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lunedì 7 novembre 2016

Antropologia essenziale

Riassunto libro
CAPITOLO 1 - LO STUDIO DELLE DIVERSITÀ
1.1 LA SPECIE UMANA
L’antropologia è la disciplina che studia le somiglianze e le diversità proprie della specie
umana. L’esperienza dell’antropologia mostra un’oscillazione tra l’attenzione prevalente alle
somiglianze, quando siamo vittime di pratiche di disuguaglianza, e quella prevalente alle
diversità, quando la somiglianza tra esseri umani viene invocata per imporre conformismo;
questa oscillazione è parte integrante delle relazioni tra gruppi che costituiscono le società
umane. Possiamo dunque osservare che la valorizzazione delle somiglianze caratterizza la
costituzione di gruppi e alleanze, mentre la valorizzazione delle diversità determina spesso ma
non sempre l’instaurarsi di ostilità tra gruppi.
“Siamo uguali o diversi?” è la domanda alla base di ogni ricerca antropologica, e pur non
essendo l’unica disciplina che muove da questa domanda, l’antropologia si distingue dalle altre
per le condizioni e le modalità all’interno delle quali produce il proprio sapere, che sono:

• i postulati da cui muove


• le ipotesi generali che sviluppa
• i campi di ricerca ai quali si applica
• i metodi e le tecniche di ricerca che adotta
Va poi specificato che l’antropologia moderna è nata e si è sviluppata meno di 150 anni fa
all’interno dei paesi occidentali come studio scientifico e critico in rapporto con il colonialismo del
XVI e XX secolo. Gli abitanti dei paesi colonizzati sono stati oggetto dell’antropologia fino alla
metà del XX secolo; dopo la Seconda guerra mondiale e dopo la riconquista dell’indipendenza
dei paesi ex-colonizzati, ha cominciato a svilupparsi un’antropologia autonoma, detta
antropologia dei nativi.
1.1.1 La specie umana
Il termine antropologia deriva dal greco antico e significa studio dell’uomo inteso come umanità,
infatti non si occupa né di individui singoli né della società ma nasce dalla constatazione che la
specie umana è una specie sociale e quindi l’attenzione dell’antropologia è rivolta alle relazioni
che intercorrono tra gli individui e che li tengono insieme, alle strutture sociali (sistemi stabili di
relazioni) e ai fatti sociali (concreto funzionamento delle relazioni), e infine alle persistenze e ai
mutamenti che strutture e fatti sociali presentano. Tuttavia parlare dell’antropologia come studio
dell’uomo risulta impreciso e rischia di non tenere in considerazione le diversità interne alla
specie umana sulla quale si sono articolate le relazioni sociali, ad esempio a partire da una
forma primaria di organizzazione sociale presente in tutte le società che è la differenza sessuale
socialmente organizzata come complementarità. In conclusione è più opportuno parlare di
specie umana anziché dell’uomo universale.
1.1.2 Riconoscimento/misconoscimento di appartenenza alla specie umana
La nozione di specie umana è stata messa in discussione a partire da due punti:
1. Quali requisiti, qualità, capacità distinguono gli esseri umani dagli altri esseri viventi?
2. Questi requisiti sono uniformemente distribuiti tra tutti i gruppi umani?

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Possibili risposte riguardano categorie di persone in possesso di requisiti che sono cambiati
durante la storia dell’umanità e da società a società, ad es. Greci che consideravano i non-greci
balbuzienti e quindi inferiori, il possesso dell’anima della storia occidentale come requisito di
appartenenza all’umanità, il dibattito sull’umanità o meno degli abitanti del nuovo mondo alla
scoperta dell’America, al contrario il dubbio nei neri sull’umanità dei bianchi, o più
contemporanea la considerazione delle donne come umani di categoria inferiore.
Dati questi esempi, l’antropologia parla di riconoscimento / misconoscimento dell’umanità
perché i vari gruppi umani si basano su criteri di somiglianza o di diversità variabili nel tempo e
nello spazio, per includere/escludere determinati gruppi o individui dalla loro concezione di
specie umana; per questo motivo non possiamo considerare questi criteri indicatori permanenti
dell’umanità. Compito dell’antropologia è capire le ragioni dell’inclusione/esclusione che i gruppi
umani praticano quando vengono a contatto. I tipi di contatto possibili sono in primo luogo
scambi ineguali di comunicazione asimmetrica, rapporto tra i gruppi basato sulla forza con un
contenuto di violenza, oppure scambi di comunicazione simmetrica basati sulla convivenza e
sulla costruzione di alleanze, a volte portando anche a “culture ibride” che presentano la
commistione di caratteri di uno e dell’altro gruppo venuti a contatto (lingue nuove, usanze e
costumi ibridi, pratiche religiose sincretiche, prole meticcia). In conclusione possiamo dire che
l’appartenenza alla specie umana non si può determinare sulla base della presenza o assenza
di qualche requisito, piuttosto sulla capacità di costruire relazioni cooperative o antagonistiche
basate sulla gestione delle diversità con altri gruppi di esseri umani.
In ogni società c’è l’atteggiamento ad affermare delle relazioni non egualitarie tra uomini e
culture, tra noi e “gli altri”. In realtà non esistono culture separate, ne è un esempio
l’interculturalismo alimentare, fenomeno che ha modificato le abitudini culturali creando dei
rituali ad esempio quello del té in Inghilterra e quello del caffè in Italia che però sono prodotti
provenienti dalla Cina e dall’America.

1.2 SOMIGLIANZE E DIVERSITÀ


L’inventario delle somiglianze e delle diversità non è condiviso da tutti i gruppi umani, infatti da
gruppo a gruppo, da epoca a epoca, variano:

• concezioni e indicatori delle diversità


• significato e valore attribuiti alle diversità riconosciute come tali
1.2.1 Concezioni e indicatori delle diversità
Gli indicatori delle diversità sono collegati a svariati caratteri e possono variare anche all’interno
di piccoli gruppi, la peculiarità è che chi è diverso è sempre diverso per qualcuno, quindi la
diversità è sempre relazionale e situazionale e può essere considerata come immutabile,
mutabile, permanente o transitoria.
Immutabile quando è collegata ad un fattore causale immutabile; ad esempio la diversità
derivata da un intervento divino nel senso che è per volere divino che un popolo ha certe
caratteristiche o non le ha (le donne nella Bibbia, gli ebrei, gli Indiani Ceroki e la storia delle 3
statuette di argilla, i Rom); o la diversità basata su un fondamento scientifico quindi derivata
dalla trasmissione di caratteri ereditari iscritti nel DNA attraverso la filiazione, da qui la
convinzione che esistano razze superiori e inferiori (ebrei, apartheid del Sud Africa, Rom;
genocidio= termine coniato durante il processo di Norimberga dopo la Seconda guerra
mondiale, sterminio di un’intera popolazione per motivi razzisti; etnocidio= distruzione di una
cultura e dispersione dei suoi portatori).

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Altre teorie sull’origine della diversità si basano su fattori ambientali o sull’effetto dell’ambiente
sociale sugli individui, in questo caso ci sono orientamenti di pensiero diversi: antropologi che
danno rilievo ai processi educativi e di inculturazione; altri danno rilievo ai diversi sistemi di
rapporti sociali che si creano nel processo di produzione della vita sociale (Marx).
1.2.2 Importanza e significato attribuiti alle diversità
L’identificazione di un gruppo diverso implica sempre, da parte del gruppo giudicante, la
consapevolezza anche della propria diversità. Questa coscienza può restare implicita nella
relazione, ma può essere esplicitamente rivendicata per valorizzare l’identità del gruppo
giudicante, per affermare la superiorità o per giustificare il dominio che si esercita sugli altri.
1.2.3 Diversità e differenze
La diversità, una volta attribuita viene caricata di un giudizio di valore che è insieme assoluto e
comparativo, attraverso quest’ultimo le diversità diventano differenze e quindi vengono inserite
in una graduatoria alla quale si associano qualità positive o negative. Si costruisce così il
sistema delle differenze in cui ciascuna caratteristica concepita come diversa ha una sua
collocazione in termini di valore, di pertinenza, di gerarchia e di collegamento con altre
caratteristiche; viene appreso all’interno del proprio gruppo fin dall’infanzia diventando parte
integrante della visione del mondo e della cultura di ciascun gruppo e contribuisce a orientare le
azioni del gruppo. Questo sistema può operare in 3 modi diversi:
1. identificazione di una caratteristica diversa senza attribuzione di un valore: diversità non
problematica, non entra nel sistema delle differenze
2. individuazione di una diversità e attribuzione di valori negativi con conseguente giudizio di
inferiorità
3. riconoscimento di una diversità e attribuzione di valori positivi con conseguente
equiparazione dei gruppi e magari inizio di una cooperazione o accettazione del dominio
imposto dal gruppo considerato superiore
In conclusione i sistemi delle diversità/differenze sono relazionali, situazionali e variabili (ad
es. i Nuer dell’Africa, società di allevatori organizzati in lignaggi che lottano per la supremazia
interna ma si alleano contro nemici esterni; i tifosi di calcio; protestanti e cattolici; sciiti e sunniti).

1.3 L’ESPERIENZA DELLE DIVERSITÀ


Arrivati alla conclusione che non esiste una percezione universalmente condivisa delle diversità,
si è arrivati a chiedersi se le diversità esistono realmente o se sono delle invenzioni. Secondo
alcuni studiosi esse sarebbero delle costruzioni mentali per dare ordine alle esperienze della
vita. Altri autori sostengono che esse siano costruzioni ideologiche cioè interpretazioni della
realtà arbitrarie strumentali alla legittimazione dei rapporti di forza. Perciò è vero che la
percezione e l’elaborazione delle diversità sono culturalmente condizionate e hanno spesso
valenza strumentale, ma questo non significa che le diversità non esistano affatto, pena una
visione dimezzata del mondo. Infatti le diversità rimandano comunque a un dato di fatto, un
referente empirico (ad es. le concezioni della morte e l’elaborazione del lutto variano a seconda
della cultura ma tutti i gruppi concordano sulla differenza tra un vivo e un morto; la diversità
sessuale viene elaborata in modi diversi ma è indubbio per tutti che sono le donne a partorire).
Tuttavia in alcuni casi (bombardamento di Hiroshima e Nagasaki) resta il disagio di fronte alla
varietà delle interpretazioni e dei giudizi possibili su fatti che dovrebbero essere unici e uguali
per tutti, diventa quindi legittimo dubitare che possa esistere una qualche verità.
1.3.1 Il concetto antropologico di cultura

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L’antropologia sostiene che la verità non è un dato ma un obiettivo, non si dà per sé come
evidenza ma bisogna cercarla. Il punto di partenza è che qualsiasi fatto viene pensato da
soggetti umani attraverso la mediazione della cultura. Infatti gli esseri umani hanno la capacità di
pensare il proprio agire (Heiddeger “esserci nel mondo”). La capacità di produrre gli strumenti
del pensare e del parlare e la capacità di produrre e comunicare pensieri sui fatti sono universali
e costituiscono una prova di appartenenza al genere umano. Infatti non c’è lingua parlata che
non possa essere appresa da individui di altri gruppi. Altra caratteristica universale è che i
pensieri e le parole sono costituiti da elementi minimi detti segni, che servono a comporre
concetti, valori, parole e simboli i quali diventano sostituti delle cose cioè “stanno per le cose”
anche in assenza di queste, infatti gli esseri umani sono in grado di pensare e parlare di realtà
concrete come di realtà astratte e immaginate. Questa capacità umana di produrre segni e con
essi concetti comporta lo sviluppo di altre capacità: la costruzione della memoria, la capacità di
previsione, la verbalizzazione delle esperienze ecc, riassunte nel concetto di produzione
sociale di cultura, la quale è un’altra capacità umana universale; il suo prodotto, la cultura, si
presenta poi diversa perché gli umani interpretano i dati dell’esperienza attraverso la mediazione
della propria cultura. Ogni cultura è la somma e la sottrazione di tutte le culture che l’hanno
attraversata nel corso dei secoli, ogni cultura ha abitudini quotidiane che vengono da altre
culture: la cultura è ibrida, teoria elaborata dal messicano Mestor Cancliny.
1.3.2 Diversità delle culture
Perché, come e quando le culture si dono differenziate?
La Terra è un pianeta diversificato dal punto di vista ambientale e la specie umana ha sviluppato
capacità di adattamento e di manipolazione dell’ambiente in modo da adattarlo a sé, processo
guidato dalla capacità umana di produrre cultura e non dall’istinto. Perciò ogni adattamento è
stato la base per l’avvio delle diversificazioni tra gruppi umani; altri fattori di diversificazione sono
stati la divisione sociale del lavoro e l’organizzazione sociale, sempre mediate dalla cultura che
a sua volta condiziona reciprocamente questi processi. Conclusioni:

• la specie umana presenta somiglianze capitali: vita sociale; creazione, strutturazione e


modificazione delle relazioni; capacità di pensare per concetti; capacità di comunicare

• la specie umana presenta diversità capitali pertinenti almeno a 3 fattori fondamentali: fattori
ambientali, forme dell’organizzazione sociale, forme culturali di mediazione tra sé e il mondo/
forme di interpretazione dell’esperienza
Di volta in volta somiglianze e diversità possono essere invocate, enfatizzate o inventate per
giustificare l’accordo o l’ostilità. La valorizzazione delle diversità e delle ostilità è stata definita
etnocentrismo, al quale si contrappone il relativismo culturale.

1.4 ETNOCENTRISMO E RELATIVISMO CULTURALE


Il termine etnocentrismo è stato coniato da uno dei primi antropologi statunitensi, W. Sumner,
che lo utilizzò nella sua opera “Folkways” del 1907. Egli lo designa come “una concezione per la
quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa e gli altri sono classificati e valutati in
rapporto ad esso”. Classificare significa applicare agli altri connotazioni e categorie ricavate dalla
propria esperienza e valutare significa applicare agli altri i valori che orientano i giudizi all’interno
del proprio gruppo. L’etnocentrismo non è sempre negativo ma è universale infatti gli antropologi
hanno constatato che non esiste gruppo umano che non pensi che le proprie tradizioni
(folkways) siano gli unici giusti. La spiegazione è di natura sociale poiché nessuna società può
sopravvivere se i suoi membri non rispettano un certo numero di regole condivise, dunque il
rispetto delle regole deve essere interiorizzato da parte dei membri della società e ciò avviene
automaticamente durante il processo di inculturazione.

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1.4.1 L’inculturazione
É un processo attraverso il quale si apprendono i valori della cultura di appartenenza, inizia
dall’infanzia e continua per tutta la vita. Comprende l’educazione, i costumi, le regole e le
usanze del gruppo che vengono messe in atto attraverso le azioni della vita quotidiana tanto da
rendere abitudinario anche il rispetto delle regole, in un ambiente che è anch’esso parte
integrante del processo, andando a creare, oltre che un equilibrio psichico personale,
l’etnocentrismo attitudinale, definito da Lanternari.
1.4.2 Etnocentrismo attitudinale
Lanternari precisa che esistono diversi tipi di etnocentrismo, sensoriali, olfattivi, spaziali,
temporali, i quali sono tutti riuniti sotto la denominazione di etnocentrismi attitudinali, cioè quei
“modi di fare le cose” interiorizzati a tal punto da essere considerati “naturali”; si tratta invece di
prodotti culturali diversi la cui messa in discussione viene vissuta come una minaccia culturale e
psicologica. Possibile spiegazione: per rispettare le regole bisogna essere convinti che esse
siano giuste e questa convinzione viene elaborata in vari modi, ad esempio attraverso i miti nel
caso delle società arcaiche come la Grecia classica o la Roma antica in età repubblicana; nelle
società contemporanee invece si condivide l’idea che regole e usanze siano il prodotto del
progresso storico e che siano applicate da persone degne di fiducia. Se la fiducia nei costumi e
nelle leggi si incrina la società corre il rischio di disgregazione infatti nella reazione etnocentrica
si nasconde la paura della crisi dell’identità individuale e collettiva.
1.4.3 Etnocentrismo ideologico
1995, “Ethnos e Civiltà” di Carlo Tullio Altan, l’integrazione e il funzionamento delle società
richiedono che ciascun membro sappia disciplinare i propri comportamenti affinché siano
compatibili con il funzionamento complessivo della società, questo comporta limitazioni e
sacrifici che vengono giustificati e accettati in vista di qualcosa per cui vale la pena sacrificarsi,
per un valore. Altan per questa società trasfigurata come valore usa il termine ethnos, dal greco
antico che significava “popolo”; in età moderna è diventato “etnia” ed è stato utilizzato per
definire i popoli extraoccidentali che non avevano istituzioni statali e leggi scritte.
Gli antropologi per etnia intendono un gruppo umano e assumono questo termine solo come
strumento di indagine. è una forma simbolica e non è realtà concreta ma una costruzione.
Concetto quasi sempre associato all’identità perché aiuta a definire quest’ultima. A partire dagli
anni ’60 l’antropologia ha rivisto i concetti di etnia e cultura, così sono arrivati a negare la realtà
oggettiva dell’etnia e delle razze poiché non c’è un fondamento biologico; tuttavia l’identità è
un’esigenza irrinunciabile per l’essere umano, essa è percepita come concreta malgrado non lo
sia.
In Europa, a partire dal XIX secolo, si è sviluppato il concetto di nazione che è uno stato
moderno dotato di governo centrale e istituzioni formalizzate e stabili, che abbia anche le
caratteristiche dell’etnia: un popolo omogeneo, una lingua comune, un territorio comune, degli
antenati ideali comuni, una storia comune e costumi e usanze condivise. Questi elementi
dell’appartenenza etnica vengono trasfigurati e diventando così le immagini simboliche di quel
qualcosa per cui vale la pena sacrificarsi, e usi e costumi diventano tradizioni; come diceva
Durkheim ciascuna società sacralizza se stessa nei propri miti producendo la propria
solidarietà.
Stato nazionale = unità politica ideale nella quale coincidono identità nazionale e politica
Nazionalità = senso di identificazione in uno stato nazionale e lealtà nei suoi confronti
Nazionalismo = tentativo dei funzionari governativi di inculcare nei cittadini il senso di nazionalità

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Così l’etnocentrismo dello stato-nazione e quello che alimenta le identità etniche appartengono a
quelli che Lanternari ha definito etnocentrismi ideologici e sono radicati in sistemi di idee
relativi alle somiglianze/diversità che vengono trasformati in sistemi di idee sulla superiorità/
inferiorità di un gruppo, rientrano nelle mappe delle differenze.
1.4.4 Razzismi
Il termine razza si utilizza a partire dal ‘500 per indicare la discendenza; nel XIX secolo prende il
significato di un gruppo umano caratterizzato da specificità somatiche e comportamentali
trasmesse in maniera ereditaria, e diventa uno strumento concettuale per riflettere sull’origine
del genere umano; qui il linguaggio scientifico si sostituisce a quello che religioso poiché fino ad
allora era la religione a dare spiegazioni sul genere umano. Nel ‘800 il concetto di razza si
collega al colonialismo per differenziare l’Occidente dal resto del mondo. Da quel momento sono
state elaborate teorie e dottrine razziste in Europa come negli USA, la più celebre è quella del
francese Gobineau che nel 1858 scrive il “Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane”,
concentrato sulla biologizzazione delle differenze, sulla gerarchizzazione delle razze e l’orrore
per la mescolanza tra razze. Secondo lui la razza bianca ha creato una civiltà superiore che
rischia di impoverire il proprio patrimonio genetico tramite la mescolanza di razze, ma la sua
visione è degenerativa perché sa che il progresso della storia porta inevitabilmente questo.
Sempre nel ‘800 si sviluppa un altro filone di pensiero che troverà espansione nelle teorie di
Darwin e Spencer, basato sulla perfettibilità dell’uomo. Darwin accetta la teoria monogenetica
secondo cui l’umanità ha un’origine comune, ma legittima anche la teoria poligenetica per
quanto riguarda il carattere irriducibile delle diversità. Quindi se tutte le razze hanno un’origine
comune, i diversi risultati dei gruppi umani dipendono dall’adattamento all’ambiente, cioè dalla
supremazia sul piano naturale.
Negli ultimi anni si è preferito il termine etnia a quello di razza per identificare un gruppo di
persone che condivide determinati tratti culturali.
Le teorie razziste dunque sono forme di etnocentrismo non solo difensive ma aggressive,
questo spiega come l’etnocentrismo sia un costrutto culturale che può avere sviluppi molto
pericolosi, per questo si cerca un’alternativa nel relativismo culturale.
1.4.5 Relativismo culturale
Il relativismo culturale è un atteggiamento tollerante, disposto a lasciare spazio a pratiche e
usanze diverse dalle nostre e a favorire la convivenza tra culture e il multiculturalismo. Il
relativismo si articola in relativismo cognitivo, secondo cui da cultura a cultura variano i
contenuti dei saperi e le strutture del pensiero; e in relativismo morale, secondo cui nessuna
azione umana può essere giudicata al di fuori del contesto culturale di appartenenza (Herskovits
nel 1947 voleva che fosse inserito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la sua
richiesta fu respinta perché alle sue estreme conseguenze il relativismo morale giustifica
qualsiasi azione purché coerente con le premesse culturali da cui è scaturita). In relazione a
quest’ultimo problema che è tutt’oggi attuale, l’aumentata mobilità degli esseri umani ha messo
in evidenza la necessità di un riconoscimento universale di alcuni diritti umani basilari.
Contro il relativismo si schierano gruppi religiosi che si ritengono depositari e custodi di una
conoscenza superiore; altri gruppi di oppositori sono mossi da ragioni umanitarie ritenendo che il
relativismo apra la strada all’arbitrio dei più forti.
A favore del relativismo si schierano gli intellettuali contemporanei dei cultural studies e
postcolonial studies, i quali sostengono che nel mondo di oggi è stato imposto un
universalismo particolarista (Kilani) cioè la diffusione/imposizione del modello culturale
occidentale e la conseguente distruzione delle altre culture.

