Sei sulla pagina 1di 10

Immanuel Kant (1724-1804)

Che cos’è l’Illuminismo? (1784)

Nessuna istituzione, nessun oggetto è sacro. Tutto può essere criticato. Nella sfera pubblica, nel libero
dibattito, nessun fatto, nessun avvenimento, nessuna idea possiede un carattere dogmatico: perché la
conoscenza possa compiere progressi, non deve urtarsi con zone vietate. Il libero individuo ha il
diritto di criticare le istituzioni, di cercare da sé la verità ecc.
Se così non facesse l’essere umano si condannerebbe, per dirla in termini kantiani, a non uscire dallo
stato di minorità, da uno stato di autoinferiorizzazione, condannandosi da sé all’obbedienza passiva
al potere politico o religioso, e non all’autonomia decisionale e criticamente riflessiva che gli compete
come essere umano: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve
imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un
altro. Essa dipende dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto. Abbi
il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! E’ questo il motto dell’Illuminismo. Una
gran parte degli uomini rimane invece minorenne a vita e per questo altri si erigono facilmente
a loro tutori. E’ così comodo essere minorenni. Se ho un direttore spirituale che ha coscienza
per me non ho certo bisogno di darmi da fare io stesso.
Non ho bisogno di pensare; altri si incaricheranno per me di questa fastidiosa occupazione.”
Per l’illuminismo è invece essenziale “fare in tutti i campi pubblico uso della propria ragione.
Ma ecco che sento gridare da ogni parte: non ragionate! L’ufficiale dice non ragionate, fate le
esercitazioni! L’ecclesiastico: non ragionate, credete! Ecco invocare da tutte le parti una
limitazione alla libertà.”. Questa limitazione della libertà, se avesse successo, sarebbe per Kant “un
crimine contro la natura umana”. Questo diritto al libero pensiero, alla critica è un’arma irrinunciabile
contro la prepotenza e l’oppressione di principi d’autorità indiscutibili (siano essi dogmi o leggi
dittatoriali). Il dispotismo esige dai sudditi solo doveri e non riconosce diritti; “credere e obbedire”.
Ma l’obbedienza passiva al potere, all’autorità di un istituzione politica o di un dogma riduce l’essere
umano a suddito, privandolo del ruolo di libero cittadino pensante. Un umo che smette di pensare non
è più un uomo ma un automa.

Il superamento dei limiti del razionalismo e dell’empirismo: la filosofia del suo tempo sembrava
davvero giunta al capolinea, sospesa tra un empirismo cieco e un razionalismo vuoto; uno dei motti
kantiani più famosi “le intuizioni (sensazioni) senza concetto sono cieche, i concetti senza intuizione
sono vuoti”, fotografa con esattezza la situazione filosofica a cui Kant ha cercato di porre rimedio.
L’idea di fondo dei razionalisti è che noi conosciamo attraverso i concetti.
Ma come facciamo a discriminare il vero dal falso, se non ci trasferiamo nel mondo della realtà?
La norma di prudenza suggerirebbe dunque non di confrontare i concetti con altri concetti, bensì, per
quanto possibile, di confrontare i concetti con oggetti. Se il rimedio è questo, la via giusta pare
additata dagli empiristi: ed è al massimo empirista dei suoi tempi, David Hume, che Kant riconosce
il merito di averlo svegliato dal “sonno dogmatico”. L’idea di fondo degli empiristi era infatti che
tutta la nostra conoscenza deriva dai sensi (nel mondo incontro sensazioni, non concetti), e che
dunque della metafisica come organizzazione puramente concettuale dell’universo si possa fare
tranquillamente a meno. La morale degli empiristi è dunque che tutte le nostre conoscenze non
vengono dai concetti, bensì dall’esperienza sensibile; e i concetti sono soltanto un modo veloce per
codificarla: la sostanza è una mera congettura, un costrutto mentale generato dall’abitudine (Locke),
la causa non costituisce un principio, nasce soltanto dal fatto che spesso ci accade di constatare che a
un evento ne segue un altro, e di pensare che il primo determini il secondo (Hume); l’Io è un puro
fascio di sensazioni, e non la sostanza inestesa di Cartesio (Hume). Il problema però che gli empiristi
stentavano a mettere a fuoco è che se consideriamo la causa, la sostanza, lo spazio e l’Io come puri
risultati delle nostre esperienze, allora la filosofia, la scienza e probabilmente la stessa morale sono
destinate a svanire, visto che il mondo intero si sbriciola tra le nostre mani. Per un empirista radicale
tutto è vano, almeno a lungo termine, e l’empirismo diventa l’anticamera dello scetticismo. La
soluzione data da Kant al vicolo cieco in cui s’imbattevano razionalisti e empiristi consiste in
un cambiamento di prospettiva: l’ingenuo guarda il sole che tramonta e conclude che gira
intorno alla terra; l’esperto (il fisico copernicano) sa che è la terra a girare intorno al sole.
L’ingenuo (razionalista o empirista che sia) guarda il mondo e crede di vedere le cose come sono
in se stesse; il filosofo che utilizza la metodologia kantiana sa che sta vedendo le cose come
appaiono a noi.

