La figura di Kant è poliedrica, studia matematica e fisica
secondo i precetti newtoniani. Attraverso lo studio della matematica e della fisica si avvicina all’empirismo. Nel 1648 scrive “Pensieri sulla valutazione della forza”, interessante in quanto si occupava delle modalità per misurare l’energia cinetica. Il suo interesse si rivolge alla metafisica, e qualche anno dopo scriverà “la storia universale della natura”, prendendo le distanze da Newton e ideando la necessità della separazione ta scienza e fede. In quest’opera indaga circa l’origine del sistema solare e pensa che possa derivare da una nebulosa primitiva. La sua vicinanza alla metafisica diventa sempre più preponderante, tanto che nel ‘66 scrive “I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica”, in cui si occupa di spiritismo. Riesce quindi facilmente a passare dalla fisica pura alla metafisica. Nel ‘70 compone la “Dissertazione”, sua tesi di dottorato. Elaborerà così la sua teoria gnoseologica. Kant darà questo testo alle stampe e vi rifletterà tanto da produrne anni dopo una revisione, “Critica della ragion pura” nell’87. Riserva grande interesse all’etica, scrivendo la “Fondazione della metafisica dei costumi” e “Critica della ragion pratica”. Oltre all’etica riserva spazio anche alla religione con “La religione entro i limiti della ragione” nel ´93. Kant indaga nella “critica della ragione” circa i limiti e la legittimità dell’uso delle proprie facoltà. Conierà l’espressione “pensiero critico”. La ragione viene chiamata in tribunale come imputato. Puro significa ciò che non è sottoposto agli obblighi empirici. La “critica della ragion pura” è un processo alla ragione considerata pura. La ragion pratica si occupa invece degli aspetti morali. Nella critica della ragion pura indaga sui principi a priori delle facoltà conoscitive. Il primo obiettivo è quello di indagare circa la possibilità della ragione di sottrarsi ai dati empirici, poi l’opera si pone come obiettivo determinare la legittimità della pretesa della ragione di estendere la conoscenza oltre i limiti dell’esperienza. Con Kant ha inizio il pensiero moderno, perché il pensiero precedente era caratterizzato da razionalismo ed empirismo. I razionalisti lottavano contro gli empiristi. L’oggetto di discussione era il mondo gnoseologico, cioè alla modalità in cui l’uomo potesse conoscere. La domanda con la quale Kant inaugura il pensiero moderno è “è possibile fornire un fondamento certo alla conoscenza del reale?”. Si pone questa domanda perché secondo lui il conoscere non incontra le cose, ma incontra le idee delle cose. Come posso dimostrare che queste idee riproducono la realtà? Corrispondono veramente alla realtà? Per Kant è un totale fallimento l’attività con cui si cerca di pensare la conoscenza come determinata dagli oggetti, perché la conoscenza non va considerata come una corrispondenza immediata dei concetti ad una realtà oggettuale preesistente, perché altrimenti bisognerebbe ricorrere ad una realtà invariabile, che possa aver dato vita a quella realtà, per esempio postulare l’esistenza di Dio. La mia conoscenza non dipende da una divinità che mi ha proposto la realtà in un certo modo, esclude la legittimità esterna del conoscere, perché sarebbe predeterminata. Ma come funziona il processo gnoseologico? Devo indagare circa le modalità attraverso cui le funzioni della ragioni operano per permettere il processo gnoseologico. Kant ipotizza che sarebbero gli oggetti del mondo esterno a regolarsi sulle nostre facoltà conoscitive. Kant sta attribuendo un ruolo importantissimo nel processo gnoseologico al soggetto, che ne diventa protagonista, perché il soggetto è responsabile delle forme assunte dagli oggetti nella conoscenza. Kant riprende la definizione di Aristotele secondo cui l’uomo è un animale razionale. Se tutti siamo dotati di ragione nessuno può essere succube dell’altro. Tutti i soggetti condividono le stesse facoltà conoscitive. Kant chiamerà “io penso” questa funzione unificante, che