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L’antropologia studia l'uomo come individuo appartenete a un gruppo con cui intrattiene
relazioni di vario genere. Secondo Tylor e una sua definizione sviluppata nel 1871, la cultura è
quell'insieme che include conoscenze, credenze, arte, morale, legge, costume e ogni altra capacità e
usanza acquisita dall'uomo come appartenete a una società. Da questa definizione nasce il razzismo,
a causa dell’etnocentrismo, ossia il giudicare i gruppi umani diversi dal gruppo cui si appartiene
secondo i valori propri di questo, tenuto come ideale centro e punto di riferimento dell'analisi.
Il contrario è il relativismo culturale.

19/03
Francesco Remotti, antropologo italiano che cerca di dare una prospettiva antropo-poietica
(antropo-poiesi): l’essere umano è un essere biologicamente incompleto, e in quanto tale
plasmabile. Questo organismo incompleto e plasmabile necessita l’intervento della cultura, che
permette di completare questo elemento di incompletezza biologica. Per fare questo, per agire
attraverso la cultura, l’uomo mette in azione una serie di rituali di iniziazione. La completezza
avviene attraverso la cultura, la quale si esplica attraverso una serie di rituali di iniziazione. Questi
rituali sono una sorta di seconda nascita, che consentono l’ingresso dell’individuo in società. Le
culture quindi completano il processo di maturazione biologica con degli interventi culturalmente
specifici.
Questa è la prosecuzione della riflessione sul relativismo culturale. Le culture intervengono a
costruire gli individui, per questo motivo si può giustificare e comprendere la differenza culturale.
Le diverse culture creano diversi uomini, non superiori o inferiori, perché tutti biologicamente
partiamo da una mancanza che viene compensata dall’intervento della cultura, che porta alle
differenze culturali. Per comprendere queste differenze bisogna quindi comprendere questi processi
di iniziazione.
La nostra identità personale man mano che andiamo avanti nella vita va gradualmente
cambiando nel rapporto con gli altri e con la società.
Come non esiste un’identità personale stabile per tutta la vita, non esiste un’identità sociale
culturale stabile.
Nella società occidentale l’identità di persona è individuabile nel sé egocentrico individualistico:
questa è la posizione individualista. Ma la prospettiva olistica (che è sociocentrica) è fondata sul
contesto, ed è un tipo di approccio al mondo appartenente alla società orientale.
L’olismo è quella cosa dove tu cerchi di ragionare su tutto e tu cerchi di fare parte di tutto. Come
lo yin e lo yang. Sono due prospettive molto diverse. Quella occidentale è procedurale, incrementa
sempre e va solo verso l’alto.
Questa orientale è processuale. Nel corso della vita si può salire come scendere, a seconda degli
eventi e delle interazioni con gli altri. Questa processualità mette in campo le altre persone come
elementi attivi in questa dinamica. L’identità si evolve attraverso una processualità frattuale, non
lineare, che fa sali e scendi, in movimento continuo.
Nella nostra società occidentale un fallimento non viene accettato facilmente, mentre in quella
orientale processuale fa parte del processo.
Il sesso è biologicamente determinato, il genere no.
L’identità è una scelta e soprattutto un fatto di costruzione, costruito da noi col rapporto con gli
altri membri della società. L’identità si costruisce, non è essenzialista, non è fissa, non c’è
un’identità che bisogna scoprire. L’identità è un flusso, è convezionalista, non esiste a priori ed
esistono modi diversi di costruire l’identità.
Le identità sono un fatto di costruzione storicamente determinata. Molti scienziati sociali sono
convinti che una descrizione più “realistica” della libertà umana, della costruzione della società sia
quella ideata da Karl Marx, in cui gli esseri umani fanno la storia senza sapere di farla, mentre
lottano per cercare di esercitare controllo sulle proprie vite e di stabilire la propria identità.
Circoncisione e infibulazione sono due pratiche rituali che obbligano le persone a coincidere col
proprio sesso biologico.
Bisogna essere in grado di decifrare i simboli di un’altra cultura. Se non ne siamo in grado non
possiamo comprenderla. Possediamo la capacità di comprendere i simboli in quanto abbiamo
compreso i nostri, dobbiamo espandere questa capacità alle altre culture. Se capiamo le altre
culture, capiamo meglio noi stessi.
La cosa fondamentale dell’antropologia è vivere insieme ai soggetti che si studiano per poterli
comprendere. Una delle basi più importanti dell’antropologia è la ricerca sul campo.
Osservazione partecipante: l’antropologo partecipa alla vita della comunità.
Anche le legislazioni sono costrutti sociali.
Qualcosa che è vicino a noi che la proviamo la accettiamo più facilmente, anche se “strana”
come pratiche a noi distanti.
Due antropologi (la coppia Rosaldo) andò a vivere presso dei cacciatori di teste nelle filippine, i
Llongot. I Rosaldo inizialmente non riuscivano a comprendere il perché delle pratiche truculente,
come la caccia dei nemici e il taglio della testa, ancora “oggi” nel 1974. La moglie morì in un
incidente. Renato Rosaldo era in preda al panico e alla disperazione, e il capo tribù gli disse di
accompagnarlo a caccia dei loro nemici, e partirono per una spedizione per uccidere i vicini del
villaggio. Lì, nella disperazione e nel lutto, Rosaldo capì perché i Llongot erano cacciatori di teste:
in questo stato di disperazione, questa pratica truculenta permetteva di elaborare il lutto. Quindi
bisogna vivere una determinata esperienza, bisogna avere empatia e esserci dentro per poterla capire
appieno.
La dichiarazione dei diritti umani è etnocentrica, infatti all’epoca alcuni antropologi ne hanno
preso le distanze. La questione della diversità culturale in quel tipo di scrittura fatta da giuristi non
tiene minimamente contro delle diversità culturali, e la cultura viene sempre di più concepita come
una barriera.
La cultura viene equiparata alla tradizione ed è contrapposta alle altre, come per dire il diritto
delle donne all’uguaglianza, senza tenere conto delle differenze tra le diverse culture. Capire le
diverse culture non vuol dire giustificarle o dare un giudizio morale, ma capire perché vengono fatte
determinate cose.
Dato che la cultura veniva definita solo in termine di valori veniva ritenuto opportuno che un
sistema etico le giudicasse.
Oggi è anacronistico considerare la cultura come qualcosa di bloccato. Il relativismo culturale
non voleva dire proteggere le piccole culture, ma capire che queste culture sono in continua
trasformazione. Per capire perché sono in evoluzione e perché persistono pratiche per noi arcaiche
dobbiamo comprendere come funzionano. Vale anche per le pratiche culturali che noi oggi nel 2021
mettiamo in atto a casa nostra. Il processo che deve essere messo in atto per comprendere è lo
stesso. Anzi facciamo più fatica a comprendere le pratiche dei nostri vicini ma diversi.
Ad esempio a Napoli il culto delle anime capuzzelle.

