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Kant nasce nel 1624.

La figura di Kant è poliedrica, studia matematica e fisica


secondo i precetti newtoniani. Attraverso lo studio della matematica e della
fisica si avvicina all’empirismo. Nel 1648 scrive “Pensieri sulla valutazione della
forza”, interessante in quanto si occupava delle modalità per misurare l’energia
cinetica. Il suo interesse si rivolge alla metafisica, e qualche anno dopo scriverà
“la storia universale della natura”, prendendo le distanze da Newton e ideando
la necessità della separazione ta scienza e fede. In quest’opera indaga circa
l’origine del sistema solare e pensa che possa derivare da una nebulosa
primitiva. La sua vicinanza alla metafisica diventa sempre più preponderante,
tanto che nel ‘66 scrive “I sogni di un visionario chiariti con i sogni della
metafisica”, in cui si occupa di spiritismo. Riesce quindi facilmente a passare
dalla fisica pura alla metafisica. Nel ‘70 compone la “Dissertazione”, sua tesi di
dottorato. Elaborerà così la sua teoria gnoseologica. Kant darà questo testo alle
stampe e vi rifletterà tanto da produrne anni dopo una revisione, “Critica della
ragion pura” nell’87. Riserva grande interesse all’etica, scrivendo la
“Fondazione della metafisica dei costumi” e “Critica della ragion pratica”. Oltre
all’etica riserva spazio anche alla religione con “La religione entro i limiti della
ragione” nel ´93. Kant indaga nella “critica della ragione” circa i limiti e la
legittimità dell’uso delle proprie facoltà. Conierà l’espressione “pensiero
critico”. La ragione viene chiamata in tribunale come imputato. Puro significa
ciò che non è sottoposto agli obblighi empirici. La “critica della ragion pura” è
un processo alla ragione considerata pura. La ragion pratica si occupa invece
degli aspetti morali. Nella critica della ragion pura indaga sui principi a priori
delle facoltà conoscitive. Il primo obiettivo è quello di indagare circa la
possibilità della ragione di sottrarsi ai dati empirici, poi l’opera si pone come
obiettivo determinare la legittimità della pretesa della ragione di estendere la
conoscenza oltre i limiti dell’esperienza. Con Kant ha inizio il pensiero moderno,
perché il pensiero precedente era caratterizzato da razionalismo ed empirismo.
I razionalisti lottavano contro gli empiristi. L’oggetto di discussione era il mondo
gnoseologico, cioè alla modalità in cui l’uomo potesse conoscere. La domanda
con la quale Kant inaugura il pensiero moderno è “è possibile fornire un
fondamento certo alla conoscenza del reale?”. Si pone questa domanda perché
secondo lui il conoscere non incontra le cose, ma incontra le idee delle cose.
Come posso dimostrare che queste idee riproducono la realtà? Corrispondono
veramente alla realtà? Per Kant è un totale fallimento l’attività con cui si cerca
di pensare la conoscenza come determinata dagli oggetti, perché la
conoscenza non va considerata come una corrispondenza immediata dei
concetti ad una realtà oggettuale preesistente, perché altrimenti bisognerebbe
ricorrere ad una realtà invariabile, che possa aver dato vita a quella realtà, per
esempio postulare l’esistenza di Dio. La mia conoscenza non dipende da una
divinità che mi ha proposto la realtà in un certo modo, esclude la legittimità
esterna del conoscere, perché sarebbe predeterminata. Ma come funziona il
processo gnoseologico? Devo indagare circa le modalità attraverso cui le
funzioni della ragioni operano per permettere il processo gnoseologico. Kant
ipotizza che sarebbero gli oggetti del mondo esterno a regolarsi sulle nostre
facoltà conoscitive. Kant sta attribuendo un ruolo importantissimo nel processo
gnoseologico al soggetto, che ne diventa protagonista, perché il soggetto è
responsabile delle forme assunte dagli oggetti nella conoscenza. Kant riprende
la definizione di Aristotele secondo cui l’uomo è un animale razionale. Se tutti
siamo dotati di ragione nessuno può essere succube dell’altro. Tutti i soggetti
condividono le stesse facoltà conoscitive. Kant chiamerà “io penso” questa
funzione unificante, che serve a conoscere, e mette in evidenza come tutti gli
uomini abbiano le stesse facoltà gnoseologiche. Se tutti gli uomini sono
accomunati da questa funzione unificante, il conoscere è universale e
necessario, perché appartiene a tutti. Questa passa alla storia come rivoluzione
copernicana. Anche Kant compie la sua rivoluzione, chiamata copernicana
perché come Copernico cambia il punto di vista, la stessa cosa farà Kant.