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1.4.6 Razzismo differenzialista
In difesa del relativismo si collocano i sostenitori del razzismo differenzialista, cioè coloro che
riconoscono che i sistemi conoscitivi e morali sono diversi e li considerano quindi incompatibili e
immodificabili; tuttavia questa posizione comporta una segregazione reciproca tra gruppi
culturalmente diversi.
Spesso etnocentrismi e relativismi, universalismi e particolarismi vengono chiamati in causa per
giustificare decisioni politiche, per legittimare rapporti di ineguaglianza o per nobilitare azioni di
forza; il compito dell’antropologia è quello di fare chiarezza tra i termini delle opposizioni e tra le
possibili conseguenze.

1.5 FARE ANTROPOLOGIA, LO STUDIO DELLE DIVERSITÀ E DELLE SOMIGLIANZE


L’antropologia è stata definita una disciplina scientifica che svolge un’attività di investigazione,
ricerca, riflessione e che ha in comune con le scienze della natura l’uso rigoroso del metodo.
1.5.1 La ricognizione delle diversità
Il primo compito dell’antropologia è la ricognizione delle diversità tramite l’osservazione, la
descrizione e la catalogazione delle diversità umane secondo gli ambiti in cui esse si
manifestano. Questo lavoro è fatto in modo sistematico grazie a schemi generali condivisi.
Pertanto in genere si è d’accordo sulla distinzione delle diversità e delle somiglianze in:

• d&s dei sistemi culturali (concezioni del mondo e della vita, religioni, cosmologie)
• d&s dei sistemi della corporeità
• d&s dei sistemi di riproduzione
• d&s dei sistemi di sostentamento
• d&s dei tipi di insediamenti umani
• d&s dei sistemi di relazioni, cioè strutture ed istituzioni sociali
1.5.2 Che cosa fanno gli antropologi? Con quali strumenti e con quali accorgimenti?
Gli antropologi sono persone che fanno ricerca con una visione del mondo diversa da quella di
coloro che intende studiare. Per confrontarsi con gli altri e sopratutto per svolgere una ricerca
antropologia è indispensabile una disposizione al relativismo per rendersi disponibili ad una
cultura diversa dalla propria. Dopodiché è necessario sottoporre il proprio apparato conoscitivo
ad un esame critico per verificare se e quanto questo sia adeguato alla conoscenza e
all’apprendimento dell’oggetto di studio. Il relativismo antropologico è la relativizzazione del
proprio apparato conoscitivo e del proprio sistema di valori. Mettersi nei panni degli altri è
un’operazione difficile e sbagliata, infatti l’obiettivo della conoscenza antropologica non è
l’immedesimazione ma la comprensione che si raggiunge tramite il confronto sistematico tra il
proprio modo di pensare e quello dei soggetti studiati.
1.5.3 L’etnocentrismo critico
Ernesto de Martino, fine degli anni ’50, ideatore di questo metodo, enfatizza 2 punti:

• il confronto deve mettere in discussione la nostra cultura e non solo quella del gruppo studiato
• l’obiettivo di questo confronto critico e autocritico è “una riforma del sapere antropologico e
delle sue categorie valutative”

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De Martino definiva la sua posizione etnocentrismo critico, intendendo da un lato
l’impossibilità di uscire dalla propria cultura e dall’altro la disposizione critica a non pretendere di
immedesimarsi in altre culture diverse dalla propria, ponendo le basi per un umanesimo
etnologico, cioè una forma di umanità più umana di quella occidentale.
Infine, scopo ultimo dell’antropologia è produrre e diffondere conoscenza, in questo senso gli
antropologi devono “scrivere le culture”. Bisogna comunque tenere conto del fatto che anche la
scrittura è modellata dalle categorie del pensiero, dal linguaggio, grammatica, sintassi, quindi è
culturalmente determinata dalla cultura di appartenenza. Così “scrivere le culture” diventa un
lavoro di traduzione concettuale fondato anch’esso sull’etnocentrismo critico.

CAPITOLO 2 - LA RICOGNIZIONE DELLE DIVERSITÀ: CULTURE E PARENTELE


2.1 SISTEMI, STRUTTURE, FORMAZIONI: LE DIVERSITà UMANE NEL FLUSSO DELLA
STORIA
Approfondimento: evoluzione della specie umana
I grandi cambiamenti climatici del mondo coincidono con quelli che sono stati i grandi
cambiamenti della storia evolutiva dell’uomo. Il progressivo raffreddamento della terra ha
contratto lo spazio delle foreste a favore di spazi più “abitabili”, favorendo lo sviluppo degli
ominidi. I pretendenti più antichi a questo status di ominidi sono stati chiamati Australopitechi
ed erano presenti più di 4 milioni di anni fa in Africa orientale, gli studiosi li hanno divisi in 2
tipologie: hanamensis e afarensis,

• homo habilis: 2,5 - 1,8 milioni di anni fa, sa lavorare la pietra


• homo erectus: 2 milioni di anni fa, sa parlare
• homo sapiens: 100 mila anni fa
• uomo di Neandertal: 30 mila anni fa, sa fabbricare oggetti in pietra e in legno e svolge riti
funerari (cervello grosso come quello umano, cranio lungo e basso, fronte con arcate
sopracciliari marcate, faccia prognata

• homo sapiens sapiens o di Cro-Magnon, organizzato in gruppi omogenei, pratica caccia,


raccolta e pesca, pitture murali e costruzioni, riti funerari complessi; diffuso in Europa, Asia,
Nord Africa e Nord America; dotato di particolare intelligenza e abilità tecniche
Gli utensili in pietra risalgono a 2,5 milioni di anni fa e ci raccontano molto sulle capacità
cognitive che già allora avevano sviluppato gli ominidi.
La capacità umana di acquisire cultura è il risultato di processi biologici come la selezione
naturale la quale interviene sui geni aumentando o diminuendo la frequenza delle varianti
genetiche, che sono quelle che ci permettono di accrescere svariate capacità; ad es. la capacità
di adattamento può essere associata alla capacità dell’organismo di conquistare territori, di
sviluppare un sistema immunitario più o meno robusto.
La storia della specie umana appare un ininterrotto flusso di processi di diversificazione e di
fusione. All’interno di questi flussi nessun tratto è immutabile ed eterno poiché il mondo della vita
umana è un mondo in perpetuo divenire. In ogni caso è possibile distinguere nel flusso della
storia:

• sistemi distinti dell’attività umana: sistemi culturali, s. della corporeità, s. di riproduzione, s.


di sostentamento, s. sociali, s. insediativi umani

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• strutture, cioè relazioni tra parti di un sistema che si mantengono costanti: s. della parentela,
s. produttive, s. sociali, s. insediative

• formazioni storico-sociali, cioè sistemi di relazioni tra i sistemi che hanno una certa
stabilità= civiltà o culture
Analizzando il flusso della storia umana e dando rilievo a civiltà e culture, si va incontro ad un
rischio e ad un’opportunità. Il rischio è quello di naturalizzare queste formazioni stabili come
realtà compatte e immutabili. Per contro, una considerazione d’insieme rischia di darci una
visione confusa e indistinta.
Se invece individuiamo civiltà e culture, formazioni storico-sociali, dotate di una certa stabilità,
siamo in grado di dare ordine alle memorie e di suddividere il flusso della storia in periodi. Se si
fa uso critico e dunque non naturalizzato del passato, si può comprendere meglio anche il
presente. Infatti la ricostruzione del passato permette la ricognizione di diversità e
somiglianze tra culture e civiltà articolata su 2 assi: quello temporale, diacronico, cioè il
confronto tra antichi e moderni; e quello spaziale, sincronico, cioè il confronto tra civiltà e popoli
contemporanei tra loro. Questo repertorio delle diversità è articolato per sistemi distinti
dell’attività umana, anche se nella realtà questi sistemi sono fusi insieme in comportamenti,
relazioni ecc. perché l’articolazione analitica permette di sviluppare comparazioni più raffinate e
quindi di comprendere meglio diversità e somiglianze.

2.2 IL CONCETTO DI CULTURA


2.2.1 Concezioni tradizionali di cultura
Per molto tempo il termine cultura ha avuto un senso ristretto segnato dall’etnocentrismo
occidentale secondo cui essa era un concetto dal significato prescrittivo e dalla funzione
gerarchizzante che comportava l’idea di un miglioramento individuale e collettivo accessibile
solo ai cittadini migliori delle nazioni civili, cioè quelle nazioni ereditarie di civiltà intesa come
insieme di sistemi e strutture stabili.
In Francia, nel corso del ‘800, si sviluppò un’idea di cultura come risultato di una crescita
spirituale individuale che rimandava al concetto di civilizzazione.
In Germania, tra la fine ‘700 e l’’800, il termine cultura secondo il filosofo Herder, indicava un
patrimonio spirituale in termini collettivi; infatti il termine Kultur (patrimonio comune, condiviso e
trasmesso da una generazione all’altra, che identifica ciascun popolo e lo rende diverso da tutti
gli altri) ha un significato vicino a quello di Volksgeist (spirito nazionale); mentre il termine
civilizzazione veniva usato con esclusivo riferimento ai progressi della tecnica. In seguito il
concetto di cultura si caricherà di un significato intriso di nazionalismo che affermerà la
superiorità della cultura tedesca sulle altre culture.
2.2.2 Taylor e la prima definizione antropologica di cultura
Nella seconda metà del XIX secolo in Inghilterra Taylor, uno dei fondatori della moderna
antropologia scientifica, formula una nuova idea di cultura che nel suo libro “Primitive culture” del
1871 viene definita “insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la
morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine che l’uomo acquisisce come
membro della società”. Più approfonditamente, secondo Taylor la cultura è:

• universale, cioè propria di tutte le società

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• appresa, in senso intellettuale ed esistenziale, escludendo l’innatismo e la trasmissione
biologica

• sociale, nel senso che ogni cultura è il prodotto di una società e della sua storia evolutiva
Per Taylor le culture umane sono soggette alla legge dell’evoluzione ed è proprio il situarsi a
livelli del percorso evolutivo che spiega le diversità tra le culture. Tuttavia, il processo evolutivo
non mette in discussione l’unità psichica del genere umano che spiega anche le somiglianze
culturali, ovvero il fatto che la mente umana funziona dovunque e sempre allo stesso modo in
condizioni analoghe.
Nonostante questa definizione, fino alla metà del XX secolo molti studiosi hanno usato il termine
cultura in opposizione al termine civiltà per distinguere le società più complesse e sviluppate da
quelle più semplici e arretrate. Il mantenimento di questa distinzione ha portato con sé l’idea di
incommensurabilità e incompatibilità delle prime con le seconde e la convinzione che le civiltà
dovessero essere studiate da una molteplicità di scienze e discipline mentre per le culture fosse
sufficiente la competenza dell’antropologia applicata a unità di ricerca di piccole dimensioni.
2.2.3 La concezione mentalistica della cultura
Fino agli anni 10-20 del XX secolo l’ambito dell’antropologia è stato dominato dalla concezione
evoluzionistica delle culture, dopodiché si è sviluppato un nuovo indirizzo di pensiero
antropologico il cui fondatore fu Franz Boas, tedesco stabilitosi negli USA, considerato uno dei
maggiori antropologi. I suoi allievi, in particolare Kroeber, sviluppano una concezione delle
culture che le definisce come forme specifiche storicamente determinate di una modalità di
essere propria di tutte le società che è il sistema o livello della cultura. Così la cultura
nell’accezione boasiana diventa al tempo stesso una realtà mentale e sociale che concorda
con Taylor per quanto riguarda i caratteri principali della cultura perciò è universale, (universalità
data dall’importanza che la cultura ha per la specie umana, importanza che si fonda nella
carenza degli istinti), è appresa e interiorizzata attraverso l’inculturazione (processo attraverso
il quale si strutturano e si stabilizzano somiglianze culturali interne a una società; ha messo in
luce che all’interno di una stessa società la cultura non è appresa in modo uniforme da tutti i
membri ma a seconda di sessi, generazioni, rango, lavoro, reddito, andando a creare
subculture). Tuttavia questa concezione di cultura comporta dei rischi: il fatto che l’autonomia
della cultura come fatto mentale, sviluppata alle sue implicazioni più estreme, comporta la
teorizzazione dell’indipendenza totale della cultura dagli altri sistemi; reificazione della cultura
fino a collocarla al di sopra dei comportamenti degli individui e dei gruppi sociali, come se fosse
la cultura a determinarli.
2.2.4 La definizione dinamista di cultura
I limiti della concezione mentalistica possono essere superati se si considera la cultura come
realtà prodotta e non come realtà data; gli antropologi di orientamento storicista-marxista
hanno formulato nuove definizioni di cultura che tenessero conto delle dinamiche culturali e delle
condizioni materiali e sociali della produzione di cultura. “La cultura è il senso che il loro agire ha
per i soggetti sociali agenti” cioè che la cultura di un soggetto sociale o collettivo è contenuta
nelle risposte che egli darebbe alle domande “che cosa fai?” e “perché lo fai?”; queste risposte
contengono indizi relativi alle condizioni materiali e sociali della produzione culturale.
2.3 CULTURE E DIVERSITÀ
Per quanto dinamiche e diverse le culture hanno alcune strutture interne in comune:

• un rapporto con almeno una lingua


• una concezione del tempo e dello spazio

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• una struttura di idee riguardanti il senso profondo dell’esistenza umana
• una struttura di conoscenze
• una struttura di valori
in ogni caso in ogni cultura vi sono idee non congruenti con altre idee o valori, e i valori stessi
possono essere in contraddizione.
2.3.1 Cultura, lingua e linguaggi
Le lingue sono un fenomeno universale e particolare poiché non esiste società umana che
non abbia la sua lingua e questa è sempre diversa da quelle delle altre società. La diversità tra
le lingue nasce dalla loro natura convenzionale e simbolica perché le parole non sono copie
delle cose ma la lingua ci consente di usarle come se fossero copie delle cose, esse sono
insiemi di suoni articolati che costituiscono un alfabeto all’interno del quale ciascun suono è in
relazione di diversità/opposizione con gli altri suoni, questa relazione permette di distinguere i
suoni che in tal modo si caricano di significato. Questi suoni sono detti fonemi, cioè segni
significanti di significato, che variano all’infinito da una lingua ad un’altra. (Le regole della lingua
si apprendono dall’infanzia, prima attraverso un processo di apprendimento e ripetizione e poi
attraverso un processo creativo). Senza le lingue il pensiero e la comunicazione non sarebbero
possibili, infatti esse sono lo strumento per mezzo del quale gli individui costruiscono e
comunicano significati e si prestano perfettamente a questo compito poiché sono anch’esse
realtà dinamiche che mutano e si adeguano a ciò che muta nelle società.
Oltre alla lingua parlata, ogni società possiede una lingua scritta, sviluppatasi dapprima in
pittogrammi, poi in geroglifici dell’Antico Egitto, in ideogrammi della Cina, in scrittura cuneiforme
della Mesopotamia e infine in scrittura alfabetica, inventata dai fenici intorno alla metà del II
millennio a.C., la quale fa corrispondere un segno grafico a ogni fonema in modo da
corrispondere integralmente a ciascuna lingua parlata. Malgrado le varie grafie e i vari alfabeti
fonetici, il principio della corrispondenza tra fonemi e segni grafici resta invariato.
Altri linguaggi presenti in tutte le società sono il linguaggio dei gesti e delle posture, quello delle
decorazioni del corpo, quello degli abiti, quello della prossemica (norme che regolano i rapporti
di vicinanza tra corpi umani nello spazio), quello degli oggetti.
2.3.3 Tempo e spazio
Le concezioni di tempo e spazio sono un buon esempio di confronto tra le diversità delle culture.
Prendendo ad esempio la cultura occidentale, troviamo una concezione naturalista del tempo e
dello spazio, li consideriamo come grandi contenitori esistenti in natura nei quali collochiamo le
nostre azioni. In realtà in natura non esistono tempo e spazio nell’accezione umana, esistono
l’alternarsi della luce solare e del buio, le stagioni e la discontinuità tra corpi solidi.
Lo spazio non è un dato oggettivo ma è una variabile che si definisce all’interno di un
comportamento umano dato (“qual è la distanza tra Roma e Firenze?”).
Mentre l’alternarsi del giorno e della notte e la discontinuità attraverso l’esperienza umana sono
divenuti tempo sociale e spazio sociale. Il primo è un tempo regolamentato sulla base di
distinzioni tra tempi diversi destinati ad attività diverse, ad esempio il tempo sacro e il tempo
profano, o comunque tempi nei quali certe categorie di persone possono/non possono svolgere
determinate attività. La regolamentazione del tempo è una delle tante forme di esercizio del
potere, praticata ad esempio tramite l’invenzione dei calendari ad opera della casta sacerdotale;
questa invenzione stabilizzò le capacità di prevedere e programmare le attività umane (sviluppo
dell’agricoltura collegato alla redazione dei calendari) e contribuì a distinguere il tempo ciclico
(quello degli eventi che si ripetono) da quello lineare (quello irreversibile di successione e non
ripetizione).

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Nelle società antiche prevaleva l’idea di un tempo ciclico poiché le attività umane erano scandite
dall’alternarsi di luce solare e buio e dalle stagioni; nelle società contemporanee invece prevale
la concezione di un tempo lineare, accentuata dall’invenzione degli orologi che segnano un
tempo astratto programmabile ma irreversibile.
Inoltre esiste il tempo mitico, quello in cui accadde l’evento fondante che ha dato inizio al tutto
(in illo tempore); è un tempo unico, inconfondibile e irripetibile, tipico delle mitologie e delle
religioni che si colloca al di fuori del tempo poiché è esso stesso ad aver dato inizio al tempo.
Il rapporto della specie umana con la discontinuità dei corpi solidi è legato alla struttura del
corpo umano il quale, con la postura eretta e la deambulazione bipede, ha acquisito una visione
tridimensionale che permette di stabilire un centro e dei percorsi di modo da organizzare questa
discontinuità che diventa spazio sociale. Il confine è un altro concetto di cui ci serviamo per
organizzare lo spazio per opposizione (dentro/fuori, noi/loro); è quello che stabilisce i termini
concreti della relazione tra uno spazio e un singolo gruppo umano trasformando lo spazio in
territorio e il gruppo in comunità. Anche nello spazio troviamo distinzioni tra lo spazio sacro e lo
spazio profano, il cui controllo è un esercizio del potere fondato sul desiderio di “preservare la
purezza della specie” evitando contaminazioni.
Infine è importante sottolineare che il carattere sociale e non naturale dei concetti di tempo e
spazio è reso evidente dai mutamenti che l’intervento umano ha apportato alle condizioni
originarie dell’ambiente (illuminazione, riscaldamento e raffreddamento, mezzi di trasporto).
2.3.4 Il senso profondo dell’esistenza umana: le cause prime e i fini ultimi
Tutte le culture, al di là delle diversità, presentano un insieme di idee relative a come è fatto il
mondo, a come è stato fatto e a come andrà a finire; queste idee nascono da un dato comune
dell’esperienza umana: gli esseri umani sono i soli esseri viventi consapevoli di essere destinati
a morire e probabilmente è in relazione a questa consapevolezza che si creano storie sul
principio.
Cosmogonie “modo di nascere del cosmo”, solitamente prendono tutte spunto da
un’opposizione tra caos originario e cosmo ordinato in cui vive la specie umana, o tra vuoto
originario e pienezza del cosmo. In alcune narrazioni non esiste un artefice, in altre esiste ed è
sempre un essere eccezionale, può essere un demiurgo cioè creatore di ordine, una coppia
eterosessuale, una coppia di gemelli; quando l’artefice è uno solo in genere è sempre di sesso
maschile. Finito il lavoro il o gli artefici abbandonano il cosmo; a volte ciò comporta il
disinteressamento per le sorti del mondo, in altre l’attenzione ai destini umani. La disposizione
dell’artefice verso il cosmo può essere negativa in reazione a comportamenti sbagliati degli
umani o senza spiegazione, per evitare i mali è necessario compiacere il creatore con offerte e
sacrifici.
La cosmogonia pone le basi per la cosmologia come conoscenza del cosmo, la quale spesso
comprende narrazioni delle condizioni che attendono gli umani dopo la morte. Cosmogonia e
cosmologia unite alle altre narrazioni formano il patrimonio mitico di ogni popolo. Levi-Strauss
analizzando le mitologie degli Indiani d’America ha dimostrato come i miti non seguono l’ordine
logico del discorso ma sono costruiti su sistemi di opposizioni binarie che danno ordine e senso
al mondo.
Presso tutti i popoli i miti si collegano ai riti, altro istituto culturale universale composto da
comportamenti standardizzati collocati in tempi e spazi specifici che attualizzano i miti rendendoli
presenti. Tra i riti più conosciuti troviamo il sacrificio che può avere la funziona di onorare una
divinità, di sacralizzare un luogo e un tempo, di cancellare una profanazione tramite la figura di
un capro espiatorio.

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L’insieme di miti e riti di un popolo compone la religione, caratterizzata dalla fede nell’esistenza
del soprannaturale (inteso come presenza attiva di un potere superiore ai limiti dell’agire umano
in alcuni soggetti) e dalla speranza di salvezza (intesa come salvezza dal male fisico e morale,
presente e futuro, terreno) la quale fa riferimento all’intervento del potere sovrannaturale o alle
pratiche buone dei credenti.
Emile Durkheim, antropologo e sociologo francese vissuto tra il XIX e il XX secolo, ha
analizzato le altre funzioni sociali della religione. Definisce i miti come le rappresentazioni
collettive che la società fa di sé a se stessa (come Feuerbach che sosteneva che Dio fosse una
proiezione illusoria delle migliori qualità umane, intendeva la religione come antropologia
capovolta che diventava così la prima autocoscienza umana). Secondo D. sulla base dei miti si
costruisce la solidarietà meccanica, una forma di integrazione sociale basata sulla condivisone
di una rappresentazione del mondo, che si consolida attraverso la celebrazione dei riti.
Altri studiosi invece si concentrano sulle funzioni regolatrici e moralizzatrici delle religioni e sulla
funzione politica di quest’ultima quando si costituisce come apparato ideologico che legittima i
detentori del potere.