serve a conoscere, e mette in evidenza come tutti gli uomini abbiano le stesse facoltà gnoseologiche. Se tutti gli uomini sono accomunati da questa funzione unificante, il conoscere è universale e necessario, perché appartiene a tutti. Questa passa alla storia come rivoluzione copernicana. Anche Kant compie la sua rivoluzione, chiamata copernicana perché come Copernico cambia il punto di vista, la stessa cosa farà Kant. Immaginiamo un universo in cui il soggetto occupa la posizione centrale. Kant riesce a stravolgere la prospettiva gnoseologica. Per la prima volta non serve una divinità, una garanzia al di fuori della garanzia stessa che la ragione è in grado di conoscere. Noi non conosciamo le cose per come sono in se stesse, ma secondo quelle modalità previste dalle nostre facoltà. Noi non conosciamo la realtà così come è in sé, ma la realtà si costituisce davanti ad ognuno attraverso i processi della sua conoscenza. Se io non conosco la realtà così com’è, la conosco per come mi appare. Solo analizzando l’uso che si fa dei vari processi gnoseologici abbiamo la possibilità di delineare validità e limiti della conoscenza. In questo modo Kant affronta il dilemma della realtà. Se il soggetto assume questo ruolo fondamentale, Kant affronta il problema trasferendolo dalla realtà al soggetto. Bisogna cioè stabilire quali condizioni la conoscenza deve rispettare. Kant introduce un concetto molto importante, ovvero il concetto di trascendentale. Con questo termine si riferisce al punto di osservazione da cui guardare la ragione per scoprire la legittimità delle sue pretese gnoseologiche applicate alla realtà. Trascendentale è il metodo. Quali discipline sono importanti nello studio delle facoltà conoscitive? L’estetica, l’analisi a e la dialettica trascendentali. Nell’ambito della ragione pura indaga gli elementi a priori della conoscenza, ovvero svincolati dall’esperienza. Il soggetto conoscente non riceve soltanto i dati, ma li unifica e li ordina secondo forme comuni ad ogni soggetto (a priori). Queste forme non derivano dall’esperienza, ma appartengono alle facoltà conoscitive del soggetto. Questi dati sono la conditio sine qua non della conoscenza. Nascono col soggetto. Dunque esiste una realtà fuori dal soggetto, ma è irraggiungibile, perché non posso conoscerla nella sua purezza. La critica della ragion pura ha per oggetto indagare la pretesa della ragione di essere pura, quindi di funzionare attraverso funzioni a priori, tra cui troviamo anche spazio e tempo, funzioni a priori del rappresentare. Spazio e tempo sono dentro di me, sono la capacità che il soggetto ha di collocare in uno spazio ed in un lasso di tempo le informazioni provenienti dall’esterno. “Quando e dove” sono le prime domande di un bambino. Difatti si insegna al bambino a proiettare fuori di sé ciò che esso ha già dentro di sé. L’esperienza è fondamentale ma è imprescindibile dal soggetto. Focalizzare l’attenzione sull’io fa comprendere il senso della rivoluzione copernicana. Se è vero che l’uomo conosce i dati sensibili provenienti dall’esterno, ciò accade perché si manifestano. Sono quindi fenomeni. Solo i fenomeni possono essere collocati in uno spazio e in un tempo. Si possono usare le funzioni del rappresentare solo in base ai dati della conoscenza sensibile. La ragion pura analizza la pretesa della ragione di essere pura. La ragione può essere pure, perché funziona attraverso i dati a priori. Un altro obiettivo della critica della ragion pura è capire se sia possibile porre la metafisica come scienza. Kant parte dal sunto che la scienza è costituita da giudizi sintetici a priori. Il giudizio è una predicazione, attribuzione di un predicato ad un soggetto. Distingue giudizi analitici e sintetici. La differenza è che il giudizio è analitico quando il predicato è già implicito nel soggetto, ed è quindi a priori, ma deriva da un’operazione logica basata sul criterio d’identità e non contraddizione; è invece sintetico quando si aggiunge un predicato al soggetto. Il