Sei sulla pagina 1di 28

GNOSEOLOGIA DELLE SCIENZE UMANE

Teorie gnoseologiche e ontologia


Il termine “epistemologia” deriva da episteme e da logos; con episteme si intende la conoscenza e quindi
l’epistemologia è il ragionare intorno alla modalità di conoscere e di comprendere.
Di epistemologia ne hanno parlato tutti (da Platone in poi) e oggi con questo termine si intende la
conoscenza scientifica in quanto è l’analisi filosofica che indaga nello specifico la conoscenza scientifica; va
a capire come comprendere utilizzando i meccanismi della comprensione stessa.
In qualche modo quindi l’epistemologia si collega con la gnoseologia che è il discorso sulla conoscenza in
generale, ovvero i problemi filosofici che la conoscenza solleva; dopo Kant e con l’avvento dell’idealismo fu
molto sentito il problema di cosa rende possibile la conoscenza.
Oggi si usa più il termine epistemologia ma con gnoseologia si vuole far riferimento ad una conoscenza più
globale che non riguarda solo quella scientifica.
Get thinking: è il processo attraverso cui si attiva il pensiero che mira a trovare l’equilibrio tra quello che la
ragione ci offre come materiale speculativo, di analisi e ciò che ci offre la natura (e quindi la parte della
mente che ha a che fare con il sistema nervoso, l’astrazione); è un equilibrio a volte sfuggente perché
appena si individua una soluzione che sembra valida, arriva subito l’obiezione che fa rivalutare tutto e ci
rimette in discussione.
Alcune delle domande più importanti per capire anche il ruolo della gnoseologia sono:
1. Come si conosce il mondo?
2. Il metodo con cui si conosce il mondo è lo stesso usato dalla scienza?
3. Le caratteristiche psichiche degli esseri umani incidono nella conoscenza?
4. Cos’è la mente? (Non c’è una definizione univoca della mente se non una convenzione sulla quale si
lavora)
5. Come conosce la mente il mondo e come conosce se stessa?

Nel nostro immaginario cognitivo è molto importante l’esperienza scientifica e questo perché chi ci ha
preceduto ha plasmato il nostro stesso modo di concepire la conoscenza; il compito dei filosofi della mente
è quello di analizzare perché è così e se può essere anche in altri modi.
Eppure c’è un modo di pensare e vedere come funziona la conoscenza che invece dà molto più peso a ciò
che viene prima dell’esperienza (a priori); è però difficile distinguere ciò che viene dall’esperienza e poi
viene astratto e ciò che invece si può applicare dall’esperienza perché già ci appartiene  se devo
immaginare due palloni rossi riesco a farlo anche se non ce l’ho davanti.
Ogni volta che conosco si mescolano degli elementi che sono a priori perché li possiedo indipendentemente
dall’esperienza che ho davanti ed elementi che invece sono fortemente influenzati dall’esperienza; da
questo c’è tutta una diatriba tra quelli che dicono che sia prioritaria l’esperienza sulla speculazione (il
sapere a priori) e chi invece sostiene il contrario.
Occorre dare la definizione di due termini importanti in quanto si tratta di due approcci che devono
interagire perché nessuno dei due può dare una risposta conclusiva:
 Riduttivismo  è quell’atteggiamento con cui si cerca di spiegare qualcosa in relazione alla
riduzione di quel qualcosa ad una o più parti; in altre parole
 Olismo  è il tutto che precede la parte, si intende la totalità e l’unicità a cui poi vanno adattate le
parti; in altre parole

Le questioni che andremo a trattare sono:


 Se il metodo con cui la scienza studia la realtà nel mondo debba essere lo stesso con cui si studia la
mente e le azioni umane: se la risposta è no bisogna giustificare questa risposta
 Se il metodo della psicologia tradizionale è da affiancare, integrare, sostituire con quello della
neurobiologia e neuroscienze
 Che senso ha intraprendere un’indagine teorica sulla mente
 Qual è la natura della mente
 Qual è il rapporto mente-corpo

La gnoseologia va ad indagare a livello teorico cos’è la mente.

Il problema della conoscenza


La conoscenza è un problema perché non si può semplicemente dire “io conosco” ma bisogna dire perché
conosciamo e cosa significa conoscere; nel canone filosofico che si è costruito su questi problemi ci sono
moltissime teorie.
Le teorie della mente sono tantissime e le due famiglie principali sono il gruppo delle teorie gnoseologiche
interniste e le teorie gnoseologiche esterniste; in questi due gruppi poi si possono individuare delle
sottoteorie, nel primo ci sono il fondazionismo, il coerentismo, l’infinitismo e le teorie scettiche, nel
secondo gruppo ci sono l’affidabilismo e il naturalismo epistemico.
La conoscenza è un problema grande e quindi c’è una grande varietà di teorie; nel fare gnoseologia si
devono studiare le teorie e nel mentre si deve capire qual è l’origine dei problemi perché l’origine di questi
problemi è come avviene la conoscenza e la conoscenza interpella prima di tutto la mente.
Una volta che si danno le risposte bisogna anche imparare a metterle in dubbio analizzando le obiezioni
degli internisti e degli esternisti e questo perché c’è l’idea che l’analisi di filosofica è qualcosa di
continuativo che non si conclude mai e quindi qualsiasi teoria non è mai quella definitiva in quanto è
sempre superabile.
Tutte le analisi della conoscenza devono partire dal problema che ha avviato questa organizzazione delle
teorie, ovvero gli argomenti scettici  il loro punto centrale è la domanda della possibilità: siamo sicuri che
è possibile conoscere?
Ci sono degli argomenti che creano difficoltà nella pretesa di conoscere, ovvero gli argomenti epistemici,
quelli meta-epistemici e la rete scettica.
Gli argomenti epistemici riguardano in genere conoscenze specifiche circoscritte, ad esempio quando penso
che il treno parte ad un determinato orario vado in stazione e vedo che è in ritardo e quindi la mia
conoscenza si rivela in realtà una credenza, una conoscenza debole; gli argomenti scettici ci servono per
capire che probabilmente siamo troppo convinti di poter conoscere.
Gli argomenti meta-epistemici, in cui “meta” sta ad indicare che si va oltre l’episteme specifica; hanno a che
fare con le strutture argomentative e la maggior parte delle teorie sviluppano questo tipo di argomenti.
Le strutture argomentative sono delle strutture che creano connessioni tra elementi che poi portano alla
conoscenza e quindi gli argomenti epistemici vogliono capire quali tipi di strutture si mettono in atto per
poter ottenere una conoscenza.
In quest’ottica, conoscere significa mettere in relazione l’evidenza con l’esperienza e la struttura
argomentativa va proprio a ragionare sul nesso che c’è tra 2 o più evidenze.
ES. il treno parte alle 9 (evidenza)  arrivo in stazione il treno è in ritardo (evidenza 1)  non si risolve il
problema del ritardo quindi il treno non parte (evidenza 2) quindi la mia conoscenza era basata in un primo
momento su un’evidenza e successivamente su una CATENA di evidenza: evidenza  evidenza 1 
evidenza 2.
La rete scettica somma i problemi derivanti dalle conoscenze specifiche con quelli che derivano dalla analisi
delle strutture argomentative (immagine del cervello incastrato in una rete fatta di fili e nodi; per uscire da
questa rete si possono usare delle forbici, come nel caso degli argomenti esternisti, o sciogliendo i nodi uno
a uno partendo da i nodi che sono i singoli problemi specifici e poi arrivo alle corde che sono le strutture
argomentative).
La rete scettica solleva i problemi delle varie teorie e le mette in discussione.
Quando ottengo una conoscenza mi pongo il problema "questa conoscenza è vera?", "è possibile
conoscere?" e ci sono due famiglie di reti scettiche con cui confrontarsi per capirlo:
 Scenario scettico  scenario che impedisce di ottenere una conoscenza perché ogni volta che
penso di avere una conoscenza dico che questa potrebbe anche non essere vera e diventa perciò
un circolo vizioso, il diallelo, da cui è difficile uscire (Ipotesi del genio maligno)
 Problema del regresso  consiste nel collegare una conoscenza ad una causa ma il problema
diventa la causa della causa e quindi si potrebbe andare all’infinito.
Come esempio viene utilizzato un disegno che mostra la storiella indiana per cui il mondo poggia
sulla schiena degli elefanti: uno si chiede dove poggiano gli elefanti? Sulla schiena di una tartaruga;
ma dove poggia la tartaruga? (Problema del regresso: si potrebbe andare all’infinito chiedendosi
dove poggia la tartaruga ecc.)

Scenario scettico: Decartes attraverso l'immagine del "genio maligno" afferma che le sensazioni che mi
illudono di conoscere in realtà potrebbero non essere la verità; attraverso questa immagine Decartes
arriverà al dubbio metodico.
Questa ipotesi mette in discussione tutto ciò che crediamo di conoscere e afferma che tutto ciò che provo e
sento è prodotto in me dal genio maligno.
Il genio maligno vuole che noi giustifichiamo le nostre sensazioni, che le mettiamo in dubbio.
Lo scettico immette un dubbio, afferma che ciò che sentiamo, le nostre sensazioni sono vere ma è sbagliata
la nostra interpretazione di esse.
Ad esempio lo scettico non sostiene che non sia vero che io mi trovi a lezione, ma sostiene che ho tante
evidenze che io ci sia quante ne ho che io non mi trovi a lezione e che io sia manipolata dal genio maligno;
lo scettico afferma che non ho prove che sono a lezione.
Il problema quindi sta nel collegare tutte le evidenze per determinare se io mi trovi davvero a lezione
oppure no.
Quello che si deve capire è se si può giudicare la conoscenza avvalendosi delle sensazioni o se invece si
deve giustificare il legame tra le sensazioni e ciò che c’è dietro di esse.
Ci sono però delle regole per determinare se la nostra conoscenza è veritiera:
 Non si può giustificare p in base a p.
 Non si può giustificare p in base a q se q presuppone la verità di p; è la stessa cosa di quella sopra
(ad esempio non posso giustificare il fatto che la ciaramicola umbra è molto buona se nella mia
concezione di molto buona è implicato il fatto che mi piace la ciaramicola umbra); o trovo una
giustificazione a p che non dipende da p, oppure siamo dentro il diallelo

Problema del regresso: afferma che per essere giustificati nel credere in qualcosa si deve credere sulla base
di buone ragioni ma queste buone ragioni devono essere esse stesse credenze giustificate; quindi per
essere giustificati nel credere in qualcosa si deve credere sulla base di un numero infinito di ragioni
(problema del regresso).
Ma nessun essere umano può avere un numero infinito di ragioni quindi è umanamente impossibile avere
credenze del tutto giustificate; si tratta di avere queste infinite ragioni anche in maniera sovratemporale e
spaziale perché siamo dentro ad una catena di situazioni che collegano l’una all’altra.
Il problema del regresso ha focalizzato questi 5 punti che costruiscono una rete molto stretta fatta di nodi
che devono essere tagliati o sciolti e questo avviene tramite le teorie interniste ed esterniste.
È importante giustificare le conoscenze perché altrimenti crederemmo a qualsiasi cosa perché conoscere
non è solo affermare o pensare che qualcosa sia vero ma è dimostrare che c'è uno o più collegamenti ben
fondati tra ciò che credo e ciò che è reale; conoscere è connettere la credenza con la realtà e non in
maniera casuale.
Una credenza è un pensiero o un enunciato che può essere vero o falso; la differenza è che il pensiero si
può avere anche prima di enunciarlo e l’enunciato è l’unità minima di senso con cui posso esprimere il
contenuto del pensiero.
Non basta credere una cosa vera perché potrebbe essere anche falsa, conoscere è connettere questa
credenza con la realtà non in maniera accidentale.
La conoscenza va appoggiata su 3 grandi pilastri/concetti che servono per far leva per produrre una teoria
che ci dia la certezza di conoscere. Questi tre grandi pilastri sono verità, credenza e giustificazione.
Le teorie gnoseologiche si distinguono in base al modo in cui mettono insieme questi 3 elementi (teoria
basata di più su credenza, o su verità o credenza o su tutte e tre).
Questi 3 sono gli elementi più importanti ma ogni teoria può aggiungerne altri per arricchire la propria
teoria.
L’idea che la conoscenza sia una credenza vera giustificata non sempre è sufficiente (ad esempio passa il
circo e c'è un finto asino che vola che potrebbe ingannarmi).
Nel modo in cui ragioniamo molto spesso vengono innescati dei meccanismi concettuali a volte corretti
formalmente, che però non ci soddisfano e quindi le teorie gnoseologiche cercano di rispondere a questo
genere di questioni.
Quando si deve formulare una teoria della conoscenza si devono mettere insieme molti aspetti (questione
della credenza, della giustificazione della credenza, questione della verità e della verità formale) ed è ciò
che tiene insieme questi aspetti che deve essere valutato dentro la teoria.
Ad ogni credenza si deve associare quello che succede nella realtà (covariazione fatto-credenza).
Una conoscenza per essere tale deve essere composta da una credenza vera e giustificata; per “credenza”
si intende un pensiero o un enunciato che può essere vero o falso ma il fatto di essere vera non la rende per
forza una conoscenza.
Conoscere non si limita a ritenere una cosa vera ma si limita a riconoscere una connessione non accidentale
tra credenza e realtà. La verità da sola non permette la covariazione con la realtà dei fatti ossia il suo
mutare in base alle cose.
Se alla verità aggiungo una giustificazione questo può orientare verso la conoscenza ma, rispetto alla
conoscenza, verità e giustificazione sono condizioni necessarie ma non sufficienti.
Noi tendiamo ad interpretare come causale un elemento che è soltanto correlato  esempio di Bertario e
Guiscardo del lavoro e delle 10 monete:
- Bertario viene assunto
- Bertario ha 10 monete in tasca
- Colui che viene assunto ha 10 monete in tasca