Immaginiamo un universo in cui il soggetto occupa la posizione centrale. Kant
riesce a stravolgere la prospettiva gnoseologica. Per la prima volta non serve
una divinità, una garanzia al di fuori della garanzia stessa che la ragione è in
grado di conoscere. Noi non conosciamo le cose per come sono in se stesse,
ma secondo quelle modalità previste dalle nostre facoltà. Noi non conosciamo
la realtà così come è in sé, ma la realtà si costituisce davanti ad ognuno
attraverso i processi della sua conoscenza. Se io non conosco la realtà così
com’è, la conosco per come mi appare. Solo analizzando l’uso che si fa dei vari
processi gnoseologici abbiamo la possibilità di delineare validità e limiti della
conoscenza.
In questo modo Kant affronta il dilemma della realtà. Se il soggetto assume
questo ruolo fondamentale, Kant affronta il problema trasferendolo dalla realtà
al soggetto. Bisogna cioè stabilire quali condizioni la conoscenza deve
rispettare. Kant introduce un concetto molto importante, ovvero il concetto di
trascendentale. Con questo termine si riferisce al punto di osservazione da cui
guardare la ragione per scoprire la legittimità delle sue pretese gnoseologiche
applicate alla realtà. Trascendentale è il metodo. Quali discipline sono
importanti nello studio delle facoltà conoscitive? L’estetica, l’analisi a e la
dialettica trascendentali. Nell’ambito della ragione pura indaga gli elementi a
priori della conoscenza, ovvero svincolati dall’esperienza. Il soggetto
conoscente non riceve soltanto i dati, ma li unifica e li ordina secondo forme
comuni ad ogni soggetto (a priori). Queste forme non derivano dall’esperienza,
ma appartengono alle facoltà conoscitive del soggetto. Questi dati sono la
conditio sine qua non della conoscenza. Nascono col soggetto. Dunque esiste
una realtà fuori dal soggetto, ma è irraggiungibile, perché non posso
conoscerla nella sua purezza. La critica della ragion pura ha per oggetto
indagare la pretesa della ragione di essere pura, quindi di funzionare attraverso
funzioni a priori, tra cui troviamo anche spazio e tempo, funzioni a priori del
rappresentare. Spazio e tempo sono dentro di me, sono la capacità che il
soggetto ha di collocare in uno spazio ed in un lasso di tempo le informazioni
provenienti dall’esterno. “Quando e dove” sono le prime domande di un
bambino. Difatti si insegna al bambino a proiettare fuori di sé ciò che esso ha
già dentro di sé. L’esperienza è fondamentale ma è imprescindibile dal
soggetto. Focalizzare l’attenzione sull’io fa comprendere il senso della
rivoluzione copernicana. Se è vero che l’uomo conosce i dati sensibili
provenienti dall’esterno, ciò accade perché si manifestano. Sono quindi
fenomeni. Solo i fenomeni possono essere collocati in uno spazio e in un tempo.