giudizio analitico a priori è universale e necessario. Affinché la scienza sia possibile, Kant le riserva la possibilità di giudizi sintetici a priori. Dio sarà per Kant un paralogismo della ragione. Non c’è quindi trascendente nella filosofia Kantiana. Il ruolo dell’estetica trascendentale è esaminare le facoltà della sensibilità, che presiede l’esperienza. Si propone quindi di valutare le condizioni di possibilità e tutti quegli elementi che costituiscono l’esperienza, e quindi la conoscenza. Quando si parla in Kant di esperienza dobbiamo tenere conto che è l’insieme dei dati che io colgo attraverso la mia sensibilità. Quando la mente riceve il dato lo elabora, mettendo in atto tutto il processo gnoseologico. Elabora quelle che chiameremo forme soggettive a priori (spazio e tempo). All’estetica trascendentale segue la logica trascendentale, che indaga la facoltà dell’intelletto. Noi del mondo esterno cogliamo il fenomeno, le cose come ci appaiono. La conoscenza riceve i dati esterni attraverso la sensibilità, che è facoltà ricettiva, poi rielabora il sapere attraverso l’intelletto, che è una facoltà attiva e ha il compito di analizzare i nessi tra gli oggetti, ordinare secondo forme a priori e dare informazioni che vanno a completare quella parte estetica della conoscenza. L’intelletto ha come strumenti le categorie. La logica si distingue in analitica e in dialettica: l’analitica studia le forme a priori dell’intelletto (categorie), mentre la dialettica studia le forme a priori della ragione (idee). Il soggetto organizza le rappresentazioni sensibili mediante forme a priori dell’intelletto e che unifica attraverso le categorie. Categoria significa predicazione. Il loro predicato è rappresentato dal giudizio. Le categorie sono 12 e sono funzioni dell’intelletto. Possiamo chiamarle anche forme concettuali, cioè modi di collegamento delle rappresentazioni che hanno validità universale. Le categorie attingono dai dati empirici e Kant dirà che “i concetti senza intuizioni sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche”. Vi è l’esigenza di ridurre il molteplice all’unità attraverso l’io penso, attività che sintetizza i dati dell’esperienza. Per spiegare l’uso delle categorie Kant parla di schematismo trascendentale, ma parla anche di deduzione trascendentale e di immaginazione produttiva. Attraverso la deduzione trascendentale Kant fornisce una spiegazione della validità e dell’accuratezza delle categorie tramite una deduzione, che denomina trascendentale. L’uso delle categorie è reso possibile dal fatto che la facoltà della sensibilità opera un’elaborazione dei progetti secondo spazio e tempo. Quello che conosciamo non è l’essenza dell’oggetto, ma la modificazione che questo provoca in noi che viene elaborata dall’intelletto grazie all’intervento della sensibilità. Gli oggetti dell’esperienza rispetto alle nostre facoltà sono effetto della nostra immaginazione produttiva. Il fenomeno è il prodotto della sensibilità. La cosa come ci appare è il prodotto di un incontro tra il dato esterno e l’elaborazione di esso. La mia modalità di elaborare il fenomeno sarà sicuramente diversa da quella di un altro. Gli oggetti dell’esperienza rispetto alle nostre facoltà conoscitive sono l’effetto dell’immaginazione produttiva, che legittima l’uso delle categorie da parte della ragione. L’appercezione trascendentale o io penso è l’attività che sintetizzata i dati dell’esperienza. Lo schematismo trascendentale mette in evidenza che gli schemi sono rappresentazioni a priori prodotti dall’immaginazione produttiva, che condividono con i fenomeni la forma del tempo. Le intuizioni sensibili sono organizzate mediante le categorie, forme pure dell’intelletto, e non della ragione. Raccolgono le informazioni sensibili in un ambito definito. Le categorie sono legittimate dall’io penso. La legittimazione mi da la coscienza che ogni attimo conoscitivo garantisce l’unità stessa della conoscenza. Le categorie si applicano ai principi puri dell’intelletto