A livello logico formale la 1 e la 2 implicano la 3 perché basta sostituire “colui” con “Bertario”. In questo
caso la credenza è vera ma accidentale per cui non giustificata; Il fatto che Bertario abbia le 10 monete in
tasca non è legato al fatto che era stato assunto e nemmeno al fatto che viene assunto perché ha 10
monete in tasca.
Ma questa conoscenza non ha un rimando immediato alla realtà, a volte mettiamo in atto dei meccanismi
che hanno valore a livello formale ma non sono esaustivi nel conoscere.
Quindi oltre i tre elementi possiamo prendere in considerazione anche la verità formale.
Nell’esempio di Guiscardo ogni volta devo controllare se le 10 monete ci sono o non ci sono ma se le devo
controllare significa che la verità è a posteriori; in realtà no perché per essere a posteriori serve anche un
criterio a priori e quindi vado a vedere la verità logica che però non è sufficiente e quindi parlo di
implicazione logica che è corretta ma non dà interezza del ragionamento.
Per rispondere allo scettico alcune teorie gnoseologiche fanno riferimento a credenze che sono
autogiustificate e implicano logicamente la loro verità.
Per implicazione (o inferenza) logica si intende un nesso tra un antecedente e un conseguente dove p e q
sono delle credenze espresse mediante enunciati; questa implicazione si dice logica quando se è vero p è
vero q in quanto la verità di p implica q.
In altre parole un’implicazione è quando una credenza inferisce su un’altra credenza, per cui se è vera la
prima è necessariamente vera anche la seconda; esistono delle inferenze logiche ma anche non logiche
(dette materiali) se ad esempio vedo un terreno bagnato e presumo abbia piovuto basandomi su una serie
di conoscenze.
Per riassumere:
1. Una credenza, per essere conoscenza, deve essere vera e giustificata da buone ragioni ma la
credenza non basta da sola per costituire la conoscenza.
2. Le giustificazioni sono esse stesse credenze perché le vado a giustificare ma le giustificazioni
devono essere buone credenze.
3. Le buone ragioni devono a loro volta essere giustificate e quindi si cade nel regresso delle
giustificazioni, all'infinito.
4. Nessuna mente umana può contenere infinite credenze.
5. Non è umanamente possibile una qualsiasi giustificazione.

Rispetto alla conoscenza verità e giustificazione sono condizioni necessarie ma non sufficienti: ho bisogno di
verità formale, di giustificazione, di capire come funziona la correlazione ma non è sufficiente avere
singolarmente ognuna di queste cose  i filosofi cercano di capire perché non ci bastano e così nascono le
teorie filosofiche.
I modi di concepire la giustificazione caratterizzano le teorie gnoseologiche. Ogni teoria nel rispondere al
regresso dovrà anche essere in grado di rispondere allo scenario scettico.

Teorie interniste
L'aggettivo internista non sta a intendere che la mente è analizzata internamente, mediante introspezione
ma si intende che il soggetto debba avere accesso alla giustificazione della conoscenza e che di questa si
debba avere in linea di principio coscienza  le teorie interniste si fondano sulla coscienza nel senso che
sanno di sapere.
Le teorie interniste intendono non descrivere ciò che si conosce in quanto a contenuto ma prescrivere
come si conosce: è come se ci dessero delle regole.
Sono normative, cioè delineano e dettano le regole da applicare che, se applicate bene, rendono una
opinione giustificata; le regole possono essere applicate in modo corretto o scorretto e queste regole non
sono come le leggi della scienza, ovvero generalizzazioni coerenti sui dati ma che sono mutevoli.
Le regole delle teorie interniste non sono generalizzazioni di quello che accade perché non sono descrittive,
non ci danno i dati di ciò che avviene nel processo descrittivo.
Le prime due teorie interniste sono il fondazionismo e il coerentismo che cercano di rispondere ai problemi
della conoscenza.
Una teoria interista ci fa vedere come mettere in pratica determinate categorie e affrontare determinati
problemi per arrivare alla conoscenza.
Quando abbiamo detto "non si può giustificare p con p" ragionavamo in ottica di fondazionismo mentre
quando abbiamo detto "non si può giustificare p con q se q presuppone la verità di p" in ottica di
coerentismo.
Tutte le teorie, anche quelle esterniste, si soffermano in particolar modo nel problema del punto n.3 della
tabella "per riassumere". Ovvero: le buone ragioni devono a loro volta essere giustificate.
Il fondazionismo
Risponde al problema del regresso e in conseguenza allo scenario scettico mediante un'interpretazione del
punto 1 (cioè una credenza per essere conoscenza deve sere giustificata da buone ragioni) per negare il
vizio della 3 (le buone ragioni devono a loro volta essere giustificate).
Secondo il fondazionista tra tutte le credenze che possiamo avere ce ne sono alcune che sono auto-evidenti
(sono buone ragioni) e queste hanno più forza delle altre; se immaginiamo un palazzo che poggia sui
mattoni fondamentali, allo stesso modo tutte le credenze del mondo poggiano sulle credenze autoevidenti
che sono le sensazioni o qualia.
Le sensazioni sono le percezioni immediate (sono definite acquaitance e sono la conoscenza diretta) che
ognuno di noi ha e che non riusciamo a distinguere o a negare e quindi sono la base della conoscenza
perché non possono essere confutate; ci sono due strade praticate dai fondazionisti, ovvero lavorare su:
 Fondamento 1  coscienza della sensazione o dei pensieri: io ho coscienza che sto sentendo una
voce e nessuno lo può mettere in dubbio
 Fondamento 2  riguarda la necessità di un qualcosa che colleghi la coscienza di una sensazione o
di un pensiero e la consapevolezza che ho di questa coscienza: serve un distinto atto di coscienza
che va a giudicare che io sono cosciente di quel pensiero; io sto ascoltando ma non basta questa
coscienza immediata di ascoltare ma serve un atto che mi fa essere consapevole di stare
ascoltando.

I "qualia" sono gli aspetti qualitativi delle esperienze coscienti; vengono distinte da Galileo in qualità
primarie (più fondamentali per la scienza, sono oggettive e quantitative) e secondarie (soggettive,
convenzionali).
Un qualia ha a che fare con una determinata sensazione ed è essenzialmente cosciente perché il suo essere
coincide con il suo manifestarsi; nel momento in cui si manifesta ne ho coscienza.
C’è un famoso esperimento mentale chiamato "la stanza di Mary" sulla conoscenza: una scienziata sta in
una stanza bianca e nera, può vedere il mondo da una televisione in bianco e nero, ha accesso a macchine
che registrano la nostra attività neurologica ogni volta che abbiamo sensazioni; ad un certo punto esce dalla
stanza e viene portata nella realtà a colori e quindi la domanda è: Mary conosce più, meno o nulla di nuovo
rispetto a prima?
Nella stanza conosceva benissimo i meccanismi fisiologici e fisici di ciò che avveniva in un mondo a colori
ma quando esce dalla stanza e vede i colori conosce più o no? Quando esce dalla stanza vive un qualia che
non può esprimere diversamente perché sennò la sua sensazione diventerebbe una qualità primaria.
La domanda di questo esperimento venne formulata per contrastare il fisicalismo, cioè l’idea che alla fine
ciò che conosco ha a che fare con la sua riduzione fisica; il fisicalismo venne utilizzato in chiave anti-
metafisica e tenta di ridurre ogni unità conoscitiva a contenuti di carattere fisico.
Nel fondazionismo, una volta che scelgo una credenza che deve essere più fondamentale delle altre e dico
che lo è perché si può rifare a delle sensazioni di cui ho coscienza, in realtà non basta perché può portare a
paradossi come quello di Mary.
La conclusione è che una spiegazione che riduce le credenze fondamentali a ciò che è oggettivo e
condivisibile è parziale perché resta l’idea che Mary, una volta che vede direttamente il blu, di fatto non lo
conosce perché già lo conosceva prima di averlo visto.
Quando si parla di coscienza di qualcosa si distingue in questo "di qualcosa" il genitivo soggettivo dal
genitivo oggettivo:
 Genitivo soggettivo: è quando si ha una percezione, uno stato del soggetto, che è sufficiente a dire
che ho coscienza. (Es. Mi fa male il ginocchio)
 Genitivo oggettivo: la percezione è ottenuta mediante un atto di coscienza che è distinto dalla
percezione stessa.
I fondazionisti affermano che la conoscenza si fonda su auto-evidenze che devono autogiustificarsi e
possono avere una percezione soggettiva o possono essere declinate al genitivo oggettivo: si tratta quindi di
decidere come avere giustificazione delle credenze che si danno all’autocoscienza  in questo senso si può
avere un accesso forte che giustifichi la conoscenza (es. bambino che riconosce subito la madre, senza
rifletterci) o un accesso debole (es. penso che quella macchina sia del vicino perché l'ho visto guidarla).
In definitiva la conoscenza si fonda su autoevidenze autogiustificantesi e con questo i fondazionisti vogliono
fermare il regresso, rendere trasmissibili le credenze (Mary nella stanza) e ascendere verso credenze
sempre più complesse.
Per poter abilitare alla conoscenza serve un atto di coscienza che comprovi la coscienza e dall’altro lato
serve la coscienza di un contenuto e quindi si arriva a delle credenze che sono più fondamentali delle altre
e che devono essere collegate alla coscienza sapendo distinguere una coscienza immediata (Mary davanti al
blu del cielo) da ciò che media quella credenza.

