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ANTROPOLOGIA CULTURALE

Che cos’è antropologia? Antropologia significa studio dell’uomo, l’antropologia si occupa degli
uomini in relazione al contesto culturale, storico e ambientale in cui essi vivono.

Quando nasce? È una disciplina giovane. È nella seconda metà dell’Ottocento che l’antropologia
culturale si organizza come autonoma disciplina scientifica. Di solito si fa corrispondere la sua
“nascita” con il 1871, anno di pubblicazione di un libro di E.B. Tylor, dal titolo “Primitive Culture”,
che definisce e mette a fuoco il campo di studi della nuova scienza: la cultura.

Si tratta di una data convenzionale. Alcuni antropologi amano retrodatare le proprie origini,
vedendo precursori in varie epoche della storia del pensiero (Erodoto, Montaigne...), altri invece
pensano che non si possa parlare di una antropologia moderna prima del Novecento, prima cioè
dello sviluppo di quelle metodologie di ricerca sul campo che diverranno nel XX secolo tratto
distintivo della disciplina.

Ciò che è certo è che sul piano istituzionale l’antropologia culturale si costituisce negli ultimi decenni
dell’Ottocento / inizio Novecento, prima all’interno della Scuola Evoluzionista Britannica e poi in
altri Paesi Europei e negli Stati Uniti. È il periodo del positivismo, della grande fiducia nella scienza
e nel progresso, è il periodo del trionfo dei nazionalismi e del colonialismo. I primi antropologi
saranno fortemente condizionati da questo pensiero e condizioneranno questo pensiero.

Alcuni termini, inoltre, a fine ‘800 in ambito antropologico significavano una certa cosa, ma già nel
primo Novecento no. A fine ‘800 la parola “cultura” si utilizzava solo al singolare; mentre già nei
primi del ‘900 viene riconosciuta la possibilità di usare la parola “cultura” al plurale. Si arriva al
riconoscimento di culture diverse di pari dignità.

Nella sua opera Primitive culture (1871), Edward B. Tylor formulò la prima definizione scientifica
della nozione di cultura, così definendola:

“Culture is that complex whole which includes knowledge, belief, art, morals, law, custom, and any
other capabilities and habits acquired by man as a member of society”.
“Cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include le
conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualunque altra capacità e abitudine
acquisita dall’uomo in quanto membro di una società”. La cultura è acquisita da ognuno di noi dal
momento in cui veniamo al mondo.

Se, prima del 1871, il concetto classico di cultura aveva un significato ristretto, legato solo ad una
élite dal sapere elevato, un gruppo di uomini bianchi benestanti che avevano avuto la possibilità di
acquisire un sapere importante, la nuova definizione di Tylor si estende a tutta l’umanità,
indipendentemente dalla classe sociale, dagli studi raggiunti, dal luogo di nascita; poiché la cultura
comprende abitudini, valori, saperi di ogni uomo in quanto membro di una specifica società. Ogni
essere umano è dotato di cultura, perché la sua identità culturale si costituisce di modi di vivere, di
saperi, di una lingua…

Il termine “cultura” ha avuto un’evoluzione importante. La letteratura più recente, invece, non ci
fornisce una definizione univoca di “cultura”, bensì ci mostra la sua elevata complessità. Questa
complessità riguarda molto gli elementi culturali.

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Un primo concetto relativo alla dimensione culturale è quello legato al carattere nazionale, ovvero
l’idea che le persone appartenenti ad una specifica nazione abbiano comportamenti e modi di
pensare molto simili tra di loro. Vi è il rischio di generalizzare le caratteristiche delle persone
secondo degli stereotipi legati alla nazione di provenienza. L’antropologia studia l’uomo nelle sue
comunità, le comunità umane, si sofferma sull’uomo nel gruppo.

L’analisi della cultura nazionale va però integrata con quella delle subculture, proprie di gruppi di
persone, appartenenti ad una cultura nazionale predominante, accumunate da una o più
caratteristiche culturali distintive, quali, ad esempio, la religione, la lingua o l’etnia.

Il concetto di subculture, però, ha valore non solo nazionale ma anche transnazionale. È possibile,
infatti, che vi siano subculture omogenee in paesi anche molto distanti geograficamente, grazie
anche al contributo delle comunità online e, in generale, dalla sempre maggiore interconnessione
tra persone attraverso il cyber-spazio.

Se inizialmente «cultura» era una dimensione vincolata all’area di origine, oggi l’area geografica non
sempre è sufficiente per determinare il background culturale di una persona. Potrebbe essere che
la persona abbia acquisito come suoi elementi culturali, non del suo mondo di origine, grazie a degli
incontri culturali online.

Parleremo di culture ibride, de-territorializzazione della cultura, di comunità immaginate. Non c’è
niente di più DINAMICO che la cultura. Un tempo l’approccio alla cultura era un approccio statico,
invece non c’è niente di più dinamico che il concetto di cultura. La lingua è un elemento della cultura
e tutta la cultura è dinamica. Il cambiamento è naturale ed è evolutivo, perché tanti cambiamenti
nascono grazie anche a nuove scoperte in discipline prettamente scientifiche.

Nel contesto odierno della globalizzazione, ci troviamo di fronte a situazioni sociali in cui chi siamo
“Noi” e chi sono gli “Altri” non è mai chiaro, e dove non è possibile parlare di “culture” come di
entità compatte e dai confini ben definiti, e per di più coincidenti con un “popolo” e un “territorio”
(delocalizzazione – deterritorializzazione delle culture).

Ciò non significa tuttavia che le differenze culturali non esistano più. Al contrario: la globalizzazione
per certi versi le moltiplica, pur frammentandone e mischiandone i contesti. Ora, in questa
situazione l’antropologia culturale continua a definirsi in base alla sua vocazione per lo studio delle
differenze (Hannertz, La diversità è il nostro mestiere!). Se c’è qualcosa che accomuna le origini
ottocentesche con gli studi attuali è quindi la vocazione per la diversità.

È un errore dire che siamo tutti uguali. Da un punto di vista culturale, l’uguaglianza può portare alla
perdita di differenziazione dalle altre culture per avvicinarsi a una cultura che generalmente è quella
egemone.

Ulf Hannerz, antropologo contemporaneo svedese: La diversità è il nostro mestiere. L’obbiettivo è


conoscere il massimo numero dei modi di vivere possibili. L’antropologia non è più solo uno sguardo
dell’Occidente sugli altri. Gli antropologi oggi studiano e si occupano anche di eventi e mondi
culturali vicini. Oggi non si deve necessariamente andare in luoghi sperduti per fare una ricerca
antropologica, si può andare anche in una città multietnica come Milano.

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PIANO DEL NOSTRO AGIRE
Questo schema ci aiuta a comprendere il comportamento delle persone. È uno strumento che
permette di riconoscere, leggere, comprendere e gestire la diversità umana. Non ha però lo scopo
di accettare o condividere la diversità, ma soltanto di comprenderla; capire il funzionamento di una
persona nella sua realtà.

1) PIANO ONTOLOGICO: ogni persona al mondo, ognuno di noi ha un piano ontologico. È


composto da degli elementi fondamentali, ad esempio i valori, le cose in cui noi crediamo
(es: la religione, valore della vita). Secondo Weber, è un piano i cui elementi costituiscono
gli orientamenti all’agire. Nelle scelte del comportamento del quotidiano ognuno di noi cerca
di essere in linea con i propri valori o con i propri orientamenti all’agire.

2) PIANO NORMATIVO: lo suddividiamo in due parti.


- È costituito da delle leggi istituzionali, è legato al nostro legame come persone a un
Paese in termini di cittadinanza. Si applica a tutte le persone al mondo e ognuno di noi
può misurarsi rispetto a questo piano. Nel nostro agire, nel quotidiano abbiamo uno
spazio di azione che è condizionato, o perlomeno è legato, col nostro appartenere a uno
Stato Nazione; nel senso che, a noi piacciano o meno, dobbiamo rispettare le leggi del
nostro Paese altrimenti andiamo incontro a delle sanzioni (civili o penali). Ognuno di noi
nel suo agire ha un vincolo (un passaporto) che orienta anche l’azione.
- È costituito da delle norme consuetudinarie, delle tradizioni, delle regole che noi siamo
chiamati a rispettare, e se non rispettiamo andiamo incontro a delle sanzioni (sociali o di
gruppo), per il fatto di appartenere a delle determinate dimensioni (es: ogni famiglia ha
delle regole familiari e tradizioni, in università abbiamo delle regole accademiche da
rispettare, prescrizioni religiose).

3) PIANO DELLE PRATICHE: qui noi troviamo i nostri comportamenti del quotidiano, vincolati
dalle regole e le regole devono essere in linea con il piano ontologico. Non posso rispettare
una regola che va contro il mio piano ontologico, perché nella vita dell’individuo la
condizione ideale è quella che vi sia una linearità tra i tre piani, che il nostro agire sia
conforme alle norme legate al nostro piano ontologico. Un individuo è in linea quando vi è
una corrispondenza tra i tre piani. Quando non vi è corrispondenza, l’individuo è in

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sofferenza. È importante che si recuperi l’equilibrio. Il piano delle pratiche è composto da
tutte le nostre azioni del quotidiano.

L’antropologia è anche una disciplina a SPECCHIO, perché incontrando la specularità dell'altro siamo
stimolati a conoscere la nostra. Il confronto con l’altro stimola in te la conoscenza di te stesso.

Vedendo per la prima volta una persona o un Paese nuovo, la prima cosa che notiamo è l’apparenza.
La nostra conoscenza del mondo inizialmente è molto sulle pratiche, però per passare a dire che è
“conoscenza” e non solo “sguardo”, dobbiamo attribuire a queste pratiche il significato corretto.
Non c’è niente che l’uomo sa che non abbia un significato, una motivazione. Il nostro compito è
passare dal piano delle pratiche al piano ontologico, attraverso il piano normativo. È il viaggio della
conoscenza e della comprensione.

Quando parliamo di mondo, di culture altre, di persone con identità differenti dalle nostre, noi
dobbiamo comprendere, non condividere, ma avere consapevolezza delle diversità. Il linguaggio è
un fenomeno bio-culturale. La parte bio è la parte hardware, nel culturale c’è la parte software.
Ognuno di noi e tutte le persone al mondo ha un suo software che è culturalmente connotato. Siamo
simili per l’hardware, siamo differenti per il software (es: la lingua). Questa consapevolezza mi deve
portare alla volontà di conoscere l’altro, solo conoscendo l’altro noi arriveremo a comprendere
l’agire dell’altro, che però non significa condividere quello che l’altro fa. Non vogliamo giustificare,
leggere i perché delle cose o condividerle, ma vogliamo comprendere e conoscerle.

Cambiare la pratica non significa cambiare il piano normativo, perché è importante il piano
ontologico. Quando arriviamo in un altro Paese, notiamo che le pratiche sono diversissime, ma
spesso possiamo rimanere stupiti da delle pratiche comuni: nel mondo vi sono pratiche come parole
comuni, ma pratiche comuni e culture diverse, parole comuni e significati totalmente diversi. Es:
- I saluti, i gesti, la comunicazione non verbale: gli stessi gesti hanno un significato
diversissimo tra comunità e comunità;
- la parola “povero” in Occidente si riferisce all’ambito economico (povertà misurata sul
parametro economico-finanziario), mentre invece nella zona dell’Africa subsahariana fa
riferimento alla mancanza di relazioni sociali, di legami.
Come le stesse parole possono avere significati diversi nei diversi codici linguistici, anche le pratiche
comuni possono avere significati diversi in diversi contesti culturali. Così come l’opposto: pratiche
diverse possono avere lo stesso significato, e parole e vocaboli diversi possono avere lo stesso
significato. Non possiamo fermarci al piano delle pratiche, per comprendere l’altro, un’altra lingua,
un’altra cultura, dobbiamo passare per il piano normativo e per il piano ontologico per non sbagliare
e per comprendere. Non si cambia il piano ontologico, ma si lavora sul piano delle pratiche, si cambia
il piano delle pratiche. Per sapere che tipo di intervento fare, bisogna conoscere non solo la pratica,
ma le motivazioni della pratica, che possono essere le più diverse.

Gli elementi del piano ontologico, del piano normativo, del piano delle pratiche sono dentro alla
scatola della cultura, fanno parte della cultura, che è molto più del sapere dotto. Es: per noi cultura
è lavarsi i denti con lo spazzolino, in altri Paesi è utilizzare invece una radice. L’uomo vive gran parte
del suo agire quotidiano come dato per scontato, non si pone sempre le stesse domande su alcune
cose una volta che le ha acquisite. La caratteristica è che questi dati per scontato sono culturalmente
connotati; quindi, ad esempio se andiamo in un altro paese pensiamo che non possiamo lavarci i
denti perché non c’è l’acqua, ma in realtà possiamo farlo in un altro modo. Il problema è che poi noi

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perdiamo questo dato per scontato, ciò che per noi è naturale, in realtà è culturale; a volte perdiamo
che è un culturalmente connotato; quindi, ci dimentichiamo che ci possono essere altri modi per
fare le cose.

Le prime fasi dell’antropologia (seconda metà del XIX sec.) furono dominate dalle prospettive
evoluzionistiche, in particolare quelle associate a Morgan e Tylor.

EVOLUZIONISMO
Edward B. Tylor (1832-1917)
Herbert Spencer (1820-1903)
William Robertson Smith (1846-1894)
Lewis Henry Morgan (1818-1883)
James G. Frazer (1854-1941)

Cosa sostengono gli evoluzionisti? Tutta la realtà, naturale e sociale, è in costante movimento da
uno stato originario indefinito verso forme più complesse e coerenti di organizzazione. L’evoluzione
è vista come progresso continuo e itinerario verso tempi migliori. Teorizzano l’unità del genere
umano e gli stadi universali di sviluppo.

La cultura per gli evoluzionisti. In termini evoluzionistici, la cultura è l'insieme degli elementi non
biologici o somatici di adattamento all'ambiente. Pur non facendo strettamente dipendere le
differenze culturali da differenze naturali (biologiche, razziali) l'antropologia culturale ottocentesca
non rinuncia all'idea di gerarchizzazione dei gruppi umani culturali.

Come si spiega la diversità culturale a fronte della originaria unità intellettuale del genere umano?
Gli stadi di sviluppo. La risposta sta nell'ipotizzare un unico processo di evoluzione culturale, che si
muove però a velocità diverse in diverse parti del mondo e per diversi gruppi umani.
Tylor definisce la cultura al singolare, quindi la cultura è UNA, ha degli elementi ben chiari. Il mondo
è composto da comunità umane che in base alle pratiche, alle normative e ai valori vengono valutate
su una scala di evoluzione dall’INFERIORE al SUPERIORE.

+ civiltà occidentale, considerata la cultura più alta (uomo dell’Occidente)

Sviluppo unilineare

-- I vari gruppi umani in giro per il mondo, che si caratterizzano per modi di fare, lingue
altre, sono qualcosa di inferiore che devono progredire verso uno sviluppo che li porterà lì
(selvaggio, primitivo)

Gli elementi culturali sono legati alla civiltà occidentale. Tutto ciò che in un altro contesto veniva
visto e praticato, era considerato come differente e INFERIORE. Tylor parla di cultura al singolare,
perché si parla di unico processo di evoluzione culturale, non si può parlare di altre culture. Ogni
evoluzione ha lo stesso percorso. L’evoluzione è unilineare, c’è solo una strada riconosciuta come
strada evolutiva.

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La differenza è riletta in termini di avanzamento o arretratezza del processo evolutivo, sono stadi
successivi di un unico grande sviluppo culturale. I popoli cosiddetti "primitivi" stanno attraversando
uno stadio evolutivo precedente, sono indietro, mancano ancora di qualche stadio.

I rappresentanti della civiltà occidentale stanno sul punto più alto di una piramide da cui possono
guardare tutto il resto del mondo. Gli altri sono come noi, ma solo nel senso in cui lo sono dei
bambini che vanno educati e aiutati a crescere. L'equazione primitivi-bambini è centrale
nell'immaginario antropologico ottocentesco, e rappresenta la variante culturalista del razzismo.

Come metodo, Tylor non è andato sul campo. I primi antropologi non andavano sul campo, ma
davano questo compito ai commercianti, ai biologi, ai missionari, perché volevano che a raccogliere
queste informazioni fossero persone che non sapessero nulla di questa disciplina. Il mandato era:
partivano, avevano dei questionari (manuali con una serie di elenchi di caratteristiche di elementi
presenti nella civiltà occidentale). Questi questionari venivano consegnati e l’incaricato, attraverso
un’osservazione e non una relazione con il locale, con il locale segnare la presenza o l’assenza degli
elementi culturali. Venivano riportati indietro e, attraverso il METODO COMPARATIVO, veniva fatto
un certo calcolo e quel gruppo umano quella comunità veniva collocato nella scala gerarchica a un
determinato livello.
 Metodo comparativo, gli antropologi non andavano sul campo, ma vi era questo modo di raccolta
del dato che non chiedeva interazione con il locale, ma solo compilazione del questionario. Se vi
erano nuovi elementi culturali, assenti nel bagaglio occidentale, non venivano neanche annotati o
analizzati.

Già in contemporanea a Tylor, entrò subito in discussione la lettura e l’interpretazione al singolare


del termine cultura. Si ha un mutamento radicale rispetto a questo quadro con gli sviluppi
novecenteschi dell'antropologia, e con la relativa affermazione di un concetto pluralista e relativista
di cultura. Da cultura arriviamo a utilizzare il termine al plurale, “culture”.

Lo sviluppo della ricerca sul campo (antropologo scende sul campo) e di una nuova sensibilità
etnografica, insieme al crollo di molte delle certezze positivistiche dell'Ottocento, fa
dell'antropologia un potentissimo strumento di critica all'etnocentrismo, alle pretese cioè della
cultura europea di valere da metro di giudizio assoluto per tutte le altre.

 ETNOCENTRISMO: È la tendenza a considerare la propria cultura come migliore e a giudicare il


comportamento e le credenze dei popoli culturalmente diversi in base ai propri standard.

 ETNOCENTRISMO ATTITUDINALE: fa parte di ognuno di noi proprio perché è un'attitudine.


Noi di fronte a qualsiasi cosa nuova, abbiamo una reazione automatica / naturale che si basa
sui nostri standard culturali che abbiamo appreso fino a quel momento. Questo perché
viviamo sempre secondo le stesse norme e regole a cui siamo abituati che ci danno un
orientamento all'agire, per via dell'abitudine diventano addirittura scontati. Noi non ci
poniamo domande sulle nostre abitudini, sulle cose automatiche perché è la nostra
normalità, la nostra realtà (che può essere diversa da quella di un’altra persona). Ciò che è
normale per noi, in realtà è culturalmente connotato. Bisogna ovviamente cercare di gestire
questo automatismo e cercare di non metterlo in campo. L’etnocentrismo attitudinale si può
gestire.

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 ETNOCENTRISMO IDEOLOGICO: è il processo secondo cui un individuo o un gruppo va a
identificare caratteristiche dell’altro come negative, di cui aver paura, che possono minare
la stabilità della propria comunità e su queste caratteristiche va a costruire una visione che
può portare all’annientamento dell’Altro (ragioni politiche, razziste, etniche). Giudicare
pericoloso per i propri standard l’altro, tanto da poter ipotizzare anche l’utilizzo della
violenza e del conflitto per annientarlo. La costruzione di questa ideologia si basa su
differenze legate ad elementi culturali, razziali ed etnici. Per comprendersi bisogna anche
raccontarsi, capire i perché che però sono i perché dell’Altro. Dobbiamo permettere all’Altro
di farsi conoscere da noi. La nostra posizione nel caso viene dopo. L’opinione non c’entra
nulla con la comprensione.

Laddove per l'evoluzionismo studiare la diversità culturale era un modo per riaffermare con forza
sempre maggiore la superiorità dell'Occidente moderno, per la nuova sensibilità antropologica
diviene un modo per contestarne e relativizzarne le pretese.

All'immagine di una gerarchia piramidale di gruppi umani, che procedono a velocità diverse su un
unico percorso di sviluppo culturale, si sostituisce quella di un mondo suddiviso in una irriducibile
pluralità di culture, intese come entità autonome, ben distinte e di uguale dignità, classificabili in
modo non gerarchico e per certi aspetti non commensurabili / non classificabili. Si inizia a usare il
termine “cultura” al plurale, si inizia a vedere non l’inferiorità, ma la diversità.

Per il modernismo antropologico del nuovo secolo, le valutazioni negative delle altre culture sono
per lo più conseguenza della incapacità di comprendere il funzionamento di codici linguistici,
estetici, morali semplicemente diversi da quelli che ci sono più familiari.
Da qui il principio del relativismo culturale: non si possono formulare giudizi etici, estetici e (in una
variante) anche cognitivi al di fuori di un contesto culturale, poiché è il contesto culturale a stabilire
i criteri di riferimento. In questo momento, la lingua diventa centrale in relazione con l’altro, è
fondamentale per cogliere il punto di vista dell’altro. Si inizia a utilizzare lo sguardo dell’altro; io
incontro l’altro per comprendere il perché di alcune pratiche, la sua identità culturale, cercando di
capirlo con le sue ragioni, con i suoi perché. L’antropologo va sul campo per incontrare l’altro, entra
in comunicazione e interagisce con l’altro.
 RELATIVISMO CULTURALE: È la posizione secondo la quale i valori e gli standard delle culture
differiscono e meritano rispetto. L’antropologia è caratterizzata da un relativismo di tipo
metodologico piuttosto che morale: per comprendere appieno un’altra cultura, gli antropologi
cercano di comprendere le motivazioni e le credenze dei suoi membri. Il relativismo metodologico
non preclude tuttavia la possibilità di esprimere giudizi morali o di scendere in campo per prendere
posizione contro pratiche ritenute disumane o comunque lesive della dignità umana.

È in questo periodo che nasce dal metodo comparativo il METODO PARTECIPANTE (con ad esempio
Malinowski). L’antropologo va e incontra le comunità umane, cerca di partecipare. Non è
un’osservazione distaccata, ma di contatto. La missione dell’antropologo è conoscere l’altro, ma
non partendo già da un’idea di superiorità, parte per conoscere il diverso. L’antropologo vuole
condividere gli elementi di una determinata pratica per capire se è possibile un cambiamento.

OSSERVAZIONE PARTECIPANTE: è un ossimoro. Il problema da subito fu la questione della giusta


distanza, perché se prendiamo un foglio e lo avviciniamo troppo o lo allontaniamo troppo non
riusciamo a leggere. Osservare richiede di essere distante, partecipare richiede di essere dentro.

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L’osservatore è sempre osservato. Nell’osservazione partecipante dobbiamo riconoscere i nostri
limiti della capacità e della possibilità di entrare pienamente in relazione con l’altro, perché noi
siamo diversi. Riconoscere la diversità dell’altro significa anche riconoscersi diversi.

