L’esistenza di Kant è abitudinaria e concentrata su di uno sforzo continuo di pensiero, è priva di momenti
drammatici. Simpatizza con la rivoluzione americana e francese, che rispecchiavano il suo ideale politico
esposto in “per la pace perpetua”. Il suo progetto filosofico era una costituzione repubblicana fondata sulla
libertà dei membri della società, come uomini, sul principio d’indipendenza di tutti, come sudditi, e sulla legge
dell’eguaglianza, come cittadini.
Muore nel 1804 pronunciando le parole “Es ist gut”. Sulla tomba incisa una sua citazione “Il cielo stellato sopra
di me e la legge morale dentro di me”
L’attività letteraria di Kant si divide in tre periodi: il primo fino al 1760 ove prevale l’interesse per le scienze
naturali, un secondo fino al 1781 dove prevale l’interesse filosofico orientato all’empirismo inglese ed al
criticismo, un terzo fino al 1804 ove delinea la filosofia trascendentale.
Gli scritti del primo periodo rispondono agli interessi naturalistici propri della formazione universitaria di Kant.
In “Storia naturale universale e teoria del cielo” del 1755 viene descritta la formazione, fedele alla fisica
Newtoniana del cosmo a partire da una nebulosa primitiva. Nel “Principiorum primorium cognitionis
metaphysicaed nova dilucidatio” del 1755 riconosce come principio supremo quello d’inerzia, in “Monadologia
physicae” pone delle monadi fisiche. In “Alcune considerazioni sull’ottimismo” Kant si mette a favore di un
ottimismo radicale, immaginando il mondo nella sua totalità Dio non avrebbe potuto sceglierne uno migliore. A
causa di questa pretesa di una visione totale dell’universo Kant ripudierà questo scritto
Il secondo Periodo
Ne “La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche” Kant critica la logica aristotelico-scolastica,
paragonandola ad un colosso con la testa nelle nuvole dell’antichità e i piedi di argilla.
Ne “L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio” definisce la metafisica come “un
abisso senza fondo, un oceano tenebroso senza sponde e senza fari”.
Ne “Ricerca sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e della morale” scrive: “Se le verità metafisiche
possano avere la stessa evidenza di quelle matematiche e quale sia la natura della loro certezza” e definisce la
metafisica come “niente altro che una filosofia sui primi fondamenti della nostra conoscenza”, si avvicina
all’empirismo inglese.
Ne “I sogni di un visionario chiariti coi sogni della metafisica” Kant propone una satira delle visioni mistiche e
spiritistiche di Swedenborg, ritiene che la metafisica debba in primo luogo considerare le proprie forze e poi
“conoscere se il compito è in proporzione a ciò che si può sapere e quale rapporto ha la questione con i
concetti dell’esperienza sui quali devono poggiare tutti i nostri giudizi”.
La metafisica è la scienza dei limiti della ragione umana, ciò che conta, come per un piccolo paese, è conoscere
bene e mantenere i propri possedimenti piuttosto che andare alla cieca in cerca di conquiste. I problemi della
metafisica sono quelli che rimangono entro i confini dell’esperienza.
La dissertazione del 1770
Nel saggio “Sul primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio” nel quale il concetto di spazio
viene definito originario. “L’anno 69 mi ha portato grande luce” dice Kant, e con la dissertazione inaugurale per
la nomina di professore ordinario del 70, sancisce la soluzione critica del problema di spazio e tempo.
La distinzione tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale sta nel fatto che: la prima è dovuta alla
ricettività passiva del soggetto ed ha per oggetto il fenomeno, cioè la cosa come appare in relazione al
soggetto, mentre la seconda è una facoltà del soggetto ed ha per oggetto la cose come essa è, nella sua natura
intelligibile, ossia il noumeno.
Nella conoscenza sensibile si distinguono: la materia, cioè la sensazione, una modificazione degli organi di
senso che testimoni la presenza dell’oggetto dal quale è causata, la forma, cioè la legge, indipendente dalla
sensibilità, che ordina la materia sensibile.
La forma della conoscenza sensibile è costituita da spazio e tempo. Tempo e spazio non derivano, ma sono
presupposti dalla sensibilità, essi sono intuizioni pure che precedono e sono indipendenti da qualunque
conoscenza sensibile. Non sono realtà oggettive, ma condizioni soggettive necessarie alla mente umana per
coordinare a sé, in virtù di una legge, tutti i dati sensibili.
La conoscenza sensibile se anteriore all’intervento dell’intelletto logico è detta apparenza, se posteriore
esperienza. L’esperienza è una forma di conoscenza riflessa che si raggiunge attraverso il confronto operato
dall’intelletto tra una serie di apparenze. Dall’apparenza, attraverso la riflessione dell’intelletto, si giunge
all’esperienza.
In questo periodo Kant ancora crede che la conoscenza intellettuale abbia la capacità di cogliere le cose nel
loro ordine intelligibile, uti sunt, non solo come appaiono uti apparenti.
Il pensiero di Kant si sviluppa in tal modo: in giovane età si avvicina alla filosofia naturalistica dell’Illuminismo
ispirata da Newton, seguono le analisi degli empiristi inglesi che gli prospettano l’idea di un’autocritica della
ragione, con la dissertazione del 70 il punto di vista critico e trascendentale emerge in relazione alla
conoscenza sensibile, nel 81 il punto di vista critica si estende a tutto il mondo dell’uomo
Il criticismo come “filosofia del limite” e l’orizzonte storico del pensiero kantiano
Il pensiero di Kant è detto criticismo e fa della critica lo strumento per eccellenza della filosofia. Criticare
significa: giudicare, distinguere, valutare, soppesare ovvero interrogarsi programmaticamente circa il
fondamento di determinate esperienze umane, chiarendo: la possibilità (le condizioni che ne permettano
l’esistenza), la validità (i titoli di legittimità o non-legittimità che le caratterizzano), i limiti (i confini di validità).
Si tratta di una filosofia del limite atta a riconoscere il carattere finito dell’esistenza umana in ogni ambito. In
tal modo non si guarda scetticamente al mondo, ma si riconosce la validità dell’individuo. I limiti non sono solo
ciò oltre cui non si può andare, ma stabiliscono che entro di essi si ha pieno potere e legittimità. Il
riconoscimento dei limiti da legittimità e fondamento alle facoltà umane. La rivoluzione scientifica e la crisi
delle metafisiche tradizionali scardino tutte quelle dottrine fondate sulla metafisica lasciandole senza base su
cui poggiarsi, ed in un tale periodo storico riscoprire i fondamenti dell’Estetica, della Morale al di là della
metafisica religiosa era un quesito ed impresa necessario alla cultura della società. Il kantismo si rifà
all’empirismo inglese, ma rifiuta i suoi esiti scettici e spinge più a fondo l’analisi critica. Dall’illuminismo Kant si
distingue nel suo portare davanti al tribunale della ragione, non solo tutto il mondo ma la ragione stessa.