Il coerentismo
Il coerentismo risponde al problema del regresso negando il passaggio da 1 e 2 a 3 (box a 5 punti); per
passare al punto 3 secondo loro bisogna comprendere meglio in che senso si utilizzano le credenze in
quanto non è possibile dire che la giustificazione deve essere essa stessa credenza poiché la giustificazione
di una credenza non è nata da un’altra credenza  se nel fondazionismo le credenze autoevidenti erano
come le fondamenta di un palazzo, qui è come un circolo.
Una credenza non è giustificata da un’altra singola credenza ma ogni credenza è giustificata dall’intero
sistema di credenze di cui fa parte (olismo); quindi ecco che il passaggio al punto 3 non avviene perché è
proprio la proposizione 2 che viene contestata: la questione è che una credenza per essere conoscenza
deve essere allo stesso livello di altre credenze ed è il sistema nella sua totalità a giustificare quella stessa
credenza.
È la coerenza fra credenze che costituisce la giustificazione di ogni singola opinione; c’è quindi un’intrinseca
reciprocità tra la totalità del sistema di credenze che adotto e ogni credenza.
La relazione tra credenze gode di alcune proprietà che hanno un valore di carattere logico importantissimo:
1. Proprietà simmetrica  se A=B allora B=A, se due credenze sono coerenti godranno anche del
principio di identità 
2. Proprietà transitiva  se A=B e B=C allora A=C, le credenze si mettono in una relazione reciproca di
transitività e dunque se credere 1 mi porta a credere 2 e credere 2 mi porta a credere 3, allora da
credere 1 posso arrivare a credere 3

Si tratta di un circolo e quindi è evidente che si evita il regresso all’infinito; in qualche modo si deve per
forza scegliere un dominio di credenze limitato perché se non fosse limitato sarebbe impossibile
governarlo.
Scelto un circolo di credenze, si cerca di insistere sulla corrispondenza che sta dietro la credenza tra fatti e
quindi opinioni (problema dell’adattamento continuo tra fatto, opinione e credenza: la credenza deve
potersi ricalibrare sul fatto ma il fatto può mutare); l’idea del coerentista è usare il circolo arricchendolo con
l’idea di corrispondenza tra credenza e realtà e in questo modo può contenere la conoscenza e giustificare
le conoscenze come credenze rette e fondate.
Se devo limitare il circolo la totalità delle credenze diventa una sorta di ideale regolativo; è un modo di
giustificare la conoscenza di carattere olistico perché è l’insieme delle credenze che giustifica la singola
credenza e in qualche modo è un sistema aperto perché ambirebbe ad avere la totalità di credenze per
arrivare ad una verità e ad una certezza della conoscenza assoluta ma poi non può farlo.
All’interno di questo sistema ci deve essere almeno una condizione di consistenza, cioè non ci devono
essere contraddizioni tra credenze e ci deve essere anche una certa continuità tra le varie credenze.
Quindi c’è bisogno di coerenza come consistenza, si può ricorrere a implicazioni logiche che danno delle
regole che aiutano nel ragionamento e si può ricorrere a implicazioni materiali in cui il tipo di collegamento
tra una credenza e l’altra viene fatto a livello del contenuto.
L’infinitismo
Tutte le teorie interniste lavorano soprattutto sui primi tre passaggi e cercano di trovare il nodo da
sciogliere; l’infinitismo va a reinterpretare in un altro modo il punto 3. 
Le credenze sono giustificate da altre credenze in un processo infinito e dunque esiste fondazione ma senza
autogiustificazione, cioè l’infinitista evita di dare troppa centralità all’autogiustificazione della credenza
evitando così tutti i problemi dei qualia e della sensazione; cerca di fondare la conoscenza ma non su un
fondamento più giustificato degli altri, cerca solo di distinguere il regresso in vizioso o virtuoso.
Un regresso è vizioso quando il passo precedente che ha giustificato una certa credenza non basta a se
stesso, cioè in qualche modo la credenza che ha preceduto quel passaggio non fornisce una giustificazione
completa.
Se immaginiamo la catena di credenze infinite come una serie di oggetti uno dietro l’altro, l’oggetto che sta
prima della credenza da giustificare non è tale da giustificare completamente l’oggetto iniziale  non
svolge il suo compito.
Non tutti i regressi sono viziosi: se immaginiamo una serie di credenze p, q, r e s, una credenza svolge
pienamente il suo compito di giustificare la credenza successiva e quindi il regresso non è vizioso.
L’infinitismo afferma che c’è una credenza che sta dietro a un’altra e sono contenuti che di volta in volta
possono cambiare, hanno un ordine e ognuno può contenere l’altro e ogni passo giustifica il successivo e
quindi c’è anche un’indipendenza; c’è però il problema della totalità in quanto è difficile ottenerla perché
bisognerebbe arrivare a delle credenze che sono conoscenze innate.

Le teorie eclettiche
Le teorie eclettiche cercano di cogliere un po’ tutto: vietano il passaggio allo step 3 e affermano che non
devono esistere credenze singole autoevidenti, contro il coerentismo dicono che non deve esistere un
sistema ideale di credenze giustificate verso cui tendere (per il coerentista c’è il cerchio e al di fuori c’è un
punto che è l’infinità delle credenze possibili); secondo loro quindi la credenza è giustificata solo se
localmente coerente con altre credenze e dunque limitata.
Questo numero limitato deve essere esteso ma il rischio è quello di arrivare a contenuti mentali innati che
dovrebbero regolamentare il nostro modo di conoscere, incluso di conoscere la forza di gravità sulla terra e
sulla luna perché anche quando io conosco e quantifico l’accelerazione gravitazionale metto in atto processi
cognitivi ed evidentemente devono esserci dei contenuti mentali che me li organizzano.

Le teorie esterniste
Le teorie esterniste si liberano della coscienza.
Per poter riconoscere a un insieme di credenze la qualifica di conoscenze, sebbene occorra certamente
possedere credenze vere e giustificate, non c’è alcun bisogno che la mente abbia accesso alla loro
giustificazione (la mancanza di accesso in effetti sta alla base dello scenario scettico e del regresso da cui
siamo partiti: se pensiamo allo scenario scettico pensiamo al genio maligno o alla rete scettica e in questi
due meccanismi lo scettico chiedeva di giustificare).
Più specificatamente, non solo tale accesso non è necessario affinché si abbia giustificazione ma se diretto,
l’accesso è impossibile  cioè l’accesso alla giustificazione mediante il dato di coscienza non è necessario
per l’esternista ma in particolare l’accesso diretto alla conoscenza (quello in cui ho immediata coscienza
della sensazione e del pensiero) in realtà è impossibile da un punto di vista argomentativo o logico.
È come se stessimo percorrendo due strade diverse di fronte agli scettici:
 Quella dell’internismo dove ci sono i problemi degli scettici e l’idea di poter avere una
giustificazione della conoscenza mediante coscienza 
 Quella dell’esternismo dove di fronte allo scenario dello scettico e il problema del regresso, si
afferma che c’è un errore all’origine perché gli internisti chiedono giustificazione e quindi accesso
alla conoscenza mediante giustificazione basata sulla coscienza
Quindi le teorie esterniste negano l’esigenza di una giustificazione e cercano un’altra via che è quella della
contrapposizione.
Per un internista una credenza vera è giustificata (dunque è conoscenza) se il soggetto riconosce o si
adegua a certi criteri stabilito dalla teoria filosofica di riferimento; tale giustificazione deve comunque
essere sempre esplicitata e messa in pratica  come spiegare allora che un bimbo di 9 mesi riconosce la
mamma? Eppure la sua sembra essere una conoscenza a tutti gli effetti, sebbene l’infante non sappia
giustificarla: l’unico modo per salvare questo tipo di conoscenza è l’accesso diretto.
Per un internista la scienza dovrebbe descrivere i processi mentali a base neurofisiologica, la filosofia
dovrebbe prescrivere i criteri e le regole epistemiche da rispettare affinché la stessa indagine scientifica sia
giustificata  in questo modo non si capisce bene perché la ricerca empirica dovrebbe sottostare ai
dettami dei presupposti filosofici tanto più che questi dettami sarebbero imposti dalla mente; quando però
si vuole studiare scientificamente la mente è ancora peggio perché la mente dovrebbe dare i criteri a priori
con cui mettere in ordine le conoscenze empiriche.
Per l’internista la conoscenza è vera e giustificata  ma la connessione tra giustificazione e verità non è
affatto diretta perché c’è un nesso tra il contenuto della credenza che viene giustificata e il fatto che può
mutare e inoltre se ciò che è giustificato dovrebbe essere immediatamente vero, allora avremmo davanti
meccanismi di intuizione di ciò che è vero con tutte le conseguenze paradossali.
L’internista non destina uno spazio preciso alla causalità, cioè per l’internista la giustificazione è una
questione di correlazione  ma la causalità è fondamentale (è il cemento ontologico) per molte nostre
concezioni sul mondo.

L’affidabilismo
L’affidabilismo afferma che è vietato il passaggio da 1 e 2 a 3 in quanto c’è la giustificazione e l’esternista ha
problemi con questa proprio perché anche l’infante conosce e quindi si dovrebbe salvare tramite la
conoscenza immediata ma anche questa implica i qualia e quindi crea altri problemi.
La conoscenza empirica si colloca a livello dei fondamenti della conoscenza perché di fatto si conosce
mentre si apprende; praticamente gli affidabilisti vogliono cercare di collegare la giustificazione con la
verità, cioè ci deve essere un ponte in cui la verità non è più coerenza ma espone un legame causale tra le
credenze e i fatti.
È come se il primato è del dato e dell’esperienza e quindi si deve capire come funziona l’astrazione che se
ne ha: cioè prima c’è qualcosa che sta nei fatti che si riflette nella credenza che così viene giustificata e
questo legame è il legame causale (nell’internismo è saltato perché è diventato solo correlazione anche se
ci sono dei tentativi di recuperare la causalità come nell’infinitismo).
Giustificazione e causalità sono collegate e grazie a questo collegamento le credenze possono essere
giustificate e vere.
La figura che spicca nell’affidabilismo è Alvin Goldman, il quale afferma che conoscere è conoscere
causalmente e quindi non è un problema di giustificare in quanto è la causalità che si impone e mostra il
legame tra le credenze.
Il termine “affidabilismo” fa riferimento al fatto che la credenza diventa quindi affidabile perché è il
processo causale così come viene riconosciuto ad essere affidabile e questo perché è esterno alle credenze
del soggetto.
Dato che sono le leggi causali a produrre credenze e a giustificarle, è la ricerca empirica che individua i
processi causali misurando la loro maggiore o minore affidabilità.
L’affidabilista sostiene che le nostre credenze possono essere formate da:
 input provenienti direttamente dal mondo esterno, in questo caso i processi vengono definiti non
inferenziali.
 ragionamenti, cioè catene di inferenze fra credenze, in questo caso i processi sono definiti
inferenziali.
 una mescolanza fra i due, in questo caso i processi sono definiti in parte inferenziali.
Entrambi i processi, inferenziali e non, sono di tipo causale; qualsiasi soggetto conoscente che possieda
determinate credenze non può accedere alla totalità delle cause che stanno dietro alla sua conoscenza e
questo impedisce l’assolutezza del pensiero.
Ora, qualsiasi soggetto conoscente che ha determinate credenze non può in linea di principio accedere
direttamente al processo causale che le produce; se studierà successivamente tale processo, le credenze
che si formeranno in tale situazione saranno ugualmente prodotte da un processo esterno e inaccessibile
alle credenze attualmente intrattenute  questo permette all’affidabilista di liberarsi dell’ipotesi scettica.
Per l’affidabilista sembra che i nessi concettuali, nessi inferenziali che connettono le credenze, si
identifichino senza riserve con nessi causali.
L’affidabilità sostiene che il seguire le regole è diverso dal processo causale.
All’inizio l’affidabilismo ha un carattere normativo e filosofico e affida all’indagine empirica, soprattutto alla
psicologia sperimentale, lo studio e l’individuazione i tipi di processo causale affidabile.
Poi ha preso sempre più terreno la psicologia descrittiva tanto da descrivere come leggi le stesse regole che
definiscono la teoria.
Se la giustificazione delle nostre credenze dipende da processi causali affidabili ai quali non possiamo
direttamente accedere, le pretese dello scettico si rivelano irrazionali e logicamente insostenibili e quindi la
conoscenza di tipo affidabilista è compiutamente e interamente tale a prescindere dall’accesso a ciò che la
produce.
L’affidabilista sostiene che sia lo scettico a commettere un circolo vizioso in quanto da una parte propone
che la possibilità di rintracciare la verità, debba partire dalle credenze; mentre dall’altra parte giustifica la
connessione fra credenze e mondo quando intervengono processi causali inaffidabili.
Lo scettico sarebbe quindi:
1. internista nello stabilire la teoria della conoscenza alla quale attenersi
2. esternista nel descrivere l’effettivo processo epistemico

