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Che cos’è antropologia? Antropologia significa studio dell’uomo, l’antropologia si occupa degli
uomini in relazione al contesto culturale, storico e ambientale in cui essi vivono.
Quando nasce? È una disciplina giovane. È nella seconda metà dell’Ottocento che l’antropologia
culturale si organizza come autonoma disciplina scientifica. Di solito si fa corrispondere la sua
“nascita” con il 1871, anno di pubblicazione di un libro di E.B. Tylor, dal titolo “Primitive Culture”,
che definisce e mette a fuoco il campo di studi della nuova scienza: la cultura.
Si tratta di una data convenzionale. Alcuni antropologi amano retrodatare le proprie origini,
vedendo precursori in varie epoche della storia del pensiero (Erodoto, Montaigne...), altri invece
pensano che non si possa parlare di una antropologia moderna prima del Novecento, prima cioè
dello sviluppo di quelle metodologie di ricerca sul campo che diverranno nel XX secolo tratto
distintivo della disciplina.
Ciò che è certo è che sul piano istituzionale l’antropologia culturale si costituisce negli ultimi decenni
dell’Ottocento / inizio Novecento, prima all’interno della Scuola Evoluzionista Britannica e poi in
altri Paesi Europei e negli Stati Uniti. È il periodo del positivismo, della grande fiducia nella scienza
e nel progresso, è il periodo del trionfo dei nazionalismi e del colonialismo. I primi antropologi
saranno fortemente condizionati da questo pensiero e condizioneranno questo pensiero.
Alcuni termini, inoltre, a fine ‘800 in ambito antropologico significavano una certa cosa, ma già nel
primo Novecento no. A fine ‘800 la parola “cultura” si utilizzava solo al singolare; mentre già nei
primi del ‘900 viene riconosciuta la possibilità di usare la parola “cultura” al plurale. Si arriva al
riconoscimento di culture diverse di pari dignità.
Nella sua opera Primitive culture (1871), Edward B. Tylor formulò la prima definizione scientifica
della nozione di cultura, così definendola:
“Culture is that complex whole which includes knowledge, belief, art, morals, law, custom, and any
other capabilities and habits acquired by man as a member of society”.
“Cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include le
conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualunque altra capacità e abitudine
acquisita dall’uomo in quanto membro di una società”. La cultura è acquisita da ognuno di noi dal
momento in cui veniamo al mondo.
Se, prima del 1871, il concetto classico di cultura aveva un significato ristretto, legato solo ad una
élite dal sapere elevato, un gruppo di uomini bianchi benestanti che avevano avuto la possibilità di
acquisire un sapere importante, la nuova definizione di Tylor si estende a tutta l’umanità,
indipendentemente dalla classe sociale, dagli studi raggiunti, dal luogo di nascita; poiché la cultura
comprende abitudini, valori, saperi di ogni uomo in quanto membro di una specifica società. Ogni
essere umano è dotato di cultura, perché la sua identità culturale si costituisce di modi di vivere, di
saperi, di una lingua…
Il termine “cultura” ha avuto un’evoluzione importante. La letteratura più recente, invece, non ci
fornisce una definizione univoca di “cultura”, bensì ci mostra la sua elevata complessità. Questa
complessità riguarda molto gli elementi culturali.
L’analisi della cultura nazionale va però integrata con quella delle subculture, proprie di gruppi di
persone, appartenenti ad una cultura nazionale predominante, accumunate da una o più
caratteristiche culturali distintive, quali, ad esempio, la religione, la lingua o l’etnia.
Il concetto di subculture, però, ha valore non solo nazionale ma anche transnazionale. È possibile,
infatti, che vi siano subculture omogenee in paesi anche molto distanti geograficamente, grazie
anche al contributo delle comunità online e, in generale, dalla sempre maggiore interconnessione
tra persone attraverso il cyber-spazio.
Se inizialmente «cultura» era una dimensione vincolata all’area di origine, oggi l’area geografica non
sempre è sufficiente per determinare il background culturale di una persona. Potrebbe essere che
la persona abbia acquisito come suoi elementi culturali, non del suo mondo di origine, grazie a degli
incontri culturali online.
Parleremo di culture ibride, de-territorializzazione della cultura, di comunità immaginate. Non c’è
niente di più DINAMICO che la cultura. Un tempo l’approccio alla cultura era un approccio statico,
invece non c’è niente di più dinamico che il concetto di cultura. La lingua è un elemento della cultura
e tutta la cultura è dinamica. Il cambiamento è naturale ed è evolutivo, perché tanti cambiamenti
nascono grazie anche a nuove scoperte in discipline prettamente scientifiche.
Nel contesto odierno della globalizzazione, ci troviamo di fronte a situazioni sociali in cui chi siamo
“Noi” e chi sono gli “Altri” non è mai chiaro, e dove non è possibile parlare di “culture” come di
entità compatte e dai confini ben definiti, e per di più coincidenti con un “popolo” e un “territorio”
(delocalizzazione – deterritorializzazione delle culture).
Ciò non significa tuttavia che le differenze culturali non esistano più. Al contrario: la globalizzazione
per certi versi le moltiplica, pur frammentandone e mischiandone i contesti. Ora, in questa
situazione l’antropologia culturale continua a definirsi in base alla sua vocazione per lo studio delle
differenze (Hannertz, La diversità è il nostro mestiere!). Se c’è qualcosa che accomuna le origini
ottocentesche con gli studi attuali è quindi la vocazione per la diversità.
È un errore dire che siamo tutti uguali. Da un punto di vista culturale, l’uguaglianza può portare alla
perdita di differenziazione dalle altre culture per avvicinarsi a una cultura che generalmente è quella
egemone.
