Lugaresi
INDICE
1.Cos’è il diritto dell’ambiente
2.Caratteri del diritto dell’ambiente: Rapidità nell’affermazione del diritto dell’ambiente, Policentrismo,
Abbondanza di produzione normativa e Trasversalità del diritto dell’ambiente
Problematiche affrontate e teorie
3. La concezione pluralista e la concezione unitaria dell’ambiente
4. Ambiente come valore costituzionale
5. Evoluzione del diritto ambientale in ambito internazionale
Il diritto dell’ambiente in ambito comunitario
Accesso alle informazioni ambientali
6. Legge n.241/90
7. Legge n.349/86 e il decreto legislativo 39/97
Principi – guida comunitari in materia di politica ambientale
8. Principi – guida comunitari in materia di politica ambientale: lo sviluppo sostenibile
9. Principi – guida comunitari in materia di politica ambientale: Principio di integrazione e 10. Principio del “chi
inquina paga” (o “inquinatore pagatore”)
11. Principi – guida comunitari in materia di politica ambientale: Principio di prevenzione
12. Principi – guida comunitari in materia di politica ambientale: Principio di precauzione
13. La normativa ambientale di carattere trasversale e di carattere settoriale
14. Inquinamento atmosferico
15. La definizione di impianto per la normativa ambientale
16. Il guasto tecnico nella normativa ambientale
Inquinamento idrico
17. La Normativa sugli scarichi (d.lgs. 152/2006)
18. Sentenze della Terza Sezione della Cassazione Penale sugli scarichi
19. L’autorizzazione di uno scarico
20. Divieto di diluizione
21. Le sanzioni e il guasto tecnico riguardante lo scarico
CAP 1
Il diritto dell’ambiente comprende tutte le normative entrate in vigore per tutelare l’ambiente. Non è una materia
vera e propria perché si basa su strumenti di diritto amministrativo e di diritto penale; non sono chiari i confini di
questo diritto neanche per quanto riguarda il legislatore dato che non si prodiga in nessun luogo di dare una
definizione specifica di ambiente (in realtà adesso c’è una norma che cita una specie di definizione). Fino alla
riforma costituzionale del 2001 non si era parlato di ambiente nella Costituzione e, per quanto riguarda la
divisione delle competenze fra Stato ed Enti Locali, l’interpretazione maggioritaria le riteneva concorrenti.
Nel 2001 si è iniziato a parlare chiaramente di ambiente anche in Costituzione con l’introduzione del termine
nell’art 117: la materia sarebbe di competenza esclusivamente statale, secondo il legislatore costituzionale; a
rigore, quindi, le Regioni ne sarebbero totalmente escluse. Nel 2002, però, interviene la Corte Costituzionale
stravolgendo la suddetta impostazione: nella sent. n. 407/2002, i giudici della Corte affermano che sì esiste una
materia denominata “Tutela dell’ambiente” e che tale materia è di competenza esclusivamente statale, però è
come se una materia di questo genere non esistesse perché, di fatto, è difficile trovare una materia specifica
sull’ambiente.
Più precisamente, al suo interno ritroviamo una pluralità di materie, tra cui anche, per esempio, la Tutela della
salute e il Governo del territorio, due temi inseriti nel terzo comma del 117, e quindi intese come materia di
competenza concorrente fra Stato e Regioni. Quindi, in definitiva, anche per questa materia c’è la possibilità di
intervento da parte delle Regioni.
Il programma che andremo ad affrontare si sviluppa, a grandi linee, basandosi sui tre settori fondamentali del
diritto dell’ambiente: il tema dei rifiuti, la tutela delle acque e gestione degli scarichi e la tutela della’ria
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dall’inquinamento atmosferico. Per quanto riguarda il tema dei rifiuti, bisogna dimenticarsi i concetti tipici del
linguaggio comune. Il concetto di rifiuto è stato qui “inventato” per assoggettare ad un regime di controllo
specifico i materiali di cui un soggetto si disfa.
In realtà si è sviluppata una diatriba non indifferente, nata dallo scontro di due finalità poco conciliabili: una è
quella di evitare che i materiali possano essere gestiti da organi fuori controllo (nel momento stesso in cui un
materiale viene abbandonato diventa rifiuto, e come tale entra in un meccanismo di controllo); la seconda
esigenza è quella di non avere troppi vincoli e controlli perché questi inevitabilmente comportano un aumento
dei costi. La Corte di Cassazione ha, in una sua sentenza, definito di carattere generale la normativa in materia di
rifiuti, sancendo quindi la sua applicabilità ogni qualvolta non si possa applicare una normativa più specifica.
Altro tema importante è quello della tutela delle acque e gestione degli scarichi (lo scarico sarà il concetto
cardine dell’argomento). Nel caso in cui il rilascio di sostanze non possa essere qualificato come scarico, e quindi
non si possa applicare la relativa materia, bisogna applicare la normativa generale sui rifiuti: dal punto di vista
giuridico, quindi, uno stesso materiale può essere considerato in due modi diversi. Terza e ultima tematica
fondamentale del diritto dell’ambiente è quella della tutela dell’aria.
Si fa risalire la nascita del diritto dell’ambiente al 1941, in un lodo fra Stati Uniti e Canada.
Ci sono anche altri settori, oltre a quelli precedentemente nominati, sviluppatisi nel corso del tempo e che
riguardano altre forma di inquinamento (per esempio, l’inquinamento acustico o quello elettromagnetico). Altra
caratteristica del diritto dell’ambiente è quella del suo sviluppo in materia settoriale: si tratta, quindi, di
normative molto spalmate nei vari decenni.
A partire dalla fine degli anni ’80 l’Unione Europea ha acquisito competenze in questa materia: le norme in Italia
derivano proprio principalmente da lì.
Accanto alle normative settoriali esistono anche strumenti trasversali, per esempio la Valutazione di Impatto
Ambientale, che considera in un unico contesto tutti gli elementi senza prenderli separatamente. I due strumenti
che si ritrovano sono da un lato le autorizzazioni e i limiti o valori limite (o standard): per quanto riguarda le
prime, il concetto fondamentale è quello che prevede che un’attività inquinante non può essere intrapresa senza
un’autorizzazione; per quanto riguarda il secondo elemento, il legislatore ha dovuto individuare dei criteri per
decidere se un attività è lecita o no, criteri al di là dei quali l’inquinamento è illecito (per esempio, se il limite di
sostanze inquinanti da rilasciare in un fiume è di 10 mg/l, il mio scarico di 11 mg/l è illecito, quello di 9 mg/l invece
no, seppur vi sia comunque inquinamento).
Ultimamente, però, il legislatore si orienta verso strumenti più flessibili: per esempio, la normativa sulle bonifiche
prevedeva che un suolo è inquinato se si trovavano, ad esempio, 1 mg di idrocarburi in una determinata superficie
di terreno. Tale valore, però, è stato più o meno rilevante in relazione al caso concreto, tanto che la nuova
normativa prevede controlli caso per caso.
CAP 2
Caratteri del diritto dell’ambiente sono 4 e si riverberano in tutta la legislazione ambientale. Essi sono:
1. Rapidità nell’affermazione del diritto dell’ambiente: né la Costituzione né il Trattato CE contenevano
al proprio interno alcun cenno al diritto dell’ambiente. I primi atti di carattere programmatico e
normativo risalgono agli anni ’60-’70: gli USA, per esempio, adottano nel 1969 il NEPA (National
Environmental Policy Act, atto di natura federale). Anche la CE inizia ad interessarsi all’argomento, ma
senza attribuirsi alcuna competenza: elabora solo atti di natura programmatica, di cui il primo risale al
1973 (i seguenti saranno tutti a cadenza quinquennale). Da ricordare è l’istituzione del primo Ministero
dell’Ambiente, avvenuta in Giappone nel 1971 (in Italia si provvederà solamente nel 1986). Da noi il
primo embrione di legge ambientale può essere considerata la l. n. 615/1966, la cosiddetta Legge
antismog, rimasta in vigore con qualche periodica modifica fino al 2006. La seconda legge che si
preoccupa di trattare problemi di natura ambientale è la l. n. 318/1976 (Legge Merli), riguardante la
tutela delle acque dall’inquinamento idrico. Vi sarà infine il d.p.r. 915/1982 sui rifiuti che andrà, quindi,
a completare i 3 ambiti di cui si occupa la politica ambientale (acqua, aria rifiuti). Per cui l’affermazione
di un diritto ambientale è stata, diversamente da quanto accaduto in campo civilistico, rapidissima: si
è passati dal nulla al presunto tutto in poco più di 30 anni.
2. Policentrismo: le fonti di produzione del diritto dell’ambiente sono a diversi livelli: internazionale (con
trattati di carattere generale o specifico), comunitario, statale, regionale. C’è stata confusione perché
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il diritto dell’ambiente ha subito l’influenza di varie fonti non sempre coordinabili fra loro; negli ultimi
tempi questo inconveniente si è attenuato perché si è cominciato a recepire normative quasi
esclusivamente a livello comunitario (tramite le direttive): si è venuto ad affermare, quindi, un effetto
di razionalizzazione (in un certo senso unificante) del diritto dell’ambiente.
3. Abbondanza di produzione normativa: si diceva sopra della maniera rapidissima e dei diversi livelli su
cui il diritto dell’ambiente si è sviluppato; caratteristiche che han portato ad un’abbondanza normativa
in materia non sempre coordinabile. L’unico tentativo di riunire le norme in materia ambientale è
l’adozione del d. lgs. 152/2006, in attuazione della l. del. 308/2004. In realtà la legge delega prevedeva
l’adozione di diversi T.U., uno per ogni settore; la 152/2006, invece, non ha seguito tale indicazione.
Esso appare come una specie di Frankestein, assembla in sé tanti diversi pezzi molto diversi fra loro:
alla fine non è né un Codice, né un Testo Unico; si limita semplicemente ad operare un copia-incolla
delle vecchie normative, senza alcun riordino. Il d. lgs. 152/2006 si sviluppa in 6 sezioni:
Principi del diritto dell’ambiente (corretto dal d. lgs. 4 del 13 febbraio 2008);
Valutazione di impatto ambientale (VIA; per esempio, la costruzione di autostrade) e valutazione
ambientale specifica (VAS; ha gli stessi fini, ma riguarda atti di programmazione e di pianificazione, non
nuove opere)
Difesa del suolo e lotta alla desertificazione e tutela delle acque dall’inquinamento e gestione delle risorse
idriche: per quel che riguarda quest’ultimo punto, la tutela che si attua è non solo in senso qualitativo,
ma anche quantitativo (per esempio, i sistemi di risparmio della risorsa idrica). Lo strumento introdotto
già prima del decreto è il servizio idrico integrato: parte a disciplinare l’approvvigionamento idrico e
via via disciplina la fase di successiva dismissione delle acque utilizzate (fogne, etc…).
Gestione dei rifiuti e bonifica dei siti inquinati: la bonifica è una delle pochissime discipline che non è di
derivazione comunitaria; essa prevede prima un procedimento amministrativo che accerti
l’inquinamento di un determinato terreno, poi l’eventuale procedura di bonifica delle falde inquinate.
La previsioni normative ivi contenute hanno forti ricadute sul piano economico e giuridico: a
prescindere dal soggetto responsabile (peraltro difficilmente individuabile), grava sul fondo un onere
reale (che circola con la circolazione del terreno); l’attuale proprietario, quindi, se non colpevole e
acquirente del terreno inquinato, non sarà costretto a bonificarlo a proprie spese, ma dovrà consentirlo
alla P.A., che poi potrà rivalersi nei confronti del vero responsabile nei limiti del valore del fondo (che
comunque è sempre inferiore al costo della bonifica)
Tutela dell’aria e riduzione delle emissioni nell’atmosfera
Norme in materia di tutela risarcitoria sui danni provocati all’ambiente
1. Trasversalità del diritto dell’ambiente: in quest’ambito assume 2 diversi significati: trasversalità come
utilizzo strumenti tipici di altre branche del diritto (per esempio, diritto amministrativo) e trasversalità
come commistione fra strumenti giuridici e strumenti appartenenti ad altri ambiti del sapere (per
esempio, l’economia: si possono prevedere incentivi per chi introduce accorgimenti diretti a tutela
l’atmosfera). Le norme dell’ambiente devono, inoltre, evolversi per stare al passo con l’evoluzione
tecnico-scientifica: è questa la caratteristica più importante del diritto ambientale.