Contro le teorie interniste: contro il fondazionismo


Su queste teorie ci sono state delle obiezioni e obiettare non significa semplicemente demolire ma
dimostrare come la teoria in questione è incoerente e contraddittoria e quali sono i presupposti della teoria
stessa che la rendono tale.
Contro l’autocoscienza si pone il problema della normatività cognitiva e le obiezioni sono:
1. L’applicazione di un qualsiasi concetto richiede di mettere insieme situazioni differenti, prospettive
particolari, esperienze diverse
2. I qualia sono manifestazioni determinate e interamente date ma questa situazione è in genere
irrealizzabile: posso ad esempio pensare di possedere un concetto e poi rendermi conto che non lo
possedevo bene o che lo avevo travisato. Cosa in questo caso era stato oggetto della acquaitance
interna?
3. Un pensiero non è un oggetto isolabile dagli altri ma è posseduto insieme ad altri pensieri
4. La forma, l’unità di un concetto è data solo in relazione ad altri concetti e credenze; inoltre essa
potenzialmente può essere applicata in modo scorretto

Contro l’autocoscienza si pone anche il problema degli stati emotivi in quanto se ho un qualia mi si
manifesta qualcosa ma che cos’è quella sensazione? In genere un’emozione ha un’estensione temporale e
soprattutto richiede di associare una sensazione ad una credenza; ad esempio uno stato emotivo può far
conoscere anche un dato affettivo che fa riaffiorare un ricordo.
Contro i qualia le obiezioni affermano che:
1. Per giudicare/classificare un qualia è necessario ricorrere a una credenza, a un concetto che la
accompagni; se non viene concettualizzato, da un qualia non si può inferire alcunchè. Le credenze
relative alle sensazioni non sono né assolute in sé né possono essere assunte come base
indubitabile di giustificazioni successive.
2. Non si può individuare un qualia senza collegarlo a un oggetto. Un qualia non entra, in senso
stretto, in rapporto cognitivo con il soggetto che lo percepisce e anche se fosse una manifestazione
di qualcosa, non potrebbe comunque essere un ponte indubitabile con il mondo.
3. Il fondazionista usa in modo scorretto il termine ‘apparire’. I qualia appaiono come coscienti in chi li
percepisce (es. un infante), e al contempo chi li percepisce il sa distinguere come contenuti di
coscienza. La proprietà ontologica di essere coscienti viene sovrapposta alla proprietà epistemica di
essere conosciuti e individuati.

Contro il coerentismo
Il coerentismo affermava che la coerenza è l’unica fonte di giustificazione, affiancata al ricorso alla
consistenza e alle implicazioni logiche, che possono esserci più sistemi alternativi di coerenza e che un
sistema totale è un ideale regolativo; inoltre secondo i coerentisti è l’intero sistema di coerenza a entrare in
contatto con il mondo.
La critica replica affermando che il concetto di coerenza è vago e soprattutto ubiquo a ogni teoria internista.
Dunque, è il concetto stesso che unifica le credenze, e non quello che permette di escludere le credenze
non coerenti.
Si può al massimo ambire a una maggiore o minore coerenza ma come può la scienza nella sua dimensione
sperimentale esigere che sia l’intera teoria a entrare in contatto con il mondo? Che ruolo avrebbe la verifica
empirica?
Il coerentismo presuppone concetti di oggetti, afferma che non possono sussistere credenze isolate e che la
giustificazione è data dall’intero sistema di credenze.
Le obiezioni riguardano il fatto che i concetti di oggetti andrebbero guadagnati con i nessi tra le credenze
desunte dall’esperienza, e non viceversa (come si acquisisce la conoscenza? In che relazione sta con
l’esperienza?).
Secondo loro inoltre ogni credenza isolata è sostanzialmente indeterminata: cosa, allora, le conferisce
identità? (problema dell’olismo).
Non è possibile infine detenere l’intero sistema di credenze contemporaneamente, perché esso si dà
temporalmente.

Contro l’infinitismo
L’infinitismo afferma che ciascuna credenza può essere parzialmente giustificata da un’altra, anche in
assenza di credenze autoevidenti e autogiustificantesi  la critica controbatte dicendo che non sono
possibili parziali giustificazioni, perché il riferimento è sempre a credenze assolute che però non si danno
mai. Non si esce dal regresso vizioso.

Contro le teorie eclettiche


Le teorie eclettiche mettono insieme diversi elementi di più teorie ma l’obiezione è che questo crea grande
confusione in quanto com’è possibile mettere insieme teorie con presupposti tanto diversi?
Contro le teorie esterniste: contro l’affidabilismo
Si può sostenere che le teorie esterniste della mente non siano neanche teorie filosofiche in quanto evitano
ma non risolvono il problema della conoscenza: esse infatti vorrebbero ridurre la conoscenza a qualcosa di
simile alla conoscenza scientifica, basata cioè su dati empirici.
L’affidabilismo afferma che ogni conoscenza è individuabile mediante processi causali e che la scienza dà la
misura della migliore conoscenza sul mondo; le obiezioni riguardano la difficoltà di individuare processi
causali e dunque leggi relative a casi o fatti isolati  dove inizia il processo causale? Come si attinge
all’affidabilità dei processi causali?
Inoltre un altro punto da obiettare è che la natura normativa delle regole che servono per ottenere
conoscenza contrasta con il carattere descrittivo dell’impresa scientifica.

Esempio di teoria coerentista (ci potrebbero essere all’esame queste domande ma non copio queste
risposte):
1- Il 27/12/2021 compirò 20 anni
2- 2- Sono nata il 27/12/2001
3- 3- 2021-2001=20

Obiezioni al coerentismo: superstizioni.


Ogni volta che passa il gatto entro mi succede qualcosa di brutto; questa per me è credenza vera e
giustificata quindi una conoscenza che il gatto nero porta sfortuna.
Possiamo dire che questo non è coerentismo perché potrebbero esserci molti motivi per cui succedono
cose brutte dopo che ho visto il gatto nero (ad esempio ho dormito solo un’ora la notte quindi è normale
che mi è caduto il vassoio dalle mani); dopo che è passato il gatto magari succede anche una cosa positiva
insieme a quella negativa ma io mi concentro solo su quest’ultima.
Il coerentismo però non dà importanza agli argomenti emotivi ma al livello di contraddittorietà tra le
credenze e quindi possiamo anche dire che la sequenza gatto entro-cosa brutta non è un nesso causale ma
solo una correlazione.

Esempio di teoria fondazionista: ho fame, lo sento e basta.


La verità dell’aver fame è connessa con la coscienza di questa sensazione che ho fame.
Mettiamo così in atto come giustificazione un accesso forte o debole? Se non può essere contestato il fatto
che ho fame perché la sensazione della fame si impone alla mia coscienza c’è un accesso forte; l’accesso
debole invece diventa la coscienza di ciò che mi fa ridere cosciente dell’aver fame (è debole perché ho
bisogno di un rafforzo).
Magari la persona che ho vicino mi dice “ma come hai fame? Hai appena mangiato”; scopro che questa
persona è un salutista e la giustificazione dello stato mio di coscienza non può derivare dalla domanda che
mi fa la persona perché il suo stile di vita è così diverso dal mio.
Arriva un’altra credenza per cui ho mangiato da più di 8 ore e per lo stile di vita che faccio non posso non
avere fame.
Quando giustifico la coscienza di una percezione con un’altra coscienza devono intervenire altre credenze.
L’accesso debole chiama in causa anche la coerenza tra le credenze.
Obiezioni al fondazionismo: parlo di una montagna dorata perché ho l’idea di montagna e di dorata anche
se una montagna dorata in realtà non esiste.
Non basta l’autocoscienza della montagna e del dorato ma serve una coscienza mediata che unisca la
montagna e il dorato e serve anche una giustificazione per questo nesso.
Un argomento contro l’autocoscienza è che bisogna capire come giustificare il nesso tra i due oggetti di
pensiero.

Esempio di infinitismo:
Per passare l’esame è necessario (ma non sufficiente) studiare matematica
3. regresso non vizioso: studiando matematica si può passare l’esame  c’è una casistica ampia che
chi aveva studiato bene aveva passato l’esame e viceversa
4. regresso vizioso: è sufficiente studiare matematica per passare l’esame  Marco ha passato
l’esame ma non aveva studiato matematica però alle superiori aveva studiato per 5 anni
matematica.

Esempio teorie eclettiche: teorie complottiste sostenute da una serie di evidenze che tra loro sembrano
sconnesse e che formano una “misticanza”.

Nozioni di ontologia – l’oggetto


L’ontologia cerca di capire come passare dal particolare all’universale, dall’esistente all’ente (cioè qualcosa
che esiste perché è), dalla qualità alla quantità e viceversa.
Il tema dell’oggettività è molto importante.
Il senso comune scientifico è un tipo specifico di senso comune, diverso dal senso comune generale e deriva
dall’immagine di scienza che abbiamo; abbiamo ereditato l’idea che la scienza possa darci oggettività
perché è ciò che ci permette di avere garanzia delle nostre conoscenze.
Pensare che esista una conoscenza che dia questa oggettività è confortante.
Il dramma di ogni epoca è non riuscire a convivere con i propri dubbi o crogiolarsi su di essi.
Non possiamo rinviare all’oggettività ed è il motivo per cui la scienza ci interpella nel senso che è un tipo di
scenario di confronto che ci fa pensare che forse a qualcosa di certo ci possiamo arrivare.
Le conoscenze oggettive che dovrebbero anche darci la certezza di cos’è un oggetto impattano con il nostro
modo di vedere il mondo: nelle nostre visioni del mondo dobbiamo individuare oggetti che sono in
relazione tra loro per poter dare un ordine a questo mondo e il modo con cui percepiamo e consideriamo il
mondo è legato a ciò che reputiamo esistente in questo modo quindi agli oggetti che lo compongono e alla
relazione tra essi.
Ci troviamo necessariamente a dover rispondere alla domanda “a cosa diamo credito ed esistenza?”
Nel momento in cui identifico un oggetto come uno mi si pone il problema di cos’è l’oggetto che sta a
fianco.
Un oggetto in quanto “uno” solleva il problema della sua identità: Cosa rende identico a se stesso un
oggetto? Cosa mi permette di distinguere una pecora dall’altra? Magari una è un po’ più grande. Ma se ho
un sacchetto di palline identiche? Da cosa detrai il fatto che quella pallina la prendo come una e la distingue
dalle altre? Cosa separa l’uno dal molto? Cosa permette di passare dall’uno al molti?
Queste sono domande ontologiche perché riguardano come si passa dal particolare all’universale, perché
sostengo che ci sia qualcosa che esiste e esiste in maniera diversa dall’altro, le proprietà qualitative e
quantitative.
Quando parliamo di ontologia parliamo dell’essere delle cose, l’esserci e l’esistere delle cose che non solo
sono ma esistono.
Attraverso le categorie Aristotele cercava il modo di parlare delle cose che sono e ci sono.
Nel Filebo Platone dice che l’uno sono i molti e i molti sono l’uno e lo dice perché c’è un’unità che sussiste
nella molteplicità ed è l’unità degli universali che ci permette di organizzare gli oggetti come tanti uni che
però sono molti.
L’universalità sembra adeguarsi ad una molteplicità di piccole palline identiche: ho l’universale cavallo che
riassume sotto di se tutti i cavalli, ho l’universale rosso che assume sotto di sé moltissime cose rosse. Ecco
perché i molti sono uno e l’uno è molti.
Da un punto di vista descrittivo mi rendo conto che i molti possono stare dentro “ogni” perché se dico “ogni
uomo è bianco” intendo molti uomini, anzi tutti; “nessuno” è invece in tutti negati, è la contraria.
Se devo muovermi sulla molteplicità ho una molteplicità che riguarda una totalità e una che riguarda una
totalità negata. In questa molteplicità posso individuare qualcuno: “non ogni uomo è bianco” cioè ce n’è
qualcuno che non è bianco.
Dall’universale arrivo al particolare ma come passo dal singolo oggetto a qualche oggetto a tutti gli oggetti?
Aristotele iniziò a pensare che ci deve essere qualcosa che giustifica questo passaggio; rispetto a Platone,
voleva salvare la realtà concreta che cade sotto i sensi perché Platone aveva una particolare forma di
realismo, detto appunto platonico, per cui nel mondo delle idee vivono gli universali che sono la vera realtà,
la vera natura delle cose.
Aristotele dice che non dobbiamo pensare che l’essenza delle cose sia al di fuori delle cose stesse in quanto
se prendo una penna, l’essenza di questa penna non può stare fuori da questa penna nel mondo delle idee
ma deve stare in questa penna e devo far sì che l’universalità della penna che ne garantisce la conoscibilità
sia esattamente in questa penna.
Dobbiamo pensare che il punto di partenza sia la penna e Aristotele usava la parola “sostanza” cioè
qualcosa che può sussistere in sé. Socrate è una sostanza.
Ci sarà qualcosa di questa sostanza che rimane a qualcosa di più universale ma ci sono dei gradi di
universalità.
La stessa sostanza rimanda a più generi di universalità. Come possiamo parlare di Socrate senza usare
categorie come il genere o la specie?
La conoscibilità è in fondo la possibilità anche di ragionare su questo; proprio perché utilizzo queste
categorie reputo Socrate conoscibile e quindi costruire categorie mi permette di conoscere.
Una proprietà accidentale è una proprietà che appartiene all’ente ma non lo determina essenzialmente.
L’ontologia è dunque la scienza che studia ciò che è che è anche ciò che esiste. È la scienza per catalogare
ciò che esiste.
Si parla anche di ontologia formale che dà i concetti formali con cui poter inquadrare i tipi di cose esistenti.
Esiste anche l’ontologia formale formalizzata in cui tutto ciò che vado ad inquadrare lo formalizzo con la
matematica.
Le nozioni di ontologia sono categoriali dove con categoria intendiamo proprio dei contenitori,
compartimenti in cui classifichiamo gli enti.
L’ontologia è un’indagine su ciò che è in modo da poter focalizzare gli oggetti come esistenti e come
detentori di proprietà; non ci dà delle risponde sul singolo oggetto, l’ontologia ci dà i descrittori che ci
consentono di parlare ed analizzare oggetti, entità, in modo che non emergano contraddizioni.
Le entità sono particolari e universali in quanto è difficile non coinvolgere gli universali nel nostro
quotidiano e i particolari poiché cadono sotto i nostri sensi.
Ciò che esiste è ciò che si dà come esistente e che pensiamo di conoscere e ricade sulla nostra conoscenza;
ciò che è, l’essenza della cosa, è ciò che dell’oggetto è universalizzabile. Quando parliamo di entità
conosciamo ciò che si può astrarre di quell’entità.
In base a come miscelo il particolare e l’universale ho un certo tipo di teorie gnoseologiche o altre.

