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1Lezioni al Collège de France del 1904

Successivamente a Materia e memoria Bergson ritorna chiaramente sul tema della memoria,
data la sua centralità all'interno della sua filosofia. Il primo dei due testi che andrò ad
analizzare e Storia della memoria e storia della metafisica 1, volume curato da due autori,
Rocco Ronchi e Federico Leoni, i quali hanno messo insieme le lezioni fatte dal filosofo
francese al Collège de france, nel corso dell'anno accademico 1903-1904, accompagnate da
una introduzione scritta da loro, per avviare il lettore alla comprensione delle tematiche
trattate da Bergson. Il tema delle lezioni di quell'anno fu intitolato «Storia delle teorie della
memoria» e l'argomento trattato in particolare nel secondo semestre fu proprio intitolato
«Storia della memoria e della metafisica».
Quella che Bergson traccia nelle sue lezioni è una vera e propria genealogia della psicologia,
in particolare del suo principale oggetto teorico, la memoria, dagli antichi fino ai moderni.
Non da sempre esiste il termine memoria, o il termine psiche, o in generale la psicologia e la
scienza così come lo conosciamo oggi. Bergson mostrerà, riassunti nei loro momenti
principali, i cambiamenti di significato di tali termini e, come suggerito dal titolo di questo
lavoro, il fatto che il tipo di metafisica è determinante per il significato e per la spiegazione di
quei termini, in particolare di memoria e percezione e del rapporto tra l'anima e il corpo. La
psicologia e la scienza dei filosofi antichi, Platone e Aristotele, sono diverse da quelle dei
filosofi moderni, Cartesio in particolare, le loro posizioni avranno poi delle influenze su teorie
contemporanee a Bergson, teorie quali il parallelismo psicofisico, o l'epifenomenismo.
L'obiettivo è molto chiaro dunque, «in questo secondo semestre dovremmo tracciare uno
schizzo della storia dell'evoluzione della teoria della memoria. Schizzo che sarà molto breve,
molto incompleto [...]»2. Inizia con la prima lezione a trattare la psicologia degli antichi che,
per quanto si possono riscontrare delle differenze tra loro, sono più o meno tutti vicini su
molte posizioni, soprattutto per quel che riguarda le questioni scientifiche. Tutti partono dalla
stessa concezione generale, ovvero quella secondo cui esiste, indipendentemente dalla nostra
intelligenza individuale, una scienza integrale, un sistema delle verità scientifiche. Questo
sistema unitario è formato da degli intelligibili, verità intelligibili che non sono altro che
concetti, idee generali che si trovano al di sopra di quello che è il teatro accidentale degli
oggetti individuali. L'insieme di questi concetti costituisce la scienza unitaria, la sola scienza,
che organizza i rapporti tra questi concetti, rapporti di subalternità, che arrivano fino alla
sommità di questo mondo intelligibile, dove è presente un'unica idea che raccoglie tutto.
Questa unica scienza non è teorizzata allo stesso modo dai filosofi antichi, ad esempio Platone
e Aristotele ne danno due interpretazioni differenti: per il primo più ci si eleva nella serie dei
concetti, più ci si eleva verso una maggiore generalità e il numero di quei concetti diminuirà
sempre più, fino ad arrivare alla suprema unità che tutto comprende; per il secondo invece,
più ci si eleva nella serie dei concetti, delle forme, più ci si eleva nella serie dei gradi di
concentrazione del pensiero, finché, di concentrazione in concentrazione, si giunge ad un atto
unico di pensiero, che è atto puro, pensiero di pensiero.
Vediamo che per quanto le interpretazioni sono diverse, l'Idea suprema platonica assomiglia al
pensiero di pensiero aristotelico, dichiara Bergson, che ci si arrivi attraverso un'estensione
crescente, o attraverso una concentrazione crescente, si arriva comunque ad una unità, in cui
tutte le molteplicità si raccolgono, si riuniscono.
Per gli antichi è reale questo mondo della scienza, mentre il nostro mondo, quello terreno,
prende a prestito la propria realtà da quel mondo perfetto, imitandolo. La scienza è
preesistente a tutta la nostra realtà, perciò anche alla conoscenza: conoscere significa
ritrovare, dal nostro punto di vista inferiore, qualcosa di già esistente. Si chiede poi Bergson,