Tipologie di religioni viste per concezioni del soprannaturale tipiche delle società primitive:

• Animismo: il soprannaturale è presente in forma di anima in tutte le realtà esistenti, le anime


non muoiono mai e costituiscono un altro mondo a cui si accede in maniera stabile dopo la
morte; religione tipica dei gruppi semplici

• Culti degli antenati: il soprannaturale è identificato negli antenati che in un luogo remoto e
inaccessibile, vegliano sugli umani inviando; tipico negli arcipelaghi del Pacifico, in Melanesia

• Totemismo: il potere soprannaturale appartiene al totem (oggetto di culto, fonte di aiuto e


protezione, oggetto di proibizioni rituali, tabù) che è al tempo stesso un elemento naturale e un
antenato mitico dei clan; il clan è un’alleanza tra lignaggi e un certo numero di clan sono
associati in un gruppo totemico; tipico degli indiani d’America
Sono tutte contraddistinte dall’assenza del clero. Il clero di una religione è costituito da un
gruppo di persone che si occupano esclusivamente della religione producendo anche studi sulla
divinità dunque svolgono attività di interpretazione e teorizzazione e non solo di narrazione, e
fissando precetti morali. In questo caso si parla di religioni istituzionalizzate distinte in:

• Politeismi: venerazione di più divinità (Shintoismo giapponese, Induismo)


• Monoteismi: venerazione di un’unica divinità (Giudaismo, Ebraismo, Cristianesimo, Islam)
Altre religioni ancora sono ad es. il Buddhismo, il Confucianesimo e il Taoismo caratterizzate da
una forte concentrazione dell’attenzione e dell’impegno dei fedeli sulla questione della salvezza.
Bisogna poi considerare che al proprio interno ogni religione istituzionalizzata si articola ancora
in sette, caratterizzate da sistemi di credenze che, pur condividendo il quadro generale della
religione da cui derivano, se ne distinguono per alcuni tratti considerati fondamentali, i membri
sono chiamati adepti; sono tipiche delle religioni professate da milioni di fedeli all’interno di
società numerose e ad altra stratificazione sociale.
Infine esistono i sincretismi, cioè religioni nate dall’influenza reciproca e dalla fusione di religioni
diverse; ad es. quelle dei Woodo di Haiti o del Candonblé brasiliano, nati dalla fusione delle
religioni africane portate dagli schiavi + contenuti della tradizione indiana + tratti cristiani.

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2.3.5 La magia
L’analisi antropologica delle religioni è complicata dalla presenza dell’ambito delle pratiche
magiche. Nella cultura occidentale la magia è concepita come un insieme di credenze e
comportamenti irrazionali, ma non c’è quasi nessuno che non ne sia suggestionato almeno un
po’.
Per definizione generale la magia è un insieme di pratiche cerimoniali ritualizzate il cui scopo è
quello di controllare il potere soprannaturale per piegarlo ai voleri di chi lo ha catturato, questo
persona può essere un operatore magico specialista oppure una persona comune dotata di
poteri, spesso hanno che la capacità divinatoria di conoscere cose occulte del passato, presente
e futuro. Esistono diversi tipi di magia: pratiche magiche preventive e protettive svolte tramite la
recitazione di formule o il possesso di un oggetto magico; magia riparatrice che libera chi è
vittima di un maleficio (malocchio), in alcuni casi consiste nell’esorcismo; vi sono poi rituali
collettivi di magia propiziatoria volti a scongiurare un male o a favorire un beneficio collettivo;
infine esiste la magia nera praticata per fare danno a qualcuno (fattura d’amore o fattura a
morte); rientrano nell’ambito magico anche l’evocazione dei morti, l’interpretazione dei segni e
degli oracoli, la lettura del futuro, gli adorcismi.
Uno degli interrogativi che ha suscitato l’universo della magia è quello relativo al rapporto della
magia con le religioni, problema che non si pone nella pratica poiché non c’è distinzione, si
cerca semplicemente la salvezza attraverso pratiche che mettano in contatto con il
soprannaturale. Interpretazioni:

• De Martino ad es. ha paragonato il viaggio sciamanico ai percorsi di redenzione di alcune


religioni istituzionalizzate, mostrando la possibilità di una commistione di religione e magia.

• Altri studiosi invece sottolineano le differenze tra le due perché la magia, a differenza della
religione, manca di un orizzonte teologico e mitologico, e la salvezza che si cerca nelle
pratiche magiche riguarda il presente e le cose materiali.

• Le chiese occidentali cattoliche e protestanti invece considerano la magia come opposta alla
religione, come comportamento colpevole e perverso che si appella al diavolo anziché a Dio.

• Altri studiosi ritengono che la magia dei primitivi sia una forma primordiale di scienza come
tentativo di controllare le forze della natura; questa interpretazione si collega alla magia
naturale che si è sviluppata in Europa tra il XV e il XVII secolo.

• Nel corso del XVIII secolo e dell’Età dei lumi, gli intellettuali condannarono la magia come pura
superstizione delle persone meno colte; atteggiamento che si è intensificato nel XIX e XX
secolo con il progresso della scienza.
Malgrado le pratiche magiche siano caratterizzate dal totale insuccesso continuano a essere
praticate e a prosperare anche in contesti dove esistono le risorse razionali per fronteggiare i
mali e le insicurezze. Dunque qual è l’efficacia delle pratiche magiche e in quali ambiti
esistenziali producono esiti?
Stregoneria
Strega: termine con potere evocativo perché suscita fantasia e timore; simbolo in cui è confluita
la considerazione negativa che l’uomo aveva della donna.
Non si può parlare di stregoneria senza esplicitare il contesto in cui si è sviluppata ed evoluta:
essa è un fatto prevalentemente relazionale, perché il ruolo della strega si definiva in base ai
rapporti sociali in cui era immerso l'individuo interessato o etichettato con il termine.
L'ossessione per la stregoneria si è sviluppata dopo il XII secolo, e in modo più specifico verso il
XV secolo, periodo in cui ha generato grande panico collettivo. La persecuzione delle streghe è

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ad oggi uno dei capitoli più bui, scuri, tragici della storia umana, in quanto ci sono state migliaia
di donne arse vive sul rogo perché considerate tali (alcuni parlano di numeri di vittime superiori a
quelle dell'Olocausto).

L'unica documentazione che possediamo è relativa ai verbali dei processi di stregoneria, redatti
dai giudici stessi o dagli addetti ai tribunali: le confessioni riportate sui verbali erano estorte con
la tortura. Le donne accusate solitamente avevano circa 40 anni, anche perché la vita media si
aggirava in quel sui 40/45 anni. Molto spesso le accuse servivano per risolvere dei conflitti di
vicinato, o rivalità in campo economico/commerciale: non era solo un fenomeno rurale, ma era
spesso diffuso anche nelle città.

Alla fine del '400 con il fenomeno della stregoneria opposto alla teologia viene in realtà
“mascherato” un nuovo tipo di conflitto, lo scontro tra le classi subalterne e l'élite.

Oggi abbiamo della strega un'immagine ambivalente: in teoria, dovrebbe essere una donna con
determinati poteri, che usa per fare del male, mentre nella concezione moderna l'uomo con dei
poteri è un mago (positivo).

Non è un caso che le streghe erano tendenzialmente identificate in certe professioni: le
levatrici, capaci di dare la vita ma anche di dare la morte; le cuoche, che avrebbero potuto
mettere veleno nel cibo; le donne che sapevano usare certi tipi di erbe.

Considerando i costumi matrimoniali dell'epoca, c'era l'usanza per un uomo di sposare donne
molto giovani, e il tasso di vedovanza era altissimo essendo l'uomo molto più vecchio di loro: le
vedove erano viste con sospetto, perché spesso per mantenere i figli o mendicavano o si
prostituivano. Anche le prostitute rientravano nelle categorie prese maggiormente di mira dalla
società.

Il fenomeno ha toccato tutta Europa. In quel periodo, sull'Europa si erano abbattute calamità e
flagelli.

In primo luogo le carestie: probabilmente, grandi periodi piovosi hanno dato vita a cattive annate
agricole. Uno dei primi effetti, era il fatto che gli uomini diventassero antropofagi e coprofagi.
Non esisteva più il confine tra realtà ed allucinazione, e questo era favorito dall'ingestione di
sostanze allucinogene a causa della fame. Molte erbe erano anche farmaci usati per alleviare
piaghe provocate da scarsa igiene, parassiti, malattie infettive, carenze vitaminiche.

Nella cultura greca e latina la strega aveva una sua collocazione anche se caratterizzata da toni
diversi. Perché a un certo punto inizia a essere vista come una donna malefica?

Nel 313 d.C. con l'editto di Costantino, il Cristianesimo diventa la religione di Stato: a partire da
quel momento si cerca di estirpare quei culti definiti pagani (da pagus, villaggio, dove
maggiormente radicati), arrivando al Medioevo in cui l'individuo viveva fra il bene (Chiesa) e il
male (Diavolo), senza una via di mezzo. Molti esseri fantastici dell'immaginario collettivo (tipo i
folletti) diventano diabolici.

Tra XII e XIII secolo la Chiesa si trova a dover combattere l'eresia (in Piemonte i Valdesi, i
Catari...). Alla donna non è mai stato attribuito un ruolo nella religione cattolica, invece ad
esempio i Valdesi le riconoscono un certo ruolo: la donna può professare, fare presenti ed
evangelizzare. Esse parlano di una religione senza differenze. Queste donne verranno
etichettate come streghe.

Il momento simbolico in cui comincia la caccia alle streghe è il 1486, anno in cui due frati
domenicani, Sprenger e Institor, pubblicano un libro tradotto in moltissime lingue, diventato il
“decalogo” per la caccia alle streghe: il “Malleus Maleficarum”, o Il Martello delle Streghe. Danno
una spiegazione a loro avviso logica del motivo per cui la strega è donna: foemina (femmina)

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secondo loro deriverebbe da fe minus (minor fede). Da questo libro parte una sorta di psicosi
collettiva.

Le streghe, essendo per la chiesa in combutta con il Diavolo, farebbero del male gratuitamente.
Con regolarità, si incontrano con il diavolo, in riunioni dette SABBA: durante queste riunioni,
adorano il diavolo, si inchinano a lui, gli baciano i piedi, spesso si congiungono carnalmente con
lui, banchettano, mangiano cibi senza sale perché quest'ultimo è un elemento della religione
cattolica e dunque deleterio per loro.

Il luogo in cui si svolgono le riunioni è impervio, e ci arrivano a cavallo della scopa o di un


animale: questo volo può avvenire solo se le streghe si ungono il corpo di un unguento fatto di
sostanze particolari. Queste sostanze a basso dosaggio danno euforia, ad alto dosaggio
provocano allucinazioni, dunque questo volo è immaginato, così come la riunione con il diavolo:
sono gli inquisitori a mettere le parole delle confessioni in bocca alle streghe. Grazie a questo
unguento esse pronunciavano una formula che riguarda il Noce di Benevento, dove si riunivano
tutte le streghe d'Italia: “supra acqua e supra vento, portami al noce di Benevento”.

Si dice che molte streghe ungessero anche la scopa prima di volare: dato che non si usava la
biancheria intima, queste sostanze entravano in circolo immediatamente.

Un culto diffuso nel Friuli intorno al '300 è stato scoperto dallo storico Carlo Ginzburg. Nel 1966
scrive “I Benandanti”: scoperti questi documenti negli archivi del Friuli, capisce che questi erano i
cosiddetti “nati con la camicia”, cioè nati avvolti nella membrana. A seconda delle zone, avevano
delle particolarità, e la membrana stessa era in alcune zone seppellita in un punto dell'orto, in
altre conservata in un sacchetto e appesa al collo del bambino. I benandanti, secondo la
credenza popolare, erano chiamati in periodi dell'anno a combattere contro le streghe con rami
di finocchio per il buon andamento del raccolto: se vincevano, l'annata sarebbe andata bene, se
no sarebbe stata un'annata di miseria. Quando esplode il fenomeno stregonico, poco per volta i
benandanti vengono però assimilati alle streghe, tanto da venire accusati e processati.
Ovviamente, le battaglie con le streghe non erano tangibili: i benandanti avevano la capacità di
fuoriuscire con lo spirito, e la fuoriuscita è un tratto folklorico antichissimo e comune
all'immaginario europeo. La prima risale all'VIII secolo a.C., per cui dalla bocca di un re usciva il
suo spirito sottoforma di serpente. E' una sorta di catalessi, morte temporanea, perché quando
esce lo spirito, il corpo è momentaneamente esanime. Anche le masche hanno la capacità di far
fuoriuscire lo spirito.

Masca

Termine usato in molte zone del Piemonte per definire la strega. In tutta Italia, il termine strega
nell'accezione già detta, conosce molti sinonimi e varianti dialettali. Stria, macara, ianara...In
realtà, la masca non possiede tutte le caratteristiche della strega. Il termine Masca, ha qualche
collegamento con la maschera e il mascheramento, perché in passato la maschera
rappresentava lo spirito del morto che tornava sulla terra instaurando un rapporto con i vivi.
Indossarla, era un modo per attuare un contatto con il mondo dei morti. Il cristianesimo nel
Medioevo ha rifiutato questa interpretazione, per il cristianesimo la maschera era mistificatrice,
un sacrilegio, celava un'altra identità, e dietro questo c'è sempre il diavolo. La masca è una
strega contadina, una donna vecchia, brutta, cattiva. La bruttezza fisica (soprattutto per i
bambini) si associa facilmente a una malformazione spirituale. Naso lungo, gobba, problemi di
deambulazione (particolarità che lega strettamente agli Inferi, il diavolo è zoppo, Vulcano o
Efeso il dio degli Inferi era zoppo, Edipo che era un indovino era zoppo). Di masca si è parlato
fino all'immediato secondo dopoguerra, quando la gente si riuniva nella stalla per fare la veglia,
si narravano queste storie fantastiche da un lato e contestualizzate dall'altro, si facevano nomi di
persone e luoghi precisi. I bambini rappresentavano la futura forza lavoro. La donna contadina
associata alla masca la rendeva in un certo senso protagonista della società in cui viveva. Le
masche avevano la particolarità di avere nomi che finivano con -ina (soprattutto Catalina, perché

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questo in piemontese identifica la morte).

Negli ultimi tempi sono sorte moltissime feste legate alle masche.

Si diventa masca per eredità: una masca non poteva morire se prima non aveva passato i suoi
poteri, doveva trovare un canale di trasmissione se no avrebbe agonizzato per giorni. Il
passaggio avveniva per alcuni semplicemente per passaggio fisico (generalmente in famiglia),
consegnando la scopa oppure lo strumento maleficiale per eccellenza, il libro del comando, un
ricettario con le ricette per le mascarie (pozioni). Per altri, se una masca non riusciva a morire
perché non riusciva a passare i poteri, il prete le metteva in mano una scopa e lei volava
attraverso il camino. La scopa è interessante: innanzitutto è presente in ogni casa, e poi
sostanzialmente è un bastone, che rimanda a uno scettro, bastone del comando. Forse può
essere interpretata in questo senso anziché come simbolo fallico.

Nel secondo dopoguerra il tasso di alfabetismo era del 2%: com'è possibile che una donna
riuscisse a leggere un libro? In questo caso, il libro è un simbolo di potere, chi sa leggere
possiede un certo potere.

Le masche agivano in un arco di tempo che andava dall'ave Maria del pomeriggio (tramonto) a
quella del mattino (alba). Dalla sua bocca usciva lo spirito che andava a fare del male, magari
sotto forma di animale domestico o di rovi che bloccavano il passaggio delle persone. Se si
feriva l'animale o si tagliavano i rovi, queste ferite rimanevano sul corpo della masca.

2.3.6 Conoscenze e valori: pensiero razionale e pensiero simbolico


La risposta si può trovare nell’analisi del linguaggio e del pensiero, caratteri universali della
specie umana. Il pensare si articola in due modi: il pensare per concetti che significa pensare
secondo i principi del pensiero razionale; e il pensare per simboli cioè pensare per associazioni
e intuizioni, utilizzando immagini mentali polisemiche cioè che esprimono simultaneamente più
di un significato, appartengono a questo secondo ambito le produzioni artistiche, le religioni, la
magia, i sentimenti, la festa, il gioco, lo scherzo e l’universo dei valori morali che orientano l’agire
umano. A proposito dell’efficaci dei simboli hanno scritto opere importanti Levi-Strauss e Evans-
Pritchard, sul rapporto tra magia e razionalità (“Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande”).
2.3.7 Ernesto de Martino e il mondo magico
L’antropologo italiano Ernesto de Martino ha elaborato un’interpretazione delle pratiche magiche
che prende spunto da un concetto elaborato da Heiddeger, l’”esserci nel mondo”. Questo
concetto significa che gli esseri umani sono consapevoli di essere nel mondo ma sono anche
consapevoli della labilità di questa permanenza e ciò mette in crisi il significato e il valore
dell’esserci nel mondo. In questo senso, secondo de Martino, la magia è un istituto culturale
elaborato dagli esseri umani per risolvere la crisi della presenza, perché consente di riconnettere
la crisi a una causa e, attraverso i riti, questa crisi è messa in relazione con un tempo e un luogo
mitico dove questo dramma esistenziale è già stato risolto. Risolta nuovamente la crisi
esistenziale le relazioni sono ristabilite e il soggetto o gruppo umano può ritornare a esserci nel
mondo sapendo di esserci. Insomma la magia, offrendoci gli strumenti per il controllo simbolico
del negativo, garantisce le condizioni minime necessarie per affrontarlo razionalmente. è la
razionalità che guida nella scelta dei mezzi per raggiungere un fine, fornisce i mezzi per
migliorare ma il fine delle azioni umane non è mai definito solo in termini razionali poiché è
determinato da valori, i quali sono astrazioni e dunque rientrano nella sfera simbolica; infatti non
c’è agire umano che non sia orientato da valori e che non persegue la realizzazione di qualcosa
che vale almeno per il soggetto dell’azione. Dunque nella ricerca antropologica è necessario
tenere conto della molteplicità anche antitetica dei valori altrui e interrogarsi ancora su diversità
e somiglianze della specie umana.

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De Martino, 1961 “La terra del rimorso”, è un libro sul tarantismo che è un culto di possessione
più spesso femminile e contadino diffuso nel sud Italia. Quando si reca sul campo per fare
ricerca è accompagnato da un team di antropologi di varie nazionalità; con il suo lavoro voleva
dimostrare che il tarantismo era un fenomeno culturale complesso, a suo parere era un male
sociale; attraverso questa procedura ci si salvava dal rischio dell’esistenza stessa. Secondo il
modello più usuale una donna entrava in crisi manifestando un malessere fisico e psichico,
mostrava spossatezza e agitazione psicomotoria, si temeva che fosse stata morsa dalla taranta,
era la ricostruzione mitica di un ragno il cui corrispettivo empirico più plausibile e la lycosa
tarentula, grosso ragno che in realtà non può produrre tali effetti; il morso dunque era simbolico.
La taranta colpiva solitamente ai polsi, alle caviglie oppure dei punti simbolici come le parti
intime poiché la sessualità e la femminilità erano concepite come possibili cause del morso
infatti spesso avveniva in corrispondenza con la pubertà o con la prima mestruazione. Il morso
provocava crampi allo stomaco, svenimenti, dolori alle gambe, le famiglie cercavano di curarle e
si organizzava la terapia coreutico-musicale in cui un gruppo si suonatori con fisarmonica,
violino e tamburello che suonava ininterrottamente tutto il giorno, tuttavia a volte non era
sufficiente e quindi le si affiancava una terapia cromatica che consisteva nell’appendere nastri e
panni colorati nella stanza in cui la tarantata ballava la quale doveva scegliere il colore che più le
piaceva; questa terapia serviva a capire che tipo di taranta avesse morsicato la donna perché
questo determinava svariati atteggiamenti. Di solito la tarantata ballava per 3 giorni o più,
dopodiché la taranta se ne andava ma capitava anche che tornasse a mordere di nuovo la
stessa donna, allora si chiedeva la grazia a San Paolo, protettore dei tarantati. Il periodo solito
per il morso era l’estate, durante il lavoro nei campi o durante la siesta, che corrispondeva al
periodo in cui si dovevano pagare i debiti.
Secondo De Martino il morso era una rivelazione di situazioni conflittuali connesse alla
condizione di subalternità della donna, cioè di frustrazione sociale, economica, sessuale,
psicologica; infatti le tarantate erano in maggioranza donne perché erano quelle che
sopportavano il lavoro più pesante e le giornate piene impedivano rapporti sociali; erano donne
che avevano vissuto eventi spiacevoli e il morso per loro era motivo di inclusione sociale perché
la comunità si adoperava per curarla rendendola protagonista e inoltre era un alibi per poter
tenere qualsiasi comportamento. Rimorso perché ogni anno la donna veniva morsa di nuovo, De
M. lo interpreta come il cattivo passato della donna e avveniva d’estate per simboleggiare la
morte dei campi e dei cereali e in più c’erano i debiti da pagare, era intesa come colpa della
società.
Rituali simili in altre zone, ad es la Sardegna di cui ha scritto Clara Gallini “La ballerina
variopinta” che tratta la puntura dell’argia che era l’anima di un defunto che ha peccato non
rendendo omaggio alla statua di cristo mentre passava, l’argia, come la taranta morde ma
morde gli uomini e non le donne; il morso porta questi uomini a travestirsi da donne, anche qui
interviene la terapia coreutico-musicale con l’orchestrina. L’abbigliamento che scelgono gli
uomini dipende dal tipo di argia che li ha morsi; questo rito dava modo di esprimere anche le
tendenze omosessuali. Qui però non c’è il caso del rimorso annuale.
Nell’età dell’evoluzionismo e del positivismo, tra il XIX e l’inizio del XX secolo, la razionalità è
divenuta essa stessa un valore, mentre la sfera simbolica e i comportamenti orientati da essa
erano considerati irrazionali e tipici dei primitivi, infatti era convinzione comune che questo modo
di pensare fosse destinato a sparire con il progresso della ragione. Dopo la Seconda guerra
mondiale invece si è avuta un’inversione di tendenza supportata dalla convinzione che i disastri
della guerra e i regimi totalitari fossero da imputare alla razionalità astratta; si è inaugurata così
una fase in cui si sono valorizzati il pensiero simbolico e la sfera emotiva.
In conclusione il pensiero razionale e il pensiero simbolico non sono necessariamente antitetici o
mutuamente esclusivi, ma sono complementari.