Il quadro categoriale di Jonathan Lowe

Jonathan Lowe è un metafisico contemporaneo di ispirazione aristotelica che ragionando su ciò che è parte
dall’entità, ovvero la categoria più ampia che c’è, perché ogni cosa che è, è un’entità (un bicchiere d’acqua
è un’entità, l’acqua è un’entità, il computer è un’entità…).
Dal punto di vista della categoria più ampia che c’è tutto è uguale.
Il problema diventa che tipo di esistenza posso assegnare alle entità quando sono così diverse e allora non
basta parlare di entità.
Ogni passaggio del quadro categoriale è un modo per rispondere alla domanda: “è sufficiente questa
categoria per dirmi dell’esistenza dell’oggetto che ho davanti?”.
La prima distinzione che facciamo è quella tra universali (totalità delle palline) e particolari (singola pallina,
10 palline, qualche pallina); questo però non basta per darmi una giustificazione di quello che penso che
esista e allora l’ontologia formale deve individuare le categorie per classificare tuti gli esistenti così come
esistono e come potrebbero esistere, esisterebbero in un mondo possibile.
L’ontologia formale è una scienza che a sua volta categorizza ciò che deve essere categorizzato e quindi
ragiona su questi grandi contenitori.
A questo punto c’è un rapporto tra metafisica e ontologia in quanto se la metafisica utilizza gli strumenti
che l’ontologia mette a disposizione per dire cosa esiste davvero e cosa no  Esempio: se dico che esiste il
particolare, esiste la penna, esclusivamente la penna; quando dico “penna” non dico la penna nel mondo
astratto ma questa concreta penna, non esiste neppure un universale penna, non ha un’esistenza, ma è
strumentale al fatto che possa parlare di questa penna concreta.
Se invece prendo in considerazione il dinosauro, se deve esistere solo il particolare di dinosauro che adesso
cade sotto la mia esperienza sensibile, non è possibile, quindi devo far esister anche la classe generale dei
dinosauri.
Usando questa organizzazione categoriale di Lowe, facciamo una metafisica che reputa esistente una
categoria più dell’altra, tanto quanto l’altra o così via.
Tra entità universali e entità articolari dovremmo collocare la sostanza come sinolo di materia e forma,
secondo la metafisica aristotelica (ilemorfismo), mentre per Platone avremmo l’idea come forma che fonda
la sostanza (realismo idealista, perché le idee sono reali).
Nessun esperimento può decidere dell’esistenza o meno delle categorie; spesso si pensa che serve un
esperimento per decidere il modo giusto per usare l’esistenza di queste categorie. Qui però non si sta
discutendo sul modo più o meno corretto di aver calcolato una misura o l’altra, il problema è invece in che
senso quel dato emerge come significato di qualcos’altro, di un’esistenza.
Se mi sono fissata che ho fame, non si tratta solo di dire che quella sensazione esiste ma capire se quel dato
che si pone e si impone alla mia coscienza può indicarmi qualcosa.

(Nella conoscenza scientifica c’è una dimensione convenzionale e una strumentale, dove per dimensione
convenzionale intendiamo il convenzionalismo alla Poincarè che scoprì che nella scienza molto è
convenzione, cioè sul significato di determinate assunzioni, per convenzione assumo che sia questo il punto
di partenza per la realtà.
Oltre a questo nella scienza c’è poi lo strumentalismo, cioè ci sono determinate coincidenze che vengono ad
essere strumentali alla costruzione dell’interpretazione e della teoria.
Da una parte ci sono convenzioni che non possono che essere tali (devo interpretarle all’interno di una
teoria), dall’altra questa convenzioni hanno un carattere pratico.
Questo comunque non esaurisce il significato della scienza; in particolare nella quantistica se esaurisse
questo significato dovrei dire che la quantistica è pura descrizione e correlazione ma funziona e quindi
bisogna rispondere all’argomento del miracolo.
Tutto funziona perfettamente, è possibile che sia casuale?
Non basta lo strumentalismo e la convezione, serve un dibattito ontologico per capire di che genere sono
quelle proprietà).

Il dato empirico in generale diventa la cartina tornasole dell’interpretazione che sto utilizzando perché il
modo di concettualizzare che ho della realtà, magari personale, finché resta coerente con il dato può
trovare una maniera per radicarsi ancora di più; se ad esempio sono ubriaca e vedo l’asino che vola, il
problema è trovare la strada per far vedere che il dato sta negando quella parte che ho di
concettualizzazione dell’esistenza.
Devo dare quegli elementi per fare un esame di realtà cioè cercare di capire che l’astrazione che sto
facendo e l’interpretazione che sto dando della realtà è adeguata ai dati che la realtà mi sottopone.
Tornando al quadro di Lowe, gli universali si distinguono in:
 Generi (esseri umani, non Socrate)
 Qualità (rosso)
- Relazioni (maggiori di  il bicchiere è più grande della tazzina)
- Disposizioni (solubilità  il sale si scioglie nell’acqua; l’essere solubile sarà più o meno
specifico per alcune sostanze).

Queste categorie appartengono all’ordine degli universali cioè possono essere applicate a qualsiasi cosa.
I particolari possono essere:
 Astratti (dove esiste l’ente astratto?)  usiamo gli enti astratti ma dobbiamo capire in che senso
esistono perché hanno delle conseguenze sul concreto
 Concreti, che a loro a volta si dividono in:
o Oggetti  si dividono in sostanze e non sostanze (superfici, cavità). Quando parlo di
sostanze parlo di “questo uomo”, Socrate.
o Non oggetti, detti modi.

Fare una metafisica di carattere aristotelico significa ad esempio, a partire da questo quadro, cercare di
mettere insieme un oggetto concreto particolare (questo uomo qui) con qualcosa di più universale.
Per mettere insieme questi due poli, Aristotele individuava nella categoria di sostanza qualcosa che in
“questo uomo” rimanda all’oggetto concreto particolare, ovvero la sua totale unicità, l’irriducibile
individualità (cioè che una sostanza è identica a se stessa e diversa dagli altri ma nella sostanza c’è anche
qualcosa che rispecchia l’universale del genere umano, la sostanza seconda).
Non possiamo conoscere l’individualità estrema perché gli oggetti individuali sono determinati da infinite
caratteristiche e l’infinito non ci può appartenere, però se non è la sostanza concreta, abbiamo il fatto che
in essa c’è qualcos’altro che è estraibile e che pertiene all’universalità, appunto la sostanza seconda per
Aristotele.
Vicino all’oggetto concreto ci sono dei non oggetti concerti o modi: ci dice qualcosa id concreto ma
collegato ad un qualcosa che non è un oggetto, ad esempio “questo rosso”.
Esempio: immaginiamo un foglio bianco. Come esiste il foglio bianco basandoci sulla tavola di Lowe?
Il foglio bianco è un’entità ed è un universale perché fa parte della totalità.
Appartiene al genere degli oggetti di ufficio, la sua qualità è il bianco, come relazioni consideriamo la
creazione tra un foglio A4 e un altro tipo di foglio, come disposizioni può essere riciclabile, è disposto per
scriverci.
È anche un particolare perché è UN foglio bianco, è concreto perché è un oggetto, nella categoria non-
oggetti diciamo che è bianco e che può essere più o meno giallino.
Tra le sostanze diciamo che è questo foglio e non un altro (ha un’imprecisione, è leggermente più
piccolo…).
Abbiamo detto che una sua disposizione è che ci venga scritto sopra. Ma se un foglio bianco non viene per
l’eternità scritto è un foglio bianco? Si, resta un foglio bianco ma sembra che manchi qualcosa della sua
essenza perché che ci faccio? Magari lo accartoccio, lo brucio, ci attacco qualcosa sopra.
Le disposizioni conferiscono altre caratteristiche al foglio bianco che lo rendono utile per qualcos’altro; se
non ci fossero queste disposizioni il foglio diventerebbe fine a se stesso.
Anche al di là della disposizione il foglio gode di alcune universalità poiché è un foglio bianco in sé, è lì per
essere contemplato.
Le disposizioni ci possono dire qualcosa che reputiamo essenziale o meno che è il contrario di reputare
accidentale o meno; a volte le disposizioni hanno molto a che fare con ciò che intendo per la sostanza di
quell’oggetto.
L’insieme degli universali (proprietà astratte universale che appartengono ai molti) è ciò che conosco del
mio foglio bianco esistente; per il foglio bianco dobbiamo considerare anche il nesso di esemplificazione
cioè l’idea che per passare dall’insieme di tutte le proprietà al particolare foglio concreto, prendo gli
universali che sono appunto le proprietà, le particolarizzo (do un determinato peso/colore/grandezza…) e
ottengo quel foglio concreto che diventa l’esemplificazione dell’universale.
Ma come giustifico che l’insieme di tutte le proprietà viene esemplificato nel particolare concreto?
Costruisco questo nesso perché la mia mente ragiona creando questi nessi perché ho fatto esperienza del
foglio bianco. I fenomeni mentali sono scatenati dall’esperienza, nell’esperienza sta l’incipit.
Il nesso di esemplificazione
Il nesso di esemplificazione è quel passo in più che pretendiamo per unire l’universale (e quindi
trasportabile anche ad altre conoscenze) e il particolare (ciò che abbiamo sotto i nostri sensi).
È ciò che permette di collegare qualcosa che di per sé è astratto come un insieme di proprietà e ciò che io
attribuisco concretamente a quella esperienza.
Ci sono entità ripetibili (ad esempio i colori), cioè che possono essere riferite a più cose in quanto queste
qualità entrano in connessione con un singolo stato di cose; però sono anche qualità che si riferiscono ad
un solo oggetto per volta.
Le qualità sono universali ma sono ad un posto solo, cioè entrano in connessione con un singolo stato di
cose e quindi se immagino la parola “verde” ognuno pensa a qualcosa di diverso ma quella qualità riguarda
un oggetto per volta.
Ci sono però universali che collegano due entità per volta, ad esempio dire “maggiore di”, “minore di”
implica una relazione universale che interviene costantemente per collegare tra loro due o più cose;
quando pensiamo alla relazione pensiamo a qualcosa che crea un legame ma nell’ontologia bisogna
astrarre questa idea e pensare la relazione come un’entità universale che collega più particolari.
È universale perché le relazioni non dipendono dal concreto particolare a cui ci stiamo riferendo, cioè se
dico “maggiore di” questo potrebbe essere riferito a qualsiasi numero  se la qualità è un universale a un
posto, la relazione è un universale a più posti.

