La filosofia non ha un criterio per distinguere inequivocabilmente il vero dal falso, diversamente dalla scienza. Il tribunale della ragione dovrà chiarire le possibilità e i limiti della conoscenza umana. Dovrà indagare le fonti da cui la ragione puo derivare le sue nozioni e i confini del suo raggio d’azione. Quindi la ragione non è solo il giudice ma anche l’imputato. I giudizi del sapere scientifico Alla domanda “è possibile una metafisica come scienza?” possiamo rispondere che gli esiti prodotti fin ora dalla stessa sono insufficienti e discutibili. Le proposizioni della scienza sono dette “giudizi” perchè costituite da un soggetto e un predicato “pensare è giudicare”. I giudizi analitici sono quelli in cui il predicato è gia contenuto nel soggetto come ad esempio “tutti i corpi sono estesi”: sono giudizi rigorosi a priori, il loro contenuto non deriva dall’esperienza. Sono dotati dei catratteri della necessita e universalità e privi di novità, perché il predicato non aggiunge niente di nuovo al concetto implicito nel soggetto. Invece i giudizi sintetici sono quelli in cui il predicato aggiunge un nuovo contenuto: “i corpi sono pesanti”, si tratta di un’estensione della conoscenza, ma non della garanzia della sua necessità e universalità in quanto sono giudizi che dipendono interamente dall’esperienza, quindi, a posteriori. I giudizi sintetici a priori I giudizi analitici a priori erano tipici del pensiero razionalista che pretendeva di dedurre tutta il sapere dalle idee innate, quelli sintetici a posteriori invece, erano tipici dell’empirismo e si basavano sull’esperienza. Il terzo tipo di giudizio introdotto dal filosofo è quello “sintetico a priori”. In questo genere di giudizio il rigore matematico (universalità e necessita) si coniuga con la conoscenza derivante dall’esperienza. Ad esempio 7+5= 12 è sempre valido, fecondo di conoscenza (il risultato 12 è ottenuto, non per via analitica cioè a priori, ma per via sintetica, aggiungendo al 5 il 7. La matematica e le scienze sono conoscenze valide proprio perche usano giudizi sintetici a priori. I due aspetti della conoscenza I giudizi sintetici a priori attingono la loro validità (il loro carattere universale e necessario) dal soggetto, nella conoscenza possiamo distinguere l’aspetto materiale (costituito dalle impressioni sensibili derivanti dall’esperienza, cioè gli elementi a posteriori) e l’aspetto formale (costituito dalle forme a priori con cui la mente umana ordina tali impressioni). Le forme a priori garantiscono la validità della scienza perché rappresentano il modo universale con cui gli uomini percepiscono la realtà. La rivoluzione copernicana Nella tradizione si riteneva che fosse la mente a doversi adeguare alla realtà ricevendo passivamente i dati dall’esperienza. Ora la realtà si deve adeguare alle facoltà umane attraverso cui viene percepita. Kant ha operato un’ analoga rivoluzione di quella che hai tempi aveva compiuto Copernico: aveva ipotizzato che la terra ruotasse attorno al sole, così Kant ha spostato l’attenzione sul soggetto,riconoscendo il suo ruolo attivo nei confronti dell’oggetto. Il soggetto e le sue facoltà intellettive influiscono sul modo in cui gli oggetti vengono compresi e concorrono attivamente alla costituzione della conoscenza. Le categorie a priori della conoscenza umana presenti nel nostro intelletto intervengono a plasmare la rappresentazione del mondo esterno. Il concetto di trascendentale Riguarda la domanda su come siano possibili i giudizi sintetici a priori o su come sia possibile la conoscenza scientifica. Trascendentale è quella conoscenza che si occupa del nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo dev’essere possibile a priori. Il trascendentale quindi non si occupa degli oggetti o del loro essere, cioè delle loro proprietà ontologiche, ma delle loro condizioni di conoscibilità che rendono possibile la costituzione del mondo fenomenico (?). La struttura della critica della