Si possono usare le funzioni del rappresentare solo in base ai dati della
conoscenza sensibile. La ragion pura analizza la pretesa della ragione di essere
pura. La ragione può essere pure, perché funziona attraverso i dati a priori. Un
altro obiettivo della critica della ragion pura è capire se sia possibile porre la
metafisica come scienza. Kant parte dal sunto che la scienza è costituita da
giudizi sintetici a priori. Il giudizio è una predicazione, attribuzione di un
predicato ad un soggetto. Distingue giudizi analitici e sintetici. La differenza è
che il giudizio è analitico quando il predicato è già implicito nel soggetto, ed è
quindi a priori, ma deriva da un’operazione logica basata sul criterio d’identità e
non contraddizione; è invece sintetico quando si aggiunge un predicato al
soggetto. Il giudizio analitico a priori è universale e necessario. Affinché la
scienza sia possibile, Kant le riserva la possibilità di giudizi sintetici a priori. Dio
sarà per Kant un paralogismo della ragione. Non c’è quindi trascendente nella
filosofia Kantiana. Il ruolo dell’estetica trascendentale è esaminare le facoltà
della sensibilità, che presiede l’esperienza. Si propone quindi di valutare le
condizioni di possibilità e tutti quegli elementi che costituiscono l’esperienza, e
quindi la conoscenza. Quando si parla in Kant di esperienza dobbiamo tenere
conto che è l’insieme dei dati che io colgo attraverso la mia sensibilità. Quando
la mente riceve il dato lo elabora, mettendo in atto tutto il processo
gnoseologico. Elabora quelle che chiameremo forme soggettive a priori (spazio
e tempo). All’estetica trascendentale segue la logica trascendentale, che
indaga la facoltà dell’intelletto. Noi del mondo esterno cogliamo il fenomeno, le
cose come ci appaiono. La conoscenza riceve i dati esterni attraverso la
sensibilità, che è facoltà ricettiva, poi rielabora il sapere attraverso l’intelletto,
che è una facoltà attiva e ha il compito di analizzare i nessi tra gli oggetti,
ordinare secondo forme a priori e dare informazioni che vanno a completare
quella parte estetica della conoscenza. L’intelletto ha come strumenti le
categorie. La logica si distingue in analitica e in dialettica: l’analitica studia le
forme a priori dell’intelletto (categorie), mentre la dialettica studia le forme a
priori della ragione (idee). Il soggetto organizza le rappresentazioni sensibili
mediante forme a priori dell’intelletto e che unifica attraverso le categorie.
Categoria significa predicazione. Il loro predicato è rappresentato dal giudizio.
Le categorie sono 12 e sono funzioni dell’intelletto. Possiamo chiamarle anche
forme concettuali, cioè modi di collegamento delle rappresentazioni che hanno
validità universale. Le categorie attingono dai dati empirici e Kant dirà che “i
concetti senza intuizioni sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche”. Vi
è l’esigenza di ridurre il molteplice all’unità attraverso l’io penso, attività che
sintetizza i dati dell’esperienza. Per spiegare l’uso delle categorie Kant parla di
schematismo trascendentale, ma parla anche di deduzione trascendentale e di
immaginazione produttiva. Attraverso la deduzione trascendentale Kant
fornisce una spiegazione della validità e dell’accuratezza delle categorie tramite
una deduzione, che denomina trascendentale. L’uso delle categorie è reso
possibile dal fatto che la facoltà della sensibilità opera un’elaborazione dei
progetti secondo spazio e tempo. Quello che conosciamo non è l’essenza
dell’oggetto, ma la modificazione che questo provoca in noi che viene elaborata
dall’intelletto grazie all’intervento della sensibilità. Gli oggetti dell’esperienza
rispetto alle nostre facoltà sono effetto della nostra immaginazione produttiva.