puro, e necessitano di schemi trascendentali, dati dall’intelletto puro, che guidano l’uso delle categorie. La critica della ragion pratica ha inizio con un presupposto fondamentale, definendo quest’opera come complemento a ciò che ha negato alla ragione speculativa, volendo dare una giustificazione al fatto di voler continuare la sua critica nei riguardi di una ragione che era regina nella sua epoca. L’oggetto della ragione pratica sarà la morale, che non può essere una compensazione allo scacco della ragione speculativa. La critica della ragion pratica è un tentativo di scusarsi nei confronti della ragione. La critica della ragion pratica è comunque un trattato di morale, ed è quasi un gioco quello di Kant, perché vuole giustificarsi agli occhi dei suoi contemporanei, ma il suo compito di giudicare la ragione è notevole. Nella critica della ragion pratica si mette in evidenza si vuole dare compimento all’ispirazione dell’uomo verso l’incondizionato. La ragione con la morale apparentemente c’entra poco, ma per Kant non è così. La riflessione di Kant sull’etica si costruisce intorno all’interrogativo “che cosa devo fare?”. La critica della ragione pratica è un’indagine circa la modalità su cui noi facciamo, su come ci comportiamo. Il principio dell’etica per Kant deve essere un principio primo, autonomo rispetto alla stessa ragione speculativa. Se la ragione è pura non può essere pratica. La critica della ragion pratica non è un’opera appartenente all’illuminismo. Si ha una declinazione della filosofia kantiana in senso romantico. Nella critica della ragion pratica abbiamo una prima riflessione sulla categoria del sentimento, in particolare puntando alla radice del sentimento: non c’è sentimento senza rispetto. Il rispetto per Kant è un sentimento morale. Nell’animo umano riconoscere una morale originaria è fondamentale perché l’uomo possa classificarsi superiore rispetto agli animali, perché l’uomo possa avere una giusta collocazione nella natura. Se la ragione speculativa non colma tutti i desideri dell’uomo, evidentemente sta cambiando qualcosa. Poiché è importante la riflessione sul sentimento, è fondamentale fondare una metafisica dei costumi, che non si deve limitare a studiare il comportamento dell’uomo, ma deve indagare la parte pura dell’etica, le condizioni a priori dell’agire morale dell’uomo. Kant è convinto che esista una legge morale dal valore universale. Questa certezza è un fatto della ragione, deriva dal fatto che l’uomo ha una ragione. Dirà che la legge morale è data come un fatto della ragione pura. Di questo fatto noi siamo consapevoli a priori. La realtà oggettiva della legge morale non può essere dimostrata mediante nessuna deduzione. Kant ci ha insegnato il dato dell’universale e necessario. La legge morale per avere valore universale e necessario deve essere pura, a priori. La legge morale deve essere universale e necessaria, non è ricavabile dall’esperienza. L’uomo, prima di applicare la legge morale, deve conoscere l’altro, ovvero il soggetto verso cui indirizzare il rispetto. Il rispetto è avere consapevolezza del mio limite. Il rispetto va a compensare i limiti della ragione. Mentre la critica della ragione pura conteneva una sorta di contestazione contro la pretesa della ragione di valere al di là dell’esperienza, la critica della ragion pratica ha il compito di fare una distinzione tra ciò che nell’agire dell’uomo è secondo la ragione pura, da ciò che è essendo frutto delle tendenze soggettive di ogni individuo può essere oggetto solo di una conoscenza empirica. L’uomo ha delle necessità naturali, ma deve allenare la sua capacità di opporsi a ciò che è selvaggiamente naturale. La legge morale deve esprimersi come un ordine che l’uomo da a se stesso, cui la libera volontà dia o levi il proprio assenso verso ciò che è buono o buono non è. Ciò che è de l’uomo superiore agli animali è l’uso della legge morale. Kant parla dell’esperienza del dovere con la consapevolezza che è espressione del conflitto interiore