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NO 2.4 SISTEMI DELLA CORPOREITà
Alla diversità esteriore dei corpi umani corrisponde una similarità interiore (anatomia, fisiologia
confermata dagli incontri eterosessuali sempre fecondi tra individui di qualunque gruppo umano,
e patologie). Le recenti ricerche genetiche confermano che le diversità genetiche significative
sono quelle riscontrate tra individui, mentre quelle tra gruppi non hanno distribuzione e
frequenza tali da considerarle rilevanti. Infatti le caratteristiche fisiche diverse risalgono
probabilmente a processi di adattamento all’ambiente. Tuttavia le diversità somatiche hanno e
hanno avuto notevole importanza sociale e culturale, infatti spesso ci troviamo in presenza di
una politica delle diversità congenite che, all’interno di relazioni di potere, assume le diversità
come segni di superiorità/inferiorità.
Oltre alle diversità somatiche congenite, esiste una produzione di diversità corporee praticata
tramite la manipolazione dei corpi, che può essere permanente o temporanea.
A questo proposito, Remotti, antropologo torinese, ha elaborato le mode antropopoietiche,
che consistono in interventi estetici sul corpo finalizzati a modificare la parvenza, e le ha
elaborate in diverse categorie:
1. indossare abiti e gioielli
2. togliere la sporcizia dal corpo mediante lavaggi
3. applicare sul corpo creme, cosmetici, pitture colorate, abbronzanti
4. modificare o eliminare organismi che crescono esternamente al corpo quali unghie, peli,
capelli
5. categoria intermedia delle pratiche sportive che modificano sia interiormente sia
esteriormente il corpo
6. pratiche dolorose a fini estetici
7. interventi alla cavità orale
8. perforazione e inserimento di oggetti esterni al corpo, piercing, pacemaker, protesi
9. penetrazione sottocutanea con inserimento di sostanze coloranti ed elaborazione di disegni,
tatuaggi
10. interventi di chirurgia estetica
11. alimentazione e diete a fini estetici
12. trattamento del cadavere, interventi sul corpo a cui nessuna cultura può rinunciare; possono
essere interventi conservativi, distruttivi, conservatori; in ultima battuta si imprime ancora la
propria cultura sul corpo
In tutte le culture esistono pratiche di intervento sui corpi finalizzate a imprimere su di essi delle
caratteristiche culturali temporanee o permanenti, al fine di realizzare un ideale estetico e
distintivo, di appartenenza.
Accanto a queste pratiche vi sono le tecniche del corpo che sono quell’insieme di modi
standardizzati di usare il corpo appresi durante l’inculturazione, infatti sono così incorporate che
ci si accorge della loro esistenza solo quando si entra in contatto con tecniche diverse; sono
sempre connesse all’ambiente materiale e al sistema di valori del gruppo.
Vi sono inoltre forme di relazioni sociali all’interno delle quali il corpo umano non viene solo
modificato, ma reificato cioè ridotto a cosa; strumento, simbolo o esibizione come simulacro
suggestivo; si tratta di forme di alienazione.

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Infine esistono pratiche di camuffamento, occultamento e mascheramento dei corpi associate a
pratiche magico-religiose, a pratiche ludiche, a pratiche di sovversione dell’ordine sociale
esistente.

2.5 DIVERSITÀ E SOMIGLIANZE DEI SISTEMI DI RIPRODUZIONE


Con il concetto di riproduzione si intendono i processi che consentono a un gruppo umano di
mantenersi nello stato in cui si trova o si trovava in un dato momento. La specie umana è una
specie sessuata dunque si riproduce tramite la fecondazione per cui è necessario
l’accoppiamento di due individui di sesso diverso, segue poi la gestazione nel grembo materno e
infine il parto. Con questo si conclude una fase e ne inizia una nuova, appena nato l’essere
umano è inetto, vulnerabile e ha scarse probabilità si sopravvivenza senza le cure adatte,
peculiarità propria di tutti i mammiferi. La specificità della specie umana sta nella lunghezza del
tempo necessario affinché il neonato diventi adulto, cioè che passi da un comportamento
dominato dall’istinto a un comportamento dominato dalla cultura, che è quello che ha permesso
alla specie umana di popolare il globo e di dominare la natura. Tuttavia la socialità umana non è
un fatto istintuale, anzi la stessa capacità umana di vivere in società viene appresa vivendo in
società; a rendere possibile la socialità umana è il comportamento culturalmente regolato.
Allevare gli infanti e regolare la socialità sono due dei problemi fondamentali che la specie ha
dovuto risolvere per sopravvivere; la soluzione è stata l’invenzione della parentela.
2.5.1 La parentela
La parentela è un insieme di legami che uniscono tra loro un certo numero di individui, questi
legami si basano sul principio della comune discendenza e sul principio del legame
matrimoniale. La parentela è culturale e convenzionale, non naturale e istintuale, ed esiste
solo nella misura in cui coloro che sono parenti si considerano parenti e agiscono di
conseguenza, e affinché due individui si ritengano parenti serve un segno o una testimonianza
attendibile.
Famiglia - Malinowski è stato il primo ad analizzare la famiglia, essa svolge un ruolo
fondamentale nella vita sociale di ogni gruppo, è sorretta da regole abitudinarie, determinata
dalla divisione sessuale del lavoro e da relazioni tra genitori e figli. è un fenomeno culturalmente
costruito che non esiste in natura. La famiglia estesa è un gruppo che comprende tutti i parenti,
è presente in molte società perché spesso le famiglie nucleari mancano di personale per i lavori
utili al sostentamento della famiglia.
Moltissimi bambini sono allevati da un solo genitore, solitamente la madre, in questo caso si
parlerà di famiglie matrilocali.

Parentela e discendenza
Nell’organizzazione della vita domestica compaiono 2 concetti fondamentali: affinità (parenti
acquisiti con il matrimonio) e discendenza.
Discendenza= insieme di legami tra una persona e i suoi antenati.
I vincoli di parentela sanciti attraverso legami di discendenza sono il canale attraverso il quale
avviene il trasferimento delle proprietà, dei beni, dei diritti, dei doveri e di status da una
generazione all’altra.
Esistono diversi modi per tracciare la discendenza, gli antropologi ne distinguono 2: quella
cognatica e quella unilineare. Nella prima si prendono in considerazione entrambe le linee di
discendenza, madre e padre; in quella unilineare si prende in considerazione sono una della due
linee di discendenza, matrilineare o patrilineare.
La forma più diffusa di classificazione parentale è quella della discendenza bilaterale, quindi si
determina la parentela in modo uguale e simmetrico lungo i rami generazionali sia materni sia
paterni, attraverso individui di entrambi i sessi (è questo ciò che la distingue da quella
cognatica). Quando la discendenza unilineare è sistematicamente provata in rapporto ad un

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antenato, il gruppo di parenti che ne risulta viene chiamato patrilignaggio o matrilignaggio;
quando invece la discendenza non è dimostrata ma è convenuta, il gruppo che ne deriva si
chiama clan che a sua volta può essere patrilineare o matrilineare.
Nell’accezione occidentale consideriamo la famiglia come un fatto naturale che si compone di
una coppia di eterosessuali adulti che hanno diritti e doveri nei confronti dell’infante che hanno
generato e che è stato loro affidato, così come il bambino, divenuto adulto avrà degli obblighi nei
confronti di chi lo ha generato. Nell’ambito delle scienze sociali questo nucleo composto da un
uomo, una donna e la prole viene chiamato famiglia nucleare; la concezione per cui questo
nucleo rappresenta la base della società è fortemente etnocentrica. Infatti etnografia e storia ci
dicono che la famiglia nucleare non è una forma universale di organizzazione dei rapporti sociali
e di riproduzione. Questa forma di parentela nasce probabilmente dalla preoccupazione di
assicurare la sopravvivenza alla prole umana; di qui il principio della discendenza che in
occidente è bilaterale, paterna e materna, mentre forme più antiche di parentela prevedevano
una discendenza matrilineare o patrilineare, che prende in considerazione una sola linea di
discendenza. Questo tipo di struttura è tipica dei lignaggi.
Il termine lignaggio si è affermato intorno al 1940, usato dagli antropologi britannici per indicare
un gruppo di discendenza unilineare in cui gli appartenenti possono tracciare con certezza la
discendenza con un antenato.
Le famiglie hanno un ciclo vitale e una durata, possono assumere forme diverse e possono
offrire diverse opportunità di interagire tra i suoi membri, è in continua evoluzione. Molte società
consentono la separazione che è un processo molto lungo, specialmente se comporta la
restituzione del prezzo della sposa come accade in alcune società. Negli ultimi anni si sono viste
nascere famiglie allargate create da donne/uomini vedovi o separati che si ricreano una nuova
famiglia magari portandosi dietro i figli. Oggi poi andrebbe considerata anche la famiglia creata
dai matrimoni omosessuali.
2.5.3 Proibizione dell’incesto e matrimonio
Come abbiamo già visto, la specie umana si riproduce attraverso l’accoppiamento tra un
maschio e una femmina. L’accoppiamento tra fratelli e sorelle, madri e figli, padri e figlie è
fecondo come qualsiasi altro accoppiamento come per le altre specie di mammiferi. Tuttavia per
la specie umana l’accoppiamento tra consanguinei chiamato incesto, è proibito in tutte le
società ed è il divieto più radicale che si consce.
Come si spiega questa proibizione? Ci sono 3 spiegazioni:

• biologica: sottolinea gli effetti negativi degli accoppiamenti tra consanguinei con trasmissione
di caratteri negativi e/o positivi; è inaccettabile perché ad es. nelle società organizzate in
lignaggi i matrimoni avvenivano tra parenti;

• psicologica: sostiene che la lunga convivenza tra genitori e figli e tra fratelli durante
l’allevamento costituisce una barriera psicologica che neutralizza le pulsioni sessuali; è
inaccettabile perché se veramente fosse così non ci sarebbe bisogno di vietare l’incesto;

• socio-culturale: è quella più convincente sviluppata la Levi-Strauss, secondo cui la


proibizione di sposarsi all’interno del gruppo di discendenza è l’interfaccia della prescrizione di
sposarsi fuori, costituisce una regola che sottrae la riproduzione, istinto naturale, alla casualità
della pulsione erotica trasformandola in un comportamento regolato che definiamo sociale;
questo comportamento riproducendosi struttura la società in sistemi di parentela. Dunque la
proibizione dell’incesto segna il passaggio dalla condizione di natura alla condizione di cultura
e introduce la regola della reciprocità, considerata una delle leggi morali fondamentali della
convivenza umana. Ancora secondo Levi-Strauss lo scambio delle donne tra gruppi è stato il
modello su cui si sono basati gli altri tipi di scambi quali la comunicazione e l’economia.

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è il tabù dell’incesto che determina l’esogamia, ci sposiamo al di fuori del nostro gruppo di
appartenenza perché questo ci permette di stringere rapporti con altri gruppi, di allargare la rete
di relazioni e quindi di poter contare su aiuto, sostengo e protezione da parte di una rete sociale
più estesa. Le regole esogamiche permettono di regolare i rapporti tra gruppi. Le donne sono
state per molto tempo il principale tipo di approccio tra vari gruppi, elementi di interscambio. Da
qui nasce il prezzo della sposa, perché anche quando subentrano altri beni la donna non perde il
suo valore, quindi quando una famiglia dava in sposa una delle figlie, la famiglia del marito
pagava un prezzo in denaro o in beni. Il tabù dell’incesto previene la conflittualità all’interno della
famiglia e impedisce la confusione dei ruoli familiari; garantisce che la prole si sposi in altre reti
di parentela dando cita a più ampie alleanze sociali ed economiche.
2.5.4 Lo scambio delle donne e la condizione femminile
Perché sono gli uomini a scambiare le donne?
Secondo Levi-Strauss, lo scambio delle donne avviene a opera degli uomini anche nei
matrilignaggi e se anche fosse il contrario la proibizione dell’incesto non cambierebbe.
L’inconsistenza e la negatività del ruolo femminile nella fase inaugurale della storia dell’Umanità
è presente nelle narrazioni mitologiche sulle origini del mondo e dell’umanità di moltissimi popoli,
a partire dalla nostra stessa tradizione giudaico-cristiana. Dovunque le donne hanno meno diritti,
meno libertà, meno potere, meno ricchezza, meno possibilità di decidere autonomamente della
propria vita rispetto agli uomini, anche se poi le condizioni variano tra paesi e società. Per
millenni il pensiero umano si è impegnato a dimostrare l’inferiorità femminile, l’inversione di
questa prospettiva si è cominciata ad elaborare nell’ambito dei movimenti femministi occidentali
del XIX e XX secolo e l’antropologia ha avuto una funzione di supporto fornendo materiali
empirici (Margaret Mead). La condizione femminile è diventato il tema antropologico per
eccellenza poiché rappresenta un caso universale di diversità trasformata in differenza, presente
in tutte le culture.
2.5.5. Tipi di matrimoni
Il matrimonio è un’istituzione che modifica lo status dei contraenti e rientra nei riti di passaggio;
implica rapporti sessuali e mantiene e perpetua i modelli sociali tramite la riproduzione o
l’adozione; crea rapporti tra la parentela e i partner; riceve riconoscimento simbolico. Il
matrimonio è un rito che si compie per noi in un singolo momento, per altre culture invece è un
processo che si dispiega nel tempo
Rapporti di affinità= quelli tra i parenti e i partner, si sviluppano nel tempo e non si può sapere se
saranno positivi o negativi
In molte società non industrializzate l’universo sociale delle persone è diviso in 2 categorie: i
parenti e gli estranei. Il matrimonio è uno dei modi più significativi per trasformare gli estranei in
parenti, e di creare e mantenere alleanze.
La pratica di prendere in marito o in moglie un membro esterno del proprio gruppo familiare si
chiama esogamia, questa lega gli individui in una più ampia rete sociale che è in grado di fornire
sostentamento, aiuto e protezione.
La pratica di prendere in marito o in moglie un membro interno al proprio gruppo familiare si
chiama endogamia.
Al di là dell’obbligo universale all’esogamia, la scelta del coniuge e la forma del matrimonio
variano da gruppo a gruppo e da società a società. Nelle società contemporanee occidentali la
scelta del coniuge è lasciata alla libera iniziativa individuale; nelle società tradizionali invece i
matrimoni venivano programmati e decisi dai genitori degli sposi o dagli anziani del lignaggio o
ancora stabiliti automaticamente dalla nascita. L’obiettivo del matrimonio non era la felicità

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personale degli sposi ma la garanzia di sopravvivenza della specie attraverso la procreazione e
la cura della prole, e la creazione di alleanze matrimoniali aveva la funzione di garantire stabilità
alla società. Al fine di consolidare l’alleanza il matrimonio era sempre sancito pubblicamente
attraverso una cerimonia e quasi sempre comportava anche delle transizioni economiche, la
dote (insieme di beni che il lignaggio della sposa donava al lignaggio del futuro marito) o il
prezzo della sposa (insieme di beni che il lignaggio dello sposo donava al padre della sposa).
Queste transizioni servivano a favorire la stabilità del matrimonio, ad alimentare la circolazione
di beni soprattutto nei piccoli gruppi umani, e a garantire la posizione della sposa nel nuovo
lignaggio.
Tuttavia il matrimonio monogamico non è l’unica forma di matrimonio esistente, esiste il
matrimonio poligamico che si distingue in poliandrico (una donna con più uomini) e poliginico
(un uomo con più donne); il secondo, più frequente, si presenta come un privilegio sessuale,
soprattutto nel caso in cui ci sia da pagare il prezzo della sposa, e si iscrive nella doppia morale
sessuale, caratteristica delle società patriarcali, che impone alle donne la verginità
prematrimoniale e la fedeltà coniugale, mentre l’attività sessuale maschile non è vincolata. Vi
sono forme di organizzazione sociale in cui la poliginia ha una funzione demografica ed
economica. Il concubinato è un’altra istituzione che permette all’uomo di variare la propria vita
sessuale, consiste nel legame pubblico con una o più donne che non sono mogli ma sono legate
all’uomo da precisi obblighi. Infine c’è la frequentazione di prostitute. All’interno di società
tradizionali vigeva per le donne il levirato, cioè l’obbligo di sposare il fratello nel caso di morte
del marito; o il sororato, cioè l’obbligo di sposare il vedovo della propria defunta sorella, nati
probabilmente per attenuare la pratica del suicidio delle vedove che erano elemento di disordine
sociale; ad es. in India si è conservato il sati, cioè l’obbligo per la vedova di un uomo di darsi la
morte alla morte di lui, lasciandosi bruciare sulla sua pira funeraria.
Anni ’30 Evans-Pritchard studioso inglese che studia i Nuer, popolazione del Sudan. Qui
osserva che una donna poteva sposare un’altra donna e diventare padre dei figli della moglie:
non ha nulla a che fare con l’omosessualità, i motivi erano ad es. la perpetuazione del cognome
di famiglia, però la donna marito doveva trovare qualcuno che ingravidasse la moglie per lei che
poi diventava padre a tutti gli effetti; la donna marito poteva avere anche più mogli se era
abbastanza ricca da pagare il prezzo della sposa e da mantenerle; svolgeva tutti i compiti e le
attività di un marito uomo e i figli e la moglie si rivolgevano a lei come se fosse stato un uomo.
Tra i Nuer comunque il matrimonio più comune è il matrimonio con lo spettro. Se un uomo
moriva senza lasciare eredi maschi si pensava che avrebbe lasciato sulla terra uno spirito
cattivo che avrebbe danneggiato i suoi parenti ancora in vita; lo spirito sarebbe stato arrabbiato
perché tra gli obblighi Nuer vigeva quello secondo cui un uomo doveva essere ricordato dai figli
e il nome deve perpetuarsi; quindi alla morte senza eredi maschi un parente sposava una donna
in suo nome, che quindi risultava sposata con lo spirito; più figli facevano e più accresceva la
fama del nome dello spirito.
Per stabilizzare alleanze tra lignaggi e tra clan o semplicemente per liberarsi di una prole troppo
numerosa, in alcune società si praticano matrimoni infantili o casi di bambine date in sposa ad
uomini adulti.
In genere, in tutte le società lo scioglimento del matrimonio è scoraggiato per problemi di
ricollocazione delle persone e dei ben, tuttavia tutte le società ammettono forme di scioglimento
del matrimonio. La forma tradizionale più diffusa era il ripudio unilaterale da parte del marito,
oggi il divorzio è ammesso per legge in tutti i paesi occidentali e ha disposizioni che tutelano le
donne.
Altro aspetto del matrimonio è il luogo dove la coppia va ad abitare: la residenza sarà patrilocale
nel caso di patrilignaggi e matrilocale nel caso di matrilignaggi, ma sono possibili anche
residenze neolocali cioè distinte da entrambi i lignaggi. Si parlerà di residenza virilocale nel caso

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in cui essa sia decisa in base alle appartenenze e ai legami del marito; e uxorilocale quando a
prevalere sono i legami genealogici della moglie.
2.5.6 La procreazione e l’allevamento degli infanti
In tutte le società esistono dispositivi di regolamentazione delle nascite al fine di conservare
l’equilibrio tra popolazione e risorse, questo può avvenire sia in senso limitativo che in senso
incrementante. Vi sono poi pratiche volte a prevenire il concepimento quali l’astinenza o l’uso di
contraccettivi. Inoltre molte società mettono in atto pratiche abortive, fino ad arrivare
all’infanticidio femminile, praticato ad es. nella cultura cinese.
Quando il bambino nasce, deve essere integrato nel gruppo sociale di cui farà parte, ciò avviene
sempre tramite la celebrazione di un rito; prima di ciò viene la questione del nome che ha alto
contenuto simbolico poiché può trasmette al neonato l’eredità ideale degli avi, o essere un
auspicio. Dopodiché il neonato inizierà il suo percorso di inculturazione, parzialmente basato
sull’imitazione da parte dei bambini dei comportamenti degli adulti, ma soprattutto su interventi
educativi degli adulti organizzati diversamente a seconda delle società. In questo processo i riti
scandiscono le tappe della crescita sociale e culturale degli infanti; in particolare alcune società
scandiscono il passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta attraverso i riti di iniziazione
costituiti in genere da alcune prove fisiche e psichiche. Questi fanno parte dei riti di passaggio
che sono presenti in ogni società e finalizzati a scandire il passaggio di un individuo o di un
gruppo da una condizione sociale ad un’altra. Ad es. un rito di passaggio presente in tutte le
società e irrinunciabile è quello del funerale che conserva un peso religioso o rituale.
Attorno al tema dei riti di passaggio si sviluppa il lavoro di Van Gennep. La sua opera ha subito
una specie di ostracismo da parte della tradizione soprattutto da parte di Mauss il quale lo
accusava di lavorare in un’ottica evoluzionistica. Per questo motivo il suo lavoro è rimasto per
molto tempo nell’ombra e solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, in particolare dopo la morte di
Mauss, viene riconosciuto.
L’opera più famosa è “I riti di passaggio” (1909). In quest’opera egli dice che la vita di ognuno di
noi è scandita da una serie di riti, riti di passaggio, che sanzionano pubblicamente il passaggio
da una condizione sociale ad un’altra. I riti di passaggio hanno la funzione di agevolare il
cambiamento, fare in modo che questo avvenga senza traumi, ne per il soggetto che lo vive, né
per la società. All’interno di ogni singolo rito ci sono tre fasi, ognuna segnata da un rituale
specifico:
- separazione, con i riti preliminari;
- margine, con i riti liminari;
- aggregazione, con i riti postliminari.
Van Gennep attribuisce molta importanza alla fase di margine, che è una fare molto delicata
perché l’individuo non è più quello che era prima, ma non è ancora qualcos’altro.
Lo scopo principale dei riti di passaggio è quello di rendere meno traumatico il cambiamento e di
fornire un riconoscimento collettivo all’intero complesso di relazioni, nuove o alterate.