ragion pura La critica della ragion pura è suddivisa in due parti: dottrina degli elementi (procede alla scomposizione della ragione nelle sue parti fondamentali, elementi puri o a priori del conoscere); la dottrina del metodo (si riferisce al metodo di applicazione dei suddetti elementi). La dottrina degli elementi si divide: Estetica trascendentale, che analizza la conoscenza sensibile e le sue forme a priori; Logica trascendentale studia il pensiero e le sue regole. La logica trascendentale si divide a sua volta in analitica trascendentale, che ha come oggetto specifico gli elementi di base dell’intelletto puro (che viene considerato a prescindere dalla situazione empirica in cui opera), e Dialettica trascendentale, che ha come oggetto la facoltà della ragione e i suoi principi. Queste ripartizioni hanno come oggetto il modo in cui le singole facoltà (sensibilità, intelletto e ragione) esercitano il loro potere conoscitivo. L’estetica trascendentale Secondo il filosofo ogni conoscenza inizia con l’esperienza, la percezione degli oggetti da parte dei sensi. “Estetica” utilizzato nel suo significato originale è= a sensazione. La sensibilità è passiva in quanto riceve dall’esperienza dei dati, attiva perché organizza i dati nello spazio e nel tempo (a priori). È grazie allo spazio che le cose risultano collocate una accanto all’altro. Lo spazio è innato in noi, a priori e quindi la possediamo prima di ogni percezione di un oggetto. Attraverso il tempo abbiamo l’intuizione della successione degli eventi sia interni ed esterni. Anch’esso innato in noi. Il tempo rappresenta il fondamento dei nostri stati interiore e in virtù del quale li percepiamo uno dopo l’altro. Il tempo è più importante dello spazio in quanto fa riferimento ai fenomeni interni, oltre che a quelli esterni. Ad esempio su di esso si fonda anche l’aritmetica, che è l’intuizione della successione degli elementi, cosi come degli eventi per quanto riguarda il tempo. L’analitica trascendentale L’attività sintetica dell’intelletto Per ottenere una conoscenza autentica bisogna indagare il pensiero, costituito: da intelletto e ragione. L’intelletto ci permette di unificare gli oggetti intuiti sotto le rappresentazioni comuni: i concetti (quello di corpo, sotto cui vengono unificate le cose materiali). Solo così possiamo superare la conoscenza imprecisa della sensazione per arrivare ad una universale. Sensibilità e intelletto sono indissociabili: senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, senza intelletto nessun oggetto sarebbe pensato. Senza l’ausilio dell’intelletto siamo in possesso di una serie di sensazioni incoerenti e a sua volta senza sensazioni il pensiero risulta vuoto e fine a se stesso, perché senza quest’ultimo non possiamo unficare alcun dato. La facoltà di giudicare Abbiamo due tipi di giudizi: empirici (derivano dall’esperienza, sintetici a posteriori) e puri (contenuti a priori dell’intelletto, sintetici a priori: mate e fisica). Questi ultimi sono funzioni ordinatrici dell’intelletto, attraverso cui la mente unifica il materiale offerto dalla conoscenza sensibile. I concetti puri sono definiti anche “categorie”. Kant le assume per rappresentare i modi possibili di formulazione dei giudizi. La tavola delle categorie di Kant è formata da dodici concetti puri raggruppati in 4 classi: quantità e qualità (classi matematiche, si riferiscono alla concettualizzazione quantitativa e qualitativa degli oggetti dall’intuizione); relazione e modalità (classi dinamiche, in quanto determinano il tipo di esistenza degli oggetti, in base alla relazione che hanno col soggetto). Nella tabella abbiamo la possibilità di formulare tutte le forme di giudizio possibili: circa il numero delle cose, ad esempio, ci basterà basarci sulla categoria delle quantità; se vogliamo negare o affermare qualcosa, sulla qualità; sulla modalità se vogliamo esprimere un giudizio circa la possibilità o meno di una cosa, sulla sua esistenza o