico, e descrive il loro incontro come il più bell’evento
della sua vita (dirà lo stesso di Luca). Dai 14 anni ai 17 la sua vita si alternava fra studio e uscite sporadiche
con alcune amiche, anche se non ha mai avuto, né voleva, una amica del cuore.
“per lo più stavo a casa a studiare o ad aiutare mia madre che mi ha cresciuta da sola e io con lei sono sempre
stata bene (emergerà che il padre è morto quando aveva 6 mesi). A scuola sono sempre andata bene, volevo
studiare Giurisprudenza perché tutti mi hanno sempre detto che mio padre era un bravo avvocato. Ho
conosciuto Claudio ad un pub, siamo stati insieme due anni, a mia madre piaceva e non piaceva, poiché
riteneva ci fosse troppa distanza culturale tra noi, ma per me non era importante, se mi fossi laureata a
Londra avrei potuto trovare un lavoro come avvocato e avrei guadagnato abbastanza per comprare casa e
mettere su famiglia. Quando partì per il college eravamo molto tristi, ma dopo due mesi dalla mia partenza,
mi scarica per messaggio. Sono subito tornata a casa perché lui non mi scriveva più, alla fine abbiamo
parlato ed è emerso che ha conosciuto una ragazza e si sono messi insieme. Per un mese non sono uscita di
casa e avevo deciso di interrompere gli studi, non me la sentivo di abbandonare casa e la mamma (altra
incoerenza). Solo a casa non stavo male e ho vissuto la cosa degli studi come un vero insuccesso.”
Abbiamo ampliato il testo, quindi al momento dell’incontro con Luca il contesto principale è:
SE: fallimento affettivo e universitario
OA: nessuno in particolare, tranne il desiderio di avere una famiglia.
“Ero sempre a casa, svuotata, l’incontro con Luca mi ha riaperto la vita, mi sono subito sentiva viva e ho
sentito sensazioni paragonabili a quelle che avevo con Claudio. Avevo pensato di ritornare a studiare, magari
a Londra, ne ho parlato con Luca, ma dopo poche settimane che stavamo insieme abbiamo deciso di sposarci
appena Luca avesse trovato lavoro, così siamo andati a convivere. Io non potevo non fare niente, quindi
pensavo di studiare legge lì, a Milano, ma Luca non era d’accordo, mi ripeteva che avrebbe avuto più senso
scegliere una laurea più breve che mi permettesse di trovare lavoro subito, per me andava bene, tanto dopo
poco ci saremmo sposati e non avrei avuto molto tempo per studiare tanti anni.”
Il fatto di scegliere infermieristica è un effetto di un orizzonte d’attesa che si sarebbe dovuto realizzare,
famiglia e bimbi, e non a un senso d’incapacità, ma questa scelta non si configura identitariamente, infatti lei
non torna a Londra non per la paura di non farcela, ma sempre in vista dell’orizzonte d’attesa.
Definiamo il contesto dell’inizio del rapporto con Luca:
SE: modificazione delle scelte universitarie, soddisfazione affettiva
OA: matrimonio e famiglia con Luca
Durante il primo colloquio e in conseguenza alla riformulazione del testo del paziente, il terapeuta fa notare a
Marta che la sua scelta universitaria dipende da una scelta di vita e non da un senso di incapacità:
terapeuta: quindi se avesse voluto studiare legge, le ci sarebbe riuscita no?
Marta: non lo so
Terapeuta: come non lo sa? Dal suo raccolto non emergono difficoltà nello studio, emerge dalla sua storia di
vita.
Marta: si forse non avrei avuto problemi, ma quattro anni più e altrettanti per specializzarmi, non me la
sentivo…
Quindi Marta decide di non studiare legge (scelta di vita) per un motivo specifico (sposarsi con Luca), ma
nel corso del tempo quell’esperienza (non studiare legge) viene plasmata secondo modi non identitari, fino a
sconfinare nell’incapacità personale. Il terapeuta procede in una direzione che prevede un ritorno al presente.
Emerge una cosa che caratterizza l’atteggiamento di una parte di pazienti: il tema della responsabilità (ossia
il delegarla che porta questi pazienti a impedire loro di essere protagonisti della loro storia): “Luca era molto
conservatore, per lui una moglie deve stare a casa, ma a me va bene così, mai avrei pensate che cambiasse
tanto nel tempo”, la sofferenza di Marta deriva dai suoi modi di essere-nel-mondo o dalla poca affidabilità di
Luca?
Nel corso del racconto di Marta emerge che Luca comincia a viaggiare sempre di più per lavoro e che
quando ritorna a casa è insofferenze e non le chiede mai niente della sua vita, invece Marta è sempre molto
interessata e ritiene più interessante il lavoro di Luca che i suoi cateteri da infermieristica. Inoltre il terapeuta
le chiede cosa secondo lei ha fatto innamorare Luca, ma lei non sottolinea aspetti del suo modo di essere, a
parte l’onestà e l’essere una brava ragazza. Sembra che per Marta l’aspetto estetico sia del tutto secondario,
si considera “né bella, né brutta”. Diventa sempre più evidente come l’OA di Marta venga progressivamente
meno, come di fronte alla sua esperienza risulti sempre meno reale, e Marta di questo non se ne accorge. Con
il tempo, Luca inizia a fare notare delle discrepanze di ruolo: lui come il giovane professionista e Marta che
ai suoi occhi appare sempre meno interessante (inoltre lui a posticipato un po’ il matrimonio a nome della
carriera). Marta parla di alcune discussioni, la più recente, che precede la rottura, riguarda Luca che le
sottolinea le “rotture di scatole” di cui sono capaci solo chi non lavora, o chi fa un lavoro mediocre, solo loro
possono permettersi di perdere tempo in discussioni inutili o in uscite serali o ascoltare la musica. Marta non
interpreta gli accadimenti solo sul versante non identitario – del suo non essere all’altezza- e non si rende
conto che Luca non c’è più, anzi inizia ad “appropriarsi” del racconto di Luca e si sente sempre meno
capace.
Il primo colloquio termina con una prima rifigurazione di senso del racconto di Marta (Mimesis III) e questa
viene fatta sulla base dei dati riportati dalla paziente, secondo i criteri ermeneutici-fenomenologici. La
rifigurazione non si riferisce a un’interpretazione del terapeuta, ma al processo con la quale il terapeuta
ripercorre la storia di vita con Marta e cerca di rifigurarla in base a significati più identitari. In questo ciò che
regola le domande nel corso dell’andamento del colloquio, è la comprensibilità del testo. Le patologie
storiche sono caratterizzate dalle discrepanze identitarie e queste emergono soprattutto dalle incoerenze del
racconto. La comprensibilità del racconto deriva dal fatto che sia il paziente che il terapeuta vivono nella rete
coerente di rimandi del mondo.
A pag. 160 c’è tutto il pippone del terapeuta che sottolinea a Marta come questa storia dell’incapacità derivi
più dal racconto di Luca che dal suo: “lei si racconta di essere un’incapace, lei capisce che la sua storia non
sta in piedi. Infatti per farla stare coerentemente in piedi è obbligata a prendersi in prestito, la storia di Luca,
quello che Luca pensa di lei. Questo crea caos: da una parte lei non ha studiato quello che avrebbe voluto
studiare, si è decisa a fare altro, ma non erano i suoi interessi, dov’era Marta in quel momento?”.
Alla fine del primo colloquio, dopo la rifigurazione, la situazione di Marta diventa:
SE: rottura con Luca, scelte universitarie e lavorative non identitarie, lungo periodo dove le esperienze non
sono riconfigurate secondo identità.
OA: impossibilità di trovare un uomo in grado di renderla felice perché quelli che a lei piacciono, tipo Luca,
non la considerano all’altezza. Impossibilità di stare bene, essere felici in assenza di una famiglia,
matrimonio, figli.
Proprio questa mancanza di orizzonti d’attesa rappresenta uno dei motivi sottostanti alla maggior parte dei
sintomi depressivi. Alla fine del primo colloquio il terapeuta dovrebbe essere in grado di rifigurare il testo
del paziente in un senso maggiormente identitario. Questa nuova apertura di senso impedisce che il racconto
del paziente rimanga come prima e facilita l’inizio della psicoterapia, perché “obbliga” il paziente e
configurarsi diversamente le future esperienze di vita che esperirà nella quotidianità.
7. Appunti neuroscientifici sullo spazio d’esperienza e l’orizzonte d’attesa
Il fatto che il testo del paziente acquisisce in senso in base allo spazio di esperienza e all’orizzonte di attesa,
ci riporta al tema della memoria episodica (passato) e memoria prospettica (futuro) con la quale intendiamo
qualsiasi proiezione del Sé nel futuro. In più se l’uomo è progettato (passato)- gettato (futuro), il ricordo di
Sé e la proiezione di Sé si co-determinano, sono in relazione.
Nel 1985:
• Ingvar nell’articolo Memory of the future, riassume il ruolo della corteccia prefrontale e aree
adiacenti nel pianificare in modo prospettico
• Tulving, sostiene che la memoria episodica si occupa sia di supportare le esperienze passate, che di
fare dei viaggi mentali (mental time travels- MTT) nel passato e futuro
Quindi la capacità di crearsi OA è in relazione alla memoria episodica e alla capacità prospettica. Di
conseguenza possiamo dire che il progettarsi nel futuro sia la controparte della memoria autobiografica e che
quindi la presupponga in un certo senso, di conseguenza i MTT non dovrebbero essere possibili prima dei
3.5 anni. Infatti studi sostengono che la capacità prospettica emerge dopo lo sviluppo di almeno un po’ di
narrativa personale.

Premessa psicoterapia cognitiva neuropsicologica (PCN)


Rappresenta una evoluzione dalla psicoterapia cognitiva, coniugando quelli che sono i contributi che
derivano da: le neuroscienze, la psicopatologia e la psicologia dello sviluppo. Con la tradizione cognitiva
continua a condividere i suoi presupposti di base:
- interdisciplinarietà: secondo il cognitivismo la mente è un oggetto di studio complesso che per essere
compreso, richiede contributi da diverse discipline. Di conseguenza, viene abbandonata l'idea positivista-
riduttivista, di una scienza unificata.
- verificabilità empirica: le proposte rispetto il funzionamento emotivo-comportamentale devono poter essere
verificate sperimentalmente. Questa verifica deve mantenersi coerenti di fronte la interdisciplinarietà, in
modo tale che le scienze che studiano "quasi" la stessa cosa, possano coerentemente riadattarsi
reciprocamente.
tuttavia, rispetto il cognitivismo standard e il cognitivismo costruttivista, si differenzia rispetto alcuni aspetti:
1) la tradizione cognitivista porta avanti una visione dell'uomo cartesiano-kantiana, non più sostenibile di
fronte i recenti contributi neuroscientifici che sostengono una natura incarnata, situata e storica dell'uomo.
Difatti, le neuroscienze tendono sempre di più a confrontarsi con gli approcci ermeneutico-fenomenologici,
in modo da integrare i risultati ottenuti dalle ricerche.
Dato questo cambiamento rispetto la natura dell'uomo e la sua ontologia, emerge la necessità di rivedere
(ripensare) alcuni presupposti teorici e metologici circa l'essere umano.
Inoltre, il modello di cura della psicopatologia dell'approccio psicoterapico cognitivo neuropsicologico,
deriva dalla mediazione fra le discipline che studiano l'uomo in terza persona, con il metodo della scienze
naturali, e le discipline che studiano l'essere umano in prima persona. Il fatto di dover studiare l'uomo in
prima persona, risulta da una necessità del clinico che si trova ogni volta di fronte a un paziente la cui
psicopatologia è comprensibile soltanto a partire dalla sua specifica storia di vita. studiare l'esperienza del
singolo uomo, rende inoltre comprensibile sia lo sviluppo normativo, sia quello psicopatologico, sia le
modalità terapeutiche.
Quindi, all'interno di una cornice ermeneutica-fenomenologica, avviene il dialogo fra la ricerca
neuroscientifica e la psicologia, e questo è possibile grazie alla neuro-psicologia. Ci troviamo di fronte
quindi a un dialogo non riduttivista e costruttivo tra le scienze naturali e le scienze umane, tuttavia questo
dialogo non sfocia in un dualismo cartesiano, poichè l'oggetto di studio è in natura Uno: il soggetto e i suoi
modi di essere. Possiamo evitare qualsiasi forma di dualismo utilizzando, in senso ermeneutico, un dualismo
semantico.
Di conseguenza, la neuropsicologia diventa il metodo che permette di tradurre in modo scientifico i diversi
linguaggi: quello utilizzato nell'area biologica, e quello psicologico/fenomenologico, senza ridurre il primo al
secondo e viceversa. Questa rappresenta una prospettiva ermeneutica che si declina in una duplice direzione:
1) livello teorico: permette il dialogo fra queste discipline che cercano di dire, ognuna con il suo linguaggio,
quasi la stessa cosa. Ossia, il fenomeno che in natura è uno, il "Chi?" e i suoi modi di essere
2) livello tecnico-applicativo: fornisce il metodo per una psicoterapia basata sull'ermeneutica e semiotica. La
psicopatologia viene considerata come parte della neuropsicopatologia, poiché questa può derivare sia dal
nostro essere corpo, sia dalle modalità con cui riconfiguriamo l'esperienza e il racconto.
Storia: cognitivismo razionalista standard e cognitivismo razionalista costruttivista
Primo cognitivismo razionalista standard
idea dell'uomo: deriva dalle filosofia cartesiano-kantiane e neo-kantiane e neopositiviste. Quindi viene inteso
come un uomo razionale e riflessivo, dove il mondo e gli oggetti vengono colti grazie alla mente. In un certo
senso quindi, è la mente che funge da traduttore e adegua il pensiero alla realtà. Il neopostivismo ha
influenzato il cognitivismo rispetto alla necessità di produre modelli mentali del funzionamento umano, che
possano essere formalizzati. I primi psicoterapeuti che hanno formalizzato questa disciplina, sono Albert
Ellis e Aaron Beck, considerati i padri fondatori del cognitivismo clinico. Quindi le teorie del primo
cognitivismo sono delle vere e proprie semplificazioni operative dei vari aspetti del comportamento umano.
Questo approccio è stato influenzato dalla prima cibernetica e dalle teorie HIP, Human information
processing, quindi l'idea per cui la mente umana sia paragonabile a una macchina. Di conseguenza la
psicopatologia è una alterazione della normale adeguazione della mente alla realtà: i depressi pensano,
erroneamente, secondo stili di pensiero depressivi e non coerenti con la realtà, oppure le anoressiche hanno
delle distorsioni percettivo-semantiche rispetto il loro reale peso/estetica corporeo/a. Il problema di questa
linea di pensiero è quello di non prendere in considerazione l'esperienza, come se questa fosse muta senza
una qualche rappresentazione mentale che sia in grado di coglierla. Infatti questa visione razionale-riflessiva
dell'uomo era già stata rifiutata dalla fenomenologia che aveva dimostrato:
1) come i modelli cognitivo-razionale dell'uomo non riuscissero ad abbracciare la complessità del
comportamento umano
2) e come l'esperienza e la cultura fosse primarie rispetto la singola riflessione cognitiva
Difatti il problema di base è quello kantiano, ossia la regressione ad infinitum: se l'esperienza è il contenuto
della riflessione di un Io, cosa mi permette di conoscere e giustificare l'Io?
Tuttavia il ruolo della rappresentazione, è stato superato dalla ricerca, che ha sottolineato come già a livello
fetale, siano presenti delle competenze relazionali preriflessive (Castiello). Inoltre il bambino, già dai primi
mesi di vita, è in grado di mostrare sentimenti di gelosia, imbarazzo e vergogna, contraddicento la visione
che le emozioni sociali presuppongano una rappresentazione riflessiva di Sé.
Cognitivismo razionalista costruttivista
visione dell'uomo: ogni essere umano fa esperienza attraverso vincoli sensoriali e da significato
all'esperienza attraverso un atto riflessivo. Quindi abbiamo una dialettica fra: l'Io che agisce e fa esperienza,
e il Me che da significato all'esperienza in corso, che creano il Sé. Quindi l'uomo è un sistema auto-
organizzato e questa organizzazione corrisponde al suo significato personale (O.S.P). Secondo Vittorio
Guidano, l'organizzazione di significato personale è un processo unitario, la cui coerenza interna va ricercata
nel modo di elaborare la conoscenza (ossia con flessibilità, generatività, livello di astrazione ecc). Questo
modello teorico rappresenta un progresso rispetto alla precedente psicologia cognitiva, ma continua ad avere
alcuni problemi, che possiamo riassumere con "non ci sono fatti, solo interpretazioni". Questo è l'assunto del
costruttivismo, che si traduce in un abbandonare il mondo della vita, come se questa fossa prima raccontata e
solo successivamente vissuta.