26/03
Secondo la teoria dell’incompletezza biologica, noi siamo esseri incompleti che si completano
attraverso la cultura, attraverso forme di cultura estremamente particolari. Fa il paio con la
particolarità culturale. Queste due cose che stanno in correlazione creano l’identità culturale, che a
sua volta è fedele ai modelli culturali attraverso i quali ci siamo formati e completati. Non possiamo
comprendere la particolarità senza comprendere la società, l’ambiente, e l’adesione ai modelli
culturali che formano complessivamente il nostro essere.
Le razze sono un’invenzione degli evoluzionisti, un’esigenza di classificazione. È un luogo
comune quello dell’esistenza di diverse razze umane. Specie se consideriamo che fino a 7.000 anni
fa gli europei avevano la pelle scura. Già nel ‘600 questo discorso di razza cominciava a essere
presente. Nel ‘600 comincia una rivoluzione concettuale, la rivoluzione copernicana. Come prima
gli uomini pensavano che visto che loro erano fermi fosse il sole a girare intorno alla Terra, le
persone credono che vista la differenza di colore della pelle esistono razze diverse.
Intorno a questo si è formata una retorica, consolidatasi durante le teorie evoluzioniste: la teoria
boscimani (bosco + uomo) per distinguere gli uomini bianchi dalle popolazioni native che abitavano
nel bosco.
Nel 1938 l’Italia vara le leggi razziali, che privava dei diritti gli italiani di razza ebraica. Non
solo gli ebrei, ma anche libici, eritrei, abissini, tutti i sottoposti al colonialismo italiano in Africa. Il
fascismo, per preparare questo “Manifesto degli Scienziati Razzisti” (Manifesto della razza), chiese
agli scienziati di sottoscrivere un manifesto elaborato da Mussolini. Era il 14 luglio del 1938, sul
Giornale d’Italia. Il Manifesto della razza, che poi divenne Manifesto per la difesa della razza, è
diviso in dieci articoli. Nel primo articolo viene stabilito che le razze umane esistono. Il secondo
punto è che esistono razze grandi e piccole. Il terzo punto dice che il concetto di razza è un concetto
puramente biologico. La razza è ereditaria biologicamente. Le differenza di popolo e di nazione
sono alla base delle differenze di razza. La popolazione italiana è di maggioranza ariana. Questa
civiltà abita da diversi millenni la penisola, e poco è rimasto delle popolazioni precedenti. Dopo
l’invasione dei longobardi non ci sono state invasioni notevoli capaci di modificare la popolazione.
Mentre per le altre popolazioni europee la popolazione è cambiata notevolmente anche in tempi
recenti, gli italiani sono rimasti immutati. Questo enunciato è basato sulla purissima parentela di
sangue che unisce gli italiani di oggi alle popolazioni che da generazioni popolano l’Italia. Questa
antica purezza di sangue è un titolo di nobiltà. Il settimo punto dice è tempo che gli italiani si
proclamino francamente razzisti. Questo non vuol dire introdurre in Italia le teorie del razzismo
tedesco, o affermare che italiani e scandinavi siano la stessa cosa, ma vuole solo indicare un
modello fisico e psicologico di razza italiana. La razza italiana si stacca dalle altre razze europee.
Bisogna elevare gli italiani a un ideale di superiorità. È necessario fare una distinzione tra i
mediterranei d’Europa occidentale e gli orientali e africani. Sono pericolose le teorie che dicono che
alcune popolazioni europee derivino da alcune popolazioni africane. Gli ebrei non appartengono
alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo dell’Italia nulla
è rimasto. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata, costituita da
elementi razziali non europei. L’unione tra razze è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee.
Questa era cattiva scienza già da allora, non c’era bisogno di arrivare allo studio del genoma per
rendersi conto che fosse sbagliato. Ma rivela il timore che senza qualche tipo di giustificazione
scientifica, qualcuno avrebbe potuto storcere il naso di fronte alle leggi razziali.
Oggi invece il razzismo non ha bisogno di nessuna giustificazione scientifica. Ci si proclama
francamente razzisti, prima gli italiani e cose così. Fino a qualche anno fa il razzismo era visto
come un residuo di un sottosviluppo culturale, oggi invece non è così.
Siamo tutti parenti e tutti differenti. Le razze non esistono. E questo lo dimostra la genetica, lo
studio del genoma umano.
C’è gente che pensa che la nostra gente sia un mosaico di persone biologicamente differenti.
Quindi le differenze sono radicate nei nostri geni, nel nostro sangue.
La parola razza non si identifica con nessuna differenza biologica nel DNA. Non c’è nulla di
congenito, nulla di inevitabile. Le identità etniche non sono congenite. L’uomo non nasce
biologicamente completo, quindi le razze non sono e non possono essere biologicamente accertate.
Le razze le abbiamo inventate.
La razza biologica è sbagliata, scientificamente. Se torniamo indietro nella genealogia degli
antenati che ognuno di noi ha, il MIT ha calcolato che in media due persone qualunque di noi hanno
un antenato in comune vissuto 3000 anni fa. Risalendo nel tempo abbiamo delle prove fossili e
quindi genetiche che la grande famiglia umana di cui stiamo parlando discende tutta da un piccolo
gruppo di non più di un migliaio di persone che 100.000 anni fa viveva in Africa. Questo è
scientificamente e biologicamente provato dalla scienza. Essendo noi esseri molto mobili, in questi
100.000 anni abbiamo colonizzato tutto il pianeta. Gli studi sul DNA dimostrano che siamo tutti
parenti ma tutti differenti, perché tutti noi su 1000 geni ne abbiamo 999 uguali.
La biodiversità umana è data a causa dell’incompletezza biologica. Ecco spiegata la differenza
biologica e la differenza culturale. Nel momento in cui questi uomini si cominciano a spostare
dall’Africa alla penisola arabica, etc… nel corso di migliaia e migliaia di anni, nel corso dei
cambiamenti climatici che sono avvenuti, dal punto di vista biologico il corpo di ognuno si è
modificato e adattato. Il cambiamento genetico è provato attraverso i geni che persistono all’interno
del corpo di ognuno di noi. La genetica è stata in grado di evidenziare il momento in cui sono
avvenuti questi cambiamenti, poiché si iscrivono nel nostro DNA. Poiché abbiamo una parte di
DNA fisso e una parte mobile, grazie agli studi genetici è stato possibile ricostruire esattamente
questi passaggi.
Quindi facciamo parte tutti della stessa specie.
Due esseri appartengono alla stessa specie se dall’accoppiamento nascono individui fertili.
Il termine razza è un costrutto teorico culturale. Non appartiene alla scienza della genetica, ma al
costrutto teorico storico-culturale e politico.
Noi apparteniamo alla stessa specie.
Il concetto di razza è stato introdotto dagli evoluzionisti. L’idea che c’è una parentela tra uomini
e scimmie è stato accettato. Il fatto di dire invece che si apparteneva alla stessa specie con altri
uomini che vivono diversamente da noi, è stato molto più difficile da accettare.
Una parte di DNA (¾) non codifica nulla, è come se fosse inerme. In quella parte in realtà
intervengono le variazioni. Grazie a questa scoperta sono state ricostruite anche le migrazioni.
La diversità umana biologica deriva da questo. La diversità biologica esiste perché c’è una
variazione, un adattamento del nostro corpo all’ambiente. Siamo la stessa specie pur essendo diversi
per questa ragione. Sono cambiamenti di adattamento ambientale.
La pressione dell’ambiente sull’uomo è una pressione continua, ma non è la sola. Perché
insieme a queste variazioni di carattere biologico che restano incise nel DNA, abbiamo le variazioni
culturali. In base all’ambiente abbiamo le diverse pratiche che possiamo mettere in atto. Se
torniamo al discorso iniziale, le differenze culturali sono necessarie perché colmano
l’incompletezza biologica. È come un cerchio che si chiude. La nostra incompletezza biologica si
completa attraverso l’adattamento e le diversità culturali. Quindi diverso da posto a posto, sia
diacronicamente che sinteticamente.
Fino a un recente passato, specie nelle comunità agricole, si preferiva una progenie maschile, e
per la mancanza di questo veniva condannata la donna, anche se il sesso geneticamente è stabilito
dall’uomo. La genetica sfata i falsi miti.
Se l’essere umano non si fosse spostato, non ci saremmo noi, non ci sarebbe la nostra varietà
biologica. Nei nostri 22.000 geni discendono da quelle 1000 persone circa che migliaia di anni fa si
sono spostate.
Filmato: la ricerca di Adamo.
Un filmato che ragiona intorno a questi problemi sull’appartenenza a un’unica specie e su come
siano stati fatti esperimenti scientifici al riguardo.
I genetisti hanno ricostruito il percorso dei geni al contrario, cercando l'Adamo genetico che ha
lasciato il proprio DNA in quante più persone possibili.
Il cromosoma y passa quasi sempre inalterato da padre a figlio, come un cognome. Anche se
ogni tanto sul cromosoma y nasce una piccola, innocua mutazione, che passa alle generazioni
successive.
Gengis khan ha avuto una mutazione che ha tramandato a 16 milioni di discendenti oggi.
Ma per trovare l'Adamo bisogna trovare un uomo che ha lasciato miliardi di discendenti.
La genetica non è l’unica risposta, ci sono anche prove fisiche, come i fossili. I Fossili più
antichi provengono dall'Africa, ma anche dall'Asia e dal medio oriente.
Si ritiene che l'Adamo genetico sia vissuto circa 60.000 anni fa, più recente rispetto alla storia
dell’evoluzione umana.
Sulle evidenze genetiche si può ricostruire un aspetto di questo Adamo.
Il primo uomo moderno.

09/04
L’etnia è quello che da la differenza tra popolo e cultura che crescono in ambienti e società
differenti.
Alla fine del 1900 e gli inizi del 2000 è tornato a galla un nuovo movimento di razzismo
culturale, che invece di fare una gerarchia ed essere universale, è differenzialista e relativista. Le
basi ideologiche di questo nuovo razzismo è la categorizzazione essenzialista: i singoli individui e
gruppi vengono ridotti allo statuto di rappresentate del gruppo. Un singolo individuo diventa il
rappresentante del suo gruppo di appartenenza, della sua comunità. Si nasce tale e si deve rimanere
tali. Un individuo viene considerato solo in base alle sue categorie di appartenenza, specie in
negativo.
Il ridurre un individuo a un concetto è un meccanismo molto diffuso. Questo tipo di definizione
e di razzismo va ad enfatizzare, a far diventare esemplare un difetto, o uno dei tanti problemi che
può affliggere una società.
Nel momento in cui al singolo viene fatto il processo di esclusione simbiotica, viene effettuata la
stigmatizzazione di uno stereotipo negativo. Il primo elemento dell’essenzializzazione ti permette di
ridurre l’individuo a incarnazione del gruppo, con la stigmatizzazione una volta che l’hai
categorizzato, e quel gruppo è immutabile, avviene un secondo passaggio attraverso l’esclusione
simbolica e gli viene attribuito lo stereotipo negativo.
Per stigmatizzare un individuo attribuiamo al gruppo il comportamento del singolo.
Abbiamo poi il terzo elemento: la barbarizzazione, cioè il ritenere che alcune categorie di
esseri umani non siano civilizzabili, o perfettibili, educabili. Da questo principio della
barbarizzazione viene fuori l’ineguaglianza biologica delle razze.
Levi-Strauss: barbaro è chi crede nelle barbarie.
Categorizzazione – stigmatizzazione – barbarizzazione.
Taguieff è il teorizzazione di queste teorie razziste alla fine degli anni 90.
Il fatto di aver creato una differenziazione per ogni gruppo umano che ha un’identità precisa e
immutabile, fatta da valori e da cultura, diverse totalmente uno dall’altro, ha portato a
un’intolleranza.
Se la nostra identità, il nostro genere, il nostro cervello, sono in divenire, vuol dire che si
evolvono e si sviluppano, quindi non bisogna parlare di una struttura stabile e definita per sempre,
ma di processi di etnicizzazione, una percorso in divenire, che si muove sul doppio asse della
diacronia e sincronia.
Nel momento in cui si continua a usare un linguaggio identitario, si cerca di coprire con questo
linguaggio un razzismo sottinteso.
Dalla seconda rivoluzione industriale il capitalismo ha pervaso l’occidente e quindi i fenomeni
di diseguaglianza e oppressione sono insiti nel sistema imperialista economico che produce tutto
quello che abbiamo visto. Per studiare questi fenomeni di diseguaglianza che implicano le
diseguaglianze di genere bisogna comprendere le strutture che continuano a determinare queste
differenze. L’uguaglianza deriva dal sistema economico imperialista che ci sta dietro, quindi se non
cambia il sistema non puoi cambiare le diseguaglianze.
Gli studi di antropologia economica portano a comprendere la società, cioè in base a come una
società è strutturata dal punto di vista economico regola i livelli di coabitazione, i poteri e le
funzioni attribuite alle singole persone e ai gruppi di quelle società, è il sistema economico che
studiato insieme a tutto il resto permette di capire come funziona la società.
Il caso emblematico è la teoria economica di Marcel Mauss, la teoria del dono, una teoria
economica che dice: in alcune società non occidentali sono presenti tre elementi fondamentali dello
scambio economico, che si basano sul dare, ricevere e restituire. L’economia del dono non è
basata quindi sulla vendita e lo scambio di merci, sull’acquisto o la vendita e la produzione, ma è
basata sul dono. Cioè, in un tipo di società, in due casi particolari che individua, che sono uno in
Nuova Zelanda nelle isole Trobriand dove individua uno scambio cerimoniale di bracciali e
conchiglie che portava a creare un mutuo soccorso tra i gruppi che si scambiavano questi bracciali.
Oppure, un altro esempio più importante, lo trova in una ricerca etnografica che aveva fatto Franz
Boas in nord del Canada tra tribù indiane in cui facevano un rito in cui per tutto l’anno
accumulavano beni e poi lo ridistribuivano ai singoli. Partendo da questi due esempi etnografici,
elabora questa teoria per la quale gli uomini donano e nel donare, ricevere e ricambiare creano
relazioni. Nel momento in cui qualcuno dona qualcosa, chi lo riceve implicitamente si impegna a
ricambiarlo. Il terzo elemento è implicito nell’accettare i dono: il dono implica un obbligo, quello
del ricambio. Non è un obbligo rigido, lascia a chi riceve la possibilità di scegliere modi, tempi,
luoghi, occasioni per ricambiare.
In una società non capitalistica, non basata sullo scambio equanime di acquisto e vendita dei
prodotti, l’uguaglianza non è sempre presente, ma è più facile che ci sia, è un tipo di uguaglianza di
carattere sociale. I rapporti non sono mediati dal potere del denaro, ma dal potere di ricambiare,
presente in tutte le persone, anche in quelli che non possiedono mazzi di sussistenza, poiché il
ricambiare il dono è limitato alle capacità che tu hai di poter ricambiare, e chi ti ha donato qualcosa
conosce le tue possibilità e quindi non si aspetta un ricambio uguale, ma che tu in base alle tue
possibilità intellettuali, economiche o morali ricambi il dono con quello che puoi. Ecco perché il
sistema economico è quello che regola uguaglianze e diseguaglianze.
La reciprocità sta alla base della costruzione sociale. Nelle società in cui vige un’alta reciprocità
i problemi di carattere sociale si risolvono con più facilità, perché c’è un rapporto più diretto tra chi
crea e chi distrugge.
Bisogna capire come questi meccanismi che sono meccanismi inconsci, agiscono sempre nel
nostro linguaggio e nel linguaggio comune. Queste posizioni rappresentano ciò che si chiama
razzismo ideologico. Da queste basi parte il razzismo ideologico, i meccanismi di categorizzazione,
stigmatizzazione e barbarizzazione portano a queste basi. Queste basi sono dentro di noi, le
abbiamo introiettate, sono le posizioni dentro le quali siamo cresciuti.