Critica della ragion pura
Il problema generale
La Critica della ragion pura è un’analisi critica dei fondamenti del sapere, costituito ai tempi di Kant da scienza
(matematica e fisica) e metafisica. La scienza, grazie ai successi di Newton e Galileo appariva come un sapere
fondato in continuo progresso, mentre la metafisica procedendo oltre l’esperienza, dando soluzioni disparate e
antitetiche ai medesimi problemi, con contese senza fine tra i pensatori, non era ancora certa come la scienza.
L’analisi critica di Hume aveva minato i fondamenti del sapere, era quindi necessario un riesame globale della
struttura e della validità della conoscenza. Lo scetticismo scientifico verrà respinto, ma Kant condivide lo
scetticismo metafisico . Hume descrisse la metafisica come “semplice illusione di conoscere razionalmente ciò
che, in realtà, ci proviene dall’esperienza”, ma Kant continua a riconoscerle una certa nobiltà e importanza e la
descrive come una disposizione naturale che spinge l’uomo a trascendere il verificabile. Le domande
fondamentali della critica sono dunque: Com’è possibile la matematica pura? Com’è possibile la fisica pura?
Com’è possibile la metafisica in quanto disposizione naturale? Com’è possibile la metafisica come scienza?
La matematica e la fisica vanno giustificate nel loro essere scienza, la metafisica invece bisogna scoprire se
esistano le condizioni per le quali lo possa essere
Con l’obbiettivo di trovare una conoscenza sia certa che feconda Kant intende dimostrare come la conoscenza
cominci dall’esperienza ma non dipenda solo da essa. La conoscenza umana ed in particolare la scienza, deriva
dall’esperienza ma presuppone alla propria base alcuni principi immutabili, ovvero i giudizi sintetici a priori.
I giudizi perché consistono nel connettere un predicato con un soggetto, sintetici perché il predicato dice
qualcosa di nuovo rispetto al soggetto, a priori perché essendo universali e necessari non possono derivare
dall’esperienza.
I giudizi analitici a priori sono enunciati prima dell’esperienza e il predicato esplicita quanto già implicitamente
contenuto nel soggetto, e pur essendo universali e necessari sono infecondi, non dicono nulla di nuovo.
Richiamano la concezione razionalistica della scienza, che pretendeva di partire da principi a priori, le idee
innate per derivare da esse tutto lo scibile.
I giudizi sintetici a posteriori sono giudizi in cui il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto a
seguito dell’esperienza, poggiandosi solo sull’esperienza e non essendo quindi universali e necessari.
Richiamano l’interpretazione empiristica della scienza, che pretendeva di fondarsi esclusivamente
sull’esperienza.
Contro il razionalismo Kant ritiene che la scienza derivi dall’esperienza, contro l’empirismo ritiene che alla
base dell’esperienza vi siano dei principi inderivabili dall’esperienza stessa.
La scienza è feconda sia per il contenuto che deriva dall’esperienza sia per la forma che deriva dai giudizi
sintetici a priori, ovvero i quadri concettuali di fondo e grazie ai quali è universale e necessaria. Hume si sbagliò
ritenendo il principio di causalità dedotto dall’esperienza, mentre esso è in realtà un giudizio sintetico a priori
che la precede. I giudizi sintetici a priori sono i principi assoluti di fondo.
La “rivoluzione copernicana”
Kant si pone una domanda intorno alla provenienza dei giudizi sintetici a priori, i quali non provenendo
dall’esperienza devono essere giustificati da qualcosa. La risposta di Kant consiste in una nuova teoria
gnoseologica, una sintesi tra materia empirica a posteriori e forma razionale a priori. La materia della
conoscenza è la molteplicità caotica e mutevole delle impressioni sensibili dell’esperienza, la forma della
conoscenza è l’insieme delle modalità fisse attraverso cui la mente umana ordina le impressioni sensibili.
Non potendo percepire le cose che attraverso questi giudizi siamo certi che essere si presenteranno sempre in
questa forma, tale certezza non deriva dalla randomica sequela di impressioni che riceviamo, ma dai giudizi
sempre uguali attraverso i quali le facciamo nostri, giudizi soggettivi, che funzionando allo stesso modo per
tutti gli intelletti come il nostro rendono le informazioni ottenute universali.
Kant compie una rivoluzione copernicana ribaltando i rapporti tra soggetto e oggetto come fece Copernico tra
lo spettatore e le stelle. Non è la mente che si modella in modo passivo sulla realtà, ma la realtà che si modella
sulle forme a priori attraverso cui la percepiamo.
A questa ipotesi gnoseologica Kant distingue il fenomeno dal noumeno. Il fenomeno è la realtà quale ci appare
tramite le forme a priori, si tratta di un oggetto reale soltanto nel rapporto col soggetto che lo conosce, la sua
oggettività consiste nel valere allo stesso modo per tutti gli intelletti strutturati come il nostro. Il noumeno è la
cosa in sé, la realtà considerata indipendentemente da noi e dalle forme a priori.
Di queste tre parti si compone la facoltà conoscitiva nel suo complesso, e similarmente si struttura la Critica
della ragion pura che si divide in: dottrina degli elementi la quale scopre gli elementi formali della conoscenza,
ovvero puri o a priori, e la dottrina del metodo la quale determina l’uso degli elementi, il metodo della
conoscenza.
La dottrina degli elementi si suddivide in: estetica trascendentale la dottrina della sensibilità e delle forme a
priori di spazio e tempo, sulle quali si fonda la matematica, e la logica trascendentale (così come l’attività
conoscitiva si suddivide in attiva e passiva, così l’opera fa questa distinzione) che si dirama in analitica
trascendentale, dottrina dell’intelletto e delle sue dodici forme a priori, le dodici categorie, sul quale si fonda la
fisica, e dialettica trascendentale dottrina della ragione e delle sue idee di anima, mondo e Dio, sulla quale si
fonda la metafisica.
L’estetica trascendentale
L’Estetica trascendentale studia la sensibilità e le sue forme a priori. La sensibilità è ricettiva, accoglie dalla
realtà esterna il materiale sensibile come intuizioni empiriche, e lo organizza tramite le proprie intuizioni pure,
ovvero le forme a priori spazio e tempo.
La teoria dello spazio e del tempo
Lo spazio (Raum) è la forma del senso esterno, la rappresentazione a priori a fondamento delle intuizioni
esterne che le dispone l’una accanto all’altra.