1 H.Bergson, Storia della memoria e della metafisica, a cura di Rocco Ronchi e Federico Leoni, Edizioni ETS,
Pisa 2011
2 Ivi, p. 45.
l'esistenza di quest'unità è concepita come un atto di pensiero o come esistenza di una cosa?
Come un'esistenza di natura psicologica o extrapsicologica?
Se consideriamo la filosofia platonica, l'idea è considerata come una cosa, tuttavia Platone usa
la parola idea intesa come eidos, che significa forma, che rimanda ad un qualcosa di bello, di
armonioso, di coordinato, che è indipendente dall'atto del pensiero, che è extrapensiero, «si
tratta di una cosa è meno cosale delle cose dei moderni, e che è tutt'altro che estranea a ciò
che chiamavamo, per parte nostra, atto di pensiero, o addirittura atto di coscienza» 3.
Aristotele chiama invece noùs quel pensiero divino, pensiero di pensiero, atto puro, al di fuori
del tempo e dello spazio, che non ha nulla di simile a ciò che noi chiamiamo coscienza.
Una volta definiti questi elementi preliminari, Bergson entra dentro il cuore della sua indagine
della psicologia degli antichi. La loro concezione di realtà influisce sulla loro psicologia, ma
anche sulla loro fisica: in verità gli antichi non hanno avuto una fisica, afferma Bergson, e
questo dipende proprio dalla loro concezione della realtà. La nostra fisica ha a che fare con il
mutamento dei fenomeni, le leggi si basano una relazione costante tra grandezze variabili, tra
mutamenti variabili.
Per gli antichi le cose si sviluppano diversamente, «il mutamento è il segno del fatto che
qualcosa non è al suo posto»4, il movimento indica che qualcosa non si trova al suo posto, che
è dove non deve essere, la vera fisica è per gli antichi quella che studia l'immobile.
Tutto ciò si ripercuote sulla psicologia: conoscere un oggetto significa raggiungerlo,
ricercarlo, la coscienza è quindi qualcosa di incompleto, cercare vuol dire non essere al
proprio posto e l'intelligenza perfetta non può essere dunque qualcosa di cosciente.
Su questo punto Bergson cita Plotino, che nelle Enneadi parla di una teoria della coscienza:
Plotino dice che la coscienza è una diminuzione dell'intelligenza, una forma di decadenza
metafisica e morale, in generale dell'intelligenza. È questa decadenza che forma la coscienza
però, per effetto di una rifrazione nello spazio e nel tempo: il pensiero si sdoppia,
sdoppiandosi inizia a considerare se stesso, prosegue Plotino, è questa molteplicità di pensieri
che crea la coscienza, come ipofenomeno dell'intelligenza. La psicologia degli antichi teorizza
una coscienza come diminuzione e lo si vede anche dalla psicologia di Aristotele: si parte dal
noùs, pensiero puro, fuori dal tempo, questo si introduce successivamente nell'anima e crea
una conoscenza discorsiva, prodotta nel tempo. Al di sotto di tutto questo si trovano poi le
operazioni comuni dell'anima umana, quali la memoria e la percezione.
Anche il corpo di cui parlano gli antichi è diverso da come lo intendiamo noi oggi, è qualcosa
di molto meno materiale: proprietà come il colore, il suono, una certa forma determinata, sono
proprietà secondo gli antichi, Aristotele in particolare, proprie del corpo, costituiscono
l'essenza di quel corpo, esso è prima di tutto la sua forma, eidos, ciò che lo definisce, che per
gli antichi è anche qualcosa di intellettuale, di psichico.
Di conseguenza anche la percezione avrà delle differenze rispetto a come siamo abituati a
conoscerla: per gli antichi non si parla né di percezione, né di memoria di cose materiali, di
corpi, ma solo di intelligibili. La percezione appartiene all'anima, dunque è l'anima che
percepisce.
E come avviene la percezione? Per Aristotele avviene grazie ad un'azione comune del
percepito e del percipiente, una collaborazione dell'oggetto e dell'anima, in cui l'organo di
senso ha in sé, in potenza, ciò che può percepire e la percezione non è altro che ciò che fa
passare dalla potenza all'atto:

[…] la percezione è l'opera comune del senziente e del sentito, poiché il sentito non fa che portare
all'atto ciò che era presente nel senziente in potenza, o piuttosto non fa che scartare un certo numero di
virtualità per realizzare soltanto quella che è simile a lui, che è identica a lui. La percezione, in questo
senso, è davvero l'opera comune del percipiente e del percepito.5