16/04
Il legame tra la costruzione dei fatti culturali, il nostro essere e stare al mondo.
Una questione importante per comprendere meglio questa faccenda è quella di ragionare sui casi
limite, sui casi estremi. Uno dei casi estremi importanti è quello del bambino selvaggio
dell’Aveyron, una regione al nord della Francia, un caso che è stato documentato, come molti altri
casi di bambini selvaggi (tipo Tarzan), cioè bambini abbandonati in qualche modo nella foresta, in
luoghi selvaggi e che crescono e si formano in un modo totalmente diverso rispetto ai propri simili,
ai bambini che nascono e crescono in un contesto familiare preciso.
Questo è il caso emblematico per comprendere come tutta quella che chiamiamo cultura forma
una parte del nostro cervello, modella i nostri comportamenti e colma l’incompletezza biologica.
Uno dei casi più famosi è il famoso caso del bambino selvaggio dell’Aveyron, un caso molto
studiato perché si svolge alla fine del 1700, e un medico, tale Gaspard Itard, si prende cura di lui, lo
porta in un orfanotrofio, cerca di educarlo. Il dottore scrive le sue memorie, riportando tutti i suoi
dubbi, i metodi di approccio, come cerca di “educarlo”. Tutto questo ragionamento è intriso di un
ragionamento illuministico, tipo l’Emilio o dell’educazione (libro di Rousseau). Nel periodo che va
dal 1700 europeo, la riflessione sul linguaggio e sullo studio delle facoltà dell’intelletto è tra le più
diffuse. Una delle cose fondamentali che mancava a questo bambino era il linguaggio. Non era
muto, ma gli mancava il linguaggio.
Sul linguaggio, le capacità espressive fondamentali della cultura umana, sono cominciati studi
nel ‘700, tra cui quello di de Condillac, in cui cercava di illustrare il modo in cui si sviluppano le
operazioni della mente, come prendono corpo e si formano. Questo filosofo francese immagina che
sia possibile spogliare l’uomo di tutto quello che è originario. Renderlo nudo, come il caso del
bambino selvaggio. Trovare questo bambino nudo, in una foresta, senza nessuna impostazione di
influenza sociale, secondo queste tesi, dava la possibilità di educarlo, di sviluppare in lui
un’educazione come se fosse una tabula rasa. Si immaginava di poterlo istruire e portarlo a
diventare come gli altri bambini, come pensavano gli evoluzionisti, che pensavano che le società
“primitive” erano a una fase primordiale e che prima o poi sarebbero diventati come gli inglesi del
1800. Tutto ciò non contemplava una cosa fondamentale: le fasi dell’apprendimento.
Questo tipo di “scoperta” porta a interrogarsi sull’apprendimento e sulla filosofia e sull’idea
della capacità di linguaggio come elemento innato della cultura, cioè che l’uomo nasce già con la
parola incorporata. Trovare un bambino di 7 anni che aveva la capacità fonatoria e uditiva ma non
parlava mette in dubbio questo principio fondante, cioè il fatto che il linguaggio sia innato
nell’uomo. Secondo questi filosofi, la capacità di linguaggio è come se si fosse originata all’interno
dell’organismo. Per questo motivo questa facoltà è presente in tutta la specie umana,
indipendentemente dalle regioni.
Questa filosofia di de Condillac ha influenzato tutti gli studi in merito, e questo elemento del
ragazzo selvaggio crea un buco nel ragionamento.
Di questo argomento se ne occupano i più grandi illuministi, tra cui anche Rousseau, che nel
1775 richiama nel suo saggio l’attenzione su un altro bambino selvaggio ritrovato in quel periodo.
Con la scoperta di questo nuovo bambino all’inizio del 1800, però, cinquant’anni dopo de Condillac
e Russeau, suscita un nuovo interesse tra naturalisti, che pensavano potesse offrire un’analisi di
questi principi dei processi innati del linguaggio. Si pensava che questo bambino potesse dare
l’opportunità di provare queste teorie, in quanto tabula rasa.
La scoperta di questo bambino permette e obbliga a istituire la società dell’osservazione
sull’uomo, una commissione per lo studio di questo particolare caso. Era un caso da manuale, come
si direbbe oggi, per studiare le basi della natura umana e per stabilire cosa caratterizza l’uomo
rispetto l’animale: il linguaggio, l’intelligenza e la morale. L’interesse per il ragazzo selvaggio
testimonia questo ragionamento, che cerca nell’infanzia dell’uomo l’infanzia della propria cultura:
il bambino selvaggio è come la società primitiva.
Il discorso sul linguaggio è un discorso importante per capire la cultura umana.
L’assenza di linguaggio, come diceva Levi-Strauss ragionando su questo caso, se prolungata e
accompagnata da un’impossibilità all’apprendimento del linguaggio, diventa permanente. Questo è
ormai assolutamente provato, ma all’epoca era impensabile, visto che la riflessione dominante
sosteneva che il linguaggio fosse innato. Ma ora si cominciava a capire che se il bambino viene
allontanato dall’ambiente in cui si parla e non apprende attraverso il contesto sociale in un periodo
preciso, ossia i primi anni, non apprenderà mai il linguaggio, o comunque mai in modo perfetto.
Queste oggi sono delle ovvietà.
Qui ritorna il discorso dell'incompletezza biologica: pur avendo tutti gli strumenti per parlare, è
la cultura che porta a imparare a parlare.
Il linguaggio si apprende esclusivamente per imitazione, grazie ai neuroni specchio, che ci
permettono di copiare e imitare gli altri, e che sono alla base della teoria dell’apprendimento.
Quando l’uomo primitivo inizia a riuscire a fare opporre il pollice e l’indice, comincia a poter
fare cose più raffinate, questo tipo di gesto innesca la possibilità del linguaggio. Sembrano due cose
completamente lontane tra di loro, e invece sono due cose strettamente collegate, proprio perché è il
corpo in toto che diventa performante.
La scoperta dei neuroni specchio è importante perché permettono di comprendere come l’uomo
modifica il proprio apprendimento e come il copiare e l’imitare siano alla base di tutte le società.
Dimostrano che l’appartenere a un gruppo è fondamentale per lo sviluppo di quella parte del
cervello che non è sviluppata a a causa dell’incompletezza biologica.
I neuroni specchio hanno un ruolo fondamentale anche nell’empatia. Se i neuroni specchio
hanno un ruolo fondamentale nelle capacità di apprendimento della nostra mente, vuol dire che
sono fondamentali nella trasmissione della cultura. Si attivano, secondo esperimenti scientifici,
quando vediamo un’altra persona compiere un’azione. Noi quando vediamo qualcuno compiere
un’azione attiviamo alcuni neuroni, tra cui i neuroni specchio. Quando compiamo la stessa azione,
si attivano gli stessi neuroni specchio. Non è solo un meccanismo imitativo, che vediamo fare una
cosa e la rifacciamo identica, questi neuroni ci permettono di copiare, ma si attivano anche quando
replichiamo quell’azione.
Il bambino selvaggio, avendo perso il momento fondamentale dell’apprendimento, ossia i primi
anni della vita, non poté più imparare a parlare correttamente.
I neuroni specchio, che si attivano quando vediamo compiere un’azione e quando la compiamo
noi, sono determinanti per i comportamenti e la trasmissione della cultura, perché comprendiamo le
azioni degli altri perché nel nostro cervello abbiamo un modello di quell’azione, basato sui nostri
stessi movimenti. Ecco perché l’etnocentrismo ci pervade: perché noi capiamo le azioni degli altri
grazie allo schema nel nostro cervello, basato sui nostri stessi movimenti. Questo vuol dire che noi
comprendiamo un comportamento perché le abbiamo viste fare ma anche perché lo facciamo noi
stessi.
È un’imitazione basata su un modello che abbiamo imparato perché abbiamo incorporato. Non è
fisso, ma è variabile, proprio perché è una copia. I neuroni specchio non si limitano ad accoppiare
azioni eseguite e azioni copiate, ma forniscono anche la codifica di queste azioni.
L’idea dei neuroni specchio arriva ai ricercatori di Parma da un filosofo francese che si chiama
Merleau-Ponty. Lui dice che è necessaria una divisione fisiologica che divida le parti del cervello in
funzioni cognitive in una dimensione olistica che veda nella percezione e nell’azione un unico
processo indistinto che sfocia nel processo di imitazione. Insomma la divisione del cervello in parti
separate ma tutte collegate in un processo e un ragionamento olistico. Il ragionamento olistico sul
cervello porta a comprendere che tutti i comportamenti sono collegati.
Nel momento in cui i neurologi assumono queste teorie e le provano in laboratorio, scoprono
che è vero: il cervello non è diviso in compartimenti stagni, ma tutto è collegato tramite i neuroni
specchio. L’olismo del cervello è l’olismo dell’uomo che sta in società. Più l’uomo si distacca dal
contesto sociale più apprende altre cose.
Il discorso dei neuroni specchio modifica una delle teorie più importanti nel campo della
psicologia dell’età evolutiva che comprende delle operazioni inferenziali per capire i
comportamenti delle persone. Questa teoria è stata abbandonata per la teoria dell’imitazione.
I neuroni specchio vengono considerati precursori evolutivi dei processi neuronali.
La teoria della simulazione ci permette di capire perché non capiamo le persone che fanno le
cose diverse dalle nostre. Nel momento in cui un’azione non l’abbiamo vista fare, non la
riconosciamo e non la comprendiamo.