Cap. 9, I disturbi depressivi


Jasper nella Psicopatologia generale, dà una descrizione della melanconia che rimane ancora molto attuale:
"immotivata e profonda tristezza, inibizione di tutta l'attività psichica, tutte le pulsioni sono inibite, vi è una
completa inattività; ai malati non viene in mente più niente, si lamentano della propria insufficienza e
insensibilità, e del vuoto. Il passato è pieno di colpe, in presente offre solo disgrazie e l'avvenire appare
terrificante".
Jasper descrive alcuni aspetti della persona depressa: l'alterazione della esperienza, collegata alla percezione
di un mondo dove la possibilità d'azione è limitata, i sentimenti di tristezza e angoscia. L'idea che nessuna
azione possa cambiare la situazione, l'isolamento e il non-ruolo dell'altro. Quindi la fenomenologia
depressiva sembra caratterizzata dalla percezione che l'altro sia impotente, "inutile" rispetto al fine di poter
cambiare lo stato attuale delle cose. Tuttavia, vediamo che vi è una differenza fra il mantenere il proprio
senso di stabilità personale in modo inward/outward e la manifestazione esteriore del proprio malessere:
• inward, la propria stabilità personale viene mantenuta attraverso i propri stati corporei, e queste
persone sono quindi più inclini a manifestare la propria sofferenza e quindi a tramandare segnali di
sofferenza anche in vista di un aiuto esterno.
• outward, meno propensi a manifestare il proprio malessere esternamente, che potrebbe diminuire
anche il senso di accettabilità personale. Ne consegue una diminuzione/inibizione della possibilità di
chiedere aiuto.

Aspetti nosografico-descrittivi
I disturbi depressivi si distinguono dai disturbi Bipolari per l'assenza di episodi maniacali, ipomaniacali o
misti. Nel DSM-5 troviamo la seguente classificazione:
1. Disturbo depressivo Maggiore > uno o più episodi, per almeno due settimane umore depresso o
perdita di interesse, accompagnati da almeno altri cinque o più sintomi depressivi. Cinque o più dei
seguenti sintomi per due settimane, della quale almeno uno è o 1) umore depresso o 2) perdita di
interesse o piacere:
3) significativa perdita di perso o aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell'appetito
4) insonnia o ipersonnia
5) agitazione o rallentamento psicomotoria
6) faticabilità o mancanza di energia
7) sentimenti di autosvalutazione o colpa eccessivi o inappropriati di accusa o colpa per essersi
ammalato
8) ridotta capacità di pensare o di concentrarsi, o indecisione
9) pensieri ricorrenti di morte, ideazione suicidaria senza un piano, o tentativo di suicidio o ideazione di
un piano specifico (non vi è mai stato un episodio maniacale o ipomaniacale, non è attribuibile a
sostanze e non è meglio specificato da disturbo schizoaffettivo, schizofrenia etc)
2. Disturbo depressivo persistente (ex distimia) > è l'unione fra il disturbo depressivo maggiore cronico
e disturbo distimico del DSM4; quindi, almeno per due anni umore depresso, quasi tutti i giorni,
accompagnato da altri sintomi che non soddisfano la diagnosi per disturbo depressivo maggiore.
3. disturbo disforico premestruale
4. disturbo depressivo indotto da sostanze/farmaci
5. con altra specificazione/senza specificazione
6. dovuto a un'altra condizione medica

DSM, classificazione disturbi bipolari:


1. Disturbo Bipolare I > uno o più episodi maniacali o ipomaniacali, preceduti o seguiti da episodi
depressivi maggiori.
2. disturbo Bipolare II > uno o più episodi depressivi maggiori accompagnati da almeno un episodio
ipomaniacale.
3. Disturbo Ciclotimico > presenza, per almeno due anni, di numerosi periodi con sintomi ipomaniacali
che non soddisfano i criteri per l'episodio ipomaniacale e di numerosi episodi depressivi che non
soddisfano i criteri per l'episodio depressivo maggiore.
4. Disturbo bipolare e correlati indotti da sostanze/farmaci > alterazione dell'umore, con o senza umore
depresso, ritenute una conseguenza fisiologica di una droga, abuso di un farmaco o di un altro
trattamento.
5. disturbo bipolare e correlati dovuti a un'altra condizione medica > alterazione dell'umore e anomalo
aumento di energia, ritenute una conseguenza patofisiologica di una condizione medica
6. disturbo bipolare e correlati con altra specificazione/senza specificazione > inclusi per includere i
disturbi con manifestazioni bipolari che non soddisfano i criteri
Richiedono la presenza di episodi maniacali, misti o ipomaniacali, solitamente accompagnati da episodi
depressivi maggiori.

Ansia, rabbia e inazione


I sentimenti di tristezza e rabbia rappresentano le due modalità base del modo di essere emotivamente situati
delle persone depresse, il loro essere-nel-mondo. A queste si aggiungono anche altre tonalità emotive:
1. senso di inazione
2. umore irritabile, anche se poco preso in considerazione
3. ansia: in questo caso può sostituire la paura che ci accompagna quando aspettiamo un evento
negativo, oppure può essere una emozione che accompagna il depresso nel suo costante percepirsi
come soggetto che non raggiungerà l'obiettivo. Inoltre, la teoria dell'attaccamento e studi epigenetici,
ci sottolineano il legame fra esperienze infantili di rifiuto, separazione o lutto e l'emergenza di
disturbi depressivi nell'età adulta.
4. vergogna, che come sappiamo e sottolineato da Reddy, è una emozione che insorge abbastanza
precocemente nello sviluppo; tuttavia, in questo caso la citiamo con la sua componente sociale: si
unisce a un senso di inadeguatezza personale, legata agli aspetti narrativi e storici rispetto alla
propria immagine di Sé, come persona inadeguata

Ritornando alla tristezza e la rabbia, queste producono una specifica attivazione corporea, a causa della loro
peculiare intensità, che favorisce lo sviluppo di un senso di stabilità personale mantenuto sul versante
inward, quindi di tipo corporeo-viscerale. Questo modo di mantenere la stabilità del Sè produrrà dei modi di
raccontarsi, delle configurazioni narrative altrettanto coerenti, quindi caratterizzate da impotenza e
inadeguatezza. Quindi i modi di esser-ci saranno caratterizzati da una visceralità di tristezza e rabbia e
riconfigurati secondo temi di solitudine, inadeguatezza e impotenza, che andrà a strutturare una identità
personale basata sulla medesimezza.
Guardiamo l'inazione in base ai vari contributi teorici:
1) Secondo l'ipotesi di Power e Dalgleish, la tristezza depressiva va letta in base al suo significato
relazionale, ossia un utilizzare il proprio tormento per mantenere il legame con l'altro, per esempio Schneider
sottolinea come non sia raro vedere come la tristezza nel depresso scompaia quando nessuna la osserva, e
come questa ritorni non appena il medico si avvicina. Tuttavia, questa ipotesi di Power e Dalgleish sembra
essere falsificata dall'inazione, poiché l'isolamento e la solitudine che ne derivano, non permettono di usare
la tristezza come "segnalatore sociale".
2) un esempio di teoria delle emozioni è quella proposta da Arciero e Bondolfi, che sottolineano come le
emozioni abbiamo il ruolo del muovere "da dentro verso l'esterno" e che quindi portino l'uomo a ri-orientarsi
tramite la generazione di nuove possibilità d'azione. In questo senso la tristezza può essere letta come una
incapacità di cambiare la situazione in atto e la rabbia come un tentativo di modificare la propria situazione
attuale, di aprire nuove possibilità d'azione.
3) Seligman e collaboratori hanno fatto studi sull'"impotenza appresa", ossia studi storici che hanno mostrato
come si possa indurre nei cani questa condizione, ossia uno stato di totale inazione per evitare dolorose
scariche elettriche. Il concetto di "inazione appresa" è stato usato da Seligman per spiegare alcuni aspetti
della depressione.

Atteggiamenti depressivi outward


Perché ci sono casi di suicidi “improvvisi”? cosa porta certe persone depresse a non chiedere aiuto?

Alcuni soggetti polarizzati nel versante inward, caratterizzati da rimuginio depressivo e ripiegamento totale
su di sé, possono arrivare ad eliminare l’alterità. Sono casi in cui il soggetto è iper-focalizzato sui propri stati
dolorosi e angoscianti, dove il corrispettivo neurale conduce a una iperattivazione della pain-matrix. Di
conseguenza il mondo e gli altri, vengono percepiti come non modificabili e impotenti.
Invece i soggetti polarizzati sul versante outward, sembrano reagire in modi diversi.
Per molte persone ammettere apertamente il proprio stato depressivo, significa perdere il proprio status, la
propria dignità da essere umano: Schneider parla di “depressioni inautentiche” e queste si situano in un
panorama dove da una parte vi è una selezione delle persone che dichiarano al medico per un dispiacere, e
dall’altra il fatto che molti anni fa, le generazioni passate non avrebbero considerato questo stato come una
malattia. Di conseguenza il soggetto può decidere di “assumersi la responsabilità, il proprio destino”
nonostante presenti una vera e propria depressione clinica.
Parliamo di Beppe, un paziente che si presenta con uno stato di parziale derealizzazione. Quest’ultimo si
manifesta dopo un violento litigio con la moglie, dove Beppe, una volta terminato il litigio, si addormenta sul
divano e si sveglia alle 3 già in preda di questo stato. Nel corso dei colloqui emerge che Beppe, orientato dal
punto di vista emotivo sul versante outward, è andato progressivamente verso una vera e propria
disgregazione dell’identità personale. Essendo per l’appunto outward, questa disgregazione della propria
identità deriva dalla consapevolezza di non essere più “un punto di riferimento” per sua moglie, difatti lui è
cambiato agli occhi di lei. Negli ultimi mesi lei si è staccata emotivamente da lui e questo avvento è stato
solo parzialmente riconfigurato da Beppe, inoltre durante il famoso litigio, lei lo colpisce con uno schiaffo,
lui reagisce spingendola e facendola cadere a terra, finché freddamente, lei le dice che l’unico errore della
sua vita è stato sposarlo. Beppe rimane sul divano ad aspettare che la moglie ritorni per fare pace, come tutte
le volte, ma questo non accade. Quindi, gli aspetti depressivi di Beppe sono collegati a una delle perdite più
grandi che un uomo possa subire: la perdita dell’immagine di sé, questo porta:

 riduzione degli orizzonti di attesa


 diminuzione delle possibilità d’azione
 diminuzione del senso di stabilità personale
Beppe ha un senso di stabilità personale eterocentrato, e la perdita identitaria in questi soggetti può
manifestarsi con una sintomatologia depressiva che può essere nascosta agli altri, per paura di accentuare
ancora di più la disgregazione di Sé. Quindi, quando la propria stabilità dipende da un punto di riferimento
esterno, ogni manifestazione di malessere, psicopatologica, viene percepita dal soggetto come qualcosa che ti
rende ancora meno accettabile e quindi viene nascosta proprio a quelle persone più vicine e significative
dove il proprio Sé si “appoggia”, rimane stabile. Quindi i soggetti outward in questi casi possono nascondere
il proprio malessere proprio a quelle persone con la quale si co-percepiscono, quelle che tengono unito il
proprio Sé.
Sintomi depressivi e modi personologici
I sintomi depressivi possono manifestarsi anche in altre patologie che non riguardano la depressione vera e
propria. Rispetto a questo, i modi di emozionarsi nel continuum inward-outward possono spiegarci come
l’alterazione dell’identità personale creino il terreno fertile per una sintomatologia depressiva.
Soggetto inward > la stabilità personale è mantenuta tramite un focus sulla propria visceralità, in questi casi i
sintomi depressivi potrebbero derivare da un cambiamento, alterazione, della propria stabilità corporea
(enterocettiva) che verrà riconfigurata come fragilità e debolezza.
Soggetto outward > in questo caso la stabilità personale poggia su qualcosa di esterno, e quindi la
sintomatologia depressiva può derivare da un drastico cambiamento della situazione di riferimento. Per
esempio, questo spiega tutti i quei casi in cui la depressione insorge all’improvviso dopo che una persona
perdere il posto di lavoro. Se il punto di riferimento di questo soggetto è il proprio ruolo lavorativo, e il
conseguente status, un’improvvisa perdita produce un vuoto esistenziale, che dal punto di vista fenomenico
si manifesta come una depressione.

Il ricordo di Sé in prima e in terza persona


La ricerca empirica ha indagato sul come accediamo ai ricordi delle esperienze negative:

 accesso in prima persona, self-immersed


 accesso in terza persona, self-distanced
questo ci spiega alcune modalità che usano i pazienti depressi per configurare la propria esperienza. Ethan
Kross e collaboratori hanno studiato la memoria autobiografica dei soggetti: questi venivano scannerizzati
mentre ricordavano eventi negativi attraverso tre strategie che comportavano un progressivo distanziamento
emotivo nei modi di accedere al ricordo.
1) Feel strategy, è la strategia di ricordo più immersiva e in prima persona
2) Analyze strategy
3) Accept strategy, la strategia più distanziante e in terza persona
I risultati dimostrano una differente attivazione delle aree normalmente coinvolte nella memoria
autobiografica, queste sono:

 Corteccia prefrontale mediale


 Area subgenuale della corteccia anteriore del cingolo
 Lobulo linguale
Altre ricerche hanno mostrato come le persone depresse, che tendono al rimuginio, presentino una
attivazione maggiore delle aree coinvolte nella prospettiva in prima persona, self-immersed. Nello specifico,
l’area subgenuale della corteccia anteriore del cingolo sembra coinvolta nella depressione maggiore.
A rigor di logica, accedere ai propri ricordi attraverso una modalità distanziante, in terza persona, dovrebbe
comportare a una diminuzione dell’impatto emotivo, sia esso positivo o negativo, legato al ricordo. Di
conseguenza, per ridurre la sintomatologia depressiva, non basterebbe insegnare questo tipo di modalità ai
pazienti? Quindi l’incitare un utilizzo di una strategia anestetizzante in terza persona nei confronti di quei
ricordi/esperienze critiche non riconfigurate o riconfigurate in modo solo parzialmente identitario? Nel corso
del capitolo spiegheremo l’inutilità di un tipo di strategia psicoterapica di questo genere.
Stimolazioni cerebrali profonde
La Deep Brain Stimulation (DBS) ci dà un ulteriore conferma del ruolo delle aree vista prima, rispetto la
sintomatologia depressiva, soprattutto dell’area subgenuale della corteccia anteriore del cingolo (sgACC).
Nei pazienti con Parkinson, la DBS risulta efficace nel diminuire la iperattivazione patologica di alcuni
circuiti cerebrali. Di conseguenza alcuni studi hanno utilizzato lo stesso paradigma per provare a diminuire
l’iperattivazione patologica dell’area del cingolo subgenuale in pazienti depressi che non rispondono ad altre
forme di trattamento. Dopo 6 mesi di distanza dall’impianto dei microelettrodi, hanno usato la PET per
valutare l’attività del flusso ematico cerebrale, rilevando delle modificazioni dell’attività ematica e quindi i
pazienti sembravano aver risposto positivamente alla terapia.
Nell’ottica neuroscientifica appare ormai evidente il ruolo di alcune aree nella sintomatologia che vediamo
dal punto di vista fenomenico. Inoltre, parte dei farmaci antidepressivi presentano alcune molecole che
agiscono anche su queste aree cerebrali, come la paroxetina che modifica i livelli di attività di aree come: il
tronco encefalico, l’insula e la corteccia cingolata subgenuale.
Aspetti sensoriali e aspetti affettivi del dolore
La ricerca neuroscientifica ha chiarito i correlati anatomici della fenomenologia del dolore: è emersa una
pain matrix legata non solo al dolore fisico, ma anche alle sue componenti affettive, come il dolore sociale e
psicologico più in generale. Fra le aree che costituiscono la pain matrix, troviamo la corteccia cingolata
anteriore, soprattutto la sua parte dorsale che sembra coinvolta sia nel dolore fisico che psicologico. In più
troviamo:

 Corteccia prefrontale ventrale destra > legata all’autoregolazione dell’esperienza dolorosa


Inoltre, il fatto che sia il dolore fisico che affettivo, condividano parte delle reti neurali, sembra collegato al
fatto che per sopravvivere i mammiferi necessitino sia di una protezione fisica che sociale, questo risulta
particolarmente importante in una specie come la nostra dove lo stato di dipendenza dai caregivers è
abbastanza lungo e di conseguenza gli altri rappresentano per molto tempo l’unica possibilità per la
sopravvivenza fisica. Quindi la sofferenza funge da richiamo sociale per fare in modo di attuare una
modificazione della situazione attuale, in questo senso l’isolamento e l’inazione rappresentano
l’impossibilità di attuare qualsiasi tipo di modificazione.
Conclusione
Per comprendere meglio che cosa intendiamo con la traduzione dei vari linguaggi specialistici, che dicono
quasi la stessa cosa rispetto a un fenomeno che in natura è uno, prendiamo come esempio il rapporto che
sussiste fra i modi della cura psicoterapeutica e l’approccio clinico concentrato sul sintomo.
Abbiamo visto che i modi, le strategie, che usiamo per accedere al ricordo autobiografico, possono
magnificare o narcotizzare l’esperienza dolorosa legata a quel ricordo di vita. E abbiamo visto come le
evidenze neuroscientifiche ci dimostrano come la strategia in terza persona sia un modo per narcotizzare
parte delle emozioni spiacevoli legate al ricordo. Infatti, alcune aree viste prima, come la sgACC si attivano
sia durante il ricordo di eventi di vita negativi, e sono sia coinvolte nella sintomatologia depressiva, tanto che
alcune molecole dei farmaci per la depressione vanno ad agire proprio in quell’area. Tuttavia, è un errore
poter adottare una logica terapeutica basata sull’addestrare il paziente ad utilizzare una strategia in terza
persona per accedere ai ricordi critici, anche al solo fine di ridurre i sintomi. Infatti, questi dati
neuroscientifici, se inseriti in una cornice ermeneutico-fenomenologica che prende in esame una depressione
storica, finirebbero per aumentare la non configurazione identitaria delle esperienze, che finirebbe per
aumentare l’alterazione dell’identità personale. Questo metodo convalidato dai risultati neuroscientifici,
potrebbe essere utile nel caso di un disturbo post traumatico da stress, ma nel caso di depressione
risulterebbe dannoso, procurando magari dei vantaggi a breve termine rispetto i sintomi, ma degli svantaggi
rispetto la possibilità di una “guarigione” più complessa e consistente.