3) PIANO DELLE PRATICHE: qui noi troviamo i nostri comportamenti del quotidiano, vincolati
dalle regole e le regole devono essere in linea con il piano ontologico. Non posso rispettare
una regola che va contro il mio piano ontologico, perché nella vita dell’individuo la
condizione ideale è quella che vi sia una linearità tra i tre piani, che il nostro agire sia
conforme alle norme legate al nostro piano ontologico. Un individuo è in linea quando vi è
una corrispondenza tra i tre piani. Quando non vi è corrispondenza, l’individuo è in
L’antropologia è anche una disciplina a SPECCHIO, perché incontrando la specularità dell'altro siamo
stimolati a conoscere la nostra. Il confronto con l’altro stimola in te la conoscenza di te stesso.
Vedendo per la prima volta una persona o un Paese nuovo, la prima cosa che notiamo è l’apparenza.
La nostra conoscenza del mondo inizialmente è molto sulle pratiche, però per passare a dire che è
“conoscenza” e non solo “sguardo”, dobbiamo attribuire a queste pratiche il significato corretto.
Non c’è niente che l’uomo sa che non abbia un significato, una motivazione. Il nostro compito è
passare dal piano delle pratiche al piano ontologico, attraverso il piano normativo. È il viaggio della
conoscenza e della comprensione.
Quando parliamo di mondo, di culture altre, di persone con identità differenti dalle nostre, noi
dobbiamo comprendere, non condividere, ma avere consapevolezza delle diversità. Il linguaggio è
un fenomeno bio-culturale. La parte bio è la parte hardware, nel culturale c’è la parte software.
Ognuno di noi e tutte le persone al mondo ha un suo software che è culturalmente connotato. Siamo
simili per l’hardware, siamo differenti per il software (es: la lingua). Questa consapevolezza mi deve
portare alla volontà di conoscere l’altro, solo conoscendo l’altro noi arriveremo a comprendere
l’agire dell’altro, che però non significa condividere quello che l’altro fa. Non vogliamo giustificare,
leggere i perché delle cose o condividerle, ma vogliamo comprendere e conoscerle.
Cambiare la pratica non significa cambiare il piano normativo, perché è importante il piano
ontologico. Quando arriviamo in un altro Paese, notiamo che le pratiche sono diversissime, ma
spesso possiamo rimanere stupiti da delle pratiche comuni: nel mondo vi sono pratiche come parole
comuni, ma pratiche comuni e culture diverse, parole comuni e significati totalmente diversi. Es:
- I saluti, i gesti, la comunicazione non verbale: gli stessi gesti hanno un significato
diversissimo tra comunità e comunità;
- la parola “povero” in Occidente si riferisce all’ambito economico (povertà misurata sul
parametro economico-finanziario), mentre invece nella zona dell’Africa subsahariana fa
riferimento alla mancanza di relazioni sociali, di legami.
Come le stesse parole possono avere significati diversi nei diversi codici linguistici, anche le pratiche
comuni possono avere significati diversi in diversi contesti culturali. Così come l’opposto: pratiche
diverse possono avere lo stesso significato, e parole e vocaboli diversi possono avere lo stesso
significato. Non possiamo fermarci al piano delle pratiche, per comprendere l’altro, un’altra lingua,
un’altra cultura, dobbiamo passare per il piano normativo e per il piano ontologico per non sbagliare
e per comprendere. Non si cambia il piano ontologico, ma si lavora sul piano delle pratiche, si cambia
il piano delle pratiche. Per sapere che tipo di intervento fare, bisogna conoscere non solo la pratica,
ma le motivazioni della pratica, che possono essere le più diverse.
Gli elementi del piano ontologico, del piano normativo, del piano delle pratiche sono dentro alla
scatola della cultura, fanno parte della cultura, che è molto più del sapere dotto. Es: per noi cultura
è lavarsi i denti con lo spazzolino, in altri Paesi è utilizzare invece una radice. L’uomo vive gran parte
del suo agire quotidiano come dato per scontato, non si pone sempre le stesse domande su alcune
cose una volta che le ha acquisite. La caratteristica è che questi dati per scontato sono culturalmente
connotati; quindi, ad esempio se andiamo in un altro paese pensiamo che non possiamo lavarci i
denti perché non c’è l’acqua, ma in realtà possiamo farlo in un altro modo. Il problema è che poi noi
Le prime fasi dell’antropologia (seconda metà del XIX sec.) furono dominate dalle prospettive
evoluzionistiche, in particolare quelle associate a Morgan e Tylor.
EVOLUZIONISMO
Edward B. Tylor (1832-1917)
Herbert Spencer (1820-1903)
William Robertson Smith (1846-1894)
Lewis Henry Morgan (1818-1883)
James G. Frazer (1854-1941)
Cosa sostengono gli evoluzionisti? Tutta la realtà, naturale e sociale, è in costante movimento da
uno stato originario indefinito verso forme più complesse e coerenti di organizzazione. L’evoluzione
è vista come progresso continuo e itinerario verso tempi migliori. Teorizzano l’unità del genere
umano e gli stadi universali di sviluppo.
La cultura per gli evoluzionisti. In termini evoluzionistici, la cultura è l'insieme degli elementi non
biologici o somatici di adattamento all'ambiente. Pur non facendo strettamente dipendere le
differenze culturali da differenze naturali (biologiche, razziali) l'antropologia culturale ottocentesca
non rinuncia all'idea di gerarchizzazione dei gruppi umani culturali.