“Invece di chiederci come sono fatte le cose in se stesse, domandiamoci come devono essere fatte
per venire conosciute da noi”. Kant definisce questo cambiamento d’impostazione nel ragionamento
filosofico la sua “rivoluzione copernicana”.
Vediamo perché il filosofo tedesco utilizza questa definizione: nella prefazione della Critica della
Ragion Pura si trova un grande elogio della scienza moderna, perché ha imparato a interrogare la
natura non come uno scolaro interroga la maestra, cioè credendo alle cose che gli vengono dette, ma
come un giudice interroga l’imputato, cioè avendo delle domande da porre e avendo un sistema
razionale da usare nell’accertamento delle prove. I grandi eroi di questa nuova disposizione del
pensiero sono figure come Bacone, Copernico, Galilei e Newton. La natura, come diceva Galilei, è
un libro scritto in caratteri matematici: grazie alla struttura che ci offre la matematica possiamo
finalmente spiegare la natura non con osservazioni più o meno intelligenti e sporadiche, ma con uno
schema potente capace di imbrigliare la natura dentro un sistema. Finalmente capiamo perché le ci
sono i fulmini: non è Zeus che lancia le saette, ma sono delle attività elettriche nel cielo. Ecco la
grande trasformazione, la matematica applicata all’esperienza: questa è la fisica. Quello che diceva
Kant è che dobbiamo cercare di fare un lavoro del genere anche per la filosofia, che deve riuscire ad
applicare la logica all’esperienza. Quanto abbia a che fare con la scienza l’attività filosofica di Kant
lo si capisce appunto dal fatto che egli definisce la sua filosofia “una rivoluzione copernicana”. Ma
cosa aveva fatto Copernico? Copernico argomenta che se guardiamo fuori vediamo il Sole sorgere al
mattino e tramontare alla sera; per secoli, basandoci su quello che vediamo, abbiamo concluso che la
terra è ferma, perché non ci sembra che in questo momento niente si stia muovendo, e che il sole gira
intorno alla terra. Ma se facciamo bene i calcoli e riflettiamo su quello che sta succedendo, in realtà
ci rendiamo conto che fa una rotazione sul proprio asse, anche se abbiamo l’impressione che stia
ferma; e non solo gira intorno al proprio asse, ma anche intorno al sole, quindi quello che vediamo è
il contrario di quello che succede: noi crediamo che il sole giri intorno alla terra e in realtà è la terra
che gira intorno al sole. La rivoluzione copernicana di Kant ci insegna un analogo rivolgimento
del modo di pensare: invece di chiederci come sono fatte le cose in se stesse, chiediamoci come
devono essere fatte per venire conosciute da noi. Facciamo un esempio; la vecchia metafisica si
chiedeva cos’è una penna? Kant si chiede che cosa deve avere questa penna per essere
conosciuta da me? Innanzitutto deve stare in uno spazio, altrimenti non sarebbe da nessuna
parte; deve stare in un tempo, cioè deve essermi presente adesso, perché se no non la vedrei;
deve durare nel tempo, quindi deve essere una sostanza; deve poter causare qualcosa, per
esempio io tolgo il tappo e la uso per scrivere. L’attenzione viene dunque spostata dall’oggetto
alle condizioni che rendono possibile questo oggetto. E questa è per l’appunto la rivoluzione
copernicana: invece di partire dall’oggetto, partiamo dal soggetto; invece di partire dal mondo,
partiamo dall’io che contempla il mondo.