EVOLUZIONISMO
 Edward B. Tylor (1832-1917)
 Herbert Spencer (1820-1903)
 William Robertson Smith (1846-1894)
 Lewis Henry Morgan (1818-1883)
 James G. Frazer (1854-1941)

Allora si intendeva come civiltà occidentale l'Europa e gli Stati Uniti. I tempi migliori erano quelli
della cultura più elevata occidentale.
Cosa sostengono gli evoluzionisti? Tutta la realtà, naturale e sociale, è in costante movimento da
uno stato originario indefinito verso forme più complesse e coerenti di organizzazione. L’evoluzione
è vista come progresso continuo e itinerario verso tempi migliori. Essi sostengono l’unità del genere
umano e, contemporaneamente, l’esistenza di stadi universali di sviluppo. Dove lo stadio, quindi il
livello di sviluppo, è quello che poi andava a inserire in questa gerarchia le comunità umane.
Le prime fasi dell’antropologia (seconda metà del XIX sec.) furono dominate dalle prospettive
evoluzionistiche, in particolare quelle associate a Morgan e Tylor. All’inizio del XX sec. appaiono
reazioni che vanno a sostenere la pluralità di culture e il fatto che questa comparazione gerarchica
non può più essere riconosciuta valida. Tale prospettiva la troviamo in Gran Bretagna con i
funzionalisti Malinowsky e Radcliffe-Brown e negli Stati Uniti con Boas.
Nello specifico sarà Franz Boas, più di tutti, a opporsi al METODO COMPARATIVO DEGLI
EVOLUZIONISTI fondando un metodo di studio delle culture incentrato sul RAPPORTO DIRETTO con
l’OGGETTO di indagine, la conoscenza della lingua e puntuali verifiche storiche sull’emergere e
l’imporsi dei tratti culturali. Boas fu riferimento per generazioni di antropologi statunitensi –
Kroeber, Lowie, Benedict, Mead.

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PARTICOLARISMO STORICO
 Franz Boas (1858-1942)
 Alfred L. Kroeber (1876-1960)
 Robert Lowie (1883-1957)

Ogni cultura deve essere studiata e compresa in relazione allo specifico ambiente in cui si sviluppa
e ai problemi che deve affrontare. Queste parole ci rimandano alla definizione di antropologia, che
è lo studio dell'uomo e di quanto egli apprende inserito in un determinato contesto storico,
geografico, sociale.
Quindi quando i particolaristi affermano che è importante uno specifico ambiente, intendono
questo. Ogni ambiente, anche soltanto a livello geografico, pone dei problemi all'uomo, che deve
gestirli. Problemi anche legati alla sopravvivenza.
Es. C'erano delle isole sperdute in cui la ruota era quasi inesistente, però avevano invece sviluppato
tecniche di pesca avanzate che magari nemmeno esistevano ancora in occidente.
Nella modalità di analisi precedente, di analisi delle alter culture, lo sviluppo delle tecniche di pesca
che magari non esistevano neanche in Occidente, si perdeva!
 Perché non si andava a cercare cosa c'era di peculiare, si andava invece a cercare cosa c'era di
uguale rispetto alla comunità occidentale. Allora magari nell'evoluzionismo venivano identificate
come comunità inferiori quando, invece, rispetto alla capacità di gestione-sopravvivenza in un
determinato contesto geografico, quelle comunità avevano invece sviluppato in maniera
significativa delle tecniche che ben aiutavano la popolazione umana a sopravvivere in quel contesto.
Alla luce di questo, si sostiene lo studio e la conoscenza delle culture nella loro singolarità. Bisogna
andare sul campo, entrare in relazione con gli indigeni (autoctoni) o con coloro che vivono lì e andare
a vedere anche le peculiarità (elementi culturali, scoperte, credenze, modalità di alimentarsi,
pregare) specifiche di quel contesto. Cercando di capire quindi le caratteristiche degli elementi
culturali di quel contesto e le motivazioni di quelle pratiche culturali.
Diventa centrale cogliere il punto di vista del nativo. È impossibile, per il particolarismo storico,
sostenere uno schema evolutivo unitario, perché abbiamo l’idea di un’irriducibilità delle culture. È
proprio con il particolarismo storico che si pone l’accento sul diverso significato che fenomeni
culturali simili possono avere in contesti culturali eterogenei. Pratiche comuni ma significati diversi.
Es: il pollice per noi è segno di approvazione, per le società medio-orientali magari ha una volgarità
altissima. Stesso gesto, diverso significato. Anche i simboli, uno stesso simbolo collocato in un
contesto culturale diverso può significare qualcosa di diverso. L'uomo adotta gli stessi gesti ma con
significati diversi in base al culturalmente connotato.
Ciò che distingue Boas e gli altri particolaristi è che l’obiettivo è la conoscenza delle cause storiche
che determinano la forma dei tratti culturali propri di una certa popolazione.
Es. Gli antropologi particolaristi si spostavano fisicamente (evoluzionisti no) e andavano sul campo.
Magari decidevano di avanzare una ricerca sul perché il concetto di famiglia è definito in un certo
modo in un determinato contesto. Andavano di persona in un altro contesto culturale (Paese) e
iniziavano a capire, chiedendo ai locali e osservando, che cos'è famiglia per loro. In più, nel loro
obiettivo di conoscenza, cercavano di capire il perché in quel momento, in quel contesto culturale
famiglia era quello e per capirlo cercavano di risalire andando indietro nel tempo con documenti di
quella comunità. Quali erano le cause storiche per cui in quel momento il concetto famiglia era in
quel modo.

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RELATIVISMO CULTURALE
 Ruth Benedict (1887-1948)
 Margaret Mead (1901-1978)

Nei loro studi, si concentrano molto sull’irriducibilità di una configurazione culturale ad un’altra.
Non esistono valori universali se non come ampie categorie formali (morale, verità, bellezza, ecc.)
che rivestono comunque contenuti molto diversi a seconda del contesto culturale in cui vengono
declinati.
Es. i canoni di bellezza cambiano moltissimo nel mondo. MA queste categorie e questi criteri
formalmente ci sembrano uguali ma nella sostanza sono diversi e variano da contesto culturale a
contesto culturale.

Queste due allieve di Boas hanno un approccio, nei loro lavori di campo e negli studi che ci hanno
restituito, che va molto a incentrarsi su questi aspetti. Neanche ciò che noi consideriamo categorie
formali esistenti in tutto il mondo, possono essere approcciate con una semplicità di
standardizzazione o di omologazione, perché nell'ambito di queste categorie le differenze sono
tante e quindi anche i criteri di ciò che è considerato bello, buono, giusto sono diversi. Nei loro studi
cercavano di andare proprio a individuare queste peculiarità culturali, infatti, anche loro parlano di
irriducibilità delle culture.

In Inghilterra Bronislaw Malinowski contribuì al rinnovamento della disciplina attraverso il metodo


dell’OSSERVAZIONE PARTECIPANTE e l’idea di società intesa come un tutto, le cui parti sono
funzionali al mantenimento di un ordine generale. Il FUNZIONALISMO prima e il FUNZIONALISMO
STRUTTURALE poi – Radcliffe-Brown – dominarono la scena teorica dell’antropologia del Novecento.

FUNZIONALISMO
 Bronislaw Malinowski (1884-1942) con M. ha inizio l’antropologia moderna
 Radcliffe Brown (Funzionalismo strutturale)
M. considera la cultura e la società studiata come un complesso di fenomeni correlati tra loro e
quindi non estraibili dal contesto generale da cui dipendono. Qualunque elemento della cultura
assolve la caratteristica di funzione. Le istituzioni culturali svolgono la funzione di rispondere in
modo soddisfacente e socialmente organizzato ai bisogni primari ma, proprio perché le risposte
sono culturali e non biologiche come nel mondo animale, possono variare notevolmente da una
popolazione all’altra.
Cultura per i funzionalisti: “Cultura” quale vasto apparato, in parte materiale, in parte umano e in
parte spirituale con cui l’uomo può venire a capo di concreti, specifici problemi che gli stanno di
fronte.
Ogni cultura è un sistema chiuso, in cui ogni elemento ha la funzione di rispondere a bisogni primari
o derivati ed è in relazione con altri elementi. Andavano a studiare che tipo di legami c'erano nel
sistema. In base a dove andavano a studiare cercavano di capire come funzionava il sistema,
sostenendo che ogni sistema è diverso e cercavano a quale tipo di bisogno andava a rispondere. Se
c'è una norma è perché c'è un bisogno o una ragione. E la andavano a cercare in quel momento,
non nella storia. Ogni cultura ha un sistema a sé.

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FUNZIONALISTI VS PARTICOLARISTI
Analogie:
 si oppongono alle teorie evoluzionistiche di fine '800;
 opporsi all'utilizzo singolare del termine cultura, si usa adesso al plurale poiché sono convinti
dell'esistenza di più culture;
 sostengono la discesa sul campo e incontrare l'indigeno/autoctono/le popolazioni studiate.
Differenze:
 particolaristi storici: si soffermano sulla storia passata di quell'elemento culturale e il perché
fosse in quel modo;
 funzionalisti: vanno a studiare il sistema e l'interconnessione deli elementi culturali, facendo
propria l’idea di una società intesa come un tutto, in cui le cui parti sono funzionali al
mantenimento di un ordine generale. A loro non interessava la storia ma il funzionamento
degli elementi culturali nel sistema.

METODO DELL'OSSERVAZIONE PARTECIPANTE


Accomuna queste ultime due teorie trattate, ovvero che l'antropologo sul campo osserva e
partecipa, ed è un metodo che richiede abilità e l'individuazione della giusta distanza.
Malinowski (funzionalista) ha ipotizzato anche la possibilità di un'immersione totale che in realtà gli
fu contestata. Lui stesso comunque contraddiceva ciò che teorizzava e divulgava nel suo diario
segreto. Quindi è impossibile un'immersione totale.
La presenza stessa di una persona, in questi casi del ricercatore, va a influenzare il gruppo.
L'osservatore è sempre e comunque osservato.  DA "OSSERVAZIONE PARTECIPANTE" A
"OSSERVAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE". Se tu vai a incontrare l'altro, anche l'altro incontra te.
L'osservazione è reciproca; la relazione NON è unilaterale perché interagire con l'Altro comporta
una relazione con l'Altro (si parla di relazione quando sono in contatto minimo 2 persone e molto
spesso si tratta di 2 persone diverse).
Noi dobbiamo avere la consapevolezza che se noi cogliamo la diversità dell'altro, anche l'altro coglie
la nostra diversità. Magari è meno in grado di spiegarsela poiché non antropologo di professione,
però la differenza la coglie. Allora, nell'analisi dell'incontro e dello studio antropologico, entrerà in
gioco la REAZIONE, cioè quello che la presenza dell'antropologo può suscitare nella comunità e
nell'Altro, perché qualcosa suscita.
Bisogna tenere in conto che l'antropologo è per la popolazione l'ALTRO. Ognuno è "l'altro" dell'Altro.
La diversità è un fattore situazionale, relazionale e mutevole e spesso ci sono diversità che non
possono venire meno, relazionarsi sì, ma ci si accorge della diversità.
Es. Se in un luogo con persone solo nere vi è solo un bianco, viene vista e notata la diversità dell'unico
bianco, perché è evidente.

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INTERPRETATIVISMO
 Clifford Geertz (1926-2006)
Geertz sostiene l’idea di cultura come testo. La cultura è un testo e il metodo per conoscerla consiste
in un lavoro di de-stratificazione dei significati. Nel fare questo lavoro, dobbiamo renderci conto che
l'incontro deve essere anche riconosciuto e in qualche modo poi ripulito dalla soggettività dei
soggetti che entrano in relazione.
Questo mette molto in causa l'oggettività della ricerca antropologica, che comunque è sempre
condizionata da una soggettività, sia dello studioso ma anche del nostro interlocutore, perché
d'altronde si lavora sui fattori umani. Quindi la positività scientifica dell'evoluzionismo dell'800 non
esiste oggi.
Noi non siamo in un laboratorio asettico, siamo in un laboratorio dove per conoscere incontriamo
le persone. E già le persone di per sé, che si tratti di autoctono o di antropologo, hanno una
soggettività che sicuramente un po' influenza la restituzione della conoscenza.

L'ANTROPOLOGO IERI E OGGI


All'antropologo è chiesto di riflettere molto sul suo "io" culturalmente connotato e sui suoi
atteggiamenti per dichiarare anche come è avvenuta la ricerca. Non c'è antropologia se poi non c'è
restituzione scritta di quello che è la conoscenza a cui ha portato la ricerca.
Un tempo era impossibile che un antropologo prendesse delle posizioni e dichiarasse un po' se
stesso, oggi invece è assolutamente richiesto. Oggi il ricercatore entra anche in prima persona a
spiegare quanto è mischiato in un argomento e quant'altro proprio perché appunto c'è una sorta di
reciproco condizionamento.
Se si incontrano soggetti, è chiaro che entrino in gioco le individualità di ciascuno. Presenza che
suscita qualcosa dall'altra parte. In pochi decenni è cambiato tantissimo: dal non entrare
assolutamente in contatto con l'Altro e osservarlo in maniera positivistica, come fosse una cosa da
laboratorio; all'entrare in contatto con il nostro interlocutore  co-partecipazione.
L'esito di una ricerca antropologica è dato da delle variabili date dal ricercatore, ma anche da quella
comunità. Il ricercatore deve essere consapevole sia della propria identità che della propria diversità
per fare il suo mestiere. Tra le soft skills (in antropologia = qualità e capacità personali) da adottare,
c'è quella sicuramente dell'empatia ma anche dell'exotopia.
EXOTOPIA ED EMPATIA
 Empatia: cercare di immedesimarsi nell'altro cercando di comprendere come sta;
 Exotopia: pesa quanto l'empatia e consiste nell'essere consapevole che l'Altro è diverso, ma
che anche noi siamo diversi per l'Altro.
INCULTURAZIONE E ACCULTURAZIONE
 Inculturazione: processo in cui ciascuno di noi fa propri degli elementi culturali del suo
mondo d'origine (che è quello di nascita);
 Acculturazione: fare propri, da parte di una persona, elementi culturali di un mondo altro
che non sia quello nostro di origine.

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SOMIGLIANZE E DIVERSITÀ

Diversità
Aprirsi ad altre culture vuol dire andare a vedere se ci sono delle somiglianze che però possono
avere significati molto diversi. Stesso simbolo, significato diverso.
Per parlare di somiglianza e diversità dobbiamo avere degli indicatori. Gli indicatori della diversità
possono variare molto, nei diversi tempi storici abbiamo trovato i più diversi indicatori utilizzati per
decidere le somiglianze o le diversità dei gruppi umani e alcuni sono rimasti sempre presenti (es:
sesso, genere, razza, specie).
Sono le differenze originarie, ma sono differenze che ancora oggi hanno un grandissimo peso nella
classificazione del mondo e nelle interazioni tra persone. Per l’antropologia è importantissimo
studiare l’uomo in relazione al suo mondo, che è fatto di altre specie perché, studiando questa
relazione, capiremo molte più cose dell’uomo.
Inoltre, gli indicatori della diversità variano nello spazio, nel tempo, da società a società, addirittura
da gruppo a gruppo e, all’interno dello stesso gruppo e nello stesso tempo, possono variare da
situazione a situazione.

Bisogna partire da alcuni punti fondamentali quando parliamo di diversità:


 Chi è diverso è sempre diverso per qualcuno.
 Cioè non si è diversi in sé né per sé.
 Perché è sempre qualcun altro che ci definisce diversi.
 Ed è sempre in rapporto a qualcun altro che ci autodefiniamo diversi.
Non si è diversi perché si ha una certa caratteristica o un certo tratto: si è diversi perché qualcuno
rileva quella caratteristica o quel tratto e li considera indicatori di diversità. La diversità non è una
caratteristica o un’etichetta, ma è un’etichetta che emerge nel momento in cui il nostro
interlocutore (persona, gruppo o contesto) rileva in noi delle diversità.
Per quanto possano basarsi su fatti oggettivi, non opinabili (es: questione della razza, parlare una
lingua), gli indicatori della diversità si attivano come tali sempre e solo in rapporto alla situazione
determinata in cui ci si trova.
Chi è diverso è sempre diverso per qualcuno, ovvero la diversità è sempre relazionale e situazionale.
Non si è mai diversi in sé né per sé, è sempre in una relazione e in una situazione che può emerge la
diversità.
L’identificazione di un gruppo altro come portatore di tratti e caratteristiche che lo rendono diverso
implica sempre, da parte del gruppo giudicante, la consapevolezza anche della propria diversità:
loro sono diversi cioè non sono come noi, il che specularmente significa che noi non siamo come
loro, dunque siamo diversi da loro.
L’antropologia è la disciplina della riflessività o specchio: quando noi riconosciamo l’atro come
diverso, dobbiamo essere consapevoli che anche noi siamo diversi per l’altro.
Qual è il problema? Molto spesso non si va solo a rilevare una diversità, ma in questo percorso la
diversità, una volta che è stata attribuita da gruppo a gruppo, viene caricata di un giudizio di valore.
È attraverso questo giudizio di valore, che le diversità vengono trasformate in differenze (a volte
incolmabili, inaccettabili, non accogliibili e cadiamo in atteggiamenti di etnocentrismo ideologico).
Molto spesso la paura del diverso nasce da un giudizio di valore, non dalla semplice diversità.

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Si opera quindi una distinzione tra il momento della semplice percezione e constatazione di una
non-somiglianza e il momento successivo in cui la non-somiglianza viene caricata di valore, giudicata
buona o cattiva (bella/brutta, giusta/ingiusta, migliore/peggiore) dando origine a graduatorie, che
ci indicano sempre un meglio e un peggio, un superiore e un inferiore.
I sistemi delle diversità dei gruppi umani sono quindi:
 Relazionali
 Situazionali
 Variabili, dinamici
Somiglianze
La specie umana è caratterizzata da alcune fondamentali somiglianze:
 la capacità di vita sociale organizzata, cioè di creazione di relazioni stabili, di strutturazione
delle relazioni medesime, di modificazione delle strutture di relazioni;
 la capacità di pensare per mezzo di concetti e simboli;
 la capacità di comunicare producendo linguaggi.
Molto spesso nei dibattiti ci si sofferma molto più sulle diversità, ma è importante non perdere mai
di vista le somiglianze della specie umana. Anche perché nel contemporaneo di oggi in cui si parla
di cambiamenti climatici e relazioni con altre specie, dobbiamo ricordarci ciò che rende unica la
specie umana, ovvero i tratti di somiglianza che spesso sono i primi su cui si vanno a distinguere le
altre specie e sono quelli su cui vanno ad assottigliarsi alcune diversità con le altre specie.
La specie umana presenta moltissime diversità, legate ad almeno 3 ordini di fattori:
1) i fattori ambientali specifici in relazione ai quali ciascun gruppo umano è vissuto e vive;
2) le forme di organizzazione sociale, dei sistemi di relazioni per la produzione della vita sociale
che ciascun gruppo ha costruito e costruisce e che sono comunque correlati all’ambiente in
cui quel gruppo umano vive;
3) le forme culturali di mediazione tra sé e il mondo o forme di interpretazione dell’esperienza
che ciascun gruppo ha elaborato ed elabora.
Sono fattori strettamente correlati all’ambiente in cui l’uomo vive, che è un ambiente naturale e
anche sociale. Questi macro-fattori influenzano l’uomo attraverso il processo di inculturazione.

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INCULTURAZIONE
Il termine, dall’inglese culture, cultura, deriva, per traduzione, dal termine inglese inculturation.
 È l’assimilazione, da parte dell’individuo, di contenuti, pratiche e valori della tradizione culturale
del gruppo di appartenenza, al cui interno realizza la sua esperienza educativa.
Gli antropologi si sono soffermati molto su come l’individuo apprende la cultura, anche perché il
momento storico in cui nasce la disciplina accademica dell’antropologia (in pieno positivismo,
nascita dei nuovi razzismi), l’antropologia dice che è importante andare a trovare delle spiegazioni
rispetto a come l’uomo acquisisce il suo culturalmente connotato, anche per andare a contrastare
quelle teorie e visioni che dicevano che l’intelligenza e la cultura venivano trasmesse
biologicamente. C’era una serie di teorie che dicevano che non solo l’aspetto somatico aveva una
trasmissione biologica genetica, ma anche l’intelligenza. Oggi, grazie alle scoperte scientifiche e
umanistiche, è assolutamente disconfermato.
Come viene acquisita la cultura? L’acquisizione della cultura da parte del soggetto sociale è un
processo che gli antropologi hanno studiato con particolare attenzione per legittimare l’assunzione
teorica “antirazzista” secondo la quale, tenendo costante ogni altro fattore al di fuori della razza,
trattamenti inculturativi simili avranno come risultato repertori socioculturali simili.
La parola è stata introdotta nelle scienze sociali da M.J. Herskovits (1948) per indicare l’interazione
complessa dell’individuo con la sua cultura di riferimento e di cui egli è, allo stesso tempo creatura
e creatore. È evidente, infatti, che la trasmissione dei modelli culturali da una generazione all’altra
non è mai riproduzione ripetitiva, ma sempre è sottoposta a successive aggiunte e innovazioni.
Secondo Herskovits il processo di inculturazione dura tutta la vita, ma varia durante i successivi stadi
del ciclo dell’esistenza; per cui è opportuno differenziare:
- la fase dello “stadio infantile”  in cui è imposta e arbitraria. Inizialmente, è un processo
che ci vede passivi. Noi non abbiamo scelto dove nascere e nell’ambito di quale nucleo
nascere, ma non abbiamo neanche scelto la nostra impronta culturale. L’inculturazione
è un processo che nasce prestissimo, da quando la persona nasce o addirittura dal
concepimento;

- dalla fase dello “stadio adolescenziale”  in cui è orientata verso l’integrazione sociale,
a cominciare dalla socializzazione nei gruppi informali dei coetanei. È il momento in cui
noi viviamo una parte di relazioni sociali in un momento nostro di crescita in cui emerge
in maniera più netta la nostra capacità critica o la nostra volontà;

- e dalla fase dello “stadio adulto”  quando l’inculturazione è una forma consapevole e
critica di accettazione o di rifiuto dei valori e delle scelte del gruppo. Da adulti siamo
consapevoli di avere un’impronta culturale e noi possiamo ritrovarci in questa impronta
culturale totalmente o in parte anche no, e possiamo decidere se aderire o meno ad
alcuni elementi del culturalmente connotato che sono diventati nostri ma che non
abbiamo scelto noi.
Non c’è essere umano al mondo che non vive un processo di inculturazione. L’inculturazione viene
a indicare un percorso segnato da momenti e tappe insieme consci e inconsci, pianificati o
spontanei, che l’individuo attraversa in un processo continuo che inizia con la nascita e che va avanti,
con variazioni di intensità, per tutta la vita.