CAPITOLO 3 - PANORAMICA DELLE TEORIE ANTROPOLOGICHE


3.1 TEORIE ANTROPOLOGICHE
Dalla nascita dell’antropologia, nella seconda metà del XIX secolo, le prime fasi furono dominate
dalle prospettive evoluzionistiche associate a Morgan e Taylor. L’inizio del XX secolo testimoniò
svariate reazioni all’evoluzionismo del secolo precedente. In Gran Bretagna Malinowski e
Radcliffe-Brown, funzionalisti abbandonano lo storicismo speculativo degli evoluzionisti per
dedicarsi allo studio delle società del presente. Negli USA Boas e i suoi seguaci rifiutarono la
ricerca di stadi evolutivi a favore di un approccio storico. Sia i funzionalisti sia i seguaci di Boas
consideravano le culture come insiemi integrati e strutturati.

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Nella metà del XX secolo, dopo la Seconda guerra mondiale e la crisi del colonialismo, si
rinnovò l’interesse per il cambiamento. Altri antropologi si concentrarono sulla natura e sulla
base simbolica della cultura per portare alla luce significati e simboli. Dagli anni ’80 si sviluppò
un interesse per la relazione tra cultura e individuo. Vi fu una riaffermazione dell’interesse per gli
approcci storici.
L’antropologia contemporanea si distingue per una specializzazione crescente basata su
argomenti e identità professionali definite.
Panoramica
L’antropologia culturale nasce nella seconda metà del ‘800 in Inghilterra e USA. La teoria che
dominava questa nuova disciplina era l’evoluzionismo unilineare di Morgan e Taylor, secondo cui
le diverse società erano destinate a percorrere in tempi diversi le stesse tappe evolutive. Con
Boas e Malinowski l’antropologia entra in una nuova fase caratterizzata da una metodologia
incentrata sulla ricerca sul campo, la conoscenza delle lingue native e minor propensione alle
comparazioni universali. Inoltre, all’inizio del ‘900, lo studio delle rappresentazioni collettive dei
gruppi permette alla nascente etno-sociologia francese di Durkheim e Mauss di contribuire allo
sviluppo dell’antropologia. Nel corso del XX secolo il funzionalismo inglese e il particolarismo
storico americano determineranno il quadro antropologico mettendo da parte l’evoluzionismo.
Questo sarà recuperato verso la metà del secolo in chiave multilineare nell’ecologia e nel
materialismo culturale statunitense di Steward e Harris. Nella seconda metà del ‘900 lo
strutturalismo francese di Lévi-Strauss e poi l’antropologia interpretativa di Geertz
modificheranno in modo determinante il lavoro dell’antropologo, collocando la disciplina al centro
dei dibattiti teorici ed epistemologici delle scienze sociali.
Distinzione tra etnografia, etnologia e antropologia
Questa differenziazione si deve a Lévi-Strauss
L’etnografia è il metodo con cui operano le ricerche sul campo delle scienze
etnoantropologiche; fare etnografia significa recarsi sul luogo della popolazione che si intende
studiare ed utilizzare tecniche di ricerca allo scopo di collezionare un insieme di dati che una
volta interpretati rendano possibile la comprensione della cultura in esame. È inscritta
nell’antropologia infatti le etnografia e antropologia sono considerati due livelli del sapere
antropologico.
L’etnologia, complemento “teorico” dell’etnografia, si occupa di studiare e confrontare le
popolazioni attualmente esistenti nel mondo.
L’antropologia è la fase dell’elaborazione teorica.

3.2 EVOLUZIONISMO
Nel corso del XIX secolo Morgan e Taylor scrissero volumi divenuti classici dell’antropologia.
Tra i volumi più importanti di Morgan si ricorda “La società antica”, opera chiave dell’evoluzione
culturale ed esempio dell’evoluzionismo; parte dal presupposto che la società umana si sia
evoluta attraverso una serie di fasi: stato selvaggio, barbarie e civiltà, suddivise a loro volta in
stato inferiore, medio e superiore. Dunque nella schematizzazione di Morgan lo stato selvaggio
è caratterizzato da un’economia di sussistenza dove gli esseri umani si nutrono di frutta e
bacche, poi iniziano a pescare e a controllare il fuoco e infine inventano arco e frecce; nello stato
della barbarie si creano i primi utensili in terracotta, si addomesticano gli animali e si coltivano
piante, si lavora il ferro; la civiltà giunge con l’invenzione della scrittura. Questa interpretazione
dell’evoluzione della specie umana, propria di M., è noto come evoluzionismo unilineare

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perché parte dal presupposto che esista una sola linea di evoluzione per tutte le società che
quindi potevano rientrare tutte nella stessa schematizzazione.
Altra opera importante di M. è “La lega degli Irochesi”, prima opera etnografica in campo
antropologico basata più sul lavoro sul campo occasionale piuttosto che sistematico poiché egli
non aveva ricevuto una vera e propria formazione professionale come antropologo; avvocato di
New York amava andare in visita in una riserva di indiani Seneca, una delle 6 tribù irochesi.
Grazie a questo lavoro sul campo M. fu in grado di descrivere la storia, le tradizioni e i principi
strutturali su cui si basava la società irochese, poi si impegnò come legale a favore della loro
causa, anche se all’interno dell’opera si possono cogliere presupposti razzisti.
In “Primitive Culture” Taylor proponeva una definizione di cultura intesa come argomento che
poteva essere studiato scientificamente; in questo volume sviluppa il proprio personale
approccio evoluzionistico all’antropologia delle religioni in un percorso unilineare che partiva
dall’animismo passando per il politeismo e il monoteismo fino a giungere alla scienza. T. infatti
riteneva che la religione sarebbe finita con la perdita della sua funzione primaria di spiegare
l’inspiegabile.
Appunti Bonato: Sia Morgan sia Taylor erano interessati alle sopravvivenze, quelle pratiche
che si supponeva fossero sopravvissute dai primi stadi dell’evoluzione fino alla civiltà,
considerate prove del percorso unilineare evolutivo.
Si sviluppa nell’ultimo trentennio dell’800. L’esponente di maggior rilievo era Morgan. Altri nomi
importanti sono quelli di Tylor e Frazer.
Il punto fondamentale di questa corrente è che tutte le società e le culture si sviluppano da forme
elementari, indifferenziate, verso forme più complesse. Questo sviluppo avviene seguendo una
successione di stadi che è identica e obbligatoria per tutti. Queste tappe sono:
• la fase selvaggia, caratterizzata da un’economia di sussistenza e dall’utilizzo del fuoco;
• la fase barbarica, dove si sanno usare in più gli strumenti per la caccia e della pesca;
• la fase civile, la cui peculiarità è data dalla presenza delle istituzioni.

Teoria della poligenesi: ritiene che gli stessi fatti culturali siano nati in tempi e luoghi diversi in
maniera indipendente. Gli studiosi che sostenevano questa teoria utilizzavano la comparazione,
cioè mettevano a confronto fenomeni culturali diversi senza porsi dei limiti né dal punto di vista
geografico né temporale.

3.3 LA SCUOLA DI BOAS - DIFFUSIONISMO


Franz Boas è considerato il padre delle scienze antropologiche negli Stati Uniti e della loro
suddivisione in 4 discipline secondarie ispirata dall’interesse per i Nativi americani: la loro
cultura, storia, linguaggio e caratteristiche fisiche e somatiche. Con la raccolta di saggi “Race,
Language and Culture” B. contribuì all’antropologia culturale, a quella biologica e a quello
linguistica. Egli mostrò che la biologia umana può essere modellata e modificata dall’ambiente e
dalla cultura, infatti lui e i suoi allievi si impegnarono per dimostrare che non era la biologia e
quindi la razza a determinare la cultura; Ruth Benedict in un suo volume sottolineò inoltre che la
civiltà non era dunque una conquista di una singola popolazione.
Boas, diffusionista, ha fatto degli studi sulla popolazione dei Kwakiutl della Colombia
occidentale; B. intendeva studiare la loro narrativa popolare, ma si trovava impossibilitato perché
la popolazione era sempre intenta a fare il potlatch era un evento organizzato dai notabili del
villaggio per affermare la loro posizione sociale; questi eventi erano grandi banchetti in cui si
beveva e si mangiava in maniera spropositata, l’obiettivo era quello di mostrare l’abbondanza di
modo da riconfermare o recuperare il prestigio sociale dell’organizzatore e inoltre poteva attirare
persone da altri villaggi; quando arrivano i colonizzatori questi eventi oltre alla peculiarità del
cibo si distruggono coperte e oggetti portati dall’Occidente. è un rito di redistribuzione del cibo
che accendeva rivalità tra villaggi o tra notabili dello stesso villaggio ma B. la considera

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positivamente perché aumentava la produttività. Con l’arrivo dei colonizzatori cambia
connotazione e diventa un evento distruttivo.
Appunti Bonato: Si sviluppa tra fine 800 e il primo trentennio del 900. Ha seguaci sia negli USA
sia in Europa, ma l’esponente di maggior spicco si chiama Boas.
Teoria della monogenesi ritiene che determinati fatti culturali abbiano avuto origine in un luogo
preciso e in un momento preciso e che da lì si siano diffusi nel resto del mondo.
3.3.1 Particolarismo storico
Boas e i suoi allievi criticarono molti aspetti delle teorie di Morgan, in primo luogo i metodi
utilizzati per la definizione dei vari stadi dell’evoluzione umana. Fu così che svilupparono il
particolarismo storico, basato sull’idea che ogni elemento della cultura avesse una propria
storia distintiva, e che forme sociali che potevano sembrare simili non lo fossero in virtù delle
storie diverse che le avevano contraddistinte. Questa posizione dunque rifiutava il metodo
comparativo e la generalizzazione a favore di un approccio storico caratterizzante, ponendosi
quindi in contrasto con Morgan e Taylor e con la maggior parte degli orientamenti di epoca
successiva.

3.3.2 Invenzione indipendente e diffusione


Gli evoluzionisti, per spiegare le generalità culturali condivise da alcune società ma non da tutte,
proponevano l’idea dell’invenzione indipendente secondo cui popolazioni di aree diverse erano
pervenute alla stessa soluzione a un problema comune. I seguaci di Boas invece sottolinearono
l’importanza della diffusione, ovvero del processo di mutuazione da altre culture. Per studiare il
fenomeno della diffusione utilizzarono come unità analitiche il tratto culturale (ad es. arco e
frecce), il complesso di tratti (ad es. configurazione della caccia associata all’uso di arco e
frecce) e l’area culturale (area di diffusione di tali tratti) che avevano confini ambientali che
limitavano la diffusione dei tratti culturali. Quindi secondo la scuola boasiana diffusione e
particolarismo storico erano complementari: la diffusione dei tratti culturali aveva portato allo
sviluppo delle storie particolari a essi associate.
3.4 FUNZIONALISMO
Nasce in Gran Bretagna e si divide in due correnti: quella inglese e quella di Praga. Questa
corrente mette in secondo piano la ricerca delle origini per concentrarsi sul ruolo dei tratti e delle
pratiche culturali nella società contemporanea.
Appunti Bonato: Si sviluppa tra le due Guerre Mondiale e si distingue in Funzionalismo inglese
e funzionalismo praghese, la cui differenza non stava negli oggetti presi in esame, ma nel modo
di concepire i sistemi socioculturali. Il maggior esponente è Malinowski.
Per entrambe le correnti del funzionalismo le società e i loro meccanismi sono concepiti come
dei sistemi in cui tutti gli elementi che li compongono sono collegati tra di loro. Ne consegue che
al mutamento di un solo elemento corrisponde un qualche mutamento anche negli altri.
3.4.1 Malinowski
Malinowski, polacco, considerato il padre dell’antropologia moderna, fu un pioniere del lavoro
sul campo e fu funzionalista in 2 sensi:

• riteneva che tutti gli usi, le tradizioni e le istituzioni di una società fossero integrati e correlati,
cosicché il cambiamento di uno di essi comportava la modifica degli altri, ogni singolo
elemento era funzionale all’altro.

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• credeva che gli esseri umani avessero un insieme di bisogni biologici universali e che usi e
tradizioni venissero sviluppati allo scopo di soddisfare tali bisogni, funzionalismo dei bisogni
umani.
Malinowski, funzionalista, nel 1922 ha scritto un testo che ha segnato l’antropologia “Gli
argonauti del Pacifico occidentale”; è uno studio sulle popolazioni delle isole Trobriand e studia il
commercio kula che avveniva con le isole vicine tramite viaggi in canoa in mare aperto, lo
scopo di questo commercio era scambiare ornamenti e gioielli di conchiglie. Con il sud est si
davano bracciali e si ricevevano collane, con il sud ovest si davano collane e si ricevevano
bracciali. Partecipare al kula era un’ambizione dei giovani e una passione per i vecchi. Le canoe
su cui si viaggiava trasportavano oggetti di grande valore per i commercianti; il kula è
un’istituzione che serve a intrattenere pacifiche relazioni tra le isole e avviene in due sensi
perché in tal modo si allarga la rete di partner commerciali (scambio bracciali con collane e da
un’altra parte collane con bracciali).
3.4.2 Storia congetturale
Radcliffe-Brown, altro esponente principale del funzionalismo, non si affidava né alle
ricostruzioni evoluzionistiche né a quelle diffusioniste: visto che la storia è congetturale, cioè
basata su congetture, spingeva gli antropologi a concentrarsi sul ruolo di specifiche pratiche
nella vita di società del presente. Egli sosteneva che l’antropologia fosse una scienza sincronica
e che quindi studiasse le società per come esistono oggi, piuttosto che diacronica, cioè nel corso
del tempo.
3.4.3 Funzionalismo strutturale
Il funzionalismo strutturale è associato a Radcliffe-Brown e a Evans-Pritchard, antropologo
britannico. Secondo questa teoria la funzione delle tradizioni culturali, delle norme e delle
pratiche sociali è di preservare la struttura sociale; R-B. pensava infatti che i sistemi sociali
potessero essere paragonati ai sistemi anatomici e fisiologici.
3.4.4 Dal funzionalismo strutturale all’analisi del conflitto
Alcuni modelli del funzionalismo strutturale sono stati criticati come “panglossiani” (Candide di
Voltaire, “le meilleur du monde possible”). Funzionalismo panglossiano significa considerare il
funzionamento delle parti in modo ottimale, anziché solo come conservazione del sistema. La
Scuola di Manchester indaga società in trasformazione dove la centralità e l’equilibrio venivano
meno; Gluckman e Turner si dedicarono all’analisi del tema del conflitto, senza però
abbandonare il funzionalismo.
3.4.5 La persistenza del funzionalismo
Al giorno d’oggi persiste una forma di funzionalismo che sostiene che esistano sistemi sociali e
culturali i cui elementi siano funzionali uno all’altro, in modo da risultare covarianti, se una si
modifica si modificano anche le altre. Inoltre permane l’idea che alcuni elementi, spesso quelli
economici, siano più importanti di altri.
3.5 CONFIGURAZIONISMO
Il configurazionismo è stato sviluppato da 2 allieve di Boas, Mead e Benedict, ed è collegato
al funzionalismo poiché anche in questo caso la cultura è considerata un sistema integrato. Dato
lo studio sulla diffusione dei tratti culturali della scuola boasiana, Benedict sottolineò che,
malgrado questa diffusione possa provenire da svariate direzioni e possa incontrare delle
barriere, i tratti di una cultura presentano modelli definibili sulla base di una integrazione univoca
di tratti, come descritto nella sua opera più nota “Patterns of Culture”.

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L’interesse principale di Mead invece era il modo in cui le culture variavano nei relativi modelli di
inculturazione; considerò la cultura come una potente forza in grado di creare possibilità infinite.
Il suo scritto più famoso è “Coming of Age in Samoa” in cui confronta la vita delle adolescenti a
Samoa con quelle americane. I risultati a cui pervenne sostenevano l’ipotesi di Boas secondo
cui è la cultura e non la biologia a determinare variazioni nei comportamenti e nella personalità
umani. Altro volume della M. che sostiene il determinismo culturale è “Sesso e temperamento
in tre società primitive” in cui documenta la variazione nel comportamento e nei tratti della
personalità maschile e femminile tra alcune popolazioni della Nuova Guinea.
Appunti Bonato: Viene inaugurato da due allieve di Boas, Mead e Benedict. Questa corrente
concepisce la cultura come un sistema integrato, come un tutt’uno, dunque è molto legata al
funzionalismo. Invece Boas con il diffusionismo ragiona sulla distribuzione geografica dei tratti
culturali, ma riconosce comunque che questo fenomeno della diffusione dei tratti culturali non è
così automatico perché può essere frenato da barriere ambientali, può essere accettato o meno
da un cultura specifica, e dunque magari quel tratto culturale in certe aree non si diffonde. Ci
deve essere un elemento che faccia sì che questo tratto di cultura che arriva da un’altra parte
venga accettato da un altra cultura, ci deve essere qualcosa che permetta di acquisirlo. Alcuni
tratti possono essere modificati per essere accettati da un’altra cultura.

3.6 NEOEVOLUZIONISMO
Il neoevoluzionismo ha origine intorno al 1950 con la fine della Seconda guerra mondiale,
quando si sviluppa un movimento di opposizione al colonialismo. Gli antropologi americani
White e Steward, maggiori esponenti, sostenevano la necessità di reintrodurre il concetto di
evoluzione all’interno dello studio della cultura. Nel volume “The Evolution of Culture” White
proponeva di tornare allo stesso concetto di evoluzione culturale indicato da Morgan e Taylor,
ma approfondito da un secolo di scoperte archeologiche. Questo approccio è stato definito
evoluzione generale, cioè basato sull’idea che sia possibile considerare l’evoluzione della
cultura come un insieme grazie all’impiego di dati e reperti archeologici, storici ed etnografici; ma
a differenza dell’evoluzionismo unilineare del XIX secolo, si rese conto che culture specifiche
potevano evolversi seguendo la medesima direzione.
Nel volume “Teoria del mutamento culturale” Steward propose il modello nuovo
dell’evoluzionismo multilineare, il quale mostrava il modo in cui le culture si erano evolute
lungo molteplici e differenti linee. Egli svolse inoltre un ruolo pionieristico in quell’ambito che oggi
si chiama antropologia ecologica.
A differenza di Mead e Benedict, White e Steward si dedicarono allo studio delle cause.
Secondo W. la disponibilità di energia costituiva il principale metro di misura e il motore del
progresso culturale; S. invece individuò nella tecnologia e nell’ambiente le principali cause del
mutamente culturale.
Appunti Bonato: Nasce nel secondo dopoguerra. I massimi rappresentanti sono White e
Steward. Gli antropologi si oppongono al colonialismo e sono molto interessati all’evoluzione
umana. Introducono il concetto di evoluzione nello studio della cultura.

3.7 MATERIALISMO CULTURALE


Il materialismo culturale di Harris, proponeva una teoria secondo la quale tutte le società
possedevano un’infrastruttura costituita da tecnologia, economia e demografia. Da qui
emergeva la struttura, ovvero le forme di parentela e discendenza, modelli di distribuzione e
consumo. Il terzo livello era costituito dalla sovrastruttura, cioè la religione, l’ideologia, il gioco e

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tutti gli aspetti della cultura non strettamente necessari alla sopravvivenza della società. Il
concetto chiave di Harris, condiviso da White e Steward e da Marx, era che in ultima analisi
l’infrastruttura determinasse la struttura la sovrastruttura. Perciò H. si oppone a teorici che
sostenevano il ruolo preponderante della religione, come ad es. Weber.
Appunti Bonato: Di questa cultura si fa portavoce Marvin Harris, il quale afferma che tutte le
società possiedono un’infrastruttura data dall’economia, dalla demografia, dalla tecnologia , cioè
dai sistemi di produzione e riproduzione. Dall’infrastruttura secondo Harris emerge la struttura,
data dalle forme di parentela e di discendenza, dalla distribuzione, dal consumo. Infine c’è un
terzo livello dato dalla sovrastruttura, data dalla religione, le ideologie. Di questi tre livelli il primo,
l’infrastruttura, domina gli altri due.