Per conoscere il mondo secondo Kant bisogna partire dall’uomo; l’uomo è paragonabile a degli
occhiali che rendono conoscibile il mondo; non conosciamo il mondo come tale, ma sempre
attraverso delle mediazioni. Quali sono queste mediazioni? Sono anzitutto le forme della
sensibilità, lo spazio e il tempo: se non ci fossero lo spazio e il tempo, non ci sarebbero le cose.
Secondo Kant lo spazio e il tempo sono dentro di noi: siamo fatti in modo da strutturare
l’esperienza a partire da spazio e tempo.
Poi ci sono le categorie, cioè i modi di organizzazione dell’esperienza. Sono diverse, ma le più
importanti sono due: la sostanza e la causa.
Ritorniamo all’esempio della penna. La penna è una sostanza perché permane nel tempo:
cinque minuti fa c’era e c’è anche adesso. Non posso dire invece che un gesto è una sostanza,
perché scompare nel tempo: è un evento, non una sostanza. Secondo Kant se io non avessi la
categoria di sostanza come permanenza di qualcosa nel tempo, io non potrei cogliere questo
tipo specifico di sostanza che è la penna.
La causa è una categoria in qualche modo più sottile. Noi siamo abituati a pensare che una cosa
causi un’altra cosa: premo un interruttore, si accende la luce, lo premo di nuovo e si spegne. Il
ragionamento di Kant è che la causa non è nel mondo, ma nell’intelletto dell’uomo. E così vale
per tutti gli altri principi di organizzazione del mondo.
Il principio fondamentale della filosofia di Kant è la ragione applicata all’esperienza.
Kant vuole cioè fare nell’ambito della filosofia l’equivalente di quello che la scienza ha fatto con il
mondo, ovvero appunto ragione applicata all’esperienza.
La scienza di Galilei cos’altro era se non principi razionali applicati all’esperienza?
Dunque torniamo per un attimo al principio della cosiddetta rivoluzione copernicana: chiediamoci
come debbono esser fatte le cose per essere conosciute da noi. Ecco il punto di partenza del
ragionamento kantiano: Abbiamo una mente - abbiamo dei sensi / Concetti- Sensazioni.
Conoscere vuol dire far coincidere quel che ho in testa con quello che è nel mondo (attestato
dalle sensazioni) Si ha la verità quando c’è un tavolo e io dico: “questo è un tavolo”, se io dicessi
“questo è un elefante” mi sbaglierei. Conoscere dunque vuol dire formulare dei giudizi (questo è un
tavolo appunto). “Le intuizioni(sensazioni) senza concetto sono cieche, i concetti senza intuizioni
sono vuoti”. Vuol dire che se io ho semplicemente delle sensazioni (che Kant chiama intuizioni) ma
non ho dei concetti, allora non conosco davvero; d’altra parte se ho soltanto dei concetti, neanche in
quel caso conosco, perché ho soltanto la testa piena di parole: è come se avessi un vocabolario, ma
non sapessi quali sono le cose a cui si riferiscono le parole che adopero. Per capire cosa sia la vita di
un essere che abbia soltanto dei sensi e non dei concetti, prendiamo un neonato: il neonato guarda e
vede delle cose, ma non si può dire che conosca il mondo. Semmai mano a mano che cresce attaccherà
poco alla volta le cose che vede a dei significati, a dei concetti.

Chiarito la parte più semplice dell’impostazione kantiana, passiamo alla novità metodologica
introdotta da Kant: lui sostiene che bisogna spostare l’attenzione dagli oggetti ai soggetti che li
conoscono, perché qui sta la chiave di volta di tutto. Noi sentiamo con le orecchie, vediamo con gli
occhi, sentiamo caldo, freddo ecc. Tutto questo è un modo di filtrare il rapporto che abbiamo con
il mondo; poi pensiamo con qualcosa che si trova dentro la nostra testa. E questo cosa ci dice?
Ci dice che la conoscenza è un sistema di filtri. Se, per ipotesi, indosso gli occhiali da sole, il
mondo cambia leggermente per me, perché i colori sono lievemente alterati. Immaginate al posto
degli occhiali da sole, un sistema di conoscenze: dentro di noi abbiamo un insieme di categorie, cioè
di forme di ragionamento che ordinano l’esperienza , e abbiamo un sistema di sensi che ci danno
accesso al mondo. Questo è dunque il tipo di trasformazione imposto da Kant: partiamo dagli
strumenti del conoscere per arrivare agli oggetti del conoscere. Se le cose stanno in questi termini,
cioè se il soggetto ha un ruolo così importante nella conoscenza vuol dire che svolge un ruolo
determinante rispetto al mondo. Noi conosciamo attraverso un giudizio determinante:
determinante significa che noi determiniamo il mondo, è come se dessimo i confini del mondo
attraverso i nostri strumenti conoscitivi, attraverso la forma della sensibilità e attraverso le nostre
regole logiche.
Riassumendo: Kant dice, siamo fatti in modo da strutturare automaticamente le cose
nello spazio e nel tempo. L’uomo ha un sistema di filtri, un sistema di categorie che
ordinano l’esperienza (oltre ai sensi che ci danno un accesso al mondo).
Questo sistema di filtri è composto dalle due forme pure della sensibilità (spazio e
tempo) e dalle categorie (sostanza e causa).
Lo spazio è una forma pura della sensibilità, non un concetto; non è una cosa che pensiamo, è una
forma che abbiamo dentro di noi, e che ci dà la facoltà di ordinare spazialmente le cose.
Tutte le cose che sono nello spazio, sono anche nel tempo; spazio e tempo sono due forme, due
contenitori che non necessariamente stanno nel mondo.