3 Ivi, p. 52.
4 Ivi, p. 54.
5 Ivi, p. 74.
La memoria, in questo caso, cosa sarà? Sarà la proprietà simmetrica alla percezione contenuta
nell'anima, mantiene le influenze derivanti dalla percezione, agisce come un'impronta che si
conserva, poiché Aristotele considerava già la percezione come un disegno, come una
riproduzione, una sorta di impronta. Immaginiamo, dice Bergson per spiegare la teoria della
memoria di Aristotele, che la percezione sia composta da atomi, atomi di cosa percepite, che
durante la veglia non li percepiamo perché impegnati a fare altro; questi riappaiono durante il
sonno grazie al meccanismo della memoria, come immagini che permangono e che l'anima
attinge per recuperarli dalla memoria stessa.
Percezione e memoria non sono considerate però come parte dell'intelligenza, del noùs, di
conseguenza sono molto meno intellettuali, per gli antichi, per Aristotele in particolare, di
quanto siano per noi.
Se per gli antichi percezione e memoria non fanno parte dell'intelligenza, perché sono
funzioni proprie dell'anima, quindi si muovono nel mondo sensibile, accidentale, per i filosofi
moderni sono un'altra cosa: le differenza vi sono e tutte partono dal fatto che la concezione
del reale è diversa da quella degli antichi.
Partiamo con il dire che gli antichi non hanno mai pensato come i moderni, ossia che il
ricordo sia la rappresentazione, la traduzione nel linguaggio della coscienza, di un certo
fenomeno cerebrale o corporeo. Per illustrarne la differenza Bergson utilizza l'esempio del
suono:

[…] che cosa accade quando sentiamo un suono, secondo i moderni? La vibrazione del corpo esterno
influenza l'orecchio, poi si trasmette al cervello, non si sa in che forma, ma certo in una forma che non
è quella della vibrazione, infine si deposita nel cervello in un'altra forma, di nuovo sconosciuta, e
tuttavia priva di qualsiasi genere di somiglianza con il suono stesso. Per gli antichi, invece, il suono
produce, nell'aria, una melodia, ed è la melodia che entra nell'organo di senso, che vi entra come
melodia e che vi rimane come melodia.6

La melodia entra e rimane tale e la memoria non è altro che il ripresentare tale melodia che
non è mai svanita, si era solo distolta dalla nostra attenzione. Per gli antichi non c'è una
traduzione da un linguaggio ad un altro come per i moderni.
Bergson identifica l'inventore della teoria moderna in Cartesio, con lui si è giunti all'idea di un
parallelismo tra il piano fisico e quello psichico, dove uno stato di coscienza è generato da
uno stato cerebrale o fisiologico, dunque uno stato nell'ordine dell'estensione e non nell'ordine
della coscienza.
La concezione di Cartesio non nasce ex nihilo, essa si ispira a Galeno, che ha una posizione a
metà tra Aristotele e i moderni: come Aristotele, localizza la percezione e la memoria in un
punto preciso, gli organi di senso; come i moderni crede che un cambiamento che avviene a
livello della materia, può corrispondere in modo rigoroso a uno stato di coscienza, il
cambiamento si produce inizialmente negli organi di senso e poi si riproduce nel cervello.
La visione moderna vede quindi lo stato corporeo e lo stato mentale come espressioni diverse,
traduzioni in lingue diverse di una stessa cosa, rigorosa è quindi la corrispondenza: ad uno
stato di coscienza determinato corrisponde uno stato cerebrale ugualmente determinato.
Si è arrivati a questo cambiamento perché la concezione moderna non è altro che una
trasposizione di quella aristotelica, che nel frattempo si è adattata all'evoluzione della scienza.
La scienza dei moderni parte dagli stessi postulati degli antichi, ma l'applicazione è diversa: il
principio di base da cui partono entrambe le scienze, degli antichi e dei moderni è che «la
scienza non tratta che di ciò che è permanente, costante, generale» 7, non deve essere una
scienza individuale, personale, ma deve mirare allo stabile, al costante, all'universale, dove i
simboli sono tali se esprimono qualcosa di generale e permanente.
Il problema è che la realtà sensibile è mutevole, individuale, di qui nasce la contrapposizione,
tra ciò che muta e ciò che non muta mai, tra il contingente e l'eterno. La contrapposizione è il
6 Ivi, p. 87.
7 Ivi, p. 93.
punto di partenza della scienza, sia antica che moderna, afferma Bergson. La differenza è,
come detto poc'anzi, nell'attuazione di questo postulato comune: gli antichi cercano di
risolvere il problema della contrapposizione affiancando al mondo mutevole sensibile, un
mondo perfetto,

si tratterà di costituire, accanto alle cose che mutano, al di sopra di esse, quelle che non mutano, di cui
le cose che mutano non saranno che un'imitazione imperfetta, una copia mal fatta, una diminuzione,
una degenerazione.8