Il tempo (Zeit) è la forma del senso interno, la rappresentazione a priori a fondamento degli stati interni che li
dispone uno dopo l’altro in successione.
Il tempo è anche forma del senso esterno perché i le intuizioni empiriche ci giungono attraverso il senso
interno da esso regolato, è quindi la maniera universale con cui percepiamo tutti gli oggetti. Non ogni cosa è
nello spazio, come i sentimenti, ma tutto sta nel tempo.
L’esposizione metafisica
Contro l’empirismo di Locke che considera spazio e tempo nozioni tratte dall’esperienza Kant afferma che per
fare qualunque esperienza dobbiamo già presupporli.
Contro l’oggettivismo di Newton che considera spazio e tempo come entità a sé stanti, recipienti vuoti, Kant
afferma che allora dovrebbero continuare ad esistere anche senza oggetti ma pur dovendo non si potrebbe
concepirli senza oggetti. Essi non sono contenitori in cui gli oggetti si trovano, ma quadri mentali a priori nei
quali connettiamo dati fenomenici, essi sono ideali e soggettivi in relazione alle cose in sé e reali e oggettivi
rispetto all’esperienza. Di Newton però apprezza il considerarli coordinate assolute dei fenomeni.
Contro il concettualismo di Leibniz che considera spazio e tempo come concetti esprimenti il rapporto delle
cose Kant afferma che essi non sono concetti discorsivi a cui si giunge induttivamente, ma intuizioni pure che ci
fanno intuire i vari spazi come un unico, ma a partire da un’intuizione originaria di spazio.
L’esposizione trascendentale
Analitica trascendentale
La logica trascendentale indaga l’origine, l’estensione e la validità oggettiva delle conoscenze a priori
nell’intelletto e nella ragione. Sensibilità e Intelletto sono entrambi necessari alla conoscenza infatti: “i pensieri
senza intuizioni sono vuoti e le intuizioni senza concetti sono cieche”.
Le categorie
I concetti sono funzioni attive che unificano diverse rappresentazioni sotto una comune, essi seguono alle
intuizioni che sono affezioni passive. I concetti possono essere costruiti con materiale empirico o essere
contenuti a priori nell’intelletto (empirici e puri). I concetti puri son detti categorie i concetti fondativi che
costituiscono le supreme funzioni unificatrici dell’intelletto. A differenza delle categorie Aristoteliche non
hanno alcun valore ontologico, esse si estendono nel campo gnoseologico-trascendentale, e indicano come noi
ordiniamo i fenomeni, non come sia la cosa in sé. Essendo il pensare equivalente al giudicare (ossia attribuire
un predicato ad un soggetto) ci sono tante categorie (predicati primi) quante le modalità di giudizio (le
maniere fondamentali per cui si attribuisce un predicato ad un soggetto). Kant fa corrispondere a ciascun
giudizio una categoria per cui qualsiasi possibile giudizio rientri in una di esse.
La deduzione trascendentale
La deduzione trascendentale ha il compito più complesso dell’opera ovvero giustificare la validità dell’utilizzo
delle categorie. Il termine “deduzione” è usato in senso giuridico, ciò che va determinato non è relativo al loro
agire, ma alla validità del loro utilizzo da parte della ragione. Le categorie sono forme soggettive a cui i
fenomeni rispondono, in quanto soggettivi, con quale pretesa si può dire che la realtà, la cosa in sé risponda a
loro? Cosa ci garantisce che la natura risponderà alle categorie? La realtà obbedisce alla forme a priori della
sensibilità spazio e tempo, senza di esse nessun oggetto può esser dato, ma da ciò non segue la realtà debba
obbedire anche alle categorie.
La risposta data da Kant a questo problema è la seguente. Poiché l’unificazione del molteplice non deriva dalla
passiva molteplicità ma da un’attività sintetica nell’intelletto, si può allora distinguere tra l’unificazione che è il
processo durante il quale il molteplice si unifica e l’unità stessa, il principio dal quale essa si origina. La
suprema unità fondatrice della conoscenza viene chiamata da Kant “io penso”. Esso si identifica con l’identica
struttura mentale che accomuna gli uomini. Se l’io penso non ci fosse, e non si chiamassero “mie” le varie
rappresentazioni esse sarebbero impossibili. Una rappresentazione non accompagnata dall’io penso sarebbe o
impensabile o nulla. L’attività dell’io penso avviene per giudizi, fondati sulle categorie, ovvero le dodici funzioni
unificatrici tramite le quali l’io penso sintetizza. Da ciò ne consegue che gli oggetti non possono essere pensati
senza essere categorizzati.
Tutti i pensieri presuppongono l’io penso e l’unità da lui sintetizzata, essendo la sintesi fatta grazie alle
categorie segue che il mondo fenomenico risponde alle forme a priori dell’intelletto. L’io penso è il principio
supremo della conoscenza umana sotto al quale deve sottostare qualunque realtà fenomenica, ed è anche ciò
che rende possibile l’oggettività o universalità del sapere, senza l’io penso e le sue categorie le uniche
connessioni possibili sarebbero quelle particolari e contingenti e saremmo chiusi nella soggettività individuale.
Kant nonostante ciò non diventa un idealista, come Fichte, il suo io non è creatore ma si limita ad ordinare la
realtà preesistente, esso è finito e ha carattere formale. L’idealismo viene escluso da Kant in quanto
l’interiorità non può essere percepita senza l’esteriorità. Kant dice che ogni determinazione temporale
presupponga un qualcosa di permanente nella percezione e che questo elemento non possa essere qualcosa in
me essendo la mia esistenza nel tempo determinata da questo stesso elemento deve necessariamente esserci
quindi qualcosa fuori di me. L’esistenza nel tempo presuppone l’esistenza di cose reali percepite come fuori di
me.
Nello schematismo trascendentale Kant mostra concretamente come l’intelletto condizioni la realtà
fenomenica tramite le categorie. Prima di tutto va trovato l’elemento mediatore tra sensibilità e intelletto che
permetta all’intelletto di applicare le proprie forme a priori sulle percezioni. Il termine mediatore è il tempo.
L’intelletto condiziona il tempo che a sua volta condizioni gli oggetti. Ciò avviene attraverso l’immaginazione
produttiva la quale produce a priori degli schemi temporali corrispondenti a ciascuna categoria. Lo schema è
una rappresentazione intuitiva di un concetto, ovvero una regola della determinazione della nostra intuizione,
conforme ad un concetto universale. Esso non coincide con un’immagine ma è la regola in base alla quale
l’immaginazione è posta in grado di delineare la figura di un determinato elemento. Gli schemi trascendentali
sono le regole attraverso cui l’intelletto condiziona il tempo in conformità ai propri concetti a priori, gli schemi
sono categorie calate nel tempo, tradotte in linguaggio temporale.