Come si spiega la diversità culturale a fronte della originaria unità intellettuale del genere umano?
Gli stadi di sviluppo. La risposta sta nell'ipotizzare un unico processo di evoluzione culturale, che si
muove però a velocità diverse in diverse parti del mondo e per diversi gruppi umani.
Tylor definisce la cultura al singolare, quindi la cultura è UNA, ha degli elementi ben chiari. Il mondo
è composto da comunità umane che in base alle pratiche, alle normative e ai valori vengono valutate
su una scala di evoluzione dall’INFERIORE al SUPERIORE.
Sviluppo unilineare
-- I vari gruppi umani in giro per il mondo, che si caratterizzano per modi di fare, lingue
altre, sono qualcosa di inferiore che devono progredire verso uno sviluppo che li porterà lì
(selvaggio, primitivo)
Gli elementi culturali sono legati alla civiltà occidentale. Tutto ciò che in un altro contesto veniva
visto e praticato, era considerato come differente e INFERIORE. Tylor parla di cultura al singolare,
perché si parla di unico processo di evoluzione culturale, non si può parlare di altre culture. Ogni
evoluzione ha lo stesso percorso. L’evoluzione è unilineare, c’è solo una strada riconosciuta come
strada evolutiva.
I rappresentanti della civiltà occidentale stanno sul punto più alto di una piramide da cui possono
guardare tutto il resto del mondo. Gli altri sono come noi, ma solo nel senso in cui lo sono dei
bambini che vanno educati e aiutati a crescere. L'equazione primitivi-bambini è centrale
nell'immaginario antropologico ottocentesco, e rappresenta la variante culturalista del razzismo.
Come metodo, Tylor non è andato sul campo. I primi antropologi non andavano sul campo, ma
davano questo compito ai commercianti, ai biologi, ai missionari, perché volevano che a raccogliere
queste informazioni fossero persone che non sapessero nulla di questa disciplina. Il mandato era:
partivano, avevano dei questionari (manuali con una serie di elenchi di caratteristiche di elementi
presenti nella civiltà occidentale). Questi questionari venivano consegnati e l’incaricato, attraverso
un’osservazione e non una relazione con il locale, con il locale segnare la presenza o l’assenza degli
elementi culturali. Venivano riportati indietro e, attraverso il METODO COMPARATIVO, veniva fatto
un certo calcolo e quel gruppo umano quella comunità veniva collocato nella scala gerarchica a un
determinato livello.
Metodo comparativo, gli antropologi non andavano sul campo, ma vi era questo modo di raccolta
del dato che non chiedeva interazione con il locale, ma solo compilazione del questionario. Se vi
erano nuovi elementi culturali, assenti nel bagaglio occidentale, non venivano neanche annotati o
analizzati.
Lo sviluppo della ricerca sul campo (antropologo scende sul campo) e di una nuova sensibilità
etnografica, insieme al crollo di molte delle certezze positivistiche dell'Ottocento, fa
dell'antropologia un potentissimo strumento di critica all'etnocentrismo, alle pretese cioè della
cultura europea di valere da metro di giudizio assoluto per tutte le altre.
Laddove per l'evoluzionismo studiare la diversità culturale era un modo per riaffermare con forza
sempre maggiore la superiorità dell'Occidente moderno, per la nuova sensibilità antropologica
diviene un modo per contestarne e relativizzarne le pretese.
All'immagine di una gerarchia piramidale di gruppi umani, che procedono a velocità diverse su un
unico percorso di sviluppo culturale, si sostituisce quella di un mondo suddiviso in una irriducibile
pluralità di culture, intese come entità autonome, ben distinte e di uguale dignità, classificabili in
modo non gerarchico e per certi aspetti non commensurabili / non classificabili. Si inizia a usare il
termine “cultura” al plurale, si inizia a vedere non l’inferiorità, ma la diversità.
Per il modernismo antropologico del nuovo secolo, le valutazioni negative delle altre culture sono
per lo più conseguenza della incapacità di comprendere il funzionamento di codici linguistici,
estetici, morali semplicemente diversi da quelli che ci sono più familiari.
Da qui il principio del relativismo culturale: non si possono formulare giudizi etici, estetici e (in una
variante) anche cognitivi al di fuori di un contesto culturale, poiché è il contesto culturale a stabilire
i criteri di riferimento. In questo momento, la lingua diventa centrale in relazione con l’altro, è
fondamentale per cogliere il punto di vista dell’altro. Si inizia a utilizzare lo sguardo dell’altro; io
incontro l’altro per comprendere il perché di alcune pratiche, la sua identità culturale, cercando di
capirlo con le sue ragioni, con i suoi perché. L’antropologo va sul campo per incontrare l’altro, entra
in comunicazione e interagisce con l’altro.
RELATIVISMO CULTURALE: È la posizione secondo la quale i valori e gli standard delle culture
differiscono e meritano rispetto. L’antropologia è caratterizzata da un relativismo di tipo
metodologico piuttosto che morale: per comprendere appieno un’altra cultura, gli antropologi
cercano di comprendere le motivazioni e le credenze dei suoi membri. Il relativismo metodologico
non preclude tuttavia la possibilità di esprimere giudizi morali o di scendere in campo per prendere
posizione contro pratiche ritenute disumane o comunque lesive della dignità umana.
È in questo periodo che nasce dal metodo comparativo il METODO PARTECIPANTE (con ad esempio
Malinowski). L’antropologo va e incontra le comunità umane, cerca di partecipare. Non è
un’osservazione distaccata, ma di contatto. La missione dell’antropologo è conoscere l’altro, ma
non partendo già da un’idea di superiorità, parte per conoscere il diverso. L’antropologo vuole
condividere gli elementi di una determinata pratica per capire se è possibile un cambiamento.