Ordini di universali
Nel modo in cui esemplifichiamo un colore, diamo per scontato che quella esemplificazione sia univoca, ma
pare che un eschimese sia in grado di riconoscere mille sfumature di bianco e quindi in realtà ci sono
universali tra loro collegati; quando parlo di sfumature dei colori, sembra che l’una rimandi all’altra.
Quale di questi collegamenti è ammissibile in base ad un colore standard?
Ci sono alcune teorie che sostengono che l’universale di primo ordine, cioè quello a cui si fa riferimento in
assoluto, è il rosso e poi da lì ci sono tutte le sfumature come ad esempio il cremisi (universale di secondo
ordine) fino ad arrivare all’universale di terzo ordine che è il colore perché riassume sia il cremisi che il
rosso e quindi è più universale di quelle sfumature particolari.
Noi immaginiamo la relazione come qualcosa che collega due entità che sono indipendenti dalla relazione
stessa e non è sbagliato pensarla così solo che in questo caso degli ordini degli universali è vero che il
cremisi è indipendente dal rosso ma è vero anche che ci sono delle sfumature intermedie che si possono
costruire dal punto di partenza.
Per relazione posso ottenere o il rosso o il cremisi. Qual è il più fondamentale? Sembra che nel poter
ragionare degli universali c’è una relazione imprescindibile. Se volessi il cremisi ma non esistesse il rosso,
potrei averlo? Si ma in questo modo diventerebbe un punto di partenza per altri colori (potrei ottenere il
rosso scurendolo).
C’è un legame tra le gradazioni ed è proprio grazie a questo che ci viene la domanda di quale sia la
esemplificazione degli ordini superiori o inferiori  Il legame che c’è tra due tonalità è esemplificativo? non
aggiunge nulla? Ci sono ordini di universali? in che modo sono legati tra loro?
Qual è il legame degli universali? Questa era la domanda di Platone.
È vero che le qualità sono universali ad un posto ma è vero anche che gli universali hanno un legame tra
loro e per questo ci deve essere un ordine  qual è l’universale che fa da punto di riferimento?
Può un colore esistere indipendentemente da ciò che lo esemplifica? Il limite è l’ampiezza delle frequenze
della luce bianca (colori) in quanto è difficile immaginare qualcosa di nuovo che non sia nella frequenza di
luce.
La nostra mente lavora necessariamente per esemplificazioni ma ad un certo punto bisogna trovare
un’interpretazione approssimativa che ci dica dove fermarci.

Il realismo degli universali


Per questo problema ci sono due approcci principali:
1. Da una parte devo decidere se ciò che esiste è il concreto particolare (come nel caso del foglio di
Lowe)
2. Dall’altra parte c’è il mero particolare, cioè il foglio di carta non ha caratteristiche, è solo un
particolare; si ha comunque il foglio di carta perché su questo mero particolare convergono
comunque tutte le proprietà di essere bianco, avere una certa dimensione, ecc.
L’unica cosa che esiste però è la sua particolarità; il foglio bianco non è esempio per ulteriori
astrazioni. Il particolare è in realtà un’entità priva di qualsiasi qualifica che entra in connessione con
i vari universali. Tale entità indicata eventualmente da nomi viene denominata “mero particolare”,
ovvero un particolare che non ha nessuna caratteristica se non quella formale di essere un
particolare.

Distinzione genere-sostanza: il genere si individua nelle sostanze e non esiste senza di esse. Un particolare
può quindi avere una caratteristica essenziale (universale) che condivide con altri particolari (dunque fa
parte del genere).
Il genere è qualcosa di più ampio e la sostanza è ciò in cui il genere viene esemplificato.
Oggi si parla di sortali, ovvero di concetti riferiti a generi che godono di questa universalità connessa a ciò
che reputiamo essere la natura propria di un ente; il sortale è il predicato con cui vengono identificati i
particolari e indica l’essenza o la natura propria della cosa in questione.
Gli attributi accidentali invece sono le proprietà delle sostanze e sono denominati accidenti.
Le analisi ontologiche sono vere?
Secondo la maggior parte delle concezioni naturalistiche ora in voga, la risposta è sì perché siamo abituati
ad una conoscenza molto rigorosa che è quella scientifica; in misura oggi minore, esiste anche una
interpretazione relativistica dell’ontologia, perché di fatto analisi a priori è totalmente concettuale.
In questo secondo caso l’ontologia sarebbe connessa alla capacità esplicativa di concepire la realtà in un
certo modo, e non la realtà in sé; concepire l’ontologia in un modo o in un altro influenza le visioni
metafisiche come ad esempio il fisicalismo.

Le disposizioni
L’esempio classico è che x si scioglie se immersa in un liquido; x ha la disposizione per sciogliersi (solubilità).
Ma il sale si scioglie perché è solubile in sé o perché interagisce con qualcosa che lo fa sciogliere?
X è tale da possedere una serie di proprietà non disposizionali tali che, in un contesto di relazioni e cause,
producono quello che noi definiamo “scioglimento” e dunque riduco le caratteristiche dell’oggetto che
emergono in un determinato contesto (riduttivismo).
Le proprietà sono connesse ai contesti in cui le andiamo a inserire e per questo si utilizza tantissimo il
periodo ipotetico.
Può esistere un mondo possibile dove, il sale immerso nel liquido, reagisce con qualche sostanza che lo
rende insolubile. Dunque, il sale resta solubile ma il periodo ipotetico (contesto condizionale) risulterebbe
falso (perché se fosse vero allora il sale non sarebbe solubile).
Assumere le disposizioni aiuterebbe a spiegare anche la causalità ontologica.

Gli eventi
Non sappiamo dove e come collocarli, il problema è se gli eventi possono essere una categoria.
Il mondo è fatto di eventi? Cos’è un evento?
Quando noi diciamo “è esplosa una bomba” oppure “c’è stata una battaglia”, utilizziamo dei verbi
accusativi, cioè verbi che vengono prima del soggetto perché intendiamo che l’evento sia accaduto; per
esistere deve accadere.
L’evento è un accadimento, cioè il venire all’esistenza di determinate cose; viene descritto successivamente
al verbo che lo connota.
Pierino ha rotto la finestra in cantina → con il pallone → alle 5 del pomeriggio
↓ ↓ ↓
L’evento è qualcosa che sembra collegare 3 entità (pierino, finestra e cantina) e quindi il rompere collega
tre cose, per questo possiamo definirla come una relazione a 3 posti.
Inoltre non solo ha rotto la finestra ma l’ha rotta con il pallone e quindi diventa una relazione a 4 posti; il
rompere diventa una relazione a 5 posti quando aggiungo l’orario.
L’espressione 2 in fondo è un’stensione della 1, l’una dipende dall’altra; se dovesse descrivere l’evento in
generale devo decidere quali sono le entità coinvolte in questo evento che sono più fondamentali delle
altre.
Quando devo stabilire se è un evento o meno entrano in causa le entità e le loro proprietà.
Questo significa che se devo stabilire cosa sia più fondamentale, molto spesso ci affidiamo a delle
percezioni di carattere intuitivo, cioè pensiamo intuitivamente che una cosa sia accaduta perché ha una sua
corrispondenza tra ciò che intuisco della realtà e come la realtà è fatta.
Gli eventi possono essere delle entità individuali e sono quelle cose che occupano sezioni specifiche nella
successione temporale esistendo sempre; in altro modo si può pensare che gli eventi sono qualcosa in un
può esistere solo una parte temporale, ovvero se esiste solo nel presente allora è un evento perché è
esploso in quel determinato momento e quindi è accaduto in quel determinato momento.
Questi due modi diversi di percepire l’evento sono quelle due concezioni di spazio e tempo.
L’unica cosa di cui sono certa è che l’evento accade e ha a che fare con il tempo che però è molto difficile
da pensare, sia scientificamente che filosoficamente.
Noi siamo propensi a percepire l’evento come accadimento dinamico, come cambiamento, lo connettiamo
come qualcosa che fa cambiare lo stato di cose esistenti; a questo punto i fatti vengono concepiti come
un’occupazione priva di cambiamenti in una porzione del tempo.
Posso pensare questo cambiamento come una porzione di tempo o come un accadimento istantaneo nel
presente perché esiste solo il presente.

Momenti e nominalismo dei tropi


Il quadro categoriale serve per renderci lecito di parlare o non parlare di cose che pensiamo che esistano.
I tropi sono i non oggetti; gli oggetti sono dei particolari concreti con delle determinate caratteristiche.
Se vedo un gatto nero, il nero esemplifica la proprietà del nero  il nero può essere applicato ad una
universalità di cose ma nel quadro aristotelico questa universalità non esisterebbe se non venisse istanziata
in un oggetto, cioè serve un oggetto concreto in cui la proprietà si esemplifica.
Gli oggetti concreti non sono solo le sostanze ma anche ciò che si mette in relazione ad esse come ad
esempio le cavità; a volte ci sono dei non oggetti che vengono ottenuti per sottrazione dagli oggetti.
L’universale ha bisogno di particolarizzarsi in più oggetti ma allora il nero del gatto è uguale al nero di
qualche altro oggetto?
Per un realista esistono le cosiddette specie infime, cioè le mere particolarità, ciò che è più particolare
possibile solo che oltre a quel passo non si va; il problema è decidere cosa esiste e cosa no.
Una soluzione è quella proposta dal tropismo che afferma che le proprietà particolari dei tropi
appartengono in modo peculiare a ciò a cui sono attribuite, nel senso che lo rendono come è; quindi
secondo loro il colore esiste ma non è universale.
Sono nominalisti in quanto pongono l’esistenza concreta nel singolo oggetto separato dall’altro; il tropo del
nero quindi esiste nel gatto, nel cellulare ma come proprietà di queste sostanze particolari.
Come faccio però a stabilire che c’è il nero del cellulare e del gatto? Per somiglianza, che è un nesso
originario che collega il nero del gatto e del cellulare che non è ulteriormente analizzabile e quindi il nesso
di somiglianza è ciò che lega le proprietà.
Il tropo quindi si dà ad un posto (c’è il nero del gatto, del cellulare, ecc.) ma c’è questa somiglianza; servirà
però anche la proprietà della compresenza tra il nero del pelo del gatto e il gatto stesso.
Il tropo viene astratto nella mente perché è la mente che astrae il colore ma questo esiste concretamente
istanziato nello schermo del cellulare, è solo nello schermo del cellulare che questo tropo si realizza.
I tropi esistono solo nella mente e devo poterli istanziare nella realtà, la mente quindi ha bisogno di
giustificare un nesso di compresenza; l’idea di nero si ottiene per il fatto che si vede esclusivamente nel
cellulare e quindi il colore che vedo istanziato in un oggetto giustifica l’idea astratta che ho nella mente.

Tipi di relazione
I tre tipi di relazione sono:
 Proprietà transitiva  se A è in relazione a B e B è in relazione a C, allora A è in relazione con C.
Per relazione si intende qualcosa con un valore universale; ad esempio se 3 > 2 e 2>1, allora 3 è
maggiore di 1
 Proprietà simmetrica  se A è in relazione a B, allora B è in relazione ad A.
Ad esempio se io sono la sorella di Piera, allora Piera è mia sorella
 Proprietà riflessiva  A è in relazione ad A.
Ad esempio io sono identica a me stessa, 1 è uguale a 1

Questi tre tipi di relazioni sono i contenitori in cui tendiamo ad inserire le entità.
Queste proprietà possono anche avere delle contro-proprietà: intransitività, asimmetricità e irriflessività.
 Proprietà intransitiva  se A è in relazione con B e B è in relazione con C, allora A non è in relazione
con C.
Ad esempio se sono mamma di Lorenza e Lorenza è mamma di Sara, io non sono la mamma di Sara
ma sarò la nonna
 Proprietà asimmetrica  se A è in relazione con B, allora B è in relazione con A.
Ad esempio se il sole è una stella, allora ogni stella è il sole
 Proprietà irriflessiva  A non è in relazione con se stessa ma con B

I tipi di relazione sollevano dei problemi soprattutto in merito alla relazione riflessiva in quanto dire che io
sono identica a me stessa necessita di dover giustificare la permanenza dell’identità nonostante il
cambiamento.
Le riflessioni riflessive sono anche transitive e simmetriche in quanto se mi tengo la riflessività è ovvio
dedurre anche l’identità  se Flavia è uguale a Flavia, Flavia è in relazione con se stessa.
Dall’identità però deriva la questione dell’esistenza: in che senso A esiste in relazione con la possibilità di
essere un altro A?
La relazione d’identità è una relazione reale che ogni entità intrattiene con sé, per altri è una nozione
formale.
5. Una relazione reale se esemplificata presuppone l’esistenza dei suoi termini.
6. La relazione d’identità che un possibile ha con sé stesso non presuppone l’esistenza della
possibilità.