Una volta chiarito come gli oggetti, pur non creati dalla mente, si conformino alle sue leggi Kant tratta dei
principi dell’intelletto, le regole di fondo che regolano l’applicazione delle categorie ai concetti. Essi sono cioè,
ciò che possiamo affermare di un oggetto a priori, basandoci sulle categorie. Si dividono in quattro gruppi: gli
assiomi dell’intuizione (corrispondono alla quantità, affermano che ogni fenomeno sia una quantità estensiva
conoscibile tramite la sintesi delle sue parti, giustifica l’applicazione della matematica), le anticipazione della
percezione (afferma che ogni fenomeno ha una quantità intensiva, deriva dalla qualità, e per quanto lo si può
confermare solo a posteriori una proprietà tale si può conoscere a priori), le analogie dell’esperienza (i quali
rispondono alla relazione, e affermano che l’esperienza costituisca una trama necessaria di rapporti fondata
sulla permanenza della sostanza, la causalità e dell’azione reciproca, conoscendo un oggetto sappiamo già
abbia una causa, a priori, senza bisogno di verificarlo), i postulati del pensiero empirico in generale
(corrispondono alla modalità e affermano che ciò che è in accordo con le condizioni formali dell’esperienza è
possibile, ciò che è connesso con le condizioni materiali è reale, ciò la cui connessione col reale è determinata
in base alle condizioni universali dell’esperienza è necessario).
Considerando la natura suddivisa in natura formale, le leggi che la regolano, e natura materiale, l’insieme dei
vari fenomeni, risulta chiaro come la natura formale coincida con l’io e che questo sia un io legislatore della
natura. L’ordine che sta alla base di tutti i fenomeni è dettato dall’io e dalle sue forme a priori. L’io continua ad
avere una dimensione finita però. Esso può rivelare le regoli generali della natura, non quelle particolari che
vanno colte mediante l’esperienza. Fondando la natura fonda anche la scienza, come la fisica, che ha come
pilastri i giudizi sintetici a priori basati sulle vari forme a priori.
Lo scetticismo di Hume viene a mancare, e la scienza si rafforza, non è possibile che la natura smentisca i
principi considerati validi della scienza, come diceva Hume, perché la stessa percezione di un qualsivoglia
fenomeno è condizionata dalle forme a priori dell’intelletto che istituiscono e fanno da garanti delle norme
universali.
Kant scopre nell’uomo la garanzia della conoscenza, nel soggetto il fondamento dell’oggettività. Ma l’originalità
di Kant non sta solo nel porre il soggetto al centro, ma nel delimitarlo, nel definire le regole che gli danno forza
solo entro una certa distanza. La validità delle categorie si accompagna ad un chiarimento sui limiti del loro
uso. Le categorie organizzano il materiale sensibile, senza intuizioni empiriche sarebbero quindi vuote. La
conoscenza non può quindi estendersi né al di là né al di qua dell’esperienza. Una conoscenza senza esperienza
è un pensiero vuoto che non porta da nessuna parte. Kant non volle mai ridurre la realtà a fenomeno
affermando che essendoci un per-noi deve esserci necessariamente un in-sé, un oltre-fenomeno, un noumeno
che si fenomenizza a contatto con il soggetto, dal quale tutto deriva. Rifiutò fino alla morte di cadere
nell’Idealismo che venne abbracciato da Fichte, per il quale l’io era creatore.
Il noumeno che non potrà mai far parte dell’esperienza e ne distingue due sensi: in senso positivo il noumeno
è l’oggetto di un’intuizione non sensibile, una conoscenza fenomenica conoscibile solo ad un intelletto divino
dotato di intuizione intellettuale per il quale la creazione corrisponde all’intuizione delle cose, e un senso
negativo per il quale il noumeno è il concetto di una cosa in se che non può mai entrare in rapporto
conoscitivo con noi. La cosa in sé non è quindi davvero una realtà, quanto più un concetto limite che limita la
nostra conoscenza, e tronca sul nascere pretese conoscitive più grandi di noi.
La dialettica trascendentale
Nella dialettica trascendentale Kant risponde al quesito “La metafisica può costituirsi come una scienza?”. Il
termine “dialettica” per Kant ha una connotazione negativa e significa “logica della parvenza” indica quell’arte
di dare alle proprie illusioni l’aspetto della verità. Kant si propone di analizzare e smascherare i ragionamenti
fallaci della metafisica, che nonostante siano tali sono anche inevitabili per l’essere umano.
La metafisica è un prodotto della ragione, che a sua volta coincide con l’intelletto il quale pur essendo valido
solo quando alle sue forme a priori si accompagnino delle intuizioni empiriche tende anche a pensare senza di
esse, come una colomba che frenata dall’aria pensa di volare più velocemente senza di essa. Ciò è causato
dalla tendenza all’infinito e alla totalità di cui ciascuno di noi e proprio, e verso la quale la ragione spinge,
insoddisfatta del mondo fenomenico e attratta dall’assoluto. Ciò si riassume in tre idee trascendentali con le
quali intendiamo unificare i fenomeni: il senso interno si unifica nell’anima, il senso esterno nel mondo, i dati
esterni ed interni tramite Dio totalità delle totalità e fondamento di tutto.
La metafisica erra nel tramutare tali esigenze di unificazione dell’esperienza in realtà, dimenticando che noi
non siamo in grado di raggiungere alla cosa in se. La dialettica trascendentale è lo studio dei fallimenti del
pensiero quando esso si spinge oltre i confini empirici. Kant tratterà anche delle pretese scienze alla base della
metafisica: la psicologia razionale, la cosmologia razionale e la teologia razionale.
La critica della psicologia razionale e della cosmologia razionale
La psicologia razionale è fondata su un paralogismo ovvero un ragionamento errato per il quale si applica la
categoria di sostanza all’io penso, tramutandolo in una realtà detta anima. Mentre l’io penso non è un oggetto
empirico ma un’unità formale sconosciuta alla quale non si possono applicare categorie. Non è possibile dare
valori all’io penso in quanto esso è la sola condizione formale per l’esperienza. Kant chiarifica che noi siamo
fenomeni a noi stessi e il nostro io noumenico ci è sconosciuto.