EVOLUZIONISMO
Edward B. Tylor (1832-1917)
Herbert Spencer (1820-1903)
William Robertson Smith (1846-1894)
Lewis Henry Morgan (1818-1883)
James G. Frazer (1854-1941)
Allora si intendeva come civiltà occidentale l'Europa e gli Stati Uniti. I tempi migliori erano quelli
della cultura più elevata occidentale.
Cosa sostengono gli evoluzionisti? Tutta la realtà, naturale e sociale, è in costante movimento da
uno stato originario indefinito verso forme più complesse e coerenti di organizzazione. L’evoluzione
è vista come progresso continuo e itinerario verso tempi migliori. Essi sostengono l’unità del genere
umano e, contemporaneamente, l’esistenza di stadi universali di sviluppo. Dove lo stadio, quindi il
livello di sviluppo, è quello che poi andava a inserire in questa gerarchia le comunità umane.
Le prime fasi dell’antropologia (seconda metà del XIX sec.) furono dominate dalle prospettive
evoluzionistiche, in particolare quelle associate a Morgan e Tylor. All’inizio del XX sec. appaiono
reazioni che vanno a sostenere la pluralità di culture e il fatto che questa comparazione gerarchica
non può più essere riconosciuta valida. Tale prospettiva la troviamo in Gran Bretagna con i
funzionalisti Malinowsky e Radcliffe-Brown e negli Stati Uniti con Boas.
Nello specifico sarà Franz Boas, più di tutti, a opporsi al METODO COMPARATIVO DEGLI
EVOLUZIONISTI fondando un metodo di studio delle culture incentrato sul RAPPORTO DIRETTO con
l’OGGETTO di indagine, la conoscenza della lingua e puntuali verifiche storiche sull’emergere e
l’imporsi dei tratti culturali. Boas fu riferimento per generazioni di antropologi statunitensi –
Kroeber, Lowie, Benedict, Mead.
Ogni cultura deve essere studiata e compresa in relazione allo specifico ambiente in cui si sviluppa
e ai problemi che deve affrontare. Queste parole ci rimandano alla definizione di antropologia, che
è lo studio dell'uomo e di quanto egli apprende inserito in un determinato contesto storico,
geografico, sociale.
Quindi quando i particolaristi affermano che è importante uno specifico ambiente, intendono
questo. Ogni ambiente, anche soltanto a livello geografico, pone dei problemi all'uomo, che deve
gestirli. Problemi anche legati alla sopravvivenza.
Es. C'erano delle isole sperdute in cui la ruota era quasi inesistente, però avevano invece sviluppato
tecniche di pesca avanzate che magari nemmeno esistevano ancora in occidente.
Nella modalità di analisi precedente, di analisi delle alter culture, lo sviluppo delle tecniche di pesca
che magari non esistevano neanche in Occidente, si perdeva!
Perché non si andava a cercare cosa c'era di peculiare, si andava invece a cercare cosa c'era di
uguale rispetto alla comunità occidentale. Allora magari nell'evoluzionismo venivano identificate
come comunità inferiori quando, invece, rispetto alla capacità di gestione-sopravvivenza in un
determinato contesto geografico, quelle comunità avevano invece sviluppato in maniera
significativa delle tecniche che ben aiutavano la popolazione umana a sopravvivere in quel contesto.
Alla luce di questo, si sostiene lo studio e la conoscenza delle culture nella loro singolarità. Bisogna
andare sul campo, entrare in relazione con gli indigeni (autoctoni) o con coloro che vivono lì e andare
a vedere anche le peculiarità (elementi culturali, scoperte, credenze, modalità di alimentarsi,
pregare) specifiche di quel contesto. Cercando di capire quindi le caratteristiche degli elementi
culturali di quel contesto e le motivazioni di quelle pratiche culturali.
Diventa centrale cogliere il punto di vista del nativo. È impossibile, per il particolarismo storico,
sostenere uno schema evolutivo unitario, perché abbiamo l’idea di un’irriducibilità delle culture. È
proprio con il particolarismo storico che si pone l’accento sul diverso significato che fenomeni
culturali simili possono avere in contesti culturali eterogenei. Pratiche comuni ma significati diversi.
Es: il pollice per noi è segno di approvazione, per le società medio-orientali magari ha una volgarità
altissima. Stesso gesto, diverso significato. Anche i simboli, uno stesso simbolo collocato in un
contesto culturale diverso può significare qualcosa di diverso. L'uomo adotta gli stessi gesti ma con
significati diversi in base al culturalmente connotato.
Ciò che distingue Boas e gli altri particolaristi è che l’obiettivo è la conoscenza delle cause storiche
che determinano la forma dei tratti culturali propri di una certa popolazione.
Es. Gli antropologi particolaristi si spostavano fisicamente (evoluzionisti no) e andavano sul campo.
Magari decidevano di avanzare una ricerca sul perché il concetto di famiglia è definito in un certo
modo in un determinato contesto. Andavano di persona in un altro contesto culturale (Paese) e
iniziavano a capire, chiedendo ai locali e osservando, che cos'è famiglia per loro. In più, nel loro
obiettivo di conoscenza, cercavano di capire il perché in quel momento, in quel contesto culturale
famiglia era quello e per capirlo cercavano di risalire andando indietro nel tempo con documenti di
quella comunità. Quali erano le cause storiche per cui in quel momento il concetto famiglia era in
quel modo.