I principi-guida comunitari in materia di politica ambientale
L’emergere della “questione ambientale” è avvenuta con il progressivo aumento della sensibilità ambientale della
collettività: l’ambiente inizia ad essere visto come un valore etico, sociale, culturale, economico e giuridico. In
quanto tale poi, esso sarà commisurabile con altri valori, con i quali non potrà entrare in conflitto: la tutela
ambientale non può comprimere altri interessi parimenti meritevoli di tutela (cosiddetto bilanciamento dei
valori).
Sono stati elaborati dei principi-guida comunitari in materia di politica ambientale:
a) Principio di azione preventiva: è meglio intervenire prima ad evitare un danno piuttosto che rimediare dopo
ad una situazione ormai consolidata;
b) Principio di precauzione: mira ad adottare una tutela ancora più anticipata, per esempio in settori nei quali
non sono stati ancora raggiunti dei risultati scientifici (per esempio, OGM);
c) Principio del “chi inquina paga”: è ovvio che, per chi esercita un’attività imprenditoriale, è più facile e più
redditizio non curarsi del rispetto dell’ambiente; le conseguenze sociali ed economiche dell’inquinamento, però,
si riverserebbero in questo modo tutte sulla società. Per evitare, quindi, di far conseguire vantaggi economici a
chi inquina è stato elaborato questo principio;
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d) Principio dell’integrazione delle politiche ambientali nelle altre politiche comunitarie: in qualsiasi decisione
occorre considerare fin dall’inizio anche il problema della tutela ambientale (si parla di invertimento delle
politiche comunitarie);
e) Principio dello sviluppo sostenibile: il concetto di sviluppo sostenibile è automatico del passaggio dalla società
industriale (orientata esclusivamente allo sviluppo economico) alla società postindustriale, in cui nella coscienza
collettiva e nella cultura dominante non è più ritenuto accettabile uno sviluppo economico incurante delle sue
possibili ripercussioni negative sull’ecosistema. Potremmo rendere l’idea con uno schema:
2. Decreto legislativo 4/2008
Da ultimo, vediamo sommariamente le novità introdotte del d.lgs. 4/2008; questo, ha introdotto all’interno
dell’art. 3 d.lgs. 152/2006 altri 5 articoli:
Art. 3-bis, principi sulla produzione del diritto ambientale: la parte I contiene i principi generali in
materia ambientale vincolanti per l’adozione di atti normativi primari e secondari e modificabili solo
per espressa previsione di leggi successive, salva la garanzia del recepimento del diritto comunitario. I
principi generali in materia ambientale di cui alla parte I attuano gli artt. 2, 3, 9, 32, 41, 42 e 44,117
commi 1 e 3 Cost. e sono conformi al Trattato UE. La parola “ambiente” compare per la prima volta in
Costituzione, e in particolare all’art. 117, solamente dopo la riforma del Titolo V, avvenuta con la l. cost.
3/2001;
Art. 3-ter, principio dell’azione ambientale: la tutela dell’ambiente e del patrimonio naturale deve
essere garantita mediante un’adeguata azione da parte di tutti i soggetti dell’Ordinamento, pubblici o
privati, persone fisiche o giuridiche. I principi cui deve ispirarsi l’azione a tutela dell’ambiente sono
quelli di cui all’art. 174, co. 2 TUE (principio della precauzione, principio dell’azione preventiva,
correzione alla fonte dei danni all’ambiente, principio del “chi inquina paga”);
Art. 3-quater, principio dello sviluppo sostenibile: ogni attività giuridicamente rilevante (anche l’attività
discrezionale della P.A.) deve conformarsi al principio di sviluppo sostenibile, che contempera le
esigenze delle generazioni attuali con la garanzia della qualità della vita (si scrive vita, si legge
ambiente) e delle possibilità delle generazioni future (cosiddetta solidità intergenerazionale). Nelle
dinamiche della produzione si deve inserire l’esigenza di salvaguardare e, possibilmente, migliorare il
futuro;
Art. 3-quinquies, principi si sussidiarietà e di leale collaborazione: i principi del d.lgs. 152/2006
costituiscono le condizioni minime ed essenziali per garantire la tutela dell’ambiente, salva la possibilità
delle Regioni e delle Province Autonome di prevedere norme più restrittive, purché ciò non comporti
un’arbitraria discriminazione. Tra Stato ed Enti Autonomi, in materia, si applicano, appunto, i principi
di sussidiarietà e di leale collaborazione.
Art. 3-sexies, diritto di accesso alle informazioni ambientali e di partecipazione a scopo collaborativo:
chiunque, a prescindere dalla sussistenza di un interesse giuridicamente vincolante, può accedere alle
informazioni relative allo stato dell’ambiente e del paesaggio nel territorio nazionale, come previsto
dalla Convenzione di Aarhus, recepita con la l. n. 108/2001. La trasparenza è, infatti, un elemento
fondamentale soprattutto per quanto riguarda il diritto dell’ambiente.
CAP 3
Nei primi anni, in assenza di normative, si svilupparono 2 concezioni di ambiente: la concezione pluralista e
la concezione unitaria.
La prima, nella concezione elaborata da Giannini nel 1973 (concezione tripartita), delinea il concetto di ambiente
come una “sintesi verbale” di una nozione che assume diversi significati nelle normative settoriali concernenti:
Tutela del paesaggio (di cui, tra l’atro, anche all’art. 9 Cost.): qui l’ambiente viene inteso come oggetto
di un’attività culturale;
Prevenzione e repressione dell’inquinamento: in questo caso, invece, l’ambiente è considerato come
oggetto di un’attività sanitaria. L’attività qui considerata, oltre a portare dei vantaggi diretti
all’ambiente, ne porta anche all’uomo, seppur indirettamente (salute);
Governo del territorio: ambiente come attività urbanistica (tutte le disposizioni che regolamentano
l’utilizzo del territorio: area edilizia, aree verdi, etc…).
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Sempre nel campo delle concezioni pluraliste, Predieri (un pubblicista, Giannini, invece, era un costituzionalista)
elaborò la concezione bipartita, che prendeva in esame 2 aree di funzioni omogenee: quelle della gestione
sanitaria e della gestione urbanistica.
Per quanto riguarda le concezioni unitarie, queste derivano principalmente da delle ricostruzioni
giurisprudenziali. La Cass. 5172/1979 interpreta il collegamento fra l’art. 32 Cost. e l’art. 2 Cost. non solo come
diritto alla vita e all’incolumità fisica, ma anche come diritto ad un ambiente salubre. Risulta, quindi, evidente il
nesso intercorrente fra tutela dell’ambiente e tutela della salute: si parla di ambiente come vero e proprio diritto
soggettivo. La Corte Cost. 210/1987, poi, interpretando in maniera evolutiva gli artt. 9 e 32 Cost., perviene ad un
concetto unitario di ambiente, sia in senso oggettivo (come bene giuridico) che in senso soggettivo (come diritto
fondamentale della persona). La Corte Cost. 641/1987 rafforza l’idea affermando che l’ambiente è un bene
immateriale unitario, anche se formato da varie componenti, ciascuna capace, però, isolatamente e
separatamente, di essere oggetto di cura e di tutela.
La Corte Costituzionale, non avendo ovviamente a disposizione atti in cui si parlasse di ambiente, utilizzò gli
articoli a sua disposizione; ricorse, addirittura, anche ad una direttiva CE del 1985 (sulla valutazione di impatto
ambientale), non ancora attuata in Italia; in questa direttiva si consideravano gli effetti negativi che, per esempio,
una nuova opera poteva creare nell’ambiente: ambiente, però, inteso sia come ambiente naturale che come
ambiente costruito (per esempio, le emissioni del traffico che danneggiano monumenti di carattere archeologico
e architettonico). La Corte fa leva, infine, anche sull’istituzione del nuovo Ministero dell’Ambiente: non è che le
attività attribuite al neonato Ministero prima non esistessero, ma il fatto di individuare un nuovo centro di potere
denotava, secondo la Corte, una rilevante importanza dell’ambiente, inteso come bene unitario.
Oltre alle ricostruzioni giurisprudenziali esistono anche delle elaborazioni dottrinali in materia di concezioni
unitarie: Caravita compie una ricostruzione in prospettiva ecologica della nozione giuridica di “ambiente” e di
“tutela dell’ambiente”. La prima viene vista come equilibrio ecologico, la seconda, di conseguenza, come tutela
dell’equilibrio ecologico: espressione, quest’ultima, che evidenzia la necessità del coordinamento finalistico di
una pluralità di azioni e di strumenti per il conseguimento di un risultato complessivo. Ci si accorge, allora, che
non c’è più solo una visione antropocentrica, come in precedenza: ora, con la prospettiva ecologica, ci si lancia in
una concezione più larga, ora anche la tutela dell’ambiente riguarda lo stesso in quanto tale.
Vi sono, infine, anche alcuni riferimenti normativi ad avvalorare la concezione unitaria, ovvero la direttiva
85/337/CEE e la direttiva 96/61/CE. Particolarmente importante la prima, che valuta (V.I.A.) gli effetti diretti e
indiretti di un progetto nei seguenti settori:
– Uomo, fauna, flora;
– Suolo, acqua, aria, clima e paesaggio;
– Beni immateriali e patrimonio autonomo;
– Interazioni fra i fattori di cui al primo, secondo e terzo trattino.
CAP 4
L’ambiente viene considerato un valore costituzionale e, al pari degli altri valori del medesimo rango, costituisce
uno dei canoni su cui si orienta ogni manifestazione della legalità. Questo concetto viene introdotto con la l. cost.
3/2001, ma la Corte Costituzionale lo aveva fatto ben prima. L’aveva fatto ricorrendo agli artt. 9 (tutela del
paesaggio), 32 (diritto alla salute), 2 (diritti fondamentali), 41 (libertà di iniziativa economica privata) e 42 (diritto
di proprietà) della Costituzione. Particolarmente importanti sono gli ultimi 2 che, pur sancendo i suddetti diritti,
prevedono dei contemperamenti, riconducibili al concetto di utilità sociale. Il valore ambientale deve comunque
sottostare al bilanciamento, dal momento che non è l’unico valore costituzionale; da questo bilanciamento non
necessariamente l’ambiente deve risultare prevalente.
Da ricordare, comunque, che l’ambiente rappresenta il contemperamento fra diritto alla salute e diritto alla
libertà di iniziativa economica.
CAP 5
Il diritto dell’ambiente si è sviluppato dapprima come diritto consuetudinario e poi, man mano, è stato oggetto
di atti sia di natura settoriale che di natura generale (con le Conferenze Internazionali e le conseguenti
Dichiarazioni). Esiste, convenzionalmente, una data di nascita del diritto ambientale ed è il 1941: in quest’anno
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sorse una controversia tra USA e Canada in seguito ad un fenomeno di inquinamento transfrontaliero;
controversia nota come caso della Fonderia Trail. Si trattava di un caso di emissioni di fumi che si erano propagate
in atmosfera fino a raggiungere il territorio di un altro Stato causando dei danni all’ambiente. Fu istituito un
Tribunale Arbitrale che, affrontando la questione, sancì un principio che fu poi recepito dal diritto internazionale
consuetudinario: ciascuno Stato ha il diritto di sfruttare liberamente le risorse presenti nel suo sul suo territorio,
ma evitando che ciò possa causare un danno all’ambiente di un altro Stato (per inciso, il Canada fu condannato
al risarcimento del danno). L’elaborazione di questo principio ebbe come conseguenza l’apporto di un correttivo
ad un altro principio fondamentale, quello della sovranità.