no. In pratica abbiamo tutto il repertorio di concetti puri di cui l’intelletto si serve. Giustificazione delle categorie, del processo cognitivo Per quanto riguarda la sensibilità non è necessario per Kant giustificare il suo metodo, in quanto non esistono oggetti dell’esperienza che non siano collogati in spazio e tempo. Ma Kant deve però dare risposta alla domanda: cosa giustifica l’applicazione delle categorie ai dati dell’esperienza? Kant utilizza la deduzione trascendentale: sul piano giuridico rende leggittima (universale e oggettiva) una pretesa di fatto. In poche parole una cosa che viene utilizzata costantemente, seppur non facendoci caso diventa leggittima. In questo modo Kant giustifica l’applicazione delle categorie dell’intelletto ai fenomeni naturali. L’io penso L’io penso è il fondamento della conoscenza, attraverso questo possiamo ricondurre il processo cognitivo ad un soggetto, altrimenti sarebbe frammentato nelle varie rappresentazioni. Ovviamente l’io penso è una struttura mentale universale, senza cui non potrei definire mie le rappresentazioni che mi si pongono davanti. Viene anche considerato una sorta di autocoscienza, in quanto implíca la consapevolezza di un io a cui tutte le rappresentazioni fanno capo. L’io penso esplica la sua funzione attraverso i giudizi, che si rifanno alle categorie (realta non puo essere pensata senza queste). Le categorie sono legittimamente applicate agli oggetti, perché altrimenti tali oggetti non sarebbero possibili. In conclusione solo con l’io penso e le categorie è possibile il mondo dell’esperienza umana (mondo pensato e categorizzato, è l’unico esistente per l’uomo). Bisogna però dire che essendo le categorie forme soggettive del pensiero, senza l’io non sarebbe possibile il fondamento su principi universali. Inoltre l’io penso ha funzione “ordinatrice” sulla natura, senza l’io la natura non potrebbe essere conosciuta né pensata, di conseguenza la natura sottosta alle categorie. La distinzione tra fenomeno e noumeno Il fenomeno è ciò che appare al soggetto in funzione delle sue facoltà conoscitive. Infatti aldilà dell’ambito fenomenico non è possibile nessuna conoscienze, perché l’intelletto non potrebbe esercitare la sua funzione sintetizzatrice. Il noumeno è la realtà in sé, oltre il mondo fenomenico. Questa può essere concepita come pensabile dalla ragione, ma non conoscibile, perché non può diventare oggetto delle facoltà conoscitive (sensibilità e intelletto). Perché bisogna ammettere qualcosa che non è conoscibile? Perché la cosa in sé rappresenta l’antidoto consterò la tentazione della ragione di varcare le soglie dell’esperienza ed erigersi a libera forza creatrice dei propri oggetti. La cosa in sé è un limite invalicabile dalla scienza. Il tentativo di oltrepassare tale confine può portare a contraddizioni e paradossi. LA DIALETTICA TRASCENDENTALE L’ambizione della ragione L’idea di anima è la totalità dei dati interiori, tutti i dati del senso esterno vengono unificati sotto l’idea di mondo (totalità dei fenomeni esterni). Tutti i fenomeni, invece, vengono unificati sotto l’idea di Dio, totalità assoluta. Come abbiamo visto la ragione non può giustificare l’immortalità dell’anima, né l’esistenza di Dio, perché altrimenti abbandonerebbe il terreno sicuro dell’esperienza. Queste sono cose che l’uomo non può conoscere ma solo pensare. La conoscenza, infatti richiede: l’intuizione sensibile e il concetto, attraverso cui l’oggetto è dato e ricondotto a un’unità superiore grazie alle catogorie dell’intelletto. Il pensare è possibile anche in mancanza dell’intuizione sensibile, è il caso della metafisica, non puo essere conosciuta. Oltre l’esperienza si pone il noumeno, che non potra mai diventare oggetto della nostra intuizione sensibile. La metafisica è lo sforzo di andare oltre l’esperienza. Il desiderio dell’uomo di attingere all’assoluto è normale. Infatti il termine ragione viene attribuito da Kant alla facoltà che insegue tale sogno. Sono idee trascendentali i concetti puri della ragione: anima, dio… di cui la ragione si serve per unificare la totalità dei dati dell’esperienza. Nella Dialettica Trascendentale Kant si riferisce alla dialettica come un’arte sofistica che conferisce alle illusioni l’aspetto della realtà. In questa sezione alla metafisica viene negata la possibilità di essere considerata scienza.