Le categorie (ovvero modi di organizzazione dell’esperienza) di sostanza e causa: entrambe erano


state messe in discussione dall’empirismo di Hume> sostanza come mero sovrapporsi di accidenti
(una matita è verde, appuntita etc.) Kant obietta: se non ci fosse in noi la categoria di sostanza
(sostanza = permanenza di qualcosa nel tempo) vedremmo solo accidenti; ma io posso conoscere
questa matita perché è in noi la categoria di sostanza, un contenitore che tiene insieme alcuni accidenti
e non altri. Analogo discorso fa per la causa: gli empiristi avevano detto “vediamo il semplice
susseguirsi di cose temporalmente”; da questo a parlare di cause ce ne corre. E’ solo l’abitudine che
etc… Kant risponde: la causa è una categoria che abbiamo dentro all’intelletto (Esempio: con una
matita sposto un orologio; la causa non l’avete vista, ma l’avete pensata, dunque la causa è un concetto
puro insito nell’uomo attraverso il quale etc……..)

Dunque per Kant i principi di organizzazione del mondo sono nel nostro intelletto

“L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni”: ovvero ogni rappresentazione
presuppone l’io, anche una rappresentazione molto distante da me (per esempio: io mi
rappresento una galassia che è a miliardi di anni luce da qua, però sono sempre io che me la
rappresento, l’io c’è sempre. Questo io non è un punto cieco, è tutto un sistema attrezzato di schemi
concettuali, che sono le forme attraverso cui il pensiero attraversa la conoscenza. Ogni volta che
ho una sensazione o un pensiero, l’Io li registra e li riferisce a sé (io ho caldo, io vedo rosso, io penso
a Napoleone). Qualora non lo facesse, esperienze e pensieri cadrebbero nel vuoto.

Le cose sono per noi essenzialmente qualcosa che appare, cioè “FENOMENI”, dice Kant.
Per capire bene questo termine pensiamo ai fenomeni atmosferici: la pioggia per esempio è un
fenomeno atmosferico, cioè è qualcosa che si manifesta. I fenomeni sono dunque le cose come
appaiono per noi. Secondo Kant abbiamo quindi due tipi di coordinate: da un lato gli schemi
concettuali e le forme logiche che abbiamo in testa; dall’altro ci sono i fenomeni, le cose così
come appaiono a noi. L’incrocio tra i fenomeni e gli schemi concettuali è ciò che ci dà la
conoscenza.

Siamo ora in grado di dire cosa possiamo legittimamente conoscere: le cose che stanno
nello spazio e nel tempo (ovvero i fenomeni).
Il conoscere per Kant non può estendersi al di là dell’esperienza (delimitazione della conoscenza
al fenomeno); noi non abbiamo mai a che fare con le cose in sé, ma solo con la realtà non
oltrepassabile dei fenomeni. Quando il pensiero vuole avventurarsi oltre gli orizzonti
dell’esperienza possibile, tra gli orizzonti della metafisica, non può che naufragare.
Ciò che non possiamo conoscere: l’anima, il mondo, Dio.
Con la Critica della Ragion Pura viene riconosciuta la legittimità scientifica delle scienze (geometria
e matematica) e dimostrata l’impossibilità scientifica della metafisica.

Distinzione fenomeno/noumeno: il primo è la realtà come appare a noi, il secondo è la realtà


considerata indipendentemente da noi, la cosa in sé.
Riassumendo al massimo quanto fin qui detto per Kant l’Io non consiste come credeva Hume in un
fascio disordinato di sensazioni, bensì in un principio d’ordine, munito di due forme pure
dell’intuizione, lo spazio e il tempo e di 12 categorie, tra cui quelle fondamentali sono quella di
Sostanza e quella di Causa.