Lo stesso principio entrò, poi, far parte di alcune Dichiarazioni Internazionali (e quindi del diritto internazionale
pattizio), in particolare nella Dichiarazione di Stoccolma (1972) e nella Dichiarazione di Rio de Janeiro (1992). In
queste due Conferenze, in sostanza, si stabilì che tutti gli Stati hanno, conformemente a quanto stabilito dalla
Corte delle Nazioni Unite, il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse nel rispetto delle proprie politiche
ambientali, ma allo stesso tempo hanno la responsabilità di assicurare che le attività svolte all’interno della loro
giurisdizione non causino danni all’ambiente di altri Stati. In particolare, la Convenzione di Rio fu denominata
“Ambiente e Sviluppo” perché era la prima volta che veniva introdotto il concetto di sviluppo sostenibile. Altri
principi contenuti nelle due Convenzioni (che per molti punti coincidono) sono:
Il principio della precauzionale, e il relativo approccio precauzionale;
Il principio del “chi inquina paga”;
Il principio di integrazione (le problematiche ambientali devono essere considerate anche in altri
processi decisionali);
Il principio dell’informazione e della partecipazione (sono un po’ due facce della stessa medaglia: per
partecipare bisogna essere informati e viceversa).
Altre fonti di rango internazionale importanti possono essere la Convenzione di Ginevra del 1979
sull’inquinamento atmosferico a lunga distanza, la Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto marittimo,
la Convenzione di New York del 1982 sui cambiamenti climatici e l’ormai famoso Protocollo di Kyoto del 1997,
che disciplina la tematica della riduzione dei gas ad effetto serra. Menzione a parte anche per la direttiva
03/87/CEE (recepita con il d.lgs. 216/2006), detta direttiva Ets (“Emission Trading”: scambio delle quote di
emissioni dei gas ad effetto serra); ma qui siamo nel campo del diritto comunitario, non internazionale.
CAP 6
La direttiva è lo strumento principe per la CE per quanto riguarda la legiferazione in ambito ambientale; le
direttive sono quasi sempre self-executive, ovvero sono molto dettagliate e, se non vengono attuate dagli Stati
Membri, dopo un certo periodo di tempo dispiegano comunque i propri effetti.
In origine la CE non aveva competenze in materia ambientale: il Trattato di Roma del 1950 conteneva non norme
specifiche, ma solo norme di natura programmatica. Le prime costituzioni in Europa che per prime si occupano
di ambiente sono quella portoghese (1976), che parla di un “diritto ad un ambiente salubre ed ecologicamente
equilibrato”, e quella spagnola (1978), che riconosce agli individui il diritto ad un ambiente adeguato allo sviluppo
della persona. Si sono fatti dei tentativi anche in Italia, per esempio aggiungendo all’art. 9 Cost. un riferimento
all’ambiente e all’ecosistema o, addirittura, alla tutela della dignità degli animali (ci fu un grosso dibattito perché
solitamente la dignità è un concetto fortemente legato alla sfera umana). Tutti i progetti, comunque, sono
naufragati.
Ma allora, la CE come ha acquisito competenze? Il primo intervento è stato di natura programmatica, attraverso
i cosiddetti piani d’azione in materia ambientale (a partire dagli anni ‘70). Non si tratta, quindi, di atti normativi
ma solo di atti programmatici attraverso cui la CE si pone degli obiettivi a medio-lungo termine di salvaguardia
ambientale. Il primo piano d’azione risale al 1973 ed è di durata quinquennale: introduce in campo comunitario
alcuni principi già inseriti in ambito internazionale (prevenzione, contrasto ai danni provocati all’ambiente). Il
secondo andò dal ’77 all’ ’81 e affrontò nuove problematiche, come quella della regolamentazione dell’utilizzo di
sostanze pericolose (di lì a poco, verrà adottata la cosiddetta normativa Seveso, dal nome di una cittadina in
provincia di Monza e Brianza nella quale un incidente in una fabbrica provocò la fuoriuscita di diossina). Il terzo
(’81-‘85) inizia ad introdurre nuovi concetti (come quello dell’informazione), il quarto (1987) continua a sancire
questa elaborazione di principi e, in particolare, ricorda l’importanza dello strumento di valutazione di impatto
ambientale. Il quinto (1993) offre grande spazio ai problemi della responsabilizzazione degli operatori economici,
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attraverso il meccanismo della cosiddetta responsabilità condivisa: quando, in un’attività potenzialmente o
realmente pericolosa per l’ambiente, intervengono più soggetti, per tutelare l’ambiente si ritengono responsabili
tutti questi soggetti (è una soluzione volta ad evitare il fenomeno dello “scaricabarile”). Altro concetto ribadito
in questo piano d’azione è quello della rilevanza degli strumenti di natura economica: si tratta di strumenti
standard nel contenuto, che non hanno l’obbligo di essere attuati; se vengono attuati, però, portano dei benefici
di carattere organizzativo o, addirittura, strategico (il consumatore, infatti, è sempre più attento ai problemi
ambientali).
Il sesto e ultimo (è del 2001 ed ha durata decennale, quindi fino al 2010) individua 4 aree d’intervento della CE:
1. Tema del cambiamento climatico: prende atto degli atti internazionali che sono stati posti in essere
negli ultimi tempi;
2. Tema della biodiversità: si intende l’esigenza di garantire la diversità fra le diverse specie vegetali e
animali, che l’inquinamento mette in pericolo;
3. Tema dell’ambiente-salute: si fanno stretti i rapporti fra l’esigenza di tutela dell’ambiente e di
salvaguardia della salute dell’uomo; assume importanza il problema delle sostanze chimiche;
4. Uso sostenibile delle risorse: si recepisce il principio dello sviluppo sostenibile, in questo caso con
particolare riferimento al preservare le risorse naturali, per esempio mediante il riutilizzo di materiali,
che permette il risparmio delle materie prime (si guardi alle politiche comunitarie sui rifiuti che
prevedono sia il riutilizzo degli stessi come materia prima per produrre nuovi materiali – recupero di
materia -, sia l’utilizzo del rifiuto come fonte energetica –recupero energetico -) o mediante il riutilizzo
delle acque reflue (le acque utilizzate per una determinata attività possono tornare utili per diverse
altre, operando così un risparmio della risorsa energetica: per esempio, le acque utilizzate per un ciclo
produttivo possono essere riutilizzate per il raffreddamento degli impianti industriali).
Questo per quel che riguarda le attività di natura programmatica; se, invece, pensiamo a come la CE si è
progressivamente appropriata di competenze in materiale ambientale bisogna considerare diversi passaggi. La
base giuridica è, sostanzialmente, frutto di un escamotage, ed è stata individuata nelle disposizioni volte al
ravvicinamento delle normative dei vari Stati membri finalizzata alla salvaguardia del diritto di concorrenza: se
all’interno degli Stati membri esistevano delle normative in materia ambientale (e il più delle volte era così),
queste normative avrebbero potuto incidere sulla concorrenza e portare a delle distorsioni sulla concorrenza
stessa.
Il primo atto che riconosce espressamente una competenza CE in materia ambientale è l’Atto Unico Europeo del
1987, che introduce un Titolo denominato, appunto, “Tutela dell’ambiente” (artt. 174-176; l’art. 174, in
particolare, introduce i principi del diritto dell’ambiente in ambito comunitario).
I primi atti degli anni ’70 hanno riguardato i tre settori centrali del diritto ambientale:
Inquinamento idrico: furono emanate la direttiva 76/464/CEE (direttiva quadro), cui si sono aggiunte altre
direttive settoriali (per esempio, quella sull’inquinamento da nitrati), e la direttiva 2000/60/CE (sempre
direttiva quadro), con cui si istituisce un quadro comune per l’azione comunitaria in materia di acque
(tra l’altro, molte risultano nominate nel d.lgs. 152/2006);
Inquinamento atmosferico: anche qui ci furono sia direttive di carattere generale che direttive di
carattere settoriale (come quelle sui clorofluorocarburi);
Gestione dei rifiuti: il primo atto fu la direttiva 75/442/CEE (abrogata poco tempo fa), seguita a breve
distanza da un direttiva del ’78 sui rifiuti tossici. Questa fu parzialmente abrogata da una direttiva
dell’89 sui rifiuti pericolosi. Entrambe sono state abrogate dalla direttiva 2006/12/CE (non ancora
recepita in Italia) sulla gestione generale dei rifiuti.
Ci sono, comunque, altri settori nei quali si dipana l’attività normativa comunitaria: situazione particolare è quella
della Valutazione d’Impatto Ambientale, di cui l’Unione si è occupata ancor prima dell’AUE, con la direttiva
75/377/CEE (direttiva quadro). Altro settore importante è quello acustico: qui siamo in presenza di una
legislazione lenta, inizialmente nata solo per contrastare specifiche sorgenti sonore (oltre agli aerei, ci fu una
normativa che addirittura contemplava i tosaerba); successivamente fu emanata la direttiva 2002/49/CE, di
carattere generale in materia di rumore (la novità consisteva proprio nel fatto che le precedenti direttive erano
tutte settoriali). Altra norma importante è quella in materia di danno ambientale (tutela risarcitoria in caso di
danni all’ambiente), la direttiva 2004/35/CE, recepita in Italia solo con il d.lgs.152/2006 (comunque esisteva già
una normativa in materia, la l. n. 349/86, con la quale, tra le altre cose, si istituiva anche il Ministero
dell’Ambiente).
7
Non esiste, invece, nonostante il nostro Ordinamento già lo preveda, una normativa comunitaria sulle bonifiche
dei siti inquinati; come non esiste per l’inquinamento elettromagnetico (cosiddetto elettrosmog). Il nostro
legislatore, anche in questo caso, si è attivato anche senza impulso comunitario, con la l. n. 36/2001 (legge
quadro). Il motivo per cui la CE non si è occupata in materia, se non con normative settoriali, è da ricercarsi nella
momentanea incertezza scientifica per quanto riguarda i danni causati da radiazioni elettromagnetiche non
ionizzanti.
Ci sono anche dei casi in cui la CE interviene con regolamenti, come nel caso della spedizione transfrontaliera di
rifiuti: il primo è il regolamento n. 259/93, poi sostituito da uno recente del 2006. Altri esempi possono essere
quello dell’EMAS (sistema di ecogestione ed ecoaudit) o quello in materia di sicurezza chimica (cosiddetto sistema
“Reach”).
CAP 7
A partire dai primi anni ’90 si fece largo una sorta di esigenza di pubblicità delle informazioni riguardanti
l’ambiente: già la Convenzione di Rio de Janeiro del 1992 aveva trattato il tema dell’informazione. Ha fatto di più
nel 1998 la Convenzione di Aarhus (il cui contenuto, poi, verrà recepito da una direttiva comunitaria), che ha
preso in considerazione tre pilastri fondamentali: la diffusione delle informazioni in campo ambientale, la
partecipazione, l’accesso alla giustizia (per tutelare il cittadino contro le decisioni in materia ambientale delle PA).