La critica dell’idea di anima
L’idea di anima come sostanza spirituale e immortale, tipica della tradizione razionale, considerava L’Unità della coscienza come una res, un’entità. Per Kant L’Unità della coscienza è l’io penso. E attribuire all’io la caratteristica di “sostanza” significa tradire luso delle categorie, riferibili solo al mondo dell’esperienza e non applicabili - come nel caso dell’anima- a ciò che trascende questo limite. La critica dell’idea di cosmo Nel cercare di dimostrare l’esistenza di un “cosmo” la ragione si blocca in delle antinomie (contrasto di leggi, contraddizione), costituite da affermazioni contrastanti: Il mondo è limitato nello spazio e nel tempo; Il mondo non ha limiti né di spazio né tempo. La ragione cade nell’errore quando pretende di raggiungere una spiegazione globale di ciò che esiste, la totalità della realtà non può essere oggetto di un’esperienza possibile per l’uomo, che può sperimentare solo un certo numero di fenomeni. La critica dell’idea di Dio La celebre prova ontologica dimostra, partendo dell’idea di dio come essere perfetto, che deve esistere necessariamente perche altrimenti non sarebbe perfetto. L’esistenza non è un predicato (non è una proprietà logica) ma una determinazione della cose, in quanto tale si aggiunge al concetto del soggetto e lo accresce. L’esistenza non è inclusa nel concetto di una cosa, che è un fatto che si puo affermare solo grazie all’esperienza. Inoltre Kant demolisce la prova cosmologia: dio esiste perché esistono gli enti, il cosmo. Non si può fare tale uso del concetto di causa. La causa puo essere utilizzata sono per fenomeni che fanno parte dell’esperienza. E non per collegare dio che trascende il mondo fenomenico. Inoltre Dio viene giustificato anche dall’ordine e bellezza del mondo, secondo cui esiste un dio ordinatore causa di tale bellezza. Intanto rientra nella critica all’uso improprio di “causa”. Secondo poi: questa armonia, ordine e bellezza può anche essere causa della natura stessa e delle sue leggi interne. La funzione regolativa della ragione L’anima, il mondo e dio sono impossibili. Ma l’uomo può aspirare ad una maggiore perfezione in tutti i campi. Ci consentono di tendere all’ideale di completezza e unità che esse stesse incarnano. Sono delle meravogliose illusioni, che però trascendendo il mondo fenomenico, vanno rifiutate. CRITICA ALLA RAGION PRATICA La legge morale come “fatto della ragione” Tradizionalmente la legge morale veniva basata sull’essenza dell’anima e di Dio. Kant però reputa queste idee illusorie. In quest’opera Kant esprime il suo pensiero. Una morale per Kant deve essere valida per tutti gli uomini e deve avere i caratteri della necessità. Secondo il filosofo nella ragione risiede una regola morale che guida le nostre azioni. Questa legge deve imporre i propri imperativi contrastando la sensibilità e gli impulsi egoistici dell’uomo. Nell’uomo vi è un equilibrio tra istinto e ragione: se si tendesse più da una parte o dall’altra verrebbe meno l’esigenza della morale, perche egli agirebbe sempre per istinto o rimarrebbe nella costante situazione di stantità. L’uomo è imperfetto e limitato, e la virtù risiede proprio nella lotta che deve sostenere per contrastare la sua natura sensibile, impegnandosi in un percorso etico che non potrà completare in questa vita.
Gli imperativi della ragione