3.8 CULTURA E INDIVIDUO


3.8.1 La culturologia
White, evoluzionista e sostenitore dell’energia come metro di misura del progresso culturale,
definì l’antropologia culturale culturologia. Egli riteneva che le forze culturali avessero una
potenza tale da rendere marginale il ruolo dei singoli individui, di conseguenza sosteneva che
fossero grandi forze culturali a creare grandi individui; come prova di tale teoria sottolinea il
carattere simultaneo delle scoperte.
3.8.2 Il superorganico
Kroeber, determinista antropologo allievo di Boas, definì la cultura con il termine di
superorganico, questo concetto inaugurò un nuovo campo di analisi. Come White, Kroeber
considerava la cultura come la base della futura antropologia culturale e in un suo testo cercò di
dimostrare il potere della cultura sull’individuo, concentrandosi su stili e mode specifiche. Da
questi studi risultava secondo K. che molti individui venivano trascinati dalle tendenze a seconda
delle epoche; tuttavia non tentò di spiegare tali mutamenti ma si limitò ad utilizzarli come
dimostrazione della sua teoria, come fece la Mead.
3.8.3 Durkheim e i pionieri dell’etnologia francese
In Francia, Durkheim propose una nuova scienza sociale basata sulla conscience collectif e
sullo studio di fatti sociali. Intorno a questi concetti si svilupperà l’etno-sociologia francese i cui
principali esponenti oltre a D. saranno Hertz, ricordato per il suo “Contributo allo studio sulla
rappresentazione collettiva della morte” e per aver inaugurato l’antropologia alpina; e Mauss con
il suo “Saggio sul dono”.
3.9 ANTROPOLOGIA SIMBOLICA E INTERPRETATIVA
Turner fu membro della scuola di Manchester, fu autore di volumi e saggi dedicati ai rituali e ai
simboli come “Schism and Continuity in an African Society” in cui mostra interesse per gli
elementi conflittuali e per la loro risoluzione; “La foresta dei simboli” è una raccolta di saggi
sull’analisi dell’universo simbolico e dei rituali degli Nbembu dello Zambia. T. riconosceva i
collegamenti esistenti tra l’antropologia simbolica e altri campi di studio come la psicologia, la
psicologia sociale e la psicoanalisi. L’antropologia simbolica si collega all’antropologia
interpretativa di Geertz, il quale definisce la cultura come una serie di concetti basati su simboli
e apprendimento culturale. L’approccio dell’antropologia interpretativa è di avvicinarsi alle culture
come a testi i cui significati devono essere decifrati in specifici contesti storici e culturali. Grazie
agli studi di Geertz, si è sviluppata una riflessione nell’antropologia contemporanea incentrata
sull’analisi del rapporto tra gli antropologi e i loro interlocutori durante la ricerca sul campo.
3.10 STRUTTURALISMO

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Lo strutturalismo è associato a Lévi-Strauss, il quale si propone di scoprire rapporti, temi e
collegamenti tra i vari aspetti della cultura, anziché spiegarli. Questa prospettiva di indagine
antropologica si basa sulla convinzione che la mente umana abbia dei tratti universali che hanno
origine in determinate caratteristiche comuni al cervello dell’Homo sapiens. Tali strutture comuni
portano individui di qualsiasi luogo a utilizzare gli stessi meccanismi cognitivi,
indipendentemente dalla società o dal background culturale di appartenenza. Uno di questi tratti
universali è il bisogno di classificazione che solitamente funziona per opposizione binaria cioè
per antitesi, riflettendo il bisogno umano universale di convertire le differenze di grado in
differenze di specie. Lévi-Strauss verificò la sua teoria analizzando i miti e rivelando come essi
siano costruiti attorno a strutture elementari dette mitemi, le quali permettono di convertire una
storia in un’altra tramite piccoli cambiamenti. Benché L. abbia dominato e condizionato l’ambito
dell’antropologia, a partire dagli anni ’50 si svilupparono approcci teorici lontani dallo
strutturalismo. Balandier propose un’antropologia più attenta al contesto storico dell’epoca e
alle dinamiche culturali, sociali ed economiche determinate dal colonialismo, orientando così la
ricerca antropologica verso la valorizzazione delle trasformazioni sociali.

3.13 CULTURA, STORIA, POTERE


Approcci più recenti nel campo dell’antropologia storica si sono concentrati maggiormente sul
concetto di agency locale da parte di individui e gruppi all’interno di società colonizzate. Gli studi
incentrati su cultura, storia e potere hanno attinto dal lavoro di Gramsci e Foucault. Gramsci
sviluppò il concetto di egemonia riferito a un ordine sociale stratificato in cui gli elementi
subordinati si allineano e aderiscono alla condizione di dominazione accettandola e
interiorizzandone i valori. Bourdieu e Foucault sostenevano che fosse più dominare le menti
degli individui piuttosto che i loro corpi.
3.14 GLI STUDI DEMOETNOANTROPOLOGICI IN ITALIA
Lo sviluppo dell’antropologia in Italia è stato lento e disuguale e, pur possedendo una propria
tradizione di ricerca orientata parzialmente verso lo studio delle società e della cultura italiane, il
nostro paese è stato oggetto di studio di antropologi stranieri, inglesi e nordamericani. Lo stato
attuale dell’antropologia in Italia è comprensibile solo se si ripercorre la sua storia, la quale è
passata attraverso 2 grandi scismi che l’hanno caratterizzata.
3.14.1 Dalle origini alla metà del ‘900
L’antropologia italiana è nata istituzionalmente nel 1869 con la creazione della prima cattedra
di antropologia affidata a Mantegazza a Firenze, allora capitale del Regno d’Italia. Mantegazza,
di formazione medica, portò l’antropologia fisica verso un campo di interessi più vasto, che
sottolineava l’importanza dell’etnologia. Nel 1864 pubblicò “Fisiologia del piacere” che diede
scandalo e segnò una svolta per l’antropologia poiché diede alla disciplina un’impronta laica e
una visione biologica; crea la Società Italiana di Antropologia ed Etnologia, il Museo e una
rivista. La sua concezione inaugura una nuova scienza dai confini più ampi che indaga l’uomo
come specie e come individuo e che è interessata anche ad usi e costumi dei popoli ma più in
senso di antropologia fisica piuttosto che culturale mettendo in primo piano il determinismo
biologico piuttosto che l’ambito socio-culturale.
Nata a Firenze, l’antropologia si sviluppò a Roma, nuova capitale, la cui scena fu dominata da
Sergi. Nel frattempo i musei si moltiplicarono grazie alle campagne etnografiche condotte da
viaggiatori ed esploratori quali ad es. Loria, il quale si converte dall’etnografia esotica allo studio
del mondo popolare italiano (demologia), avvicinandosi così a folkloristi come Pitrè, al quale fu
affidata una cattedra di Demopsicologia nel 1910.

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Giuseppe Cocchiara, siciliano che nel secondo dopoguerra ha introdotto il termine folklore
nell’accezione inglese per indicare quella disciplina che studia le tradizioni popolari. Oggi il
termine ha assunto una connotazione parzialmente negativa perché viene impiegata nell’ambito
turistico per etichettare manifestazioni, eventi, spettacoli legati alla tradizione.
Folklore, termine coniato nel 1846 da Thoms, archeologo inglese, come traduzione del tedesco
“volkunde” già in uso dagli inizi del ’800 che significa “credenze del popolo” e indicava tutte le
testimonianze del passato che ancora sopravvivevano in alcune zone e presso alcune fasce
della popolazione.
Il folklore europeo per gli evoluzionisti era il punto di contatto tra i popoli civili e quelli primitivi,
per loro era la testimonianza di precedenti stadi evolutivi perché esso consente di ripercorre
l’evoluzione di un popolo.
Il folklore subisce 2 importanti modifiche semantiche:

• l’ambito di applicazione si estende anche alle popolazioni extraeuropee


• il concetto si restringe perché viene circoscritto a quella parte della cultura caratterizzata dalla
trasmissione orale
Agli inizi del ‘900, alla vigilia della Prima guerra mondiale, si assiste al primo grande scisma
dell’antropologia italiana, causato dalla separazione netta tra antropologia fisica, la quale
accentuò lo statuto scientifico della disciplina, ed etnologia, che fu assegnata alle discipline
umanistiche; quest’ultima, più debole al momento della separazione, ebbe occasioni limitate di
sviluppo professionale anche a causa dell’avversione della filosofia idealista e di Croce. Nel
periodo tra le due guerre, anche a causa dell’obbligo di adesione formale al fascismo e alle
teorie razziste, l’etnologia italiana si concentrò sullo studio delle religioni, guidato da padre
Schmidt. Uno dei suoi critici più accesi fu Pettazzoni, celebre storico delle religioni, che però
condivideva la propensione di Schmidt a ridurre l’etnologia allo studio comprato della religione
primitiva. Dunque verso il 1950 gli etnologi italiani si dividevano in 2 schieramenti opposti: da un
lato i sostenitori Schmidt e dall’altro quelli di Pettazzoni.
Dal 1960 il termine etnologia cominciò a perdere terreno in favore dell’antropologia culturale,
denominazione importata dagli USA da Tentori; qui il termine assunse un’accezione
dichiaratamene polemica che intendeva opporsi a quello che veniva associato all’etnologia,
intesa come studio delle società primitive, per dedicarsi allo studio delle società complesse
contemporanee. I sostenitori di questo orientamento concepivano l’antropologia culturale come
una scienza sociale applicata, capace di incidere sui processi decisionali e di riforma sociale,
questo contribuì al successo della disciplina. Questa è una vicenda simile agli sviluppi in altri
paesi europei, tuttavia l’Italia presenta delle singolarità: ad es. la riluttanza di molti esponenti
dell’antropologia culturale a creare una disciplina che comprendesse insieme lo studio di società
semplici e complesse, fu questo il secondo grande scisma.
3.14.2 Uno sviluppo istituzionale frammentato
La prima cattedra di Etnologia fu istituita alla vigilia delle manifestazioni studentesche del ’68 e
della riforma del ’69 che cambiò l’assetto del sistema universitario italiano (accesso all’uni a tutti
quelli con diploma di scuola secondaria e fine della distinzione tra materie fondamentali e
complementari).
Prima cattedra di Antropologia culturale nel ’70 a Bologna affidata a Bernardi. La varietà della
formazione della prima generazione di antropologi culturali italiani, portò all’assottigliarsi delle
frontiere tra antropologia culturale e demologia fino alla fusione delle 2 nell’antropologia
nazionale, fortemente influenzata da Gramsci e De Martino, tra i primi a condurre ricerche nel
Mezzogiorno italiano. Questa triplice origine dell’antropologia italiana (antropologia

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fisica+etnologia+demologia) ha portato alla sua designazione come discipline
demoetnoantropologiche, Cirese.
3.14.3 Campi di ricerca, orientamenti teorici attuali e nuove sfide
Il dilemma degli anni ’60 e ’70 era causato dalla persistenza di due orientamenti opposti di peso
numerico equivalenti: da un lato coloro interessati allo studio della società italiana o europea, e
dall’altro coloro interessati allo studio di società extraeuropee; la caduta delle barriere che
intercorrevano tra i due schieramenti ha permesso un confronto istruttivo tra tradizioni di ricerca
e una maggiore convergenza attorno a temi di dibattito comuni.
Ad oggi si sono sviluppati nuovi interessi antropologici dovuti alla globalizzazione. L’aumento di
interesse più evidente negli ultimi anni è stato registrato da temi quali etnicità, identità/alterità,
migrazioni, multiculturalismo, che stanno eclissando i campi classici dell’antropologia. Se gli anni
’60 e ’70 sono stati un decennio di crescita tumultuosa e gli anni ’80 e ’90 sono stati periodo di
assestamento, il nuovo millennio impegna l’antropologia italiana in sfide difficili e impreviste di
rinnovamento e adattamento.
3.15 L’ANTROPOLOGIA OGGI
Se i primi antropologi americani si interessavano a più campi di ricerca in contemporanea, dagli
anni ’70 la tendenza dominante dell’antropologia è stata la progressiva specializzazione. Quindi
gli antropologi approcciano il campo con uno specifico problema pre strutturato. Se prima il
lavoro sul campo consisteva in un periodo di permanenza molto lungo, oggi gli antropologi
seguono flussi di individui ed informazioni in diverse località.
Oggi, l’American Anthropological Association comprende tutte le specializzazioni
dell’antropologia che spaziano da quella biologica, archeologica, linguistica, culturale, applicata,
urbana, psicologica, politica. I membri di questi gruppi, che sono antropologi nativi, sostengono
di essere maggiormente qualificati nello studio del tratto identitario che rappresentano, rispetto a
membri esterni. In ogni caso per fare antropologia è sempre necessario provare a essere
consapevoli dei propri pregiudizi e della propria incapacità totale di evitarli e di conseguenza
provare a combinare l’obiettivo irrinunciabile dell’oggettività con lo scetticismo sulla propria
capacità di raggiungerlo.

CAPITOLO 5 - LA RICERCA ANTROPOLOGICA


La ricerca antropologica si identifica con la ricerca sul campo, questa esperienza di
ricognizione delle diversità e delle somiglianze della specie umana è resa possibile innanzitutto
dalla disposizione mentale e morale di chi fa ricerca ed è finalizzata alla produzione di
comparazioni, riflessioni ed interpretazioni. In questa prospettiva il soggiorno sul campo non è
indispensabile, infatti vi sono “antropologi da tavolino” che hanno prodotto risultati fondamentali
per lo sviluppo della disciplina.
5.1 LE CONDIZIONI DELLA PRODUZIONE DEL SAPERE ANTROPOLOGICO: DISPOSIZIONI
MENTALI E PREMESSE EPISTEMOLOGICHE
La ricerca antropologica richiede innanzitutto il possesso di 2 requisiti fondamentali: la curiosità
intellettuale e la capacità di sospensione del giudizio. La curiosità intellettuale è una
caratteristica propria di tutti coloro che si dedicano alla ricerca scientifica, è un bisogno
intellettuale di sapere di più e porta alla consapevolezza che le conclusioni a cui si arriva sono
valide quanto destinate ad essere superate. La capacità di sospensione del giudizio invece è più
specificatamente necessaria agli antropologi, i quali devono ricordare sempre che qualunque
comportamento essi stiano osservando, esistono sempre 2 definizioni (giudizi di fatto) e 2
valutazioni (giudizi di valore) che corrispondono a quelle dell’antropologo e a quelle dei soggetti

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osservati. Infatti primo obiettivo della ricerca antropologica è la conoscenza della definizione e
della valutazione che i protagonisti di un comportamento danno di esso, cioè l’acquisizione del
punto di vista dei nativi. Sospendere il proprio giudizio significa evitare che esso pregiudichi e
precondizioni l’esperienza che si fa della cultura altrui, e non necessariamente rinunciarvi.
Quelli esposti sono 2 requisiti necessari ma non sufficienti, infatti ad essi si devono aggiungere
alcune premesse epistemologiche, che sono le condizioni che devono essere verificate perché
sia possibile produrre sapere antropologico, e un metodo da applicare nello svolgimento della
ricerca.
Epistemologia= studio delle condizioni sotto le quali si può avere conoscenza scientifica e dei
metodi per raggiungere tale conoscenza.
5.1.1 Le premesse epistemologiche: metodo empirico e approccio olistico
La ricerca antropologica culturale e sociale parte da ipotesi di ordine teorico e ne cerca
conferme, smentite e sviluppi sul piano empirico, sul piano dell’osservazione e interpretazione
sistematica dei comportamenti umani. Tra gli obiettivi dell’antropologia troviamo quello di
individuare i caratteri specifici e irriducibili che costituiscono la base comune della specie umana,
e quello della costruzione e del continuo aggiornamento del repertorio delle diversità.
Nell’attenzione al materiale empirico e alla comparazione, l’antropologia si dota di altri 2 principi
di metodo: il primo viene dalla secolare esperienza degli studi etnologici concentrati su piccole
formazioni sociali, questo metodo di ricerca ha prodotto strumenti utili. Ad es. l’approccio
olistico che sarebbe lo studio di tutti gli aspetti della vita di un gruppo umano in cui tutte le
attività sono intrecciate (Mauss - “Saggio sul dono”). Tuttavia le società moderne, non più coese
come quelle di un volta, sono caratterizzate da una forte divisione sociale del lavoro utile alla
loro riproduzione. Questa separazione dei sistemi costitutivi dell’esistenza umana ha
determinato la divisione dello studio della condizione umana in altrettante discipline separate.
Dunque oggi la pratica dominante è quella della separazione disciplinare che però porta alla
perdita della consapevolezza dei condizionamenti che gli ambiti della vita sociale esercitano gli
uni sugli altri. Infatti queste impostazioni di ricerca separatiste producono spiegazioni e
interpretazioni riduzioniste. In questo senso è importante per gli antropologi richiamarsi alla
tradizione olistica per porre l’attenzione sulle interdipendenze interne ed esterne alla realtà
sociale studiata.
5.1.2 Le premesse epistemologiche: osservare, ascoltare, domandare
Come abbiamo già visto, la cultura è una realtà mentale e sociale al tempo stesso, questa
duplice composizione pone agli antropologi il problema dell’impossibilità di osservare la parte
relativa alla realtà mentale. Nel corso della storia dell’antropologia vi sono stati orientamenti di
pensiero contrapposti che sostenevano da un lato l’importanza fondamentale del punto di vista
dei nativi, e dall’altro al contrario che esso non fosse indispensabile. In realtà escludere il punto
di vista degli attori sociali significa escludere la parte non istituzionalizzata della capacità ideativa
degli esseri umani e della loro produzione simbolica, rischiando di incorrere in gravi
fraintendimenti.
Osservare è importante perché:

• il processo di inculturazione produce effetti così interiorizzati che i soggetti di tale processo
considerano comportamenti, valori e azioni fatti “naturali” e non culturali e di conseguenza non
li verbalizzano = osservare per superare l’etnocentrismo dei nativi

• l'agire umano è orientato da valori, questo crea per i soggetti intervistati 2 categorie di valori:
quelli di cui non si deve parlare (comportamenti che violano le norme del gruppo) e quelli di cui
non si vuole parlare (comportamenti considerati tabù o collegati a sfere intima, magica, sacra,
personale) o i comportamenti perfettamente coerenti con i valori del gruppo e che quindi

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vengono enfatizzati o autoattribuiti = osservare per compensare il silenzio dei nativi o per
ridimensionare le esagerazioni.
Quindi approccio olistico, rilevazione del punto di vista dei nativi e osservazione sono 3
modalità interconnesse di ricerca antropologica.
5.1.3 Il soggiorno sul campo
La ricerca sul campo è un elemento imprescindibile della ricerca antropologica e deve realizzare
attraverso osservazione, interrogazione e ascolto dei soggetti sociali, la ricognizione e la
collocazione del sistema culturale di un gruppo all’interno delle interdipendenze con gli altri
sistemi economico, sociale, politico. Per realizzare questi obiettivi il soggiorno sul campo deve
essere di durata non breve, continuativo e deve avvalersi di una buona conoscenza della lingua
locale. Tuttavia, visto che l’antropologo è in primo luogo colui che esibisce una curiosità irritante,
è necessario lasciare ai soggetti il tempo per l’assimilazione della presenza dell’antropologo
prima di iniziare a fare domande, senza dimenticare che il comportamento dell’antropologo è
altrettanto osservato e che quindi l’accettazione che egli ottiene dipende dai giudizi che ispira e
dall’equilibrio che riesce a dare alla formazione di “capitali sociali”.
Dopodiché, per iniziare a porre domande, è necessario attendere che situazioni concrete offrano
le occasioni per interrogare. Un altro elemento della ricerca antropologica è la serendipidità
cioè quelle scoperte che vengono fatte casualmente ad esempio mentre si stava cercando altro.
Infine una buona conoscenza della lingua locale ha un’importanza fondamentale per
comprendere tutte le sfumature e gli elementi della lingua che non sono presenti nei libri di
grammatica; questa conoscenza è realizzabile solo in loco attraverso la pazienza e la curiosità.
5.1.4 Ricerca e coinvolgimento: coinvolgimento affettivo e osservazione partecipante
Powdermaker “antropologa come straniera e amica”
L’idea che il lavoro dell’antropologo comporti un’identificazione con i nativi è scorretta e
irrealizzabile poiché “poter essere come loro” significa azzerare il valore delle loro storie
individuali e collettive e considerare la loro cultura come qualcosa di così semplice che è
possibile appropriarsene, ed è impraticabile perché significherebbe condividere dalla nascita una
cultura che non è propria dell’antropologo.
Il lavoro sul campo è dunque un’esperienza esistenziale che coinvolge sia affettivamente sia
intellettualmente e che comporta dei rischi e delle difficoltà legate all’adattamento fisico e
psicologico dell’antropologo sul campo. Emotività ed affettività sono inevitabilmente sollecitate
sul campo dunque è necessario adottare tecniche di controllo della propria vita emotiva come ad
esempio:
- la redazione di un diario privato finalizzata solo al colloquio dell’antropologo con se stesso,
in cui trovano espressione tutte le sensazioni
- l’osservazione partecipante, di Malinowski, che si basa sulla capacità dell’antropologo di far
interagire il punto di vista interno e quello esterno, entrambi indispensabili alla ricerca
antropologica; questa si può mettere in atto tramite la presenza distaccata dell’antropologo a
tutte le forme di vita locale oppure tramite l’assunzione temporanea di ruoli previsti nel
sistema della società locale, che consentono una partecipazione più interna.