Cap. 10, I disturbi fobici


Non potremmo parlare di quest’area della psicopatologia se non ci fosse una carne, che per sua natura è
trascendente, ossia sempre presso le cose, fuori di Sé nel mondo. Difatti la maggior parte dei disturbi fobici
deriva da una alterazione del senso di stabilità personale che dipende a sua volta da uno sbilanciamento dei
normali livelli di arousals emozionali-enterocettivi. Ovviamente la caratteristica personale che crea un
terreno fertile per l’emergenza e il mantenimento di un disturbo fobico è la propensione a mantenere la
propria stabilità personale sul versante inward. Di conseguenza, qualsiasi alterazione dei livelli di arousal,
anche se conseguisse ad una emozione positiva, potrebbe innescare ansia, paura e angoscia.
Appunti fenomenologici
Durante la quotidianità, quando siamo presi dalle varie faccende, il nostro corpo non viene quasi avvertito, la
consapevolezza che abbiamo di questo in questi momenti, è quasi preriflessiva (Lorenzi). Il passaggio fra il
corpo che sono al corpo che ho, avviene nello sviluppo attraverso un’acquisizione progressiva di
autocoscienza riflessiva. Possiamo accorgerci del corpo, in modo più consapevole, in due casi:
1) Durante la malattia fisica: durante la malattia avviene un passaggio dall’indifferenza per il corpo che
siamo, al focus enterocettivo. Questo avviene anche nei soggetti outward, che tendenzialmente
vivono una specie di anestesia corporea, ma che nel corso della malattia, si ritrovano costretti a ri-
posizionarsi sul corpo che diventa la prima alterità dell’ipseità (Ricoeur).
2) Quando il corpo diventa motivo di attenzione per gli altri
Nei casi di disturbi fobici, vediamo che è già presente una iper-focalizzazione pregressa sugli stati corporei, e
che quindi riduce l’alterità, siano esse persone, situazioni o ideali, all’ipseità (che quindi fa in modo che ogni
mio momento di esperienza coincida e quasi si riduca, all’esperienza enterocettiva). Quindi il mondo che si
appalesa, si manifesta, ogni volta durante l’esperienza è sempre un mondo coerente con lo specifico stato
corporeo (enterocettivo) presente in quel momento (quindi l’esperienza del mondo è sempre legata a come
sentiamo il nostro corpo in quello specifico momento di esperienza). Un esempio di questo tipo di esperienza
ci arriva da Roberto, un paziente che soffre di agorafobia senza anamnesi di disturbo di panico, che ci
descrive una situazione sociale, ossia una festa a casa di conoscenti.
Roberto descrive la sua serata passata a casa di amici, attraverso le lenti di “cosa accade al suo stomaco” e
tutti i comportamenti e sentimenti ad esso connessi: quindi le varie strategie per non alterare la situazione
precaria della sua pancia, ossia evitare di prendere freddo, mangiare per evitare di andare in bagno o bere
bibite gassate, e le varie ansie collegate a come avrebbe gestito e come poteva provare a passare inosservato,
nel caso gli venisse una scarica e dovesse occupare il bagno.
Quindi Roberto è iper-focalizzato sui propri stati corporei e di conseguenza le sue possibilità d’azione
vengono riconfigurate in modo coerente: la possibilità di andare in bagno, possibilmente senza essere visti.
La paura di Roberto si articola in base al classico rimuginio fobico on-line: da una parte l’attenzione per tutto
ciò che può favorire la diarrea (freddo, bevande e cibi) e dall’altra la paura di subire una scarica che lui
equipara quasi al subire l’umiliazione di essere visto dagli altri in una condizione simile, come lui definisce
“lo sfigato che quasi se la fa addosso”.
Studi dimostrano la correlazione significativa che sussiste fra la sensibilità circa i propri stati viscerali e
l’intensità dell’esperienza emotiva. Infatti, le persone che sono particolarmente sensibili e attente al proprio
battito cardiaco, che risulta uno degli indici più importanti per l’abilità enterocettiva, sono molto più attente
ai cambiamenti che derivano dalla propria attivazione emotiva, rispetto ai poor heartbeat detectors. La
relazione fra intensità emotiva e la capacità di monitorare i propri cambiamenti corporei, è congruente con le
ipotesi di Damasio e James circa il legame visceralità-emozioni; infatti, Damasio sostiene l’impossibilità di
percepire sentimenti se manca la capacità di riconoscere e sentire i cambiamenti del proprio stato corporeo.
Infine, anche gli studi fatti con persone ansiose, anche patologiche, confermano questi dati: chi vive
costantemente ansia e paura, e di conseguenza una costante attivazione corporea implicata in questi, sviluppa
una capacità più sofisticata di sentire i propri stati enterocettivi.

Appunti nosografico-descrittivi sui disturbi d’ansia


Nel DSM 5 i disturbi d’ansia vengono presentati in base alla loro comparsa evolutiva secondo l’età tipica
d’esordio:
1) Disturbo d’ansia da separazione
2) Mutismo selettivo
3) Fobia specifica
4) Disturbo d’ansia sociale (fobia sociale)
5) Disturbo da panico
6) Agorafobia
7) Disturbo d’ansia generalizzata
8) Disturbo d’ansia indotto da sostanze/farmaci
9) Disturbo d’ansia dovuto ad altra condizione medica
10) Disturbo d’ansia con altra specificazione/senza specificazione
Agorafobia e i suoi criteri diagnostici:
A. Paura o ansia mancate relative a due o più delle seguenti 5 situazioni
1. Utilizzo trasporti pubblici
2. Trovarsi in spazi aperti
3. Trovarsi in spazi chiusi
4. Stare in fila oppure tra la folla
5. Essere fuori casa da soli
B. Il soggetto teme o evita certe situazioni per paura che potrebbe essere difficile fuggire o che potrebbe
non essere possibile un soccorso nell’eventualità di un attacco di panico o altri sintomi invalidanti o
imbarazzanti
C. La situazione agorofobica procura quasi sempre paura o ansia
D. Le situazioni agorofobiche vengono attivamente evitate, o richiedono un accompagnatore, o vengono
sopportate con paura e ansia intense
E. La paura o ansia sono sproporzionate rispetto al reale pericolo della situazione o del contesto
F. La paura, o ansia o evitamento sono persistenti e durano sei mesi o più
G. L’ansia, la paura o l’evitamento causano disagio clinicamente significativo o compromissione del
funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti
H. Se è presente una condizione medica, paura, ansia o evitamento sono chiaramente eccessivi
I. La paura o l’ansia o l’evitamento non sono meglio spiegati dai sintomi di un altro disturbo mentale
L’agorafobia viene diagnosticata indipendentemente dal disturbo da panico, se ci sono i sintomi anche per
quest’ultimo, vengono fatte entrambe le diagnosi.
Infine, ricordiamo che nel DSM 4 il DOC era inserito fra i disturbi d’ansia.
Appunti neuroscientifici sulla paura
Damasio ha sottolineato come parte dei circuiti cerebrali coinvolti nella regolazione enterocettiva, siano
presenti anche per la generazione delle emozioni. Nello specifico Damasio ha fatto una distinzione fra:

 Emozione:
 Sentimento: è la consapevolezza dell’emozione, come abbiamo detto, siamo sempre “emotivamente
situati”, ma è solo la consapevolezza di avere un’emozione che ci fa provare un sentimento.
In questo senso le aree somatosensitive del cervello sono importanti, in particolare l’insula e le regioni
somatosensoriali che ci avvertono, on line, lo stato del nostro corpo e di conseguenza ci segnalano quei
possibili cambiamenti corporei che generano l’emozione. Da questo punto avviene un contributo corticale
che ci permette la consapevolezza del cambiamento e quindi il sentimento. Quindi provare un sentimento e
avvertire i cambiamenti corporei, sono due processi che vanno di pari passo (anche perché senza la
consapevolezza di questo non si proverebbe il sentimento).
Nei disturbi fobici, la relazione fra sentimento e consapevolezza enterocettiva è interrotta: difatti in questi
soggetti il focus è per lo più sul corpo e la consapevolezza enterocettiva dell’emozione viene separata
dall’emozione stessa che continua ad alimentarsi creando uno stato di allerta.
Joseph LeDoux è stato fra i primi a indagare il processamento della paura, dimostrando che vi è una
differenza fra risposta alla paura e valutazione della paura. L’amigdala può essere stimolata dagli organi di
senso (vista, tatto ecc.) direttamente dall’amigdala, e produce una risposta all’azione che ri-posiziona la
persona rispetto la situazione che sta vivendo. Questo ri-posizionamento può avvenire in due modi, in base a
se lo stimolo è stato processato secondo la via alta o la via bassa:

 Via alta (high road) > gli stimoli sensoriali passano per la prima stazione, ossia il talamo, per poi
essere trasmessi alla corteccia sensoriale (nel caso di stimolo visivo, viene trasmessa a V1 nella corteccia
occipitale) che a sua volta trasmette l’informazione all’amigdala che prepara la risposta all’azione. In questo
caso il ri-posizionamento avviene in modo cosciente ossia attraverso una valutazione di ciò che sta
accadendo nel contesto. Questa risposta viene processata in 300 millisecondi (perché passa pure per la via
del cosa e del dove).
 Via bassa (low road) > gli stimoli sensoriali passano per il talamo che a sua volta invia il segnale
direttamente all’amigdala che prepara all’azione finalizzata ad esprimere l’emozione. In questo caso il ri-
posizionamento avviene in modo implicito, senza consapevolezza cosciente della situazione; quindi, avviene
una risposta alla paura. Questa risposta è più rapida, impiega 150 o 200 millisecondi, poiché non vi è un
contributo corticale che richiede più tempo.
Nonostante il ruolo dell’amigdala sia centrale per la paura, alcuni studi hanno evidenziato che questa non si
attiva di fronte ad una esposizione ripetuta a stimoli fobogenici, questo implica che ci sono altre aree
coinvolte nel processamento di questo stimolo. L’amigdala sembra però fondamentale per generare una
attivazione psicofisica immediata, che prepara il corpo all’azione nel caso di potenziali pericoli (low road).
Inoltre, questa struttura sembra sensibile al fattore esperienza e questo potrebbe contribuire a preparare la
persona all’insorgenza di disturbi ansiosi.
Un altro aspetto importante riguarda il fatto che l’amigdala sembra attiva fin dalla nascita; tuttavia, non sono
altrettanto attive le strutture che inibiscono l’attivazione dell’amigdala, ossia quelle cortico-ippocampali. Di
conseguenza in neonato potrebbe provare paura o ansia intense senza poter modulare l’emozione. Rispetto a
questo il caregiver assume un ruolo fondamentale rispetto a due soluzioni:
1) Calmare il bambino dopo che la paura o l’ansia è già emersa, e questo favorisce l’interiorizzazione
delle strategie regolatorie
2) Prevenire le situazioni paurose-angoscianti che potrebbero far emergere queste emozioni nel
bambino, la prevenzione in questo caso diminuisce la possibilità che il bambino sviluppi una
ipersensibilità neurale agli stimoli paurosi che potrebbe derivare da una esposizione ripetuta alla
paura. Difatti, disfunzioni dell’amigdala sono correlate ai disturbi d’ansia.
I pazienti che soffrono d’ansia, rispetto ai soggetti di controllo, possono presentare una iper-attivazione
dell’amigdala di fronte ad espressioni di rabbia e disprezzo, che in termini comportamentali può tradursi in
una iper-vigilanza interpersonale e sopravvalutazione del pericolo. Fortunatamente l’amigdala e i circuiti
neurali a essa correlati, sembrano essere molto plastici, di conseguenza interventi psicoterapici e/o
farmacologici volti a diminuire l’intensità e la frequenza rispetto la paura, sembrano tradursi anche in una
diminuzione dell’attivazione dell’amigdala.

Pensieri irrazionali e panico


Secondo il cognitivismo (secondo Clark), l’attacco di panico o uno stato agorafobico, derivano da una
misinterpratation of body sensations, ossia il soggetto in una determinata situazione interpreta i propri
cambiamenti corporei come qualcosa di catastrofico (infarto o morte imminente) e questo genera la paura,
angoscia o un attacco di panico. Tuttavia, secondo Arciero e Bondolfi, questa ipotesi cognitivista non spiega
le motivazioni che portano la persona a utilizzare questa chiave di lettura.
Siccome l’esperienza non coincide mai del tutto con la spiegazione dell’esperienza, per comprendere la
natura di questo disturbo, bisogna indagare i modi di fare esperienza della persona. Rispetto alle varie
esperienze, la fenomenologia dei disturbi fobici ci dice che può emergere anche la paura della paura, ossia
quelle situazioni in cui la persona prova paura di fronte al suo stesso stato acuto d’ansia. In questi casi
l’alterazione della stabilità enterocettiva (correlato all’alterazione della stabilità personale) può far emergere
un attacco di panico inaspettato (ossia quelli che emergono senza che vi sia un elemento scatenante,
l’opposto degli attacchi di panico situazionali o attesi, dove c’è un elemento elicitante).
Vi è una sensibilità all’ansia e delle differenze individuali rispetto a questa diversa sensibilità; infatti, se
l’ansia derivasse da una sorta di condizionamento o da delle credenze erronee, sarebbe difficile spiegare la
presenza simultanea, nella stessa persona, di più fobie specifiche. Appare più sensato ipotizzare una
maggiore o minore sensibilità all’ansia dove le spiegazioni sono solo dei modi per riconfigurare una
esperienza che di per sé è spaventante. Quindi i pensieri catastrofici di Clark dovrebbero essere inquadrati in
un’ottica che prende in considerazione anche l’esperienza del soggetto. Secondo la nostra ipotesi, i soggetti
più inclini a sviluppare un attacco di panico, potrebbero mantenere la propria stabilità personale in senso
inward, di conseguenza una alterazione significativa dello stato normale del corpo, può generare una
sensazione di pericolo che può a sua volta trasformarsi in uno stato d’ansia. In questi soggetti, l’alterità viene
ricondotta all’ipseità (nel senso che il corpo diventano le lenti con cui si fa esperienza, credo) e quindi il
contesto (mondo) viene percepito in modo coerente con l’esperienza angosciante che sta accadendo. In
questo senso la valutazione del contesto potrebbe essere un modo per modularlo, controllarlo tramite
l’anticipazione dei possibili cambiamenti. Tuttavia, se l’alterazione corporea ha raggiunto alti livelli
d’intensità, la valutazione della situazione non riesce più a modulare tale intensità e quindi si crea un circolo
vizioso che potrebbe far aumentare il livello d’ansia che potrebbe a sua volta tradursi in un attacco di panico.
Una lettura esplicativa del processo ansioso
Per prima cosa, dobbiamo delineare quali sono le diverse esperienze che possono derivare da un’attivazione
intensa del proprio stato corporeo. Questo lo possiamo vedere attraverso le diverse attivazioni cerebrali
collegate alla paura, che hanno i soggetti inward e outward di fronte allo stesso stimolo pauroso, che
comporteranno a loro volta diversi modi di sentire la paura. Lo studio di Bertolino e collaboratori ci dimostra
i differenti modi dell’emozionarsi:

 Inward: maggiore attivazione dell’amigdala, dell’ippocampo e della corteccia prefrontale mesiale.