Prima di addentrarsi nella disciplina sull’accesso alle informazioni ambientali, è necessario fare un
piccolo excursus per quanto riguarda l’accesso ai documenti amministrativi. La l. n. 241/90, legge sul
provvedimento amministrativo, riconosce un diritto di accesso (inteso come prendere visione ed eventualmente
estrarre copia) ai documenti amministrativi. Bisogna, però, essere interessati: occorre, cioè, dimostrare di avere
un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata
al documento per cui è richiesto l’accesso (art. 22). Per documento amministrativo si intende ogni
rappresentazione grafica, fotocinematografica ed elettromagnetica del contenuto di atti detenuti da PA e
concernenti atti di pubblico interesse. Parallelamente, è stato ampliato il concetto di PA, intendendolo non più
solo in senso formale, ma anche in senso sostanziale, facendovi rientrare, per esempio, anche i privati che
compiano attività di pubblico interesse (art. 23). L’art. 25, infine, disciplina le modalità di accesso: si presenta una
richiesta motivata, la PA ha 30 giorni per accettare o respingere la domanda, altrimenti ci si trova davanti ad un
silenzio diniego. Nei casi in cui la richiesta venga respinta, il soggetto che l’ha presentata può ricorrere al TAR o si
può rivolgere ad un difensore civico (per i documenti di rango comunale, provinciale o regionale) o alla
Commissione per l’accesso (per i documenti centrali o periferici dello Stato) per l’ottenimento del documento
amministrativo. Anche nell’ambito processuale è previsto un termine acceleratorio: il TAR deve essere
interpellato entro 30 giorni o dal diniego o dal momento in cui il silenzio inizia a produrre i suoi effetti; lo stesso
Tribunale, poi, deve decidere in Camera di Consiglio entro lo stesso termine di 30 giorni.
CAP 8
L’accesso alle informazioni ambientali è, invece, previsto dalla l. n. 349/86 (istitutiva dal Ministero dell’Ambiente).
All’art. 14 si sancisce il diritto all’informazione ambientale in due diverse accezioni:
1. Obbligo del Ministero dell’Ambiente di assicurare la più ampia divulgazione sullo stato dell’ambiente
(quasi un’informazione “spontanea”);
2. Una forma embrionale di diritto all’accesso garantita ad ogni cittadino, di scarso rilievo, però, sul piano
pratico.
Successivamente, è stato emanato il d.lgs. 39/97, che recepisce una direttiva comunitaria sul diritto di accesso
dei primi anni ’90, poi comunque abrogata dalla direttiva 2003/4/CE, attuata in Italia dal d.lgs. 195/2005. Il fine
è quello di garantire l’accesso alle informazioni ambientali detenute da soggetti pubblici. Ma cosa sono le
informazioni ambientali? A prescindere dal tipo di supporto (è necessaria, però, la forma materiale), è ambientale
qualsiasi informazione avente ad oggetto:
Acqua, aria, suolo, […], diversità biologica degli organismi geneticamente modificati e le interazioni fra
questi elementi;
Fattori (energia, rumore, radiazioni, rifiuti) che possono incidere sugli elementi ambientali;
8
Misure di vario titolo (amministrative, legislative…) che incidono o possono incidere sugli elementi e sui
fattori dell’ambiente;
(c’è anche un espresso riferimento alla) salute e alla sicurezza umana.
E cosa si intende per autorità pubblica? Tutte le amministrazioni statali, regionali, aziende autonome o speciali,
[…], ma anche ogni persona fisica o giuridica che eserciti attività connesse alle tematiche ambientali. All’art. 3 si
afferma che l’autorità pubblica deve rendere disponibile l’informazione ambientale a chiunque ne faccia
richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse (qui risiede la differenza fondamentale con la
richiesta d’accesso ai documenti amministrativi); l’autorità pubblica mette a disposizione del richiedente
l’informazione quanto prima, e comunque entro 30 giorni dalla presentazione della richiesta (o entro 60 giorni se
l’informazione è complessa o difficilmente reperibile).
L’art. 5, poi, prevede dei casi di esclusione nell’accesso ad informazioni ambientali:
L’informazione non e detenuta dall’autorità pubblica;
La richiesta è manifestamente irragionevole (difficilmente dimostrabile);
La richiesta è presentata in termini eccessivamente generici;
La richiesta concerne documenti incompleti o in corso di completamento (molto utilizzato);
La richiesta riguarda comunicazioni interne (molto utilizzato);
La divulgazione reca pregiudizio a segretezza o riservatezza: la riservatezza intesa sì per quanto riguarda
i dati personali, ma anche per le informazioni commerciali e industriali, per i diritti di proprietà
industriali e intellettuali (basti pensare al caso del concorrente che chiede all’autorità pubblica delle
informazioni riguardanti il ciclo produttivo di un’altra impresa).
L’autorità pubblica, comunque, deve effettuare una valutazione ponderata fra interesse pubblico
all’informazione e interesse tutelato dall’esclusione all’accesso: la regola è quella di applicare i casi di esclusione
in maniera restrittiva, nell’indecisione si ammette l’accesso. La richiesta, inoltre, non può essere respinta qualora
l’informazione riguardi emissioni nell’ambiente; nel caso in cui la respinta dell’argomento sia proprio necessaria,
questa deve avere necessariamente avere forma scritta.
I rimedi all’eventuale diniego sono due (pressoché gli stessi di quelli presenti nell’ambito dell’accesso a documenti
amministrativi) e alternativi fra loro:
il ricorso al TAR (con un rinvio alla l. n. 241/90);
prima del TAR il richiedente può domandare il riesame, rivolgendosi ad un difensore civico (per le
informazioni comunali, provinciali o regionali) o alla Commissione per l’Accesso (solo per le
informazioni centrali o periferiche dello Stato).
L’art. 3, comma 7, infine, prescrive l’informatizzazione dei dati: i dati devono essere contenuti in formati
facilmente riproducibili, più agevolmente accessibili e consultabili tramite reti di telecomunicazioni informatica o
altri mezzi elettronici.
CAP 9
Premesso che, come già visto, esiste un obbligo per gli Stati, nato con il caso della fonderia di Trail, di non
provocare danni all’ambiente di un altro Stato, precisiamo che questo obbligo non è contenuto nel Trattato
istitutivo, ma nella Convenzione di Stoccolma.
I principi – guida comunitari in campo ambientale sono 5:
– Sviluppo Sostenibile
– Principio di integrazione
– Principio del “chi inquina paga” (o “inquinatore pagatore”)
– Principio di prevenzione
– Principio di precauzione
Sviluppo sostenibile: è alla base della Convenzione di Rio, ma ne fu trovata una definizione specifica anni prima
dalla Commissione Mondiale Ambiente e Sviluppo, nel rapporto Grünland (dal nome del Presidente): “lo sviluppo
sostenibile è quello che soddisfa i bisogni della generazione presente senza compromettere le possibilità delle
generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. E’ una definizione che ha riscontrato un grande successo, anche
grazie, e questo è un argomento utilizzato detrattori, alla formula molto vaga (è un concetto, però, difficilmente
applicabile). Spesso lo sviluppo sostenibile viene confuso con lo sviluppo durevole, che è una cosa leggermente
diversa: uno sviluppo che consente all’uomo di progredire nel proprio benessere economico, ma che allo stesso
9
tempo non pregiudichi la sopravvivenza del Mondo e della specie umana. Per dare più contenuto al concetto di
sviluppo sostenibile, si può cercare di vedere come al suo interno si possano ricavare dei corollari;
l’espressione sviluppo sostenibile ricomprende tre diversi concetti. Innanzitutto va intesa come equità (o
solidarietà) intergenerazionale (come si ricava anche dalla lettera del Rapporto Grünland). Va intesa, poi, anche
come equità (o solidarietà) intragenerazionale: si prende in considerazione la necessità di preoccuparsi non di
generazioni presenti o future, ma di popolazioni che si trovano in una condizione di arretratezza economica e
sociale. Questo concetto si ritrova molto spesso anche nei trattati, che parlano di “responsabilità comuni ma
differenziate”: tutti sono responsabili, ma in maniera diversa. Il grado di responsabilità dipende dal livello di
sviluppo tecnologico raggiunto: i Paesi più sviluppati dovrebbero garantire a quelli meno sviluppati un
raggiungimento di un uguale livello di sviluppo senza danneggiare l’ambiente. Quelle appena detto sembrano
solo belle parole senza possibilità di attuazione, ma non è così: ci sono stati dei tentativi di applicazione. La
Convenzione che disciplina la spedizione transfrontaliera di rifiuti, proibendo ai Paesi più sviluppati di esportare
rifiuti destinati allo smaltimento (non al recupero) verso i Paesi più poveri (per fare un esempio, la Romania per
anni è stato lo “scarico” dell’Unione Sovietica). Altro tentativo è stato quello del Protocollo di Kyoto: attraverso
il sistema delle emissions trading si è creato quello degli “investimenti verdi”: le imprese possono barattare la
riduzione delle proprie emissioni di gas serra con gli, appunto, investimenti verdi, in Paesi nei quali la situazione
economica è peggiore. Ultimo corollario del principio di sviluppo sostenibile è quello che lo intende con finalità
dell’uso equo e sostenibile delle risorse naturali. Esempi di applicazione: tutta la disciplina in materia di rifiuti ha
tra i principi fondamentali quello dell’incentivazione al recupero e al riutilizzo dei rifiuti; poi c’è la tutela
dell’acqua, una tutela sia dal punto di vista qualitativo (per quanto riguarda l’inquinamento), sia dal punto di vista
quantitativo (l’acqua non è inesauribile; recupero delle acque reflue à esiste una normativa di molti anni fa,
rimasta inattuata).
CAP 10
Premesso che, come già visto, esiste un obbligo per gli Stati, nato con il caso della fonderia di Trail, di non
provocare danni all’ambiente di un altro Stato, precisiamo che questo obbligo non è contenuto nel Trattato
istitutivo, ma nella Convenzione di Stoccolma.
I principi – guida comunitari in campo ambientale sono 5:
– Sviluppo Sostenibile
– Principio di integrazione
– Principio del “chi inquina paga” (o “inquinatore pagatore”)
– Principio di prevenzione
– Principio di precauzione
Principio di integrazione: è sancito nel TUE, ma anche a livello internazionale. Significa che il tema della tutela
dell’ambiente non deve rimanere separato ed essere affrontato in maniera separata rispetto alle altre politiche
comunitarie, ma deve essere integrato in queste altre politiche. A livello pratico, significa che nel momento in cui
si decidono determinate strategie (politiche di natura energetica, di sviluppo industriale, di organizzazione dei
trasporti, etc.) occorre integrare la politica ambientale. Si parla di “inverdimento delle politiche comunitarie”:
l’obiettivo è rendere efficaci le politiche di natura ambientale ed integrarla nelle altre politiche, facilitando
l’adozione di misure di tutela ambientale.
Principio del “chi inquina paga” (o “inquinatore pagatore”): nasce negli anni ’70 e compare per la prima volta
nel Programma d’Azione del 1973. Il concetto viene recepito nella raccomandazione 476/75 del Consiglio dell’UE;
si dice: ”le persone fisiche o giuridiche responsabili di un inquinamento devono sostenere i costi degli interventi
necessari per eliminare o ridurre l’inquinamento. Il ragionamento che sta alla base della sua introduzione è di
stampo economico. Andiamo passo per passo. Ogni fenomeno di inquinamento costituisce un deterioramento
dell’ambiente, provocato da un’attività dell’uomo, volontaria o involontaria, comunque produttiva (1); questo
deterioramento è un danno valutabile in termini economici: il valore del danno provocato è pari alla spesa da
sostenere per ricondurre l’ambiente deteriorato al suo stato precedente oppure, dato che in molti casi non risulta
possibile ripristinare la situazione, pari al deprezzamento che l’ambiente ha subito a cause dell’inquinamento (2).