L’errore della cosmologia razionale sta nella pretesa di utilizzare la nozione di mondo, ovvero la totalità
assoluta dei fenomeni cosmici. Ma noi del mondo non possiamo fare esperienza, anche facendo esperienza
singola di tutti i fenomeni che vanno a costituire il mondo fenomenico, ancora ci troveremmo di fronte ad una
sfilza di fenomeni distinti, non uno unico che li comprenda tutti. I metafisici che discutono del mondo cadono
nelle antinomie ovvero dei conflitti della ragione con sé stessa nei quali tra due tesi opposte non c’è possibilità
di giungere ad una conclusione in quanto esse possono essere entrambe dimostrate ma l’idea di mondo,
essendo al di fuori di ogni possibile esperienza, non può fornire alcun criterio per prendere una decisione.
La teologia razionale che si occupa della questione divina non ha alcun valore conoscitivo. L’essere perfetto,
eterno e assoluto che è Dio scaturisce dalla ragione e non essendoci data alcuna prova della sua esistenza nei
secoli tre principali correnti di prove si sono susseguite, che Kant provvederà a falsificare.
La prova ontologica afferma che essendo Dio l’essere perfettissimo non può mancargli l’attributo
dell’esistenza. Dove questa prova erra è in questo salto da un’possibilità logica ad una realtà ontologica, che
non è criticamente ammissibile. L’esistenza non è una qualità di un oggetto, ma qualcosa ricavabile
empiricamente. Che qualcosa sia logicamente possibile non implica sia reale, per dimostrare ciò bisogna
verificare empiricamente. Questa prova è quindi contradditoria perché deriva la realtà da un’idea, e
impossibile perché assume nell’idea di Dio già l’esistenza, rendendo futili ulteriori ragionamenti.
La prova cosmologica utilizzando la catena causa-effettuale e i concetti di contingente e necessario afferma
che se qualcosa esiste contingentemente si dovrà risalire la catena delle sue cause fine ad un essere
assolutamente necessario, ovvero Dio, e dato che almeno io esisto Dio esiste. L’errore sta nell’usare il principio
di causa, che connette fenomeni di cui si fa esperienza, illegittimamente utilizzando per andare oltre
l’esperienza. La prova ricade poi negli stessi errori di quella ontologica, raggiungendo impropriamente il
necessario lo si fa coincidere con Dio e da quella che è di nuovo solo una possibilità logica, non verificata, a cui
si è giunti impropriamente, si ricava la realtà ontologica.
La prova fisico-teologica partendo dall’ordine e la bellezza del mondo raggiunge un Dio creatore architetto che
abbia progettato tutto ciò. Questa prova partendo dall’esperienza dell’ordine del mondo si eleva ad una causa
trascendente, escludendo la possibilità di una natura auto-regolatrice. Dio diviene architetto e creatore del
mondo, tale prova ricade nella prova cosmologica che identifica una causa necessarie creatrice, e a sua volta
ricade nella prova ontologica. Inoltre gli attributi di perfezione e bellezza sono relativi a noi e non autorizzano
un passaggio dal finito all’infinito. La nostra esperienza di un certo ordine non giustifica l’affermazione di un
ordine perfetto e di un ente perfetto che ne è a capo.
Essendo queste confutazioni indipendenti dal resto della Critica ebbero molto successo. Da chiarire che Kant
non intenda affermare l’inesistenza di Dio, ma l’indicibilità della sua esistenza. Così come non possiamo
affermarlo non possiamo negarlo e Kant non è ateo ma agnostico.
Queste idee pur non avendo un uso costitutivo possono avere un uso regolativo. Ciascuna idea spinge la
ragione verso l’unità sistematica che rappresenta: l’idea psicologica spinge a cercare i legami tra tutti i
fenomeni del senso interno, come se fossero manifestazione di un’unità semplice, l’idea cosmologica a passare
da un fenomeno naturale all’altro per vie causali, studiando il senso esterno come se esistesse un mondo,
l’idea teologica da all’esperienza una parvenza di perfezione sistematica che verrà ricercata come per
raggiungere Dio. Non avendo più valore dogmatico le idee fungeranno da condizioni che spingeranno l’uomo
nella ricerca naturale
L’articolazione dell’opera
La Critica della ragion pratica si suddivide in una dottrina degli elementi e una dottrina del metodo. La prima a
sua volta studiando gli elementi della morale si suddivide in analitica, che espone la regola della verità etica, e
in dialettica, che affronta l’antinomia della ragion pratica legata all’idea di sommo bene. La seconda parte
tratta di come le leggi morali accedano all’animo umano, come rendere soggettivamente pratica la ragione che
è oggettivamente pratica e si tratta dell’importanza dell’educazione, buoni esempi e del giudicare rettamente.
I principi della ragion pura pratica
La “categoricità” dell’imperativo morale
Kant suddivide i principi pratici regolatrici della moralità in: massime, ovvero una prescrizione di valore
soggettivo valida per il solo individuo che la fa propria, e imperativi, ovvero prescrizioni di valore oggettivo,
validi per chiunque e suddivisi in ipotetici e categorici.
Gli imperativi ipotetici con la forma del “Se… devi…” prescrivono dei mezzi in vista di fini, come “per essere
un buon studente devi studiare in modo costante”. L’imperativo categorico ordina il dovere in modo
incondizionato ed ha la forma del “devi” la forza di questo imperativo è condizionata alla volontà del soggetto.
La legge morale non può risiedere in impulsi sensibili soggettivi e da circostanze mutevoli e consisterà quindi
dei soli imperativi categorici che impongono assolutamente ed incondizionatamente, in modo indipendente
dalla persona, obbiettivo e circostanza a cui si rivolge. Il solo imperativo categorico ha le caratteristiche della
legge, valendo per tutte le persone e per tutte le circostanze. Essendo indipendente da scopo, essendo
universale e necessario ha in sé la moralità.
Richiedendo l’imperativo categorico il solo rispetto della legge in generale il suo contenuto consiste
nell’elevare a legge l’esigenza stessa di una legge, ovvero universalità, si concretizza quindi nella prescrizione di
agire secondo una massima che può valere per tutti. “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa
sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale”. Un comportamento è
morale solo se è generalizzabile a tutti, altrimenti è immorale.
La seconda formula dell’imperativo categorico: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia
in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Ovvero rispettare la
dignità umana in sé e negli altri, per fine si intende essere scopo a se stessi riconoscendosi come soggetto e
non oggetto. La morale istituisce un regno dei fini, una comunità ideale di libere persone che agendo
moralmente si riconoscono dignità a vicenda.
La terza formula: “agisci in modo tale che la volontà, in base alla massima, possa considerare
contemporaneamente sé stessa come universalmente legislatrice”. Questa formula sottolinea l’autonomia
della volontà ed evidenzia che il comando morale non è un imperativo esterno schiavizzante, ma un frutto
spontaneo della volontà razionale, la quale essendo legge a sé stessa fa sì che noi ci sottomettiamo a noi stessi,
nel regno dei fini ognuno è suddito e legislatore contemporaneamente. “La volontà non è semplicemente
sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata autolegislatrice, e solo a questo patto
sottostà la legge.