Una modalità molto più calda e viscerale che coinvolge maggiormente le aree sottocorticali.
 Outward: maggiore attivazione del giro fusiforme, della corteccia occipitale associativa e della
corteccia prefrontale dorsolaterale. Maggiore coinvolgimento delle aree coinvolte nell’integrazione emotiva
e cognitiva, e le aree che elaborano i volti.
Queste diverse attivazioni dell’emozionarsi determinano a loro volta dei modi diversi di reagire
all’alterazione corporea. Vediamo i differenti percorsi, uno patologico e uno no, che si declinano
successivamente a una alterazione della normale intensità corporea.
Non patologico > i normali segnali del corpo ad un tratto (probabilmente dopo uno stimolo elicitante) escono
dal normale range di attivazione, la persona reagisce ri-posizionandosi (azione) creando una modificazione
del contesto e facendo in modo che l’intensità corporea ritorni dentro i normali range. Quindi il pericolo che
aveva provocato l’alterazione del corpo, quindi ansia, viene controllata attraverso un’azione. Quindi guido,
improvvisamente passa un animale, attivazione fisiologica, ansia, ri-posizionamento situazionale (azione del
frenare), ritorno al normale stato del corpo.
Patologico > sto facendo uno sforzo, questo aumenta il mio battito cardiaco, sensazione di pericolo e quindi
ansia, il cambiamento corporeo viene riconfigurato come un sintomo, i modi di ri-posizionare il proprio
essere emotivamente situato può attivare pensieri catastrofici, es. infarto.
Le persone di fronte a una situazione pericolosa possono avere una attivazione della corteccia ventromediale
prefrontale. Questa sembra coinvolta nel fare previsioni su quali comportamenti adottare per fronteggiare la
situazione negativa. Quindi sembra che le persone di fronte a una situazione che induce spavento, facciano
una serie valutazioni e previsioni dei possibili scenari che possono derivare dalla situazione. Una persona che
riconfigura la situazione ansiosa come un possibile infarto farà delle previsioni degli scenari futuri altrettanto
coerenti. Questo ri-posizionamento aumenta l’attenzione verso il proprio corpo, aumentandone l’intensità,
quindi anche l’ansia e creando un circolo vizioso che potrebbe sfociare in un attacco di panico.
Agorafobia e fobia sociale
L’agorafobia rispetto a quello che abbiamo detto fino ad ora, può derivare da:
1) Evitamento sistematico per l’ansia rispetto a un giudizio sociale. In questo caso abbiamo una forma
agorofobica vicino alla fobia sociale, che potrebbe derivare da ripetute esperienze negative causate
dal rapporto con gli altri.
2) Paura di non riuscire a controllare una situazione utilizzando delle adeguate strategie di fuga. In
questo caso la paura deriva dalla impossibilità di ri-posizionare il proprio modo di essere
emotivamente situati nei casi di ansia, quindi l’impossibilità di soccorso o fuga verso un luogo
protetto. Questo è il caso di Roberto che quando va in pizzeria con gli amici si siede sempre a
capotavola, così da poter essere facilitato nel caso dovesse fuggire in bagno.
Invece rispetto la fobia sociale, riportiamo una distinzione proposta da Hofmann fra:

 Fobia sociale da paura: in questo caso la paura dei fobici riguarda il giudizio sociale per le loro
attivazioni fisiologiche particolari, tipo arrossimento o aumento del battito, come quella esposta da Roberto
durante la festa a casa di conoscenti.
 Fobia sociale ansiosa: i fobici sociali ansiosi sembrano meno legati alla dimensione corporea, e la
paura del giudizio riguarda più performance cognitive o comportamentali.
Ci sono casi dove abbiamo una duplice e contemporaneo focus, sia sul corpo e sul contesto e quindi un
soggetto che usa contemporaneamente uno stile emotivo inward e outward.
Conclusioni
Abbiamo visto che nella maggior parte dei disturbi d’ansia, l’alterità coincide quasi con l’ipseità. Difatti le
persone che emozionano con modalità inward, e che quindi sviluppano una personalità auto-diretta, possono
essere più predisposte a sviluppare questo tipo di sintomatologia. In questi casi l’emozionarsi è
particolarmente intrecciato alla consapevolezza enterocettiva. La patologia, e quindi l’alterazione
dell’identità personale, può in questi casi derivare dal fatto che l’emozione che prova il soggetto è distaccata
dalla situazione e di conseguenza avviene una magnificazione dei corrispondenti cambiamenti del corpo.
Tuttavia, abbiamo visto che anche le persone che si emozionano con modalità outward possono sviluppare
disturbi ansiosi. In questi casi però, l’alterazione del normale stato fisiologico deriva da una valutazione
dell’alterità (contesto, persone, situazioni) e quindi è meno propensa a cadere in duraturi disturbi d’ansia.

Cap. 11, I disturbi da sintomi somatici, dissociativi e l’ipocondria-isteria


La scelta di trattare insieme questa parte della psicopatologia deriva sia dal fatto che anche il DSM 5
inserisce l’ipocondria e i disturbi di conversione nel quadro dei Disturbi da Sintomi Somatici, sia dalla
proposta del post-razionalismo rispetto lo stile di personalità tendente a ipocondria-isteria. La scelta di unire
queste diverse psicopatologie può essere evitata per la paura di non sottolineare abbastanza le differenze, ma
se proviamo a comprendere la natura dell’ipocondria e isteria a partire dall’esperienza, vedremo che il
problema non si pone. Lo stile di personalità tendente all’ipocondria e isteria utilizza contemporaneamente
sia il corpo (inward) che un punto esterno (outward) per mantenere il proprio senso di stabilità personale.
Appunti fenomenologici
L’alterazione dell’identità sottostante o a un disturbo isterico o a un disturbo ipocondriaco, può derivare da
uno sbilanciamento fra i due modi di emozionarsi, quindi attraverso la percezione del proprio corpo e tramite
la percezione dell’alterità. Infatti, la stabilità personale poggia dall’equilibrio fra:

 Magnificazione dell’enterocezione
 Co-percezione di Sé a partire dall’alterità
In questo senso un giudizio negativo da parte di una persona significativa può innescare un intenso
sentimento di paura, come un intenso sentimento di paura visibile dall’esterno, può causare un aumento della
paura di ricevere un giudizio sociale negativo. L’equilibrio fra le polarità inward e outward, può orientarsi
più su un versante o più su un altro.
Ipocondria > la combinazione delle due polarità è più orientata sul versante inward
Isteria > più orientata sul versante outward
In entrambi i casi, l’alterazione dell’identità deriva da un focus eccessivo sugli aspetti sensoriali corporei
dell’emozione, fino al non riconoscere l’emozionarsi come una specifica modalità del soggetto di esser-ci, e
con la conseguente percezione che i segnali del corpo derivano da una causa esterna. (manca un pezzettino
pag. 193)
Isteria

 È una manifestazione sintomatologica che ha bisogno quasi sempre di qualche forma di alterità
(persone, contesti, situazioni significative). Se il suo mix inward-outward è più spostato sul versante
outward, sarà allora il contesto a pesare di più nel condizionare il modo del paziente di fare esperienza.
 Bisogna capire il “come” del sintomo (paralisi, anestesia ecc.) e il suo “perché”: all’interno di
un’ottica fenomenologica, il fatto che i sintomi siano così eclatanti e visibili, dipende da una parte dalla
maggiore intensità del paziente nell’emozionarsi, e dall’altra parte dalla necessità del soggetto di avere
un’alterità per sentirsi emotivamente situati. Infatti, questi pazienti alternano momenti in cui presentano
svariate psicopatologie, a periodi dove vi è una totale remissione dei sintomi. Essendo spostata sul versante
outward, sarà il contesto a decidere dei sintomi (se presenti o ristabilire un periodo di normalità) in base alla
situazione del momento e il tipo di livello di stabilità personale che può offrire al paziente. Ergo, il bisogno
di essere al centro dell’attenzione determina l’intensità e la manifestazione dei sintomi, in base al contesto il
sintomo può essere magnificato o narcotizzato.
 Essere al centro dell’attenzione è l’unico modo per sentirsi emotivamente situati. Questo bisogno
può far luce anche su altre psicopatologie come: l’anoressia secondaria, fobia sociale ansiosa e alcune forme
di ipersessualità
L’isteria non è più una diagnosi a se stante, ma possiamo ritrovare alcune manifestazioni isteriche in alcune
psicopatologie presenti nel DSM 5:
1) Disturbo da Sintomi somatici: uno o più sintomi somatici procurano alterazioni della vita quotidiana.
Vi sono inoltre pensieri, sentimenti o comportamenti eccessivi legati a sintomi somatici. Quindi:
pensieri sproporzionati circa la gravita; o livello alto di ansia costante per la salute o i sintomi; o
energia e tempo dedicati in modo eccessivo a questi.
2) Disturbo di conversione: uno o più sintomi che alterano le funzioni motorie volontarie o sensoriali,
dove però i sintomi non sono compatibili con condizioni neurologiche o mediche conosciute.
3) Disturbo da Ansia di Malattia: preoccupazione che dura da almeno 6 mesi, di avere o contrarre una
grave malattia. I sintomi somatici non sono presenti e se lo sono, sono di lieve intensità.
4) Disturbo fittizio provocato a Sé: la caratteristica importante è quella di procurarsi intenzionalmente
segni o sintomi fisici o psichici, o l’autoinduzione di un infortunio o malattia. Quindi il soggetto si
presenta agli altri come malato o ferito.
5) Disturbo fittizio provocato ad Altri: ossia vi è una falsificazione di segni o sintomi fisici/psicologici,
o l’induzione di un infortunio o di una malattia a un altro individuo, associato ad un inganno certo.
L’individuo presenta la vittima (l’altra persona) agli altri come malata o ferita dove il
comportamento ingannevole è palese.
6) Disturbi dissociativi: sconnessione e/o discontinuità delle funzioni della coscienza, memoria,
identità, emotività e percezione del corpo, controllo motorio e comportamento, solitamente integrate.
Fra i disturbi dissociativi distinguiamo:
a. Amnesia dissociativa: incapacità di ricordare importanti notizie personali, traumatica o
stressogena, e che risulta troppo estesa per essere una normale dimenticanza.
b. Disturbo dissociativo dell’identità: presenza di due o più distinte identità che assumono
spesso il controllo del comportamento del soggetto, e vi è inoltre una incapacità di ricordare
notizie personali. Il disturbo riguarda la frammentazione dell’identità piuttosto che la
proliferazione di personalità separate.
c. Disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione: presenza di persistenti o ricorrenti
esperienze di depersonalizzazione, derealizzazione o entrambe
Il caso di Maria
Riportiamo un caso di Isteria descritto da Primo Lorenzi nel “Il corpo vissuto”
Maria era una bambina molto fantasiosa, che dai 3 anni aveva sviluppato un amico immaginario, per il resto
era molto normale. All’età di 8 anni ha subito, più volte, le attenzioni sessuali di un anziano, amico di
famiglia, i cui genitori affidavano a volte la bambina. Maria ha tenuto la cosa nascosta per tempo, per poi
confidarsi, in parte, con la madre. Questo crea delle reazioni molto vive e diventa l’argomento principale in
casa, Maria rimane impressionata da come la cosa in breve tempo passò dall’essere poco rilevante all’avere il
massimo dell’attenzione. Dopo gli episodi di abuso, avvenuti fra gli 8 e 10 anni, Maria ha sviluppato una
forma di timore per ogni figura maschile adulta. Anche con la pubertà, l’atteggiamento evitante e fobico è
rimasto, nonostante le varie lusinghe amorose. A 17 anni si innamora di un compagno di classe, si fidanzano
e lei le concede anche dei modesti contatti fisici che però vive con molta angoscia. Riemergono anche i
ricordi degli abusi, arricchiti da varie fantasie che presero spunto da giornali, pubblicità, racconti delle
amiche, Maria ha trovato molta difficoltà nel sottoporre tutto a un esame di realtà. Il rapporto con il ragazzo
si fa difficile, a causa dei continui sbalzi d’umore di Maria, a volte lo cerca con passione, altre lo rifiuta in
modo rabbioso. In quel periodo emergono le prime manifestazioni cliniche importanti, che portano Maria
varie volte al pronto soccorso per poi farlo in modo stabile per un trattamento psichiatrico. Maria a 17 anni e
rientrando da scuola riferisce di aver subito aggressioni da 3 giovani, percosse, violenza sessuale. La ragazza
viene portata al pronto soccorso: ha bruciature, segni delle percosse, un piccolo distacco della retina per un
ugno che lamenta di aver ricevuto in pieno volto. Tuttavia, la ginecologa riferisce che l’imene è integro e non
vi sono segni. Alcune settimane dopo accade un nuovo episodio nel garage del condominio, dopo alcuni
giorni si verifica un altro episodio all’interno della casa di Maria, con aggressione in pieno giorno. Viene
sporta denuncia, ma nonostante le ricerche, non salta fuori niente. La storia con il ragazzo va in frantumi,
Maria ha tutto il corpo devastato e percosso, che inizialmente era al centro dell’attenzione, anche dei curiosi,
ma che adesso suscita quasi insofferenza. Anche i genitori, di fronte ai nuovi episodi, la portano al pronto
soccorso giusto per farla medicare, il suo corpo non sembra interessare più a nessuno. Maria è bella, robusta
e lievemente in sovrappeso, ma di quella formosità che risulta molto attraente. Allora inizia a dimagrire, non
mangia e vomita, e in poco tempo perde 20 kg, il suo corpo è di nuovo al centro dell’attenzione. Il suo corpo
viene notato, ma è protetto dalle avance che turbano Maria. A 19 anni ha concluso il suo primo anno di
trattamento, inizia una nuova storia di amore, dove sono presenti anche dei contatti fisici, ma senza
partecipazione affettiva, senza quelle fantasie erotiche che a volte invadono la sua mente prepotenti. Il suo
corpo è ritornato ad essere un fardello, ma il dimagrimento si interrompe e le crisi dissociative diventano rare
e non hanno più quelle manifestazioni somatiche così eclatanti finalizzate a suscitare qualcosa nell’ambiente.
Appunti neuroscientifici sull’Isteria
Nonostante le varie ricerche, non è ancora nota la natura dei disturbi emotivi e i corrispettivi neurofisiologici
dell’isteria. Quello che però ci dicono le ricerche, è che queste non sono il frutto di una simulazione: in uno
studio di John Stono, sono stati osservati i disturbi alla flessione alla caviglia lamentati dai pazienti isterici,
con un gruppo di controllo sano. Ai soggetti sani è stato chiesto di simulare il problema alla caviglia, ed
entrambi i gruppi sono stati scannerizzati con fMRI mentre muovevano la caviglia. I gruppi hanno mostrato
patterns neurali abbastanza diversi. Tuttavia, altre ricerche mostrano come i sintomi isterici non siano
spiegabili in base a qualche alterazione motoria o sensoriale.
Un altro studio ha monitorato 7 pazienti isterici con paralisi unilaterale di entrambi gli arti, o solo uno
superiore o inferiore. L’aspetto interessante dello studio riguarda il fatto che i pazienti sono stati monitorati
sia durante il decorso della patologia, sia dopo la guarigione. I risultati mostrano una diminuzione
dell’attività dei gangli della basa e del talamo controlaterali al deficit. Tuttavia, dopo la guarigione,
l’ipoattivazione di queste aree non c’era più.
Questi risultati fanno pensare che potrebbe esserci una alterazione della via neurale cortico-striata-talamica
coinvolta nelle azioni motorie volontarie. Sappiamo che i gangli della base (circuiti premotori) è dipendente
dalle informazioni del contesto e dalle esperienze. Anche il caudato, che riceve informazioni dall’amigdala e
corteccia orbito-frontale, memorizza la componente emotiva degli eventi e quindi elicita o sopprime
determinati comportamenti motori in base alla situazione emotiva.
Questi risultati ci suggeriscono come una conversione motoria isterica sia in grado di inibire l’intenzione e la
prontezza d’azione (es. paralisi) grazie a reti neurali per lo più collegate ad aspetti emotivi (tipo i gangli e il
caudato) e motivazionali. Secondo alcuni studiosi, i disturbi da conversione sarebbero un’evoluzione di
meccanismi psicobiologici primitivi che, al pari del freezing, hanno uno scopo adattivo. Come sostengono
Arciero e Bondolfi, la paralisi isterica sembra avere alla base un processo cosciente, e non inconscio, e
questo è supportato dal fatto che la somministrazione di sedativi alle persone isteriche, possono portare un
momentaneo ritorno della funzionalità motoria prima deficitaria. La ricerca scientifica sul disturbo isterico
sembra confermare:
1) Importanza del contesto per lo scopo di manifestare una sintomatologia
2) Il fatto che l’inibizione dell’azione ha una natura emotiva e motivazionale
3) Il fatto che la risposta isterica potrebbe avere una natura primitiva e adattiva neurofisiologica
4) Il fatto che i sintomi isterici e la simulazione di questi, non coincidano
Ipocondria