Per chi svolge un’attività produttiva, evitare l’inquinamento comporta un costo perché svolgere questa attività
evitando l’inquinamento necessita di investimenti di carattere tecnologico. Se chi svolge l’attività produttiva non
sopporta questi costi (non adotta accorgimenti idonei a ridurre l’inquinamento ricondotto alla sua attività)
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l’ambiente viene deteriorato. E allora chi sopporta i costi legati all’inquinamento? I costi, generalmente, vengono
esternalizzati: i costi necessari per disinquinare (a cui comunque si aggiungono anche i costi di carattere sanitario)
vengono addossati a terzi, in particolare alla P.A., e quindi alla collettività. L’esternalizzazione dei costi produce
un’alterazione del mercato e quindi una distorsione della concorrenza (diseconomia esterna). Il soggetto che
svolge l’attività produttiva può immettere nel mercato beni e servizi a un costo inferiore a quello reale perché in
questo costo di produzione non viene compreso il costo previsto per evitare l’inquinamento. Non preoccuparsi
dell’ambiente porta un vantaggio competitivo rispetto ai produttori che lo rispettano (3). Il principio “chi inquina
paga” è stato introdotto per evitare questo meccanismo: è finalizzato all’internalizzazione dei costi relativi
all’inquinamento. Si ottengono due effetti: uno di tutela ambientale, perché un meccanismo economico, meglio
che di uno giuridico, induce chi svolge un’attività produttiva a ridurre la portata inquinante della propria attività;
l’altro economico, perché in questo modo si riequilibra la diseconomia esterna. Del principio si conoscono molte
applicazioni pratiche: un primo esempio potrebbe essere quello della normativa sulla bonifica dei siti inquinati:
chi con la propria attività inquina un sito (sia un terreno che le acque sotterranee) deve, a proprie spese, eliminare
l’inquinamento provocato. Se non si trova il responsabile o non esistono altri soggetti interessati ad effettuare la
bonifica (per esempio il nuovo proprietario) e la P.A. che deve intervenire per effettuare la bonifica (quindi il
costo ricade sulla collettività). Altro esempio potrebbe essere la normativa sul danno ambientale: chi con la
propria attività provoca un danno all’ambiente deve risarcirlo; per anni la responsabilità è stata considerata di
stampo prettamente civilistico. Il principio, comunque, può anche essere applicato in via preventiva. Per quale
motivo? L’art 41 Cost. sancisce il diritto di libera iniziativa economica privata, ma nello stesso tempo prevede la
possibilità che questo diritto venga compromesso (“La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché
l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”). Tutte le direttive
comunitarie e la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia, poi, prevedono che un’attività potenzialmente
dannosa per l’ambiente non possa essere avviata senza una specifica autorizzazione. A cosa serve porre questo
vincolo? E’ un vincolo di natura strumentale che serve alla P.A. per poter svolgere un controllo preventivo rispetto
all’attività che si andrà a realizzare. Le autorizzazioni devono essere sempre espresse, in senso formale e scritte:
questo perché contengono prescrizioni molto dettagliate, non possono essere fatte in maniera tacita. Dover
rispettare queste prescrizioni comporta dei costi, a carico del soggetto che svolge l’attività: siamo, quindi, in
presenza di un’applicazione preventiva del principio, il soggetto paga anche se non ha inquinato (per esempio, il
costo da sopportare per l’acquisto, l’installazione e la manutenzione di un depuratore). Gli ultimi esempi di
applicazione pratica del principio possono essere quello dei costi – smaltimento dei rifiuti e quello dei tributi o
di altre forme di incentivi o disincentivi di carattere economico o fiscale. Per quanto riguarda i rifiuti, un’attività
d’impresa che crea un’esigenza di smaltimento dei rifiuti, deve sostenerne i costi (fino a qualche anno fa i rifiuti
venivano semplicemente interrati). Per quel che concerne, invece, l’ultimo esempio, molte volte vengono previsti
sgravi fiscali (per esempio per investimenti che comportano una riduzione dell’inquinamento) o sussidi
economici, per favorire l’adozione di sistemi in grado di provocare il declino di precedenti sistemi più inquinanti
(per esempio gli incentivi per la rottamazione degli autoveicoli).
CAP 11
Premesso che, come già visto, esiste un obbligo per gli Stati, nato con il caso della fonderia di Trail, di non
provocare danni all’ambiente di un altro Stato, precisiamo che questo obbligo non è contenuto nel Trattato
istitutivo, ma nella Convenzione di Stoccolma.
I principi – guida comunitari in campo ambientale sono 5:
– Sviluppo Sostenibile
– Principio di integrazione
– Principio del “chi inquina paga” (o “inquinatore pagatore”)
– Principio di prevenzione
– Principio di precauzione
Principio di prevenzione: occorre privilegiare strumenti e azioni idonei ad impedire o limitare che determinati
effetti negativi per l’ambiente si producano. Strumenti ed azioni che dovrebbero intervenire PRIMA che questi
effetti si producano; sono rivolti ai singoli Stati membri e ai relativi legislatori (non sono diretti ai cittadini).
Applicazioni del principio possono essere, in ordine crescente di intensità preventiva, l’autorizzazione, la
valutazione di impatto ambientale (è un provvedimento amministrativo che incorpora una procedura che serve
11
per valutare gli effetti negativi sull’ambiente di un’opera o di un’attività, prima che queste vengano realizzate) e
la valutazione ambientale strategica. Questa ha ad oggetto non i singoli progetti di opere o di impianti, ma atti di
pianificazione o di programmazione. Ha la funzione di valutare gli effetti sull’ambiente derivanti dall’attuazione
di un piano o programma. E’ più preventiva della VIA perché mentre la VIA riguarda già la realizzazione di
un’opera, la VAS interviene a monte delle realizzazioni di singole opere perché ha ad oggetto l’organizzazione di
una determinata area (non valuta solo gli effetti di quest’opera, ma gli effetti globali). Quali sono gli effetti che
vengono considerati ai fini dell’applicazione di tale principio? Ci si pone la domanda perché adottare un
atteggiamento precauzionale non sembra tanto diverso da adottare un atteggiamento preventivo. La differenza
sta nella tipologia degli effetti che vengono considerati in un caso o nell’altro. In questo principio ci interessano
gli effetti scientificamente certi: si possono introdurre determinati vincoli o strumenti a patto che gli effetti
dannosi sull’ambiente collegati ad una determinata attività siano scientificamente certi.
CAP 12
Premesso che, come già visto, esiste un obbligo per gli Stati, nato con il caso della fonderia di Trail, di non
provocare danni all’ambiente di un altro Stato, precisiamo che questo obbligo non è contenuto nel Trattato
istitutivo, ma nella Convenzione di Stoccolma.
I principi – guida comunitari in campo ambientale sono 5:
– Sviluppo Sostenibile
– Principio di integrazione
– Principio del “chi inquina paga” (o “inquinatore pagatore”)
– Principio di prevenzione
– Principio di precauzione
Principio di precauzione: si consente un intervento da un alto ancora più anticipato, dall’altro in via meramente
cautelativa. Nel senso che se sussiste un dubbio tra vietare e non vietare una determinata sostanza (dubbio che
deriva dalla mancanza di certezze scientifiche) si interviene e ci si cautela. Ha come obiettivo quello di evitare
gravi danni all’ambiente conseguenti ad azioni o comportamenti, anche se questi danni non sono prevedibili; la
Carta sulla Natura dell’UE del 1982 spiega il principio: “se gli effetti sulla natura non possono essere pienamente
spiegati, le attività non possono essere svolte”, concetto ripreso poi anche dal Trattato. Per evitare forme di
applicazione irragionevole del principio la Commissione Europea è intervenuta specificamente il 2 febbraio 2000
con una comunicazione che ha la finalità di spiegare come va applicato il principio di precauzione. Bisogna seguire
un principio di proporzionalità: deve essere un procedimento razionale e ragionevole, che bilanci i rischi (che
devono essere particolarmente gravi ed irreversibili) di un danno e i costi collegati all’intervento (bilanciamento
costi/benefici). Le misure adottate, poi, devono avere carattere temporaneo: se, infatti, stiamo parlando di
situazioni rispetto alle quali mancano certezze scientifiche è ovvio che queste certezze che mancano oggi
potrebbero sopraggiungere in futuro; sarebbe illegittimo prevedere misure indeterminate e immutabili. Le
misure stesse saranno soggette a revisioni periodiche, revisioni che possono essere in senso restrittivo (se il
sopraggiungere di una certezza scientifica dimostra l’esistenza di un danno maggiore rispetto a quello
preventivato) o in senso estensivo (la certezza scientifica dimostra l’infondatezza del danno temuto o un danno
minore di quello temuto). Ultima cosa da seguire, secondo la Commissione, è la necessità di evitare applicazioni
discriminatorie del principio di precauzione: non avrebbe senso intervenire con misure che provochino una
disparità di trattamento. Tuttavia, gli esempi di mancata applicazione del principio sono tantissimi. Il caso
storicamente più famoso è quello di Thomas Midgley: costui negli anni ’20 (c’è da precisare, comunque, che al
tempo il principio nemmeno esisteva) inventò la benzina addizionata col piombo. Si trattò di un’invenzione
importante per l’affermazione e lo sviluppo del mercato automobilistico (Midgley, al tempo, lavorava per la
General Motors). Il primo Stato che proibì l’uso della benzina addizionata col piombo fu l’Unione Sovietica nel
1967, seguiti da USA, Giappone e, infine, UE nei primi anni ’90. Non pago, lo stesso ingegnere, negli anni ’30,
inventò il gas freon (un gas della famiglia dei clorofluorocarburi –CFC); poteva essere utilizzato negli impianti di
refrigerazione al posto di altri gas altamente tossici e infiammabili. Il pregio del gas era proprio quello di essere
particolarmente stabile, senza combinarsi con altri elementi. All’epoca ebbe una grandissima diffusione, finché
nel 1974 due scienziati si accorsero che lo strato di ozono che proteggeva la Terra si stava assottigliando e che
una delle cause principali del fenomeno era proprio il gas freon. Vediamo ora due esempi di, invece, applicazione
del principio, uno dell’UE e uno peculiare dell’Italia. Per quel che riguarda l’UE l’esempio concerne la normativa
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in materia di OGM: secondo alcuni gli OGM sono pericolosi per l’ambiente e per la salute dell’uomo. La comunità
scientifica, però, va controcorrente perché non esistono delle certezze scientifiche in materia. La CE, però, è
comunque intervenuta con normative specifiche che hanno regolamentato l’uso degli OGM, sia per tutelare i
produttori a contatto con tali organismi, sia per tutelare l’immissione nel mercato di tali prodotti. L’esempio tutto
italiano, invece, è in materia di inquinamento elettromagnetico; esistono due tipi di onde elettromagnetiche: un
tipo è sicuramente dannoso per l’uomo e per queste c’è stato un intervento comunitario, per l’altro invece non
si ha nessuna certezza scientifica sulla dannosità per uomo e ambiente (e questi sono, per esempio, i cellulari, gli
elettrodotti, etc.). La CE non è intervenuta, lo ha fatto lo Stato italiano con la l. n. 36/2001 (legge quadro).
CAP 13
Si possono individuare due grandi tipi di normativa ambientale:
Normativa ambientale di carattere trasversale: si fa riferimento alle normative che mirano a tutelare
l’ambiente in senso globale;
Normativa ambientale di carattere settoriale: prendono in considerazione singole matrici ambientali
(acqua, aria, etc.) o singole problematiche (rifiuti)
Entrambi i tipi confluiscono poi in un’unica struttura così composta:
1. 1. Principi: ci sono uno o due articoli che enunciano le ragioni per cui il legislatore ha pensato di
intervenire e indicano qual è l’obiettivo di base di quella normativa (a volte è anche abbastanza
scontato: basta leggere l’art 73 del d.lgs. 152/2006). Oltre alle finalità si trova indicato anche il campo
di applicazione della norma.
2. 2. Organizzazione: individua e suddivide le autorità amministrative competenti centrali o, in molti casi,
periferiche (la P.A. ha un ruolo fondamentale nell’applicazione della normativa ambientale).
Riguardano le competenze autorizzato rie (VIA, VAS, etc.), ma anche di controllo.
3. 3. Attività: detta gli obblighi, i divieti e le regole che devono essere seguite nello svolgimento
dell’attività oggetto di quella normativa.
4. 4. Sanzioni: puniscono l’inosservanza di determinati obblighi; il più delle volte la sanzione prescinde
dal danno eventualmente arrecato.