Bisogna distinguere:
7. L’identità sincronica o numerica: identità che una cosa ha con sé stessa in qualsiasi momento del
tempo.
8. L’identità diacronica: per cui una cosa può rimanere o meno identica a sé stessa nel tempo.

Ogni identità sincronica implica un’identità diacronica ma non è detto il contrario. Infine, bisogna
distinguere
9. identità numerica
10. identità qualitativa: due termini, non numericamente identici, possono avere generi in comune. In
questa identità si è identici in qualcosa.

La dipendenza ontologica
Un’entità può essere in relazione ad un’altra e generalmente quando dobbiamo descrivere ciò che avviene
nel mondo immaginiamo sempre una relazione di carattere causale e quindi qualcosa è causa di
qualcos’altro; questo tipo di rappresentazione fa sì che quando noi esprimiamo qualcosa su ciò che
reputiamo essere nel mondo lo facciamo sempre in un contesto in cui ci esprimiamo all’interno di pensieri
che connettono le entità in un modo che ha senso solo all’interno del linguaggio  l’analisi del contesto è
quindi importante.
Quando devo capire il legame tra due entità devo anche decidere se quel legame appartiene alla
dimensione logica, cognitiva o se appartiene anche alla dimensione ontologica.
Un certo tipo di entità può dipendere da un’altra perché si considera la seconda causa necessaria della
prima, ma la casualità non è certo la relazione che esaurisce la dipendenza che consideriamo.
In molti casi quella ontologica viene derivata da nessi di tipo logico e semantico che accertiamo riflettendo
sul nostro linguaggio o sui nostri pensieri.
Un nome ma anche un predicato o gli altri elementi di un enunciato possiedono il loro valore semantico
solo se inseriti all’interno del loro contesto proposizionale; in molti casi la dipendenza logica e concettuale
intuitiva che individuiamo in certi elementi linguistici o cognitivi rispetto ad altri elementi viene proiettata
sul piano ontologico.
L’indagine ontologica della realtà si accompagna sempre e inevitabilmente all’individuazione di dipendenze
ontologiche, dando per scontato che ai dubbi si possa replicare. Si distingue 2 tipi di dipendenze
ontologiche:
 Dipendenza ontologica forte  posti due enti A e B, A dipende in modo forte da B se il primo non
può esistere indipendentemente dal secondo mentre il secondo può esistere indipendentemente
dal primo.
 Dipendenza ontologica debole  quando un certo ente è dipendente da un tipo di altri enti, per cui
A dipende in senso debole da B se A può esistere anche se esiste C al posto di B, ma non può
esistere se non esiste almeno un elemento appartenente al tipo di relazione di cui B e C fanno
parte.
La dipendenza debole caratterizza il mero particolare per cui esso non esiste se non ha determinate
proprietà universali, anche se non richiede necessariamente specifici universali. Nella teoria dei
tropi essi non possono esistere se non connessi ad altri tropi.

Teorie della spiegazione scientifica (capitolo 4)


Cos’è la spiegazione scientifica che sembra funzionare così bene e perché la mente funziona in un modo
così specifico?
Innanzitutto bisogna dire che c’è una relazione tra ciò che si intende per conoscere e ciò che si intende per
spiegare; la gnoseologia spiega se e a quali condizioni si conosce ma non dà spiegazione sul perché un
determinato fenomeno avvenga, non riguarda l’individuazione delle condizioni generali in base alle quali
determinati fatti o eventi esistono permettendo fra l’altro di prevederli.
Alla gnoseologia interessa individuare le condizioni per cui si fonda una conoscenza e in particolare una
conoscenza scientifica; le spiegazioni scientifiche rappresentano una spiegazione molto interessante ma
non sono le uniche in quanto ci sono anche le spiegazioni intenzionali che sono quelle legate ai
comportamenti umani.
La conoscenza è un’attività gnoseologica che cerca di giustificare gli atti conoscitivi e di capire perché
avvengono (internismo e esternismo ad esempio  conoscere è avere una credenza vera e giustificata);
alla definizione di conoscenza affianchiamo la spiegazione che sembra essere connessa alla causalità,
soprattutto la spiegazione scientifica.
Il perché svela la connessione tra gli elementi e quindi spiegare ha a che fare con il perché.
Esistono modi diversi di spiegare in base all’oggetto indagato: matematica, logica, fisica, biologia, diritto,
ontologia, filosofia…
Il modo di «spiegare» tipico della scienza è ormai presente in ogni disciplina e sapere, sia per quanto
riguarda i suoi contenuti che il suo metodo o i suoi metodi.
Ci sono diversi tipi di spiegazione scientifica:
1. Causale
2. Nomologico-deduttivo  gran parte delle spiegazioni statistiche risentono di questo modello
3. Rilevanza statistica  la spiegazione è formata da un insieme di elementi informativi
statisticamente rilevanti riguardo a ciò che deve essere spiegato
4. Unificazionista  cerca di unificare le varie spiegazioni; la misura in cui certi fattori spiegano i
fenomeni è data dall’intero sistema di spiegazioni con cui descriviamo la natura del suo complesso
e della misura in cui le parti di tale sistema risultano coerenti fra loro.

Spiegazione causale
La spiegazione scientifica non consiste solo nell’indicare, a seconda dei modelli, le cause le leggi ecc. dei
fenomeni naturali ma anche nel procedere in modo riduzionistico dai fenomeni macroscopici osservati ai
loro costituenti non direttamente osservati.
La spiegazione scientifica viene ridotta a solo 2 tipi di spiegazione, quella causale e quella nomologico-
deduttiva e questo perché:
1- Nelle teorie come il cognitivismo e nelle neuroscienze lo studio della mente avviene all’interno di
teorie scientifiche.
2- La spiegazione scientifica della mente nel cognitivismo e nelle neuroscienze è fondamentalmente di
tipo causale.
3- In alternativa alla spiegazione causale vi è la spiegazione controfattuale. La concezione della causa e
quella essenzialmente controfattuale danno luogo a due distinte posizioni ontologiche.
Ci sono infatti dei contesti in cui è comune spiegare la mente in maniera causale e quindi c’è anche una
certa causa della mente in relazione ad un determinato movimento.
In alternativa alla spiegazione causale c’è quella controfattuale.
La spiegazione causale viene detta anche ontologica e si basa sull’idea di causa, la spiegazione nomologico-
deduttiva si basa sul condizionale controfattuale che è un modo specifico di costruire le spiegazioni.
Tutto ciò che è identificato come causale e quindi strutturo nella mia mente come legato a qualcos’altro,
utilizza un dizionario generativo perché nell’idea di causalità c’è il fatto che la causa produce un effetto.
Questo è importante perché ci sono delle teorie relative alla mente, soprattutto il cognitivismo, che
ritengono che le relazioni tra soggetto e ambiente si fondino su rapporti causali.
Secondo il cognitivismo, essendo la conoscenza sempre mediata, è fondamentale il concetto di esperienza:
infatti, da un lato lo sviluppo cognitivo risulta dall’elaborazione della conoscenza percettivo-concettuale del
mondo e dall’altro quest’ultima si realizza nelle attività esecutive.
L’idea della causalità è stata strutturata da Aristotele e le 4 sostanze con cui spiega la natura delle cose e il
divenire sono la causa formale, la causa materiale, la causa efficiente e la causa finale.
Noi spiegheremo la causa efficiente.

Causalità ontologica
La causa è una relazione non riflessiva e non simmetrica nel senso che la causalità mette in relazione due o
più elementi ma nulla causa se stesso.
La causalità non è nemmeno transitiva poiché se andiamo ad analizzare un fenomeno la causa che fa
accadere qualcosa è diversa da quella che fa accadere un’altra cosa: ad esempio nel caso del domino, ciò
che fa cadere la seconda tessera è diverso da ciò che fa cadere la terza e così via.
Se A causa B e B causa C, la relazione che lega A e B è diversa da quella che lega B e C perché gli enti da
mettere in relazione sono diversi.
Questo modo di leggere i fenomeni viene interpretata come una relazione reale tra fatti o eventi e quindi la
causalità ontologica viene concepita come una relazione reale, quindi la spiegazione ontologico causale è
una forma di realismo che non va giustificata in quanto è una nozione primitiva, cioè reale e basata
sull’esperienza; non è un qualia ma è qualcosa che possono fare tutti (a domino possono giocarci tutti).
L’esperienza può essere:
11. Diretta  riguarda sia ciò che viene agito sia ciò che riguarda solo indirettamente il soggetto
12. Mediata  il soggetto avrà esperienza di alcune cause, esperienza che poi viene proiettata sul resto

Nella causalità ontologica due termini molto importanti sono testimonianza ed esperienza.
Soprattutto nell’esperienza indiretta molto spesso ci fidiamo della testimonianza di qualcuno, ad esempio
nessuno di noi ha esperienza diretta di un singolo elettrone ma comunque crediamo per testimonianza di
una comunità scientifica.
Credere per testimonianza significa anche credere per esperienza diretta o indiretta; in questa prospettiva
devo avere anche esperienza della relazione reale tra fatti e se non io qualcuno che lo fa per me (ad
esempio lo scienziato).
Per poter dominare tutti questi aspetti, nella nostra idea di spiegazione occorre dividere un explanans da un
explanandum:
 Explanans  ciò che permette la spiegazione e quindi l’individuazione delle cause
 Explanandum  ciò che deve essere spiegato perché solo spiegandolo si ha una conoscenza piena

Questo sembra specifico della scienza poiché la scienza cerca di capire le cause e universalizza questo modo
di ragionare.
Causa o legge?
Se scompongo la natura nei suoi elementi più essenziali e cerco di seguire il loro comportamento, posso
anche immaginare un modo per metterli in ordine diverso da quello che vedo; quando andiamo a
descrivere le leggi della natura in un certo modo, cerco di individuare quel comportamento che si ripropone
costantemente e che in genere chiamo legge ma che impropriamente chiamo causa.
Il problema di fondo è decidere se quella che io chiamo causa di un fenomeno, espressa dentro una legge,
mi stia dicendo il reale comportamento della natura o no.
La legge è ciò che mi dà una norma; le cause che vengono esplicitate dentro una legge scientifica mi dicono
come deve essere la natura ma la natura potrebbe essere in un altro modo?
La legge non dice come deve comportarsi la natura, al massimo descrive come si comporta la natura ma
soprattutto la legge è una generalizzazione che dipende dalla molteplicità dei fenomeni che ho osservato.
Nel caso in cui si verifichino le stesse condizioni al contorno, allora si può determinare un comportamento
sintetizzabile in una legge.
Alcuni fenomeni sono così regolari
o Perché oltre ad avere alcune caratteristiche in comune (universali o tropi, …) hanno anche le stesse
disposizioni
o Perché le cause esprimono il vincolo che si determina tra due universali (la legge si esprime nei
particolari, ma i vincoli sono tra universali).

Nello spiegare, che rapporto c’è tra le cause e gli elementi che vengono individuati e che sono messi in
relazione da queste cause? Le cause individuano i componenti della realtà: e se fossero infiniti? Allora
anche le spiegazioni dovrebbero essere infinite…
La legge è una generalizzazione effettuata sulla base dell’esperienza di cause particolari; non occupa un
posto privilegiato nella tavola delle categorie, non è una entità.
Quindi la generalizzazione ci mostra le componenti causali ma dobbiamo giustificarle.
Contro questo modo di pensare ci sono i teorici del ragionamento nomologico-deduttivo.
Secondo questi teorici ciò di cui faccio esperienza è la successione e la contiguità, cioè che le due tessere
devono essere vicine e devono essere successive nel tempo della caduta.