 L’ipocondriaco, a differenza dell’isterico, vive i propri segnali del corpo con una emotività che va
dal timore all’angoscia
 Il nucleo patologica della sua esperienza deriva dalla mancanza di equilibrio fra i suoi modi di
emozionarsi inward ed outward. Questo si traduce nelle convinzioni di avere una malattia.
 In questo caso il modo di emozionarsi congiunto è più spostato sul versante inward
Aspetti nosografico-descrittivi del quadro ipocondriaco, Disturbo da Ansia di Malattia
Vediamo i criteri del DSM 5 per diagnosticare il Disturbo da Ansia di Malattia:
1) Preoccupazione di avere o contrarre una malattia
2) I sintomi somatici non sono presenti, e se lo sono, appaiono di lieve intensità
3) Presenza di un elevato livello di ansia rispetto la salute
4) Il soggetto mette in atto eccessivi comportamenti correlati alla saluta o presenta un evitamento
disadattivo, tipo evitare visite mediche
5) La preoccupazione per la malattia è presente da almeno 6 mesi, ma la presunta patologia può
cambiare
6) La preoccupazione non è meglio spiegata da un’altra diagnosi
Riflessione fenomenologiche e il caso di Fausto
È importante comprendere il ruolo della cognizione-riflessione rispetto l’erronea interpretazione dei pazienti
circa i propri segnali corporei, che permane anche dopo svariate visite mediche. Fausto è un paziente di 27
anni che racconta la sua paura di avere un infarto e le diverse volte che si è recato al pronto soccorso per farsi
controllare. Tutte le volte i medici lo hanno rassicurato, ma questo non era sufficiente a placare la paura per
l’imminente infarto, di conseguenza Fausto continua ad andare dal medico e al pronto soccorso della città
vicino.
Perché Fausto non riesce a rassicurarsi? I medici lo rassicurano, e inoltre buona parte di questi pazienti
cambiano nel tempo l’oggetto dell’ipocondria. Quindi sembra che non sia un problema cognitivo che
riguarda il mantenimento e insorgenza dell’ipocondria.
Il problema sembra legato al fatto che l’esperienza del corpo è vissuta con esagerata intensità, e questa
intensità corporea è avvertita dalla persona come estranea poiché è slegata dai contesti che la generano. Le
persone non ipocondriache riconoscono la malattia perché avvertono un senso di estraneità nei confronti
delle sensazioni fisiche che stanno vivendo, nel senso che escono dal range delle normali sensazioni corporee
quotidiane. Quindi le sensazioni corporee devono apparire estranee al normale sentirsi, e solitamente questa
estraneità può essere collegata al contesto (dolore dopo una caduta) oppure rimanere de-contestualizzata
(dolore al petto senza apparenti motivi). Dopo un consulto medico e di fronte alle rassicurazioni, le
sensazioni diventano meno estranee, o perché ricollegate a una causa, oppure perché quelle sensazioni
vengono riconfigurate come una malattia. Che cos’è che non funziona nel caso dell’ipocondriaco? Secondo
Arciero e Bondolfi, questi pazienti mantengono il senso di stabilità personale attraverso l’enterocezione, ma
le sensazioni corporee vengono riconfigurate come malattia, quindi come qualcosa di estraneo (alterità).
Anche le persone sane percepiscono le sensazioni come estranee, ma la differenza con gli ipocondriaci
deriva dal fatto che le persone sane si sentono rassicurate dai medici, gli ipocondriaci no.

Che cosa cambia nell’esperienza enterocettiva negli individui sani ed ipocondriaci?


L’ipocondriaco mantiene per lo più la sua stabilità personale sul corpo; quindi, il sentirsi emotivamente
situati in una situazione corrisponde per lo più al provare quei cambiamenti del corpo provocati dalla
situazione emotiva. Nel corso del tempo quei cambiamenti somatici (correlati somatici) perché sono intensi e
perché sono riconfigurati in modo tale, diventeranno il punto di riferimento principale per mantenere stabile
il proprio Sé. L’ipocondriaco diventa quindi iperfocalizzato su quel pezzettino di cambiamenti corporei e di
conseguenza la sua attenzione per il contesto e il modo di sentirsi emotivamente situati in quel contesto,
diminuisce. Di conseguenza, qualunque cambiamento di vita che può creare una alterazione del corpo,
essendo l’alterazione del corpo slegato dal contesto che produce l’alterazione, verrà configurato dalla
persona come una malattia. Quindi da una parte l’ipocondriaco mantiene la sua stabilità attraverso il corpo,
dall’altra sconnette i segnali del corpo dalla situazione che li produce, di conseguenza il contesto e i modi di
essere emotivamente situati, vengono ridotti ai corrispettivi somatici. Qualunque situazione viene letta nei
soli termini viscerali, quindi ogni cambiamento dell’intensità corporea, essendo configurata in modo tale da
diventare astratta e de-contestulizzata, appare al soggetto come una malattia. L’incapacità di contestualizzare
se stessi, e quindi non riconoscendo il ruolo dell’alterità (contesto, persone ecc.) nel co-determinare il
proprio sentirsi emotivamente situati, favorisce la creazione di un frame corporeo di riferimento per
mantenere la propria stabilità. Nel corso del tempo questo frame corporeo diventa un modo per mantenersi
attraverso la percezione di Sé come una persona malata, dove il corpo malato diventa una condizione per
sentirsi emotivamente situati. Ogni evento di vita capace di generare emozioni intense sarà riconosciuto e
riconfigurato solo in base al corpo, e quindi l’attenzione sul corpo prende il posto della riconfigurazione
identitaria dell’esperienza in toto. La sensazione al posto dell’emozione, il corpo al posto del mondo.

Cap. 12, Il disturbo ossessivo-compulsivo


Ossessioni e compulsioni secondo il DSM
Il DSM 3, inseriva il DOC fra i disturbi d’ansia, ma siccome compulsioni e ossessioni sono presenti in
diverse patologie, storiche e non, si pensava che tale classificazione non rendesse conto della complessità del
disturbo. Tale complessità ha portato alcuni psicopatologi a proporre un continuum compulsivo vs impulsivo
che contiene un insieme di patologie che ha in comune l’aspetto di non riuscire a inibire e regolare il
comportamento. Nel DSM 5 il DOC è una categoria a sé, che comprende disturbi correlati come:
Tricotillomania, disturbo da accumulo, dismorfismo corporeo, disturbo da escoriazione ecc. Sempre secondo
il DSM 5, la caratteristica principale del DOC è quella di avere ossessioni, compulsioni, o entrambi, e queste
devono:

 Consumare tempo o
 Causare disagio significativo
 O compromettere il funzionamento nel lavoro, ambito sociale ecc.
Ossessioni: pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti vissuti dal soggetto con ansia o disagio; 2) il
soggetto prova a ignorare o sopprimere tali pensieri con altri pensieri o azioni (compulsioni).
Compulsioni: 1) comportamenti ripetitivi o azioni mentali che la persona si sente obbligata a mettere in atto
in risposta a un’ossessione o secondo regole che devono essere applicate; 2) questi hanno lo scopo di
prevenire o ridurre l’ansia o disagio, o eventi/situazioni temuti. I comportamenti sono eccessivi o non
realisticamente adatti a neutralizzare o a prevenire l’evento/disagio.
Alcuni psicopatologici lamentano la distinzione netta fra ossessioni e compulsioni, come se fossero
indipendenti, quando le ricerche ci dicono che nel 96% dei casi si presentano congiuntamente e dove il
restante 2.1% presentava solo ossessioni e l’1.7% solo compulsioni.
Abramowitz, Dean McKay e Steven Taylor hanno proposto come le ossessioni e compulsioni tendano a
manifestarsi secondo coerenza tematica, di conseguenza propongono alcuni sottotipi di DOC che elenchiamo
in base alla prevalenza:
Contaminazione e rituali di pulizia: la contaminazione può essere concreta o astratta, tipo la paura del
contatto con i germi e la conseguente paura di ammalarsi, oppure la sensazione di una sporcizia interna e la
paura di infettare gli altri. È evidente che nei due casi le emozioni saranno diverse: nel caso della
sintomatologia per la contaminazione concreta, ci sarà angoscia e paura, nel caso di sintomatologia astratta ci
sarà colpa e vergogna.
Disturbo e controllo compulsivo: parte delle teorie cognitiviste hanno spiegato il dubbio ossessivo come
qualcosa legato all’”esagerata responsabilità”, mentre altri modelli sostengono che un ruolo lo giochino le
componenti metacognitive, tipo la scarsa fiducia nei confronti della propria memoria.
Simmetria e ordine: questi possono essere presenti anche in piccoli e adolescenti DOC, oppure presentarsi in
soggetti sani, ma con uno stile di personalità di tipo ossessivo-compulsivo, in concomitanza con episodi
critici dell’esistenza. Inoltre, il bisogno personale di far “andare le cose nel modo giusto” trova un
corrispettivo nelle ricerche di Pierre Janet sul “sentimento di incompletezza”.
Ossessioni pure?: abbiamo detto che un 2.1% dei pazienti con DOC presenta solo ossessioni: è possibile che
queste siano accompagnate da delle compulsioni più silenziose, definite forme di neutralizzazione mentale.
Tuttavia, la presenza di ossessioni senza compulsioni darebbe un calcio ad alcune teorie cognitiviste che
sostengono che la genesi di entrambe deriva da un processo auto generativo.
Ossessioni autogene e ossessioni reattive: l’intrusione mentale può essere autogena o reattiva, dove le
ossessioni autogene creano ansia per il loro contenuto, tipo pensieri sessuali riprovevoli, invece le ossessioni
reattive hanno come oggetto un contenuto realistico, ad esempio la paura di aver investito qualcuno con
l’auto. È una differenza importante ai fini nosografici poiché le ossessioni autogene appaiono più frequenti
nelle patologie psicotiche.
Accumulo compulsivo: L’hoarding (accaparramento) compulsivo è stato inserito nel DSM 5 come Disturbo
da Accumulo, dove i criteri riguardano la difficoltà a gettare via o separarsi dai propri bene,
indipendentemente dal loro reale valore. Quindi vi è un disagio nel buttare via gli oggetti e questo produce
un accumulo che ingombra e invade gli spazi vitali, generando stress, non permettendo di usufruire né gli
oggetti né gli spazi.
Disturbo da Tic: le evidenze neuroscientifiche mostrano come DOC, disturbo da Tic e Sindrome di Tourette
siano correlati rispetto: la precoce età di insorgenza, una certa comunanza nella risposta alla terapia
farmacologica combinata fra SSRI e antipsicotici. Alcuni sostengono che il disturbo da Tic sia una forma
specifica di DOC.
Aspetti ermeneutico-fenomenologici del disturbo ossessivo-compulsivo

 Le persone che sviluppano DOC sono più tendenti a mantenere il senso di stabilità personale in
senso outward. Quindi sono persone che si emozionano e si co-percepiscono a partire dall’Alterità: il senso
di Sé si raggiunge anche dalla definizione dell’altro.
 Alterità in questo caso è un insieme di norme e valori impersonali e astratti (siano religiosi, morali o
scientifici ecc.), quindi la stabilità personale è mantenuta attraverso l’adesione a questo sistema di
riferimento. Di conseguenza le altre persone e i diversi contesti saranno mediati dal sistema di riferimento.
Una persona potrà apparire piacevole e degna di nota in base alle possibilità che offre al paziente di
mantenersi attraverso il suo impersonale sistema astratto di riferimento.
 Se ogni esperienza di Sé (e del Sé) viene ogni volta riconfigurata alla luce di un set di riferimento
impersonale, la frattura identitaria alla base dell’insorgenza del DOC, deriverà dalla mancata corrispondenza
fra l’esperienza e il set di riferimento. Per esempio, un sacerdote che ha plasmato la sua esistenza in modo
conforme ai suoi ideali cattolici, e si è sempre sentito a partire dal grado di corrispondenza fra le sue azioni e
gli ideali, potrebbe incappare in una alterazione identitaria ossessiva dopo un’improvvisa crisi di coscienza
rispetto la propria fede. Come riconfigurare in modo identitario la perdita della fede attraverso un sistema di
riferimento che si regge proprio a partire dalla presenza della fede?. Il senso di incompletezza e imperfezione
psicologica proposta da Pierre Janet deriva proprio da questa impossibilità di far coincidere le proprie azioni
con il sistema astratto con la quale l’ossessivo si co-percepisce.
Parliamo di Alberto, uno studente di fisica di 19 anni che in seguito a un piccolo incidente mentre passava in
una rotonda, inizia a sviluppare una sintomatologia ossessiva e compulsiva. Nel corso del colloquio emerge
però che questi tratti erano già presenti all’età di 7 quando per paura di imprecare contro l’insegnante,
ripeteva mentalmente tutta la formazione del Milan. L’incidente diventa per lui importante, perché
riguardando mentalmente le regole rispetto il corretto comportamento in auto, si rende conto che la massima
“se rispetto il codice stradale ho la certezza di non causare danni ad altre persone” non era così valida come
pensava. “l’esagerata responsabilità”, insieme all’indecisione e il perfezionismo di Alberto, rappresentano i
suoi modi di essere nel mondo e i modi con cui mantiene la stabilità del suo Sé, e quindi sentirsi
emotivamente situato. La frattura identitaria deriva quindi dalla mancata corrispondenza fra l’esperienza e il
sistema astratto che utilizza per riconfigurare l’esperienza. Proprio perché quel set di regole astratte e
impersonali non garantisce più una adeguata co-percezione di Sé, Alberto passa dall’essere scrupoloso
nell’aderire al codice stradale, all’essere ossessivo alla guida.
Appunti neuroscientifici sul disturbo ossessivo-compulsivo
Alcune teorie neuroscientifiche propongono un coinvolgimento dei circuiti neurali fronto-sottocorticali nella
sintomatologia DOC, per 3 motivi:
1) Presenza di sintomi ossessivi-compulsivi in alcune patologie dell’Ipseità, tipo Sindrome di Tourette,
morbo di Huntington ecc.
2) Presenza sintomi in alcune patologie non storiche, tipo disfunzioni dei gangli della base
3) Miglioramento dei sintomi dopo un intervento chirurgico su questi circuiti
Il modello cognitivista più accreditato che propone una spiegazione della sintomatologia è quello di David
Mataix-Cols e Odile Van de Heuvel. Gli autori sottolineano un coinvolgimento della via diretta e indiretta
cortico-striata-talamica nella produzione e mantenimento dei sintomi:

 Via diretta: disinibisce il talamo, con un conseguente aumento dell’eccitazione nella corteccia
prefrontale. A livello comportamentale abbiamo una prosecuzione dell’azione, data la sensazione positiva.
 Via indiretta: attraverso caudato e globo pallido abbiamo una inibizione del talamo che a sua volta
produce una diminuzione dell’eccitazione della corteccia prefrontale. Quindi la persona tenderà a inibire il
comportamento messo in atto, magari riposizionandosi e producendo nuove possibilità d’azione.
Quindi l’ipotesi suggerisce una alterazione tra il ruolo di feedback positivo della via diretta e il rinforzo
negativo della via indiretta. L’alterazione deriva dai livelli serotoninergici che causano una eccessiva
influenza dopaminergica sui circuiti fronto-striatali. Infatti, la serotonina ha effetti inibitori sulla dopamina e
forse questo giustifica la risposta positiva dei pazienti agli SSRI.
In uno studio fMRI , le persone DOC rispetto al controllo, presentano un aumento dell’attivazione del
sistema limbico e regioni fronto-striatali ventrali in compiti a valenza emotiva, e una minore responsività
delle regioni fronto-striatali dorsali nei compiti di tipo esecutivo.
Un’altra regione coinvolta è la corteccia cingolata anteriore, che possiamo dividere per funzioni in due parti:

 Parte dorsale > processamento compiti cognitivi


 Parte ventrale > compiti affettivo-relazionali
Dove nella sua componente dorsale, appare maggiormente attiva nei DOC rispetto ai controlli, e quindi
risulta coerente con i comportamenti di monitoraggio costante associati alla presenza di ansia (parte
ventrale).
Conclusioni