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ACCULTURAZIONE
 È lo scambio di caratteristiche culturali risultante dal contatto diretto e continuativo tra gruppi
di individui; gli schemi culturali di ogni gruppo possono essere modificati, ma i gruppi conservano
un carattere distinto.
La possibilità per ognuno di noi di entrare in contatto con gruppi / culture altre avviene molto prima
di un tempo, perché viviamo in una società sempre più multietnica e culturale, perché con i
movimenti di comunicazione noi entriamo in relazione con un altro mondo molto in fretta, il nostro
contatto con gli individui di altre culture può iniziare semplicemente accendendo un computer o
comunque attraverso le nuove tecnologie.
Ognuno di noi può avvicinarsi tanto da arrivare a voler fare proprio un elemento culturale del mondo
altro e può decidere, nel suo culturalmente connotato, di sostituire quell’elemento culturale con
quello del suo mondo culturale d’origine.
Es: si nasce in una famiglia italiana cristiana cattolica, si cresce e si decide, per i viaggi, per i contatti
con le altre culture asiatiche, di aderire al buddismo. L’individuo può decidere di togliere l’elemento
culturale della sua tradizione religiosa familiare per inserire questa nuova scelta. L’inserimento di
questo elemento culturale altro non va a snaturare la sua identità culturale, non possiamo dire che
non è più italiano.
Non è che l’adesione mia a un elemento culturale che non appartiene al mio mondo d’origine vada
a snaturare in toto la mia appartenenza. Oggi, infatti, parliamo di marketing identitario. Oggi vi è
anche una maggior facilità di contatto, libertà di scelta e di coscienza dell’individuo che permette di
fare questo. Per cui sempre più, quando parliamo con persone adulte (soprattutto se hanno
viaggiato, se sono curiose) non troviamo un culturalmente connotato puro, perché non esiste, ma
troviamo delle scelte di adesione a mondi altri.
A un certo punto della vita, ognuno di noi ha 2 piani che corrono paralleli:
- processo di inculturazione che rimane, che continua per tutta la vita. O perché è una
continua decisione di conferme rispetto al proprio piano originario, o perché nelle nostre
tappe di vita prendiamo delle decisioni e assumiamo dei ruoli che prima non avevamo
assunto, possiamo decidere se aderire al modello del nostro culturale originario o
scegliere altri modelli;
- processo di acculturazione, in ognuno esso è identificabile rispetto ad alcuni elementi.
Riconosceremo delle differenze rispetto all’esito finale, le nostre identità si potranno
differenziare (anche se siamo tutti originari dello stesso contesto nazionale, geografico,
etnico, culturale) per alcuni aspetti. In alcune situazioni, l’acculturazione è forzata e si
parla di situazioni in cui persone si spostano da un paese a un altro, e in quest’altro Paese
ci sono delle regole di non accoglienza delle diversità dell’altro, di imposizione di
abitudini, modi di fare, stili di vita e regole del paese in cui si va a vivere.
Nel passaggio da una generazione all’altra, le cose cambiano: gli studi sulle generazioni degli ultimi
anni ci dicono che il gap generazionale si è molto più ampliato per le nuove tecnologie, gli scambi
culturali. Oggi noi siamo più distanti dai nostri genitori di quanto loro erano con i nostri nonni.
Questa ampiezza della distanza, a causa delle interconnessioni, ci dice che il cambiamento è più
veloce. Quella di oggi è la generazione del marketing identitario; a un certo punto, il soggetto di oggi
può andare a inglobare nel suo io culturale, altri elementi.

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Attraverso il processo di inculturazione, l’ambiente, la struttura sociale e la cultura, in quanto forme
della vita, vengono profondamente interiorizzate dai singoli individui e divengono la materia stessa
della loro identità, del loro modo di essere.
Qual è la nostra identità etnica? Siamo etnicamente e culturalmente connotati, spesso si pensa alle
diversità dell’altro e non ci si sofferma sulle nostre. Questo è utile per conoscere il proprio
culturalmente connotato.
I singoli gruppi umani nei quali la specie umana si organizza sono perennemente oscillati tra relazioni
pacifiche, di alleanza e cooperazione, e relazioni ostili, aggressive e conflittuali.
La somiglianza non favorisce sempre l’accordo né la diversità scatena sempre l’ostilità: è vero
piuttosto che, di volta in volta, somiglianze e diversità possono essere invocate, enfatizzate,
addirittura «elaborate o inventate» per giustificare l’uno o l’altro dei due comportamenti.
Tuttavia, sembra ricorrente nei comportamenti umani l’associazione tra percezione delle diversità
e ostilità verso coloro che sono percepiti come diversi. A questa associazione si è dato il nome di
ETNOCENTRISMO:
- ATTITUDINALE: appartiene a tutti noi
- IDEOLOGICO: è una forma che vede la strumentalizzazione delle diversità in modo da
riconoscerle come pericolose per il gruppo tante da arrivare a combatterle e annientarle.
Il relativismo culturale si oppone all’etnocentrismo, ma presenta alcune fondamentali
contraddizioni: se le sue premesse fossero integralmente vere, dovrebbero essere impossibile sia la
comunicazione interculturale sia la costruzione di ogni morale.
L’idea di rispettare l’altro, i valori, le pratiche, le norme dell’altro, significherebbe accettare ed
essere complici nel far continuare ad esistere delle pratiche disumane, solo perché esistono in un
ambito umano. Sarebbe valido tutto, nemmeno i diritti umani potrebbero esistere.
Il relativismo culturale assoluto chiederebbe questo, ma è pericoloso tanto quanto l’etnocentrismo
ideologico. Ma l’antropologia non lo vede nella sua assolutezza, lo vede come un relativismo
metodologico, non morale. Dobbiamo inserire, dentro a tutto questo, la questione degli stereotipi
e dei pregiudizi.
Ognuno di noi ha qualche stereotipo e in ognuno di noi è individuabile qualche pregiudizio,
dobbiamo riconoscere che nel nostro culturalmente connotato possono esistere, è normale averli
perché siamo cresciuti in un determinato contesto culturale e ideologico, ma non dobbiamo
accettarli acriticamente. Dobbiamo gestire questi aspetti, tenerli a bada. Si devono fare riflessioni
su questi aspetti e razionalizzarli.
 STEREOTIPI: sono idee preconcette, spesso con valenza negativa, su ciò che sono i membri
di un gruppo. Spesso non sono idee che ci facciamo sulla base di un rapporto di esperienza,
ma su un sentito dire generale.
 PREGIUDIZIO: è la svalutazione di un gruppo a causa dei suoi presunti comportamenti, valori,
capacità o attributi. Il pregiudizio è legato agli stereotipi che gravano su un gruppo e che
vengono estesi a tutti i suoi membri individuali.
Ogni comunicazione è relazione, che sia relazione con un testo, con una persona, una lingua, cultura,
persone di quel culturalmente connotato. L’incontro non ci lascia neutri, suscita sempre qualcosa,
di contrasto, di apprendimento.

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Da “Il primo libro di antologia”, Marco Aime
Uno degli insegnamenti dell’antropologia è: diffidare dell'idea di naturalezza, soprattutto di fronte
alle diverse risposte che le società forniscono a problemi comuni. Ciò che spesso ci appare naturale,
in realtà è solo il prodotto di abitudini consolidate nel tempo, e l'abitudine, come fece già notare
oltre quattro secoli fa Montaigne:
“è in verità una maestra di scuola imperiosa e ingannatrice, ci si manifesta con un viso furioso e
tirannico, sul quale noi non siamo più liberi neppure di alzare gli occhi. La vediamo a ogni momento
forzare le regole di natura”.
Credere che ciò che ci è consueto sia naturale può indurre a pensare che tutto ciò che differisce non
lo sia. Un'idea che è spesso madre dell'etnocentrismo e che porta e vedere nel diverso una
condizione inferiore, di barbarie. Lo aveva già intuito Montaigne, quando scriveva: «lo ritengo che
non vi è nulla di barbaro e di selvaggio in quelle popolazioni. La realtà è che ognuno definisce
barbarie quello che non è nei suoi usi». Oppure, come sostiene Lévi-Strauss: «Il barbaro è anzitutto
l'uomo che crede alla barbarie».
Due secoli dopo, Montesquieu inventava dei persiani in visita a Parigi, per innescare quel senso di
spaesamento e di sguardo sull'alterità scevro dai condizionamenti dell'abitudine che serve a
collocare gli usi di una comunità nella mappa delle comunità tutte. Quei persiani ci osservano con
occhi stranieri, si stupiscono, provano meraviglia e disagio, ammirano e criticano l'Occidente.
Montesquieu utilizza i loro occhi disincantati e stupiti a un tempo per esprimere, con sarcasmo e
ironia, le sue critiche alla nostra società. Così fa scrivere da uno di loro:
“Il re di Francia è il principe più potente d'Europa. Non possiede miniere d'oro come il re di Spagna
suo vicino, ma ha più ricchezze di lui, perché le ricava dalla vanità dei suoi sudditi, più inesauribile
delle miniere. D'altronde questo re è un gran mago: esercita il suo potere anche sullo spirito dei suoi
sudditi, li fa pensare come vuole. Se nel suo tesoro c'è solo un milione di scudi e gliene accorrono
due, gli basta persuaderli che uno scudo ne vale due, ed essi ci credono. Quanto ti dico di questo
principe non deve stupirti: c'è un altro grande mago più potente di lui, il quale domina sul suo spirito
non meno di quanto egli domini su quello degli altri. Questo mago, che si chiama papa, ora gli fa
credere che tre è uguale a uno, che il pane che mangia non è pane, che il vino non è vino, e mille
altre cose del genere”.
Ironico, ma mai arrogante, questo è lo spirito di Montesquieu e dei suoi amici orientali.
“Mi pare, Usbek, che noi giudichiamo le cose sempre in base a un riferimento segreto a noi stessi.
Non mi sorprende che i negri dipingano il diavolo di un candore abbagliante e i loro dèi neri come il
carbone. È stato detto molto bene che, se i triangoli si facessero un dio, gli darebbero tre lati”.

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SEGNO-SIMBOLO
Segno: è una realtà che è dotata di una consistenza sua propria ma che, sia per convenzione sia per
relazione naturale e intrinseca, rimanda a un’altra realtà. Es: il fumo è il segno del fuoco. I segni e i
simboli sono un mezzo di comunicazione tra gli uomini e sono i più antichi mezzi di comunicazione
per l’uomo. Il loro valore comunicativo, rispetto ad altri mezzi che hanno visto una storia calante,
non è mai venuto meno, anzi, è andato sempre più ad acquisire importanza, creando un problema
di inflazione del simbolo  oggi tutto rischia di essere simbolo.
Simbolo: è un segno (tutti i simboli sono segni, mentre non tutti i segni sono simboli) che rimanda
a una realtà invisibile, con la quale esso mette in comunicazione l’uomo facendo passare la sua
intelligenza dal visibile all’invisibile. Il simbolo realizza un’apertura al di là dello spazio e del tempo
immediati.
Esso possiede una struttura di significante che conduce al significato. Il significante appartiene al
mondo visibile: albero, sole, parola, oggetto, il segno ecc. Il significato è la parte invisibile e
sconosciuta, il contenuto che l’uomo deve scoprire, è quello che occorre andare a scoprire.
Immaginario: il segno e il simbolo sono due elementi essenziali dell’immaginario dell’uomo. Per
immaginario Durand (1992) intende l’insieme delle immagini e delle relazioni tra le immagini che
costituisce il patrimonio di pensiero dell’Homo sapiens.
Es: Il colore è un simbolo perché è culturalmente connotato. Ad esempio, in Italia la sposa si veste
di bianco perché indica purezza, ma in india il bianco lo indossa la donna vedova. I colori comunicano
qualcosa, sono attribuiti a significati specifici all’interno di tante culture.
 Le nostre vite sono organizzate e basate sui simboli. Questo aspetto spesso lo perdiamo per
il concetto di naturale, dobbiamo quindi sapere che i colori, ad esempio, sono culturalmente
connotati.

 Il simbolo è un oggetto, una parola o un’azione dal significato culturalmente codificato che
rappresenta qualcosa con il quale non ha una relazione necessaria o naturale, sono quindi
arbitrari. Lo stesso simbolo in contesti sociali, luoghi geografici, tempi storici differenti può
significare cose diverse. Arbitrario non solo nella prima attribuzione di significato, ma
arbitrario perché il suo significato può costantemente cambiare, può diventare
costantemente più articolato perché un singolo simbolo può avere tantissimi significati.

 La cultura è trasmessa attraverso i simboli, ci sarebbe una grandissima perdita culturale


senza simboli. È attraverso i simboli, arbitrari e capaci di attribuire significati diversi, che
condividiamo, conserviamo e trasmettiamo nel tempo la cultura. Spesso si arriva a fare
battaglie per tutelare un simbolo altamente importante per il proprio mondo culturale (es: i
Maori hanno fatto una richiesta mondiale per far rispettare le caratteristiche e il senso dei
loro tatuaggi).
IL SIMBOLO:
 è un costrutto culturale, una rappresentazione convenzionale, culturalmente connotata. È
un’entità che “sta per” un’altra cosa: non è la cosa stessa ma è una sua rappresentazione o
evocazione;
 rimanda sempre a qualcos’altro;
 può essere individuale o collettivo:

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- il simbolo individuale è un simbolo che potremmo definire “autobiografico”, in quanto
sintetizza e richiama una storia umana. Ci deve sempre essere almeno una persona che
condivide con te il significato di quel simbolo;
- il simbolo collettivo, invece, è un simbolo che sta per una credenza, fede o passione
condivisa da più individui.
Ogni simbolo ha, pertanto, la capacità di evocare concetti complessi in maniera altamente sintetica
sul piano cognitivo e fortemente mobilitante sul piano affettivo e volitivo.
Il simbolo è caratterizzato, oltre che dal rimando (qualcosa che rimanda a qualcos’altro) e
dall’intersoggettività (abbiamo bisogno che almeno due persone condividano il significato), anche
da:
- un’ambiguità strutturale: la vista di un simbolo fa in generale subito sorgere il dubbio se
una figura vada considerata come simbolo o no. Un oggetto è simbolo anche in relazione
al luogo in cui si trova: ad esempio il triangolo in una chiesa cristiana è considerato
simbolo della Trinità, mentre sulla lavagna di una scuola è una semplice figura
geometrica. Non solo il contesto culturale, ma anche il conteso fisico, il luogo a volte ci
dice se quella figura, quell’oggetto ecc. è simbolo o meno  il problema del
riconoscimento del simbolo;
- un’ambiguità interpretativa: ogni simbolo è suscettibile di assumere significati diversi in
relazione al contesto etnico-culturale in cui è situato, vale a dire in relazione alle persone
che si rapportano ad esso, che lo utilizzano. Quando parliamo di contesto etnico-
culturale non dobbiamo immaginarci solo lo spazio geografico, ma anche la persona di
un contesto etnico-culturale che si posta in un contesto che non è suo d’origine,
generalmente utilizza un determinato simbolo in maniera diversa.

IL SIMBOLO
 vi è un rapporto di rinvio significativo ad altro, il significato non è legato a ciò che vediamo,
ma è invisibile;
 è portatore di un sovrappiù di significato;
 mentre il segno stabilisce relazioni chiare e univoche, il simbolo mostra, nei molteplici
significati che ad esso possono essere attribuiti, la sua natura inesauribile, perché un
simbolo, in qualsiasi momento nello spazio, nella storia e nel tempo può perdere alcuni
significati o aggiungerne altri solo per piccoli gruppi umani;
 una caratteristica dei simboli è quella di avere la possibilità di includere più di un significato,
anche nell’ambito della stessa comunità.
Todorov nel suo lavoro “Simbolismo e interpretazione” per meglio definire e spiegare la natura del
simbolo, lo distingue dal segno: il simbolo è indiretto, mentre il segno è diretto. I simboli sarebbero
quindi dei segni indiretti che vengono evocati per associazione.
Il simbolo è dunque molto più di un semplice segno, perché, oltre al significato, si appella
all’interpretazione (Chevalier).

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La mano di Fatima
La Mano di Miriam o Mano di Fatima, anche nota
come Hamsa o Khamsa, significa “cinque” e nella religione ebraica e
musulmana riveste un valore sacro, è un simbolo riconducibile ai primi
culti sumerici e babilonesi, prima conosciuta come Inanna e poi Istar,
divinità femminili legate alla fertilità, all’amore carnale e alla bellezza e
anche alla fecondità della Terra.

RAZZA
Il termine “razza” ha una storia relativamente recente. Lo si trova usato a partire dal Cinquecento
per indicare una discendenza.
L'etimologia è abbastanza incerta: probabilmente dal latino (gene)ratio. Ma solo nel secolo scorso
il termine ha assunto l'attuale significato: un gruppo umano caratterizzato da specificità sia
somatiche sia intellettuali e comportamentali che si suppongono fondate biologicamente e
trasmesse per via ereditaria.
La diffusione del termine razza fa dunque tutt'uno con quella delle dottrine razziste, che intorno alla
metà dell'Ottocento dominano il pensiero antropologico e vengono elaborate in Europa e negli Stati
Uniti. La più celebre di esse è probabilmente quella del francese conte de Gobineau, che nel 1856
pubblica il Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane. I punti cardine di questo testo, che godrà di
grande diffusione, possono esser così schematizzati:
- la biologizzazione o naturalizzazione di ogni tipo di differenza tra culture o civiltà umane
 tutte le differenze riscontrabili nel mondo erano legate a differenze biologiche;
- l'affermazione di una gerarchia rigida fra le razze, che vede naturalmente ai vertici la
razza bianca;
- l'orrore per la mescolanza tra le razze.
Classificazioni Naturalistiche Dei Gruppi Umani – Al Centro La Bellezza
Fra gli altri, Linneo un secolo prima (1758) aveva proposto una tipologia di sub-specie umane, basata
essenzialmente sul colore della pelle ma in cui si confondevano tratti fisici, mentali, sociali e
culturali, pensata come una scala che conduceva dalle scimmie al "gradino più alto" dell'uomo
europeo. Arrivò a fare una gerarchia degli uomini, distinguendo delle sub-specie umane.
Ovviamente in quel periodo non c’era NESSUNA IPOTESI della relatività dei giudizi e dei criteri, il
centro era sempre l’uomo europeo, la razza bianca.
 Con il termine “razza” ci si riferisce a un gruppo di persone che presumibilmente condivide
determinate caratteristiche biologiche. È un termine problematico perché usato
diversamente presso diversi gruppi umani e da persone diverse.

 La ricerca antropologica e quella di altre discipline scientifiche hanno dimostrato che, da


sole, le caratteristiche biologiche non possono spiegare o dare conto del comportamento o
dello stile di vita degli individui. C’è una netta destinazione tra ciò che viene passato
geneticamente e ciò che non viene passato: il culturalmente connotato e l’inculturazione
non sono delle trasmissioni biologiche, ma processi di apprendimento.

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 Più che rappresentare categorie biologiche, le classificazioni razziali sono costruzioni
culturali. Sono spesso associate a discriminazioni e crudeltà nei confronti delle razze
considerate meno degne da chi detiene il potere.

ETNIA
Termine derivato dal greco ethnos, popolo, anche con il significato di stirpe, moltitudine, nazione.
S’intende generalmente per etnia un raggruppamento umano i cui componenti hanno
caratteristiche comuni di lingua, abitudini, tipologia fisica, avente una certa continuità e stabilità,
sebbene non necessariamente chiuso in confini rigidi.
 Nell’800 e nel primo Novecento il termine “etnia” è mescolato ai concetti di razza, popolo,
nazione. Allora, questi termini venivano utilizzati come sinonimi;

 Nel 1896 iniziò ad essere utilizzato quale termine che disegnava qualità culturali,
psicologiche e sociali di un popolo (quindi non morfologiche che andavano invece a
distinguere le razze). Si iniziò a differenziare l’aspetto morfologico che rimase alla razza, con
gli aspetti più culturali che rimasero legati all’etnia;

 L’etnia poteva quindi includere individui di razze diverse riuniti per ragioni storiche ma non
andava confusa con la nazione che richiedeva una solidarietà maggiore.
Weber distingue nettamente tre entità: Razza - Etnia – Nazione
1) La RAZZA è fondata sulla comunità d’origine, ma da un punto di vista biologico;
2) L’ETNIA sulla credenza soggettiva in origini comuni, il sentire di far parte di una comunità
etnica deve essere presente in un individuo, c’è una conoscenza della lingua, delle tradizioni,
di pratiche, un sentirsi in una comunità etnica;
3) La NAZIONE si differenzia dalla seconda per una più intensa passione politica, un sentimento
politico che potrebbe non esserci nell’etnia o che potrebbe far sfociare dei conflitti anche
all’interno di singoli Stati-nazione.
I gruppi etnici sarebbero così per Weber “gruppi umani che nutrono una credenza soggettiva in una
comunità di origini, fondata su somiglianza di abitudini esteriori, costumi o di entrambi o sui ricordi
della colonizzazione e della migrazione, in modo che questa credenza diventa importante per la
propagazione dello spirito di comunità; non importa che una comunità di sangue esista o no
oggettivamente” (Weber, Economia e società, 1921). Il legame di sangue può esserci o no,
l’importante è che l’etnia sia sentita e dimostrabile, aldilà del tratto somatico.
RAZZA-ETNIA
Oggi, di fronte alla non chiarezza dell’utilizzo di questi termini, RAZZA ed ETNIA, si privilegia
quest’ultimo poiché non si basa su concetti genetici ed evoluzionistici e quindi non connota e non
posiziona su scale di valore gerarchicamente stabilite i diversi raggruppamenti umani.
Le etnie sono universalmente diffuse, ma anche mutevoli, sono cangianti in movimento. Non c’è
niente di più dinamico della cultura e della lingua, ed è ovvio che anche l’etnia è in movimento, così
come lo può essere il sentimento che una persona prova nei confronti di una comunità.