23/04
Nello stesso periodo in cui nascono le teorie della psicanalisi di Freud, Einstein comincia a
ragionare sulla teoria della relatività. C’è un cambio di secolo, dal diciannovesimo al ventesimo, ma
avviene anche un cambio di paradigma, di modo di affrontare la vita, la scienza e la ricerca, nel
mondo umanistico, scientifico e in tutte le scienze in generale.
Questo passaggio deve essere considerato alla luce del processo evoluzionistico che era partito a
metà del 1800, con la teoria dell’evoluzione di Darwin, con la quale si sviluppano una serie di teorie
positiviste che pensano di poter spiegare tutte le cose del mondo con l’evoluzionismo, con le ovvie
complicazioni che abbiamo già visto.
Alla fine del 1800, tutto il mondo si mette in movimento, inizia a voler cambiare metodo di
lavoro, e inizia a mettere in crisi le teorie consolidate. Non è un caso che Conrad scriva Cuore di
Tenebra in quel periodo, romanzo in cui l’uomo bianco colonizzatore si trova perso, solo in mezzo
ai popoli africani, privato del potere di colonizzatore e dominante.
Prima di questo periodo lo studio antropologico era finalizzato a comprendere per sottomettere,
in quanto si pensava che i popoli “primitivi” si sarebbero evoluti nell’uomo civilizzato, che erano
indietro sulla linea evolutiva. In quell’epoca la ricerca avveniva attraverso l’analisi dei resoconti dei
viaggi fatti da viaggiatori di varia natura, senza effettivamente viaggiare. Erano resoconti scritti da
missionari religiosi, capi delegazione delle compagnie delle indie.
Il famosissimo Frazer ad esempio (autore de Il ramo d’oro) non aveva mai messo piede in una
tribù, nonostante ne abbia scritto lungamente e approfonditamente, ma solo sulle basi di racconti
altrui.
Questo è il cambio di paradigma che avviene col finire del 1800: gli antropologi cominciano a
comprendere che questo modo di studiare non tiene conto di tutte le possibili sfaccettature che
possono provenire dal contatto diretto col soggetto. Oggi per noi questa è una cosa scontata, ma
allora non lo era, in quanto lo studioso, in quanto tale, studiava solo in biblioteca. Questo approccio
comincia piano piano a essere demolito, e l’avviare queste spedizioni in Australia, India, etc, porta
alcuni antropologi, in particolare Spencer prima e poi Tylor, a ragionare sulla possibilità di fare
ricerche sul campo per ottenere risultati più interessanti.
La spedizione dello stretto di Torres ( tra Indonesia e Australia) inaugura le ricerche sul campo,
anche se in modo molto naturalistico: ancora siamo lontani dall’integrazione col popolo da studiare,
si tratta di entrare in contatto, ma per brevi periodi.
Questi vengono chiamati nuovi etnografi, che cominciano a moltiplicare le ricerche sul campo,
sollecitati anche dal fatto che il lavoro che questi svolgevano veniva sintetizzato nella monografia
etnografica, un nuovo elemento di fondamentale importanza e che arriva fino a oggi. In
sostituzione del resoconto etnografico, si crea un nuovo tipo di documento scientifico, la
monografia, un testo dedicato ai tanti aspetti di un determinato e specifico gruppo.
Queste modalità non verranno mai più abbandonate: un antropologo per ritenersi tale deve avere
fatto uno studio specifico di una comunità e aver prodotto una monografia etnografica.
Uno dei primi antropologi a lavorare e ragionare sulla ricerca sul campo fu Rivers, che aveva
compiuto delle ricerche di Australia, Malesia, etc. Rivers aveva avuto l’incarico da un’istituzione
americana di redigere un rapporto sull’avanzamento della ricerca antropologica al di fuori degli
Stati Uniti. Gli USA fin da subito avevano posto attenzione sulla ricerca antropologica in maniera
intensa, perché in casa avevano degli indigeni, gli Indiani d'America, e quindi erano particolarmente
interessati a capire le culture diverse dalla propria.
Franz Boas – Arte Primitiva, è un libro inizi del ‘900, il primo studio approfondito delle arti
“primitive”, il primo che comincia a svicolarsi dalle teorie evoluzionistiche ma li affronta
semplicemente per come sono, senza etnocentrismo e senso di superiorità.
Un altro campione della ricerca sul campo è invece il polacco Malinowski, che studia e lavora
in Inghilterra e nel 1914 si reca a Melbourne, per un congresso di antropologia. In quanto di origine
polacca, era cittadino dell’impero austro-ungarico, quindi “nemico” dell'Inghilterra. Allo scoppio
della prima guerra mondiale fu costretto a rimanere bloccato in Australia, non potendo ripartire
essendo di una nazionalità nemica. Essendo bloccato in Australia e avendo già studiato le
esperienze di Rivers e delle varie ricerche sul campo, decide di restare nelle isole della Nuova
Guinea. Non resta però, come gli altri, andando a trovare il popolo soggetto dello studio per pochi
giorni per volta, ma decide di trasferirsi fisicamente nel villaggio e ci resta per due anni, instaurando
nel concreto una nuova modalità d ricerca sul campo.
Osservazione partecipante: così la chiama Malinowski, ossia il guardare e studiare non
dall’esterno ma dall’interno. Questo è il nuovo paradigma che porterà alla nascita della monografia
etnografica, che è lo strumento più importante dell’antropologia a partire dal 1900 e ancora oggi.
Una delle cose importanti di questa osservazione partecipante è la possibilità di dire “Io c’ero:
questa cosa è veramente così perché l’ho vista con i miei occhi”: questa è la chiave di volta della
ricerca, ma anche un suo limite, in quanto su questo “è come ti dico io” si incrina il ragionamento
scientifico, perché la visione dell’antropologo è comunque parziale e soggetto a stereotipi.
Da quel momento in poi tutto cambia e si comincia a parlare di etnografia, che diventa una
scienza portante in tutti i campi umani. Argonauti del pacifico occidentale è la monografia redatta
alla fine di questo soggiorno di due anni di Malinowski, 1922.
In questo libro Malinowski sostiene che un buon etnografo sul campo deve possedere un’ottima
teoria scientifica, così come un buon teorico deve possedere delle buone capacità sul campo.
Gli elementi fondamentali del metodo di Malinowski sono il decentramento e il coinvolgimento
personale, cioè l’osservazione partecipata. Questo vuol dire che per studiare adeguatamene una
cultura occorre viverla. Occorre immergersi nello stesso fluire delle attività quotidiane di quella
comunità, bisogna ragionare come i nativi.
Malinowski nel suo volume ragiona sulle condizioni fondamentali del lavoro dell’etnografo.
Secondo lui condizione principale era non avere contatti con altri uomini bianchi. Bisogna tagliarsi
dalla compagnia di altri propri “simili” e restare il più possibile in contatto con gli indigeni. Ci
vuole un approccio olistico perché l’indagine etnografica non riguarda solo la conoscenza del
ricercatore, ma tutta la sua persona e tutta la sua esistenza. Ci si deve allontanare dalla propria
realtà, per poi tornarci al momento di scrivere il libro. Solo con le stesse privazioni si può
raggiungere la consapevolezza della cultura di quel popolo. Cambia il concetto di dato raccolto, non
sono più informazioni asettiche sulle pratiche e credenze, ma si tratta di stabilire un rapporto
empatico, di entrare in sintonia con l’essenza del popolo studiato, con la loro storia del mondo.
Questa è l’osservazione partecipata. Questo tipo di rapporto olistico è per Malinowski un elemento
fondamentale.
Quindi non la singola analisi dell’epifenomeno, ma attraverso l’analisi della routine quotidiana
l’analisi ANCHE dell’epifenomeno, della grande festa che è importante proprio perché si discosta
dalla routine. Approccio olistico: sapere tutti gli elementi.
Compito dell’antropologo è comprendere le relazioni delle diverse parti, le relazioni tra le parti
che compongono la cultura in quanto attività organica. Questo principio toglie valore a quello che
gli evoluzionisti consideravano il lato principale della loro teoria, il comparativismo evoluzionista,
ossia di confrontare tra loro solo i singoli frammenti. Il comparitivismo evoluzionista viene abolito,
perché una cultura deve essere osservata e considerata come un tutto nella propria totalità. Questo
metodo predilige lo studio sincronico, cioè in quello stesso momento, quello che poi viene trasposto
nel libro in un presente etnografico, che pone in secondo piano i processi di mutamento storico di
una cultura.