 La sintomatologia DOC deriva > da un’alterazione dell’identità personale che a sua volta deriva da
una mancata corrispondenza fra esperienza e il sistema di riferimento astratto e impersonale con la quale la
persona di co-percepisce (Bondolfi e Arciero).
 Alcuni tratti emotivo-comportamentali come: indecisione, insicurezza e scrupolosità, rappresentano
dei modi di essere nel mondo che possono essere associati a un tipo di riconfigurazione dell’esperienza che
avviene attraverso un sistema di significati; infatti, finché questi tratti mantengono un buon senso di stabilità
personale, non sono considerati una psicopatologia ossessiva-compulsiva.
 L’ipseità è il suo accadere di volta in volta, viene sempre significata tramite il sistema di riferimento,
di conseguenza il mondo sarà coerente con questi significati. Nello specifico, l’accesso alla rete coerente dei
rimandi è mediato dal sistema con la quale il soggetto si co-percepisce. Di conseguenza, ogni incoerenza fra
l’esperienza e il sistema, causa una perdita del senso di stabilità personale, che si traduce in una
disgregazione identitaria.
 Le ossessioni in questo caso sono l’outcome prodotto dalla mancata corrispondenza fra esperienza e
sistema astratto; quindi, le ossessioni spesso sono coerenti con quel sistema astratto.
 Le compulsioni sono il tentativo di riconnettere l’esperienza al sistema di riferimento, attraverso un
ri-posizionamento della situazione che accade. Di conseguenza vi è una corrispondenza anche fra il
contenuto delle ossessioni e l’azione compulsiva.
Cap. 13, I disturbi del comportamento alimentare
Secondo la nosografia descrittiva, abbiamo:

 anoressia nervosa: rifiuto della persona di mantenere il peso corporeo al di sopra del limite normale
 bulimia: episodi di abbuffate alternate da comportamenti compensatori finalizzati a controllare il
peso
 binge-eating: episodi di abbuffate, ma senza comportamenti compensatori
quindi abbiamo due macro-criteri diagnostici:
1) alterazione del rapporto con il cibo in base al duplice versante ingestivo (ipo o iperalimentazione) -
escretivo (vomito, uso lassativi ecc.)
2) variabile alterazione della percezione della propria immagine corporea
tuttavia, questi criteri non sono coerenti con le evidenze sperimentali che sottolineano come solo il 20% delle
pazienti anoressiche sovrastime il proprio peso corporeo. Inoltre, la autovalutazione di queste pazienti
sembra caratterizzata da un realismo percettivo, ossia sono accurate nel giudicare il proprio grado di
attrattività. Infine, si è visto che anche le behavioral addiction presentano modi di essere nel mondo che
condividono alcuni aspetti con i DCA.
Per comprendere l’insorgenza e il mantenimento dei DCA, dobbiamo indagare il nucleo patologico presente
nei modi esperienziali-corporei che utilizzano queste pazienti per mantenere il senso di stabilità personale,
così da poter dare una lettura fenomenologica anche delle behavioral addictions. Dobbiamo comprendere un
modo di essere nel mondo, la dialettica ipseità-alterità, che caratterizza queste persone sia prima della
comparsa dei sintomi e spesso, dopo la risoluzione di questi.
Anoressia nervosa
Il secolo scorso, due cause proposte per spiegare l’anoressia, hanno ricevuto particolare successo:
1) alterazione dell’immagine corporea
2) tentativo di aderire ai canoni di bellezza centrati sulla magrezza proposti dai mass media
rispetto alla prima causa, gli studi citati prima (20% e realismo percettivo) sembrano evidenziare come
l’alterazione della percezione corporea, non possa essere l’unica e la principale causa. Per quanto riguarda la
seconda proposto, questa viene scartata dalla storia della medicina, difatti nei secoli scorsi, vi erano patologie
anoressiche simili a quelle attuali, quando i canoni di bellezza e la loro diffusione, non erano nemmeno
pensabili. Per esempio, le sante ascetiche, erano donne che rifiutavano attivamente il cibo, secondo una
forma di ascetismo religioso. Anche l’approccio sistemico-relazionale, che pone come causa i conflitti
familiari, non riesce a spiegare l’anoressia, allo stesso modo la proposta di Guidano, di una dialettica Sé-
Altro caratterizzata dai processi antagonisti adesione-demarcazione. Guidano non tiene conto degli aspetti
preriflessivi, ponendo troppo l’accento al significato nella genesi e mantenimento della sintomatologia.
Può esserci una attribuzione di significato, perché l’esperienza è già previamente significativa di per sé e
questa deve essere riconfigurata identitariamente. Come spiegare l’esperienza della fame nei termini di
attribuzione del significato? Qual è il significato dell’essere affamate che condividono le anoressiche
moderne e le ascetiche religiose?
Assumendo un’ottica fenomenologica, il nucleo esperienziale di queste pazienti è caratterizzato dalla
sensazione di essere affamati. Secondo Arciero e Bondolfi, l’esistenza precedente all’anoressia, va ricercato
nel modo di mantenere il senso di stabilità personale di queste pazienti. Il modo di emozionarsi di queste
pazienti è sul versante outward, dove l’alterità è il primo sistema di riferimento che permette di sentirsi
emotivamente situati. Dove:

 eccessiva centratura sull’alterità procura una con-fusione


 eccessiva demarcazione causa un senso di vuoto, dovuto a sua volta da una non familiarità rispetto
l’esperienza viscerale
 in questa dialettica ipseità-alterità, il corpo è centrale
quindi, normalmente l’alterità rappresenta l’unico modo familiare per mantenere la stabilità personale, e il
corpo diventa uno strumento per controllare e anticipare una buona co-percezione di Sé. Due modi normativi
di controllare e co-percepirsi a partire dall’alterità, sono:
1) adesione a un modello estetico che comporta un posizionamento di sé condizionato dai canoni
estetici che favoriscono la co-percezione di un’immagine positiva e adeguata di Sé
2) adesione a canoni astratti e impersonali di accettazione sociale (essere educate, brave a scuola e negli
sport ecc.) in modo perfezionista che caratterizza le pazienti anoressiche e che rappresenta una
frequente modalità di co-percezione di Sé nel periodo precedente alla sintomatologia
questi due modi normativi di co-percepirsi possono “cadere” a causa di eventi esistenziali che creano una
alterazione della stabilità personale, per esempio può derivare da una disconferma da parte di una figura
affettivamente significativa, che impedisce alla ragazza di continuare a co-percepirsi tramite l’alterità. Di
conseguenza la ragazza sarà costretta a cercare nuovi punti di riferimento per continuare a co-percepirsi, se
questi punti non fossero disponibili, rimarrebbe un unico luogo certo di co-percezione: il corpo. Quindi,
essendo il corpo l’unico punto riferimento rimasto, la configurazione dell’enterocezione dovrà essere
attivante, così da poter garantire il sentirsi. Tuttavia, essendo la focalizzazione sul corpo una modalità non
storica di sentirsi, provocherà un senso di vuoto e nullificazione.

 La paziente anoressica attua uno spostamento, iniziando a co-percepirsi non più sull’alterità, ma
sull’ipseità attraverso la fame che da una parte permette di sentirsi, dall’altra provoca un ritiro verso
di Sé, a discapito dell’altro.
 Questo modo di fare esperienza, ossia il mantenersi affamata, genera nella paziente una sensazione
di orgoglio, capacità e senso di forza di volontà. Quindi mantenersi affamata permette di essere
sempre centrati sul corpo e questa esperienza sarà riconfigurata come la manifestazione di una
capacità positiva, ossia il fatto di essere potenti, quando tutto il mondo e le altre persone appaiono
deboli. Come sottolinea una paziente anoressica, la sua collega sarà pure più esperta, ma è grassa e
non ha forza di volontà, non si sa controllare.
 Quindi per potersi continuare a sentire, bisogna attuare un controllo del peso, secondo parametri
oggettivi, così da confermare quel senso di forza e potenza sulla quale poggia il mantenimento
identitario di Sé.
 Anche l’esercizio fisico è un modo che permette di sentirsi da una parte, e dall’altra di attuare un
controllo del peso.
 La sintomatologia anoressica può manifestarsi anche in alcune forma isteriche, detta sintomatologia
anoressica secondaria. Tuttavia, questa non deriva né da un bisogno di demarcarsi dall’altro, né dalla
necessità di sentirsi tramite il digiuno, piuttosto è un modo di utilizzare il corpo per mettersi al centro
dell’attenzione dell’altro.

Sentirsi attraverso il corpo


Le riflessioni dette prima ci permettono di analizzare altri comportamenti patologici che presuppongono uno
spostamento dall’alterità alla corporeità, ma dove il soggetto tende per lo più a co-percepirsi attraverso
l’altro.
Un esempio sono i comportamenti self-injury (automutilazione superficiale): se per sentirsi ci si serve
dell’enterocezione, ma se questa è sempre stata modulata a partire dall’alterità, per sentirsi serviranno livelli
di intensità variabili da individui a individuo, poiché questa non è una modalità familiare al soggetto nel
mantenere il suo senso di stabilità (nel senso che normalmente lo mantiene in altro modo, ma dato che deve
farlo attraverso il corpo, l’intensità dovrà essere più alta per sentirsi). Di conseguenza il senso di vuoto e
l’angoscia potranno essere affrontati attraverso un’intensità più alta dei segnali corporei, in questo senso, il
dolore fisico funziona bene per questo scopo. In questa direzione vanno anche tutte quelle prestazioni
sessuali estreme: una paziente che secondo il DSM può essere diagnosticata sia come anoressica che
borderline, racconta della necessità di attuare pratiche sessuali dolorose così da potersi sentire durante l’atto
sessuale e poter continuare a sentirsi nei giorni successivi attraverso i segni lasciati dall’attività fisica.
Ancora, un ragazzo di 23 anni, in seguito a una importante rottura affettiva, decide di tatuarsi la maggior
parte del corpo, con somma sorpresa di tutte le persone a lui vicine, dato che prima non aveva nessun
tatuaggio. Infine, Riccardo, di 19 anni, arriva in studio inviato dal medico per l’eccessiva attività sportiva e
dismorfofobia (rientra nei disturbi somatoformi, e riguarda una preoccupazione eccessiva per un difetto
fisico che può essere più o meno presente, ma in forma lieve rispetto alla preoccupazione causata): Riccardo
si allena per ore, 5 volte a settimana, da tre anni, ma nonostante la mole di massa muscolare, non si considera
mai abbastanza tonico.
Bulimia e Binge-eating

 L’unica possibilità di sentirsi avviene attraverso l’approvazione dell’altro


 a differenza della paziente anoressica, la bulimica vive il proprio corpo come il punto di riferimento
per il confronto con l’altro (quindi non ha bisogno della demarcazione dell’altro per raggiungere il
suo corpo)
 da una parte il corpo deve aderire al canone estetico per permettere una co-percezione positiva di Sé,
dall’altra il corpo (e non la persona nella sua interezza) è oggetto di giudizi negativi da parte di altri.
 Una persona che si fa corpo significa che deve essere in grado di provare una visceralità in grado di
sostituire una gamma di sentimenti molto più ambia che riesce ad offrire la persona nella sua
interezza. Di conseguenza l’abbuffata diventa un modo per sentirsi, staccando la spina con il mondo,
stessa cosa le condotte di compensazione, da una parte permettono di continuare ad aderire ai canoni
estetici, dall’altra sono un modo per attivare i propri stati viscerali.
 Dobbiamo distinguere due cicli bulimici di abbuffata ed eliminazione:
o Ciclo abbuffata-eliminazione ansiolitica: permette di diminuire l’attivazione emotiva causata
dall’esposizione sociale. Questo, come anche l’altro ciclo, può essere sostituito da altri
comportamenti che riescono a ri-posizionare il soggetto nel contesto di riferimento: tipo
l’abuso di alcol o psicofarmaci, tipo benzodiazepine, anche queste hanno lo scopo di
staccare la spina dopo una esposizione ripetuta al giudizio altrui (che per queste persone può
essere anche semplicemente una giornata lavorativa stressante).
o Ciclo abbuffata-eliminazione attivante: permette di rientrare in Sé e di riattivarsi dopo uno o
più esperienza emotive negative che hanno causato una dissociazione. Quindi il bisogno di
rientrare in Sé dopo un momento di distacco dissociativo dal mondo, nella maggior parte dei
casi dovuta da una mancata approvazione dell’altro che ha causato una disgregazione
identitaria, può essere raggiunto tramite sostanze attivanti come la cocaina o le anfetamine.
Una paziente di 28 anni, con una storia di bulimia presente da ormai qualche anno, lavora nell’azienda di
famiglia insieme al padre e riferisce come quest’ultimo sia “incontentabile, si può sempre fare meglio, non
gli basta mai” dove i suoi giudizi la portano a esperire stati quasi-dissociativi: “Arrivo a casa e non mi sento
più come se non ci fossi”. In queste occasioni, la paziente si dedica ad un ciclo abbuffata-vomito che dura
più di un’ora, che rappresenta l’unico modo per farla stare bene, a volte questo è sostituito dalla coca.
Il binge eating presenta due forme di abbuffata:
1) La abbuffata ansiolitica: con la quale si diminuisce l’intensità emotiva, causata da giudizi esterni, e
che permette di sentirsi attraverso la sazietà.
2) La abbuffata eccitante: ha lo scopo di riattivare il corpo dopo l’esperienza di stati quasi dissociativi,
che solitamente sono causati da una mancanza di validazione da parte dell’alterità. In questo caso la
paziente si ri-attiva permettendole di ritornare all’azione.
Mentre le anoressiche ritornano il Sé attraverso la fame, nel BED lo fanno attraverso la sazietà. Il fatto di non
mettere in atto pratiche compensatorie, senza a prolungare il senso di sazietà.
Il BED e la depressione sono correlati positivamente, ed alcuni di questi pazienti possono evitare il purging
proprio con il fine di aumentare di peso. A volte, la sazietà si associa a all’obesità con il fine di mantenere il
senso di stabilità personale. Se la persona ha una immagine di Sé come obesa, questa immagine diventa la
strategia permanente per evitare di mettersi in gioco in situazioni potenzialmente giudicanti.
Paolo, un paziente con BED single, riferisce di evitare di provarci con le ragazze data la sua obesità: un
approfondimento della situazione permette di capire che proprio grazie all’obesità, Paolo ha “la scusa” per
non mettersi mai in situazioni di possibile rifiuto, inoltre, ogni volta che emerge una disconferma, per
esempio al lavoro, Paolo ha sempre il capo espiatorio a cui attribuire il giudizio, piuttosto che rilegarlo alla
sua persona nella sua interezza.
Conclusioni
I pazienti con disordine alimentare, per sentirsi emotivamente situati e mantenere il senso di stabilità
personale, adottano una modalità che presuppone una particolare dialettica ipseità-alterità basata sulla carne.
- Le pazienti anoressiche, avendo il bisogno di distaccarsi dall’alterità, cercano di situarsi
emotivamente attraverso il corpo. Ma siccome sono persone tendenti ad emozionarsi in modo
outward, il corpo non rappresenta un punto di riferimento familiare, e quindi i segnali del corpo sono
poco familiari e di conseguenza riescono a sentirsi poco tramite questi. La fame rappresenta un
modo per aumentare l’enterocezione e quindi il mantenimento identitario.
- Nella bulimia il corpo è il mezzo con la quale regolare il co-percepirsi. Inoltre, i cicli abbuffate-
eliminazione possono fungere da ansiolitico, oppure essere un modo per ritornare a sentirsi dopo una
co-percezione di Sé negativa.
- Nel BED la sazietà è un modo per sentirsi, permettendo di mettere in stand-by l’alterità giudicate
(siano esse persone o performance lavorative ecc.).
Anche il gioco d’azzardo e altre behavioral addiction prevedono lo stesso processo: una contemporanea
demarcazione dell’altro e focalizzazione sul corpo. Coerentemente con questo, alcune forme post-moderne di
gioco d’azzardo, come le slot-machine o le scommesse online, sono diverse dal classico gioco d’azzardo, per
due motivi:
1) Queste forme post-moderne vengono praticate in solitudine, e quindi permette il ritiro dall’alterità
2) Le nuove dipendenze da gioco sono sensibili alla velocità del ciclo scommessa-risultato, che
produce un’attivazione duratura dei circuiti neurali premo-punizione, e quindi un aumento del
sentirsi corporeo