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LA CARTINA GEOGRAFICA
La terra è una sfera, o quasi, e da sempre la più grande sfida, per i cartografi, è rappresentarla su di
una superficie piana. Esistono centina di proiezioni e di rappresentazioni diverse, non si può perciò
affermare che esista una proiezione migliore di un’altra, nessuna lo è in senso assoluto, poiché
dipende da cosa si ritiene importante rappresentare.
Sono nati, quindi, degli errori. Questi errori sono distinguibili in:
- errori dati da una limitazione al tempo in cui la carta veniva costruita, limitazioni legate
a conoscenze o a questioni tecniche;
- errori voluti che hanno alle spalle più un’impronta di visione degli equilibri del mondo e
quindi di ideologie che vengono rappresentate sulle carte.
La carta di Peters è la carta ritenuta più equa in quanto la distribuzione degli errori è equilibrata tra
nord sud, est e ovest. Ci sono degli errori che però sono bilanciati e li troviamo nelle diverse parti
del mondo, cosa che non c’è nelle carte precedenti, come quella di Mercatore.
La scelta di una proiezione piuttosto che di un’altra, però, può non dipendere soltanto dal mero uso
scientifico - didattico che si vuole fare della carta: certe volte, paradossalmente, la proiezione viene
scelta proprio per gli errori e le deformazioni che contiene, per strumentalizzarli e dar ad intendere
ciò che non è.
“Da cinquemila anni esistono le carte geografiche, e da tremila anni queste carte hanno contribuito
a formare l’immagine che l’uomo ha del mondo. Scienziati, storici, papi, ricercatori, navigatori hanno
disegnato delle carte, ma solo da 400 anni esiste il mestiere di cartografo. Come storico con interessi
geografici ho studiato la storia della cartografia con particolare interesse. Mi resi conto della
inadeguatezza delle carte terrestri esistenti che non favorivano, tra l’altro, la migliore soluzione che
sempre sorge quando si trasporta la superficie terrestre su un foglio piano. La nuova carta, la mia
carta, rappresenta in modo egualitario tutti i paesi della Terra.” (A.Peters).
Proiezioni di Mercatore e Peters
La carta di Mercatore nacque nel 500, e in questi suoi errori
di rappresentazione, ben si prestava ad essere strumento
di dominazione da parte delle grandi potenze che nel
tempo si sono venute a creare. In termini di dimensioni, la
carta di Peters è considerata corretta.
Peters decide di dare il colore uguale alle colonie e ai paesi
colonizzatori, per conferire a ogni continente un colore con
delle differenziazioni di cromatura legate alle presenze
etniche. Abbiamo delle sfumature diverse legate
all’etnicità. Viene meno il legame tra un certo tipo di
gerarchia che era tra Paesi colonizzatori e paesi colonizzati.
La carta è anche un simbolo, usare una carta piuttosto che
un’altra significa comunicare qualcosa. Quindi, non
bisognerebbe avere sempre come riferimento nelle cartine l’Europa al centro, poiché cambia da
cultura a cultura.

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Caratteristiche carta di Peters
- Fedeltà alla superficie: ogni area (Paese, continente, mare) è rappresentata secondo le
sue reali dimensioni.
- Fedeltà alla posizione: tutte le linee Est-Ovest sono parallele e orizzontali. Il rapporto di
qualsiasi punto della carta con la sua distanza dall’equatore è subito identificabile.
- Fedeltà all’asse: tutte le linee Nord-Sud sono verticali. La posizione di ciascun punto è
immediatamente verificabile in termini di meridiano o fuso orario.
- Totalità: la terra è completamente rappresentata, senza “tagli” o doppie
rappresentazioni.
- Regolarità nella distribuzione degli errori: non sono concentrati tutti nelle aree più
lontane dall’Europa. Nella carta di Mercatore sono concentrati nelle aree lontane
dall’Europa.
- Colori base per ogni continente: tradizionalmente, le colonie avevano lo stesso colore
degli Stati colonizzatori. Peters sceglie un colore base per ogni continente e assegna ai
singoli Paesi delle varianti, per evidenziarne le affinità e le radici comuni.

MULTIETNICITÀ E INTERCULTURALITÀ
Multiculturale e interculturale sono due termini spesso usati come sinonimi, ma in realtà non sono
equivalenti, anzi fra i due esiste una differenza tale da connotare due approcci diametralmente
opposti verso la questione dell’integrazione degli immigrati e dei loro figli nel paese di approdo.
Questi due termini fanno riferimento al tipo di relazione e di interazione che questi gruppi hanno e
vanno a indicare situazioni diverse.
 Multiculturale è quella comunità (nazionale, scolastica, sociale) in cui sono presenti più
popoli o etnie che tuttavia rimangono separati fra di loro, ognuno nella propria zona fisica e
culturale e che raramente entrano in contatto. È un contatto superficiale, non è un contatto
di scambio;
 Interculturale definisce invece un contesto relazionale in cui i vari gruppi linguistici e culturali
stabiliscono fra di loro un costante rapporto dialettico di arricchimento reciproco fondato
sul mutuo rispetto, sull’interesse per ciò che l’altro rappresenta o può rappresentare. Questo
è un contatto che porta a uno scambio, a un confronto, all’incontro con l’altro. Spesso,
accanto a questo termine troviamo altri termini che vanno meglio a specificare che tipo di
interculturalità è presente in quel contesto. I livelli di relazione, di incontro, di scambio non
sono tutti uguali, possono essere diversi. Quando parliamo di interculturale facciamo
riferimento a una presenza contemporanea di persone di origine diverse e questa presenza
è una presenza dinamica, che si connota dallo scambio, dal confronto, dall’incontro.
“A ben guardare, le società multiculturali sottendono il forte etnocentrismo del gruppo dominante,
che propugnando l’omologazione al proprio modello, cerca di assimilare le differenze, fino a
cancellare o almeno rendere invisibile ogni manifestazione di alterità. In questo caso il contatto fra
le varie etnie spesso si risolve in conflitto piuttosto che in dialogo perché in un gruppo emerge il
desiderio di non soccombere culturalmente e questo può essere manipolato da leaders carismatici e
senza scrupoli, pronti a sfruttare la rabbia e la frustrazione che serpeggiano nella comunità, per scopi
tutt’altro che leciti”.
Quando parliamo di multiculturalità, la domanda che ci facciamo è se c’è un atteggiamento
etnocentrico e da parte di chi c’è. È facile che si richieda alle persone di origine altra rispetto a quella
della maggioranza un percorso di assimilazione, di adozione di quei comportamenti, di quelle
pratiche, delle norme, fino ad arrivare sul piano ontologico a volte, degli elementi della cultura
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dominante o maggioritaria. Tutto l’aspetto della specificità dell’altro, gli elementi culturali dell’altro
possono emergere più nella sfera del privato piuttosto che nel pubblico, nel comunitario piuttosto
che nel sociale.
“Al contrario, nelle società interculturali il gruppo dominante è il gruppo accogliente che individua e
promuove strategie di incontro fra le culture in modo da creare occasioni positive di conoscenza
reciproca e da valorizzare le differenze presenti al suo interno. In questo contesto il contatto fra le
varie etnie è costante e produce un sistema di relazioni e di valori che si definisce proprio attraverso
il confronto positivo fra le varie realtà culturali”. (Fiorenza Quercioli)
Quando parliamo di società interculturali, emerge la dimensione dell’incontro, dello scambio, della
relazione, dell’arricchimento. Quando le politiche sostengono politiche interculturali, vuol dire che
negli spazi sociali è data possibilità di manifestazione del gruppo altro di far emergere le proprie
caratteristiche. Vengono dati degli spazi, dei luoghi, la possibilità di vivere la propria identità nella
dimensione non solo privata, ma anche pubblica. C’è sempre un limite: quello che viene chiamato
ordine pubblico, un concetto che va ad accogliere o, al contrario, ad eliminare la possibilità di
manifestazione di tradizioni, pratiche di culture altre nel momento in cui le pratiche vanno a
destabilizzare la società dentro la quale queste avvengono. Quindi quando vanno a contrastare o
negare quello che ad esempio è il piano ontologico e il piano delle normative della società di
accoglienza.
Es: in Italia non sono accolti i matrimoni precoci, la poligamia, tradizioni e istituzioni familiari o
matrimoniali perché se si permettesse in Italia il vivere queste dimensioni, si andrebbero a negare
alcuni valori fondamentali legati alla costituzione. Pratiche che andrebbero a contrastare troppo il
piano valoriale della società di accoglienza, quindi che possono sollevare una serie di problematiche
in termine di ordine pubblico, non vengono accettate. Escludendo queste pratiche estreme, non
ammissibili, nelle società interculturali quelle che sono altre tradizioni che sono differenti dalle
nostre e non provocano alcun tipo di disorientamento o di disordine sociale, possono essere
ammesse, anche in una dimensione sociale e pubblica, non solo a livello del privato e del
comunitario.
La multiculturalità è assieme uno stato e un dato di fatto, risultato di flussi migratori e di incontri
tra le culture. L'interculturalità è invece un processo educativo intenzionale, che deve essere
progettato dagli educatori per rispondere alle esigenze formative della società d'oggi. Quest’ultima
prevede la conoscenza dell’altro, l’incontro, l’arricchimento; si arriva a una dimensione di scambio
e di incontro.
In società sempre più interetniche e interculturali, possono nascere dei fenomeni culturalmente
nuovi. L’ibridazione culturale è una nozione che è considerata spesso ambigua (perché si potrebbe
pensare che esistano delle culture pure, senza contaminazioni), anche perché tutte le culture sono
di fatto ibride, perché frutto di scambi, di contatti e di relazioni avvenute nel corso dei secoli tra le
popolazioni.
L’ibridazione, dunque, è un termine che fotografa i cambiamenti intervenuti in seguito al contatto
tra culture. Con questo termine, più specificatamente, si intende la sintesi originata dalla
mescolanza e dalla combinazione di tratti culturali diversi in una data cultura.
Questo concetto di ibridazione è accettato perché nella nostra contemporaneità caratterizzata da
fenomeni di scambio comunicativo, economico, fisico che riguardano tutto il pianeta, sembra essere
questo concetto un concetto utile e idoneo per andare ad indicare la sintesi originata dalla
mescolanza e dalla combinazione di tratti culturali diversi in una data cultura.

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CULTURE IBRIDE
Attenzione!  Parlare di culture ibride sembra quasi voler sostenere che esistono o sono esistite
culture pure, ma sul piano empirico le culture sono sempre state ibride, e quindi l’espressione
culture ibride è da considerarsi come un modo per esprimere ciò che accade nel mondo, una
metafora dell’intensità e della rapidità che caratterizzano l’incontro tra culture nella
contemporaneità. Culture ibride sta a significare che oggi il contatto e lo scambio sono praticamente
inevitabili, che questi contatti sono molto rapidi, intensi e significativi in termini numerici, e quindi
le culture di oggi vengono, in maniera quasi scontata, definite comunque ibride.

TRAFFICO DELLE CULTURE


Su un piano teorico, parlare di culture ibride significa mettere l’accento sulle strategie, pratiche e
simboliche, che le culture mettono in atto per risituare continuamente se stesse in un contesto di
contatto e di cambiamento accelerati. In questo contesto di elevata mobilità di persone e di
elementi culturali, ogni cultura tende (sapendo che ci sono queste “contaminazioni”) comunque a
cercare di sostenere sempre la propria peculiarità, cercano di contestualizzare la propria specificità.
Da qui la metafora del “traffico delle culture”, con la quale si fa riferimento alle molteplici e
complesse dinamiche caratterizzanti i fenomeni di ibridazione che sempre più rapidamente hanno
luogo e di cui abbiamo quasi sempre una percezione parziale. La velocità, l’intensità, la numerosità
di questi episodi di contatto e di scambio, molto spesso non ci fa neanche rendere conto che uno
scambio è avvenuto. A volte non se ne ha neanche una piena consapevolezza, mentre invece si ha
piena consapevolezza solo di cosa è il proprio identificativo di una propria tradizione culturale.
Ibridazione NON indica la somma di tutte le culture, ma la loro sintesi in una nuova e originale
cultura. Infatti, questo termine è desunto dalle discipline scientifiche: ibridazione è la formazione di
un nuovo organismo a partire dall’incrocio di specie diverse. Il contatto tra culture può, a livello
culturale, inserire un nuovo elemento culturale o può trasformare l’elemento culturale originario
con dei dettagli e delle interpretazioni diverse.
Il traffico di beni, simboli, idee, valori, ecc. non si risolve in una serie di prestiti e acquisti, ma
comporta una loro continua riformulazione o riposizionamento significante in base al contesto in
cui questi beni, idee, ecc. vengono acquisiti o ceduti.
La percezione di questi flussi di traffico ha portato a un esito paradossale: da un lato
omogeneizzazione planetaria, dall’altro riconoscimento dell’isolamento, tra dinamiche interne ed
esterne, comportando la dialettica del locale e del globale.

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RAPPORTO TRA LINGUAGGIO E CULTURA
Il linguaggio è definito quale fenomeno bioculturale, reso biologicamente possibile dal cervello
umano e dall’anatomia della nostra bocca e della nostra gola e, allo stesso tempo, definibile
chiaramente come prodotto culturale.
Ognuno di noi è nativo di una lingua. I parlanti nativi di una data lingua non condividono solo
vocabolario e grammatica, ma anche un certo numero di assunzioni su come esprimersi
verbalmente e non verbalmente. Tutto è collegamento strettamente a un piano del culturalmente
connotato, a un contesto.
La conoscenza del contesto di riferimento della persona a cui parliamo è pertanto fondamentale. In
altre parole, il sistema linguistico deve essere restituito al contesto culturale così come non deve
venire meno la consapevolezza che il contesto influisce anche su ciò che le persone decidono di dire.
Il sistema linguistico adottato dalla persona con cui ci relazioniamo durante la comunicazione deve
essere rimandato anche a un contesto.
Es: Noi avremo un’interazione diversa quando apriamo una comunicazione con una persona indiana
che ha studiato a Londra (quindi abituata a relazionarsi con persone di culture diverse) e con una
persona indiana nata e cresciuta in india. Nell’incontro non si è mai neutri.
Stretta quindi è la relazione esistente tra linguaggio e cultura.
Avere una cultura significa essere in grado di comunicare, ed essere in grado di comunicare significa
avere accesso a una lingua; ma cosa vuol dire avere una lingua? (Duranti, “Antropologia del
linguaggio”, 2002)
Possiamo paragonare la lingua ad una tela con migliaia di colori da utilizzare e il parlante è il pittore;
i colori e la tela sono però la nostra eredità in quanto ci vengono tramandati dalle generazioni
passate. Siamo tutti nativi di una lingua. Questi colori e questa tela sono stati e saranno soggetti a
cambiamenti in quanto, i prodotti linguistici, sono costantemente riciclati, scartati, modificati e, di
conseguenza, anche noi, essendo parlanti, saremo giudicati in base a come dipingeremo la nostra
tela nelle varie circostanze.
Essere in possesso di una lingua significa appartenere ad una comunità che utilizza le stesse risorse
comunicative, vuol dire far parte di una tradizione e, di conseguenza, poter avere accesso alla
memoria collettiva della propria comunità. Si può affermare quindi che la lingua sia una pratica
condivisa e rappresenta uno dei dilemmi della vita sociale in quanto ci si chiede se il singolo
individuo, in fondo, non sia oppresso dal codice linguistico socialmente condiviso anche nella sua
vita privata.
La lingua ci aiuta a mettere il mondo in categorie. Apprendere altre lingue aiuta ad aprirsi ei più al
mondo, perché ti fa conoscere un’altra parte di mondo in una maniera così dettagliata e profonda
e ti fa conoscere la cultura. Chi studia un’altra lingua alla fine non arricchisce il suo bagaglio culturale
solo di un codice linguistico, ma apre la sua conoscenza a un’altra parte di mondo. Questo va a
scardinare le limitazioni nel conoscere un solo codice linguistico.
Harry Hoijer ha affermato che dovremmo pensare non a lingua e cultura, bensì alla lingua nella
cultura; il sistema linguistico compenetra quindi ogni altro sistema riguardante la cultura. Abbiamo
una freccia bidirezionale del rapporto tra cultura e lingua e lingua e cultura. La lingua, inoltre, è
estremamente dinamica: non c’è niente di più dinamico che la cultura e la lingua è un elemento
culturale; quindi anche la lingua è altamente dinamica, sia rispetto ai termini, sia rispetto ai modi di
dire, alla formulazione delle frasi. Se non ci fosse un costante contatto con la cultura, i cambiamenti
all’interno della lingua non ci sarebbero.

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La lingua, mettendo in contatto le persone con la loro storia ne diviene la storia stessa; avere una
lingua allora vuol dire possedere uno strumento capace di rappresentare gli eventi e interagire con
essi, influenzarli e farsi influenzare. Gli antropologi del linguaggio affermano che proprio per questa
caratteristica lo studio della lingua è storico, ovvero situato nel tempo, che diventa una delle sue
caratteristiche fondamentali, e che la lingua, anche per questo motivo, si trova nella cultura. La
lingua va restituita a un contesto culturale, soggettivo e questo contesto è un contesto storico
perché la lingua è strettamente correlata alla cultura.
L’uso della lingua per comunicare può essere considerato come un comportamento e ogni
comportamento linguistico è connotato culturalmente. Si può pensare alla cultura come ad una
grammatica dei comportamenti linguistici.
È necessario che la persona conosca non solo la lingua, ma anche le culture di quella lingua. Il
sociologo Erving Goffman e il linguista Dell Hymes con i loro lavori hanno dato un grande contributo
allo studio della lingua come strumento di comunicazione e al suo rapporto con la cultura.
Goffman fu il primo a studiare gli avvenimenti della vita quotidiana ponendo particolare attenzione
alle interazioni faccia a faccia perché considerate delle istituzioni sociali. Queste interazioni sono
regolate da norme comportamentali e, inoltre, ogni occasione sociale influenza le modalità di
utilizzo della lingua.
Hymes afferma che per comprendere il funzionamento di una lingua bisogna prendere in
considerazione anche i fattori socioculturali in cui viene utilizzata effettivamente.
Per comprendere meglio questa affermazione possiamo prendere come esempio un bambino che
impara la sua prima lingua. Il bambino impara cosa è grammaticalmente corretto ma,
contemporaneamente, anche ciò che è socialmente appropriato; acquisisce la sua prima lingua
come fatto sociale, come un insieme di aspetti linguistici socioculturali legati tra loro. Noi non
differenziamo tra comportamento socioculturale e apprendimento della lingua, perché è un
tutt’uno nel sistema di processo di inculturazione.
Per comprendere come funziona una lingua come strumento di comunicazione bisogna entrare
nell’ottica che LA LINGUA È CULTURA. Il legame tra le due è strettissimo, la lingua è dinamica ed è
in continuo movimento. Non solo si aggiungono significati, ma c’è una modalità di usare alcuni
termini che cambia nel tempo.

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COMUNICAZIONE INTERCULTURALE
L’abilità di comunicare tra culture deriva dalla consapevolezza, dalla conoscenza e dall’esperienza
personale (Hofstede, 1991):
 Consapevolezza: è il riconoscere che ognuno porta con sé un particolare software mentale
che deriva dal modo in cui è cresciuto. Non solo dal contesto culturale, ma anche dal
contesto familiare. Tutto questo software si rifà al culturalmente connotato;
 Conoscenza: ogni cultura ha propri simboli, eroi, riti da conoscere per comprendersi (es. le
metafore: la lingua è cultura!). Le metafore non si traducono letteralmente, si traducono
rispetto a quello che vogliono dire e riusciamo a farlo solo se conosciamo la cultura, il
contesto culturale della persona che ha scritto in una determinata lingua;
 Esperienza personale: più ognuno di noi ha esperienza nel comunicare con persone altre di
altre culture, chiaramente diventa sempre più abile nel riconoscere l’altro, esperienza
dell’altro.
Consapevolezza del software  conoscenza del software culturale  abilità di muoverci nella
relazione con quel software.
Le modalità in cui le persone intendono le situazioni comunicative variano sulla base
dell’appartenenza culturale, la quale condiziona come le persone parlano (il nostro modo di
utilizzare la lingua) e si relazionano con gli altri. Si tratta di avere:
- COMPETENZA COMUNICATIVA
- COMPETENZA DI CONTESTO  la lingua deve essere sempre riportata a un contesto.

COMPETENZA COMUNICATIVA
Per competenza comunicativa si intende l’insieme delle presupposizioni reciproche, delle
conoscenze e delle regole che rendono possibile uno scambio comunicativo (Zuanelli Sonino, 1981).
Questa competenza permette di scambiare messaggi e di possedere le capacità per comprenderli.
Tale competenza presuppone delle abilità. Nella competenza comunicativa non c’è solo quella
dell’emettere, ma anche quella del comprendere e del ricevere.
Abilità:
- Competenza linguistica
- Competenza paralinguistica  capacità di variare alcune caratteristiche del parlato come
il tono, la cadenza della pronuncia, la capacità di intercalare risate, esclamazioni, pause,
sospiri.
- Competenza cinesica  capacità di usare in maniera pertinente il linguaggio non verbale
dei gesti e dei movimenti corporei.
- Competenza prossemica  capacità di utilizzare appropriatamente lo spazio e le
distanze spaziali.
- Competenza performativa  capacità di usare un atto linguistico per raggiungere lo
scopo della comunicazione.
- Competenza pragmatica  capacità di usare il linguaggio in modo efficace in modo
contestualmente appropriato.
- Competenza socioculturale  combinazione di conoscenza dello stato, delle
caratteristiche uniche del comportamento nazionale e del linguaggio dei suoi cittadini.
(Zani, 1998)
Nell’interazione quotidiana con persone che arrivano da mondi altri, queste abilità ci servono, ci
servono anche nella vita di tutti i gironi per non cadere in errori legati a una comunicazione non

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corretta che dipendono sia dal fatto che facciamo faticare a comunicare e facciamo fatica a ricevere
la comunicazione, tante cose le perdiamo perché non le riconosciamo.
Relazionarci ci chiede non solo di sapere una lingua, ma anche queste abilità. Tutte queste abilità si
possono acquisire, quindi non basta studiare la lingua, occorre studiare tutti questi aspetti che
saranno culturalmente connotati. Sono abilità fondamentali per la comunicazione interculturale.
CONTESTO
Il vocabolario della lingua italiana Palazzi-Folena definisce il contesto come “l’insieme delle
circostanze e degli eventi all’interno dei quali può essere collocato un accadimento specifico al fine
di meglio comprenderlo e valutarlo” e, a livello linguistico “le informazioni extralinguistiche che
permettono di comprendere il significato di una frase o di un testo”.
Il contesto può essere inteso come:
- Contesto verbale: la produzione discorsiva vera e propria, sapere anche gli argomenti
tabù, le parole lecite e illecite da usare in determinate situazioni;
- Contesto sociale o situazionale: quella situazione come è vissuta dal mio interlocutore,
sia per questioni culturali sia per questioni soggettive.
Molto importante è aggiungere a queste l’accezione riguardante l’aspetto soggettivo, ovvero il fatto
che ognuno di noi ha e costruisce dei modelli mentali di contesto che influenzano la produzione
discorsiva e gli scambi comunicativi (Van Dijk, 1998).
Noi abbiamo una valutazione della situazione in cui ci troviamo a interagire e ognuno ha la sua
valutazione del contesto (setting istituzionale, informale, familiare). Ognuno di noi può avere già
un’esperienza in un determinato contesto (es: se uno ha già avuto un’esperienza negativa in un
contesto istituzionale, allora la volta dopo è fortemente condizionato da quell’esperienza negativa).
L’abilità è avere anche esperienza dei contesti sia verbali, sia sociali e situazionali. Ognuno di noi ha
un’esperienza che incide sul contesto.
Chi parla come sa quali informazioni includere in un discorso e quali lasciare implicite? In una
comunicazione interculturale come facciamo a comprendere quali parole o significati usare e quali
tacere per evitare fraintendimenti e interruzioni di comunicazione?
Abbiamo bisogno di informazioni generali non solo sulle credenze sociali, ma anche sulla persona
con cui stiamo interagendo. Abbiamo anche bisogno di sapere se i nostri interlocutori conoscono
tutte le informazioni che servono affinché vi sia totale comprensione.
Ricapitolando, distinzione tra:
- concetto di contesto sociale  è la situazione reale dell’evento comunicativo;
- concetto di contesto cognitivo che è il modello mentale della situazione  è una
costruzione soggettiva della situazione sociale, entra in campo la soggettività di ognuno
di noi perché è anche la nostra esperienza.
Sono entrambi culturalmente connotati. I modelli di contesto riguardano non solo la pertinenza, ma
anche l’abilità delle persone di adattare lo stile del discorso al contesto comunicativo. Quando
parliamo di capacità comunicative, l’abilità è fondamentale ed è data dall’esperienza.