Il fenomeno è il prodotto della sensibilità. La cosa come ci appare è il prodotto
di un incontro tra il dato esterno e l’elaborazione di esso. La mia modalità di
elaborare il fenomeno sarà sicuramente diversa da quella di un altro. Gli oggetti
dell’esperienza rispetto alle nostre facoltà conoscitive sono l’effetto
dell’immaginazione produttiva, che legittima l’uso delle categorie da parte della
ragione. L’appercezione trascendentale o io penso è l’attività che sintetizzata i
dati dell’esperienza. Lo schematismo trascendentale mette in evidenza che gli
schemi sono rappresentazioni a priori prodotti dall’immaginazione produttiva,
che condividono con i fenomeni la forma del tempo. Le intuizioni sensibili sono
organizzate mediante le categorie, forme pure dell’intelletto, e non della
ragione. Raccolgono le informazioni sensibili in un ambito definito. Le categorie
sono legittimate dall’io penso. La legittimazione mi da la coscienza che ogni
attimo conoscitivo garantisce l’unità stessa della conoscenza. Le categorie si
applicano ai principi puri dell’intelletto puro, e necessitano di schemi
trascendentali, dati dall’intelletto puro, che guidano l’uso delle categorie. La
critica della ragion pratica ha inizio con un presupposto fondamentale,
definendo quest’opera come complemento a ciò che ha negato alla ragione
speculativa, volendo dare una giustificazione al fatto di voler continuare la sua
critica nei riguardi di una ragione che era regina nella sua epoca. L’oggetto della
ragione pratica sarà la morale, che non può essere una compensazione allo
scacco della ragione speculativa. La critica della ragion pratica è un tentativo di
scusarsi nei confronti della ragione. La critica della ragion pratica è comunque
un trattato di morale, ed è quasi un gioco quello di Kant, perché vuole
giustificarsi agli occhi dei suoi contemporanei, ma il suo compito di giudicare la
ragione è notevole. Nella critica della ragion pratica si mette in evidenza si
vuole dare compimento all’ispirazione dell’uomo verso l’incondizionato. La
ragione con la morale apparentemente c’entra poco, ma per Kant non è così. La
riflessione di Kant sull’etica si costruisce intorno all’interrogativo “che cosa
devo fare?”. La critica della ragione pratica è un’indagine circa la modalità su
cui noi facciamo, su come ci comportiamo. Il principio dell’etica per Kant deve
essere un principio primo, autonomo rispetto alla stessa ragione speculativa. Se
la ragione è pura non può essere pratica. La critica della ragion pratica non è
un’opera appartenente all’illuminismo. Si ha una declinazione della filosofia
kantiana in senso romantico. Nella critica della ragion pratica abbiamo una
prima riflessione sulla categoria del sentimento, in particolare puntando alla
radice del sentimento: non c’è sentimento senza rispetto. Il rispetto per Kant è
un sentimento morale. Nell’animo umano riconoscere una morale originaria è
fondamentale perché l’uomo possa classificarsi superiore rispetto agli animali,
perché l’uomo possa avere una giusta collocazione nella natura. Se la ragione
speculativa non colma tutti i desideri dell’uomo, evidentemente sta cambiando
qualcosa. Poiché è importante la riflessione sul sentimento, è fondamentale
fondare una metafisica dei costumi, che non si deve limitare a studiare il
comportamento dell’uomo, ma deve indagare la parte pura dell’etica, le
condizioni a priori dell’agire morale dell’uomo. Kant è convinto che esista una
legge morale dal valore universale. Questa certezza è un fatto della ragione,
deriva dal fatto che l’uomo ha una ragione. Dirà che la legge morale è data
come un fatto della ragione pura. Di questo fatto noi siamo consapevoli a priori.
La realtà oggettiva della legge morale non può essere dimostrata mediante
nessuna deduzione. Kant ci ha insegnato il dato dell’universale e necessario. La
legge morale per avere valore universale e necessario deve essere pura, a
priori. La legge morale deve essere universale e necessaria, non è ricavabile
dall’esperienza. L’uomo, prima di applicare la legge morale, deve conoscere
l’altro, ovvero il soggetto verso cui indirizzare il rispetto. Il rispetto è avere
consapevolezza del mio limite. Il rispetto va a compensare i limiti della ragione.
Mentre la critica della ragione pura conteneva una sorta di contestazione
contro la pretesa della ragione di valere al di là dell’esperienza, la critica della
ragion pratica ha il compito di fare una distinzione tra ciò che nell’agire
dell’uomo è secondo la ragione pura, da ciò che è essendo frutto delle
tendenze soggettive di ogni individuo può essere oggetto solo di una
conoscenza empirica. L’uomo ha delle necessità naturali, ma deve allenare la
sua capacità di opporsi a ciò che è selvaggiamente naturale. La legge morale
deve esprimersi come un ordine che l’uomo da a se stesso, cui la libera volontà
dia o levi il proprio assenso verso ciò che è buono o buono non è. Ciò che è de
l’uomo superiore agli animali è l’uso della legge morale. Kant parla
dell’esperienza del dovere con la consapevolezza che è espressione del
conflitto interiore insito nella duplice costituzione dell’uomo, che da un lato
partecipa all’ordine della natura, dall’altro è ragione libera, che è noumeno.