30/04
Il metodo Malinowski ha scompaginato la teoria comparativa, proprio perché lui si concentra
sulla pratica dell’osservazione partecipativa.
I metodi comparativi non sono scomparsi, anzi, oggi sono tornati di moda. Questo perché la
comparazione comunque se ben utilizzata e soprattutto in contesti omogenei, ti permette di capire
determinate situazioni.
Marcel Mauss utilizza gli studi di Malinowski per parlare della teoria del dono, lo scambio/cura.
E utilizza anche gli studi di Franz Boas, tedesco che fondò la scuola antropologica americana, lo
Smithsonian Institute, e utilizzò in particolare gli studi di Boas degli Indiani d’America, e di un rito
particolare, il potlàc, che prevedeva una ridistribuzione dei beni in una comunità attraverso il rito.
Secondo Durkheim la società è la somma degli individui che la formano. Gli attori sociali che
ne fanno parte, però, non devono essere per forza consapevoli.
Questo porta Mauss e poi tutti gli altri a ragionare su questi concetti.
Marcel Mauss prova a mediare tra i concetti di società e individui, che poi sono i concetti che
Durkheim ha elaborato, tra le coscienze e i modi di sentire di una società e una cultura.
La magia e la religione, le credenze sull’anima e sul sovrannaturale sono rappresentazioni
basilari che derivano dall’innesco tra rappresentazione soggettiva e collettiva, secondo Mauss e
Durkheim.
Marcell Mauss e Hubert pubblicano un saggio sulla magia e sul mana, una credenza diffusa in
Malesia. Il mana era una forza esterna presente nei luoghi, che si impossessava delle persone, si
caricava di valori positivi ma anche negativi, era una nozione molto vaga, ma al tempo stesso era
una nozione concreta e chiara, evidente. Il mana è presente pure se assente, invisibile e non
palpabile, grazie alla quale la realtà della magia è fuori discussione: è grazie al mana che la magia
esiste. Essendo data a priori, l’idea di mana esiste a priori, precede qualsiasi esperienza, e questo
esistere comporta il fatto e giustifica la realtà della magia.
Per Mauss e Durkheim le categorie logiche nascono come classi, ed è su questo che Durkheim
scrive il suo saggio sulla magia. Analizza la religione a partire dalla contrapposizione basilare tra
magia e religione, quindi tra sacro e profano. Durkheim si chiede cosa conferisce la qualità di sacro
a certi oggetti, posti, persone, qual è il limite che li fa diventare sacri o profani. Durkheim dice il
sacro è sacro perché si riferisce ad esperienze collettive e sociali, il sacro non è mai individuale.
Qualsiasi esperienza collettiva e sociale che si manifesta come una presenza all’interno del sacro
collettivo e non individuale appartiene alla categoria del sacro.
Il sacro, per Durkheim, si riferisce a esperienze collettive e sociali. Quindi l’esperienza che si
percepisce nel sacro è la stessa che la società esercita nei confronti dell’individuo. C’è un rapporto
univoco tra la forza e la potenza che la società esercita sull’individuo, più forte sarà il sacro e la
magia.
Alla base della maggior parte delle tribù australiane, troviamo un gruppo che ha un’importanza
fondamentale: il clan. In primo luogo gli individui che lo compongono si ritengono uniti da una
parentela, pur non essendo uniti da consanguineità, ma portano uno stesso nome. Tuttavia si
considerano membri di una sola famiglia, grande o piccola a seconda delle dimensioni del clan, per
il solo motivo che sono uniti da una stessa parola. Loro si riconoscono a vicenda gli stessi obblighi
di una famiglia: assistenza, aiuto, non sposarsi tra loro. Ciò che distingue il clan è che il nome che
porta è lo stesso delle cose materiali con cui crede di avere legami particolari, ossia il totem. Il
totem del clan è anche di quello di ciascuno dei suoi membri. Di conseguenza due gruppi che
abbiano lo stesso totem possono essere due sezioni dello stesso clan. Quanto alla parola totem è
quello che usano gli ogivai, con questo termine designano l’insieme di cose con cui si identificano.
Per quanto il termine non abbia nulla di australiano ma abbia origini tra gli indiani d'America, gli
etnografi l'hanno adottato per definire queste società totemiche. Gli oggetti che servono da totem
appartengono nella maggior parte dei casi al regno vegetale o animale, e le cose inanimate sono
usate molto più raramente. Su oltre 250 nomi totemici ce ne sono solo una quarantina che non sono
vegetali o animali, e sono nubi, mare, pioggia, stelle, etc. (dal libro di Durkheim).
Il totemismo è dominato interamente dalla nozione di un principio divino.

07/05
L’elemento della parentela era uno degli elementi fondamentali, intesa non come parentela di
sangue ma come appartenenza di clan (Durkheim)
Su questa stessa linea, alcuni anni dopo, abbiamo Marcel Mauss, con la teoria del dono. Sul
discorso del totemismo invece abbiamo alcuni anni dopo, in particolare Radcliffe-Brown e Evans-
Pritchard che fanno parte della corrente funzionalista. Malinowski è il primo che si discosta dalle
teorie di Boas e dalla scuola francese di Durkheim e Mauss. Il funzionalismo britannico in
contemporanea con Malinowski o subito dopo, ha un importante percorso di studi in questi due
autori, Radcliffe-Brown ed Evans-Pritchard.
Radcliffe-Brown nasce nel 1880 circa e diventa, dopo la partenza di Malinowski per l'America,
la figura più importante per l’antropologia britannica. Parliamo dell’impero britannico, una nazione
che ha un impero di colonie e culture diverse su cui domina, e quindi gli studi antropologici sono tra
i più importanti da sempre. Radcliffe-Brown è in realtà non un allievo di Malinowski, ma è un
allievo non diretto di Durkheim. Cioè Durkheim ha una fortissima influenza su Radcliffe-Brown e
quindi sul funzionalismo, perché Radcliffe-Brown cercò di far confluire sul ragionamento intorno ai
popoli “primitivi” tutto ciò che Durkheim aveva sviluppato sul discorso sociologico. Negli anni ‘20
del 1900 Radcliffe-Brown si pone il problema di come definire il soggetto principale
dell’antropologia partendo dal metodo che bisogna utilizzare. Sembra una questione solo teorica,
ma dimostra come Radcliffe-Brown abbia appreso e messo in atto gli insegnamenti di Durkheim, in
quanto seguendolo Radcliffe-Brown cercò di circoscrivere il campo dell’antropologia, definendolo
in modo che l’antropologia studiasse i fenomeni sociali in quanto tali, cioè dei fenomeni che non
sono riducibili ad altri ordini di realtà. Radcliffe-Brown voleva delimitare il campo
dell’antropologia a possibilità di individuare in modo preciso, dettagliato e pertinente l’oggetto
della sua ricerca.
Questo metodo consisteva in prima istanza nel cercare di comprendere in maniera dettagliata i
meccanismi che all’interno della società consentono il funzionamento del complesso meccanismo
sociale. È un meccanismo strutturale perché cerca di capire i meccanismi che permettono il
funzionamento della società. In questo modo cerca di individuare le leggi generali di questo
funzionamento. Quindi il struttural-funzionalismo si chiama così per questo doppio livello: da un
lato cerca di capire il funzionamento della società e ne determina le leggi, e nel determinarle capisce
quali solo le leggi struttura della società.
In questo modo l’antropologia determina l’oggetto delle leggi che definiscono la società, ma
anche l’evoluzione della società. Questa è la teoria epistemica che viene messa in campo da
Radcliffe-Brown. Questo come viene messo nella prova del campo di indagine?
Radcliffe-Brown diceva del metodo induttivo che tutti i fenomeni sono sottoposti alle leggi della
natura, e quindi è possibile applicando certi metodi logici scoprire e provare le leggi generali, cioè
trovare le leggi generali partendo dal dettaglio.
Il concetto di struttura sociale è una novità per l’antropologia.
Il concetto di struttura sociale si intreccia e si fonde con il discorso sulla funzione e sul
funzionamento della società, ed è intrinsecamente collegato con il processo. Con il funzionalismo
entra in campo il processo, cioè tra gli individui c’è una relazione, e questa relazione avviene
attraverso il processo sociale, che poi determina la funzione sociale di un’azione. Il processo sociale
è un elemento determinante per comprendere quello che gli uomini fanno, mentre la funzione
sociale serve per capire le regole generali dietro quello che gli uomini fanno. In queste tre fasi si
cominciano a sviluppare i prossimi decenni dell’antropologia.
L’applicazione di questo metodo di Radcliffe-Brown avviene tra gli aborigeni australiani.
Radcliffe-Brown nel fare questo studio sull’organizzazione tribale e sociale in Australia negli anni
‘30 parte dal sistema della parentela, cioè ragiona sul sistema a quattro sezioni, come lo chiama. In
base a questo sistema ogni individuo è assegnato a una sezione diversa, e permette a Radcliffe-
Brown lo studio dei sistemi di parentela, permette di comprendere meglio e di strutturare meglio il
totemismo di Durkheim. Perché studiando questa ripartizione in sezione dei clan aborigeni,
Radcliffe-Brown individua un’unità del gruppo e delle sotto unità. E queste come vanno a incidere
da un punto di vista strutturale sulla tribù? Sull’identificazione del totemismo e del totem?
Radcliffe-Brown ci dice in “la teoria sociologica del totemismo” che in realtà le conclusioni di
Durkheim sul totemismo erano sbagliate per tante ragioni, soprattutto perché: i simboli animali e
vegetali, che Durkheim aveva individuato come elementi fondanti, non erano così chiari e netti,
secondo Radcliffe-Brown, perché entrava in gioco una componente in più che Durkheim non aveva
considerato: la componente economica. Radcliffe-Brown accetta la versione funzionale di
Durkheim, cioè l’effetto del simbolo totemico che genera il gruppo, ma respinge totalmente l’altro
ragionamento, ossia quella per la quale l’adozione del simbolo animale o vegetale è da considerare
il risultato del modo di stabilire le relazioni tra l’uomo e il totem. Secondo Radcliffe-Brown, invece,
questo secondo elemento del totemismo non si stabilisce con una connessione diretta, ma al
contrario l’atteggiamento rituale nei confronti degli animali o delle piante deriva e viene prima,
ossia precede l’utilizzo del totem. Cioè questi animali e queste piante diventano simbolo totemico
perché hanno valore. Mentre per Durkheim l’identificazione nel totem avveniva DOPO, cioè prima
c’era l’identificazione e poi gli si dava valore, per Radcliffe-Brown prima viene dato il valore alla
pianta e poi diventa un simbolo totemico.
Radcliffe-Brown capiva che c’era ancora qualcosa in questa teoria che aveva elaborato che non
lo convinceva totalmente, e infatti negli anni ‘50, in un altro volume, il metodo comparativo,
abbandona questa teoria del totemismo economico. Sostiene che in questa teoria ci sono due
problemi: il primo è che nell’individuazione delle specie si chiede perché scegliere certe specie e
non altre. Se c’è un discorso di tipo economico, perché alcuni animali e piante vengono scelte e non
altre, tra quelle che hanno un valore economico? Perché spesso noi troviamo abbinate le stesse
coppie di animali, vegetali, etc? Non può essere un caso. Lui dice nel momento in cui mi metto a
comparare alcuni rituali, alcuni totem, con alcuni riti e rituali, troviamo che gli animali simbolo
sono sempre gli stessi. Giunge alla conclusione che alla fine la natura in generale, il mondo della
vita animale e vegetale viene rappresentato attraverso il totem, e attraverso i totem rappresenta le
relazioni sociali. Quello che vediamo ricostruito nell’animale simbolo sono delle opposizioni, delle
coppie di opposizioni, e queste coppie essendo di carattere strutturale, presenti in molti luoghi molto
diversi, determinano che il totemismo sia un elemento strutturale delle società umane in generale.
L’elemento strutturale che Radcliffe-Brown individua si basa sull’unione di elementi opposti.
Questo principio dell’unione dei termini opposti fa si che il totemismo possa esprimere in modi
particolari i rapporti che si dovrebbero o potrebbero trovare anche all’interno dei miti, dei riti e dei
simboli che compongono la società. Secondo Radcliffe-Brown il totemismo in realtà esprime
l’opposizione di gruppi diversi che vengono all’interno della simbolizzazione totemica uniti in una
rappresentazione funzionale attraverso la parentela, lo scambio matrimoniale e il matrimonio. In
realtà il totemismo si può riportare all'elemento fondante del totemismo: la parentela.
Attraverso il matrimonio il clan si allarga, facendo alleanze matrimoniali con tribù che sono in
opposizione, ecco perché nei totem si trovano animali che non si trovano in quel clan, ma in un clan
vicino che è in opposizione. È l’unione degli opposti che permette la sopravvivenza della comunità.
Non a caso lo strutturalismo di Claude Levi-Strauss sarà fondato sull’atomo di parentela, e
secondo lui il principio che fonda questa parentela è il matrimonio con qualcuno di un clan diverso.
Nel momento in cui il clan si impone il tabù dell’incesto nasce quello che sta dicendo Radcliffe-
Brown: il tabù dell'incesto è l’obbligo di sposarsi con persone diverse dei propri consanguinei,
quindi cercare alleanze fuori dalla famiglia.
Appartenere a un gruppo piuttosto che un altro istituisce una gerarchia sociale, quindi il
totemismo non è un fattore secondario, ma un fattore determinante dei rapporti quotidiani dei
membri del clan.
Evans-Pritchard era allievo di Radcliffe-Brown. Lui ragiona, fa una grande ricerca sulla
stregoneria, gli oracoli e la magia tra gli Azande, una delle più importanti monografie etnografiche
scritte insieme a quella di Malinowski. Evans-Pritchard aveva fatto una ricerca sugli Azande, un
popolo in Sudan/Congo, negli anni ‘20. Evans-Pritchard ragiona sul pensiero magico. Già Frazier
aveva studiato la magia, ma Evans-Pritchard si concentra su alcuni aspetti della magia, e cerca di
comprendere come la magia funziona, e perché. Presso gli Azande ogni disgrazia viene attribuita
alla magia. Per gli Azande la magia è una condizione normale della società, non una situazione
straordinaria. La magia è organica al loro essere, interna a questa comunità. Lo dice perché vede che
gli Azande possiedono un vasto repertorio di tecniche magiche, di rituali magici, da contrapporre
alle disgrazie. Quindi stregoneria, oracoli e la magia presso gli Azande sono un complesso di
credenze e riti, che noi riusciamo a capire solamente se adottiamo il metodo Malinowskiano
dell’olismo, solamente se li mettiamo tutti insieme e li ragioniamo tutti insieme, come parti di uno
stesso sistema.
Sono parti interdipendenti l’una dell’altro, il che vuol dire che il sistema ha una struttura. Se
come credono gli Azande la stregoneria provoca la morte, la morte per gli Azande è la prova
dell’esistenza della stregoneria. Gli oracoli che sono la parte preliminari confermano che è stata la
stregoneria a provocare la morte, e allora nel momento in cui il sistema tripartito, la stregoneria
provoca la morte, la morte è prova della stregoneria, chi è stato colpito dalla stregoneria si serve
della magia per vendicarsi della stregoneria. Stregoneria > oracolo > morte. Ecco qual è la coerenza
interna di questo sistema di pensiero: il sistema Azande ha un carattere coerente, logicamente
interconnesso. Questo libro riesce attraverso questa configurazione tripartita circolare a spiegare
qualcosa di inspiegabile, cioè come gli esseri umani che di solito si credono razionali, quando sono
inseriti in un sistema di pensiero coerente come questo, si comportano ai nostri occhi in maniera
irrazionale, ma in realtà il pensiero che sta alla base di questa credenza è razionale e coerente. Si
basa sullo scambio, è l’oracolo a individuare chi ha fatto la stregoneria. Gli operatori magici
diventano gli elementi fondanti di quella società. Lo stregone è infatti l’elemento fondante di molte
società, essendo lui anche l’oracolo che determina chi ha fatto la stregoneria.