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LE DIMENSIONI PSICOSOCIALI DELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE
Esistono quindi delle dimensioni psicosociali della comunicazione interculturale. “La competenza
comunicativa interculturale implica possedere la sensibilità, le conoscenze e le capacità necessarie
per interagire efficacemente e in modo appropriato con persone di culture differenti” (Mucchi
Faina, 2006; Chen e Starosta 2003).
Ci si riferisce ad aspetti affettivi, cognitivi e comportamentali e a conoscenze specifiche rispetto alla
lingua, usi, modi di dire, e alle convenzioni culturali  quindi abilità e competenze.
Quando parliamo di possedere sensibilità e capacità, inziano ad introdursi non solo le hard skill (ciò
che apprendiamo per studio, il nostro sapere), ma anche le soft skills (abilità che si rifanno più
all’empatia, alla capacità di collaborare, di ascolto, si nutrono molto attraverso l’esperienza).
Riassumendo:
- Conoscenza della lingua
- Conoscenza non stereotipata di valori e tradizioni, delle regole di interazione e degli stili
comunicativi.
SPESSO LA COMUNICAZIONE VIENE DISTURBATA DALLA CONFUSIONE CHE SI CREA TRA CONTESTO
E RELAZIONE (Zani, Selleri e David, 1994). La lingua e le interazioni linguistiche coinvolgono tutti
questi aspetti, non è solo sapere la lingua, ma anche riconoscere il contesto e avere abilità di
relazione. Acquisire abilità del mondo nostro e della lingua altra significa respirarne lo stile di vita,
le relazioni, guardare film di quel mondo, interagire con quel mondo per acquisire abilità di
relazionarsi con esso, conoscenza e competenze.
Comunicazione interculturale
 Lingua
 Significato parole (valori)
 Tono
 Corpo
 Luogo
 Tempo
 Argomento
 Ruolo dei partecipanti
Tutti questi aspetti sono culturalmente connotati. Ognuno di noi può misurarsi sulle sue capacità.
Tutti questi elementi rientrano quando ci troviamo a essere valutati da altri o a valutarci noi rispetto
a quello della competenza interculturale:
0) Punto zero: inconsapevolezza dell’incompetenza
1) Punto uno: consapevolezza dell’incompetenza
2) Punto due: consapevolezza della competenza
3) Punto tre: inconsapevolezza della competenza
È chiesto di acquisire abilità, è chiesta la competenza rispetto a tutti questi aspetti, non solo rispetto
alla conoscenza linguistica. Sono competenze che devono entrare nel nostro bagaglio.

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LA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE
Nell’ambito del tempo e della storia, si sono formalizzati diversi approcci comunicativi. Il principio
di base della prima formalizzazione dell’approccio comunicativo era:
- per comunicare correttamente serve la competenza linguistica,
- per comunicare efficacemente serve la competenza pragmalinguistica,
- per comunicare appropriatamente ed evitare errori che possono inficiare il buon esito
dello scambio comunicativo anche tra parlanti pienamente padroni della lingua serve la
competenza socioculturale.
Per noi non è sufficiente il livello di una comunicazione corretta, la comunicazione corretta è quella
perfetta da un punto di vista grammaticale e lessicale, però questo livello a noi non basta perché
non dobbiamo associare in maniera automatica il fatto che una comunicazione corretta possa
essere anche efficace, e tantomeno anche appropriata.
L’obbiettivo di chi lavora con le lingue, con la comunicazione, nell’ambito del traduttore, del
mediatore, è quello di saper comunicare correttamente, ma anche efficacemente e
appropriatamente. Non ci si può accontentare di una comunicazione corretta, ma deve essere
efficace e anche appropriata.
La competenza socioculturale ha tre dimensioni:
1) sociolinguistica, che in questo caso focalizza principalmente i registri: gli errori di registro
prevalgono sulla correttezza formale e quindi impediscono l’efficacia pragmatica;
2) cultura quotidiana, materiale, way of life: dall’organizzazione urbana a quella della scuola,
dall’articolazione dei pasti ai loro componenti ecc., sono necessarie conoscenze specifiche
per poter interagire in un dato Paese;
3) civiltà, cioè valori di riferimento, way of thinking, cioè l’idea di uomo, di giustizia, di relazioni
umane e sociali, e così via, di un popolo: sono gli elementi che definiscono l’identità di quel
popolo, i cui membri vi si riconoscono perché condividono questi modelli di catalogazione e
valutazione della realtà.

Alla fine degli anni Novanta in Italia, ma già da tempo altrove, le prospettive sono diverse e sono
modificate alla luce dei cambiamenti globali che hanno investito tutte le comunità umane, in
particolare alla questione legata ai movimenti delle persone e alla facilità e velocità delle
comunicazioni.
Se studio francese, devo studiare tutti i valori e la cultura dietro a quella lingua per poter diventare
un buon professionista nella relazione comunicativa con le persone di questo mondo. Alla fine degli
anni ’90, si studia l’inglese non più per parlare con i sudditi di sua maestà, ma in una logica ELF,
English as a Lingua Franca  quindi la dimensione interculturale non è più uno-a-uno, cioè ad
esempio un italiano che interagisce con un francese e quindi deve conosce la cultura di quel popolo,
ma è uno-a-x, in cui l’incognita x include il turista brasiliano come il venditore cinese, l’oligarca russo
come lo studente finlandese.
Oggi la lingua che apprendiamo ci aiuta ad entrare in contatto non solo con persone madrelingua di
quella lingua, ma anche con coloro che non sono madrelingua, che conoscono quella lingua e che
con noi condividono solo quel codice linguistico.
Es: un italiano e un russo si incontrano, possono decidere di parlare inglese, francese o una terza
lingua che entrambi conoscono in termini base. Quindi la lingua diventa strumento di contatto solo
come veicolo di comunicazione di base, che però non ci serve per comprendere in maniera

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dettagliata tutto ciò che ci può essere dietro la comunicazione (es: il non-verbale può non rispondere
alla comunicazione).
A questo punto il compito di conoscere e, ancor più, quello di insegnare la comunicazione
interculturale è troppo vasto, quindi impossibile – e il contributo che crediamo di avere dato a
questa area di studi sulla realizzazione dell’approccio comunicativo (1999, 2006, 2007) sta proprio
nell’aver sostituito all’impossibile insegnamento della comunicazione interculturale (sarebbe una
materia che non vedrebbe mai esaurita la trattazione degli argomenti che la riguardano)
l’insegnamento di un modello di analisi e descrizione della comunicazione interculturale:
se è vero che i problemi della comunicazione interculturale tra un italiano e appartenenti a n culture
sono infiniti, allora un modello può indicare un numero n di potenziali punti critici universali,
individuati analizzando i meccanismi semiotici e comunicativi, e quindi n è un numero finito e può
essere utilizzato e insegnato.
Nel 2014-2015 Balboni e Caon arrivano a teorizzare una competenza comunicativa interculturale.
La comunicazione interculturale è uno strumento, perché si basa su modelli che vanno appresi e
saputi utilizzare, questi modelli ci danno delle direzioni rispetto al riuscire a sapere la lingua, a saper
fare la lingua e a saper fare con la lingua. Questo modello ci dà la possibilità di individuare gli
orientamenti e le attenzioni che dobbiamo avere quando entriamo in uno scambio interculturale,
indipendentemente dalle caratteristiche di colui che entra in scambio comunicativo con me.

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MODELLO DI BALBONI E CAON
Una parte mente e una parte mondo. Queste due parti del rettangolo sono unite da una freccia
bidirezionale.

IL SAPERE LA LINGUA
Lo schema si legge come segue: la competenza comunicativa è una realtà mentale che si realizza
come esecuzione nel mondo;
a. nella mente ci sono tre nuclei di competenze che costituiscono il sapere la lingua:
• – la competenza linguistica, cioè la capacità di comprendere e produrre enunciati ben
formati dal punto di vista fonologico, morfosintattico, testuale, lessicale-semantico;
• – le competenze extralinguistiche, cioè la capacità di comprendere e produrre espressioni e
gesti del corpo (competenza cinesica), di valutare l’impatto comunicativo della distanza
interpersonale (competenza prossemica), di usare e riconoscere il valore comunicativo degli
oggetti e del vestiario (competenza oggettemica);
• – il nucleo delle competenze contestuali relative alla lingua in uso: la competenza
sociolinguistica, quella pragmalinguistica e quella (inter)culturale;

IL SAPER FARE LINGUA


• b. le competenze mentali si traducono in azione comunicativa, nel saper fare lingua quando
esse vengono utilizzate per comprendere, produrre, manipolare testi: si tratta delle
cosiddette abilità linguistiche;
questo meccanismo di attualizzazione della competenza costituisce la ‘padronanza’ di una
lingua;
la freccia centrale è duplice: da un lato, le competenze mentali divengono performance nel
mondo, dall’altro, dal mondo arrivano testi e altri input che integrano, perfezionano,
modificano, correggono le nostre ‘grammatiche’ mentali  la mente porta al mondo ma
anche il mondo porta alla mente.

IL SAPER FARE CON LA LINGUA


• c. i testi orali e scritti prodotti attraverso il meccanismo di padronanza contribuiscono a
eventi comunicativi, governati da regole sociali, pragmatiche, culturali (una tavola rotonda
in un convegno ha regole diverse da quelle di una conversazione sullo stesso tema e con le
stesse persone ma realizzata al bar): è il saper fare con la lingua.

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• Il saper fare con la lingua comporta che si sia in grado di cambiare registro, lessico verbale e
non verbale, in base al contesto e situazione in cui si è;
• Questo schema è quindi applicabile nell’ambito delle comunicazioni di persone che
condividono lo stesso culturalmente connotato e la stessa lingua;
• Nel momento in cui l’evento comunicativo include due madrelingua di due lingue e culture
diverse, nasce la necessità di articolare più in profondità il modello visto sopra per renderlo
adeguato a descrivere una situazione più complessa

COMPETENZA LINGUISTICA  Problemi interculturali legati alla lingua che dobbiamo conoscere e
affrontare:
• Problemi legati a suono della lingua, al tono: si differenziano tantissimo rispetto alle diverse
aree geografiche;
• Problemi legati alla scelta delle parole e degli argomenti: ci sono dei temi tabù o delle parole
che è meglio non utilizzare in determinati contesti (parole e temi tabù sono tutti
culturalmente connotati);
• Problemi legati ad alcuni aspetti grammaticali: rispetto al LEI, al VOI;
• Problemi legati alla struttura del testo
• Problemi di natura sociolinguistica
• Problemi pragmatici: le mosse comunicative

COMPETENZE EXTRA-LINGUISTICHE  Problemi legati ai linguaggi non verbali (il non verbale non
è universale, è culturalmente connotato):
• a. La cinesica: comunicare con il corpo
- la testa, il viso
- le braccia, le gambe
- postura
- odori e rumori del corpo
- altro
• b. La prossemica: la distanza tra corpi come forma di comunicazione
• c. L’oggettemica: comunicare con oggetti
- i vestiti, l’abbigliamento, le uniformi
- gli status symbol
- il denaro
- il cibo, le bevande
- altro

COMPETENZE SOCIO-PRAGMATICHE E (INTER)CULTURALI  Problemi di comunicazione legati a


valori culturali:
• a. Problemi legati al concetto di tempo: non in tutte le interazioni comunicative possiamo
permetterci di arrivare subito al tema da affrontare, in alcuni ambienti culturali è bene avere
i primi 10 minuti di colloquio, in altre culture questo non ce lo possiamo permettere;
• b. Problemi legati al concetto spazio
• c. Problemi legati a gerarchia, rispetto, status
• d. Problemi legati al concetto di famiglia
• e. Problemi legati al concetto di onestà, lealtà, fair play
• f. Problemi legati al mondo metaforico
• g. Problemi legati al concetto di pubblico/privato
• h. Problemi legati alla sessualità

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• i. Problemi legati alla sfera religiosa
• j. Problemi legati ad altri modelli culturali
• k. Altre peculiarità culturali utili per la comunicazione interculturale

CAPACITÀ DI AGIRE SOCIALMENTE CON LA LINGUA: Gli eventi comunicativi


• a. Dialogo e telefonata
• b. Riunione formale, lavoro di gruppo
• c. Il cocktail party, il pranzo, la cena, il barbecue
• d. Il monologo pubblico: conferenza, presentazione dei risultati di un gruppo
• e. La festa, il relax, il gioco
• f. Il corteggiamento
• Altri generi, da aggiungere a seconda dei propri interessi

L’agire socialmente con la lingua nell’ambito di una comunicazione interculturale chiede


necessariamente una parte di sapere che troviamo nella parte mente. Il come si vive un momento
di informalità professionale o amicale in un contesto culturale può non essere il come lo si vive in
un altro contesto culturale. Il professionista deve conoscere queste caratteristiche, questi aspetti.
La parte mente deve essere sempre collegata alla parte mondo, la conoscenza delle caratteristiche
culturali, extralinguistiche e linguistiche è utile per muoversi a 360° nelle relazioni comunicative
interculturali.
Così come non si impara una lingua con lo studio di una grammatica, allo stesso modo non si impara
a comunicare senza rischi interculturali studiando i vari punti di una mappa come quella vista sopra.
Imparare una lingua include lo sviluppo delle abilità linguistiche (dentro alla capacità di lingua) –
saper comprendere, produrre, interagire, tradurre, riassumere, ecc. Allo stesso modo, costruire una
competenza comunicativa interculturale richiede lo sviluppo di abilità relazionali specifiche:
 Saper osservare, decentrarsi e straniarsi: cioè saper azzerare l’impatto di esperienze
pregresse, idee, proiezioni, concezioni estetiche, valori che condizionano lo sguardo nel
momento del contatto con persone di altre culture;
 Saper sospendere il giudizio
 Saper relativizzare
 Saper ascoltare attivamente
 Saper comprendere emotivamente: le emozioni giocano un ruolo primario nella
comunicazione interculturale e vanno quindi consapevolizzate e controllate;
 Saper negoziare i significati
- DECENTRAMENTO: decentrarsi significa vedere l’evento da una posizione ‘terza’, quasi
osservando se stessi dall’esterno, noi come professionisti siamo in una posizione
neutra, terza;
- STRANIAMENTO: straniarsi significa cercare un distacco emotivo rispetto alla situazione,
per evitare che reazioni emozionali creino filtri – è la situazione più tipica di crisi
interculturale: un gesto, una parola, un atto neutro di un interlocutore viene percepito
come offensivo o aggressivo, quindi secondo due categorie emozionali, dall’altro
interlocutore;
- SOSPENSIONE DEL GIUDIZIO: è funzionale, la reazione deve essere sospesa,
eventualmente giungendo a chiedere un feedback esplicativo: «scusa, in Italia questo
tuo gesto è molto offensivo: volevi offendermi o nel tuo paese non lo è?», possiamo
anche chiedere chiarimenti riguardo a un determinato gesto, non attribuendo
automaticamente un significato offensivo a quel gesto;

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- RELATIVIZZAZIONE: saper relativizzare è avere la consapevolezza della parzialità del
nostro sguardo rispetto alla realtà, è sempre uno sguardo di impatto culturalmente
connotato;
- ASCOLTO ATTIVO: ascoltare per cogliere spiegazioni implicite di alcuni atteggiamenti, per
vedere se un dato per noi negativo viene tranquillamente superato nel resto del discorso,
e così via. L’ascolto attivo non è solo ascolto, può anche includere le richieste di feedback
viste sopra, o può includere verifiche attraverso un riassunto, una sintesi di quanto detto;
- EMPATIA: la capacità di partecipare attivamente allo stato emozionale dell’interlocutore
riconoscendo la ‘qualità’ del suo vissuto emotivo;
- EXOTOPIA: capacità di riconoscersi diversi dagli altri e riconoscere la diversità degli altri,
e riconoscere questa diversità, spesso irritante o paurosa, come naturale, ovvia;
- NEGOZIAZIONE DEI SIGNIFICATI: non sempre le differenze di cui sopra ci sembrano
accettabili, dal banale problema della gestione del catarro in un evento con cinesi, in cui
la negoziazione è semplice («per favore, non sputare, mi dà il voltastomaco», «e tu, per
favore, non soffiarti il naso, mi dà il voltastomaco») a problemi più complessi, come
l’invito ad una lapidazione pubblica in Arabia o a una corrida in Spagna. Al di là di questi
casi estremi, il negoziare, il chiedere l’interpretazione corretta, l’evidenziare gli scopi per
cui è stata detta una parola o eseguito un gesto è fondamentale per una competenza
comunicativa efficiente.

Padronanza delle abilità linguistiche e relazionali:


Decentramento
Straniamento
Sospensione del giudizio, ascolto attivo, relativizzazione, empatia, exotopia,
negoziazione dei significati

Sono abilità relazionali specifiche a quella che viene chiamata “competenza comunicativa
interculturale” e vengono collocate nella freccia bidirezionale nello schema Balboni e Caon che
mette in comunicazione la parte mente e la parte mondo.
Tutte queste abilità sono legate alle soft-skills (caratteristiche personali, relazionali) che non si
apprendono, ma si possono allenare. Per allenarle, dobbiamo sapere che possiamo essere disturbati
da queste cose e che in maniera naturale possiamo reagire a queste cose, gestire queste situazioni.
Esprimersi in una determinata lingua ha una correlazione con la cultura e l’identità inseparabile, già
il nome dato all’individuo al momento della nascita, tramite il quale verrà conosciuto e riconosciuto
dalla collettività, segna l’inizio del percorso dell’essere umano all’interno della lingua e del suo
patrimonio culturale genetico (processo di inculturazione).
Un determinato bagaglio linguistico contiene una serie infinita di sfaccettature della cultura di
riferimento che in età pre-adulta si trasferiscono e si imprimono nei soggetti tramite la quotidianità
della parola, un esempio sono i valori che vengono tramandati attraverso i modi di dire ed i proverbi.

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• Il paradigma della comunicazione, quindi, rende ben chiaro come la comunicazione non sia
un processo neutro, bensì le strutture culturali del mittente e ricevente influiranno sia nei
processi di codifica che di decodifica. Per capire la comunicazione non è sufficiente lo studio
del singolo linguaggio, ma bisogna andare oltre e ricostruire i modelli culturali ed etnografici.
• Ogni codice linguistico obbliga, nel momento del suo utilizzo, ad una scelta terminologica
che porta con sé una riflessione intrinseca su particolari aspetti dell’esperienza, unici e propri
di ogni lingua.
• La lingua è una guida alla realtà sociale. […] condiziona fortemente tutto il nostro pensare
sui problemi e sui processi sociali. Gli esseri umani non vivono soltanto nel mondo obbiettivo,
e neppure soltanto nel mondo dell’attività sociale comunemente intesa, ma si trovano alla
mercé di quella particolare lingua che è divenuta mezzo d’espressione della loro società. È
proprio un errore di valutazione immaginare che una persona si adatti alla realtà
essenzialmente senza l’uso della lingua e che la lingua sia solo un mezzo accidentale di
risolvere specifici problemi di comunicazione o di pensiero. (Edward Sapir, Il linguaggio,
Einaudi, ed. 2007, Roma, p. 58)
• La capacità linguistica umana viene intesa da Dell Hymes (Sociolinguista ed antropologo
statunitense del XX sec. fondatore della rivista “Language in Society”) come la capacità del
parlante di usare una lingua nel modo ritenuto più appropriato all’evento comunicativo in
atto, distinguendo la sociolinguistica dagli aspetti socio-situazionali:
• La capacità di usare un repertorio di atti linguistici, prendere parte ad eventi linguistici,
comprendere come gli altri li valutano. Questa competenza, inoltre, si integra con
atteggiamenti, valori e motivazioni che riguardano la lingua, le sue caratteristiche, i suoi usi,
fondendosi con la competenza che i parlanti hanno nell’integrare la lingua ad altri codici.
(Dell Hymes, Fondamenti di sociolinguistica: un approccio etnografico, ed. 1981, Zanichelli,
Modena, p. 278)

COMUNICAZIONE INTERCULTURALE E MARKETING


Nella società moderna la comunicazione interculturale (cross-cultural communication) risulta di
grande importanza nella gestione dei mercati esteri poiché consente alle aziende di sviluppare la
propria relazione con il consumatore e di raggiungere gli obiettivi di marketing.
In passato gli esperti di marketing adottavano un approccio “culture free” (non si prendeva in
considerazione l’aspetto culturale, vi era l’utilizzo della stessa pubblicità con pochissime distinzioni
indipendentemente dal tipo di mercato che fosse), mentre nel corso del tempo hanno cominciato a
servirsi di un approccio “culture bound”, secondo cui le strategie aziendali e di marketing vanno
adeguate in base al contesto culturale di riferimento.
Le strategie di comunicazione interculturale, però, non sono necessarie solo per le aziende che
operano in mercati esteri, ma anche per quelle che si trovano all’interno di un singolo mercato con
un elevato livello di multiculturalità. In questo caso sarà più difficile per l’impresa fare
comunicazione in maniera efficace.
Gli studi dell’antropologo americano Edward Hall risultano particolarmente utili per comprendere
quanto la cultura possa influire sulla comunicazione di marketing. Hall classifica le culture secondo
il grado di influenza del contesto durante la comunicazione e distingue le culture a basso contesto
(low context cultures o direct communication) e culture ad alto contesto (high context cultures o
indirect communication).