Critica della ragion pratica:

La concezione della morale di Kant: nell’uomo esiste una tensione tra ragione e sensibilità.
Se l’uomo fosse esclusivamente sensibilità, ossia animalità e impulso, non esisterebbe morale perché
l’individuo agirebbe sempre per istinto. Viceversa se l’uomo fosse pura ragione, la morale perderebbe
ugualmente di senso, in quanto l’individuo sarebbe sempre in quella che Kant chiama santità etica,
ovvero in una situazione di perfetta adeguazione alla legge.
Invece la bidimensionalità dell’essere umano fa sì che per Kant l’agire morale prenda la forma severa
del dovere e si concretizzi in una lotta permanente fra la ragione e gli impulsi egoistici.
L’uomo compie azioni libere, e in quanto tali morali o immorali.
Kant è il teorico di un’etica del dovere: noi dobbiamo agire per giustizia seguendo il puro principio
del dovere; che cosa c’è di buono in un’azione fatta moralmente?
L’intenzione con la quale è stata fatta.
Imperativo ipotetico:
se vuoi avere…..allora devi…….
E’ chiaro che qui il dovere è solo strumentale, finalizzato a obiettivi pratici; questo per Kant non è
moralità, è essere utilitaristici. La morale non può essere determinata da interessi pratici.

Imperativo categorico:
devi fare qualcosa di giusto per nessun altro motivo che il dovere stesso.
Il “tu devi” e non il “se vuoi allora devi”: il cuore della moralità kantiana è “il dovere per il dovere”.

Non è morale ciò che si fa , ma l’intenzione con cui lo si fa (differenza tra moralità e legalità).

La formula base dell’imperativo categorico è : “agisci in modo tale che la massima della tua volontà
possa sempre valere come principio di una legge universale”. In altri termini l’imperativo categorico
è quel comando che prescrive di tener sempre presenti gli altri e che ci ricorda che un comportamento
risulta morale solo se la sua massima appare universalizzabile; ad esempio chi mente compie un atto
chiaramente immorale, poiché qualora venisse universalizzata la massima dell’inganno i rapporti
umani diventerebbero impossibili.

La virtù è dunque il bene supremo dell’etica kantiana; tuttavia in questo mondo si corre il rischio che
non vi sia nessun legame tra virtù e felicità. L’uomo fedele ai comandi della legge morale si può
infatti trovare a non ricevere nessun beneficio nella sua vita terrena dalla sua scelta virtuosa.
Kant si trova di fronte al paradosso per cui colui che segue la legge morale conduce un’esistenza
spesso più infelice di colui che nella sua vita la infrange o se ne disinteressa.
L’essere umano si troverebbe così di fronte a un bivio: scegliere di seguire la legge per il rispetto
della legge ed essere infelice oppure seguire la strada della felicità scivolando nella furbizia o nella
disonestà. Per sciogliere questa contraddizione Kant introduce i cosiddetti postulati della ragion
pratica, ovvero delle proposizioni teoretiche non dimostrabili che presupporranno l’immortalità
dell’anima e quindi l’esistenza di una realtà futura nella quale l’uomo moralmente buono sia anche
felice. Perché ciò potesse realizzarsi era inoltre necessario postulare l’esistenza di Dio come garante
di quel connubio tra virtù e felicità che Kant chiama “sommo bene”: solo Dio può infatti far
corrispondere la felicità al merito. Nonostante ciò va chiarito che Dio per Kant non sta all’inizio e
alla base della vita morale, ma eventualmente alla fine, come suo possibile completamento. In altre
parole l’uomo morale è per Kant colui che agisce seguendo solo il dovere-per-il-dovere, con in più la
“ragionevole speranza” nell’immortalità dell’anima e nell’esistenza di Dio.

Considerazioni finali sulla filosofia kantiana


Maurizio Ferraris riassume così l’influenza della filosofia kantiana: con essa si afferma l’idea che ciò
che esiste, esiste perché noi lo percepiamo, e nei modi dettati dalla nostra percezione. Se siamo
macchine che percepiscono solo in forme temporali e spaziali, le cose si disporranno nello spazio e
nel tempo; diversamente non esisterebbero nemmeno (almeno per noi). Una simile convinzione ha
generato un primato del soggetto sugli oggetti: a rigor di logica, esistono solo schemi della nostra
mente, e le cose dispongono di un’esistenza del tutto sussidiaria alla nostra. Scivolando su questo
piano inclinato non ci si ferma più: così sarà possibile dire, con Nietzsche, che non esistono fatti ma
solo interpretazioni (o con Derrida che non esiste nulla al di fuori dei testi). Quel che accomuna queste
posizioni è il ridurre l’essere al sapere, il sostituire alla realtà i nostri schemi mentali: non c’è nulla al
di fuori del ronzio della nostra mente.