5.1.5 Il paradosso dell’incontro etnografico e la pratica dell’etnocentrismo critico


Il lavoro sul campo pone all’antropologo una precisa sfida intellettuale che è stata definita da de
Martino il paradosso dell’incontro etnografico che consiste nell’estrema difficoltà per

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l’antropologo di prescindere totalmente dalla propria storia culturale e quindi di perdere il
contenuto dell’osservazione, oppure di affidarsi a categorie antropologiche basate sulla propria
cultura che espongono al rischio di valutazioni etnocentriche. La soluzione secondo de Martino è
l’adozione dell’etnocentrismo critico che consiste nell’acquisizione da parte dell’antropologo
della consapevolezza del proprio etnocentrismo e della considerazione dei comportamenti
osservati non come stravaganze ma come documenti di una storia umana. Qui ha inizio ciò che
de Martino ha definito “il minuto e faticoso interrogare e interrogarsi circa il carattere e le ragioni,
circa la genesi, la struttura e la funzione del comportamento culturale alieno, che l’antropologo
intendete tematizzare”.
5.1.6 Per una nuova epistemologia antropologica
La riflessione sull’etnocentrismo critico hanno messo in evidenza du aspetti difficili del rapporto
tra l’antropologo e la cultura che studia: il rischio di restare dentro al proprio etnocentrismo e
l’inadeguatezza delle categorie e dei concetti a descrivere quelle dei nativi.
Pierre Bourdieu propone una riflessione simile a quella di de Martino, incentrata sulla necessità
dell’autoriflessione, la quale prevede che l’antropologo si renda oggetto a se stesso e si
esamini con lo stesso distacco con cui intende esaminare gli altri.
Clifford Geertz ha sostenuto che la base della comprensione è offerta dal fatto che l’antropologo
interpreta una realtà mentale che è già di per sé un’interpretazione della realtà, quindi il suo
compito di interpretazione sta anche nella sua capacità di trovare un collegamento tra i concetti
dei nativi e quelli della propria cultura.
Secondo Nadel la traduzione non può essere fatta “parola per parola”, ciò che consente
all’antropologo di individuare la miglior corrispondenza possibile tra un concetto di una cultura e
quello di un’altra è la piena padronanza dell’organizzazione semantica delle lingue.
L’epistemologia antropologica si arricchisce anche di altri temi poiché eventi come la fine degli
imperi coloniali, la crisi delle grandi utopie occidentali ottocentesche, liberalismo e socialismo, le
due guerre mondiali e le dittature hanno messo in crisi e modificato la concezione ottimistica
occidentale della ricerca antropologica e parallelamente hanno permesso ai popoli oppressi di
cominciare ad esprimersi in maniera autonoma. Riguardo a ciò, l’antropologo svizzero-tunisino
Kilani, ha messo in evidenza la fine dell’universalismo particolaristico della cultura
occidentale, cioè la convinzione tipicamente occidentale di essere pervenuti a categorie e valori
di validità universale. Pertanto è necessario che l’antropologo occidentale effettui un’operazione
di decentramento maggiore rispetto alle proprie categorie e valori, riconoscendone il limite
storico e la validità circoscritta.
Un altro tema dell’epistemologia antropologica è stato analizzato nel 1984 in un seminario
dedicato al Writing Culture in New Mexico e riguardava la monografia scritta dall’antropologo
dopo la ricerca sul campo, cioè un testo scritto in una lingua che non è quella parlata dai
portatori della cultura di cui si parla; il testo opera inevitabilmente una trasposizione lessicale e
concettuale ed è organizzato secondo le norme e le tradizioni espositive dell’autore dunque la
validità del testo è affidata all’autorità dell’autore, la quale scaturisce dalla sua presenza sul
campo. Dal punto di vista dei nativi il potere autoriale è una sorta di espropriazione della loro
stessa cultura. Come soluzione alcuni hanno pensato di “dare la parola” direttamente ai nativi,
riducendo l’antropologia a un’attività di scrittura narrativa ma questo negherebbe la conoscenza
reciproca delle diversità. In conclusione, basandosi su autori quali de Martino, Bourdieu e Kilani
che hanno lavorato per rendere critico il punto di vista dell’antropologo tradizionale, il seminario
di Santa Fè ha contribuito rendendo visibile il potere autoriale che gli antropologi occidentali
hanno esercitato nella costruzione delle realtà extraoccidentali.
A partire da potere autoriale dell’antropologo, è stato riproposto il problema più generale del
potere detenuto da coloro che fanno circolare le idee.

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Contemporaneamente al crollo delle condizioni politiche, economiche e sociali che favorivano
l’egemonia occidentale e quindi l’universalismo particolaristico, si è dissolta la condizione di
isolamento relativo delle culture. Molti studiosi contemporanei sottolineano il carattere ibrido
delle culture dell’età contemporanea. Infatti il panorama di oggi è quello di culture radicalmente
coinvolte nei processi di omologazione culturale a scala planetaria alla quale però le culture
reagiscono difendendo e rivalorizzando le proprie tradizioni. Questo fenomeno di omologazione
è dovuto anche alla diffusione capillare dei mezzi di comunicazione a distanza e alla mobilità
territoriale delle popolazioni, questo processo crea formazioni diaspore, cioè realtà culturali di
espatriati che sono partecipi delle ibridazioni culturali ma conservano sistemi e istituzioni della
cultura di appartenenza. Un altro fattore che ha contribuito a modificare il panorama
dell’antropologia culturale è la figura dell’antropologo nativo il cui punto di vista sarà diverso da
quello dell’antropologo bianco.
Queste tematiche sono al centro di orientamenti di ricerca contemporanei quali i cultural
studies e i postcolonial studies interessati appunto alle culture diasporiche. Le realtà prodotte
da questa molteplicità di appartenenze crea, secondo Bhabha, identità interstiziali e tradotte
continuamente coinvolte in processi di traduzione e di autotraduzione da una cultura all’altra.
Appadurai sottolinea l’alto tasso di contenuto immaginario che caratterizza le società
contemporanee, dato dalla comunicazione di massa a distanza e dalla maggior facilità negli
spostamenti, che produce realtà immaginate che si trasformano in realtà virtuali quando
producono effetti sul comportamento degli esseri umani.
Marcus, antropologo statunitense, ha suggerito che lo studio di queste culture diasporiche
necessita di un’etnografia multisituata che prevede che l’antropologo segua materialmente gli
spostamenti di una popolazione, in tal modo il viaggio diventa il nuovo terreno della ricerca
antropologica.
La ricerca antropologica contemporanea assume come oggetto di studio non tanto i prodotti
culturali quanto i processi di produzione culturale nei quali sono impegnati i soggetti sociali che
si vogliono studiare, che si innescano nell’incontro tra i contenuti culturali di appartenenza e
quelli nuovi che l’esperienza del nuovo territorio impone ai soggetti diasporici. Questi processi
possono essere studiati uno schema di rilevazione e analisi comune che prevede di analizzare
le dinamiche di rifunzionalizzazione e di risemantizzazione del “nuovo”, cioè le modalità
attraverso cui i soggetti sociali interiorizzano la nuova cultura all’interno di quella di
appartenenza (ad es. i jeans, usati prima come tuta da lavoro e poi rifunzionalizzati in mille
modi); e allo stesso tempo l’analisi delle dinamiche di conversione dei contenuti culturali già
posseduti in elementi funzionali all’inserimento nel mondo diasporico (ad es. le strutture di
parentela che si sono convertite all’estero in strutture organizzative al servizio dei migranti).

5.2 FARE RICERCA ANTROPOLOGICO-CULTURALE


La ricerca antropologia classica è strutturata secondo un percorso lineare e unidirezionale,
anche se esso è spesso modificato da feedback e imprevisti frequenti quindi richiede
all’antropologo duttilità e buona capacità di adattamento, e dal fatto che, soprattutto nel mondo
contemporaneo, le popolazioni studiate magari sono numerose, differenziate o disperse su vasti
territori.
5.2.1 L’individuazione dell’oggetto e la sua localizzazione
La prima decisione da prendere è il tema/problema che si intende studiare, e insieme a questo
scegliere anche l’area in cui studiarlo, che diventa qualificante per il tema stesso.

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Perché si sceglie un tema? Una ricerca antropologica è un lavoro scientifico le cui ragioni
devono essere di ordine intellettuale: si sceglie un tema perché suscita interrogativi e dunque
per capirne meglio le caratteristiche. Non si può scegliere un tema in base a sentimenti e
risentimenti propri dell’antropologo poiché ciò renderebbe difficile il distacco emotivo necessario.
Va inoltre evitato l’intervento come motivazione della scelta del tema. Tuttavia la scelta del tema
non è del tutto libera poiché costa denaro quindi i ricercatori generalmente chiedono
finanziamenti a enti pubblici o privati; i fondi concessi possono essere vincolati alla qualità
scientifica della ricerca lasciando libera la scelta del tema, oppure possono essere vincolati ad
un tema scelto dal committente; vi ancora un caso, peggiore dei precedenti, che si verifica
quando il committente impone condizioni e tempi di lavoro, oppure quando vincola i fondi ai
risultati che si aspetta.
Una volta individuati tema e luogo, bisogna verificare la congruenza tra questi, presenza e
consistenza del fenomeno nel luogo scelto e gli eventuali vincoli temporali e di calendario. Ed è
altrettanto utile conoscere la storia del contesto e del fenomeno che si intende studiare. Questa
ricerca preliminare consente di mettere a fuoco il tema.
5.2.2 Il problema teorico
Da questi interrogativi si deve procedere all’individuazione del problema teorico a cui si collega
il fenomeno che il ricercatore intende affrontare:

• non è una scelta casuale, ma è collegata e motivata dai risultati della ricerca preliminare
• l’assunzione di un determinato problema teorico non comporta lo studio esclusivo di esso, anzi
deve servire come struttura portante e come chiave di lettura della ricerca, orientando gli
approfondimenti teorici e la dotazione del ricercatore di elementi concettuali e materiali
funzionali alla ricerca sul campo. Questo lavoro di creazione degli strumenti concettuali utili va
fatto svolgendo letture di testi che analizzano il problema teorico che si vuole affrontare, in tal
modo si imposta la ricerca a livello dello stato attuale del tema e si evitano ripetizioni.
5.2.4 Il lavoro sul campo: le regole generali
1. il ricercatore deve presentarsi per quello che è e spiegare nel modo più chiaro possibile ciò
che intende fare; lettere di presentazione, documenti e garanzie scritte possono essere utili
2. non dimenticare mai che l’antropologo sul campo è un intruso che non è stato invitato,
perciò non dovrà mai fare nulla senza assicurarsi il gradimento degli interessati
3. l'antropologo non deve camuffarsi o esibire comportamenti offensivi o irritanti
4. conviene evitare di esprimere proprie opinioni o posizioni troppo nette per evitare di perdere
la confidenza di quelli che non sono d’accordo con lui
5. conviene evitare rapporti preferenziali, benché vi siano figure che in virtù del loro ruolo
diventano testimoni privilegiati (medico, maestra, sindaco, sacerdote..); il rapporto ideale è
quello di cordiale equidistanza o equivicinanza con tutti; a volte è utile pagare un informatore
o ricompensare con doni ma ciò può essere ritenuto offensivo.
5.2.5 Il lavoro sul campo: gli strumenti
Primo tra gli strumenti dell’antropologo è l’osservazione che può essere: casuale e continuativa
che accompagna tutto il periodo di soggiorno sul campo, o quella programmata e ripetuta
dedicata a particolari eventi.
Altri due strumenti indispensabili sono:

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• il taccuino che serve per segnare brevi annotazioni o parole chiave che servano di
promemoria di un episodio, di un luogo, di una persona.. il contenuto va poi rielaborato e
sviluppato nelle note di campo

• le note di campo che sono la prima opportunità per l’antropologo di fare il lavoro investigativo
e comparativo; man mano che si accumulano le note di campo vanno a costituire il diario della
ricerca
Altro strumento imprescindibile del lavoro antropologico è il colloquio con i soggetti studiati.
Come parlare? è importante che l’antropologo parli quel poco che basta a far parlare i nativi,
anche se poi il totale non-condizionamento è impossibile. Il colloquio può essere casuale e
informale oppure può essere strutturato come intervista, la quale può essere poco direttiva o
più strutturata; in ogni caso la scelta di un tipo di intervista piuttosto che un altro va fatta in base
all’idoneità di esso in rapporto all’argomento, agli interlocutori e alle circostanze.
5.2.6 Il lavoro sul campo: gli interlocutori
A chi rivolgere le domande? Oggi accade spesso che l’ampiezza del gruppo studiato o la sua
distribuzione sul terreno siano tali da non consentire il contatto giornaliero con tutti i membri,
come invece avveniva per le ricerche antropologiche del passato. Nel contesto contemporaneo
è necessario costruire una strategia di raccolta delle interviste, se si intende raccogliere
informazioni relative a tutto il gruppo si può estrarre un campione costruito con criteri tali da
essere rappresentativo di tutto il gruppo, oppure si può adottare il metodo del passa parola che
però non garantisce alcuna oggettività statistica ma fornisce dati sul sistema delle relazioni
personali del gruppo.
L’uso del registratore si è generalizzato ma è sempre bene chiedere il permesso di utilizzarlo ed
essere padroni della tecnica per non incorrere in intoppi indisponenti per gli intervistati.
Quante persone si devono intervistare? Quanto far durare il soggiorno sul campo? La capacità
del ricercatore e le caratteristiche del luogo sono decisive nello stabilire la durata del soggiorno
sul campo, così come sono determinanti i condizionamenti esterni, il tempo e il denaro a
disposizione. Il lavoro sul campo non può mai essere considerato terminato dato che diversità e
somiglianze sono in continuo divenire; qualsiasi ricerca è la visione statica di un momento di un
processo, una condizione di status quo prodotta dal ricercatore. Tuttavia un criterio per stabilire
la durata ideale del soggiorno sul campo si basa su una ragionevole congruenza tra il tema e
l’ampiezza del gruppo e del territorio.
5.2.7 I nuovi campi dell’antropologia: metropolitani, virtuali, globali
Le situazioni di ricerca che si prospettano attualmente all’antropologia hanno caratteri nuovi,
benché circa la metà della specie umana vive in contesti rurali secondo stili di vita contadini,
l’altra metà dell’umanità vive in contesti urbani che hanno le caratteristiche delle metropoli o
addirittura quelle che vengono chiamate oggi le dimensioni virtuali dell’esserci nel mondo. Fare
ricerca in città pone all’antropologo problemi inediti come ad es. la necessità di perimetrale il
terreno di ricerca. La localizzazione multipla delle attività umane, tipica della contemporaneità,
implica la raccomandazione metodologica dell’approccio olistico, relativa alla necessità di
contestualizzare i singoli tratti culturali nel loro tempo, nel loro spazio e nella struttura sociale
che è loro propria. è così che si è sviluppata da qualche decennio l’antropologia urbana e
metropolitana.
Interamente nuova è invece la possibilità che il luogo della ricerca sia virtuale quindi non
necessariamente materiale. I luoghi virtuali si stanno moltiplicando e assumono un valore
uguale a quello dei luoghi reali, infatti l’esistenza di questi luoghi e l’esperienza che si fa di essi
sta riplasmando il rapporto tra soggetti sociali e luoghi materiali. Un dato significativo nuovo è
che un numero sempre maggiore di soggetti tende non solo a viaggiare ma a localizzarsi in più

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di un luogo, quindi l’altrove non è più solo meta di viaggio ma diviene una seconda patria in cui
si fanno investimenti affettivi e materiali, senza mai abbandonare il luogo di provenienza. Autori
come Appadurai e Canclini sottolineano l’importanza crescente delle localizzazioni
immaginarie alle quali i soggetti sociali si autoassegnano alla ricerca di nuove identità e nuove
appartenenze.
Città, metropoli e reti virtuali rappresentano la sfida che fronteggia oggi l’antropologia. Si tratta
dunque di aggiornare i repertori scoprendo le nuove dimensioni e le nuove strutture della
diversità e della somiglianza, e di analizzare il significato e il valore che il loro agire ha per
soggetti sociali impegnati a localizzarsi e a identificarsi in un mondo globale.
5.2.8 Il ritorno a casa: analisi dei dati e stesura del rapporto di ricerca
La prima ricerca che l’antropologo fa, una volta a casa, è che i dati non parlano da soli. Di fronte
al compito di scrivere il rapporto di ricerca incontra di nuovo difficoltà dell’etnocentrismo valoriale
e categoriale, che nella fase della scrittura si articola come potere dell’autore che scrive la
monografia. Infatti l’antropologo può far parlare i dati in un modo o nell’altro “costruendo” la
cultura di cui scrive secondo una determinata visione che è totalmente sotto la sua
responsabilità. L’antropologo che scrive una monografia esercita un potere perché aliena i nativi
del diritto di decidere autonomamente come vogliono presentarsi in pubblico.
Per superare queste difficoltà si può scegliere di non pubblicare i risultati della ricerca oppure
scrivere un rapporto puntuale “in scala 1:1” che però non offrirebbe una visione d’insieme. La
costruzione di una sintesi interpretativa è responsabilità dell’antropologo e gli strumenti a cui fare
ricorso sono gli stessi usati durante la ricerca sul campo: autoriflessività ed etnocentrismo
critico. Quindi in primo luogo gli appunti e le registrazioni vanno trascritti e ordinati, dopodiché si
riparte dal problema teorico alla base della ricerca e si interrogano i dati sviluppando le domande
che facciano parlare i dati; si possono avere conferme o smentite a ciò che si ipotizzava prima
del lavoro sul campo.

CAPITOLO 6 - LE SPECIALIZZAZIONI DELL’ANTROPOLOGIA


Approccio olistico, ne esistono due forme: quella che lo giustifica come metodo di ricerca
adatto a società ritenute semplici, e quella che riconosce la complessità di tutte le società e
l’utilità che può avere per l’antropologia la collaborazione con altre discipline: in questo caso il
compito dell’approccio olistico consiste nel tenere viva l’attenzione sulle interdipendenze tra vari
sistemi e strutture di relazioni.
Antropologia ed etnologia hanno conosciuto forme di specializzazione geografica già in epoca
precoce. Oggi queste articolazioni interne hanno prodotto una prima costruzione di mappe delle
diversità della specie umana e hanno messo in crisi la definizione di primitivi.
Tra le specializzazioni, nate dal gioco complesso dei fattori che possono influenzare gli
orientamenti di antropologi ed etnologi, hanno preso forma l’antropologia culturale, studio delle
concezioni del mondo e della vita, dei significati e dei valori di ciascun gruppo umano,
l’antropologia sociale, studio dei sistemi e delle strutture di relazioni sociali delle singole
società, l’antropologia della parentela, l’antropologia della religione e della magia, l’antropologia
economica, l’antropologia politica, l’antropologia giuridica. Queste articolazioni si sono
configurate tra la metà del ‘800 e la metà del ‘900a causa di diversi fattori: lo sviluppo della
tecnologia e le trasformazioni sociali e politiche a esso connesse, le conseguenze delle guerre
mondiali che comportarono la crisi dei regimi coloniali e quindi la messa in comunicazione di
quasi tutte le aree del globo. Allora si temette che antropologia ed etnologia avessero perso il
loro soggetto di studio cioè le piccole società umane della dimensione di villaggi; un timore
analogo si diffuse tra i folkloristi, i quali temevano che la modernizzazione distruggesse le forme

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tradizionali di vita sociale interne all’Occidente. Questi timori portarono infatti a un
rinnovamento dell’oggetto di studio e dei metodi poiché il cambiamento si presenta come un
processo di rifunzionalizzazione e risemantizzazione di ciò che è nuovo affinché possa integrarsi
con i vecchi sistemi socioculturali, e di conversione di ciò che è vecchio affinché diventi utile per i
nuovi contesti.
L’antropologia culturale si è quindi aperta allo studio delle società “complesse” individuando
nuovi settori in cui impegnarsi.
6.1 L’ANTROPOLOGIA DEL GENERE E I WOMEN’ STUDIES (Gianfranca Ranisio)

Uomini e donne sono diversi geneticamente, xy e xx, questo è evidente nelle differenze
ormonali. Uomini e donne presentano il dimorfismo sessuale cioè la differenza dei caratteri
sessuali primari e secondari; vi sono poi altri caratteri fisici che distinguono i generi come
altezza, peso, forza, resistenza, longevità
è la cultura e non la biologia a determinare le differenze tra uomini e donne, sesso e genere
sono cose diverse: il genere si riferisce ai tratti che una cultura assegna e inculca in entrambi i
sessi, è la costruzione culturale delle caratteristiche maschili e femminili che descrive come le
varie società organizzano le istituzioni sociali, mentre il sesso riguarda le caratteristiche
biologiche.
In tutte le società è presente una forma di divisione sessuale del lavoro, che è la prima forma
di divisone sociale del lavoro, quindi generalmente le attività della sfera domestica vengono
svolte dalle donne, mentre le attività della sfera pubblica e sociale sono di competenza degli
uomini e sono considerate di maggior prestigio.

6.1.1 Teorie antropologiche sul genere

A partire dagli anni ’70 gli antropologi di orientamento femminista erano scontenti
dell’ineguaglianza tra genere che esisteva in ogni società, così hanno iniziato ad analizzare i dati
etnografici per capire se il dominio del maschio fosse una costante di tutte le società. I risultati
inizialmente sembravano confermare l’universalità di questo carattere, alcuni hanno quindi
avanzato alcune ipotesi:
• l’ipotesi che questo predominio dell’uomo sulla donna fosse radicato in una forma di pensiero
che opponeva i maschi alle femmine; quindi i maschi godevano del privilegio di superiorità
anche perché le donne erano considerate più vicine alla natura
• altri hanno dimostrato che dal punto di vista storico e culturale il ruolo dell’uomo e della donna
all’interno della famiglia varia enormemente da una società all’altra; hanno dimostrato che il
modello della famiglia nucleare non è universale, anzi era una conseguenza storia recente del
sorgere e dell’affermarsi del capitalismo industriale nella società europea.
• quelli di orientamento femminista e marxista affermano che la subordinazione della donna non
è inevitabile ma è possibile collegarla al sorgere della proprietà privata e dello stato; supportati
da prove nella Americhe, in Melanesia, in Africa in cui er stato rilevato che l’arrivo degli europei
aveva modificato i rapporti tra uomini e donne che prima erano a pari livello
Margaret Mead è stata la prima antropologa a porre al centro della sua ricerca la differenza tra
sessi, individuando nella cultura e non nella biologia la forza principale che determina le
caratteristiche della personalità individuale, sostenendo che mascolinità e femminilità sono una
costruzione sociale irriducibile alla base fisiologica.
Negli anni ’70 si sviluppa il settore degli women’s studies che sottolinea l’esclusione delle
donne dal ruolo di informatrici e intende quindi contrastare il pregiudizio che fa degli uomini gli
interlocutori privilegiati delle indagini.
La nozione di genere risale al 1975 al volume collettivo “Toward an Anthropology of Women”, qui
il saggio di Gayle Rubin “The Traffic in Women” introduce la categoria di sex gender system,
basato sull’asimmetria e sulla gerarchia tra sessi che si tramutano in oppressione delle donne.