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Nelle culture a basso contesto il messaggio è spesso espresso in modo diretto e indipendente dal
contesto: il messaggio deve essere compreso senza bisogno di particolari interpretazioni. Deve
essere tecnico, chiaro e tendenzialmente asciutto, senza troppo contorno.
Ciò che importa non sono tanto le circostanze, né chi riferisce il messaggio, ma cosa viene detto. In
questo modo, le informazioni contenute nel messaggio sono costituite per la maggior parte da
comunicazione verbale diretta (nel caso della pubblicità, può essere non verbale ma scritta).
Le persone provenienti da aree culturali a basso contesto preferiscono quindi dei messaggi chiari,
diretti e precisi, poiché l’obiettivo della comunicazione è quello di riferire specifiche informazioni e
fatti. Questo stile di comunicazione diretto è tipico delle culture “task-oriented”. Alcuni esempi sono
i paesi scandinavi, generalmente l’Europa Occidentale (centro-nord) e il Nord America.
Per quanto riguarda le culture ad “alto contesto”, invece, la comunicazione verbale gioca un ruolo
minore nella comunicazione: il contenuto del messaggio è comprensibile soprattutto in base alla
persona che sta trasmettendo il messaggio e in base al contesto. Importante è l’uso dei gesti, della
postura e del tono di voce.
È una comunicazione molto più empatica, più orientata a suscitare emozioni e non è principalmente
orientata a comunicare informazioni tecniche sul prodotto. Anche se il messaggio non è totalmente
esposto verbalmente, viene comunque compreso da chi comunica con questo stile; potrebbe,
invece, non essere compreso da un estraneo, poiché la comunicazione si basa su un implicito
background culturale comune.
Nelle culture ad alto contesto, la comunicazione non verbale può arrivare a costituire fino al 90%
del messaggio. L’obiettivo della comunicazione indiretta (o ad alto contesto) è quello di instaurare
relazioni e mantenere l’armonia interpersonale, facendo sentire a proprio agio l’interlocutore.
Questo stile di comunicazione è tipico dei Paesi arabi, dell’America Latina e della maggior parte dei
paesi asiatici. I paesi mediterranei, centro-europei e dell’Europa dell’Est sono descritti come Paesi
intermedi, inclini alla comunicazione indiretta.
Il più grande errore che si deve assolutamente evitare nella comunicazione pubblicitaria
internazionale è la scarsa analisi del contesto in cui si vuole operare, è il non considerare il
background culturale. Bisogna avere un’adeguata conoscenza dell’argomento da trattare e
soprattutto del target a cui ci si rivolge. Prima di ogni campagna va quindi effettuata un’analisi
accurata delle caratteristiche culturali del target per creare una sintonia e permettergli di
riconoscersi col brand.
L’obbiettivo del marketing è vendere, presentare il prodotto e le strategie per raggiungere
l’obbiettivo vendita sono le più diverse, le più importanti e devono essere culturalmente connotate.

IL CASO DOLCE & GABBANA


Uno degli esempi più celebri di errore interculturale è quello
di Dolce & Gabbana, che ha comportato una delle crisi più
importanti nella storia della moda per i suoi tre video di
accompagnamento ad una sfilata in Cina, intitolati Eating
with Chopsticks. In particolare, nei filmati veniva mostrata
una ragazza asiatica in difficoltà nel mangiare piatti italiani,
tra cui pizza, spaghetti e un cannolo siciliano, con le
bacchette.

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I tre video sono stati accusati di sessismo (ci potevano essere una serie di allusioni sessuali) e di aver
stereotipato la cultura cinese, mostrata attraverso un’immagine della Cina che non esiste più, tra
lanterne e rosso ovunque. La location è rappresentata, infatti, dal tipico ristorante che gli italiani si
aspettano di trovare in Cina. Ma in Cina ci sono anche locali in stile moderno, occidentale. Non è
solo tradizione e stereotipi. I social poi hanno fatto il resto, gli utenti si sono scatenati nelle accuse
al brand italiano ed hanno portato alla rimozione dei tre video pubblicitari e alla cancellazione
dell’evento. A poco sono servite le scuse degli stilisti che hanno visto il crollo delle vendite e la
rimozione dei propri prodotti da alcuni fra i più importanti negozi della Cina.
In Italia pubblicità di questo tipo sono frequenti, è una modalità accettata, rientra nei canoni del
nostro stile comunicativo, mentre invece in Cina questa pubblicità non è assolutamente accettata.
Uno stile comunicativo di questo tipo non è ammesso, è considerato molto offensivo.

IL CASO MAZDA
Nel 1999 la nota casa automobilistica giapponese Mazda introdusse nel mercato mondiale il SUV
“Mazda Laputa”, senza considerare che nei paesi di lingua spagnola “puta” è un termine volgare di
cui tutti conosciamo il significato.
La realtà è che, per dare un nome al nuovo prodotto, i giapponesi si erano ispirati al luogo
immaginario del romanzo I viaggi di Gulliver di J. Swift, ovvero l’isola volante di Laputa. Tuttavia,
non mancarono commenti sarcastici che ancora oggi Mazda si trascina dietro (nonostante il ritiro
dal commercio del SUV Laputa già nel 2006). La reputazione era ormai persa. Anche per coloro che
non conoscono lo spagnolo, la cultura pop ha reso conosciuta questa parola in tutto il mondo, anche
grazie al successo di alcune serie TV, tra cui Narcos e La casa di Carta.

IL CASO AUDI
Il caso Audi è un caso ben riuscito di comunicazione interculturale ottima. Audi, nota casa
automobilistica tedesca, per fare pubblicità online (in questo caso su Facebook) si avvale di diverse
pagine ufficiali dedicate ai principali paesi in cui opera. In ogni pagina sono presenti video e foto
delle principali città o luoghi del paese stesso, per creare un legame più forte con il target di
riferimento. Audi Deutschland è la pagina ufficiale per la Germania e alcune delle sue caratteristiche
sono esemplificative per descrivere il concetto di adattamento della strategia di comunicazione.

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Come possiamo vedere nella figura, nella descrizione del
post si enfatizzano come prima cosa le caratteristiche
tecniche del prodotto (Audi R6 6 Avant): le informazioni
riguardo il consumo di carburante e le emissioni di CO2,
il link che rimanda al sito Audi e il focus dell’immagine è
l’auto, non ci sono altri dettagli o uno sfondo che
potrebbero distrarre l’utente.
Questo perché la cultura tedesca è un esempio di cultura
a basso contesto, per cui la comunicazione è diretta e
maggiore importanza viene data ai ragionamenti logici e
agli elementi oggettivi. È una cultura individualista, dà
importanza al successo personale e allo status e ha un
orientamento temporale rivolto al lungo periodo.
Quindi, la propensione per uno stile immediato e diretto
si traduce anche nelle descrizioni dei post su Facebook,
facendo leva sui benefici del prodotto in termini di
performance e di status sociale.

Nella figura, possiamo vedere che il brand


mostra lo stesso modello di auto ma in
maniera diversa in Spagna. Nella pagina
ufficiale spagnola i post sono 50, utilizzati
per creare una relazione diretta con
l’utente, invitandolo a commentare e
condividere e hanno un linguaggio meno
formale. Le immagini scelte sono più
evocative: il prodotto è inserito in
contesti lontani dalla vita di tutti i giorni.
Il focus in questo caso non è sulle
caratteristiche tecniche dell’auto, ma
sulle emozioni e sui “mondi possibili” a
cui Audi rimanda.
Questo perché la Spagna è diversa dalla Germania: è un paese più collettivista in cui si predilige una
comunicazione ad alto contesto, quindi con un focus maggiore sulle relazioni e sulle emozioni. La
cultura spagnola ha inoltre un basso livello di Masculinity, quindi meno legata a valori come il
successo e alla realizzazione personale e più legata alla qualità della vita e alle relazioni. Nei paesi
ad alto contesto, tra cui la Spagna, si predilige una comunicazione implicita, indiretta e che fa leva
sulle emozioni.
Questo è un esempio di applicazione di buona o non buona comunicazione interculturale. Vediamo
come Audi applica bene lo schema Balboni e Caon nell’ideare non solo la campagna, ma anche nel
decidere su come presentarla (nel caso spagnolo tanti post per alimentare uno scambio, nel
Facebook tedesco assolutamente no). L’obbiettivo delle due Audi è lo stesso, quello delle vendite
ma le strategie di comunicazione sono totalmente diverse.
L’errore nel caso Dolce e Gabbana è stato non pensare di ideare la campagna tenendo presente le
caratteristiche dello schema Balboni e Caon. Non basta mettere l’immagine di una persona con tratti
somatici cinesi, perché tutto ciò che veniva proposto, nel messaggio lanciato verbalmente in questi
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video era totalmente sbagliato. Era una campagna che poteva andare bene in Italia, ma non in Cina,
è infatti andata a toccare il piano dei valori cinese.
Uno studio dettagliato che sappia tener conto del contesto al quale la comunicazione è orientata e
quando parliamo di contesto dobbiamo pensare a tutta la cultura, alla comunicazione interculturale.
Attenzione alla diversità, gestione di stereotipi e pregiudizi, competenza linguistica ampia, ma anche
competenza extralinguistica per quando riguarda la questione dei valori, dei tabù, dei gesti (nella
pubblicità di Dolce e Gabbana i gesti in Italia sono accettati, ma in Cina sono offensivi).

LE DIMENSIONI PSICOSOCIALI DELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE


La IULM ha fatto una ricerca riguardo alle mutilazioni genitali femminili, le ricerche sono state fatte
in diversi Paesi (Senegal, Egitto, Etiopia, Italia) perché il mandato era quello di fare una serie di corsi
di formazione in Italia alle professionalità che avrebbero potuto incontrare situazioni di questo tipo
nel loro contesto lavorativo (inseganti, infermieri, medici, assistenti sociali). Quando è stata la
redatta la legge in Italia contro le mutilazioni genitali femminili, in questa legge è stato inserito
l’obbligo di formazione per il personale, in particolare sanitario.
Dalla ricerca è emersa sempre l’attenzione alla comunicazione interculturale, in questo caso
nell’ambito sanitario e sociale. La competenza comunicativa interculturale implica possedere la
sensibilità, le conoscenze e le capacità necessarie per interagire efficacemente e in modo
appropriato con persone di culture differenti.
Ci si riferisce ad aspetti affettivi, cognitivi e comportamentali e a conoscenze specifiche rispetto alla
lingua, ai suoi usi, modi di dire e alle convenzioni culturali (quindi abilità e competenze).
Riassumendo:
- Conoscenza della lingua
- Conoscenza non stereotipa di valori e tradizioni, delle regole di interazione e degli stili
comunicativi
Spesso la comunicazione viene disturbata dalla confusione che si crea tra contesto e relazione.
Alla fine della ricerca, venivano fissati e condivisi dei punti importanti. Da questi punti emerge
quanto vi sia il richiamo alla comunicazione interculturale:
 Necessità di individuazione delle caratteristiche delle donne nei confronti della quale si
orienta il percorso di accoglienza, accompagnamento, prevenzione che va a costituire la
popolazione verso la quale è orientata la comunicazione
 Conoscere bene ciò di cui si sta parlando. Conoscere bene la pratica, la legge, le prassi e i
protocolli da seguire
 Riflettere sugli stereotipi a sfondo religioso e/o culturale che possono essere ostacolo ed
impedire un atteggiamento professionale oggettivo e non-giudicante
 Avvertenza e verifica della possibile non conoscenza dell'illegalità della pratica e pertanto
utilizzo di un approccio relazionale e comunicativo non accusatorio (es: situazioni donne
indiane)  non partire subito con un approccio accusatorio, perché prima bisogna accertarsi
del livello di conoscenza e di sapere di chi abbiamo di fronte rispetto all’illegalità di questa
pratica
 Accertare la capacità della donna di comprendere ed esprimersi in italiano
 Ricordarsi di non usare termini tecnici, ma usare parole e concetti semplici
 Privilegiare 'utilizzo di strumenti comunicativi in doppia lingua (italiano e lingua straniera) e
l'uso di immagini

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 Abituarsi all'uso di case history per formare e informare sulle situazioni, sulle pratiche e le
loro conseguenze  le case history (che di solito sono in immagini) aiutano molto a passare
dei concetti
 Prestare attenzione alla comunicazione non verbale e alle differenze interculturali legate alla
lingua (tono e intonazione, velocità, ecc.)
 Raccogliere sempre il feedback circa quanto si è voluto dire, non valutare la comprensione
basandosi solo su risposte quali SI o NO.
 Verificare la comprensione sia a livello dei contenuti che della relazione, riservandosi la
possibilità di fare domande per agevolare la comunicazione e migliorare la propria
comprensione. Spesso possiamo chiedere al nostro interlocutore di ripetere quello che è
stato detto per chiarire le idee.
 Ricordarsi che le barriere della comunicazione interculturale possono riguardare sia ciò che
ci attendiamo dal nostro interlocutore, sia quello che pensiamo che l'altro si aspetti da noi,
Le differenze riguardano le credenze, la visione del mondo, i valori; la dimensione affettiva
e quella comportamentale
 Curare e fare attenzione al contesto nel quale si svolge la comunicazione per agevolare la
donna e farla sentire il più possibile a proprio agio e creare un clima il più possibile adatto
all'ascolto
 Stare attenti nel toccare la persona poiché in alcune culture questo può provocare, anche se
azione svolta in un contesto sanitario, estremo disagio e mal comprensione
 Prestare attenzione al momento delicato della visita. È opportuno limitare il numero di
persone che assistono alla visita è raccomandata la presenza di personal infermieristico
femminile.
 Avvalersi degli aiuti dati da interpreti e da mediatori linguistici quando se ne rileva la
necessità tenendo presente la sensibilità delle donne rispetto alla presenza di mediatrici
della stessa appartenenza
 Imparare ad essere neutri e rispettosi. Non stigmatizzare.
Abbiamo un condensato di elementi che troviamo nello schema Balboni e Caon. Una paziente
straniera preferisce essere accompagnata da un’interprete piuttosto che da una persona della sua
stessa cultura perché pensa che la persona della stessa cultura possa giudicarla, non che possa
sostenerla e aiutarla. La paziente si potrebbe quindi sentire a disagio, non perché il mediatore è
giudicante, ma perché è percepito come tale, perché rappresenta la condanna del mondo che il
mediatore rappresenta.
Raccomandazioni:
 Conoscere i numeri del fenomeno e le sue caratteristiche in ambito territoriale
 Non definire a priori il proprio interlocutore
 Acquisire competenze nell'ambito delle relazioni e della comunicazione interculturale
(comunicazione non verbale, uso nella comunicazione di materiali bilingue, immagini e case
history)
 Verificare le conoscenze degli utenti e fornirle in caso di carenza (e ancora favorire una
comunicazione capace di andare oltre al lato esclusivamente sanitario ma anche capace di
trattare il tema dei diritti e delle opportunità)
 Alimentare il confronto e lo scambio di conoscenze e incrementare la diffusione e il
trasferimento di buone pratiche
 Lavorare in rete

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ASPETTI CULTURALMENTE CONNOTATI
- Struttura del discorso (in italiano e spagnolo il testo è pieno di subordinate; in inglese il
testo va straight to the point; il testo asiatico procede a spirale)
- Virgola (in inglese è corretto utilizzarla prima di and, in italiano e francese no)
- Maiuscole (in tedesco tutti i sostantivi hanno la maiuscola)
- Data (in italiano si usa giorno-mese-anno, mentre in inglese si mette il mese prima del
giorno)
- Tono della voce (in Oriente la tendenza è di sussurrare)
- Scusarsi (nei Paesi arabi e orientali scusarsi vorrebbe dire “perdere la faccia”, quindi
chiedere le scuse significa sfidare l’altra persona)
- Oggetti che si offrono (in Cina non si regalano sciarpe o cravatte alla persona del sesso
opposto perché significa “legare” a sé l’altro, in Italia non si regalano perle o fazzoletti
perché portano lacrime)
- Numerologia (in Cina meglio regalare fiori in numero pari, mentre in Russia in numero
dispari)
La struttura del discorso, la punteggiatura (virgola, spaziatura, maiuscole, virgolette, data, due punti,
numeri), il tono della voce, scusarsi, oggetti che si offrono, regali  queste sono competenze che
colui che usa più lingue nella sua professione è tenuto ad avere e rientrano nella competenza base,
ovvero quella dell’abilità linguistica.
Tutto ciò che concerne il linguaggio, la lingua, il non verbale e il verbale va a rispettare quelle che
sono delle regole che sono da considerarsi non solo grammaticali, ma che rimandano a uno stile di
pensiero, culturale delle popolazioni che parlano quella lingua. È molto stretto il rapporto lingua-
cultura che vanno reciprocamente a influenzarsi. Anche la lingua nella sua struttura, ci rimanda
tanto del pensiero, delle caratteristiche culturali del popolo che parla quella lingua.
Anche lavorando nei testi scritti, lavoriamo con l’interculturalità. Dobbiamo conoscere in profondità
la cultura, perché qualsiasi testo scritto rimanda a quella cultura, nulla è a caso, ma tutto è collegato
a degli aspetti culturali.
In tutti questi aspetti, vi sono degli aspetti culturalmente connotati dove il culturalmente connotato
può essere un culturalmente connotato legato a un gruppo o a un sottogruppo (es: un gruppo
nazione e i sottogruppi di appartenenza religiosa). È molto articolata l’attenzione che noi dobbiamo
avere nel momento in cui ci troviamo a lavorare in contesti interculturali. In base alla composizione
delle presenze dell’interculturalità (dei mondi di origine a cui si fa riferimento) dobbiamo avere una
preparazione adeguata.
In qualsiasi situazione comunicativa in cui è presente un interprete, il bagaglio linguistico e culturale
di quest’ultimo svolge anche un ruolo ed è molto importante tenerlo in considerazione. Oggi
sappiamo che si rischia di fare un maggior numero di errori culturali quando l’interlocutore è più
culturalmente vicino a noi (perché diamo certi aspetti per scontati quando bisognerebbe sempre
essere attenti al culturalmente connotato dell’Altro).

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LE LINGUE DEI SEGNI ITALIANA E CINESE
SORDITÀ – PATOLOGIA O DRAMMA SOCIOCULTURALE?
Il linguaggio parlato è il primo strumento per accedere a un’educazione, all’informazione e, più in
generale, a tutte le forme della socialità.
La comunicazione visivo-gestuale rappresenta una risorsa naturale per la ricostruzione di forme
della socialità.
Le lingue dei segni, oggi, rappresentano per la comunità sorda uno strumento per affermare la
propria identità sociale e raggirare le limitazioni imposte dalla patologia.
COS’È LA LINGUA DEI SEGNI?
È una lingua storico-naturale, nata e sviluppatasi all’interno delle comunità di segnanti, che sempre
più spesso fanno di questa lingua un tratto identitario. C’è una forte correlazione tra lingua e
identità.
Le lingue dei segni sono vere e proprie lingue, dotate di un proprio lessico e di una propria
grammatica, che veicolano i significati attraverso la modalità visivo-gestuale.
Talvolta, queste forme di comunicazione vengono erroneamente definite “linguaggi” piuttosto che
“lingue”: il primo equivoco da chiarire è dunque la differenza tra lingua e linguaggio.
LINGUAGGIO
- Facoltà innata degli esseri umani di usare una lingua
- Capacità universale di creare un codice comunicativo unico
- Sistema di segni usato per la comunicazione, che può essere verbale o meno
- Capacità propria dell’individuo in quanto tale, comune a tutti gli esseri umani dalla
comparsa dell’homo sapiens
LINGUA
- Prodotto sociale della facoltà di linguaggio
- Forma di linguaggio verbale condivisa da un dato gruppo di persone storicamente
determinata
- Sistema simbolico astratto riconosciuto dai parlanti di una comunità
- Prodotto sociale, nato e condiviso all’interno di un determinato gruppo che tende a
identificarsi con essa
Le lingue dei segni sono delle lingue non solo perché hanno delle regole grammaticali, ma perché
sono un prodotto sociale storicamente determinato e perché vengono utilizzate e condivise da
gruppi specifici di persone
SEGNO, GESTO E PANTOMIMA
SEGNI
 Unità di senso indipendenti, dotate di significato proprio
 Presentano specifiche caratteristiche linguistiche
 Soggetti a precise regole grammaticali e di composizione
 Rappresenti una realtà che rimanda a un’altra
 Nell’ambito delle lingue dei segni, corrispondono alle parole delle lingue vocali
 Per Saussure, ogni lingua è composta da elementi linguistici, da lui definiti "segni",
caratterizzati dalla biplanarità, ovvero dotati di un significante (aspetto espressivo) e di un
significato (contenuto)

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GESTI
 Espedienti comunicativi non verbale, utilizzato per conferire enfasi al discorso
 Non scomponibili in unità di significato autonomo
 Non rispettano regole fonologiche o grammaticali
PANTOMIMA
 Rappresentazione muta, raccontata attraverso la gestualità
 Non vi è una convenzionale relazione tra gesto e referente
 Non è data importanza all’ordine in cui i gesti vengono eseguiti
Es: nella lingua dei segni vi sono regole nell’ordine della costruzione della frase
LE LINGUE DEI SEGNI NEL MONDO
Non esiste una lingua dei segni universale, bensì varietà diverse di lingue adottate da differenti
Paesi, tutte con caratteristiche strutturali proprie, che le rendono indipendenti e diverse fra loro.
Parentele ipotizzate tra alcune lingue dei segni:

CARATTERISTICHE DELLA COMUNICAZIONE SEGNATA


ICONICITÀ
Insieme di tratti di una lingua che fanno sì che alcune caratteristiche sul
piano del significante sembrino trovare una corrispondenza sul piano del
significato.
Sono iconiche le parole onomatopeiche per la loro componente
“raffigurativa” che crea un legame tra significante e significato.

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ARBITRARIETÀ
Il legame linguistico fra significato e significante è arbitrario, non
motivato naturalmente, in quanto frutto di regole e convenzioni
linguistiche istituite dalla comunità stessa.
Le regole iconiche tra significante e significato convivono con
l’arbitrarietà, in quanto variano al variare della lingua in cui
vengono declinati (ad esempio, l’onomatopea italiana “miao”
diventa “mieow” in lingua inglese).
I segni hanno una caratteristica di abritraierà legata al loro
significato e questa arbitrarietà è legata al culturalmente
connotato, perché dipende dal gruppo che comunica attraverso la
lingua dei segni  interculturalità.
LUOGO
Luogo in cui si segna, dove il segno viene articolato. Sono molti i luoghi in
cui il segno può essere articolato e coinvolgono sia il corpo del segnante
sia lo spazio neutro, ovvero l’area d’azione situata davanti al segnante che
va dal capo fino al punto vita, da una spalla all’altra, coinvolgendo
entrambi gli arti fino alla punta delle dita. L’area dedita alla realizzazione
del segno prende il nome di “spazio segnico”.
Esiste una linea del tempo che permette al segnante di collocare
cronologicamente l’evento segnato ed è situata all’altezza delle spalle.

COMPONENTI NON MANUALI


Le espressioni facciali, degli occhi e della bocca, così come la direzione
dello sguardo o il possibile rigonfiamento delle guance, insieme alla
postura e al movimento di testa e corpo.
Giocano un ruolo analogo a quello rivestito dai tratti prosodici nelle lingue
vocali, permettendo quindi non solo di affermare, ma anche di domandare
e ordinare in lingua dei segni.

DATTILOLOGIA
Il termine dattilologia, o alfabeto manuale, identifica la rappresentazione manuale delle lettere
dell'alfabeto, mediante il quale è possibile esprimere termini che non presentano un corrispettivo
diretto in lingua dei segni, così come di vocaboli stranieri, nomi propri o luoghi geografici.
Trattasi dunque di una rappresentazione grafemica della lingua, una sorta di spelling o di traduzione
lettera per lettera delle lingue vocali.