L’etica kantiana è formale non prescrive il cosa ma il come fare. Se così non fosse perderebbe la sua
universalità e libertà rimanendo condizionata alla materia, ovvero ad una casistica di precetti che non
potrebbero essere legge universale. L’imperativo è una legge formale-universale che afferma di agire tenendo
presente gli altri e la dignità umana di ciascuno. Sta poi al singolo declinare la legge universale in azione
particolare. Il formalismo kantiano è una fonte perenne di moralità che alimenta i popoli più disparati
rimanendo immutata. La morale kantiana è uno sforzo di attuare la legge della ragione solo per ossequio ad
essa, se invece ordinasse di agire in vista di un fine comprometterebbe la propria libertà d’azione e la propria
universalità. L’universalizzazione della massima non va vista in senso utilitaristico per il bene comune, ma
come verifica della sua razionalità e non contraddittorietà.
Il rigorismo consiste nell’escludere emozioni e sentimenti dall’etica che possono sviare ed inquinano la purezza
della morale in quanto l’unico fine e causa del dovere è il dovere stesso, dovere-per-il-dovere. Il rispetto per la
legge ovvero il sottomettersi alla legge morale, innalza ad essa. Tale sentimento morale è prodotto esclusivo
della ragione nato appunto per disporre l’individuo all’obbedienza al puro dovere. Un’azione per essere morale
non deve essere solo formalmente tale, ma l’intenzione che sta dietro deve essere quella di obbedire alla legge
morale. Si tratta di un “dovere” formale “per-il dovere” avente come causa-fine-scopo il dovere stesso. Qui si
distingue tra legalità, l’assolvere il dovere esteriore tramite un’azione visibile, e moralità, l’intenzione invisibile
il farlo per-il-dovere. Senza partecipazione interiore un’azione, anche se apparentemente morale, è solo legale.
Si tratta allora di un’etica dell’intenzione in cui il bene consiste nella volontà buona, nel volere il bene. Il
dovere-per-il-dovere innalza l’uomo dal mondo fenomenico del sensibile a quello noumenico dell’intellegibile
ove vige la libertà. La vita morale è la costituzione di una natura sovrasensibile, nella quale la legislazione
morale prende il sopravvento sulla legislazione naturale. Rimane il fatto che la noumenicità dell’uomo esiste
solo in relazione alla sua fenomenicità, il mondo sovrasensibile esiste ai suoi occhi come forma del mondo
sensibile
Le determinazioni della legge convergono nell’autonomia ovvero l’indipendenza della volontà da ogni
desiderio ed oggetto, la capacità della volontà di determinarsi in funzione di una legge propria. L’auto-
normatività della ragion pratica che è legge a se stessa è la rivoluzione copernicana che si contrappone
all’eteronomia. La libertà si identifica positivamente con la capacità di autodeterminarsi, la prerogativa
autolegislatrice della volontà contrapposta alle precedenti e storiche morali eteronome, che pongono il
fondamento del dovere al di fuori dell’uomo.
Se la morale risiedesse nell’educazione, nella società, nel piacere, nella benevolenza, allora l’azione non
sarebbe libera ed universale essendo fattori determinanti e mutevoli che spiegherebbero solo la presenza della
moralità in certi uomini ma non il carattere obbligatorio della legge morale. Un generico ideale di perfezione
anche non funziona, sarebbe vuoto a meno che non combaciasse con la morale stessa, ricadendo in una
tautologia. Se la volontà divina è indeterminata e si fa combaciare dio con la morale si cade in un circolo
vizioso. Se è determinata in modo volontaristico essa diviene una costrizione. Contro il razionalismo Kant
afferma che la morale si basi unicamente sull’uomo e sulla sua dignità di essere razionale finito. Contro
l’empirismo Kant sostiene che la morale si fonda unicamente sulla ragione. Viene sciolto il paradosso della
ragion pratica soggettiva e al contempo universale, e quindi non sono i concetti di bene e male a fondare l’etica
ma è la legge etica a fondare le nozioni di bene e male.
Il postulato dell’immortalità dell’anima afferma che poiché la santità (perfetta conformità alla legge etica)
rende degni del sommo bene, e in quanto non è realizzabile nel nostro mondo, si deve ammettere un’altra
zona del reale in cui l’essere umano ha un tempo infinito per progredire all’infinito verso la santità.
Così si è giunti alla santità, al bene supremo, ma non ancora al sommo bene che necessità la felicità. E’ quindi
necessario il postulato dell’esistenza di Dio, una volontà santa ed onnipotente che faccia corrispondere la
felicità alla virtù.
Si affianca a questi il postulato della libertà che è condizione necessaria dell’etica che prescrivendo il
dovere presuppone anche che si sia liberi di agire o meno in conformità ad esso. Tuttavia se
ontologicamente la libertà è condizione della moralità, gnoseologicamente è la moralità ad essere condizione
della libertà. Non sapremmo di essere liberi in questa natura deterministica se non ci scoprissimo obbligati a
seguire la legge morale. Questo terzo postulato è differente dagli altri due, di Dio come dell’anima non
possiamo dire né cosa siano ne se esistano, mentre della libertà pur non sapendo cosa sia sappiamo che esista.
I primi sono bisogni pratici dell’essere morale finito delle condizioni ipotetiche che permettano di realizzare ciò
che è negato in questo mondo, mentre la libertà è condizione dell’etica che è certa già per il solo essere
dell’etica. Quindi i postulati in senso forte e caratteristico kantiano sono da considerarsi quelli religiosi.
Kant ha bisogno di postulare la libertà perché essa non può essere affermata scientificamente, il mondo
empirico si fonda sul principio causa-effetto una legge necessaria a cui gli eventi non potrebbero non
rispondere. Ma l’uomo evidentemente compie azioni che avrebbe potuto non compiere. La soluzione
all’aporia della libertà sta nel fatto che un’azione può essere determinata in quanto accadimento del mondo
sensibile e libera in quanto atto morale. Tale duplicità è possibile solo postulando noumenicamente la libertà
umana. L’uomo nel mondo fenomenico è soggetto alla legge fisica, nel mondo noumenico alla legge morale.
Nel primo mondo vige il determinismo e nel secondo la libertà. Si può dire che ogni azione compiuta contro la
legge morale abbia nel passato la propria causa e sia predeterminata, ma la decisione di compierla avrebbe
potuto essere evitata in quanto non è determinata o necessitata. Libertà e determinismo possono coesistere.