La ragione viene condannata quando nell’uso teoretico si distacca dall’esperienza per inseguire le illusioni metafisiche, ma viene esaltata proprio per essere indipendente all’esperienza nell’uso pratico. Kant afferma che vi sono due tipi di principi della ragion pratica (volontà, regole razionali): le massime e gli imperativi. Le massime sono di carattere soggettivo, valide solo per l’individuo che le segue: moderarsi nel cibo o non fumare. Gli imperativi sono prescrizioni oggettive, che devono valere per tutti. Gli imperativi ipotetici hanno la forma del “se…allora…” prescrive un’azione in vista del raggiungimento di un fine determinato, non necessariamente condiviso da tutti. L’imperativo categorico è incondizionato, comanda un’azione a prescindere dal fine. La moralità quindi, per Kant deve essere libera dalle situazioni dell’esperienza, incondizionata e universale. Secondo Kant, se conduco una vita esemplare mirando a un fine determinato non adempio veramente al dovere morale. Fare qualcosa secondo il dovere, ma non per dovere non ha alcun significato morale. Inoltre è sbagliato associare l’etica alla ricerca della felicità. La felicità dipende da molti fattori empirici, quindi non puo rappresentare il motivo universale dell’agire morale. La virtù consiste nell’obbedire alla legge morale che impone il “tu devi” indipendentemente da qualsiasi implicazione o fine esteriore. Si tratta di impegnarsi nella legge morale senza altri condizionamenti. Il criterio dell’ universalizzazione è l’imperativo categorico Dall’etica del dovere nasce anche un dubbio: come capisco qual è il mio dovere? La risposta a questa domanda è il principio dell’universalizzazione visto che gli uomini sono esseri razionali, per sapere se l’azione è moralmente accettabile dobbiamo chiederci: “è opportuno che la mia azione sia generalizzata?”. Per sapere se ad esempio è giusto dire una menzogna, bisogna chiedersi: posso volere che tutti gli uomini mentano? Il mio comportamento può essere universalizzato? La regola che guida un comportamento può valere come principio morale solo se è universalizzabile. Un altro pensiero fondamentale di Kant è che l’uomo non può mai essere usato come mezzo per raggiungere uno scopo egoistico o i nostri desideri, questo vale anche nei confronti di se stessi. La volontà, che agisce in nome della legge morale, non può essere soggetta a un imperativo esterno che la rende schiava. Essa obbedisce solo a se stessa. La volontà è autolegislatrice, ciò significa che l’uomo è sia suddito e legislatore. Il rigorismo etico Se nell’uniformarci a una determinata norma etica, manca la convinzione, ricadiamo nel campo del diritto, legalità, non in quello dell’agire morale. L’etica infatti corrisponde allo spazio di responsabilità del soggetto. Non basta che un’azione sia compiuta nel rispetto della legge ma deve essere supportata dalla “volontà buona”. Questa volontà è indipendente dalle passioni, affetti, dai desideri ed è fondata sulla ragione depurata da qualsiasi commistione con la sensibilità. La volontà elimina dall’ambito dell’etica ogni riferimento a emozioni o sentimenti, tranne quello di rispetto della legge che deve prevalere su tutti. La morale serve a l’uomo per elevarsi sopra il sensibile e il naturale. Il principio dell’autonomia dell’azione morale non deve spingere l’uomo a negare la propria natura sensibile. L’essere umano: è sottomesso alle leggi della natura e sta dentro quell’ordine causale che regola il piano fenomenico; in quanto dotato di volontà è in contatto con il mondo noumenico della libertà. Kant quindi pone in primo piano il soggetto, individuando la volontà come fonte autonoma della legge morale. Solo la ragione umana nella sua incondizionatezza può fondare una morale indiscutibile e valida per tutti. Morale e religione Kant, al contrario della tradizione, afferma che la religione è fondata sulla morale, le sue dottrine (l’immortalità dell’anima e Dio) sono postulati della ragion pratica. I postulati sono delle proposizioni che anche non essendo dimostrabili devono essere ammesse come condizione della stessa esistenza e pensabilità della morale. La virtù è segno di quell’uomo che agisce