5. 5. Disposizioni finanziarie: indicano dove andare a reperire i fondi per l’attuazione di quelle normative.
6. 6. Diposizioni transitorie e finali: sono importanti per due motivi, perché contengono le abrogazioni
(a volte con effetti comici: il d.lgs. 152/2006 abroga disposizioni già abrogate; disposizioni finali) e
perché il più delle volte le normative ambientali intervengono in settori non regolamentati o
regolamentati da norma diverse: sarebbe impensabile di dover applicarle subito (disposizioni
transitorie).
Questa è la struttura-base della normativa; ci sono poi anche gli allegati tecnici (per esempio le tabelle delle
sostanze inquinanti) che possono essere modificati con normative di rango secondario (regolamenti o decreti
ministeriali), proprio per consentire un progresso normativo al passo con quello tecnologico-scientifico. Ci sono,
infine, le normative secondarie di attuazione che operano, semplicemente, un rinvio.
CAP 14
Di inquinamento atmosferico si parla per la prima volta nel r.d. 1265/1934 (T.U. delle leggi sanitarie), che agli
artt. 216 e 217 tratta delle industrie insalubri. Il d.lgs. 152/2006 opererà un esplicito richiamo al regio decreto
nell’art 262.
Nell’art 216 c’è scritto del r.d. 1265/1934 c’è scritto che le manifatture che possono essere pericolose per la
salute degli abitanti devono essere indicate in un elenco che divide tali manifatture in due classi: quelli di prima
classe non possono stare in centri abitati, quelli di seconda classe possono stare in centri abitati ma solo con
determinati accorgimenti e sistemi. Anche l’industria di prima classe può stare in centri abitati, ma solo se il
titolare dimostra di adottare cautele in grado di azzerare la pericolosità derivante dalla propria attività. L’art 217,
poi, riporta che il sindaco deve fissare determinate prescrizioni per evitare immissioni dannose per la salute
pubblica.
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C’è anche il r.d. 45/1901 che afferma che, ai fini della classificazione di un’attività come insalubre, serve un
provvedimento della giunta comunale; periodicamente, per stare al passo con il progresso tecnologico, si
aggiorna il relativo elenco. La finalità astratta dell’elencazione è che basta che un’attività sia contenuta
nell’elenco per essere considerata insalubre; quella concreta (e prevalente) è che serve prima compiere un’analisi
del processo produttivo, non basta l’inclusione nell’elenco.
Ci sono tre settori in cui viene diviso l’inquinamento atmosferico; la divisione viene fatta sulla base della sorgente
che produce l’inquinamento:
1. Impianti termici di uso civile, disciplinati dalla l. n. 615/1966 e dal d.p.r. 1391/1970;
2. Impianti industriali, disciplinati dal d.p.r. 203/1988 e dal d.p.c.m. 21 luglio 1989;
3. Traffico veicolare, la cui normativa si trova nel Codice della Strada e nei decreti ministeriali.
La l. n. 615/1966, peraltro abrogata, prevedeva la zonizzazione del territorio come strumento fondamentale per
la tutela. La zonizzazione (dalla lingua inglese zoning) è uno strumento dell’urbanistica consistente nel
suddividere il territorio in aree omogenee secondo determinate caratteristiche.
Il d.p.r. 203/1988 definiva l’inquinamento come la compromissione delle attività ricreative o degli usi legittimi
dell’ambiente e l’impianto come stabilimento o impianto fisso utile per usi industriali o di pubblica utilità, con
potenzialità inquinanti. Prevedeva, inoltre, due gruppi di valori di accettabilità, i valori limite e i valori guida.
E’ intervenuto infine il d.lgs. 152/2006, in particolare la parte V (Tutela dell’aria e riduzione delle emissioni in
atmosfera): la tripartizione di cui sopra è formalmente venuta meno, ma solo nel senso che mancano tre diverse
discipline perché in sostanza è sopravvissuta. La parte V del d.lgs. 152/2006 e suddivisa in tre titoli:
Titolo I: va dall’art. 267 all’art. 281 e tratta della prevenzione e limitazione delle emissioni in atmosfera
di impianti e attività (corrisponde grosso modo al vecchio d.p.r. 203/1988);
Titolo II: dall’art. 282 all’art. 290, disciplina gli impianti termici civili;
Titolo III: combustibili.
(Allegati I-X)
Noi ci occuperemo solo del primo Titolo.
C’è da dire che i criteri direttivi posti dalla l. n. 308/2004 (cosiddetta legge delega ambientale) all’art 1, co. 9, lett.
g sono stati in gran parte disattesi; forse l’unica disposizione attuata è quella riguardante l’integrazione delle
emissioni di impianti civili nella disciplina delle emissioni atmosferiche.
Le principali novità introdotte dalla parte V sono che questa:
Riunifica le varie discipline sull’inquinamento atmosferico (come la l. n. 615/1966); resta, ovviamente,
fuori la disciplina sull’inquinamento veicolare, contenuta nel Codice della Strada;
Amplia la nozione di impianto;
Disciplina anche qualche attività senza impianto;
Introduce un termine di durata (15 anni) per le autorizzazioni (certo, ora non sono più a tempo
indeterminato, ma hanno un termine lunghissimo, non coordinato con le altre autorizzazioni
ambientali);
Introduce la conferenza di servizi: si modificano, quindi, le modalità di rilascio delle autorizzazioni;
Sostituisce il concetto di “migliori tecnologie possibili” con il più moderno concetto di “migliori
tecniche disponibili” (BAT, Best Available Techniques);
Introduce un obbligo di convogliamento delle emissioni diffuse;
Disciplina le ipotesi di guasto tecnico, nel caso in cui questo causi un superamento delle emissioni
atmosferiche concesse.
Il Titolo I, ai sensi dell’art. 267, si applica agli impianti, compresi gli impianti termici civili NON disciplinati dal Titolo
II (ai sensi dell’art. 282): quelli aventi potenza termica nominale uguale o superiore a quella stabilita dall’art 269,
commi 14-16. Il Titolo in questione abroga espressamente (art. 280) il d.p.r. 203/1988, il d.p.c.m. 21 luglio 1989,
il d.m. 12 luglio 1990 e il d.p.r. 25 luglio 1991; accanto alle abrogazioni espresse vi sono riferimenti a norme che,
non ritenendosi abrogate espressamente, si ritengono ancora applicabili. Per esempio, per gli impianti sottoposti
ad AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) resta in vigore il d.lgs. 59/2005 quando questo prevede una
disciplina più specifica, per la normativa generale si applicherà il nuovo d.lgs. 152/2006.
CAP 15
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Vediamo ora la definizione di impianto. Il d.p.r. 203/1988 lo definiva come stabilimento o impianto fisso che
serve per usi industriali o di pubblica utilità e che possa provocare inquinamento atmosferico. Successivamente
ci si è posti delle domande: ci si chiedeva cosa fosse impianto, se lo fosse, per esempio, anche il camino e quante
autorizzazioni fosse necessario chiedere nel caso ci fossero, appunto, più impianti. E’ intervenuto allora il d.p.c.m.
21 luglio 1989 che ha fatto coincidere la nozione di impianto con quello di linea produttiva (“insieme di linee
produttive finalizzate ad una specifica produzione”). Con il d.lgs. 152/2006 si è avuto una nuova definizione: l’art.
268 parla di macchinario, sistema o insieme di macchinari e sistemi costituiti da una struttura fissa (sembra una
precisazione banale ma non lo è: la giurisprudenza in passato era arrivata a definire impianto persino le ruspe) e
dotato di autonomia funzionale in quanto destinato ad una specifica attività; la specifica attività può costituire la
fase di un ciclo produttivo più ampio. Ci può, quindi, essere la necessità di chiedere più autorizzazioni a causa di
questa divisione in cicli. Per ovviare a tale alla moltiplicazione delle autorizzazioni si è posto in essere un
correttivo, presente nell’art. 270, co. 4 (fatto insolito quello di porre un correttivo di una norma all’interno della
norma stessa): questo articolo introduce la possibilità di considerare come unico un impianto anche nelle ipotesi
in cui, stando alla lettera del’art. 268, dovremmo essere in presenza di più impianti. Perché si possa arrivare
all’accorpamento bisogna che gli impianti abbiano determinati requisiti:
Caratteristiche tecniche e costruttive simili;
Emissioni con caratteristiche chimico fisiche omogenee;
Specifiche attività fra loro identiche;
Medesimo luogo.
Anche in presenza di tutti e quattro i requisiti, però, sussiste un certo margine discrezionale dell’autorità
competente.
All’art 268 si trova anche la definizione di emissione, intesa come qualsiasi sostanza solida, liquida o gassosa
introdotta nell’atmosfera che possa causare inquinamento atmosferico; è evidente l’influenza del d.p.r. 203/1988
(definiva l’emissione come qualsiasi sostanza solida, liquida o gassosa introdotta nell’atmosfera, proveniente da
impianti, che possa causare inquinamento atmosferico) sostanzialmente riprodotto dal d.lgs. 152/2006, tranne
l’espresso riferimento all’impianto, visto che la normativa si applica anche alle emissioni senza impianto. Sempre
l’art. 268 crea due definizioni nuove, ovvero quelle di emissione convogliata e di emissione diffusa. Le prime sono
emissioni di un effluente gassoso effettuata attraverso uno o più appositi punti, le seconde sono definite a
contrario, cioè come diverse rispetto alle convogliate. Il legislatore non le vede con favore, appunto perché
incontrollabili. Si è elaborato, quindi, il concetto di emissioni tecnicamente convogliabili: le emissioni diffuse
devono essere convogliate in base alle migliori tecniche disponibili. Ma cosa significa migliori tecniche
disponibili? E’ una locuzione composta da tre parole: migliori significa le più efficaci per ottenere un elevato
livello di protezione ambientale nel suo complesso; tecniche è riferito sia alle tecniche impiegate, sia alle modalità
di progettazione, costruzione, manutenzione, esercizio e chiusura dell’impianto; disponibili è un aggettivo di
carattere relativo: si riferisce alle tecniche sviluppate su una scala che ne consente l’applicazione in condizioni
economicamente e tecnicamente valide nell’ambito del pertinente comparto industriale, prendendo in
considerazione i costi e i vantaggi, purché il gestore possa averne accesso a condizioni ragionevoli. Quindi, bisogna
considerare la disponibilità del gestore: le migliori tecniche disponibili non sono necessariamente quelle della
NASA, ecco il carattere relativo del concetto. L’obbligo di convogliamento è previsto all’art. 270. Altre definizioni
nuove, che comprendono situazioni anomale rispetto al normale funzionamento dell’impianto, sono il periodo
di avviamento e il periodo di arresto (non dovuto a guasto tecnico).
L’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione è la Regione o la diversa autorità indicata dalla legge
regionale (per esempio, la Provincia). Esistono solo due eccezioni a questa regola: nel caso di terminali offshore
e terminale di rigassificazione di gas naturale liquefatto offshore competente è il Ministero dell’Ambiente; nel
caso, invece, degli impianti soggetti ad AIA l’Autorità competente sarà, ovviamente, quella che rilascia l’AIA.