Nei loro studi, si concentrano molto sull’irriducibilità di una configurazione culturale ad un’altra.
Non esistono valori universali se non come ampie categorie formali (morale, verità, bellezza, ecc.)
che rivestono comunque contenuti molto diversi a seconda del contesto culturale in cui vengono
declinati.
Es. i canoni di bellezza cambiano moltissimo nel mondo. MA queste categorie e questi criteri
formalmente ci sembrano uguali ma nella sostanza sono diversi e variano da contesto culturale a
contesto culturale.
Queste due allieve di Boas hanno un approccio, nei loro lavori di campo e negli studi che ci hanno
restituito, che va molto a incentrarsi su questi aspetti. Neanche ciò che noi consideriamo categorie
formali esistenti in tutto il mondo, possono essere approcciate con una semplicità di
standardizzazione o di omologazione, perché nell'ambito di queste categorie le differenze sono
tante e quindi anche i criteri di ciò che è considerato bello, buono, giusto sono diversi. Nei loro studi
cercavano di andare proprio a individuare queste peculiarità culturali, infatti, anche loro parlano di
irriducibilità delle culture.
FUNZIONALISMO
Bronislaw Malinowski (1884-1942) con M. ha inizio l’antropologia moderna
Radcliffe Brown (Funzionalismo strutturale)
M. considera la cultura e la società studiata come un complesso di fenomeni correlati tra loro e
quindi non estraibili dal contesto generale da cui dipendono. Qualunque elemento della cultura
assolve la caratteristica di funzione. Le istituzioni culturali svolgono la funzione di rispondere in
modo soddisfacente e socialmente organizzato ai bisogni primari ma, proprio perché le risposte
sono culturali e non biologiche come nel mondo animale, possono variare notevolmente da una
popolazione all’altra.
Cultura per i funzionalisti: “Cultura” quale vasto apparato, in parte materiale, in parte umano e in
parte spirituale con cui l’uomo può venire a capo di concreti, specifici problemi che gli stanno di
fronte.
Ogni cultura è un sistema chiuso, in cui ogni elemento ha la funzione di rispondere a bisogni primari
o derivati ed è in relazione con altri elementi. Andavano a studiare che tipo di legami c'erano nel
sistema. In base a dove andavano a studiare cercavano di capire come funzionava il sistema,
sostenendo che ogni sistema è diverso e cercavano a quale tipo di bisogno andava a rispondere. Se
c'è una norma è perché c'è un bisogno o una ragione. E la andavano a cercare in quel momento,
non nella storia. Ogni cultura ha un sistema a sé.
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Diversità
Aprirsi ad altre culture vuol dire andare a vedere se ci sono delle somiglianze che però possono
avere significati molto diversi. Stesso simbolo, significato diverso.
Per parlare di somiglianza e diversità dobbiamo avere degli indicatori. Gli indicatori della diversità
possono variare molto, nei diversi tempi storici abbiamo trovato i più diversi indicatori utilizzati per
decidere le somiglianze o le diversità dei gruppi umani e alcuni sono rimasti sempre presenti (es:
sesso, genere, razza, specie).
Sono le differenze originarie, ma sono differenze che ancora oggi hanno un grandissimo peso nella
classificazione del mondo e nelle interazioni tra persone. Per l’antropologia è importantissimo
studiare l’uomo in relazione al suo mondo, che è fatto di altre specie perché, studiando questa
relazione, capiremo molte più cose dell’uomo.
Inoltre, gli indicatori della diversità variano nello spazio, nel tempo, da società a società, addirittura
da gruppo a gruppo e, all’interno dello stesso gruppo e nello stesso tempo, possono variare da
situazione a situazione.
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- dalla fase dello “stadio adolescenziale” in cui è orientata verso l’integrazione sociale,
a cominciare dalla socializzazione nei gruppi informali dei coetanei. È il momento in cui
noi viviamo una parte di relazioni sociali in un momento nostro di crescita in cui emerge
in maniera più netta la nostra capacità critica o la nostra volontà;
- e dalla fase dello “stadio adulto” quando l’inculturazione è una forma consapevole e
critica di accettazione o di rifiuto dei valori e delle scelte del gruppo. Da adulti siamo
consapevoli di avere un’impronta culturale e noi possiamo ritrovarci in questa impronta
culturale totalmente o in parte anche no, e possiamo decidere se aderire o meno ad
alcuni elementi del culturalmente connotato che sono diventati nostri ma che non
abbiamo scelto noi.
Non c’è essere umano al mondo che non vive un processo di inculturazione. L’inculturazione viene
a indicare un percorso segnato da momenti e tappe insieme consci e inconsci, pianificati o
spontanei, che l’individuo attraversa in un processo continuo che inizia con la nascita e che va avanti,
con variazioni di intensità, per tutta la vita.
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Il simbolo è un oggetto, una parola o un’azione dal significato culturalmente codificato che
rappresenta qualcosa con il quale non ha una relazione necessaria o naturale, sono quindi
arbitrari. Lo stesso simbolo in contesti sociali, luoghi geografici, tempi storici differenti può
significare cose diverse. Arbitrario non solo nella prima attribuzione di significato, ma
arbitrario perché il suo significato può costantemente cambiare, può diventare
costantemente più articolato perché un singolo simbolo può avere tantissimi significati.