I moderni partono dalla stessa contrapposizione ma la risolvono in un altro modo:

supponiamo delle cose che mutano, delle cose mutevoli; consideriamone due qualsiasi, due
determinati cambiamenti tra tutti quei cambiamenti in corso; si darà, tra quei due cambiamenti
qualsiasi, una relazione invariabile, una reazione immutabile. Consideriamo di novo la pietra che cade.
La sua caduta, il suo movimento è qualcosa di sfuggente […], ma se pongo di fianco alla pietra un
cronometro, un orologio, ecco che posso comparare il movimento della caduta della pietra con il
movimento della lancetta del cronometro, e se trovo una relazione fissa tra quelle due grandezze
variabili, ecco che avrò individuato qualcosa di stabile, di permanente, di universale, di
formulabile[...]9.

Se per lo studio della caduta di una pietra, andando alla ricerca di ciò che è immobile, gli
antichi si interrogano sul concetto di pesantezza, i moderni non fanno altro che individuare
delle costanti all'interno delle relazioni che sussistono tra i mutamenti del mondo sensibile.
Da qui si arriva a concludere che la percezione e la memoria per i moderni hanno a che fare
con gli stessi oggetti con cui ha a che fare la scienza, entrambe passano dal lato della scienza,
dunque dell'intelligenza, cosa non prevista dagli antichi.
Ora la coscienza è sia percezione, sia memoria, sia intelligenza, tutto passa sul lato dello
spirito, tutto il resto, tutto ciò che è estraneo alla coscienza, è materia.
Con Cartesio, come è noto, si ha l'identificazione della materia con l'estensione, va da sé che
tutto quello che non è estensione, dunque ciò che appartiene alla coscienza, è inesteso.
Questa è la matrice originaria di quelle che sono le posizioni del parallelismo psicofisico, del
dualismo volgare, contro le quali dibatterà Bergson, posizioni che nascono nel momento in
cui la scienza cambia,

[…] la scienza è diventata la ricerca di relazioni stabili e matematicamente determinate tra tutti i fatti
dell'universo, e l'universo stesso ha assunto lo statuto di una macchina, di un immenso in cui tutto è
ridotto ad ingranaggio e nulla è lasciato al caso, nessuno spazio è lasciato alle contingenze. 10

Tutti i fenomeni del mondo fisico si risolvono nella sfera del movimento, non c'è posto per
una coscienza che agisce liberamente, se le danno vita è solo per un istante, come la scintilla
di un fiammifero, come una fosforescenza, da qui parte anche la concezione della coscienza
come epifenomeno.
Il problema della relazione tra l'anima e il corpo è un problema moderno, la difficoltà che
intercorre tra una cosa estesa e una inestesa è soprattutto nostra e questa ha come conseguenza
influenze negative sulla questione della libertà. Questo problema non costituiva per gli antichi
un dilemma tanto grave. Ciò che lo rende nostro, tipico dei moderni e dei contemporanei, è il
fatto che sia inserito in una nuova scienza, derivante dal cartesianismo, in cui tutto è
traducibile nel linguaggio della matematica. In un mondo così compreso non c'è posto per la
contingenza, per l'indeterminatezza, siamo giunti all'idea di un mondo puramente razionale,
dove uno stato cerebrale è un qualcosa che fa parte del mondo fisico.
E l'anima? Esiste, ma sarà diversamente concepita, non potrà agire liberamente, se ha vita sarà
8 Ivi, p. 94.
9 Ivi, p. 95.
10 Ivi, p. 99.
solo per un istante, come la scintilla di un fiammifero, come una fosforescenza e si vede come
da qui prenda forma la teoria della coscienza come epifenomeno.
Sia che si assuma una tesi parallelista o epifenomenista, la concezione che si avrà della
relazione tra lo psichico e il fisico e di conseguenza, della percezione e della memoria sarà la
conseguenza diretta di una certa concezione di scienza, quindi di un certo tipo di metafisica.

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