per dovere, e che deve superare gli impulsi egoistici e i suoi desideri immediati, che gli darebbero felicità. Virtù e felicità quindi sono dimensioni perlopiù disgiunte. I postulati della ragion pratica Secondo Kant la soluzione al problema della felicità consiste nel postulare un Dio che la garantisca in un aldilà. Se non esistesse questa possibilità allora l’impegno etico dei “buoni” sarebbe vanificato. La morale postula come sua esigenza fondamentale l’esistenza di Dio. Onnisciente e onnipotente saprà assicurare la felicita in proporzione ai meriti (il sommo bene è sintesi di virtù e felicità, che si consegue nell’altra vita) Analogamente si deve postulare anche l’immortalità dell’anima: il sommo bene non può essere realizzato nel tempo limitato di questa vita terrena, si deve ammettere che l’uomo disponga di un tempo infinito dopo la morte, per arrivare ad esso. Kant non vuole dimostrare dio e l’anima razionalmente, ma riconoscere solo la loro necessità pratica. Accanto a questi due vi è anche il postulato della libertà. Senza presupporre l’esistenza dell’autonomia l’imperativo morale non avrebbe senso. L’imperativo categorico del “dovere” deve essere accompagnato dal “io posso”, bisogna poter realizzare ciò che esso ordina: “tu devi” e quindi “tu puoi”. Questo comando indica che l’uomo è libero di sottomettersi o meno alle sue prescrizioni. IL PROBLEMA ESTETICO DELLA CRITICA DEL GIUDIZIO Nella critica del giudizio kant analizza il “sentimento”. I giudizi del sentimento sono quelli riflettenti, che cioè si limitano a “riflettere" sull’oggetto già costruito, interpretandolo in base al principio della finalità. Questi giudizi possono essere a loro volta: estetici (riguardano il rapporto tra il soggetto e la rappresentazione dell’oggetto e ne valutano l’accordo); teologici (colgono l’ordine finalistico interno agli oggetti stessi) IL GIUDIZIO ESTETICO I giudizi riflettenti si limitano a riflettere sugli oggetti, a cui il sentimento si rivolge con lo scopo di valutare se essi suscitano o no un gradimento. Il giudizio estetico non riguarda l’oggetto in sé- la sua esistenza o il suo possesso- ma la rappresentazione di esso e il sentimento che suscita. Quello che mi viene chiesto, quando parliamo di tale giudizio è se la rappresentazione dell’oggetto è accompagnata in me da piacere o no. Quindi qual è la mia valutazione puramente estetica. IL CARATTERE UNIVERSALE DEL BELLO Bisogna chiarire però che il giudizio di gusto, per Kant, è “quello che piace universalmente senza concetto” quindi il piacere condiviso tralasciando da questo le conoscenze. La bellezza secondo il filosofo è qualcosa che ognuno può intuire in modo immediato, pur non riuscendo a spiegarlo intellettualmente. Quando affermiamo che “questo fiore è bello” presupponiamo che su tale giudizio tutti devono essere d’accordo, senza poter accompagnare questo piacere da nessuna giustificazione. LA DISTINZIONE TRA IL PIACERE ESTETICO E I GUSTI PERSONALI Com'è possibile che una cosa sia giudicata bella da tutti? Bisogna distinguere il piano del piacere estetico e quello del piacevole. Quest’ultimo è quello che “piace ai sensi nella sensazione” e che dà origine a giudizi estetici “empirici”, che dipendono dai gusti personali. Quando parliamo di piacere estetico alludiamo un sentimento che deriva dall’immagine dell’oggetto che pretende l’universalità perché privo di condizionamenti esterni. La bellezza libera è quella che trascende l’influsso dell’esperienza, quella aderente comporta l’adesione a un determinato archetipo di “perfezione”. Qui il giudizio non è puro in quanto complicato da un certo parametro e considerazioni intellettuali o pratiche. LA LEGITTIMAZIONE DEI GIUDIZI ESTETICI PURI Riusciamo a giustificare l’universalità dei giudizi di piacere estetico grazie alla struttura mentale comune degli uomini. Tutti i soggetti possiedono un senso comune. È come se, di fronte a un oggetto bello, si avvertisse che si adatta perfettamente e