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IL SIMBOLO
vi è un rapporto di rinvio significativo ad altro, il significato non è legato a ciò che vediamo,
ma è invisibile;
è portatore di un sovrappiù di significato;
mentre il segno stabilisce relazioni chiare e univoche, il simbolo mostra, nei molteplici
significati che ad esso possono essere attribuiti, la sua natura inesauribile, perché un
simbolo, in qualsiasi momento nello spazio, nella storia e nel tempo può perdere alcuni
significati o aggiungerne altri solo per piccoli gruppi umani;
una caratteristica dei simboli è quella di avere la possibilità di includere più di un significato,
anche nell’ambito della stessa comunità.
Todorov nel suo lavoro “Simbolismo e interpretazione” per meglio definire e spiegare la natura del
simbolo, lo distingue dal segno: il simbolo è indiretto, mentre il segno è diretto. I simboli sarebbero
quindi dei segni indiretti che vengono evocati per associazione.
Il simbolo è dunque molto più di un semplice segno, perché, oltre al significato, si appella
all’interpretazione (Chevalier).
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RAZZA
Il termine “razza” ha una storia relativamente recente. Lo si trova usato a partire dal Cinquecento
per indicare una discendenza.
L'etimologia è abbastanza incerta: probabilmente dal latino (gene)ratio. Ma solo nel secolo scorso
il termine ha assunto l'attuale significato: un gruppo umano caratterizzato da specificità sia
somatiche sia intellettuali e comportamentali che si suppongono fondate biologicamente e
trasmesse per via ereditaria.
La diffusione del termine razza fa dunque tutt'uno con quella delle dottrine razziste, che intorno alla
metà dell'Ottocento dominano il pensiero antropologico e vengono elaborate in Europa e negli Stati
Uniti. La più celebre di esse è probabilmente quella del francese conte de Gobineau, che nel 1856
pubblica il Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane. I punti cardine di questo testo, che godrà di
grande diffusione, possono esser così schematizzati:
- la biologizzazione o naturalizzazione di ogni tipo di differenza tra culture o civiltà umane
tutte le differenze riscontrabili nel mondo erano legate a differenze biologiche;
- l'affermazione di una gerarchia rigida fra le razze, che vede naturalmente ai vertici la
razza bianca;
- l'orrore per la mescolanza tra le razze.
Classificazioni Naturalistiche Dei Gruppi Umani – Al Centro La Bellezza
Fra gli altri, Linneo un secolo prima (1758) aveva proposto una tipologia di sub-specie umane, basata
essenzialmente sul colore della pelle ma in cui si confondevano tratti fisici, mentali, sociali e
culturali, pensata come una scala che conduceva dalle scimmie al "gradino più alto" dell'uomo
europeo. Arrivò a fare una gerarchia degli uomini, distinguendo delle sub-specie umane.
Ovviamente in quel periodo non c’era NESSUNA IPOTESI della relatività dei giudizi e dei criteri, il
centro era sempre l’uomo europeo, la razza bianca.
Con il termine “razza” ci si riferisce a un gruppo di persone che presumibilmente condivide
determinate caratteristiche biologiche. È un termine problematico perché usato
diversamente presso diversi gruppi umani e da persone diverse.
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ETNIA
Termine derivato dal greco ethnos, popolo, anche con il significato di stirpe, moltitudine, nazione.
S’intende generalmente per etnia un raggruppamento umano i cui componenti hanno
caratteristiche comuni di lingua, abitudini, tipologia fisica, avente una certa continuità e stabilità,
sebbene non necessariamente chiuso in confini rigidi.
Nell’800 e nel primo Novecento il termine “etnia” è mescolato ai concetti di razza, popolo,
nazione. Allora, questi termini venivano utilizzati come sinonimi;
Nel 1896 iniziò ad essere utilizzato quale termine che disegnava qualità culturali,
psicologiche e sociali di un popolo (quindi non morfologiche che andavano invece a
distinguere le razze). Si iniziò a differenziare l’aspetto morfologico che rimase alla razza, con
gli aspetti più culturali che rimasero legati all’etnia;
L’etnia poteva quindi includere individui di razze diverse riuniti per ragioni storiche ma non
andava confusa con la nazione che richiedeva una solidarietà maggiore.
Weber distingue nettamente tre entità: Razza - Etnia – Nazione
1) La RAZZA è fondata sulla comunità d’origine, ma da un punto di vista biologico;
2) L’ETNIA sulla credenza soggettiva in origini comuni, il sentire di far parte di una comunità
etnica deve essere presente in un individuo, c’è una conoscenza della lingua, delle tradizioni,
di pratiche, un sentirsi in una comunità etnica;
3) La NAZIONE si differenzia dalla seconda per una più intensa passione politica, un sentimento
politico che potrebbe non esserci nell’etnia o che potrebbe far sfociare dei conflitti anche
all’interno di singoli Stati-nazione.
I gruppi etnici sarebbero così per Weber “gruppi umani che nutrono una credenza soggettiva in una
comunità di origini, fondata su somiglianza di abitudini esteriori, costumi o di entrambi o sui ricordi
della colonizzazione e della migrazione, in modo che questa credenza diventa importante per la
propagazione dello spirito di comunità; non importa che una comunità di sangue esista o no
oggettivamente” (Weber, Economia e società, 1921). Il legame di sangue può esserci o no,
l’importante è che l’etnia sia sentita e dimostrabile, aldilà del tratto somatico.
RAZZA-ETNIA
Oggi, di fronte alla non chiarezza dell’utilizzo di questi termini, RAZZA ed ETNIA, si privilegia
quest’ultimo poiché non si basa su concetti genetici ed evoluzionistici e quindi non connota e non
posiziona su scale di valore gerarchicamente stabilite i diversi raggruppamenti umani.