insito nella duplice costituzione dell’uomo, che da un lato partecipa all’ordine della natura, dall’altro è ragione libera, che è noumeno. L’anima, il mondo e Dio per Kant sono paralogismi. Non è l’anima a dover decifrare cos’è bene e cos’è male, ma la ragione. Non conosco la ragione in sé, ma in essa vengono elaborate la conoscenza e la morale, e ciò supplisce a questa mancanza. Poiché la legge morale nasce dalla ragione, è la ragione che comanda se stessa. La ragione, pur non essendo nel percorso empirico dell’uomo, è certezza pura perché grazie ad essa l’uomo conosce e si distingue dalla bassezza degli altri esseri, riuscendo a determinarsi attraverso un imperativo che la ragione comanda a se stessa. La ragione dà all’uomo anche alcune possibilità: le massime, ovvero i principi soggettivi dell’agire, che mi determinano ad agire in un certo modo, giusto o sbagliato che sia. La legge morale non è invece un principio soggettivo, è valida per tutti. La ragione è la parte più forte dell’individuo. Esiste l’imperativo ipotetico e quello categorico. L’imperativo ipotetico non ha esito morale, perché condizionato dallo scopo che il soggetto vuole raggiungere. L’imperativo categorico non ha un fine, spinge la volontà e la ragione ad agire per agire. Ha valore in sé e per sé, non ha ipotesi. Devi perché devi. La legge morale deve partire dalla regola che l’uomo agisce veramente in senso morale quando osserva poche regole. L’uomo è la sua ragione sono i fondamenti della legge morale. L’imperativo categorico è universale. La morale Kantiana è la morale del formalismo, perché esclude che la legge morale possa prescrivere cosa fare. Non c’è un contenuto, perché se ci fosse deriverebbe dalla mia volontà. Qualunque determinazione soggettiva mi stimoli ad agire mi allontana dall’azione morale. L’universalità dell’azione morale non ho dipendere da un contenuto, ma solo dalla formalità della legge. La legge morale prescrive il come. Devo fare in modo che ciò che mi determina ad agire non valga solo per me, ma valga per tutti. L’artista Ceruti rappresenta alla perfezione il formalismo Kantiano, soggetti profondamente onesti. La sua è un’opera di denuncia sociale e la sua pittura non mira ad abbellire i suoi soggetti. Al di là dell’estetica, Ceruti mira ad esprimere attraverso gli occhi del personaggio il moralismo. “Il nano” denuncia la condizione sociale degli onesti, coloro che indagano e ci mettono a nudo l’anima, il sentire, e questo è il ruolo della ragione. Ciò che ha importanza è la rettitudine, la capacità di rendere legge universale la propria massima. Il regno dei fini è un insieme ideale di persone libere che hanno la convinzione di vivere la legge morale, un’unione sistematica di diversi esseri ragionevoli mediante leggi comuni, in cui ciascuno possa essere legislatore universale e sottoposto alla legge. “Agisci in modo che la volontà possa in forza della sua massima considerare se stessa come istituente una legislazione universale” è la terza formula dell’imperativo categorico. Il carattere del formalismo kantiano non prescrive che si obbedisca a qualcosa di determinato, ma impone di volerlo perché è quella cosa stessa legge. È morale dell’intenzione, non della responsabilità. Il postulato è per Kant ciò che la legge morale presuppone come condizione della propria possibilità. È come se la legge morale esigesse da se stessa la propria possibilità. Affinché io possa credere nella morale devo postulare la libertà, perché la legge morale è autonoma. La libertà è un postulato. Un altro postulato è l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio. Sono esigenze della moralità. La libertà si differenzia dagli altri postulato perché la conosciamo a priori, poiché la nostra morale è autonoma. Senza legge morale non si dà coscienza della libertà. Ci rende coscienti di essere liberi. Sul piano ontologico la libertà è condizione della moralità, e la chiamiamo ratio essendi. Sul piano gnoseologico la moralità è ratio cognoscendi della libertà.