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La concezione dicotomica del genere, propria della cultura occidentale, irrigidisce l’appartenenza
di genere. Criticando questa prospettiva, la Butler infatti evidenzia il fatto che la teoria del
genere rafforza la dicotomia tra maschile e femminile e propone di considerare il genere come
un set di azioni piuttosto che come qualità personali.

6.1.2 Gli studi italiani sul genere


Anche in Italia per lungo tempo le donne sono state raffigurate come custodi della tradizione e
dei valori arcaici, considerate solo all’interno della famiglia.
Amalia Signorelli sottolinea che le donne sono state importanti agenti di cambiamento e hanno
avuto la capacità di svolgere ruoli produttivi più vari nei momenti critici della storia. Individua nel
pragmatismo una specificità del comportamento femminile come sistema di conoscenze, valori e
simboli che corrisponde all parte assegnata alle donne nella divisione del lavoro sociale: la
riproduzione e la sostituzione.
Gli studi italiani sul genere si sono concentrati sugli ambiti della riproduzione, della
trasformazione dell’immagine femminile, della formazione e l’approccio educativo.
(in Italia le Azioni positive per la parità si basano sulla legge 125 del ’91 e sul Gender
Mainstreaming)
6.2 ANTROPOLOGIA DEL POTERE (Angela Giglia)
Dal punto di vista antropologico il potere è una relazione sociale asimmetrica nella quale un
soggetto riesce a ottenere i propri scopi o a imporre la propria volontà a danno di altri soggetti. Il
potere va quindi studiato in relazione al consenso, esplicito o mascherato che sia, e alla
resistenza, anch’essa più o meno esplicita. Il potere ha a che vedere con la riproduzione di un
ordine sociale ed esiste in qualsiasi società. Molti antropologi si sono dedicati allo studio della
complessità e del dinamismo delle relazioni di potere in società prive di un apparato statale
come i Nuer studiati da Evans-Pritchard o i Katchin di Leach. L’espansione coloniale occidentale
ha portato ad una rilettura antropologica dei rapporti di potere che ha mostrato la necessità di di
una riscrittura della storia dei popoli colonizzati.
Lo studio dei rapporti sociali che implicano l’esercizio del potere, deve essere distinto dallo
studio del potere politico, cioè all’ambito specifico delle relazioni sociali che fa riferimento al
governo della società. Tuttavia nella storia dell’Occidente lo studio del potere è legato
indissolubilmente alla politica, infatti una specificità del mondo occidentale è di aver fatto della
politica una sfera a parte della realtà sociale, conferendo a quest’ambito una certa autonomia.
Ma la politica, lungi dall’essere autonoma, è invece condizionata da altri tipi di relazioni e
interessi, come dimostra lo studio della Signorelli nell’Italia meridionale degli anni ‘80 legato al
clientelismo politico (uso della politica per fini privati).
Due dei problemi delle società contemporanee sono: la difficoltà a trovare definizioni collettive
intorno alla definizione del bene comune, e i limiti della democrazia. L’antropologia può aiutare
attraverso lo studio delle forme di governo alternative, ad es. le forme di autogoverno
sperimentate nelle comunità indigene del Chiapas in Messico.
Nelle mondo contemporaneo il potere del governo degli stati deve essere riformulato in vista di
un ordine superiore, infatti la moltiplicazione delle guerre e dei conflitti mostrano l’insufficienza
della politica odierna come arte della mediazione.
Ultimo elemento caratterizzante dell’esercizio del potere nel mondo contemporaneo è legato alla
concentrazione dei mezzi di comunicazione di massa nelle mani di pochi, che facilita la
produzione del consenso attorno ad una certa visione de mondo e l’occultamento di altre visioni.

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Il potere oggi è sempre più nascosto e il suo carattere sfuggente è evidente nelle relazioni di
lavoro nell’economia globale, da qui derivano nuovi spunti per l’antropologia.

6.3 ANTROPOLOGIA MEDICA (Giovanni Pizza)


L’antropologia medica è una branca delle scienze antropologiche che studia il corpo, la salute
e la malattia in rapporto ai contesti sociali, culturali e politici. Essa è nata con l’obiettivo di
comparare le diverse concezioni di salute e malattia delle società umane, poi si è specializzata
come studio dei modi di costruzione sociale del corpo. Oggi questa scienza è caratterizzata da
una visione critica fondata sulla pratica della ricerca sul campo. In Italia è diventato uno dei
settori più noti dell’antropologia culturale grazie all’opera di Tullio Sepilli.
Il contributo dell’antropologia medica contemporanea riguarda la formazione dei medici poiché
l’insegnamento di questa disciplina contribuisce alla promozione di figure professionali orientate
da un sapere critico e capaci di produrre una nuova cultura della salute, intesa come possibilità
di accedere alle risorse che garantiscono la qualità della vita. Qualificandosi quindi come
antropologia politica della salute si impegna a fronteggiare l’esigenza di un’urgente
umanizzazione delle pratiche mediche anche alla luce degli avanzamenti tecnico-scientifici della
biomedicina contemporanea (dibattiti legati a eutanasia, morte cerebrale, stato vegetativo) che
stonano con le condizioni drammatiche delle popolazioni povere a cui manca l’assistenza
sanitaria.
L’antropologia medica orienta il suo studio sul rapporto tra la dimensione corporea e l’esperienza
di cittadinanza di persone la cui salute è connessa alla possibilità di accedere alle risorse che
garantiscono la qualità della vita e il benessere. La disciplina, multisituata e plurale, si apre
all’impegno scientifico e politico per contribuire alla riqualificazione democratica della convivenza
sociale, nell’ottica della piena realizzazione dei diritti umani, poiché la concezione sulla quale si
poggia è quella di salute come diritto umano e bene collettivo che punta al superamento della
sofferenza globale.

6.4 ANTROPOLOGIA URBANA (Fulvia D’Aloisio)


L’antropologia urbana è un settore di studi che ha come oggetto di analisi le città nelle forme
culturali che le contraddistinguono. Le città sono un fenomeno antichissimo e si configurano
come tipologie di organizzazione umana e sociale. La prima scuola che si è dedicata allo studio
delle città è la Scuola di Chicago degli anni ’20 e ’30 durante l’esplosione urbana statunitense;
gli autori di questa scuola individuano nelle città e nella loro organizzazione spaziale un
contenitore in grado di influenzare e condizionare la vita di chi ci abita. Questa chiave di lettura
detta ecologia culturale individua un rapporto di tipo deterministico tra spazio e cultura, che
però trova dei limiti ad es. in Europa dove non è applicabile la stessa idea. Louis Wirth, della
scuola, definisce 3 caratteristiche distintive delle città a prescindere dal contesto in cui si
trovano: numero degli abitanti, densità ed eterogeneità.
Invece è diversa l’urbanizzazione del continente africano del XIX e XX secolo, trasformato dalla
colonizzazione europea. Le città africane sono state oggetto di studio della Scuola di Lusaka-
Manchester.
In Italia l’antropologia urbana ha una storia più recente e si riferisce al progressivo trasferimento
della popolazione dalle campagne alle città. L’evoluzione di questo settore di studi si può
dividere in 3 periodi:

• fase propedeutica tra il 1950 e il 1980 (Tentori, Guidicini, Mazzacane, Callari Galli)

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• fase di definizione e acquisizione di visibilità tra il 1980 e il 1995
• fase attuale di acquisizione di posizioni istituzionali
Il volume della Signorelli “Antropologia urbana” del ’96, propone una definizione di antropologia
urbana intesa come lo studio di concezioni del mondo e della vita, di sistemi cognitivo-valutativi
elaborati in e per contesti urbani, sottolineando il carattere processuale e dinamico dei fenomeni
urbani. Mentre Callari Galli affronta il problema della necessità di ridefinire l’etnografia in
rapporto alle città che necessitano una diversa declinazione di questo strumento cardine del
lavoro antropologico.
Inoltre grazie al rapporto con l’urbanistica l’antropologia può fornire contributi utili alla disciplina;
nel volume “La ricerca interdisciplinare tra antropologia urbana e urbanistica” la Signorelli
focalizza l’attenzione sull’assegnazione degli spazi e sulla loro appropriazione da parte dei
soggetti. Oggi la questione dello spazio urbano assume importanza crescente a causa delle
tensioni crescenti tra categorie diverse di city users nelle città, e al contempo a causa
dell’aumento dei tentativi di regolamentazione degli spazi. Il concetto di spazio urbano è
collegato alle problematiche attuali quali il senso di appartenenza, l’identità, il diritto e il senso
della stessa cittadinanza.

6.5 ANTROPOLOGIA DELLE MIGRAZIONI (Adelina Miranda)


Sayad definisce le migrazioni come fatto sociale totale che ha sempre valenza culturale, questa
conferisce senso e significato.
6.5.1 La mobilità non è un’invenzione moderna
Il termine migrazione nella duplice accezione di emigrazione e immigrazione, indica lo
spostamento di un gruppo o di un individuo da un luogo all’altro. Generalmente poi si
distinguono le migrazioni secondo le cause, l’attraversamento o meno delle frontiere nazionali, lo
statuto giuridico del migrante e le modalità di inserimento nel mercato del lavoro. Dal punto di
vista antropologico le migrazioni attuali sono una declinazione storica della mobilità umana e la
definizione e il valore che ciascuna cultura assegna alla mobilità è connesso a quelli che
assegna alla sedentarietà.
Nelle società tradizionali extra-occidentali, lo straniero era percepito come un essere pericoloso,
infatti muoversi era un’attività regolata e un privilegio (commercio kula di Malinowski o i riti di
passaggio di Van Gennep), tuttavia anche nel passato la mobilità ha assunto dimensioni globali
(strada della seta). Prima che gli ex-colonizzati arrivassero in Europa, i colonizzatori emigrarono
nelle colonie iniziando così grandi flussi migratori di popolazioni dall’Europa al Nord America,
all’America Latina e l’Australia. Mentre dopo la Seconda guerra mondiale i flussi di migrazione si
sono invertiti trasformando l’Europa in terra di immigrazione, infatti con l’urbanizzazione e
l’industrializzazione i movimenti di popolazione dalle campagne verso le città sono diventati
costitutivi del mondo europeo. Dopo la crisi economica degli anni ’70 le migrazioni sono
diventate globali allargando gli orizzonti dei paesi d’emigrazione e d’immigrazione.
6.5.2 Dalla Scuola di Chicago ai nuovi approcci teorici
Nonostante l’importanza storica della mobilità umana, questa si è costituita tardivamente come
oggetto di studio per l’antropologia; infatti fino a tempi recenti la migrazione è stata pensata
come uno stato transitorio, si pensi che Boas all’inizio del XX secolo la considerava come un
fenomeno concluso.
La configurazione attuale dei movimenti migratori ha reso evidente che il migrante non ha
solamente le due possibilità dell’assimilazione o del ritorno. La teoria dell’espulsione-attrazione,

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cioè le migrazioni tra paesi dalla pressione demografica forte e dall’economia debole verso paesi
con caratteristiche opposte, non è sufficiente a cogliere le dinamiche complesse della mobilità.
Infatti i migranti partono anche per paesi dove non esiste il pieno impiego della forza lavoro
locale, i paesi di immigrazione attuano politiche migratorie sempre più restrittive per selezionare
gli immigranti in base alle esigenze del proprio mercato del lavoro e i paesi di transito si
trasformano in paesi di stabilizzazione. Così il vasto universo delle migrazioni contemporanee
connesse alle cause più disparate mettono in evidenza l’insufficienza delle vecchie categorie
divisorie che si rifanno a concezioni ispirate rigidamente a un’idea di funzione economica delle
migrazioni.
6.5.3 L’Italia: paese di emigrazione e di immigrazione
La storia italiana è stata fortemente segnata dalle migrazioni interne e a partire dagli anni ’80
l’Italia da paese d’emigrazione è diventato anche paese di immigrazione. È importante
sottolineare che il modello migratorio mediterraneo ha rilevato l’importanza dei fattori non
economici nella strutturazione delle migrazioni attuali.
La messa in comunicazione di tutte le società ha permesso di vedere le migrazioni come uno dei
principali processi che mettono in relazione la globalizzazione con i sistemi e le strutture delle
relazioni locali. Questo ha evidenziato come i percorsi migratori oltrepassano le identità nazionali
creando processi di sovrapposizione fino alla creazione di forme di appartenenza multi o bilocali.
Tuttavia questi processi non si sottraggono alle manifestazioni di razzismo né all’esclusione dei
migranti dai diritti di cittadinanza.

6.6 ANTROPOLOGIA APPLICATA E ANTROPOLOGIA DELLO SVILUPPO (Bruno Riccio)


L’itinerario antropologico di avvicinamento ai mutevoli processi di trasformazione sociali riassunti
dal termine di sviluppo risulta complesso. Per comprendere meglio questa specializzazione
antropologica è necessario partire dal periodo coloniale. Grazie a Malinowski e al suo articolo
“Pratical Anthropology”, negli anni ’30 ha inizio un processo di sensibilizzazione degli antropologi
ai problemi delle situazioni coloniali e alla preparazione antropologica dei funzionari locali. Infatti
si riteneva che la conoscenza e l’organizzazione sociale delle popolazioni native potesse fornire
un contributo operativo utile all’amministrazione e al governo delle colonie, per questo negli anni
’70 gli antropologi furono accusati di aver contribuito a legittimare asimmetrie di potere
internazionali. Tuttavia bisogna precisare che dal Dopoguerra in poi, a causa di una visione
economicista, il coinvolgimento degli antropologi in attività di consulenza per il governo diminuì
fortemente. Infatti negli anni ’70 si evidenziarono i limiti e le delusioni nei confronti degli interventi
di cooperazione del dopoguerra che deterioravano le condizioni di vita delle popolazioni
dell’Africa piuttosto che svilupparle. In risposta emerse una critica marxista del concetto di
sviluppo che individuava le cause del sottosviluppo nelle relazioni economiche storicamente
determinate tra l’Occidente industrializzato e il Terzo mondo. Contemporaneamente si
elaborarono approcci alternativi all’idea di sviluppo come crescita economica che si
concentravano maggiormente sulle dimensioni socio-culturali e sulla ripresa del sapere
antropologico. In America invece si sperimentava l’Action Anthropology di Sol Tax come una
strategia di ricerca-azione attenta alla molteplicità degli attori dei programmi di intervento. In
Francia Roger Bastide proponeva un’antropologia applicata intesa come “scienza teorica della
pratica” focalizzata sull’analisi delle pratiche dei processi di pianificazione. È in quegli anni
’70-’80 che si anticiparono le più recenti tendenze dell’antropologia dello sviluppo che propone
un’analisi dei processi sociali e delle relazioni di potere che coinvolgono una molteplicità di attori.
Arturo Escobar nella sua critica dell’incontro dello sviluppo evidenzia le somiglianze tra le
pratiche di cambiamento pianificato del periodo coloniale e le contemporanee politiche di
cooperazione.

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L’idea di sviluppo come processo endogeno, l’enfasi sulla società civile e la centralità della
relazione con la realtà locale costituiscono le dimensioni che i nuovi protagonisti dichiarano al
centro delle loro azioni di sviluppo; la partecipazione diventa il vocabolo più invocato in questo
senso. Oggi nascono nuovi orientamenti di cooperazione decentrata che propongono una
relazione di scambio e reciprocità tra i paesi del Nord e quelli del Sud del mondo, cogliendo nelle
migrazioni e nella diaspora una potenziale cooperazione.
Le ricerche di osservazione partecipante e l’analisi delle pratiche quotidiane di sviluppo
contribuiscono al superamento di una dicotomia precostituita tra antropologia applicata e
antropologia dello sviluppo.

6.7 L’ANTROPOLOGIA VISUALE (Alberto Baldi)


L’antropologia visuale designa il settore dell’antropologia dei ricercatori che affiancano alle
tecniche di rilevazione tradizionali gli strumenti di documentazione audiovisiva, quali la
fotografia, la cinematografia, la ripresa video e la registrazione audio. La fotografia nasce nel
1839, mentre la cinematografia nasce sul finire degli anni ’80 del ‘800 inizialmente senza audio,
anche se parallelamente era già possibile registrare fonti sonore; negli anni ’50 segue la
televisione che permette la diffusione delle telecamere. L’antropologia mostra interesse per
questo nuovo mezzo di riproduzione della realtà fin dalla seconda metà del ‘800 (epoca
dell’evoluzionismo) perché forniva uno strumento di ripresa obiettivo. Così si realizzarono grandi
campagne fotografiche mirate a riprendere gli aspetti fisici ed esteriori della specie umana che
portò a un’imponente schedatura fotografica di “razze e popoli della terra”. Dagli anni ’80 del
‘800 gli ingombri degli apparecchi fotografici andarono diminuendo, rendendo più semplice il
lavoro e permettendo una diversificazione degli ambiti di utilizzo della foto sul campo. Infatti
l’attenzione si spostò sugli usi, costumi e attività umane cinetiche connesse al lavoro. Allora
nessuno pensava ancora alla falsa obiettività della documentazione fotografica e alla
connotazione culturale della percezione visiva. Tuttavia è necessario sottolineare l’importanza
del reliquiario visivo di fine ‘800 che attesta modelli di comportamento e pratiche oggi modificate
o venute meno.
Anche la cinematografia ha prodotto risultati importanti in ambito etnologico a partire dagli inizi
del ‘900; con essa si ha la presenza sul campo della nuova figura professionale del
documentarista o cineoperatore, a cui la delega alla ripresa cinematografica ha conferito una
propria autonomia espressiva, dando così vita ad una produzione cinematografica antropologica
parallela ma firmata da soli documentaristi. In questi ultimi decenni, grazie all’avvento delle
piccole telecamere user friendly, si sviluppa una produzione nuova realizzata solamente da
antropologi.
Oggi è ampio il dibattito relativo alle opportunità e ai limiti dell’uso dei mezzi audiovisivi, infatti da
un lato spesso si attribuisce all’immagine un ruolo esplicativo aggiunto e auspicabile ma non
indispensabile, concentrandosi di più sulla sua funzione descrittiva piuttosto che su quella
connotativa cioè capace di caricarsi di significati sottintesi. Dall’altro lato, pur sottolineando la
difficoltà nel governo della fonte visiva che ha indotto a ricorrervi nella sola funzione illustrativa
subordinata al testo, si evidenzia proprio l’ampia gamma di significati che garantisce
all’immagine un ruolo di analisi importante nell’indagine. A monte di tutto ciò sarebbe opportuna
una riflessione in grado di coinvolgere il guardare e il vedere. Alla luce dei materiali audovisivi e
della loro importanza sarebbe conveniente una riorganizzazione della monografia al fine di
creare un prodotto multimediale navigabile e interrogabile da varie direzioni in grado di fornire
una visione completa delle indagini e delle conclusioni a cui l’antropologo è giunto.
In ogni caso non bisogna dimenticare la produzione audiovisiva di tutti coloro che non hanno
intenti antropologici, ma che riconvertita potrebbe produrre un importante documentazione (foto

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di famiglia, fulmini, selfie) delle relazioni sociali, di modelli e valori di riferimento, di identità
socialmente definite..
In conclusione l’antropologia visuale oggi si allarga fino a includere l’antropologia della
cultura visuale contemporanea che potrebbe produrre contributi fondamentali per una
possibile educazione critica alla visualità.

6 . 8 A N T R O P O L O G I A C U LT U R A L E , B E N I C U LT U R A L I E P R O C E S S I D I
PATRIMONIALIZZAZIONE (Bernardino Palumbo)
Negli ultimi decenni l’antropologia ha prodotto riflessioni significative sui processi detti di
patrimonializzazione di cui si possono individuare 3 attitudini diverse: quella interna, quella
critica e quella partecipativa.

• Quella interna è un’attitudine egemonica che porta gli studiosi a occuparsi di ambiti specifici
della patrimonializzazione assegnati loro dalle istituzioni, senza preoccuparsi dei contenuti o
dei processi di formazione. Presupposto di questo approccio interno è un atteggiamento
realista nei confronti del patrimonio demologico, etnologico e antropologico inteso come
composizione di beni materiali e oggetti reali stratificati nel corso del tempo in una comunità

• Quella critica si propone come obiettivo conoscitivo l’analisi etnografica dei processi di
patrimonializzazione all’interno di un’antropologia della contemporaneità; dunque la nozione di
patrimonio viene analizzata a partire dai suoi presupposti concettuali come le concezioni del
sé, le idee sull’appartenenza, le teorie dell’agency e quelle della storia. I beni patrimoniali
materiali sono visti in questa prospettiva come prodotti storico-politico-intellettuali di pratiche di
oggettivazione culturale, cioè di trasformazioni di pratiche in cose

• Quella partecipativa è una prospettiva che si muove tra quella interna e quella critica; gli
studiosi che la adottano sono solitamente consapevoli del carattere politico della propria
partecipazione. Questa attitudine presuppone l’operazione con e attraverso le cose del
patrimonio e l’obbligo di oggettivazione dei processi di costruzione di tali beni, il proprio
coinvolgimento in tali processi e gli scenari all’interno dei quali operano la logica patrimoniale e
i suoi attori; in questo senso l’etnografia è l’alternativa alla prospettiva abitudinaria e interna
dell’azione patrimoniale.
La distinzione tra le 3 prospettive di studio del patrimonio resta comunque parziale ma critica del
discorso patrimoniale e capacità partecipativa ai suoi contesti di azione, entrambe legate alle
necessità di un posizionamento etnografico, possono agire come strumenti integrati per
un’esperienza antropologica della contemporaneità.

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