14/05
Queste teorie antropologiche che sembrano fuori dal ragionamento contemporaneo, possono in
realtà essere usate per capire fenomeni che si svolgono nel nostro contemporaneo. Oggi occorre
riflettere molto da un punto di vista teorico su questa nozione urticante, cioè quella di tradizione.
Questa nozione ha creato molto dibattito tra gli antropologi, creando confronto sulla salvaguardia,
la ricerca, etc. La tradizione, che si suppone essere conservazione, manifesta invece una importante
e singolare capacità di variazione. La tradizione è variazione. Consente un ampio margine di
manovre, non in generale, a chiunque, ma a coloro i quali creano e custodiscono, conservano quella
tradizione, quella pratica culturale, per essere più precisi. Come diceva Pasolini, non è il passato che
produce il presente, ma è il presente che modella il passato. Le pratiche culturali locali, quelle che
chiamiamo tradizioni, non sono una permanenza del passato nel presente, una sovrapposizione di
periodi storici diversi o il lascito di un mondo globalmente concluso, ma sono elementi in
movimento in un contesto contemporaneo. Per essere compresi vanno pensati come pratiche
culturali che sono elementi di cambiamenti in un contesto innovativo, attraverso i quali noi nel
presente modifichiamo e agiamo nel contemporaneo. Questo è l'elemento fondamentale necessario
per comprendere alcuni elementi della permanenza in alcune feste di alcuni tratti culturali per noi
incomprensibili.
Questo paradigma per essere messo in atto comporta un approccio e una maniera non
tradizionale di occuparsi della tradizione. Bisogna passare da una visione tradizionalistica della
tradizione, che si basava sull’eredità, a una comprensione di queste pratiche culturali come pratiche
culturali costituite simbolicamente nel presente. Per citare Foucault, potremmo dire che la
dimensione arcaica che penetra nel nostro presente costruisce quello scarto, quella possibilità in più
che abbiamo e ci permette di individuare quello che nel nostro contemporaneo è non omologato, e
nello stesso tempo ci permette di far diventare il presente il tempo dell’attualità. L’arcaico, la
tradizione, in realtà se si fa oggi in questo contesto contemporaneo non è arcaico, ma è il presente, è
l’attualità, è l’arcaismo del nostro presente.
Quello che noi riteniamo arcaico è attuale, e l’attualità sta nell’arcaicità di queste pratiche che
mettiamo in atto oggi nel contemporaneo.
Il rito non è qualcosa che va separato dalle alle altre forme di relazione umana. Non possiamo
considerare il rito, il totemismo, la magia, come qualcosa di separato. Se consideriamo come un
modo di stare nel mondo l’azione rituale, bisogna riflettere sul fatto che oggi quando diciamo
questo pensiamo sia un pensiero pre-logico. La pratica del rito non è diverso dalla pratica
dell’approccio dialogico conversazionale. Entrambe le cose necessitano di alcun caratteristiche
fondamentali: il coordinamento, la vicinanza, la fiducia e la limitazione della volontà del singolo.
Quattro elementi che sono funzionali e determinanti sia del rito che della conversazione. Entrambi
necessitano di un’apertura verso l’altro. Questi due elementi affermano che quando si inizia a
ragionare e a conversare, capisci che la verità non sta nelle mani di nessuno, ma che viene prodotta,
emerge esattamente da questo rapporto dialogico e dal confronto e dalla messa in atto della parola e
dei comportamenti corporei e dei pensieri non espressi. Restare in silenzio è un atto di fiducia nei
confronti degli altri. Le espressioni quando ci si comprende bene non hanno bisogno di parole, ed è
esattamente quello che accade nel rito. Nel rito, le persone che lo praticano da una vita non hanno
bisogno di esprimerlo verbalmente, è implicito nel rapporto di queste persone. Il rito si basa su quei
quattro elementi.
Noi occidentali abbiamo un approccio che rischia di rimanere prigioniero nella chiesa del post
illuminismo. Secondo questa concezione il rito è referente di un significato la cui stessa essenza sta
al di là del rito stesso. Questo è l'approccio occidentale post illuministico. Questo principio è
fondato sulla frase di s. Agostino che vede l’eucarestia come forma visibile di una grazia invisibile.
L’atto rituale non è lo strumento di qualcos’altro. Questa concezione dice che la cosa in sé sta
sempre oltre il rito, mai nel rito. Così dicendo afferma che l’atto rituale è uno strumento di
qualcos’altro che non sappiamo. Il modo migliore per comprendere il rito invece è quello di capirlo
attraverso ciò che il rito fa, non attraverso ciò che significa. Concentrarsi su ciò che gli uomini
fanno attraverso il rito è quello che ci permette di capire queste pratiche simboliche. Infatti molte
persone alla domanda perché si fa una determinata cosa, rispondono perché si è sempre fatto così.
La maggior parte dei significati vengono imposti dall’esterno. Dal nostro punto di vista riguarda più
il fare non il perché si fa, perché tra il fare quella pratica/oggetto/etc e il raccontarla e darle
significato, sta la differenza tra il rito come referenza di un significato, e il comprendere il rito, che
è quello che a noi interessa. In questo caso il rito offre una guida all’azione, da una cornice,
definisce un campo all’interno il quale le attività umane si svolgono e possono cambiare, non sono
statiche, ecco perché la tradizione è mobile e non fissa.
Il rito non è l'azione in sé o un insieme di significati, ma una cornice entro la quale si svolge
l’azione. Questo ci permette di comprendere sia gli arcaismi che permangono all’interno della
nostra società contemporanea, ma soprattutto le nostre ritualità contemporanea.
Il rito è l’affermazione della differenza, sono i nostri pregiudizi, la nostra capacità di vedere in
qualche modo l’ubiquità delle differenze della vita, questa nostra capacità ci porta a vedere il rito
come una rappresentazione del sacro.
Abbiamo bisogno di rifugiarci nel rito perché ci permette di uscire fuori dalle nostre vicende
quotidiane, ci da una radice di sicurezza e tranquillità.
Quando all’interno di un’azione rituale ci viene detto si è fatto sempre così, in realtà non è vero,
perché come abbiamo detto il rito non è un’azione monolitica, è una cornice che indirizza le azioni
degli uomini non sempre uguale, ha delle variazioni, e queste variazioni sono le variazioni che ogni
partecipante di quel particolare rito ha la possibilità di introdurre, senza variare la cornice generale.
Infatti molto speso molte pratiche che non sono più utili alle società contemporanee, scompaiono.
Questo tipo di ragionamento ci permette di dire che il rito e la tradizione a differenza di quello
che si pensa, sono cambiamento, non innovazione, e all’interno di questa cornice è di natura
immaginifica, cioè che attiene all’immaginario di una comunità e cambia col cambiare di
quell'immaginario.
Gli uomini si costituiscono grazie ai confini, e il rito da la cornice di questi confini. Gli uomini
non hanno il pieno controllo di ciò che succede, e il rito da la possibilità di ricondizionare i confini
della realtà, modellando quello che conosciamo e quello che non conosciamo.
L’immaginazione permette di ampliare questi confini e di modificarli continuamente, ed è per
questo che bisogna accettare che l’uomo è instabile e che quindi i confini sono instabili. Finché non
si capisce, anche politicamente, che i confini sono instabili, non si risolverà mai nulla.