Cap. 14, Elementi di strategia psicoterapeutica


Possiamo fare la distinzione fra la ricerca sui:
- Risultati dei trattamenti psicologici, efficacia degli interventi > outcome research
- Processi sottostanti agli interventi psicologici > process research
Queste ricerche presentano varie problematiche:
- Non si può manualizzare del tutto un intervento psicoterapeutico
- È difficile capire come strutturare un gruppo di controllo
- Le variabili psicologiche sono valide solo alla luce delle teorie
- Le terapie empiricamente validate offrono indicazioni troppo rigide per i bisogni di uno specifico
individuo
Di fronte a questo, si presenta il problema che abbiamo ripreso più volte in questo libro, è possibile
conseguire una strategia terapeutica empiricamente valida senza ridurre e oggettivizzare l’oggetto (soggetto)
di studio della psicologia? Di fronte a questo ci troviamo due estremi inconciliabili:
- Chi ha deciso di rigettare qualsiasi verifica dell’agire terapeutico e dell’efficacia dei suoi interventi
- Chi pur di adottare il metodo delle scienze, ha eliminato l’uomo riducendolo a una serie di variabili
impersonali
In quest’ultimo gruppo troviamo i cognitivisti standard di tutte le generazioni, che hanno ridotto l’uomo in
variabili comportamentali osservabili e razional-computabili, da qui la categorizzazione delle varie
esperienze umane e la standardizzazione delle strategie d’intervento?
Ma siamo sicuri che le strategie terapeutiche empiricamente valide, rimangano così tanto valide anche di
fronte alla “vera” esistenza? Vi sono delle criticità:
- Siamo convinti di misurare i modi di essere umani e invece misuriamo variabili impersonali
- Vi è ancora una adeguata corrispondenza tra esperienza umana e le categorie che usa il ricercatore
per descrivere l’esperienza umana?
All’altro estremo abbiamo invece chi ha rinunciato alla valutazione oggettiva del processo psicoterapeutico e
il suo outcome. In questo modo si riduce la psicoterapia al dominio dei giochi relazionali, come se questa
fosse ancora una pratica sciamanica, dove l’unica cosa che conta è 1) il prestigio-potere del maestro, dove vi
è una chiusura rispetto il confronto critico e dove “i segreti della terapia” vengono 2) trasmessi in via diretta
da maestro ad allievo, come avveniva con le pratiche sciamaniche
Le strutture di senso
Quello che possiamo fare, è individuare quali sono le strategie che permettono il cambiamento terapeutico. Il
cambiamento terapeutico avviene nei modi di essere del paziente, nel senso che si sono aperti nuovi orizzonti
esistenziali dalla quale il paziente può iniziare un percorso di trasformazione di Sé, dove questo presuppone
un rimanere se stessi anche se in una forma modificata. Ma cosa cambia quindi il processo terapeutico? Le
strutture di senso della persona, dove queste sono:
- Delle macro-aree esistenziali e concettuali di natura emotivo-comportamentale
- Attraverso queste è possibile vedere gli effetti della terapia
- Una struttura di senso è un dominio (insieme) emotivo-comportamentale coinvolto nel determinare il
modo di essere della persona nella situazione di vita in corso, poiché l’essere umano è sempre situato
secondo una certa tonalità emotiva e comprensione
- O le strutture di senso gerarchizzate
- Le strutture di senso sono le declinazioni dei nostri modi di essere che caratterizzano il nostro
posizionarci nelle situazioni esistenziali. Di conseguenza è come ci appare una certa apertura di
mondo, sempre accompagna da una certa tonalità emotiva e comprensione. Ricordiamo che le
tonalità emotive e la comprensione della situazione si co-determinano. Infine, il pensiero poggia
sempre in una tonalità emotiva
- Essendo anche un dominio concettuale, può descrivere il comportamento umano e/o le aperture di
mondo. Tuttavia, non vanno confuse con i processi di pensiero razionali che propongono i
cognitivisti, tipo schemi cognitivi o organizzazioni di significato, perché le strutture di senso non
sono né cognizioni né indicatori oggettivi del comportamento. Non sono né nella nostra testa, né nel
mondo
Per capire cosa significa cambiare le strutture di senso in psicoterapia, facciamo l’esempio di due pazienti
che arrivano in studio per superare il dolore derivato da una rottura affettiva:
- Il primo paziente rifigura il tradimento nell’atmosfera di una ferita da disonore: le tonalità emotive
che accompagnano la comprensione della situazione saranno umiliazione e rabbia. Il paziente
esperirà un senso di dispersione di Sé, come se avesse perso valore e fosse stato annullato.
- Il secondo paziente rifigura la situazione nell’atmosfera di una ferita d’abbandono, le tonalità
emotive che accompagneranno la comprensione della situazione saranno il senso di esclusione e di
lutto

Definizione e obiettivi della psicoterapia


La psicoterapia è un’esperienza clinico relazionale, attiva e responsabilizzante, che ha l’obiettivo di
ripercuotersi nell’esistenza del paziente per orientarla verso una forma migliore > questa definizione ci
permette di distinguere la psicoterapia da altre forme relazionali, tipo:
- Relazioni non cliniche, es. colloquio con amici
- Interventi clinici simili, es. i colloqui psicologici di sostegno, riabilitazione neuropsicologica
- Pratiche cliniche non simili, es. terapia psico-farmacologica, neurofeedback, stimolazione magnetica
transcranica
Analizziamo la definizione:
- A differenza dei dialoghi con amici e counseling, la psicoterapia ha l’obiettivo di ri-posizionare il
paziente rispetto i suoi modi di essere disfunzionali/patologici
- Rispetto al counseling, la psicoterapia prevede una cura
- Vi è una asimmetria nel rapporto paziente-clinico, dove il clinico possiede delle competenze e
conoscenze cliniche che mette a disposizione del paziente al fine di una cura
- In secondo luogo, la psicoterapia è una relazione attiva e responsabilizzante: questi due attributi
sottolineano il contributo del paziente, che risulta attivo e si assume la responsabilità rispetto
l’intervento. Accade diversamente nella terapia farmacologica, dove il paziente non è tenuto a
responsabilizzarsi e quindi rimane passivo. Responsabilizzato per esempio nel seguire le indicazioni
terapeutiche e i compiti esperienziali
- Infine, l’obiettivo della psicoterapia è trasformare la vita del paziente, ri-posizionandone i modi di
essere disfunzionali. È una circolarità, perché la psicoterapia è un’esperienza di vita che deve
ripercuotersi nella vita stessa, non deve rimanere nell’ambito meta, ma deve tradursi in nuove prassi
di Sé, ossia in nuovi progetti esistenziali.
Heidegger riprende la distinzione fatta da Aristotele fra praxis e poiesis:
poiesis: nel senso di fare, trasformare le cose
praxis: un progettare se stessi, come un “avere da essere”
la psicoterapia permette di raggiungere la forma migliore, più adeguata e autentica dell’individuo, dove
migliore non significa solo assenza di sintomi, ma si intende una forma più comoda, maggiormente abitabile,
un’essenza umana che tende alla realizzazione di sé nel proprio “aver da essere” (nei propri progetti).
L’obiettivo di una psicoterapia è quindi la trasformazione di Sé, la modificazione dei modi di essere se stessi,
con un’attenzione rispetto quelli disfunzionali, nelle varie situazioni esistenziali.
I cambiamenti dei modi di essere e dei contesti esistenziali nel rapporto con la trasformazione di Sé
L’esser-ci equivale a qualsiasi modo di essere alla quale corrisponde una certa apertura di mondo: di
conseguenza, fra lo specifico modo di essere e la corrispettiva apertura di mondo, esiste una relazione di co-
determinazione, due facce della stessa medaglia.
La rete coerente di rimandi è ciò che permette sia il modo di essere che la sua apertura di mondo. Inoltre,
l’uomo può essere anche definito come un progetto-gettato, un “avere da essere” in base ai propri orizzonti
d’attesa, ma a partire da una situazione specifica con la sua geografia, storia e cultura. Quindi, qual è il
rapporto fra i modi di essere e i contesti esistenziali? Anche in questo caso abbiamo una co-determinazione,
per esempio la post-modernità inaugura il passaggio da una società disciplinare (dover fare) a una società
della prestazione (poter fare), questo cambiamento permette l’emergenza e l’eliminazione di alcuni modi di
essere, con le corrispettive aperture di mondo. Per esempio, il fenomeno del workaholism non avrebbe
potuto emergere né nella antica Grecia, né nell’Ottocento industrializzato.
Abbiamo due strade principali da seguire per poter favorire dei cambiamenti esistenziali:
1) Agire sulle strutture di senso/significato che muovo l’esserci nel suo essere situato
2) Agire sulle situazioni esistenziali che generano modi di essere della persona
Quindi, nel primo caso potremmo avere un paziente che attraverso l’apertura di nuovi orizzonti di senso,
riesce a modificare parte dei suoi modi di essere disfunzionali, nel secondo caso potremmo avere un paziente
che trae sollievo da un cambiamento del suo contesto, come un nuovo lavoro o un innamoramento,
nell’ultimo caso potremmo avere un paziente che trae beneficio dalla terapia farmacologica. Che differenza
c’è fra questi interventi? Che i primi due creano dei cambiamenti storici del Sé, infatti questo è
comprensibile per lo più in base alla storia di vita del paziente, mentre nell’ultimo caso il cambiamento è
spiegabile nei termini del funzionamento dell’organismo. Vi sono altre differenze fra questi tre interventi:
1) Il primo caso potrebbe aver permesso:
a. una rifigurazione della storia di vita, che, come conseguenza, permette anche che il paziente
si assuma la responsabilità della sua esistenza
b. Il terapeuta si è fatto co-autore rispetto al senso
c. La persona si è ri-posizionata, si è trasformata, ora rispetto a prima c’è un “avere da essere”
con nuovi progetti di sé.
d. Nuovi modi di essere permettono > nuovi contesti esistenziali
2) È cambiato il contesto esistenziali, quindi alcuni modi di essere sono stati in parte accantonati perché
meno sensati di fronte le novità che derivano dal contesto. Tuttavia, la persona non si è trasformata,
non ha modificato i modi di essere, sono stati solamente narcotizzati dato il nuovo contesto
esistenziale.
3) Non ha prodotto un ri-posizionamento-trasformazione di sé, perché la cura agisce sull’organismo e
non sulla persona.
Infine, un’altra situazione che permette un cambiamento dei contesti esistenziali e può influire sui modi di
essere disfunzionali, riguarda l’inserimento in una struttura di una persona con un grave disturbo di
personalità. Il nuovo contesto potrebbe favorire l’inizio di terapie psicologiche e/o farmacologiche, ma la
riduzione dei sintomi deriva dalla riduzione delle possibilità di azione data dalle regole e limitazioni della
struttura, e non da un cambiamento. Il progetto di Sé e gli orizzonti d’attesa, in questo caso è come se si
congelassero.

Strategie e strumenti psicoterapeutici alla luce delle strutture di senso


Cerchiamo ora di delineare un quadro ermeneutico dei cambiamenti che avvengono in terapia,
focalizzandoci sulla struttura di senso sottostante al ri-posizionamento di Sé. La trasformazione di Sé è
visibile nel senso che si aprono nuovi orizzonti di senso che a sua volta aprono nuove possibilità di essere.
Parlare di strutture di senso dal punto di vista ermeneutico, significa parlare della comprensione/spiegazione
del cambiamento che avviene in psicoterapia e questo può essere potenzialmente trans-teorico, nel senso che
può avvenire grazie a interventi con teorie molto diverse fra loro.

La psicoterapia cognitiva neuropsicologica utilizza delle strategie ermeneutiche per:


- Favorire nuovi orizzonti di senso
- Ogni strategia tende a modificare gli spazi d’esperienza e gli orizzonti di attesa attraverso la
rifigurazione esperienziale
- Si può rifigurare l’esperienza del paziente anche con tecniche e/o strumenti quali:
o Le variazioni immaginative dell’io: permettono di mettere in gioco nuovi ipotetici orizzonti
d’attesa tramite una serie di viaggi prospettici. Lo scopo è quello di rifigurare possibili
sviluppi di sé per valutare la loro abitabilità e autenticità. Le domande sono: “come
cambierebbe la sua quotidianità se” “cosa farà tra tre anni se dovesse decidere di fare quella
scelta lavorativa?” “Cosa succederebbe se lasciasse la sua famiglia?” attraverso delle
possibili variazioni dell’Io, il paziente fa emergere nuovi orizzonti di senso che potrebbe
avvertire come propri.
o Il diario quotidiano: serve al terapeuta e paziente per poter lavorare sulle rifigurazioni
dell’esperienza e quindi per farlo devono condividere gli accadimenti settimanali. Il paziente
deve scrivere nel diario, gli episodi che accadono nella giornata che sono emotivamente
significativi sia nel senso positivo che negativo, e deve indicare l’ora e il contesto in cui si è
generato, per es. “ore 18:30, litigio con il figlio, salotto di casa”. Lo scopo è quello di
contestualizzare gli episodi critici nelle situazioni in cui si sono generati. Questa
rifigurazione aiuta il paziente a comprendere meglio alcuni suoi modi di essere e impedisce
che il paziente vada alcuni accadimenti settimanali in una cornice che non appartiene a
nessuno.
o I compiti esperienziali: questi possono essere usati dentro molte cornici teoriche, ma fanno
parte della tradizione cognitivista. Si chiede al paziente di fare delle vere e proprie
esperienze alla luce delle rifigurazioni fatte in terapia. Rispetto al paziente con il problema
dei luoghi costrittivi, dopo la rifigurazione del tema “sentirsi costretto negli spazi chiusi” il
paziente deve rivivere di nuovo l’esperienza critica (ascensore) per capire il reale effetto
della contestualizzazione del tema, quindi il ciclo è: esperienza critica > rifigurazione
esperienziale > esperienza critica n+1. Quindi le esperienze critiche (testo) vengono
rifigurate nel colloquio integrando una nuova contestualizzazione del tema (contesto).
Questo apre nuovi orizzonti di senso (svela nuovi significati) che fa in modo che quando
l’esperienza critica riaccadrà, questa venga contestualizzata (e quindi aggiunto il nuovo
senso) in base sia al contesto situazionale (luogo chiuso) sia del contesto tematico rifigurato
in terapia (senso di chiusura di possibilità esistenziali). Quindi si crea una specie di circolo
che crea di volta in volta delle ricontestualizzazioni del tema e che quindi apre nuove cornici
di senso e potrebbe far sbiadire l’effetto della psicopatologia.
- Questi strumenti sono utili poiché, lo ricordiamo, l’uomo si appropria, fa sua, la propria esperienza
attraverso la narrativa: già dal primo colloquio, il paziente rende partecipe il terapeuta della sua
esperienza attraverso il racconto, questo illustra al clinico i modi di essere del paziente, i mondi che
gli si appalesano, le persone che abitano il suo mondo, appunto la sua esperienza ed è per questo che
la storia del paziente sarà sempre interessata. Il raccontare o scrivere una storia, fa in modo che la
storia si “liberi dell’autore e si offra a qualcuno che nel leggerla o ascoltarla si farà co-autore rispetto
al senso” (Ricoeur) e questa fase possiamo definirla rifigurazione del circolo mimetico, un atto che è
successivo rispetto la costruzione del racconto di Sé (la configurazione). Perché il racconto di Sé
quando viene mediato dalle strategie terapeutiche, può creare modificazioni di Sé?
o In primis, quando raccontiamo una storia la viviamo nuovamente, non in contesti astratti
teorici, ma nel contesto particolare della situazione terapeutica che, se adeguato, riesce a
incentivare le operazioni di rifigurazione della storia.
o Una storia rifigurata (raccontata, sezionata, analizzata e discussa) può far emergere nuove
possibilità d’azione e può eliminare vecchie possibilità d’azione. Vediamo un esempio
attraverso un paziente bancario di 39 anni che in poche settimane sviluppa una fobia
specifica per i luoghi costrittivi, in particolare gli ascensori. Durante il primo colloquio il
paziente racconta la prima volta che sono emersi questi sintomi e il clinico rifigura
(seziona?) parte della storia sottolineando come questo momento sia temporalmente vicino a
delle discussioni con la moglie circa la possibilità di un trasferimento da Roma a Milano per
motivi lavorativi. Inoltre, emerge che sintomi simili sono emersi anche a 19 anni quanto il
paziente doveva scegliere la sede della sua università. Quindi abbiamo, secondo un’analisi
ermeneutica:
 Testo: paura dei luoghi chiusi
 Contesto: ascensori, gallerie stradati ecc.
 Dopo la rifigurazione che permette di contestualizzare il testo dentro una cornice
storico-esistenziale più ampia
 Testo: paura dei luoghi chiusi
 Contesto: luoghi fisicamente costrittivi: ascensori, gallerie ecc. e temi esistenziali
potenzialmente costrittivi: legami familiari, lavoro, studio ecc.
o Quindi in questo caso la rifigurazione del terapeuta del testo che porta il paziente rispetto a
quando emergono i sintomi, viene contestualizzato integrando anche i contesti storici, quindi
passiamo dal contesto esclusivamente fisico, l’ascensore, al contesto rifigurato che crea
nuove aperture di senso e contestualizza il sintomo, quindi ascensore x situazioni esistenziali
costrittive. Questa integrazione/modificazione del testo di partenza, fa si che anche le
emozioni e i significati si modifichino e che il paziente di fronte alle successive esperienze
di un senso di costrizione, contestualizzi questa percezione sia riferendosi ai luoghi sia
riferendosi alle sue tematiche esistenziali (sentirsi impedito nelle scelte di vita).
o Nel corso dei colloqui, emerge che il tema della costrizione fa parte dei modi di essere nel
mondo del paziente, difatti salta fuori come sia la costrizione fisica che esistenziale, lo
accompagnino nel corso della vita da sempre, soprattutto rispetto alle scelte di vita, anche
quelle che possono aprire nuove positive prospettive e nuove possibilità d’azione.
Probabilmente il problema deriva dall’eliminazione dei progetti non scelti. La sensazione di
costrizione per i luoghi chiusi, non è stata mai tematizzata come un modo di essere nel
mondo del paziente, ma è sempre stata isolata alla situazione, lo specifico ascensore, tunnel
ecc.
- Alcune volte gli orizzonti d’attesa che sono legati allo spazio d’esperienza, vengono obliati: ossia gli
episodi di vita passati (spazio d’esperienza) vengono rifigurati senza tenere in considerazione gli
orizzonti d’attesa e le possibilità d’essere che erano presenti in quel passato. Per esempio, un
paziente può raccontarci la sua scelta universitaria in base alle differenti rifigurazioni che sono
avvenute negli anni:
o 19 anni: scelgo di studiare ingegneria elettronica perché da una parte mi offre più possibilità
lavorative e perché l’altra possibilità, ingegneria meccanica, mi obbligherebbe a trasferirmi a
Milano e non ho i soldi per farlo.
o 24 anni: ho scelto di laurearmi in ingegneria elettronica perché sapevo che mi avrebbe dato
subito un lavoro dopo la laurea.
o 35: ho un ottimo reddito e devo ringraziarmi per aver scelto una facoltà impegnativa, ma
prospettiva, proprio perché sapevo che poi sarei subito riuscito nel lavoro.
- L’orizzonte d’attesta “studiare ingegneria meccanica mi obbligherebbe a trasferirmi a Milano e non
ho i soldi per farlo” è stato nel tempo eliminato nelle successive rifigurazioni della narrazione
personale. Quindi a 19 anni due importanti orizzonti d’attesa, ma nel corso delle rifigurazioni, il
secondo orizzonte d’attesa scompare. Questo aspetto è importante da sottolineare perché ci spiega
come gli orizzonti d’attesa determinino i nostri modi di essere.
*l’esperienza non coincide mai con il racconto dell’esperienza, poiché quest’ultimo include sia lo spazio
d’esperienza (l’essere-stato), ma anche gli orizzonti di attesa (l’aver da essere). Quindi lo spazio d’esperienza
ha l’etichetta dell”accaduto” invece l’orizzonte d’attesa ha il carattere del non accaduto, del possibile non
realizzato.
Conclusioni
Abbiamo introdotto un concetto ermeneutico che potrebbe favorire la trasformazione di Sé: la struttura di
senso. Inoltre, aprire nuovi orizzonti di senso (integrare nuovi significati) è correlata positivamente con
nuove possibilità esistenziali (credo nuovi modi di essere?).
Infine, possiamo sottolineare come le trasformazioni di Sé siano indipendenti dai modelli teorici adottati.
Questo potrebbe aiutare la ricerca sull’outcome in psicoterapia, che già adesso ha individuato come variabili
che dal punto di vista della teoria adottata sono neutri, contribuiscano all’outcome della terapia, come:
personalità del terapeuta, la sua età, la durata della terapia.