Le etnie sono universalmente diffuse, ma anche mutevoli, sono cangianti in movimento. Non c’è
niente di più dinamico della cultura e della lingua, ed è ovvio che anche l’etnia è in movimento, così
come lo può essere il sentimento che una persona prova nei confronti di una comunità.
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MULTIETNICITÀ E INTERCULTURALITÀ
Multiculturale e interculturale sono due termini spesso usati come sinonimi, ma in realtà non sono
equivalenti, anzi fra i due esiste una differenza tale da connotare due approcci diametralmente
opposti verso la questione dell’integrazione degli immigrati e dei loro figli nel paese di approdo.
Questi due termini fanno riferimento al tipo di relazione e di interazione che questi gruppi hanno e
vanno a indicare situazioni diverse.
Multiculturale è quella comunità (nazionale, scolastica, sociale) in cui sono presenti più
popoli o etnie che tuttavia rimangono separati fra di loro, ognuno nella propria zona fisica e
culturale e che raramente entrano in contatto. È un contatto superficiale, non è un contatto
di scambio;
Interculturale definisce invece un contesto relazionale in cui i vari gruppi linguistici e culturali
stabiliscono fra di loro un costante rapporto dialettico di arricchimento reciproco fondato
sul mutuo rispetto, sull’interesse per ciò che l’altro rappresenta o può rappresentare. Questo
è un contatto che porta a uno scambio, a un confronto, all’incontro con l’altro. Spesso,
accanto a questo termine troviamo altri termini che vanno meglio a specificare che tipo di
interculturalità è presente in quel contesto. I livelli di relazione, di incontro, di scambio non
sono tutti uguali, possono essere diversi. Quando parliamo di interculturale facciamo
riferimento a una presenza contemporanea di persone di origine diverse e questa presenza
è una presenza dinamica, che si connota dallo scambio, dal confronto, dall’incontro.
“A ben guardare, le società multiculturali sottendono il forte etnocentrismo del gruppo dominante,
che propugnando l’omologazione al proprio modello, cerca di assimilare le differenze, fino a
cancellare o almeno rendere invisibile ogni manifestazione di alterità. In questo caso il contatto fra
le varie etnie spesso si risolve in conflitto piuttosto che in dialogo perché in un gruppo emerge il
desiderio di non soccombere culturalmente e questo può essere manipolato da leaders carismatici e
senza scrupoli, pronti a sfruttare la rabbia e la frustrazione che serpeggiano nella comunità, per scopi
tutt’altro che leciti”.
Quando parliamo di multiculturalità, la domanda che ci facciamo è se c’è un atteggiamento
etnocentrico e da parte di chi c’è. È facile che si richieda alle persone di origine altra rispetto a quella
della maggioranza un percorso di assimilazione, di adozione di quei comportamenti, di quelle
pratiche, delle norme, fino ad arrivare sul piano ontologico a volte, degli elementi della cultura
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COMPETENZA COMUNICATIVA
Per competenza comunicativa si intende l’insieme delle presupposizioni reciproche, delle
conoscenze e delle regole che rendono possibile uno scambio comunicativo (Zuanelli Sonino, 1981).
Questa competenza permette di scambiare messaggi e di possedere le capacità per comprenderli.
Tale competenza presuppone delle abilità. Nella competenza comunicativa non c’è solo quella
dell’emettere, ma anche quella del comprendere e del ricevere.
Abilità:
- Competenza linguistica
- Competenza paralinguistica capacità di variare alcune caratteristiche del parlato come
il tono, la cadenza della pronuncia, la capacità di intercalare risate, esclamazioni, pause,
sospiri.
- Competenza cinesica capacità di usare in maniera pertinente il linguaggio non verbale
dei gesti e dei movimenti corporei.
- Competenza prossemica capacità di utilizzare appropriatamente lo spazio e le
distanze spaziali.
- Competenza performativa capacità di usare un atto linguistico per raggiungere lo
scopo della comunicazione.
- Competenza pragmatica capacità di usare il linguaggio in modo efficace in modo
contestualmente appropriato.
- Competenza socioculturale combinazione di conoscenza dello stato, delle
caratteristiche uniche del comportamento nazionale e del linguaggio dei suoi cittadini.
(Zani, 1998)
Nell’interazione quotidiana con persone che arrivano da mondi altri, queste abilità ci servono, ci
servono anche nella vita di tutti i gironi per non cadere in errori legati a una comunicazione non
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Alla fine degli anni Novanta in Italia, ma già da tempo altrove, le prospettive sono diverse e sono
modificate alla luce dei cambiamenti globali che hanno investito tutte le comunità umane, in
particolare alla questione legata ai movimenti delle persone e alla facilità e velocità delle
comunicazioni.
Se studio francese, devo studiare tutti i valori e la cultura dietro a quella lingua per poter diventare
un buon professionista nella relazione comunicativa con le persone di questo mondo. Alla fine degli
anni ’90, si studia l’inglese non più per parlare con i sudditi di sua maestà, ma in una logica ELF,
English as a Lingua Franca quindi la dimensione interculturale non è più uno-a-uno, cioè ad
esempio un italiano che interagisce con un francese e quindi deve conosce la cultura di quel popolo,
ma è uno-a-x, in cui l’incognita x include il turista brasiliano come il venditore cinese, l’oligarca russo
come lo studente finlandese.
Oggi la lingua che apprendiamo ci aiuta ad entrare in contatto non solo con persone madrelingua di
quella lingua, ma anche con coloro che non sono madrelingua, che conoscono quella lingua e che
con noi condividono solo quel codice linguistico.