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LIS – LINGUA DEI SEGNI ITALIANA
È composta da unità minime dette cheremi, che corrispondono ai quattro parametri di formazione
dei segni.
I cheremi possono essere definiti come "i fonemi della lingua segnata": alla base della formazione
del significato del segno vi è dunque l'unione dei cheremi e il variare di anche solo uno di questi
parametri può alterare il significato del segno.
SINTASSI
Affermative  SOV

Negative  SOV + NON

Interrogative  SOV + espressione facciale (domanda chiusa = sopracciglia verso l'alto, domanda
aperta = sopracciglia verso il basso)

Relazione locativa  Luogo di riferimento + elemento locato

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Costruzione genitiva  possessore + cosa posseduta + possessivo. L'ordine sintattico in LIS non è
fisso, ma varia al variare della tipologia della frase

CSL – LINGUA DEI SEGNI CINESE


 Variazioni dialettali  la lingua dei segni di Pechino (BSL), di Shanghai (SSL) e di Hong Kong
(HKSL)
 La lingua dei segni cinese è riconosciuta come la lingua dei segni ufficiale in Cina
 Lingua "giovane", in quanto il raggruppamento dei sordi cinesi in una comunità è stato
possibile solo grazie all'istituzione, nel 1887, delle prime scuole per sordi in Cina
 L'uso della comunicazione visivo-gestuale in Cina ha origini lontane, testimoniate dalla
presenza dell'uso di forme di comunicazione segnata all'interno di opere di epoca Tang (618-
907. C.) e Qing (1644-1911 d.C.)
FLESSIONE
Verbi semplici
Eseguiti a contatto con il corpo, no flessioni di accordo con soggetto o oggetto
Verbi di accordo
Articolati nello spazio antistante il corpo, movimento tra due punti nello spazio che rappresentano
il punto iniziale e quello finale di articolazione, accordo tra oggetto e soggetto
Verbi spaziali
Segnati nello spazio antistante il corpo, indicano lo spostamento reale del soggetto (il punto iniziale
e quello finale)
CATEGORIE ASPETTUALI E AZIONALI
- Ripetizione del movimento  LEGGERE ripetuto diventa RILEGGERE
- Segnazione prolungata  STARE IN PIEDI prolungato diventa CONTINUARE A STARE IN
PIEDI
- Segnalare il concludersi di un’azione
- Plurale  PERSONA con gesto circolare ampio diventa PERSONE
SINTASSI
Affermativa  tema-commento (OSV)/SVO/SOV
Negativa  indicatore di negazione (NON) / segno negativo derivazionale (suffisso negativo) /
scuotendo la testa

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Interrogative  componenti non manuali (espressioni facciali) + segni di domande COSA? (oscillare
il mignolo e aggrottando le sopracciglia), PERCHE? (oscillare indice e pollice della mano destra) e
CHI? (accostando al movimento di COSA? Il segno per PERSONA)
CINESE SEGNATO
Rappresentazione segnata del cinese parlato, carattere per carattere.
ALFABETO MANUALE
Costituito da 30 configurazioni della mano, espresso attraverso i movimenti delle dita di una mano
o di entrambe, con una dedita alla segnazione della sillaba iniziale e l'altra che riproduce la sillaba
finale e marca il tono.
Le lingue dei segni sono diverse a livello internazionale, le loro grammatiche e sintassi sono
specifiche. Il culturalmente connotato che troviamo nella lingua parlata si trova in ognuna delle
lingue dei segni. Anche qui c’è un legame tra lingua e cultura.
CODICI CRIMINALI – dai pizzini di Provenzano all’uso dei social
CHE COS’È UN CODICE?
Def. 4. Garzanti Linguistica: sistema di segni usati all'interno di un'organizzazione, di un gruppo, per
non farsi intendere da altri: codice segreto, cifrato.
Def. 5 Treccani: in senso più astratto, nella terminologia linguistica e letteraria contemporanea, ogni
sistema organico di simboli e di riferimenti che consente la trasmissione e la comprensione di un
messaggio, cioè di una comunicazione, il cui senso può essere inteso soltanto se parlante e
ascoltatore (o scrivente e lettore) adoperano lo stesso codice.
COMPONENTI DEL CODICE
SIMBOLICA
- Incarna la coesione del gruppo di riferimento
- Riflette gli usi e i costumi di chi lo condivide
- Coinvolge tutti i livelli del linguaggio, dalla forma, alla morfologia, alla grammatica
SEGRETEZZA
- Disponibilità d’uso ad una ristretta cerchia di utenti
- Nascondere gli affari
- Componente non verbale (non detto, i gesti, i segni, fuochi d’artificio, tatuaggi, silenzi,
musica)
Sono aspetti che vengono utilizzati attribuendo loro significati differenti rispetto all’uso comune.
Vanno ad aggiungere un significato aggiuntivo di nicchia nell’ambito in cui viene usato il codice.
IL LINGUAGGIO IN CODICE MAFIOSO
 Povertà di studi  formazione di stereotipi
 Fondamentale per la comprensione del fenomeno mafioso
 Stretta dipendenza con la lingua d’origine  possibile causa di equivoci (vedi caso Buscetta
– Biagi, Buscetta – Giordano)
IL CLAN DEI CASAMONICA
- Provenienza
- Familiarismo
- Lingua romanì del gruppo sinti  i rischi dell’interprete nel processo Casamonica

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I PIZZINI
Codice legato alla lingua scritta. Lo studio dei pizzini ha evidenziato:
- Struttura
- Riferimenti religiosi
- Errori grammaticali  non dati da un’incapacità di scrivere correttamente, ma sono
voluti e studiati perché vanno a comunicare qualche cosa.
Anche nello scritto, è richiesta un’interpretazione nel momento in cui si è riusciti a decifrare le regole
utilizzate dal gruppo in termini di riferimenti.
IL LINGUAGGIO IN CODICE NON VERBALE
 Il non detto: silenzio, omertà e gesti
 La musica: neomelodici e camorra
 Fuochi d’artificio  festa di uscita dal carcere di qualcuno, arrivo di droga, a che ora arriverà
 Stese  quando in certe ore del giorno in determinati quartieri ci sono i passaggi in motorino
di persone del clan che in base a dove vanno e come vanno, indicano tutta una serie di
messaggi a chi vive in quel quartiere
 Le parole e i soprannomi
 Tatuaggi  ogni rappresentazione ci dà delle informazioni rispetto alla vita della persona,
alla sua affiliazione
Si utilizzano codici non verbali codificati all’interno del clan.
IL NUOVO LINGUAGGIO: L’USO DEI SOCIAL NETWORK
 Carattere camaleontico delle organizzazioni criminali: adattamento al contesto
 Ostentazione delle nuove generazioni opposta alla segretezza
 Social (Facebook, skype, TikTok, etc.)
 La Jihad su TikTok

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ANTHROPOLOGY OF LIFE
1.1 La nascita degli Human-Animal Studies
Con il termine “antropologia della vita”, andiamo a soffermarci sullo studio del terzo tipo di
differenza, ovvero la differenza di specie. Lo specismo vuol dire considerare in termini di superiorità,
di gerarchica e di supremazia una specie rispetto alle altre. Quando si parla di specismo si parla di
dominanza della specie umana sulle altre.
Da sempre l’antropologia ha incluso nell’orizzonte dei propri studi vari fenomeni aventi a che fare
con la relazione fra umani e animali. La parola relazione non deve però trarre in inganno poiché,
l’interesse alla presenza dell’animale nella vita dell’uomo, prende la forma di attenzione all’uso che
l’uomo fa dell’animale sul piano utilitaristico e su quello simbolico = vuol dire che l’uomo si relaziona
all’animale considerandolo oggetto a suo uso e consumo  visione antropocentrica.
In tale relazione l’uomo è “soggetto” e l’animale è “oggetto”. La visione è decisamente
antropocentrica (centralità della specie umana), secondo un modello per proiezione speculare e
oppositivo di umano e animale, propria di una prospettiva teorica che sussume una serie di
antinomie (opposizioni) centrali: le opposizioni natura / cultura, la separazione tra innato e appreso,
fra organico e inorganico.
Da un lato, l’animale è natura e ne riassume l’essenza, dall’altro, l’uomo è per antonomasia cultura.
L’animale è l’altro, è il diverso al quale viene affiancata l’etichetta di inferiore.
Rivera sottolinea come questa negazione dell’altro (uomo, donna o animale) e della sua individualità
crea un’analogia fra il razzismo, il sessismo e quella forma di specismo affermatosi con la riduzione
dell’animale a bene di consumo. L’animale diventa bene di consumo da tutti i punti di vista, non
solo come alimento, ma di consumo affettivo, simbolico, viene reso oggetto utilizzato dall’uomo
senza prendere in considerazione che anche l’animale è soggetto, sia per le sue peculiarità sia per il
ruolo che ricopre sul pianeta.
L’uomo, anche in questo caso, è andato a connotare con un’etichetta di inferiorità l’altro con cui si
rapportava. Questi meccanismi non sono venuti meno, né tra genere, né tra etnie, né tra specie.
Oggi diversi contributi sollecitano un nuovo approccio all’argomento, partendo dalla ridefinizione
degli assunti di base della disciplina e dalla riconsiderazione, sia dal punto di vista epistemologico
che ontologico, del modo in cui tradizionalmente l’antropologia ha concepito il rapporto
natura/cultura.
Negli ultimi quarant’anni si configura un nuovo modello (non più disgiuntivo), ma di tipo
congiuntivo, quando il rapporto uomo-altre specie torna di attualità per merito soprattutto dei
nuovi orizzonti di ricerca aperti dalle scienze naturali, in particolare le neuroscienze, l’etologia
cognitiva e la biologia evoluzionistica.
Sono gli anni in cui si registrano numerose scoperte: forme di apprendimento, comportamenti
simbolici, linguaggi e culture, sarebbero presenti, in modi e in gradi diversi, presso le altre specie
viventi. E queste nuove conoscenze prospettano la possibilità di nuove strade di indagine per la
comprensione dell’evoluzione della vita, dei processi cognitivi e della cultura in generale. In tale
“clima”, anche le discipline umanistiche mettono in discussione la prospettiva separatista che ha
condotto al divorzio di cultura e natura e di uomini e animali.
Il mondo in cui vive l’uomo, il mondo dell’uomo è molto più che umano. È come se fino a 40 anni fa,
l’antropologia avesse studiato l’uomo coprendolo con una campana di vetro che in realtà lo isolava
dalle relazioni con le altre specie nel suo contesto. Invece, il suo contesto è fatto da altre specie
(vegetali e animali) con le quali l’uomo ha sempre interagito ed è sempre entrato in relazione.

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L’antropologia parlava della specie animale, ma considerando sempre l’umano come unico
soggetto. Non si andava a parlare di interazione e relazione, non c’era uno scambio tra i due soggetti
della relazione perché l’animale era considerato oggetto.
Ma quando nasce esattamente e qual è questo nuovo approccio? È un paradigma teorico di tipo
congiuntivo, in cui uomo e animale sono considerati entrambi soggetti, capaci di relazione
interspecifica (perché tra due specie diverse). È il momento in cui nel panorama internazionale
appare un nuovo campo di studi, gli Human Animal Studies, che ha come obiettivo di ricerca
l’interazione uomo-animale in tutte le sue componenti.
Tante e diverse sono le discipline interessate a questo tema – biologia, psicologia, sociologia,
antropologia, economia e medicina – così come tanti e differenti sono i contesti in cui si sviluppa la
relazione uomo-animale, dagli ambienti più intimi quali la casa, ai contesti agricoli, ai laboratori, agli
zoo fino ad arrivare al wild e ancora alla rete.
- Human-Animal Studies, anthrozoology, multispecies ethnography, anthropo-zoo-
genesis, multispecism  termini differenti che indicano sempre questo nuovo approccio
Ciò che accomuna tali riferimenti è che indicano approcci che individuano ed enfatizzano modalità
e metodi innovativi per includere l’animale non umano nelle indagini e negli studi culturali. Nello
specifico, ad entrare nell’interesse di indagine è l’interazione uomo-animale.
La presenza dell’animale non può e non vuole essere ignorata, nella convinzione che continuare a
considerare gli animali oggetti, non può che portare a indagini antropologiche (e non solo) capaci di
offrire una comprensione parziale della realtà, per l’esclusione dell’intera dimensione relazionale
che può esistere tra certi esseri umani e certi animali coinvolti in una sorta di dialogo, relazione e
perfino partnership.
La vita dell’uomo è immersa in una realtà di complessità interspecifica, l’uomo vive in un mondo che
è descritto da Abram David “as more than a human world”  l’uomo vive in un mondo che è molto
più che umano, che non è solo umano da sempre.

1.2. Verso un’anthropology of life


Uno dei cardini di tale nuova prospettiva di ricerca consiste pertanto nel rovesciare la visione
tradizionale dell’animale oggetto – strumento reificato a disposizione dell’uomo sia a livello pratico-
economico sia sul piano simbolico-metaforico – concependo l’animale come referente.
Gli animali diventano “reali”, e fanno parte della sfera relazionale e sociale dell’uomo. L’animale
viene concepito come partner attivo di un rapporto biunivoco e di reciproco scambio con l’uomo,
acquisendo così dignità di soggetto cooperante alla definizione di una particolare esperienza umana.
Accanto ai contesti culturali in cui l’animale viene utilizzato come risorsa e come strumento in grado
di contribuire a livello di performance all’ottimizzazione delle attività umane, è possibile individuare
circostanze in cui una determinata specie animale possa, significativamente, offrire soluzioni nuove
all’uomo per ciò che riguarda il rapporto con se stesso, con gli eterospecifici e con l’ecosistema in
generale.
L’antropologo Kohn parla di espansione dei confini dell’antropologia, proponendo
un’“anthropology of life”:  studiare l’uomo nella relazione che l’uomo intercorre non solo con gli
umani, ma con tutti gli esseri viventi (soggetti non della sua stessa specie) che condividono con lui
lo stesso contesto, che entrano in relazione e interazione con l’uomo.
“an anthropology that is not just confined to the human but is concerned with the effects of our
entanglements with other kinds of living selves (…) multispecies ethnography centers on how a

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multitude of organisms’ livelihoods shape and are shaped by political, economic, and cultural
forces”.
Concetto che Ingold esprime con “bring anthropology back to life”, nel sottolineare come, per
l’antropologia, il considerare gli altri esseri viventi nell’ambito dei propri studi sia una nuova
opportunità per perseguire il suo scopo di «generous, comparative but critical understanding of
human life».  con la relazione uomo-animale, l’antropologia riesce a studiare aspetti dell’uomo
che prima erano nascosti o che non erano stati evidenziati.
Haraway, facendo particolare riferimento al rapporto tra umani e altri animali non umani parla di
specie compagne, coinvolte in processi di “becoming with”.
Si tratta di un incontro come forma di “co-being”, di “being with” e di “intra-acting”. Oggetto di
interesse diventa la relazione interspecifica che configura la coppia uomo-animale come ibrido
culturale in grado di elaborare nuove e più efficaci risposte performative e cognitive in un
determinato ecosistema.
Es: nel mondo islamico, il cavallo è creato da Dio ma, a differenza degli altri, è creato in un momento
differente rispetto agli altri. C’è un culturalmente connotato che entra nella relazione con gli
specifici animali.
Marchesini (colui che in Italia ha fondato la più importante scuola di zooantropologia applicata) ha
inserito il concetto di rapporto di soglia. Quest’ultimo sarebbe caratterizzato da un processo di
decentramento che mette in relazione il soggetto con l’alterità costruendo da una parte una
migliore consapevolezza identitaria, dall’altra una maggiore apertura al mondo. Quando ci troviamo
di fronte al diverso, siamo stimolati a riflettere su di noi, l’altro per noi è specchio; quindi, ci aiuta a
una maggiore consapevolezza identitaria. Se ci apriamo, se entriamo in relazione con chi è diverso
da noi, facciamo un’apertura al mondo che è molto importante.
- Processo di decentramento: avviene quando l’altro è un altro di un’altra specie. L’uomo,
entrando in relazione con l’animale che è di altra specie, è portato a riconoscere le
proprie specificità di specie umana, le proprie caratteristiche, riconosce che non tutte le
specie hanno le stesse caratteristiche e decide di entrare in relazione con questa
diversità. Per entrare in relazione, una persona deve decentrarsi e riconoscersi.
L’animale è una soglia proprio perché non è umano, perché è portatore di caratteristiche che in
qualche modo decentrano, nel porsi come semplificatore di un altro modo di esistere o come
elemento di problematicità e scacco alle nostre proiezioni o intuizioni. Siamo di fronte a una
diversità.
Il presupposto che legge l’interazione con l’animale come evento di soglia rende conseguente
l’importanza di valorizzare l’animale proprio in quanto diverso, uscendo quindi dai modelli
antropomorfici o reificatori. L’animale è importante per l’uomo perché è diverso, perché è una
relazione che aiuta l’uomo a scoprire e imparare cose nuove, ad aprirsi, a conoscersi. L’importanza
dell’altro sta nella sua diversità.
Marchesini parla di rapporto di soglia perché l’animale è l’altro, è il diverso e l’approccio a questa
diversità non può essere antropocentrico, reificatore, antropomorfico. L’uomo va ad
antropomorfizzare l’animale, vuol dire attribuirgli bisogni umani. La zooantropologia contesta il
vedere oggetto e contesta chi vede l’animale soggetto, ma soggetto umano. L’animale è soggetto,
con i suoi bisogni, con le sue esigenze, con le sue caratteristiche, non è corretto riconoscere
l’animale soggetto pensandolo come umano, perché vorrebbe dire negargli la sua soggettività,
specificità.

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CONCETTI CHIAVE DELLA ZOOANTROPOLOGIA APPLICATA
Marchesini ha elaborato dei concetti chiave.
Relazione = condizione di incontro-confronto con l’animale basata:
1) sul riconoscimento dell’animale nella sua soggettività, diversità, peculiarità  non ci basta
riconoscere l’animale come soggetto per instaurare una relazione corretta, perché
dobbiamo riconoscerlo come specie specifico, come soggetto diverso, con le sue
caratteristiche e peculiarità;
2) sull’attivazione tra gli interlocutori di un evento dialogico ovvero di interscambio e di
transazione di ruolo  gli interlocutori sono i due soggetti umano e animale che entrano in
relazione nella loro specificità e che sono reciprocamente in grado di riconoscersi;
3) sulla reciprocazione ovvero sulla valorizzazione dell’altro come referente  bisogna
riconoscersi e riconoscere l’altro nella sua specificità e la relazione con lui ha un valore,
perché ogni volta che entriamo in relazione con qualcuno soggetto riconosciamo un valore
da questa relazione;
4) sulla riconoscibilità socio-affiliativa ossia sull’accreditamento sociale e reciproca affiliazione
 la relazione non è solo una relazione di utilizzo, ma di riconoscimento anche affiliativo;
5) sulla definizione di un piano specifico di incontro-dialogo (dimensione)  dimensione di
relazione.
L’umano entra in relazione con un soggetto che riconosce tale e a cui riconosce un certo valore e un
certo ruolo.
Referenza animale = è il valore di ruolo assunto dall’animale nel processo relazionale capace di
indurre disposizioni espressive, educative, assistenziali nel corso dell’incontro-confronto dialogico
ovvero la capacità dell’interlocutore animale di apportare valenze nel processo relazionale e di
apportare all’uomo effetti beneficiali / positivi. La relazione uomo-animale può essere per l’uomo
positiva. Tali valenze sono suddivisibili in:
1) valenze di soglia ovvero riconducibili alla capacità di operare decentramento, vale a dire di
aprire il sistema uomo-individuo;
2) contenuti dimensionali ossia valenze specifiche riferibili alle singole dimensioni di relazione.
L’animale è per l’uomo una soglia, un limite che lo porta a riconoscere le proprie specificità di specie.
Questo incontro può portare degli effetti benefici all’uomo, l’uomo può imparare dall’uomo.
Alterità animale = stato dell’interlocutore non-umano caratterizzato:
1) dalla riconoscibilità ovvero
a- dall’attribuzione di una soggettività o principio di non reificazione (non è oggetto)
b- dalla definizione di una propria diversità o principio di non antropomorfizzazione (non
attribuzione dell’altro dell’altra specie di caratteristiche umane)
c- dall’accreditamento di una propria peculiarità o principio di non proiezione (costruzione
immaginaria o voluta dall’uomo di un’attribuzione all’altro di caratteristiche proprie);

2) dalla valorizzazione ovvero


a- dall’attribuzione di un proprio ruolo nell’ecumene (ecosistema)
b- dall’accreditamento di un valore referenziale per l’uomo  il ruolo dell’animale
nell’ecosistema è riconosciuto dall’uomo.

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Soggettività che viene riconosciuta specie specifica, quindi una soggettività che non si va ad
antropomorfizzare, ma è un soggetto animale, con le sue specificità. Riconosciamo che questa
alterità può avere valore per l’uomo.
Dimensioni di relazione = per la zoo antropologia essendo la relazione un evento di interscambio e
transazione va considerata nella sua specificità dialogica ovvero nella definizione delle
caratteristiche di incontro-confronto tra i due interlocutori e non deve essere considerata in modo
aspecifico o reattivo-proiettivo perché in tal modo andrebbe a ricadere nell’ambito delle interazioni;
si definisce dimensione di relazione il piano di incontro-confronto ovvero la specifica condizione
dialogica che definisce:
1) motivazione dei partner (dei due soggetti) di relazione;
2) gioco di ruolo (il loro essere attivi) tra gli interlocutori;
3) contenuti interscambiati tra gli interlocutori.
Si sofferma nelle diverse caratteristiche che la relazione può avere, anche in base ai molteplici
contesti in cui questa relazione può prendere luogo.