21/05
Cicli dei calendari festivi.
Sulla scia del lavori di Vladimir Propp, un russo che scrisse delle feste agrarie russe, e sulla
scia dei lavori di un etnografo francese, Van Gennep, che scrisse delle strutture delle cerimonie
festive all’interno di un meccanismo che chiama riti di passaggio. Quindi i riti di passaggio
vengono classificati seguendo calendari ben precisi, e vengono divisi in tre tipi di calendari o cicli,
al cui interno questi riti sono fondamentali. Il primo ciclo è quello che chiamiamo dalla culla alla
bara, cioè il ciclo della vita dell’uomo, che racchiude tutta una serie di momenti fondamentali che
vanno dalla nascita, passando per il matrimonio e concludendosi con la morte. All’interno di questi
tre macro momenti vitali ci sono moltissimi momenti intermedi, come il fidanzamento,
l’adolescenza, il battesimo, la comunione, etc, tutta la serie di elementi rituali intermedi e riti di
passaggio che puntellano la vita degli uomini. Van Gennep interpreta i riti di passaggio come
elementi di passaggio della vita dell’uomo ma soprattutto come processi, e comincia ad avvicinare
l’antropologia alla processualità, secondo cui l’esistenza umana consiste in un continuo mutare ed
evolversi.
Inizia a entrare in campo questo studio del processo e del cambiamento. Lui dice che in questi
riti di passaggio è fondamentale che un bambino battezzato cambi completamente status, diventa
un’altra cosa, entra in una catena culturale che lo caratterizzerà per tutta la vita, passando tutti i riti
di passaggio di quella società. Per altre comunità questi riti di passaggio possono essere il
trascorrere dei giorni nella natura selvaggia per tornare come uomo, etc.
Lui affronta quindi il processo e il cambiamento, e sarà un argomento che si svilupperà più
avanti, ad esempio con Victor Turner.
Questa è una regola illuminante nella sua semplicità. Nel momento in cui si ha un passaggio di
status e una trasformazione da uno status a un altro, questo passaggio deve essere sancito da un rito.
Ad esempio quello di Cerami, “’u circo”, è un rito di passaggio. Essendo il rito quella pratica
umana importante e fondamentale, nel momento in cui individua questi riti di passaggio li divide in
tre momenti fondamentali: all’inizio c’è una separazione, quindi la persona o il gruppo che deve
fare il passaggio, viene separata dal resto del gruppo, poi c’è uno stato di margine, in cui vengono
marginalizzati, e infine c’è il ritorno. Praticamente non facciamo altro nella nostra vita oltre a
passare delle soglie, passare da un compartimento a un altro, che ci permettono di interagire con le
persone del nuovo comparto in cui ci troviamo. Attraverso separazione, margine e ritorno entriamo
in contatto con persone con cui prima non avevamo contatto, in un nuovo contesto sociale.
Uno degli elementi che troviamo spesso all’interno dei riti di passaggio è l’elemento della
separazione. Questo avviene specie quando ci sono cambi biologici importanti, come l’arrivo delle
mestruazioni delle ragazze, uno status che in molte culture viene ritualizzato. Non a caso vi è
associato un cambio di status sociale, come ad esempio le spose bambine, in cui il passaggio
coincide con il matrimonio.
Le pratiche rituali che troviamo si intersecano anche con altri due cicli fondamentali importanti,
o due calendari: uno è quello del calendario economico/agricolo/industriale/lavorativo, il calendario
delle stagioni. E del calendario festivo. Questi tre elementi che sembrano separati, in realtà non lo
sono. Quindi per capire come le persone reagiscono in un determinato periodo, bisogna capire quali
sono questi tre elementi che si intrecciano e danno forma alla presenza dell’uomo nel suo contesto
sociale.
I riti fondamentali nel rito del ciclo della vita dell’uomo. Nascita – matrimonio – morte. A questi
associamo il calendario delle stagioni.
Molte delle feste del periodo invernale hanno come elemento fondamentale un rogo.
Per sopravvivere alla morte c’è il ricordo.
La narrazione permette di conoscere le genealogie, prima dell’invenzione degli archivi e delle
scritture, ma ancora in alcune popolazioni, la genealogia si trasmette nella narrazione orale, in
alcuni momenti precisi, specie quando si festeggiano i defunti.
La festa dei morti si basa sul rito della visita ai defunti presso il cimitero perché si presuppone
che quel giorno i defunti siano al cimitero e riabitino i loro corpi morti, e si basa su un principio di
reincarnazione in qualche modo. I morti che tornano percorrono quella che viene detta la strada dei
santi, cioè i percorsi delle processioni. Ritornano e nella tradizione danno regali ai bambini, così
che possa continuare il ricordo. In molte tradizioni la notte tra l’1 e il 2 veniva imbandita una
grande tavola e sulla tavola veniva posta la “pupacciera di zucchero”, in un’antropofagia rituale
simbolica.

28/05
Quindi parlavamo di separazione – margine – ritorno. Ad esempio nel rito del matrimonio,
prima c’è l’addio al celibato/nubilato, in cui si viene separati e si crea un gruppo rituale. Le
cerimonie durante l’addio al nubilato/celibato, si portano avanti delle pratiche, come ubriacarsi, etc,
che li portano a essere marginalizzati. E infine nel matrimonio stesso avviene il ritorno.
Uno degli elementi fondamentali è la processualità della pratica, il processo di formazione
dell’immagine sacra. Abbiamo visto che le feste e i riti appartengono a una categoria ciclica. Il fatto
di avere un tempo ciclico porta ad avere delle azioni che si ripetono. Il tempo ciclico della festa e le
azioni cicliche che si ripetono, porta alla creazione di un ambiente comune che permette la
ripetizione di queste immagini.
Nelle processioni rituali l’azione rituale si attiva col fercolo del santo o della santa che
racchiudono la sacralità. Di conseguenza chi trasporta il fercolo, essendo questo il perno centrale
dell’esperienza del divino in terra, anche loro fanno parte integrante del fercolo. I portatori del
fercolo ne fanno parte, perché senza di loro non potrebbe muoversi e sacralizzare lo spazio. Quindi i
portatori insieme al fercolo e allo statua sono il divino.
Soprattutto all’interno delle pratiche festive troviamo delle corrispondenze con i calendari
stagionali.

04/06
Una delle questioni importanti e fondamentali è il tema legato alle immagini fotografiche, che si
ricollega al ragionamento sul calendario cerimoniale. Quando noi iniziamo a ragionare su come le
immagini, le statue, le figurazioni diventano sacre, su che cosa e come si comporta il sacro
all’interno di un rituale, se iniziamo a capire che questi elementi strutturano il percorso dell’uomo,
il calendario cerimoniale, agricolo, etc, iniziamo a comprendere come anche le immagini prodotte
per ricordare o per immortalare questi momenti hanno una polisemia tale che in molti caso li
configura come immagini sacre, pur non essendo immagini di santi.
Prima di tutto bisogna comprendere l’antropologa allieva di Franz Boas: Margaret Mead.
Insieme a Ruth Benedict è una delle prime allieve di Boas. Una delle cose più importanti che fa è
recarsi nelle isole di Samoa e fare una grande ricerca sulla percezione e la costruzione del sé, sulla
realtà e differenziazione tra gruppi femminili e maschili sulla libertà presente in queste comunità.
Lei scrive addirittura che le donne in America cercano di anticiparsi, e lì da sempre sono
emancipate. Mead porta avanti quel tipo di antropologia che confronta i meccanismi strutturanti.
Margaret Mead insieme a Gregory Bateson utilizzano gli strumenti di rilevazione audio video e
fotografica per la ricerca sul campo. The character of bali, è un libro fotografico straordinario dove
finalmente viene dato lo stesso rilievo alla macchina fotografica e al testo scritto. È la prima volta
che accade in un testo antropologico. Margaret Mead osserva che l’immagine non è importante in
quanto tale ma è importante nel suo studio. La fotografia non è lo strumento per studiare la verità di
quanto sta fuori, ma di quanto sta dentro, nella mente del fotografo e dell’antropologo. Riflette sugli
strumenti della fotografia e di riproduzione del reale. La fotografia non è la trasposizione della
realtà, ma un’inquadratura di ciò che il fotografo percepisce e attraverso il mondo tecnico esperisce.
Margaret Mead ci ricorda come la realizzazione delle immagini fotografiche comprende una
serie di trasformazioni, operazioni di traduzione, che attraverso questi frammenti di realtà, vengono
fissati sulla pellicola. La fotografia quindi, NON è la realtà, perché la fotografia non è
semplicemente denotativa, ma rinvia al progetto che ne determina la formazione e ne attribuisce il
significato. Per comprenderli è necessario ricostruire i procedimenti mentali che l’hanno definita.
Se si considera che la realtà non ha mai un significato univoco, la rappresentazione fotografica
iconica è ancora più ambigua, complessa. La fotografia ha due livelli di interpretazione: ciò che
l’immagine rappresenta e ciò che significa, denotativo e connotativo.
In questa prospettiva le immagini, qualsiasi esse siano, riflettono sempre più che la realtà
oggettiva, il sistema culturale che è soggiacente alle diverse realtà che ciascuno di noi percepisce.
Quindi tutto ciò che è mediato attraverso l’utilizzo di strumentazione tecnica che si frappone tra
l’uomo e il mondo, si pongono come oggetti aperti e interpreti a costruzione.
Le fotografie di cui parleremo sono fotografie ricavate da collezioni di famiglie di alcune
località siciliane. Fine 1800 primi 20/30 anni del 900. Individui singoli, foto di gruppo, momenti
cerimoniali particolari.
Nello sviluppo della strumentazione fotografica la nascita della macchina potatile ha aiutato a
diffondere in maniera rapida la possibilità di fotografare e fotografarsi. In tutte le foto che vedremo
il mezzo fotografico non fa altro che rispecchiare la concezione del mondo e della vita della
tradizione siciliana di quel tipo. La fotografia si innesta in un sistema già accertato, quello dei riti di
passaggio.
Specialmente in occidente e qui da noi, nelle immagini fotografiche si vede la rigida osservanza
della sacralità della famiglia.
Questi non erano fotografi autoriali, si parte dagli album di famiglia, non dagli studi fotografici.
Partendo da questo presupposto, si ragiona sulla committenza. Capire la committenza permette
di capire come e perché le opere sono nate in un certo modo. In questo caso, la committenza era il
desiderio di certificare i movimenti fondamentali nel ciclo della vita di un uomo, quindi affidando al
fotografo e alla fotografia il ruolo di suggellare la gioia degli eventi lieti o il dolore della lontananza
e della separazione che la morte implicano. La fotografia e il fotografo diventano un secondo
sacerdote, un secondo elemento fondante e fondamentale per fare sì che i riti di passaggio restino
nella memoria e vengano rivissuti attraverso l’osservazione delle fotografie.
La fotografia serve per certificare che è avvenuto quel determinato rito di passaggio, e lo
certifica anche per gli assenti, specie in quel periodo, vista l'immigrazione.
Le quattro variabili della fotografia: chi scatta, chi guarda, il momento in cui la foto viene
scattata e il momento in cui viene osservata. Questa quadripartizione è riferibile anche alla camera
chiara di Roland Barthes. Il quadrato semiotico. Però ormai è riduttivo nella complessità che stiamo
dicendo, perché nel quadrato semiotico abbiamo delle direzioni più univoche, il fotografo si collega
con il momento in cui scatta ma anche con l’ossevratore e il committente, ma non con il momento
in cui il committente guarda la foto. Il quadrato semiotico non soddisfa appieno la complessità del
ragionamento, perché non collega i “punti a e c”. Questo problema semiotico viene risolto da
Hienself che in un libro chiamato il linguaggio fa un quadrato semiotico e collega i punti diagonali,
creando un’altra complessità nell’attribuzione di significato alle immagini o alla parola.
L’utilizzo di una figura geometrica piana non risolve uno dei problemi fondamentali
dell’attribuzione di significato alle cose, parole, oggetti. Cosa prevedeva la teoria del linguaggio di
sussurri, prevedeva due cose fondamentali: a ogni segno corrisponde un significato. Nastro di
Moebius: i significati sono all’interno della nostra realtà, non si piani diversi.