La riflessione storico-politica di Kant

Per ciò che riguarda il concetto della storia, Kant condivide il punto di vista illuministico sulla civiltà
come sforzo verso una società umana universale o cosmopolitica, di cui detta le condizioni nel suo
scritto Per la pace perpetua (1795). L’idea razionale di una comunità pacifica di tutti i popoli della
terra, è, secondo Kant, l’unico filo conduttore che può e deve orientare gli uomini attraverso le
vicende della loro storia. Egli si fa così promotore della fondazione di una Federazione di stati e di
una Lega della pace, che immagina come le uniche istituzioni politiche in grado di superare l’eterna
conflittualità tra le nazioni.

Uno dei tre articoli del suo progetto sulla “pace perpetua” prevede il rispetto del diritto di visita e di
ospitalità: “Ospitalità significa il diritto di uno straniero che arriva sul territorio di un altro Stato di
non essere trattato da questi ostilmente. Può essere allontanato, se ciò può farsi senza suo danno, ma,
fino a che si comporta pacificamente, non si deve agire contro di lui. Si tratta di un diritto di visita,
spettante a tutti gli uomini, cioè di entrare a far parte della società in virtù del diritto comune del
possesso della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi
isolandosi all’infinito, ma devono da ultimi rassegnarsi a incontrarsi e a coesistere. Nessuno in origine
ha maggior diritto di un altro a una porzione determinata della terra. Se si paragona con questo la
condotta inospitale degli Stati civili, soprattutto degli Stati del nostro continente, si rimane inorriditi
a vedere l’ingiustizia che essi commettono nel visitare terre e popoli stranieri (il che per essi significa
conquistarli). L’America, i paesi abitati dai negri, le Isole delle spezie, il Capo di Buona Speranza
all’atto della loro scoperta erano per essi terre di nessuno, non facendo essi alcun calcolo alcuno degli
indigeni. Nell’India orientale, col pretesto di stabilire stazioni commerciali, introdussero truppe
straniere e ne venne l’oppressione degli indigeni, l’incitamento dei diversi Stati del paese a guerre
sempre più estese, carestia, insurrezioni, tradimenti e tutta la lunga serie di mali che possono
affliggere l’umanità. E siccome in fatto di associazione di popoli della terra si è progressivamente
pervenuti a tal segno che la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti
punti, così l’idea di un diritto cosmopolitico è il necessario coronamento per la fondazione di un
diritto pubblico in generale, e quindi per l’attuazione della pace perpetua, alla quale solo a questa
condizione possiamo sperare di approssimarci continuamente”.

Kant non possiede la fiducia di alcuni esponenti dell’Illuminismo sulla storia come inesorabile
progresso, come avanzamento inarrestabile della civiltà; ritiene semmai che quello del progresso sia
un ideale orientativo al quale gli uomini debbono ispirare le loro azioni.

La tendenza naturale dell’uomo è, per Kant, quella di raggiungere la felicità attraverso l’uso della
ragione, attraverso la libertà; l’uomo può raggiungere ciò solo in una società politica universale, nella
quale la libertà di ognuno non trovi altro limite che la libertà degli altri.
Il piano della storia dell’uomo deve dunque essere quello di fondare una società politica universale,
che comprenda sotto una medesima legislazione i diversi stati.
Anche nell’ambito storico per Kant deve quindi prevalere la ragione, l’unica che può riuscire ad
eliminare superstizioni, intolleranze e conflitti, sostituendoli con ordine, disciplina, pace.
Kant sa bene che la ragione è una forza limitata, ma è l’unica sulla quale l’uomo può contare: anche
nell’ambito storico (come in quello filosofico), ogni tentativo di evadere dalla ragione e i suoi limiti
è vano ed illusorio: “Amici dell’umanità e di ciò che c’è di più santo per essa, accettate pure ciò che
vi sembra più degno di fede dopo un esame attento e sincero, sia che si tratti di fatti sia che si tratti di
principi razionali; ma non contestate alla ragione ciò che fa di essa il bene più alto sulla terra: il
privilegio di essere l’ultima pietra di paragone della verità”.