L’anima, il mondo e Dio per Kant sono paralogismi. Non è l’anima a dover
decifrare cos’è bene e cos’è male, ma la ragione. Non conosco la ragione in sé,
ma in essa vengono elaborate la conoscenza e la morale, e ciò supplisce a
questa mancanza. Poiché la legge morale nasce dalla ragione, è la ragione che
comanda se stessa. La ragione, pur non essendo nel percorso empirico
dell’uomo, è certezza pura perché grazie ad essa l’uomo conosce e si distingue
dalla bassezza degli altri esseri, riuscendo a determinarsi attraverso un
imperativo che la ragione comanda a se stessa. La ragione dà all’uomo anche
alcune possibilità: le massime, ovvero i principi soggettivi dell’agire, che mi
determinano ad agire in un certo modo, giusto o sbagliato che sia. La legge
morale non è invece un principio soggettivo, è valida per tutti. La ragione è la
parte più forte dell’individuo. Esiste l’imperativo ipotetico e quello categorico.
L’imperativo ipotetico non ha esito morale, perché condizionato dallo scopo
che il soggetto vuole raggiungere. L’imperativo categorico non ha un fine,
spinge la volontà e la ragione ad agire per agire. Ha valore in sé e per sé, non
ha ipotesi. Devi perché devi. La legge morale deve partire dalla regola che
l’uomo agisce veramente in senso morale quando osserva poche regole.
L’uomo è la sua ragione sono i fondamenti della legge morale. L’imperativo
categorico è universale. La morale Kantiana è la morale del formalismo, perché
esclude che la legge morale possa prescrivere cosa fare. Non c’è un contenuto,
perché se ci fosse deriverebbe dalla mia volontà. Qualunque determinazione
soggettiva mi stimoli ad agire mi allontana dall’azione morale. L’universalità
dell’azione morale non ho dipendere da un contenuto, ma solo dalla formalità
della legge. La legge morale prescrive il come. Devo fare in modo che ciò che
mi determina ad agire non valga solo per me, ma valga per tutti. L’artista Ceruti
rappresenta alla perfezione il formalismo Kantiano, soggetti profondamente
onesti. La sua è un’opera di denuncia sociale e la sua pittura non mira ad
abbellire i suoi soggetti. Al di là dell’estetica, Ceruti mira ad esprimere
attraverso gli occhi del personaggio il moralismo. “Il nano” denuncia la
condizione sociale degli onesti, coloro che indagano e ci mettono a nudo
l’anima, il sentire, e questo è il ruolo della ragione. Ciò che ha importanza è la
rettitudine, la capacità di rendere legge universale la propria massima. Il regno
dei fini è un insieme ideale di persone libere che hanno la convinzione di vivere
la legge morale, un’unione sistematica di diversi esseri ragionevoli mediante
leggi comuni, in cui ciascuno possa essere legislatore universale e sottoposto
alla legge. “Agisci in modo che la volontà possa in forza della sua massima
considerare se stessa come istituente una legislazione universale” è la terza
formula dell’imperativo categorico. Il carattere del formalismo kantiano non
prescrive che si obbedisca a qualcosa di determinato, ma impone di volerlo
perché è quella cosa stessa legge. È morale dell’intenzione, non della
responsabilità. Il postulato è per Kant ciò che la legge morale presuppone come
condizione della propria possibilità. È come se la legge morale esigesse da se
stessa la propria possibilità. Affinché io possa credere nella morale devo
postulare la libertà, perché la legge morale è autonoma. La libertà è un
postulato. Un altro postulato è l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio. Sono
esigenze della moralità. La libertà si differenzia dagli altri postulato perché la
conosciamo a priori, poiché la nostra morale è autonoma. Senza legge morale
non si dà coscienza della libertà. Ci rende coscienti di essere liberi. Sul piano
ontologico la libertà è condizione della moralità, e la chiamiamo ratio essendi.
Sul piano gnoseologico la moralità è ratio cognoscendi della libertà.

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