Il Giudizio è specificatamente in questa critica l’organo dei giudizi riflettenti una facoltà intermedia tra
intelletto e ragione, tra la conoscenza e la morale. I due tipi di giudizio riflettente sono giudizi sentimentali
puri, che vengono a priori della nostra mente. Il giudizio estetico verte sulla bellezza, in esso noi viviamo
immediatamente ed intuitivamente la finalità della natura. Il giudizio teleologico verte sui fini della natura,
ed in esso noi pensiamo concettualmente tale finalità mediante la nozione di fine.
Il giudizio riflettente risulta estetico o teleologico in base a come viene declinato il principio di finalità. Se esso
riguarda il rapporto instaurato tra il soggetto e la rappresentazione dell’oggetto si ha un giudizio estetico, se
riguarda un presunto ordine finalistico interno alla natura stessa riguarda il giudizio teleologico. Si ha da una
parte una finalità soggettiva e formale e dall’altra una finalità oggettiva e reale. Tuttavia anche il giudizio
teleologico esprime un’esigenza umana, un bisogno oggettivo della mente di rappresentare finalisticamente
l’ordine delle cose.
La Critica del Giudizio si suddivide in: Critica del Giudizio estetico, a sua volta suddivisa in Analitica del
Giudizio Estetico (che tratta di bello e sublime) e Dialettica del Giudizio Estetico (che tratta dell’antinomia del
gusto); Critica del Giudizio teleologico suddivisa in Analitica del Giudizio teleologico (tratta del Giudizio sulla
finalità della natura) e Dialettica del Giudizio di teleologico (che tratta dell’antinomia del Giudizio). Ad
appendice si trova una Metodologia del Giudizio teleologico.
- Secondo la qualità “Il bello è l’oggetto di un piacere senza alcun interesse”. I giudizi estetici infatti
sono contemplativi e disinteressati, non si curano dell’esistenza o del possesso degli oggetti, ma solo
della loro immagine o rappresentazione. Nel giudicare una cosa bella non conta si è interessati a
sapere se a qualcuno importi della sua esistenza, ma si vuole sapere solo se questa rappresentazione
dell’oggetto è accompagnata in me da piacere. Una cosa è bella perché bella, non perché soddisfi
interessi esterni.
- Secondo la quantità “Il bello è ciò che piace universalmente senza concetto”. Il giudizio estetico
pretende una certa universalità, vuole essere condiviso da tutti, ma senza che il bello sia sottomesso
ad un concetto o esprima un piacere dipendente da una conoscenza. Le cose belli sono tali perché
vissute spontaneamente come belle e non perché giudicate così da ragionamenti o concetti.
- Secondo la relazione “Il bello è la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è percepita
senza la rappresentazione di uno scopo”. Ovvero la bellezza è percepita come finalità senza scopo.
L’armonia degli oggetti belli, pur esprimendo accordo formale tra le parti, una certa finalità, non
soggiace ad uno scopo determinato concettualmente esprimibile. La bellezza è un libero gioco di
armonie formali che non rimanda a concetti precisi e non risulta imprigionabile in schemi conoscitivi.
- Secondo la modalità “Il bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere
necessario”. Esso si presente come qualcosa su cui tutti devono essere d’accordo, il bello si percepisce
intuitivamente e non si può spiegare intellettualmente, ma ciò nonostante si pretende che tutti
concordino. Non essendoci principi razionali del gusto o ideali rigidi di bellezza, l’educazione alla
bellezza sarà una ripetuta contemplazione di cose belle
La bellezza nel giudizio estetico è vissuta come qualcosa che deve venir condivisa da tutti. Non permettiamo a
nessuno di avere altro parere e fondiamo il nostro giudizio non sul concetto ma sul sentimento. Kant fa
distinzione tra il piacevole “ciò che piace ai sensi nella sensazione” ed il campo del piacere estetico “il
sentimento provocato dalla forma della cosa detta bella”. Il piacevole dà luogo a giudizi estetici empirici
scaturiti dall’attrattiva delle cose sui sensi e legati alle inclinazioni individuali, dunque privi di universalità.
Quando la bellezza è un fatto di attrazione fisica, relativa più ai sensi che al sentimento, sarà necessariamente
soggettiva. Il piacere estetico invece dà luogo ai giudizi estetici puri che derivano dalla sola contemplazione
della forma di un oggetto (la materialità sensibile non da bellezza risiedendo nell’ordine e nella forma degli
elementi) e solo questi giudizi hanno universalità non avendo alcun tipo di condizionamento.
Un’ulteriore distinzione è quella tra bellezza libera e bellezza aderente, la prima viene appresa senza
concetto ed i giudizi che la riguardano sono giudizi estetici puri universali, la seconda implica il riferimento ad
un modello o concetto di perfezione, e non è universale essendo le considerazioni intellettuali e pratiche
mutabili nel tempo. In questo senso il bello kantiano è universale, chiaro è che un numero molto ristretto di
cose può dirsi bello.
La deduzione dei giudizi estetici puri si occupa di legittimare la pretesa dei giudizi di gusto alla validità
universale. Tale problema viene risolto rifacendosi alla comune struttura della mente umana, il giudizio di
gusto infatti scaturisce da un libero gioco tra immaginazione ed intelletto, a seguito di tale rapporto l’immagine
della cosa appare adeguata alle esigenze intellettuali generando un senso di armonia. Essendo tale
meccanismo identico in ciascun essere umano si ha l’universalità estetica e un senso comune del gusto, un
principio meta-individuale estetico che determini cosa piaccia e cosa no a tutta l’umanità.
L’antinomia del gusto invece viene trattata nella Dialettica del Giudizio estetico, l’antinomia è la seguente: il
giudizio di gusto non si basa sui concetti altrimenti si potrebbe disputare, il giudizio di gusto si basa sui concetti
altrimenti non ne si potrebbe richiedere l’altrui approvazione. Kant risolve tale antinomia chiarendo i diversi
significato di concetto nella tesi e nell’antitesi. Il giudizio di gusto non si basa su concetti determinati mentre si
basa sul concetto indeterminato del sostrato soprasensibile dei fenomeni. Ovvero il giudizio di gusto non si
basa sui concetti non essendo un giudizio conoscitivo, ma si basa sulla facoltà del Giudizio che intuisce la
finalità soggettiva della natura, e che è comune ad ogni essere umano.