Per quanto riguarda l’ambito della filosofia politica, il punto di partenza della riflessione kantiana
ricorda quello di Hobbes: alla radice dei rapporti tra gli uomini vi è quella che Kant chiama la
“insocievole socievolezza dell’uomo”. Kant non sostiene che l’uomo è lupo per un altro uomo, ma
pone la questione in maniera assai più articolata: l’uomo ha una naturale inclinazione ad associarsi,
perché solo nella società con gli altri può sviluppare al meglio le sue disposizioni naturali.
Ma simultaneamente l’uomo ha anche una tendenza a dissociarsi, poiché vuol condurre tutto secondo
il proprio interesse. Inoltre egli si aspetta che anche nei suoi confronti gli altri si comportino nello
stesso modo, e quindi in questo senso entra o si sente in guerra con loro.
Egli è spinto dal “desiderio di onore, potere o ricchezza a procurarsi un rango tra i suoi simili, che
non può sopportare ma di cui anche non può fare a meno”.
L’egoismo e la dedizione al proprio privato interesse non sono per Kant, come erano invece per
Rousseau, fenomeni appartenenti a una sorta di storica corruzione da cui la natura umana potrebbe
essere emancipata. Una simile emancipazione, secondo Kant, per un verso non sarebbe possibile,
perché “da un legno così storto come è quello di cui è fatto l’uomo non si può fare nulla di
completamente diritto”, ma per un altro verso non sarebbe nemmeno auspicabile, poiché solo
attraverso l’egoismo e la competizione che ne deriva, si sviluppano i talenti dell’uomo, le sue
capacità, la sua razionalità: “senza quelle proprietà dell’insocievolezza, in sé certo non proprio degne
di essere amate, tutti i talenti rimarrebbero eternamente racchiusi nei loro germi, in un’arcadica vita
pastorale di perfetta concordia, appagamento e amorevolezza: gli uomini, mansueti come le pecore
che conducono al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore superiore di quella che essa ha
per questo animale domestico”.
Ciò non vuol dire che per Kant la competizione sia un valore in sé; essa è piuttosto il mezzo attraverso
il quale si produce lo sviluppo della razionalità, della cultura, della scienza, della ricchezza. Kant
tesse l’elogio della competizione come necessaria al progresso, e introduce il tema di quella che oggi
viene definita eguaglianza delle opportunità (che è l’unica forma di eguaglianza che il pensiero
liberale sostanzialmente accetta, oltre a quella di fronte alla legge): per Kant cioè, è tollerabile una
disuguaglianza anche considerevole nelle condizioni economiche, purché a nessuno sia impedito, se
il suo talento, la sua attività e la sua fortuna glielo consentono, di “riuscire con il proprio merito ai
più altri gradi della gerarchia sociale”.

Kant pensa allo stato di natura come a uno stato di guerra: anche se non sempre comporta lo scoppio
dell’ostilità fra gli uomini, vi è la continua minaccia di esse.
Per questo motivo bisogna istituire uno stato di pace, e ciò è possibile solo tramite il passaggio ad
un’unione civile che dia vita ad uno stato giuridico, cioè retto da leggi.
E’ grazie ad esse che non è più possibile a ciascuno “fare di testa propria”; “le inclinazioni degli
uomini sono tali che essi non possono stare l’uno accanto all’altro in selvaggia libertà”; perciò Kant
scrive: “tu devi uscire dallo stato di natura per entrare in uno stato giuridico, vale a dire in uno stato
di giustizia distributiva”. La transizione dallo stato di natura allo stato civile o giuridico si configura
in modo molto diverso da quello dei grandi autori della filosofia politica (Hobbes, Locke, Rousseau):
per Kant l’uscita dallo stato di natura è un dovere, e a questo dovere corrisponde il diritto, da parte di
chi sia entrato in una costituzione civile, di costringere a farne parte anche chi vorrebbe rimanerne
fuori: “L’uomo o il popolo nel semplice stato di natura mi priva della sicurezza e mi lede già soltanto
con l’essere in questo stato, se si trova accanto a me; sebbene non di fatto, ma appunto con la
mancanza di leggi nel suo stato, per cui io sono costantemente minacciato da lui e lo posso costringere
ad entrare con me in uno stato comune-legale o a ritirarsi dalla mia vicinanza”.
Ma per Kant in una condizione di stato di natura si trovano non solo i selvaggi che rifiutano di entrare
a far parte delle civili società dei colonizzatori, ma anche gli stati europei nei rapporti tra loro, che
sono a suo dire egualmente basati sul principio della guerra permanente di tutti contro tutti: “come
l’attaccamento dei selvaggi alla loro libertà senza legge, per cui preferiscono azzuffarsi di continuo
tra loro piuttosto che sottoporsi a una coazione legale da loro stessi stabilita e preferiscono quindi la
libertà sfrenata alla libertà razionale, noi lo riguardiamo con profondo disprezzo e lo consideriamo
barbarie, rozzezza e degradazione brutale dell’umanità, così si dovrebbe pensare che popoli civili
(ognuno unito in uno Stato per sé) dovrebbero affrettarsi ad uscire al più presto possibile da uno stato
così degradante”.
Il rimedio da lui proposto è dunque quello di una federazione di stati e di una Lega della pace che
governino le singole nazioni basandosi su principi di concordia e armonia, e non sull’aggressione e
sulla sopraffazione reciproca.