La causalità humeana
Hume riprende alcuni argomenti degli scettici e li rende più radicali; il suo è infatti un empirismo radicale,
nel senso che l’esperienza è l’unico vero elemento che può garantire la conoscenza solo che si fa sempre
un’esperienza hic et nunc.
L’empirismo radicale è una sorta di fenomenismo in quanto si studia il fenomeno, si studia il succedersi
degli elementi del fenomeno e considero il fenomeno solo come appare alla mia esperienza o a quella di
altri che reputo credibili; il sole sorge tutti i giorni, ogni 24 ore e quindi reputo che il ripetersi dei moti
celesti determina il sorgere del sole ma la spiegazione ontologica che si basa sulla causalità potrebbe
dipendere dalla temporalità in cui si verificano i fenomeni?
Più profonda della causa in realtà e la successione temporale che lega causa ed effetto; ciò che è veramente
determinante è la concezione del tempo.
La nozione di causalità secondo Hume non è intellegibile, lo sembra poiché sta nell’abitudine a pensare che
il mondo si ripeterà sempre in quel modo; la causalità quindi è la struttura del tempo in cui inserisco il
modo di fare i fenomeni.
Questo apre ad un’altra questione: cosa unisce nel tempo le entità?
Il tempo è tale da far recepire gli eventi sempre nello stesso modo; ogni fenomeno è fissato in una
posizione temporale senza che ci sia bisogno che divenga nel tempo.
Il calcio al pallone esiste indipendentemente dal divenire e dalla successione di piede-colpo-pallone. I
singoli momenti sono fissati, non mutano, mantengono la loro posizione nel tempo → la causa, pertanto,
non genera l’effetto ma collego ciò che avviene in successione secondo Hume.
Il tempo è un contenitore in cui ogni istante può essere fissato  eternismo.
La successione nel tempo esiste prima dei fenomeni.
Da una parte c’è la spiegazione ontologica per cui è come se i fenomeni stiano fuori dalla nostra mente ma
noi li conosciamo perché c’è una connessione causale reale e la mia conoscenza attinge a quel legame
causale; dall’altra invece non ci interessa sapere se il fenomeno sta all’esterno della mente o meno ma
conosco quando capisco il modo più generale possibile per giustificare il ripetersi dei fenomeni di cui ho
esperienza grazie all’abitudine.
Sono sempre spiegazioni ma sono collegate a due categorie diverse, la prima si rifà alla concezione di causa
mentre la seconda implica l’abitudine e la concezione di tempo.

Che tipo di tempo occupa il nesso causale?


Il nesso causale deve essere identificato nella realtà proprio perché dovrebbe collegare ciò che viene prima
a ciò che viene dopo ma ciò che viene dopo non c’è ancora in quanto se io do il calcio al pallone, all’inizio
c’è il pallone ma non il pallone calciato.
Il nesso causale quindi serve proprio a creare delle astrazioni in grado di mettere in relazioni due entità;
occupa sicuramente uno spazio e un tempo senza però essere esso stesso una relazione temporale, ma
quale?
Anche per un eternista il nesso causale non accade con la causa, né con l’effetto.
Non c’è il nesso causale nel pallone prima di essere calciato, né dopo il calcio, né tra il pallone fermo e il
pallone in movimento (altrimenti sussisterebbe indipendentemente dal pallone e dal calcio).
Hume utilizza il termine “epagoghè”, tradotto con induzione, per indicare l’arte del rendere generali delle
conoscenze particolari; quando parliamo di induzione la consideriamo un metodo dimostrativo.
Il problema di Hume era che la capacità di poter generalizzare sui particolari derivasse dal fatto che le
nostre credenze derivano da abitudini ed è questa abitudine che ci fa pensare che la nostra ragione è tale
da farci cogliere le cause  questo però è un assunto psicologico che ci fa credere che la natura è uniforme
e che cause simili possono avere effetti simili.
L’assunzione psicologica però non basta a giustificare la giustificazione logica e quindi ci mettiamo sempre
in discussione.
Il problema di questo principio è che l’induzione funziona, ad esempio è vero che il sole sorge ogni giorno e
bisognerebbe verificare ogni volta che le stesse cause producono effetti diversi ma ciò non accade; siccome
sembra che ogni volta si ripetono quelle cause e quegli effetti pensiamo che cause simili producono effetti
simili.
È come se io assumo il principio di uniformità della natura e vado a trovare che cause simili producono
effetti simili; se vado a studiare il rapporto tra cause ed effetti questa cosa non si smentisce mai e quindi
potrei dire che il principio di uniformità della natura si basa sull’idea che cause simili producono effetti simili
ma così non se ne esce.
Una critica del genere non si può chiamare critica ontologica.
Né la concezione ontologica né quella nomologica riescono ad uscire da questo circolo vizioso; nella
concezione ontologica si vanno ad esperire le cause e quindi nella testimonianza si trasmette questo
significato, nella concezione nomologica c’è l’esperienza della regolarità.
Se nella concezione ontologica c’è la categoria di causa, fondamentale per produrre le spiegazioni, dall’altra
c’è la regolarità ma qual è il tipo di astrazione che serve per costruire una spiegazione nomologico-
deduttiva?
I controfattuali e la spiegazione nomologico-deduttiva
Noi partiamo dalla spiegazione causale e giungiamo generalmente ad interpretarla come una
determinazione reale (la causa è connessa con la realtà); per ottenere una generalizzazione occorre
utilizzare i controfattuali, cioè dei modi di ragionare molto presenti nella scienza.
Il ripetersi regolare di alcune cose non può essere una legge, ci devono essere dei criteri di scelta nel senso
che alcuni fenomeni possono dare una legge e altri no.
Dobbiamo quindi trasformare le cause in regolarità e per farlo utilizziamo i controfattuali.
Immaginiamo di vivere senza il concetto di causa, dovendo definirlo bisogna ricorrere ad altri concetti e
dunque il concetto di causa non dovrebbe essere primitivo:
 Definizione 1  Evento/fatto f causa un evento e se e solo se:
o (a) f precede e ed è contiguo ad e
o (b) f ed e sono eventi di tipo T1 e T2, tali che T2 segue sempre da T1
Gli eventi devono essere tra loro distinti e qui interviene il problema del tempo.
 Definizione 2  f causa un evento e se e solo se:
o (a) f ed e sono eventi del tutto distinti
o (b) f precede e ed è contiguo ad e
o (c) f ed e sono eventi di tipo T1 e T2, tali che T2 segue sempre da T1 sono eventi di tipo T1 e
T2, tali che T2 segue sempre da T1
E quindi la conclusione è che se f non fosse accaduto, allora e non sarebbe accaduto.
Noi ragioniamo sempre così: questo fa sì che si insinua nel nostro modo di costruire la conoscenza
un atteggiamento chiamato controfattuale, ovvero mettersi in un’ottica per cui ciò che è accaduto è
accaduto perché è frutto di una catena causale che dipende dal passo precedente.

Anche nella concezione ontologico-causale c’è una controfattualità in quanto siamo comunque portati a
dire che se f non fosse accaduto allora nemmeno e sarebbe accaduto; questo perché il realista va a
chiamare in causa le disposizioni.
Il sostenitore della spiegazione nomologico-deduttiva vuole dimostrare che la causalità non è un concetto
primitivo e quindi inciampa nella controfattualità.
Ragionando per controfattualità ci rendiamo conto che almeno all’interno della scienza, questa è legata alle
leggi di natura, ovvero delle generalizzazioni che devono essere contestualizzate bene perché la causa non
è una relazione e quindi la legge non esprime la causa ma ci dà semplicemente un legame condizionale (se
accade questo, allora quest’altro) e coordina degli eventi rispetto ai quali si ragiona per correlazione.
Quando si ragiona in un’ottica controfattuale sembra che andiamo a scomodare le leggi di natura ma
queste non esistono come necessarie dentro la natura, siamo noi che costruiamo queste connessioni.
Dalla causa, tramite ragionamenti controfattuali, si passa a rapporti di determinazione definiti come
possibili condizioni di verità perché bisogna sempre vedere il contesto in cui ci troviamo: ad esempio è vero
che mettendo un piede davanti all’altro posso arrivare a fare una camminata ma questo accade solo se
siamo sulla terra, sulla luna questo non accade perché non siamo in grado di camminare.
La causa diventa il legame all’interno di un mondo possibile.
Nella prospettiva nomologica si hanno delle condizioni che se si verificano danno luogo a dei legami, non
c’è causa; si può quindi smentire l’idea che cause simili producono effetti simili perché se cambio il contesto
o le leggi di natura, cambia anche il legame tra cause simili ed effetti simili.

Modello di legge di copertura di Hempel


In generale si passa dalla causa all’idea di legge, dalla legge alla generalizzazione e dalla generalizzazione
all’idea di condizioni; chi sostiene la concezione nomologica sembra essere libero da questi vincoli
ontologici: si dice che la spiegazione nomologica può vincolare fenomeni che la spiegazione causale non
può vincolare, cioè se la causa non è espressa tramite la legge, allora quando spiego non devo esprimere la
causa ma sto semplicemente individuando le condizioni che determinano quel nesso.
Hempel ha reso standard la spiegazione nomologico-deduttiva e parlava di modello a legge di copertura: si
può individuare la legge e dunque ciò che esprime le regolarità che però devono poter essere effettive
dentro le condizioni del fatto che si sta spiegando.
L’explanandum diventa la somma della legge e delle condizioni particolari.
Si parla di copertura perché è come se delle infinite possibilità che si potrebbero determinare, la
spiegazione va a coprire soltanto quelle specifiche che servono ma le possibilità le ho coperte tutte perchè
grazie alle condizioni che ho posto, rendo specificatamente efficace quella spiegazione e quindi la
spiegazione nomologica-deduttiva permette di fare i conti con fenomeni che possono anche andare fuori
dall’approccio causale classico.

Le condizioni
I principali di condizioni sono:
1. Causa necessaria  p è causa necessaria di q se e solo se, se p non esiste allora q non esiste ma p
può esistere senza che esista q.
Una causa è necessaria quando alla sua assenza segue l’assenza dell’effetto ma non è detto che la
sua presenza implichi la presenza dell’effetto; ad esempio il virus SARS-Cov 2 è causa necessaria
della malattia Covid-19 ma non è detto che chi è positivo al virus SARS-Cov2 abbia sintomi della
Covid19.
2. Causa sufficiente  p è causa sufficiente di q se e solo se, se esiste p allora allora esiste q ma q
potrebbe esistere anche se p non esistesse.
Una causa è sufficiente quando alla sua presenza segue l’esistenza dell’effetto ma non è detto che
in sua assenza, quello che viene considerato l’effetto, non sia comunque presente; ad esempio Se il
treno viaggia puntuale, arrivo puntuale ma potrei arrivare puntuale anche se non avessi viaggiato in
treno.
3. Causa necessaria e sufficiente  p è causa necessaria e sufficiente di q, se e solo se all’esistenza di
p segue l’esistenza di q e all’inesistenza di p l’inesistenza di q.
Una causa senza la quale non si attua il relativo effetto e il cui effetto è prodotto solo dalla causa in
questione è detta causa necessaria e sufficiente; ad esempio se e solo se nella mia macchina nuova
a benzina ho messo un po’ di benzina la macchina parte.

Se conoscessimo solo cause sufficienti non potremmo mai stabilire e predire se, in assenza della causa
efficiente, l’effetto si realizzerebbe o meno.
Quando si parla di cause necessarie non ci si riferisce alla relazione causale ma a uno dei suoi termini. Se si
sposa la concezione ontologica della causalità la definizione di causa necessaria va precisata. In questa
prospettiva per definizione una causa è sempre efficiente, cioè capace di produrre un effetto.
Diversa è la situazione con la causalità nomologica in cui non occorre fare aggiunte. In questo caso le cause
non sono tali solo se si attua una certa relazione ma se valgono specifiche condizioni di verità.
Sono state fatte delle obiezioni ai due tipi di spiegazione, quella causale e quella nomologica-deduttiva.

Potrebbero piacerti anche