L’autorizzazione, secondo il disposto degli artt. 269 e 270 deve essere rilasciata per tutti gli impianti di nuova
costruzione che la necessitano, per il trasferimento di impianti e per una modifica sostanziale agli impianti. Per
una modifica non sostanziale, invece, basta una comunicazione all’autorità competente che, se non si esprime
entro 60 giorni, consente la modifica: si è, quindi, in presenza di un improprio silenzio-assenso (improprio perché
comunque non si fa alcuna richiesta, si trasmette una semplice comunicazione sulle proprie intenzioni). Una
modifica sostanziale è una variazione quantitativa o qualitativa delle emissioni o che altera le condizioni le
condizioni di convogliabilità tecnica delle stesse (quest’ultima parte costituisce una novità). Vediamo ora la
procedura di rilascio dell’autorizzazione: l’autorità competente, una volta ricevuta la domanda, deve convocare
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una conferenza di servizi istruttoria, all’interno della quale recepisce gli interessi di tutti gli enti potenzialmente
collegati (per esempio, i Comuni ai sensi del TU sull’edilizia del 2001 e del TU sulle leggi sanitarie del 1934). Ci
deve essere una pronuncia entro 120 giorni (termine prorogabile a 150 giorni nel caso di integrazione della
domanda di autorizzazione); se l’autorità non si esprime entro il termine, il gestore può, entro i 60 giorni
successivi, rivolgersi al Ministero dell’Ambiente perché prenda provvedimenti. Il Ministero, a sua volta, ha 90
giorni per agire; se neanche questo si adopera entro il termine, il gestore potrà ricorrere al TAR. La norma appena
esposta è abbastanza strana perché, in sostanza, pregiudica il diritto di ricorrere immediatamente al giudice in
caso di inerzia della P.A. . L’autorizzazione contiene le prescrizioni tecniche riguardanti l’attività e i valori limite
delle emissioni; ha una durata di 15 anni e il rinnovo va chiesto almeno un anno prima della scadenza. Ma dato
che il legislatore conosce la lentezza della Pubblica Amministrazione ha previsto che, in attesa della nuova
autorizzazione, l’esercizio dell’attività può continuare.
Un’altra novità introdotta del d.lgs. 152/2006 è quella delle attività senza impianto: sono casi specifici e previsti
tassativamente dall’art. 269, commi 10-13 (per esempio, le attività di verniciatura, l’utilizzo di materiali
polvulerolenti); si tratta di una norma strana (si rivolge non al soggetto che nello specifico provoca
l’inquinamento) e, sostanzialmente, ancora inapplicata.
Per quanto riguarda le sanzioni, tutte le normative ambientali prevedono un doppio binario, ossia sia sanzioni
penali che amministrative. Il d.lgs. 152/2006, però, le prevede sempre e solo di carattere penale, tranne nel caso
di inosservanza delle prescrizioni contenute nelle autorizzazioni. In questo caso, se la P.A. lo scopre può agire
con poteri di ordinanza (art. 278) o con sanzioni (penali; art 279). Nel primo gruppo rientrano la diffida, la
contestuale sospensione dell’attività (oltre alla diffida) se ci sono pericoli per la salute dell’uomo o per l’ambiente
(l’attività potrà riprendere quando l’attività verrà regolarizzata) e la revoca dell’autorizzazione, con conseguente
chiusura dell’impianto e cessazione dell’attività. Tra le sanzioni penali, invece, rientrano l’installazione di impianti
o attività senza autorizzazione (reclusione da 2 mesi a 2 anni o ammenda da 258€ a 1032€), la continuazione
dell’attività in caso di autorizzazione scaduta, sospesa o revocata, l’operare una modifica sostanziale senza
autorizzazione e il mancato rispetto dei valori limite di emissioni o delle prescrizioni dell’autorizzazione. Da notare
che l’art. 279 non sanziona il trasferimento d’azienda non preceduto dal rilascio di un’autorizzazione: non si
capisce, quindi, allo stato attuale delle cose, la ragione per cui l’autorizzazione sia richiesta come obbligatoria
anche in questo caso.
CAP 16
Ultima novità da affrontare è quella di guasto tecnico: previsto dall’art 271, co. 14, va considerato solo quando
comporti una violazione dei valori limite di emissione. Un tempo si diceva che i valori limite dovessero essere
rispettati sempre e comunque: il gestore avrebbe dovuto prevedere il guasto. Così la pensava anche la
giurisprudenza penale, che non riteneva il guasto tecnico un caso fortuito, in quanto, appunto, prevedibile. Oggi,
con il d.lgs. 152/2006, il principio è che i valori limite di emissioni si applicano esclusivamente ai periodi di
normale funzionamento dell’impianto, con l’esclusione dei periodi nei quali si verificano guasti che impediscono
il rispetto dei valori limite. E’ stato, però, anche introdotto un correttivo: nel caso di guasto tecnico, il gestore
deve informare l’autorità competente e adottare tutte misure necessarie per porre fine al guasto nel più breve
tempo possibile. A parte la relatività del concetto di “più breve tempo possibile”, rimane ferma la mancanza di
sanzioni per la mancata adozione dei suddetti accorgimenti. E allora che senso ha imporla se poi non se ne punisce
l’omissione? L’unica via percorribile, con una forzatura interpretativa, è quella dell’applicazione dell’art 674 c.p.,
rubricato “Getto pericoloso di cose”
CAP 17
Quando si parla di inquinamento idrico non si può non pensare alla normativa sugli scarichi. Lo scarico è un
concetto che ha una valenza esclusivamente giuridica: la nozione, espressamente prevista dalla normativa in
materia di inquinamento idrico, ha la finalità di delimitare l’applicabilità della normativa stessa, perché se l’attività
non è qualificabile come “scarico” si considera semplicemente come immissione, abbandono, rilascio di rifiuti,
con conseguente applicazione della normativa in materia di rifiuti. La nozione di scarico la troviamo nella parte
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III del d.lgs. 152/2006; in questa parte del T.U. il legislatore ha deciso di accorpare due normative, tutela delle
acque e difesa del suolo (in precedenza separata e disciplinata dalla l. n. 183/1989).
Facciamo, per iniziare, un rapido excursus storico-giuridico sulla nozione di scarico: la l. n. 319/1976 (Legge
Merli), per la prima volta ha introdotto il concetto di scarico e ha obbligato chi scarica sostanze liquida
nell’ambiente e nella rete fognaria a dotarsi di una specifica autorizzazione e a rispettare determinati valori limite.
Ci sono state poi delle direttive comunitarie, attuate con il consueto e colpevole ritardo da parte del legislatore
italiano. Il d.lgs. 152/1999 (come modificato dal d.lgs. 258/2000), poi, ha riscritto interamente la normativa in
questione e ha rappresentato per lungo tempo un vero e proprio Testo Unico sull’inquinamento idrico. C’ è da
precisare, comunque, che la normativa in materia si divide in più parti, alcune delle quali nemmeno contenute
nel d.lgs. 152/2006. La divisione è così fatta:
Normativa sugli scarichi (d.lgs. 152/2006, parte III);
Normativa sull’approvvigionamento idrico (r.d. 1775/1933): si intende l’approvvigionamento tramite la
costruzione di pozzi o tecniche di derivazione di acque dalle acque superficiali previa necessaria
concessione amministrativa. La situazione è diversa dall’approvvigionamento idrico da acquedotto, nel
qual caso interviene un contratto di somministrazione con la società che gestisce l’acquedotto;
Normativa sulle acque destinate al consumo umano (d.lgs. 31/2001, che recepisce una direttiva
comunitaria);
Normativa sul servizio idrico integrato (d.lgs. 152/2006, parte III): interessa il servizio pubblico locale che
gestisce tutto il ciclo delle acque, prima era disciplinato dalla l. n. 36/1994 (Legge Galli).
Iniziamo a vedere la normativa in questione, partendo dal Titolo II della parte III del d.lgs. 152/2006, in particolare
con l’art 73: qui sono contenute, così come faceva l’art. 1 del d.lgs.152/1999, le finalità della normativa, tramite
l’indicazione, ovviamente, degli obiettivi, che sono prevenzione e riduzione dell’inquinamento e risanamento dei
siti idrici inquinati. C’è da precisare, comunque, che la risorsa idrica non necessita solo di una tutela qualitativa,
ma anche di una tutela quantitativa, dal momento che, comunque, l’acqua è e rimarrà una risorsa esauribile.
La l. n. 319/1976 operava una classificazione di scarico basata sulla provenienza degli scarichi, quindi in scarichi
da insediamenti civili e scarichi da insediamenti produttivi. Il d.lgs. 152/1999 cambia impostazione e si fonda non
più sulla provenienza, ma sulla tipologia degli scarichi (dando importanza anche alla qualità degli scarichi, non
più solo alla provenienza) per operare la classificazione in acque reflue domestiche, industriali e urbane. Si può
notare anche come si iniziò a parlare di acque reflue, che sono il contenuto degli scarichi idrici, e non più di
scarichi e basta.
La definizione di acque reflue domestiche è contenuto nell’art 2, co. 1, lett. g del d.lgs. 152/1999, che scrive
“acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal
metabolismo umano e da attività domestiche”: l’inciso in grassetto ha una grandissima importanza perché
inserisce per la prima volta un criterio qualitativo. Un inciso importante per lo stesso identico motivo lo troviamo
anche alla lettera seguente (art. 2, co. 1, lett. h, d.lgs. 152/1999) che definisce le acque reflue industriali scrivendo:
“qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di
produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento”. Il criterio
qualitativo, comunque, prevale sempre sul criterio della prevalenza. Alla lettera i, poi, il decreto completa le
definizioni con le acque reflue urbane: “acque reflue domestiche o il miscuglio di acque reflue domestiche, di acque
reflue industriali ovvero meteoriche di dilavamento convogliate in reti fognarie, anche separate, e provenienti da
agglomerato”. Quest’ultima categoria esiste perché, ai fini dell’autorizzazione, non serve considerare solo lo
scarico nella rete fognaria, ma anche la scarico della rete fognaria: anche questa deve scaricare prima o poi, non
sta sulla Luna!
Passiamo ora alla definizione di scarico che sempre il d.lgs. 152/1999 ci dà. L’art. 2, co. 1, lett. bb scrive: “qualsiasi
immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle acque
superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche
sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti all’art. 40” (l’art. 40
riguarda le dighe). Da notare che anche l’immissione di acque reflue non inquinanti è considerata scarico, quindi
deve essere autorizzata. Tutte le volte, invece, in cui l’immissione non è diretta (se c’è un’interruzione fisica tra
l’attività produttiva e la rete fognaria) non c’è scarico; questa concezione è figlia di una sentenza delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione del 1995 che introduce un nuovo criterio per distinguere scarico idrico da rifiuti.
Non si ricorre più alla distinzione tra liquidi e solidi, se una sostanza è immessa direttamente è scarico; la
medesima sostanza immessa tramite altre procedure è rifiuto.
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Il d.lgs. 152/2006 sembra fare un passo indietro e tornare al 1976; all’art. 74, co, 1, lett. ff si legge: “qualsiasi
immissione di acque reflue in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente
dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di
acque previsti all’articolo 114” (l’art. 114 disciplina il rilascio di acque mediante dighe). Come si può notare,
spariscono le tre parole (“diretta tramite condotta”) che avevano fatto la fortuna del d.lgs. 152/1999, per questo
sembra di tornare alla Legge Merli, senza distinzione tra immissione diretta o indiretta. La Cassazione poi, come
se nulla fosse successo e fingendo che il legislatore ambientale nel 2006 non fosse mai esistito, ribadisce il concetto
del 1995, reintroducendo la distinzione fra immissione diretta e indiretta (sent. n. 40191 del 30 ottobre 2007). Lo
stesso art. 74, co. 1, lett. ff, come però modificato dal d.lgs. 4/2008, recita in maniera diversa: è scarico “qualsiasi
immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di colletta mento che collega senza soluzione di
continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore […]”. Per quanto riguarda le acque industriali, il
legislatore del 2006 le aveva intese nel seguente modo: “qualsiasi tipo di acque reflue provenienti da edifici od
installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle
acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali anche quelle venute in
contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento”
(art. 74, co. 1, lett. h). La giurisprudenza non si trovò molto d’accordo con questa formulazione e, quindi, equiparò
le acque meteoriche di dilavamento agli scarichi industriali. Perché mai distinguerle se inquinano allo stesso
modo? Il d.lgs. 4/2008 riformula la norma riproducendola ma omettendo l’ultima parte (per intenderci, arriva fino
a “quelle meteoriche di dilavamento”). Per cui si sa che è intervenuta una modifica, non si sa, invece, ancora come
operi, vista la mancanza di precedenti. Le acque reflue urbane, infine, venivano definite come “il miscuglio di
acque reflue domestiche, di acque reflue industriali, e/o di quelle meteoriche di dilavamento convogliate in reti
fognarie, anche separate, e provenienti da agglomerato” (art.74, co. 1, lett. i). A differenza di quanto previsto dal
d.lgs. 152/1999, qui sembrava che per essere urbane le acque reflue sarebbero dovute consistere necessariamente
ed esclusivamente in un miscuglio. Se questo miscuglio non c’era, le reflue non erano urbane.