Le caratteristiche che definiscono l’ordine giuridico


La funzione del diritto è quella di regolare la relazione fra gli individui, non prescrivendo a essi dei
fini cui debbano adeguarsi, ma soltanto ordinando il modo della loro coesistenza, affinchè ognuno
possa esplicare il proprio arbitrio tanto quanto è possibile, coesistendo con un eguale esplicazione
dell’arbitrio altrui. Il diritto è inseparabile dalla coazione, ovvero dalla facoltà di costringere: se
qualcosa è mio diritto, ciò vuol dire al tempo stesso che io ho diritto a costringere gli altri a rispettarlo.

Vi sono tre principi a priori dello stato giuridico: la libertà, l’uguaglianza, l’indipendenza.
Le libertà che lo stato deve garantire sono da un lato i diritti che concernono l’uso pubblico della
propria ragione, dall’altro il diritto di ognuno di ricercare la propria felicità come meglio crede, purché
non pregiudichi l’altrui diritto di fare altrettanto.
Tra i diritti inalienabili dell’uomo Kant segnala il diritto di fare uso pubblico della propria ragione in
tutti i campi, e quindi anche quello di criticare pubblicamente con gli scritti sia le dottrine religiose
che le autorità politiche; poi la libertà di religione, di pensiero, di critica. Qualsiasi atto del potere
sovrano teso a limitarli, sarebbe illegittimo.

Inoltre Kant insiste sull’inalienabilità dell’autonomia privata dell’individuo: compito dello stato non
è quello di promuovere paternalisticamente il bene dei sudditi, (questo sarebbe per Kant il peggiore
dei dispotismi), ma solo quello di garantire le condizioni perché ognuno possa ricercare il suo
benessere e la sua felicità come meglio crede: “nessuno mi può costringere ad essere felice a suo
modo (nel modo in cui questi pensa al benessere di altri uomini), ma ognuno deve poter cercare la
sua felicità per la via che gli appare buona, purché non leda l’altrui libertà di tendere ad analogo fine”.

Per Kant la distinzione più importante non riguarda chi deve governare (uno, pochi, tutti) ma il come
si deve governare: o secondo leggi (e questo è lo stato che Kant chiama repubblicano), o secondo
arbitrio, come accade nel dispotismo. Al concetto di repubblicanismo si collega quello della divisione
dei poteri: perché un governo non sia dispotico è necessario che la funzione legislativa, che è la
funzione suprema nella quale si esprime la volontà collettiva, sia distinta da quella collettiva e da
quella giudiziaria (qui Kant riprende quanto già detto da Locke e Montesquieu).

Accanto al principio della libertà, come abbiamo visto, Kant pone quello dell’eguaglianza e
dell’indipendenza; ma per uguaglianza egli non intende quella nell’accesso o nella proprietà dei beni,
ma semplicemente quella delle opportunità e quella di fronte alla legge (eguaglianza giuridica).

Il principio dell’indipendenza afferma invece che i cittadini, che devono obbedire alle leggi, hanno il
diritto di esserne essi stessi gli autori; sembrerebbe una ripresa dei principi democratici di Rousseau
(“obbedire alle leggi che ci si autonomamente prescritti, questa è libertà”), ma non è così: infatti per
Kant il potere legislativo non compete a tutti coloro che vivono sotto la giurisdizione di uno stato, ma
lo possono esercitare solo coloro che sono indipendenti anche nella loro vita materiale ed economica,
ovvero che possiedono un capitale o un’abilità che consente loro di mantenersi, senza dover vendere
le proprie braccia, Indipendenti sono per lui il proprietario, l’artigiano, ma non il lavoratore a giornata,
il servo domestico e la donna. Non sono dunque pienamente cittadini, cioè non hanno diritto di voto,
coloro che, se dovessero esprimersi politicamente, finirebbero per poter esprimere la volontà di coloro
da cui dipendono, e non la propria.

Potrebbero piacerti anche