Es: un italiano e un russo si incontrano, possono decidere di parlare inglese, francese o una terza
lingua che entrambi conoscono in termini base. Quindi la lingua diventa strumento di contatto solo
come veicolo di comunicazione di base, che però non ci serve per comprendere in maniera
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IL SAPERE LA LINGUA
Lo schema si legge come segue: la competenza comunicativa è una realtà mentale che si realizza
come esecuzione nel mondo;
a. nella mente ci sono tre nuclei di competenze che costituiscono il sapere la lingua:
• – la competenza linguistica, cioè la capacità di comprendere e produrre enunciati ben
formati dal punto di vista fonologico, morfosintattico, testuale, lessicale-semantico;
• – le competenze extralinguistiche, cioè la capacità di comprendere e produrre espressioni e
gesti del corpo (competenza cinesica), di valutare l’impatto comunicativo della distanza
interpersonale (competenza prossemica), di usare e riconoscere il valore comunicativo degli
oggetti e del vestiario (competenza oggettemica);
• – il nucleo delle competenze contestuali relative alla lingua in uso: la competenza
sociolinguistica, quella pragmalinguistica e quella (inter)culturale;
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COMPETENZA LINGUISTICA Problemi interculturali legati alla lingua che dobbiamo conoscere e
affrontare:
• Problemi legati a suono della lingua, al tono: si differenziano tantissimo rispetto alle diverse
aree geografiche;
• Problemi legati alla scelta delle parole e degli argomenti: ci sono dei temi tabù o delle parole
che è meglio non utilizzare in determinati contesti (parole e temi tabù sono tutti
culturalmente connotati);
• Problemi legati ad alcuni aspetti grammaticali: rispetto al LEI, al VOI;
• Problemi legati alla struttura del testo
• Problemi di natura sociolinguistica
• Problemi pragmatici: le mosse comunicative
COMPETENZE EXTRA-LINGUISTICHE Problemi legati ai linguaggi non verbali (il non verbale non
è universale, è culturalmente connotato):
• a. La cinesica: comunicare con il corpo
- la testa, il viso
- le braccia, le gambe
- postura
- odori e rumori del corpo
- altro
• b. La prossemica: la distanza tra corpi come forma di comunicazione
• c. L’oggettemica: comunicare con oggetti
- i vestiti, l’abbigliamento, le uniformi
- gli status symbol
- il denaro
- il cibo, le bevande
- altro
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Sono abilità relazionali specifiche a quella che viene chiamata “competenza comunicativa
interculturale” e vengono collocate nella freccia bidirezionale nello schema Balboni e Caon che
mette in comunicazione la parte mente e la parte mondo.
Tutte queste abilità sono legate alle soft-skills (caratteristiche personali, relazionali) che non si
apprendono, ma si possono allenare. Per allenarle, dobbiamo sapere che possiamo essere disturbati
da queste cose e che in maniera naturale possiamo reagire a queste cose, gestire queste situazioni.
Esprimersi in una determinata lingua ha una correlazione con la cultura e l’identità inseparabile, già
il nome dato all’individuo al momento della nascita, tramite il quale verrà conosciuto e riconosciuto
dalla collettività, segna l’inizio del percorso dell’essere umano all’interno della lingua e del suo
patrimonio culturale genetico (processo di inculturazione).
Un determinato bagaglio linguistico contiene una serie infinita di sfaccettature della cultura di
riferimento che in età pre-adulta si trasferiscono e si imprimono nei soggetti tramite la quotidianità
della parola, un esempio sono i valori che vengono tramandati attraverso i modi di dire ed i proverbi.
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IL CASO MAZDA
Nel 1999 la nota casa automobilistica giapponese Mazda introdusse nel mercato mondiale il SUV
“Mazda Laputa”, senza considerare che nei paesi di lingua spagnola “puta” è un termine volgare di
cui tutti conosciamo il significato.
La realtà è che, per dare un nome al nuovo prodotto, i giapponesi si erano ispirati al luogo
immaginario del romanzo I viaggi di Gulliver di J. Swift, ovvero l’isola volante di Laputa. Tuttavia,
non mancarono commenti sarcastici che ancora oggi Mazda si trascina dietro (nonostante il ritiro
dal commercio del SUV Laputa già nel 2006). La reputazione era ormai persa. Anche per coloro che
non conoscono lo spagnolo, la cultura pop ha reso conosciuta questa parola in tutto il mondo, anche
grazie al successo di alcune serie TV, tra cui Narcos e La casa di Carta.
IL CASO AUDI
Il caso Audi è un caso ben riuscito di comunicazione interculturale ottima. Audi, nota casa
automobilistica tedesca, per fare pubblicità online (in questo caso su Facebook) si avvale di diverse
pagine ufficiali dedicate ai principali paesi in cui opera. In ogni pagina sono presenti video e foto
delle principali città o luoghi del paese stesso, per creare un legame più forte con il target di
riferimento. Audi Deutschland è la pagina ufficiale per la Germania e alcune delle sue caratteristiche
sono esemplificative per descrivere il concetto di adattamento della strategia di comunicazione.
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DATTILOLOGIA
Il termine dattilologia, o alfabeto manuale, identifica la rappresentazione manuale delle lettere
dell'alfabeto, mediante il quale è possibile esprimere termini che non presentano un corrispettivo
diretto in lingua dei segni, così come di vocaboli stranieri, nomi propri o luoghi geografici.
Trattasi dunque di una rappresentazione grafemica della lingua, una sorta di spelling o di traduzione
lettera per lettera delle lingue vocali.
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Interrogative SOV + espressione facciale (domanda chiusa = sopracciglia verso l'alto, domanda
aperta = sopracciglia verso il basso)
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