Per concludere, l’art. 95 tratta della tutela quantitativa delle risorse idriche (“pianificazione delle utilizzazioni delle
acque volta ad evitare ripercussioni sulla qualità delle stesse e a consentire un consumo idrico sostenibile”), l’art.
101 fissa i criteri generali della disciplina degli scarichi (“Tutti gli scarichi […] devono comunque rispettare i valori
limite previsti nell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto”); agli artt. 103 e 104 si realizza formalmente
la concezione secondo cui, comunque, tra i corpi ricettori vi sia una sorta di gerarchia: così l’art. 103 vieta lo scarico
sul suolo, l’art. 104 vieta lo scarico nelle acque sotterranee e nel sottosuolo.
CAP 18
E’ interessante, ora, vedere rapidamente qualche sentenza in argomento della Terza Sezione della Cassazione
Penale.
Per esempio, la sent. n. 985/2004 afferma che lo scarico proveniente da atti di autolavaggio sono assimilabili alle
acque reflue industriali per la presenza di sostanze aventi caratteristiche inquinanti rilevanti e diverse dalle acque
reflue domestiche.
La sent. n. 978/2004 dice lo stesso per i reflui derivanti da attività di carrozzeria.
Infine, la sent. 44290/2007 prende in esame lo stoccaggio in apposite acque di raccolta delle acque reflue
industriali provenienti dal lavaggio o da altri atti industriali, dicendo che se ciò avviene e manca l’autorizzazione
allo scarico, non è escluso il reato, perché questo stoccaggio è assimilabile ai rifiuti allo stato liquido.
CAP 19
All’comma 1 dell’art. 124 del d.lgs. 152/2006 troviamo un principio generale che conosce una sola eccezione:
“Tutti gli scarichi devono essere preventivamente autorizzati”. L’autorizzazione ha una validità di 4 anni (di gran
lunga inferiore ai 15 anni di validità per l’autorizzazione nell’immissione in atmosfera) e il rinnovo va chiesto con
almeno un anno di anticipo rispetto alla scadenza; nelle more del procedimento autorizzativo, comunque, lo
scarico può essere mantenuto, salvo che si tratti di scarico di sostanze pericolose, nel qual caso, se il rinnovo non
avviene entro 6 mesi dalla scadenza dell’autorizzazione, deve cessare immediatamente, ferme restando le
responsabilità nel ritardo dell’autorità competente.
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La richiesta di autorizzazione deve essere presentata dal titolare dell’attività che produce lo scarico. Se più
impianti mettono in comune più scarichi, questa eventualità era contemplata del d.lgs. 152/1999 solo se si fosse
costituito un consorzio; in questo caso, è al consorzio stesso che viene concesso l’autorizzazione. Il fatto che vi sia
il consorzio, comunque, non esclude la responsabilità dei singoli consorziati: è l’ipotesi del consorzio trasparente.
Nel 2006, all’ipotesi di consorzio, se ne sono aggiunte altre due: l’ipotesi in cui più stabilimenti affidino a un terzo
titolare dello scarico finale le acque reflue derivanti dalla loro attività, “effettuino scarichi in comune” diceva la
norma; il caso è stato eliminato dal d.lgs. 4/2008 (che ha aggiunto il termine “tramite condotta”) ma anche nel
momento in cui era in vigore non era mai stato applicato ed aveva creato notevoli difficoltà agli interpreti (non si
capiva se il conferimento potesse avvenire, per esempio, anche tramite autobotti o vasche di stoccaggio, anziché
solo tramite scarichi). L’altra ipotesi è quella in cui più stabilimenti mettano in comune lo scarico senza creare un
consorzio; in questo caso l’autorizzazione viene conferita al titolare dello scarico finale, ma questo non significa
che i singoli soggetti non siano responsabili per l’eventuale inquinamento che loro stessi hanno provocato con la
loro attività. La richiesta di autorizzazione va avanzata di sicuro quando si apre un nuovo scarico, ma anche
quando l’attività da cui deriva lo scarico venga trasferita in un nuovo luogo (art. 124, co. 12). L’art. 124, co. 8
stabilisce, infine, che l’autorizzazione va richiesta quando si compie una diversa destinazione d’uso, un
ampliamento o una ristrutturazione dell’edificio-stabilimento da cui derivi uno scarico avente caratteristiche
qualitativamente e/o quantitativamente diverse. L’autorità competente a concedere l’autorizzazione non è unica
come nel caso delle emissioni atmosferiche; qui per stabilirla occorre individuare la tipologia del corpo ricettore:
se lo scarico è in rete fognaria pubblica c’è l’Autorità di ambito, in tutti gli altri casi opera la Provincia. L’unica
ipotesi in cui non serve l’autorizzazione è quella dello scarico di acque reflue domestiche in rete fognaria (art. 124
co. 4) nel rispetto dei regolamenti emanati dal gestore della rete fognaria. L’art. 125 prevede tutta una serie di
requisiti che la richiesta di autorizzazione deve necessariamente possedere, tra cui le “caratteristiche quantitative
e qualitative dello scarico e del volume annuo di acqua da scaricare, dalla tipologia del ricettore […]”.
CAP 20
Un aspetto che va almeno accennato è quello del divieto di diluizione, ovvero si proibisce che il rispetto dei valori
limite di emissione sia conseguito mediante diluizione con acque prelevate esclusivamente a tale scopo (art. 28,
co. 5, d.lgs. 152/1999); prima di tutto perché sarebbe uno spreco di risorse, poi perché non c’è una riduzione del
carico inquinante (10 litri rimangono sempre 10 litri, solo in più volume d’acqua). Il disposto dell’art. 28 del d.lgs.
152/1999 viene ripreso parola per parola dall’art. 101, co. 5 del d.lgs. 152/2006; dalla lettera di queste due norme
parrebbero comprese nel divieto anche tutte le acque che non partecipano in modo essenziale e diretto al ciclo
produttivo, ma accompagnano, invece, la produzione in via accessoria e complementare (“Non e’ comunque
consentito diluire con acque di raffreddamento, di lavaggio o prelevate esclusivamente allo scopo gli scarichi
parziali”). Invece, l’idea di un divieto di carattere “assoluto” e inderogabile è, per ora, esclusivo della
giurisprudenza.
CAP 21
Le sanzioni sono previste negli artt. 128 e ss. L’autorità competente per al controllo, comunque, solitamente
coincide con quella competente per il rilascio dell’autorizzazione. L’art. 129 stabilisce chiaramente quanto segue:
“L’autorità competente al controllo e’ autorizzata a effettuare le ispezioni, i controlli e i prelievi necessari
all’accertamento del rispetto dei valori limite di emissione, delle prescrizioni contenute nei provvedimenti
autorizzatori o regolamentari e delle condizioni che danno luogo alla formazione degli scarichi. Il titolare dello
scarico e’ tenuto a fornire le informazioni richieste e a consentire l’accesso ai luoghi dai quali origina lo scarico.”. Il
mancato rispetto di una tale condotta comporta delle sanzioni penali, descritte all’art. 137. In caso di inosservanza
delle prescrizioni dell’autorizzazione, il titolare dell’attività viene punito con una sanzione in via penale o in via
amministrativa, a seconda della natura dello scarico; a tali sanzioni si accompagna sempre la possibilità per la
P.A. di procedere, secondo la gravità dell’infrazione, alla diffida, sospensione o addirittura revoca
dell’autorizzazione. La diffida viene applicata quando si vuole imporre di regolarizzare l’attività entro un certo
termine, la sospensione in caso di pericolo per l’ambiente e per le persone; nel caso in cui, invece, vi sia un mancato
adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di reiterate violazioni che possono creare pericolo
per l’ambiente o per le persone si arriva alla revoca dell’autorizzazione. Le sanzioni principali sono previste
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negli artt. 133, 134 e 137 del d.lgs. 152/2006: all’interno di queste norma si stabilisce, per esempio, che chiunque
apra o effettui uno scarico senza autorizzazione (o mantenga uno scarico dopo la sospensione o la revoca di
un’autorizzazione) è punito con l’arresto o con un ammenda. L’art. 132, co. 2 stabilisce che chiunque apre od
effettua scarichi senza autorizzazione o mantiene scarichi dopo la sospensione o la revoca della stessa, è punito
con la sanzione amministrativa da 6 mila a 60 mila €.Il mancato rispetto delle prescrizioni dell’autorizzazione (art.
137, co. 4) comporta una sanzione penale; c’è, però, un dibattito giurisprudenziale sulla lettera della norma: “salvo
che il fatto non costituisca reato”. Qual è allora il discrimine tra sanzioni penali o amministrative pecuniarie?
L’orientamento maggioritario (e più aderente alla lettera della norma) afferma che non tutte le ipotesi di acque
reflue industriali devono essere sanzionate penalmente, ma solo quelle aventi ad oggetto sostanze pericolose. In
caso di superamento dei valori limite nello scarico, risulta ancora meno agevole capire quando la sanzione è
penale o amministrativa; si fa riferimento all’art. 137, co. 5, che scrive che, in caso di violazione dei valori indicati
nelle tabelle di cui all’Allegato 5, si è puniti con l’ ”arresto fino a due anni e con l’ammenda da tremila euro a
trentamila euro”: esiste, quindi, un doppio regime sanzionatorio, arresto e ammenda cumulativi. L’art. 135
dispone che in materia di accertamento degli illeciti amministrativi e la conseguente irrogazione della sanzione
amministrativa pecuniaria si applica la l. n. 689/1981 (cosiddetta Legge di depenalizzazione); l’art. 136, poi,
stabilisce che i proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie devono essere riassegnati a determinati fondi
per opere di risanamento e riduzione dell’inquinamento dei corpi idrici. Interessanti anche altri due articoli: il 139
e il 140. Il primo subordina la sospensione condizionale della pena (una sentenza di condanna, quindi, è già
intervenuta) al risarcimento del danno e all’effettuazione di tutte le operazioni di messa in sicurezza, ripristino e
bonifica dell’impianto da parte del trasgressore; il secondo invece afferma che, qualora prima del giudizio il
trasgressore ripari interamente il danno arrecato, le sanzioni penali e amministrative sono diminuite dalla metà
ai due terzi.
Per quanto riguarda il guasto tecnico, questo, a differenza che nel caso delle emissioni atmosferiche, non esclude
la responsabilità. L’unico caso che ha costituito un’eccezione nella concezione sopra esposta, è la sentenza
pronunciata dalla III sezione della Cassazione penale, sent. n. 4009/1999, in cui si è detto che se sono rispettati
gli obblighi di vigilanza e manutenzione e se il superamento dei valori limite è stato occasionato da un
imprevedibile guasto, il produttore non è ritenuto responsabile. A parte il fatto che al tempo si applicava ancora
la Legge Merli, ma questo fu l’unico caso di esonero del titolare dell’attività dalla responsabilità per inquinamento
derivante da guasto tecnico. Una sentenza successiva, la n. 1054/2003, è il paradigma dell’orientamento che la
Corte segue, ovvero ascrive il guasto ad una condotta negligente dell’imputato, che, essendo in una posizione
professionale delicata, dovrebbe adottare degli accorgimenti maggiori rispetto all’uomo medio (per esempio,
attuare il blocco automatico dell’impianto nel caso in cui si verifichi un guasto).
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