11/06
Il portone della chiesa è una soglia di passaggio, non solo tra luogo sacro e luogo profano, ma
anche tra l’entrare fidanzati e uscire sposi. È in questo passaggio, dalla presentazione a tutta la
comunità che sta dall’altro lato della porta, che sta il significato del lancio del riso, una sorta di
benedizione da parte della comunità. Gli sposini restavano in casa 8 giorni e poi andavano di nuovo
in chiesa. Questi 8 giorni erano dedicati esclusivamente alla conoscenza tra i due sposini. Poi si
tornava in chiesa, e indossavano un nuovo abito, che era detto l’abito degli 8 giorni. Era quindi un
nuovo ingresso in società, quindi una nuova configurazione della coppia, quindi abbiamo un nuovo
abito, e anche una nuovo foto, che fa capire quanto fosse importante quel momento a quei tempi. Le
foto di matrimonio sono solo due: quella sui gradini della chiesa, e quella con l’abito degli 8 giorni.
Durante quegli 8 giorni non si poteva accendere il fuoco, e venivano quindi nutriti dalle rispettive
famiglie di provenienza. È lo stesso tabù che vige in alcuni luoghi quando muore qualcuno.
La famiglia mononucleare di fine ‘800 inizio ‘900 erano famiglie con massimo 3 figli, quelle
con 10 figli erano l’eccezione. Le famiglie patriarcali erano spesso aggregati sociali multipli, a volte
su piani diversi dello stesso palazzo.
Negli anni 10 del 1900 un altro tipo di foto che si diffonde sono le foto di militari, scattate nel
luogo in cui vanno a fare il servizio militare. Fino alla seconda guerra mondiale, il servizio militare
era l’unico momento in cui il ragazzo si allontanava, la prima uscita dalla città e allontanamento
dalla famiglia. Vista anche la difficoltà di comunicazione e movimento, era un lungo rito di
passaggio, che durava un anno. Nell’intraprendere questo passaggio, i militari venivano sottoposti a
una serie di riti di abbandono e di allontanamento dalla comunità. Queste immagini fotografiche
testimoniavano la nuova vita del militare, con i nuovi abiti, e ne certificavano l’esistenza in vita,
visto che ancora non esisteva il telefono. Molte di queste fotografie di militari sono anche delle
cartoline. Tra 1860-1945 un momento importante quindi è lo svolgimento del servizio militare.
Dopo si cominciano a trovare foto di famiglie senza l’uomo, che attestano la mancanza, non la
scomparsa del padre. Ritraggono infatti le famiglie degli immigrati. Si cominciano a diffondere foto
con la foto del marito dentro, in un tentativo di ricostruire della famiglia smembrata. L’immagine
fotografica viene usata per certificare l’esistenza in vita e per ricostruire il nucleo familiare.
Iniziano a essere presenti anche i fotomontaggi, costruito dalla giustapposizione di due
fotografie.
Ci sono poi le fotografie dei funerali. Il feretro che lascia la casa, il feretro davanti la chiesa,
nello stesso modo della foto del matrimonio. Alcuni momenti del corteo funebre, l’arrivo al
cimitero.
Dopo le foto dei defunti ci sono gli altarini, luoghi in cui vengono messe le foto dei cari
(lararium).
Le foto dei cimiteri sono ovali perché riprendono le cornici più grandi delle foto ovali che
stavano in casa. Quando non c’erano le fotografie nei cimiteri, pratica che si diffonde in Sicilia
negli anni ‘60, quindi nel giorno dei morti prendevano le foto da casa e venivano portate sulle
tombe. Questo elemento va insieme ai riti del giorno dei morti di dare i dolcetti ai bambini. Nel
giorno dei morti le foto ovali venivano staccate dalle pareti delle case e venivano portate in
processione al cimitero, e a portare queste foto erano i bambini, spesso e volentieri i bambini che
portavano lo stesso nome del defunto. Era come se nella fotografia ci fosse l’anima del defunto.
I monumenti funebri seicenteschi cominciano a usare i medaglioni per i ritratti dei defunti.

18/6
I fondamenti dell’analisi comparativa dell’iconografia, il metodo con cui vengono disposte in
sequenza, vengono stabilite le connessioni con le forme morfologiche, e permette attraverso la
costruzione di queste forme di comprendere la costruzione crescente delle forme, anche le più
complesse.
Più semplice è il disegno più è astratto. L’analisi morfologica deve concentrarsi sull’analisi della
traccia grafica e il significato morfologico che quella traccia ha.
La maschera è una parte della rappresentazione mitica.
Il rito vive grazie alla ripetizione ma anche grazie alle variabili grazie alle quali riesce a
sopravvivere anche con i cambiamenti della società. Variano a seconda delle variabili della società,
essendo uno degli elementi fondamentali della società.
Consideriamo i riti come fenomeni astorici. Perché sembrano senza senso, fuori dalla storia. Ma
visto che sono soggetti alle variabili della società, dobbiamo capire che non sono resti di un lontano
passato, ma sono pratiche contemporanee che si sono evolute con la società. Sono pratiche
contemporanee, perché vanno seguendo una precisa struttura rituale, che essendo rituale è soggetta
a un graduale cambiamento. Il rito cambia, ma cambia lentamente, in quanto la struttura del rito gli
impedisce di cambiare improvvisamente, ma cambia lentamente, nel corso delle generazioni, in
quanto sono gli uomini che li fanno. Le trasformazioni sono lente come lente sono le trasformazioni
e gli apprendimenti degli uomini. Sono elementi strutturanti che si basano sulla contemporaneità ma
hanno una struttura fissa, e quindi la variazione è lenta. Come acqua e contenitore, l’acqua si
adegua al contenitore ma il contenitore cambia lentamente.
Quindi le pratiche rituali non sono astoriche, ma sono perfettamente inserite nella storia, ma anzi
la presentificano, la fanno capire in maniera più approfondita, e la fanno diventare simbolo.
Abbiamo un immaginario che le tradizioni devono essere fatte con elementi arcaici, corde di
paglia, etc, ma non è vero, le cose che vengono usate oggi è perché hanno uno scopo e una linearità
strutturale, si evolvono e si modificano.
Se il rito viene considerato come possibile orientamento all’azione, invece che come un insieme
di significati, maschera all’interno della performance, dei come se, come potrebbe essere, da questi
come potrebbe essere emerge

La funzione fàtica è incentrata sul canale di comunicazione, si realizza quando un partecipante


dell’atto di comunicazione cerca di controllare se il canale col quale sta comunicando è in qualche
modo aperto, con domande del tipo mi ascolti?, è questa la funzione fatica degli oggetti. Se
entriamo in quella funzione comunicativa è quella parte della comunicazione che è fondamentale.
La comunicazione fatica dell’oggetto è quella che dobbiamo capire: attraverso la fatica della
performance otteniamo la fàtica dell’oggetto. La fàtica dell’oggetto vuol dire che instaura la
vicendevolità della maschera, configura, da un nuovo senso, perché in quel mi segui, mi ascolti, io ti
tiro in gioco, ti faccio entrare nella dinamica costruttiva del mio pensiero, e quindi nella dinamica
costruttiva della costruzione dell'oggetto. Nella comunicazione quando metto in atto la
comunicazione fàtica ti faccio partecipare al ragionamento, possono anche cambiare il corso del
ragionamento.

Prisma e non specchio, il referente dell’oggetto non è la divinità ma qualcosa di più complesso
che riguarda tutti noi e le modalità con cui costruiamo l’oggetto.

Pagina 97-98-99 del libro di Perricone, sulla sinestesia.

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