spontaneamente alla nostra attitudine unificatrice e sintetica: l’oggetto sembra fatto apposta per noi. Visto che il senso comune è condiviso da tutti anche il piacere che ne deriva lo sarà. In conclusione il giudizio estetico è un giudizio di relazione, il soggetto cogliendo l’accordo con l’oggetto gli conferisce l’attribuzione di bellezza. IL SUBLIME Il sublime. È un sentimento che provoca una sorta di piacevole orrore, di fronte a qualcosa di sconvolgente della natura. Il sublime può essere: matematico e dinamico. Quello matematico ha per oggetto la grandezza della natura (la vastità del cielo); quello dinamico nasce di fronte alla potenza della natura (gli spaventosi terremoti o tempeste). Mentre il bello riguarda la forma dell’oggetto, che consiste nella sua limitatezza, il sublime provoca la rappresentazione dell’illimitatezza, perché si trova in qualcosa di indefinito e privo di forma. È quindi un sentimento serio e tremendo, un piacere negativo misto di meraviglia. La grandiosità e potenza dei fenomeni fanno sentire l’uomo stordito e spaventato, ma allo stesso tempo davanti all’immensità dell’universo, viene evocata in lui la consapevolezza della sua superiorità spirituale. Quindi l’uomo considera sublime lo spettacolo esteriore che lo affascina, in seguito riconosce in se stesso la grandezza attribuita all’oggetto: esalta la sua qualità di essere pensante depositario delle idee della ragione e della legge morale. CREAZIONE ARTISTICA E IL RUOLO DEL GENIO Sul piano della creazione Kant distingue: il fare dell’artigiano e quello artistico: il primo è un fare condizionato, vincolato alla produzione di oggetti che hanno finalità perlopiù pratiche; il secondo è libero. L’artista viene a configurarsi come un vro è proprio “genio”. Colui che stabilisce delle regole di cui l’arte deve essere dotata. Non si avrebbe tale arte se il talento del genio non imponesse all’attività quelle regole di cui ogni creazione artistica deve farsi portatrice. L’arte per Kant è liberta è per questo il genio non deve spiegazioni tecniche o scientifiche delle sue creazioni, che possono anche diventare stimolo per la nascita di altri geni, seppur non possano essere imitate né riprodotte. L’arte può anche essere considerata educativa, in quanto l’uomo riesce a fare proprie quelle idee originali e gli spunti creativi dell’artista semplicemente ammirando l’opera. IL GIUDIZIO TELEOLOGICO I giudizi teleologici rispondono alla domanda “che scopo ha?”. Se osservo la sezione di un occhio sono in difficoltà nel capire che cosa possano essere tutti i vari componenti, ma so per certo che l’occhio è fatto per vedere. Così come il cuore per pompare il sangue. C’è quindi un finalismo della natura, che non può essere considerato oggettivo. Infatti siamo noi uomini che riflettendo su una parte del corpo o sugli oggetti naturali in generale, gli doniamo uno scopo e un fine. IL VALORE REGOLATIVO DEL GIUDIZIO TELEOLOGICO Kant evidenzia la differenza tra un orologio e un organismo vivente. L’orologio è un meccanismo complesso, che non ha capacità autoregolatrice: una rotella non può crearne un’altra né un orologio può crearne un altro. Non sono in grado di riprodursi. Un albero, ad esempio, attraverso i semi ne crea un altro. Il mondo biologico non si esaurisce nella spiegazione mentalmente causale (meccanicistica), pur essendo l’unica scientificamente valida, è insufficiente quando si parla di organismi viventi. La teoleologia sfocia in una teologia perche gli uomini possono scoprire l’unica prova della dipendenza e dell’origine dell’universo da un essere che è fuori dal mondo e intelligente. Ma bisogna ricordare che il giudizio teleologico non ha un valore scientifico, ma riflette un modo soggettivo e inevitabile di rappresentare la realtà. Anche la teoria finalistica più dettagliata e complessa non potrebbe mai dimostrare l’esistenza di un ente intelligente creatore del mondo, che quindi risulta semplicemente un’esigenza dell’uomo.