In questo consiste la rivoluzione copernicana estetica secondo la quale il bello non è una proprietà oggettiva
delle cose ma il frutto di un incontro del nostro spirito con esse, qualcosa nato solo nella mente ed in rapporto
ad essa. Kant si permette di dire che ci siano forme belle in natura, ma rimane il fatto che la bellezza sia
nell’essere umano. Una forma bella per essere detta bella necessità la mediazione della mente, baricentro
dell’attività estetica. L’armonia che costituisce la forma dell’oggetto bello non è una qualità della cosa stessa
consistendo nell’armonia vissuta interiore del soggetto proiettata sull’oggetto. La bellezza non è un favore
fattoci dalla natura, quanto piuttosto il contrario. Se la bellezza risiedesse negli oggetti, nell’esperienza
particolare, perderebbe la propria universalità, e non sarebbe più libera ma imposta. L’eteronomia estetica
distruggerebbe l’universalità e la libertà del giudizio di gusto.
In questo modo Kant si distanzia da empirismo e razionalismo. Contro gli empiristi ed i sensisti che
riconducevano il bello ai sensi, distinguendo tra piacevole e piacere estetico Kant difende il carattere specifico
e spirituale dell’esperienza estetica e ne rivendica l’universalità giustificando l’esistenza di giudizi estetici a
priori. Contro il razionalismo estetico che considera la bellezza confusa della perfezione degli oggetti Kant
sostiene che l’esperienza estetica sia fondata sul sentimento e sulla spontaneità e non sulla conoscenza o sui
concetti. Quindi non ogni immagine piacevole ha un valore estetico ma solo quel piacere slegato da attrative
fisiche, interessi pratici, valutazioni morali o conoscitive. Solo il piacere disinteressato, comunicabile a tutti, e
non dipendente da mutevoli stati d’animo dell’individuo è bello
Il filosofo irlandese Edmund Burke oppose il sublime al bello. Se il secondo era riconducibile alla misura,
ordine, armonia, piccolezza e delicatezza, il primo si collega alla dismisura, sproporzione, cupezza, tutto ciò che
desta idee di dolore e pericolo. Un sentimento di orrore provato di fronte a ciò che non si può controllare ma
che si può contemplare senza pericolo. Questa concezione di sublime estetico smisurato ed incommensurabile
influenza anche Kant.
Kant distingue tra due sublimi. Il sublime matematico nasce in occasione di qualcosa di smisuratamente
grande come montagne o galassie, di fronte alle quali si prova dispiacere per non riuscire ad abbracciare tali
grandezze con la propria immaginazione, e piacere perché la ragiona è portata ad elevarsi all’idea di infinito.
Ad un dispiacere dell’immaginazione si accompagna un piacere della ragione infatti scoprendo l’idea
dell’infinito riconosciamo la nostra essenza di esseri superiori alla stessa natura trasformando l’iniziale
piccolezza fisica in una finale consapevolezza della grandezza spirituale che ci è propria. Comprendiamo che il
vero sublime non sta nella realtà che ci circonda ma in noi.
Il sublime dinamico nasce in occasione di poderose forze naturali. Inizialmente avvertiamo la nostra
piccolezza materiale ed impotenza nei confronti della natura. Ma segue un sentimento di piacere per la
nostra grandezza spirituale dovuta alla nostra realtà di essere umani pensanti, portatori delle idee della
ragione e della legge morale.
L’esperienza del sublime estetico ci rende consapevoli della sublimità della nostra natura di soggetti morali. Per
Kant il giudizio sul sublime non è inerente agli oggetti sensibili ma alla loro corrispondenza alle esigenze della
morale (così come il bello riguardava la corrispondenze degli oggetti alle esigenze dell’intelletto). Per Kant la
legge morale è il sublime per eccellenza di fronte alla forza invincibile della ragione che ordina il dovere non si
può che provare un sentimento di rispetto e venerazione che induce a sottomettercisi. Solo piegandosi al
dovere si vincono le proprie pulsioni dentro di sé, alle quali deve ancora sottostare fuori di sé. L’emozione del
sublime dinamico diviene da depressiva esaltativa, dall’angoscia si passa all’entusiasmo.
Le due forme del sublime presuppongono una levatura d’animo senza la quale si ricadrebbe nel terribile, ma
essendo dotati di una certa cultura può prender piede il processo dialettico per cui il dispiacere si tramuta in
piacere, l’impotenza in potenza. A differenza del bello che fuoriesce dall’equilibrio, dall’armonia di
immaginazione ed intelletto e che procura calma e serenità, il sublime nasce dalla rappresentazione
dell’informe, si nutre del contrasto tra immaginazione sensibile e ragione, provoca fremito e commozione.
Ambedue sono accomunati però dal presupporre come condizione il soggetto o la mente la quale si configura
come trascendentale dell’esperienza estetica cioè come la possibilità ed il suo fondamento. Entrambi piacciono
per se stessi e presuppongono un giudizio di riflessione
Il bello nell’arte
Il bello di natura si differenzia dal bello artistico per quanto entrambi hanno delle affinità, la natura è bella
quando ha l’apparenza dell’arte e l’arte è bella quando ha l’apparenza o la spontaneità della natura. L’arte si
suddivide in arte meccanica e arte estetica, quest’ultima a sua volta che ha come scopo il sentimento del
piacere si suddivide a sua volta in: arte piacevole, indirizzata allo scopo secondario di intrattenere e rallegrare,
e arte bella, una rappresentazione che ha scopo in se stessa e da cui deriva un piacere disinteressato.
Per giudicare oggetti belli è necessario il gusto, per produrli occorre il genio che è un tramite con cui la natura
interviene sull’arte. Le prerogative del genio sono: originalità e creatività, capacità di produrre opere
esemplari da modello per gli altri, impossibilità di mostrare scientificamente il metodo di produzione. Il genio
è quindi inimitabile ed esistente solo nell’arte. La scienza ha degli ingegni speciali che giunti a grandi scoperte
possono spiegarne i passaggi, l’arte ha geni che neanche volendo potrebbero descrivere il loro processo
creativo.
Il finalismo potrebbe forse valere nella cosa in sé ma si rifiuta di procedere oltre la scienza ed il fenomeno
come faranno invece i romantici.
Nella metodologia del giudizio teleologico Kant osserva che la teleologica come scienza non appartiene
né alla teologia né alla scienza della natura, ma alla critica, non è quindi una dottrina positiva ma
una scienza dei limiti che consente all’essere umano di riconoscersi nel fine della creazione in quanto
essere morale e che la realizzazione degli scopri che si prefigge sono i medesimi della natura in cui
vive. La teleologia rende possibile una prova morale dell’esistenza di Dio. Viene rifiutato l’uso
teoretico della considerazione teleologica. Kant attribuisce ai giudizi riflettenti anche un ruolo nella
conoscenza scientifica, esssi aiutano l’intelletto nell’utilizzo delle categorie nei casi particolari.