Capitolo 15, Esemplificazione clinica: la psicoterapia di Marta


Obiettivi
La psicopatologia può derivare da una alterazione dell’identità personale che a sua volta può essere generata
da esperienze di vita che non sono state configurate identitariamente o che non sono state del tutto
riconfigurate. A volte basta un episodio di vita, altre volte anni passati a non riconfigurare identitariamente
che generano una frattura identitaria che solitamente coincide con il momento in cui emerge la
sintomatologia.
La psicoterapia ha lo scopo di trasformare la persona tramite una appropriazione-riappropriazione di senso
che modifica sia i modi di essere patologici con cui il paziente fa esperienza sia i modi di configurare
l’esperienza. Nelle patologie storiche il sintomo può derivare quando la storia non dice più niente
dell’esperienza o quando l’esperienza viene rifigurata in modo forzato. Per esempio, nel caso di un
ipocondriaco che fa una violenza interpretativa della propria visceralità per configurarla come una patologia
in atto. Oppure, una persona che si pone un ideale con la quale configurare ogni esperienza e arriva a un
momento in cui non riconosce più le esperienze che non possono essere tradotte tramite quell’ideale.
Marta: i primi cinque colloqui. La configurazione del testo tra lo spazio d’esperienza e gli orizzonti d’attesa
Importante è il concetto ci cooperazione interpretativa, che differisce da quello più conosciuto di alleanza
terapeutica. Quest’ultimo non è un indice di cambiamento, difatti può esserci una buona alleanza terapeutica
che rende piacevole l’ora passata insieme, la psicoterapia portata avanti per anni, ma che non assicura che il
paziente venga responsabilizzato circa la terapia.
Cooperazione terapeutica > termine preso in prestito dell’ermeneutica e semiologia che ha un significato più
tecnico e meno relazionale. Paziente e terapeuta devono avere lo stesso scopo che li porta a lavorare sulla
storia del paziente. Quindi entrambi devono evidenziare i modi di essere che si nascono dietro al testo che il
paziente porta in seduta, con il fine di riappropriarsi e rifigurare quelle esperienze che permettono il
cambiamento di Sé (trasformazione e ricomposizione identitaria).
A partire dal secondo colloquio, si scelgono i temi, gli argomenti che guidano l’agire terapeutico, la strategia
terapeutica deve favorire una progressiva riappropriazione delle esperienze di vita dove le configurazioni (o
le mancate configurazioni) hanno portato alla frattura identitaria. Rispetto a questo è utile partire dal contesto
con il quale il paziente si è presentato per chiedere aiuto. Siccome il testo che porta il paziente spesso
coincide con l’esordio della sintomatologia, il terapeuta può prendere il contesto che precede (a monte)
dell’esordio dei sintomi. Quindi il ciclo testo-contesto può essere arricchito di nuovi episodi con lo scopo di
riappropriarsi delle esperienze non riconfigurate. Il secondo colloquio di Marta si apre con una sintesi della
riconfigurazione di senso con la quale si era chiuso il primo colloquio, i temi trattati erano quelli della
capacità personale e desiderabilità sociale, che sono alla base della rottura identitaria di Marta. Dopodiché il
terapeuta spiega semplicemente i concetti sottostanti al lavoro che si svolgerà in psicoterapia:
appropriazione, configurazione dell’esperienza, strategie usate ecc.
Marta racconta della sua settimana e dell’ansia esperita, nello specifico i sintomi ansiosi emergono quando
Marta rimane con la madre e diminuiscono quando è da sola. Il terapeuta amplia il contesto, ed emerge che
in quasi tutti i momenti difficili, la madre non è mai riuscita a calmarla e rassicurarla. Inoltre, fin dalle prime
uscita, la madre aspettava che Marta rientrasse con la scusa di fare quattro chiacchiere, e quando lei era a
Londra, la chiamava anche 4/5 volte al giorno, a volte per sentire come stava a volte perché si “sentiva sola”.
Marta mentre racconta con un certo distacco emotivo, non sembra appropriarsi dell’aumento dell’ansia che
provava nei momenti passati con la madre. Il terapeuta nel corso della seconda seduta decide di affrontare il
topic del rapporto con la madre. Il ciclo testo-contesto di questo topic viene esteso fino ai primi anni di vita:
il rapporto che emerge sembra caratterizzato dal controllo e da un’ansia anticipatoria della madre nei
confronti di Marta.
- Frequente inversione di ruoli che Marta alimenta ancora
- Ansia della madre nascosta sotto le vesti di atteggiamenti premurosi e protettivi
- La non accettazione della madre di andare a Londra e delle scelte precedenti
- L’idea della madre che una donna non possa trarre soddisfazione dal lavoro e l’accettazione acritica
di Marta di questa idea
Affianco a questo topic emerge quello del padre, morto quando Marta aveva pochi mesi per un incidente
stradale. Vivendo in una piccola cittadina, Marta cresce circondata dai racconti sul padre, come un uomo
retto, un bravo avvocato e una persona legata alla famiglia, il tutto confermato ed enfatizzato dalla madre.
Inoltre, quest’ultima riferisce come avrebbe voluto una famiglia numerosa se il marito non fosse morte.
Nel corso dei primi 5 colloquio emerse alcune rifigurazioni dove Marta si riprende alcuni fatti storici e le
rifigura identitariamente:
- La madre presenta tratti ansiosi e depressivi che hanno svolto e hanno ancora un ruolo nella loro
relazione
- Nessuno l’ha mai incoraggiata nello studio
- La figura paterna è stata idealizzata e rappresenta un modello astratto di perfezione maschile
- La mancanza di amicizie solide deriva dai modi di essere nel mondo di Marta, dal suo modo di porsi
- Alcuni aspetti della sua sofferenza attuale sono comprensibili anche dal suo storico isolamento
sociale
Marta: dal 6° al 20° colloquio. La ricostruzione identitaria: l’appropriazione e la rifigurazione di senso ai
fini della trasformazione di Sé
Questa è la parte più corposa che solitamente coincide con i cambiamenti dei modi di essere del paziente e la
conseguente diminuzione della sintomatologia. Dopo i primi colloqui, Marte decide di interrompere gli
antidepressivi, questo è importante perché evidenzia una maggiore consapevolezza di essere, la protagonista
della sua storia. Marta comincia ad uscire di più, con alcune ragazze che ha conosciuto in biblioteca e dopo
avere rifigurato il tema dell’ansia della madre, si ri-posiziona rispetto ad essa. Marta parla di un litigio acceso
con la madre, uno dei pochi, dopo che rientrata a casa verso le due, perché la madre non ha potuto prendere
sonno a causa della sua uscita. Le due litigano e Marte le chiede quando finirà questa storia, dato che alla sua
età dovrebbe poter ritornare quando vuole, e la madre conclude dicendo che se vuole fare quello che le va,
può ritornare a vivere da sola o con qualcuno. Le volte dopo la madre non si fa più trovare sul divano, anche
se rimane a letto e spegne la luce solo una volta che Marta è ritornata.
Emerge in modo più strutturato, dal secondo mese di terapia, il topic rapporto con gli uomini, fino alla
chiarificazione di alcuni temi:
- Il rapporto di Marta con il proprio corpo, la sessualità e la femminilità
- L’ideale donna-moglie-madre e i modi di coniugare questo con i suoi incontri con gli uomini
- Le amicizie femminili e maschili
Marta si accorge che le sue nuove amiche, in tema di femminilità, sono più attente di lei nel vestirsi, queste
le consigliano un taglio che la rende più giovanile, più soggetta di attenzioni e la fanno sentire più carina. Il
tema della femminilità viene rifigurato storicamente, dove Marta si accorge di non aver mai condiviso con le
amiche i temi del momento riguardo i primi flirt, le opinioni sull’estetica ecc.
Attraverso la configurazione storica basata sul ciclo testo-contesto emerge come l’orizzonte d’attesa di donna
sposata e madre, sia presente già prima dei 17 anni e dell’incontro con Claudio, il terapeuta non insiste sulla
genesi di questo, ma responsabilizza la paziente rispetto ai suoi modi di essere reali e “ideali”. In altri
termini, il terapeuta chiede a Marta di riflettere sulla proprietà dell’ideale: emerge una visione “tutto o nulla”
circa gli uomini, che porta Marta a selezionare quelli che potrebbe realizzare il suo ideale. Inoltre, si rendono
sempre più evidenti le paure di Marta circa l’idea di incontrare un uomo, già in adolescenza aveva il timore
di una gravidanza indesiderata e nonostante questo tema, come quello della sessualità, non siano mai stati
esplicitati con la madre, Marta ricorda di vivere con ansia i racconti della sua serata con Claudio che faceva
alla madre dopo il suo ritorno. Quindi i ricordi di Marta sembrano sempre più riconfigurabili nei termini del
controllo e del timore, suo e della madre, rispetto i rapporti con gli uomini, dove le narrazioni condivise
riguardano la madre che si lamenta degli uomini sposati e con figli che le fanno le avance e Marta che
sottolinea il suo disappunto per le amiche troppo disponibili. Così l’ideale della brava ragazza e futura
moglie diventa un orizzonte d’attesa riconfigurato per lo più sui sentimenti della paura e della conformità
astratta circa un modello ideale di brava moglie, che diventa un’idea limite e non una proiezione di Sé che
nasce dal desiderio e che risulta potenzialmente modificabile in base all’esperienza (idea-direttrice). La
dialettica spazio d’esperienza e orizzonte di attesa si articola in base a un’idea limite, dove l’esperienza viene
riconfigurata in base ai limiti di questo progetto di Sé e dove le esperienze che non coincidono con queste
rimangono intraducibili e non vengono riconfigurate. Questo lo vediamo anche nei pazienti DOC che però
hanno una idea limite più rigida. L’idea limite è poco sensibile alla storia del paziente e costringe, adatta il
senso dell’esperienza al significato atemporale dell’idea in questione, diversa è un’idea-direttrice che può
essere modificata in base allo scorrere dell’esperienza, è più permeabile a questa e di conseguenza può
permettere modificazioni degli orizzonti d’attesa. Infine, Marta riferisce la bellezza delle uscite con le
amiche perché leggere e quindi emerge come l’evitamento sociale sia riconfigurato tramite il tema della
serietà.
Marta: dal 20° al 30° colloquio e la fine della terapia. Analisi dei cambiamenti dei modi di essere
emotivamente situati, la rifigurazione della storia di vita, l’analisi dei nuovi orizzonti di attesa.
Dopo 4 mesi di terapia i sintomi depressivi non sono più presenti, pur rimanendo alcuni sintomi d’ansia
sociale, il peso è tornato nella norma e Marta ha accettato un incarico part-time. Marta si è resa conto che
Luca e Claudio rappresentavano la possibilità di realizzare l’idea limite che aveva veicolato parte della sua
esistenza e la consapevolezza di questa idea facilita un ri-posizionamento della paziente nei confronti degli
uomini. Inoltre, Marta conosce Michele, un medico che lavora nello stesso centro di riabilitazione dove
lavora lei, e a differenza delle sue precedenti esperienze, Marta non si innamora subito, anzi vi è una fase
iniziale dove lo considerava come un amico. Un'altra novità riguarda una nuova sensibilità circa la sessualità,
Marta anche quando considera Michele un amico, non è indifferenze al suo aspetto, inoltre con la madre si è
limitata a dirle che frequenta qualcuno. Infine, Marta viene assunta full-time e decide di andare a vivere da
sola in affitto. Gli ultimi colloquio vengono dedicati alla rivistazione dell’intera storia di vita in base
all’attuale rifigurazione. Concludere in questo modo la terapia è un modo per verificare la qualità del
riconoscimento della propria ipseità tramite un racconto accettabile e coerente.
Conclusioni
Dopo che Marta si è riappropriata delle esperienze mai configurate e delle esperienze configurate in modo
identitario, cambia quello che è il suo racconto di Sé. Tuttavia, non è semplicemente cambiato il punto di
vista con la quale leggere il proprio racconto, la modificazione di questo e la conseguente ricomposizione
identitaria, può avvenire solo dal toccare con mano la propria esperienza. Le microstorie sottostanti
all’identità narrativa possono essere modificate se la rifigurazione avviene in prima persona, e lo sfondo alla
base degli episodi esistenziali deve appartenere al paziente, deve sentirlo come suo. Proprio perché il
paziente sente nella carne un contesto come il luogo che dà senso a uno specifico episodio, è possibile che si
modifichi il peso dell’episodio all’interno della sua storia di vita. Quindi il terapeuta può valutare in terza
persona l’intelligibilità della storia, garantita per lo più dalla coerenza e fluidità del testo, questa è la bussola
che utilizza per orientare la terapia verso i punti in cui c’è una alterazione dell’identità personale. Tuttavia,
qualsiasi accadimento esistenziale nella quale si ferma il terapeuta, risulta produttiva solo se il paziente
riconosce come suo il contesto e avverte come proprio la rifigurazione di senso dell’episodio ri-
contestualizzato.

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