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SULL’ANTROPOCENE. INTRODUZIONE ALLA TRADUZIONE DI
UMANO, TROPPO UMANO (DI PHILIPPE DESCOLA)
Guardando quelle teste antiche e impassibili, Kerans poteva capire la strana paura che esse
suscitavano, riattizzando arcaiche memorie delle giungle terrificanti del Paleocene, quando i rettili
erano stati costretti ad abdicare di fronte all’evoluzione dei mammiferi, e percepiva con stordente
chiarezza l’ostilità implacabile che una classe zoologica prova nei confronti di un’altra che ne ha
usurpato il posto.
La traduzione di “Humain, trop humain” di Philippe De- scola che qui, con piacere, introduciamo,
rappresenta solo uno dei numerosi contributi che negli ultimi anni hanno arricchito il dibattito
scientifico-accademico, in uno sforzo multidisciplinare che, come raramente accade, ha saputo tra-
valicare i bastioni accademici, per imporsi nel discorso pubblico come una nozione guida
imprescindibile per valutare gli effetti degli umani sul pianeta Terra. Qui si dice quanto negli ultimi
anni, in termini trasversali alle discipline e alla società civile, si è aperto un interesse sollevato
dall’urgenza di fenomeni verificatosi sul pianeta terra e che si riconducono all’azione dell’uomo.
Riconoscerci come responsabili del passaggio a un’era geologica determinata dal- l’azione umana,
l’Era dell’Essere Umano (Antropocene), permette, specular- mente, di interrogarci riguardo la
possibilità che i fenomeni associati alla nuova Era stiano già creando una “umanità al- tra”. Prendere
finalmente coscienza di essere l’incarnazione di una forza tellurica, ci offre allo stesso tempo
l’opportunità di riconoscere l’esistenza di forme molteplici di “essere umani” immerse in socialità
ibride, all’interno delle quali si intessono modi di esistere umani e non-umani fortemente relazionali.
Non c’è più distinzione tra umano e non umano, ma c’è una relazione: il riconoscimento della
relazione avviene quando diamo dignità all’altra specie capace di entrare in relazione con l’umano.
In questo senso, l’antropologia può servire non soltanto da punto di osservazione, ma anche, e
soprattutto, da punto d’azione capace di mostrare soluzioni possibili per disinnescare le attuali
logiche autodistruttive conosciute oggi con il nome, ambiguo e controverso, di Antropocene.
Il termine antropocene è usato per descrivere un concetto elaborato, nelle sue attuali forme, in un
articolo pubblicato nel 2000 dal chimico atmosferico Paul Crutzen e dal biologo Eugene Stoermer
(2000). I due studiosi hanno introdotto il termine per argomentare il fatto che il peso che le attività
umane hanno avuto, ma soprattutto, continuano ad avere, sul pianeta – tanto da aver lasciato segni
documentabili a livello stratigrafico e geobiofisico è tale da presupporre l’ingresso in una nuova era
geologica.
Secondo diversi autori, e stando ai dati raccolti in me- rito a regioni significative del pianeta, è
possibile sostenere che sia ormai avvenuto il passaggio dall’Olocene – cominciato circa 11700 anni
prima del 2000 – all’Antropocene, l’era cioè dell’anthropos, l’essere umano. Nonostante non esista
un consenso condiviso da tutta la comunità scientifica sull’uso del termine, il concetto di
“antropocene” è ormai ubiquo e pervade numerose discipline.
Per molti anni il dibattito scientifico si è focalizzato sulla legittimità di considerare l’antropocene
come un’epoca a sé o se invece sia da intendersi come parte dell’Olocene (l’era precedente
all’Antropocene). Per quanto riguarda invece la sua datazione, nonostante siano state avanzate
differenti proposte nel corso degli anni, non c’è dubbio che il periodo più accreditato e condiviso sia
stato per molto tempo quello della fine del XVIII secolo, coincidente con l’invenzione della macchina
a vapore di Watt. Tuttavia, solo nel 2019 l’Anthropocene Working Group (AWG) della
Subcommission on Quaternary Stratigraphy (SQS), a sua volta facente parte della International
Commission on Stratigraphy (ICS), in seguito a una votazione, ha raccomandato di riconoscere come

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periodo di inizio la metà del XX secolo. Sta prevalendo la posizione di chi pensa anche si possa
parlare di Antropocene dal 1950.
La tesi che avvalla la necessità di riconoscere l’esistenza di una nuova era, si basa sulla valutazione
dei gravi effetti che la presenza umana ha avuto sull’intero Sistema Mondo. In effetti, non esistono
luoghi del pianeta che non siano stati raggiunti dall’azione dell’essere umano.
Dalla sua prima formulazione in una breve nota sul Global Change Newsletter, questo concetto ha
cominciato a trascendere i confini disciplinari e a venire impiegato con frequenza crescente da parte
delle scienze sociali e umane, non senza critiche (seppur con qualche critica). Il rapido sviluppo degli
studi che hanno adottato questa postura teorica è ben documentato dall’enorme mole di
pubblicazioni scientifiche che impiegano il termine nel titolo, nell’abstract o nel testo, così come
dalla nascita di due riviste multidisciplinari in lingua inglese, dedicate espressamente al tema,
Anthropocene – che pubblica dal 2013 – e The Anthropocene Review – che esiste dal 2014.
È importante per l’antropologia dedicarsi oggi all’approfondimento di questo fenomeno e di queste
problematiche perché la centralità del problema sta nell’azione dell’uomo, che da sempre è oggetto
della disciplina antropologica.
VISIONI CRITICHE
Nella narrativa dell’antropocene, in generale, possono riscontrarsi due criticità principali, in
particolare se si analizzano dalla prospettiva delle scienze umani e sociali.
1) Come mostra Descola nell’articolo tradotto, il primo aspetto problematico si ravvisa nell’idea
stessa di umanità che, in linea con l’orientamento propugnato soprattutto delle scienze
naturali, ne riconosce la sostanziale uniformità ed è in generale concepita in termini di
specie;
2) Il secondo aspetto ha a che fare con la scala di analisi, che privilegia esclusiva- mente la
dimensione globale, tralasciando invece quelle locali e territoriali. L’attribuzione della
responsabilità per l’impatto nocivo che le attività dell’essere umano hanno avuto sul pianeta
e l’ambiente ricade quindi sull’umanità, concepita come unica e indifferenziata.
L’antropologia, da sempre, ha sottolineato l’esistenza di comunità umane con delle proprie
tradizioni anche comportamentali, legato a normative e a credenze. L’antropologia da sempre invita
ad analizzare i fenomeni calandoli in dimensioni piccole, più che globali, spinge sempre a non
escludere lo studio delle singole comunità.
Risiede forse in questo punto la critica principale alla narrativa dell’antropocene, ovvero quella
rivolta alla responsabilizzazione equanime dell’umanità, considerazione che comporta critiche a
quell’anthropos contenuto nel termine stesso: “è un riflesso dell’autoproclamata posizione
dominante che gli umani occupano su tutte le altre forme di vita della Terra, e in quanto tale
richiama l’attenzione circa le preoccupanti dicotomie che hanno pervaso le configurazioni
occidentali della conoscenza”.
Invece, è necessario investigare quali istituzioni, quali pratiche culturali e quali processi materiali
producono sia le relazioni sociali che le condizioni materiali di una umanità che, è necessario
ricordarlo, è unica e condivisa, ma allo stesso tempo frammentata dalle disuguaglianze nell’accesso
economico e politico. Parlando dell’eccessivo consumo, non possiamo imputarlo a tutte le comunità
umane del Pianeta Terra, perché l’acceso ai consumi è molto differenziato nelle diverse zone del
Pianeta.
A questo proposito, diversi autori hanno insistito sull’impossibilità di responsabilizzare l’umanità
intera dell’attuale crisi ecologica e ambientale. Secondo Philippe Descola, è quindi necessario

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comprendere quali soggetti, umani e non-umani, quali forme di intervenire sul pianeta e quali modi
di abitarlo, hanno contribuito a causare l’attuale crisi ecologica. Non tutte le forme e non tutte le
scelte di vita dell’uomo sul Pianeta hanno contribuito all’attuale scelta ecologica. L’indicazione è
quella di andare a verificare queste differenze.
Ma, allo stesso tempo, è importante interrogarsi a quali scale, a livello spaziale e temporale,
avvengono questi processi nella loro interazione. Per Descola, stabilire l’inizio dell’antropocene alla
fine del Settecento aiuta a “chiarire la definizione del misterioso anthropos che conferisce dinamica
all’antropocene”. L’autore continua sottolineando il fatto che non sia possibile considerare
l’umanità come un tutto omogeneo e senza fissure, come se fosse un “iper-Soggetto unificato con
una Natura di fronte (e al di sotto) come suo Oggetto”.
L’impatto che la maggioranza dei gruppi umani (per esempio, i gruppi amazzonici) hanno avuto e
continuano ad avere sull’ambiente non è tale da giustificare i vari fenomeni relativi al cambiamento
climatico, quali lo scioglimento dei ghiacciai o l’aumento di CO2 nell’atmosfera.
“La causa principale dell’ingresso nell’antropocene”, sostiene Descola in questo scritto, “è lo
sviluppo di un modo particolare di composizione del mondo”, definito come “capitalismo
industriale, rivoluzione termodinamica, tecnocene, modernità o naturalismo”, e che ha avuto
origine prima in Europa occidentale estendendosi poi a livello globale. È un determinato stile di vita.
È dunque pertinente pensare all’antropocene come a un concetto geo-politicamente centrato in
area euro-nordatlantica, collegato a una visione del mondo prevalentemente occidentale. Come
indica il termine stesso, oltre alla considerazione di un’umanità corresponsabile (esemplificata dal
termine anthropos), il suffisso –cene (dal greco Kairos, nuovo) sposta l’attenzione sull’aspetto
temporale mentre omette quello spaziale (in questo senso, la proposta di Latour di impiegare il
termine “Gaia” contempla invece le due dimensioni).
In linea con Donna Haraway, è necessario ripensare diametralmente l’idea di un mondo, di
un’umanità unica, perché non corrispondente alla struttura stessa del mondo. Non si tratterebbe
quindi di un discorso riduci- bile al solo relativismo epistemologico, ma implica una maggiore
considerazione per le disuguaglianze sociopolitiche ed economiche frutto, ad esempio, della storia
coloniale che si intreccia con le dinamiche di sfruttamento dell’ambiente. In questo passaggio, si
intravede il collegamento tra sessismo, etnocentrismo e specismo. Quindi, un atteggiamento di
impostazione gerarchica di una parte di comunità umana che si considera superiore rispetto a
un’altra inferiore.
È necessario, quindi, secondo Haraway, ampliare lo sguardo ad altre forme e modi di concepire la
realtà come plurale: “altre parole e formulazioni ci aiutano a reimmaginare le nostre urgenze attuali,
e forse aprono una possibilità di collaborazione e ricerca. Apre, io credo, la possibilità di lavorare in
maniera diversa”.
In risposta a un uso semplificato e geopoliticamente marcato dell’impatto umano sul cambiamento
climatico globale, diversi studiosi hanno proposto delle alternative al termine antropocene,
alternative in grado di rappresentare “i processi sociostorici che sono vincolati al riscaldamento
globale”.
Il termine più usato è indubbiamente quello di capitalocene, proposto da Andreas Malm e
sviluppato da Jason Moore concetto che mette in risalto le gerarchie di potere nei processi di
produzione sociali e ambientali, cominciati con l’espansione coloniale europea e che ha dato inizio
al sistema capitalista. Haraway sottolinea che mentre l’Antropocene segna l’inizio della storia
dell’impatto umano sull’ambiente a partire dalla fine del XVIII secolo, il termine Capitalocene

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introduce una profondità storica quando sposta il principio di questo processo all’epoca della
schiavitù americana nel settore agrario e in quello minerario.
Secondo Bauer ed Ellis, il termine Capitalocene consente, in primo luogo, di storicizzare le dinamiche
socio-materiali, a molteplici scale, risultato dell’attuale distruzione ambientale e, in secondo luogo,
di superare una visione evoluzionista che sottomette la natura all’umanità, implicando la dicotomia
tra ‘civilizzato’ e ‘selvaggio’ (coloro che non vivevano secondo una modalità dell’Occidente).
Un altro aspetto problematico implicito nel concetto stesso di antropocene, e nella nozione di una
umanità indifferenziata che esso propone, è la narrazione nella quale primeggia una visione globale
a discapito delle relazioni locali, non considerando le dinamiche specifiche, visto che si dà enfasi
all’umanità come specie e al pianeta nella sua globalità dal momento che, come scrive Anna Tsing,
“la scala è globale perché il modello è globale”.
Secondo Astrid Ulloa questa tendenza globalizzante si riscontra, allo stesso modo, nell’andamento
asimmetrico delle politiche globali sul cambiamento climatico, in cui sono i paesi “sviluppati” che
impongono politiche e strategie da applicarsi ai paesi in “via di sviluppo”. Seguendo Gupta and
Ferguson (1992), l’antropologa sostiene che: sebbene l’urgenza giustifichi una riflessione su scala
globale, tuttavia è necessario tenere in considerazione il fatto che i disastri ambientali hanno
interessato territori specifici e, quindi, è necessaria, come indica Descola, “una scala completamente
nuova di analisi e un’intera altra scala di mobilitazione”.
Limitandoci al solo caso latino-americano, i disastri provocati dallo sfruttamento e dall’estrattivismo
sono molteplici e rappresentano declinazioni locali del peso delle politiche transnazionali
neoliberiste sull’ambiente, combattute a livello locale da gruppi umani e non umani coinvolti nel- le
frizioni. È necessario, quindi, che le discussioni sull’antropocene non si limitino a uno sguardo
globale indifferenziato e, generalmente, ubicato nel nord globale, ma è urgente ampliare a visioni
territoriali locali, che sono complesse, sfaccettate, articolando sotto una nuova luce la complessa
relazione tra umano e non umano, natura e cultura.
Qui emerge l’importanza dell’antropologia oggi, non solo della teoria antropologica, ma anche del
metodo: il metodo è quello che ti porta sul campo, a contatto con la realtà, che è sempre limitata
nel tuo studio perché contemporaneamente il campo non può essere il Pianeta. L’importanza di
affrontare questa problematica, cercando anche di riuscire a intuire e intraprendere strade nuove
per il cambiamento attraverso un percorso che ci porta alla scala locale. L’analisi deve essere
un’analisi delle singole parti, delle differenti parti del Pianeta.
NATURA E CULTURA?
La complessità della nozione di antropocene consente di riflettere sulle categorie di umano e non
umano e, quindi, di natura e cultura. Come sostiene Stolcke, la dicotomia cartesiana che oppone
natura e cultura rappresenta solo uno dei molti sistemi di organizzazione socioculturale nel mondo.
La nozione di antropocene permette di problematizzare una delle certezze che strutturano la
modernità, quella di una natura esternalizzata rispetto alla cultura. L’idea di una natura in sé è
oggetto di revisioni critiche che affermano la compresenza di “mondi naturali che sono inestricabili
da quelli umani”, mettendo in discussione l’idea classica di umanità delle scienze sociali e naturali.
Il termine “antropocene”, pur con le problematiche segnalate anteriormente, contribuisce a
riflettere non solo sul peso che le attività umane hanno sull’ambiente ma anche, in linea con Gibson
e Venkateswar, sulla posizione dominante che l’essere umano ha assunto rispetto alla natura,
concependo quest’ultima come una mera risorsa da sfruttare o, eventualmente, da domare. 
tema del dominio, della gerarchia, dello sfruttamento e dell’uso.

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Ma, allo stesso tempo, attira l’attenzione sul “distacco che gli esseri umani hanno rispetto
all’ambiente circostante e rispetto a quelle entità che sono “in maniera diversa da noi”.
Ma a cosa si deve questo distacco? Philippe Descola è chiaro nell’attribuirla all’“affermazione di
una differenza di natura, e non più di grado, tra umani e non umani”, una differenza in cui, fermo
restando “le proprietà fisiche e chimiche universali”, umani e non umani “si distinguono per le loro
disposizioni morali e cognitive”. Su questa base si è strutturata quella che l’antropologo francese
definisce “ontologia naturalista”, una maniera di concepire la realtà che separa la cultura dalla
natura, ubicando quest’ultima in una posizione di subalternità rispetto agli umani. Ciò ha
comportato, ancora con Descola, un cambiamento radicale nella concezione della natura e delle
fonti energiche:
Lo sviluppo del capitalismo mercantile e del sistema coloniale – e successivamente - imperialista su
cui si basava, consentì la diversificazione globale delle fonti energetiche, delle materie prime e dei
prodotti industriali, facilitando allo stesso tempo il loro scambio attraverso la moneta: tutto divenne
convertibile in denaro e le differenze nel costo di produzione, rese possibili dal traspor- to di merci a
basso costo, le trasformarono in una fonte di notevole guadagno. Non solo, come aveva ben visto
Marx, il denaro, derivato ora dal trasferimento di merci, non era più un semplice mezzo, ma divenne
lo strumento per ottenere energia a basso costo slegata dal controllo dei terreni agricoli. Si entrava
così nella maggiore illusione degli ultimi due secoli: la natura come risorsa illimitata che consente
una crescita infinita grazie all’infinito miglioramento delle tecniche. In questo senso, la macchina di
Watt non è tanto la causa.
Se, da una parte, come si è visto, considerare l’umanità come specie – nel senso in cui lo fanno le
scienze naturali – permette di immaginare la gravità della crisi ecologica a un livello globale;
dall’altra, questa uniformazione si rivela problematica. Come detto, il punto di vista esclusivamente
globale non tiene conto dei territori, delle crisi locali e dei conflitti socio-ambientali che in questi
luoghi si consumano e che, in effetti, compongono il quadro globale della crisi con- temporanea. Il
territorio non è solo un concetto meramente spaziale, ma uno spazio abitato da umani e non umani,
che si costruisce a partire da negoziazioni. In questo senso, è necessario che l’umanità
dell’antropocene, intesa come specie, contempli anche le specificità contestuali.
Ma a quale visione di umanità fa riferimento l’anthropos dell’antropocene? Si tratta di una
specifica elaborazione categoriale che stabilisce una divisione gerarchica tra l’essere umano e il
mondo fisico in cui quest’ultimo – governato da meccanismi naturali e concepito come senza
ragione né agentività – è subordinato alle necessità e al controllo dell’essere umano che ne dispone
a piacimento.
Si tratta di una modalità sociale – e, quindi, storica, costruita e non naturale ma naturalizzata –
definita da Descola come “ontologia naturalista”, le cui origini sono da rintracciarsi nell’Illuminismo
e che, per effetto del capitalismo e dell’espansione coloniale, per cui della preminenza politico-
culturale ed economica occidentale, sono intese come il punto zero, a partire dal quale “misurare”
le gradazioni di “credenze altre” rispetto alla norma. Quindi, è necessario tenere sempre in
considerazione quello che Stolcke ha definito come “la dimensione politico-ideologica del
naturalismo moderno” in base alla quale si sono spesso “giustificate discriminazioni, esclusioni e
disuguaglianze sociali – economiche, sessuali o razziali”.
L’ontologia naturalista ha dunque eretto una frontiera qualitativa tra umani e non umani che si è
imposta come criterio per naturalizzare le disuguaglianze sociali propagate attraverso il colonialismo
e le strutture socioeconomiche che lo accompagnano, e si è articolata, nei diversi contesti
colonizzati, con altre ontologie. Recenti ricerche etnografiche dedicate allo studio delle cosmologie

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amerindie hanno dimostrato che la relazione tra natura e cultura è culturalmente costruita e che
“l’umanità non è una categoria ma una condizione. Una condizione condivisa tra distinti esseri”.
Eppure, l’imposizione del naturalismo e della sua pervicacia nel favorire l’adozione di modelli di
sfruttamento delle risorse non ha prevalso su altre ontologie in forma assoluta visto che le società
colonizzate hanno resistito in modo attivo, nei diversi contesti locali, ricostruendo le proprie
cosmologie e ontologie. Dimostrando pertanto l’inesistenza di “sistemi ontologici isolati”, e
indicando al contrario l’esistenza di “gruppi sociali che mantengono relazioni di potere ed ereditano,
ricostruiscono ed elaborano mondi o visioni del mondo e degli esseri che in esso abitano o
circolano”.
È POSSIBILE SUPERARE LE CRISI?
Sembra necessario riflettere, infine, su una delle domande che Descola si pone nell’introduzione al
saggio, e cioè: come si può arrestare il processo che sta rendendo la Terra sempre meno abitabile?
Sarebbe confortante credere alla famosa frase attribuita a Eduardo Galeano sul potere della gente
comune di cambiare il mondo con piccoli gesti, ma è importante sottolineare come ciò sia solo un
“piccolo” passo.
I piccoli gesti e la loro promozione possono sì contribuire alla creazione di una coscienza diffusa sul
problema, ma non sono sufficienti. La super-ego pressure, secondo Žižek, enfatizza la responsabilità
delle singole persone, le porta a sperimentare sensi di colpa e – come conseguenza – a compiere
azioni “riparatrici” (le famose cinque R dell’ecologia attuale: riduzione, riuso, riciclo, raccolta,
recupero). Queste, tuttavia, non possono essere l’unica risposta a oltre due secoli di impatto
negativo dell’essere umano sulla Terra, partendo anche dal presupposto che le responsabilità
dell’antropocene, come sottolinea Descola, non vanno ricercate nell’umanità in generale ma in “un
sistema, un modo di vivere, un’ideologia, una maniera di dare senso al mondo e alle cose che
continua a sedurre e a diffondersi” e che dunque anche le soluzioni non potranno venire
esclusivamente dall’azione delle singole persone ma dovranno interessare anche e soprattutto
l’intero sistema economico-politico.
La recente (o, per meglio dire, ancora attuale) tragica esperienza del Covid-19 ha messo in luce le
contraddizioni e i veri e propri paradossi dell’azione umana e la necessità di un cambio del
paradigma economico e di una riforma sostanziale della maniera di vivere sulla Terra.
Da un lato, l’emergenza sanitaria ha portato in diverse parti del mondo all’interruzione delle attività
produttive e una diminuzione dei traffici terrestri e aerei, che hanno permesso una drastica
riduzione delle emissioni di CO2 e di NO2 e – letteralmente – una boccata d’aria per il pianeta. Allo
stesso tempo, tuttavia, il movimento di protesta sui temi del cambiamento climatico che nell’ultimo
anno e mezzo aveva raggiunto proporzioni considerevoli – ad esempio con gli scioperi e le
manifestazioni settimanali dei Fridays For Future – e sensibilizzato un enorme numero di persone in
tutto il mondo, è stato scalzato dal dibattito attuale, messo in stand-by come se si trattasse di un
problema del tutto sconnesso o meno urgente dell’affrontare una pandemia.
D’altra parte, il blocco delle produzioni ha messo ulteriormente in luce lo squilibrio sociale intrinseco
al sistema capitalista, con l’aumento delle disparità dovute alla perdita del lavoro per migliaia di
persone, la tragica impossibilità di accesso alle cure per un numero altrettanto alto e il diverso
impatto che il virus ha avuto e continua ad avere a livello locale a seconda delle zone del mondo.
Ciononostante, negli ultimi mesi attraverso i mezzi di comunicazione si è spesso sentito – in un
impeto di ecumenismo solidale – che tutta l’umanità si è trovata “sulla stessa barca” di fronte al
pericolo sconosciuto del virus. Guarda caso, è la stessa immagine che Descola usa per descrivere la
situazione compromessa della Terra e delle specie che la abitano. Ma la usa sottolineando che “non

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è lo stesso essere confinati nella stiva, i primi ad annegare, o sul ponte di prima classe, vicino alle
scialuppe di salvataggio”: lo stesso vale per l’emergenza causata dal Coronavirus.
Descola propone un piano a lungo termine per evitare il disastro: cambiare i motori e la modalità di
navigazione. La crisi sanitaria mondiale potrebbe agire come un accelerato- re di tale progetto o
affossarlo. In questo senso, le piccole azioni a cui si riferiva Galeano possono intendersi allora co-
me un’assunzione di responsabilità nei confronti dell’ecosistema in cui interagiscono umani e non-
umani, una presa di coscienza che porti a gesti di dissenso verso quel sistema di produzione, che
mette il profitto di piccole élite umane davanti alla sopravvivenza dello stesso ecosistema. Piccole
azioni che vadano dunque aldilà della quotidianità delle singole persone, ma intese come corrosione
del sistema, che portino a decisioni globali che possano invertire il processo di collasso in atto.

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