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Michael Ryan, L.C.
TEOLOGIA PASTORALE
I. RYAN, Michael
1. Teologia pastorale
«Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che
manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato mi-
nistro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi di realizzare la sua parola, cioè il
mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, ai quali Dio volle
far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, spe-
ranza della gloria. È lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con
ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la for-
za che viene da lui e che agisce in me con potenza» (Col 1,24-29).
Siamo chiamati ad “agire” nella Chiesa e per la Chiesa, e questa azione è l’oggetto del presente
studio1. Come introduzione, ripassiamo alcuni degli elementi che esamineremo in queste pagi-
ne.
L’azione (Andate!) è, certamente, l’essenza della missione della Chiesa, ma questa azione deve
essere sempre intesa come qualcosa di “misterioso”, di “soprannaturale”. Deve essere in e con
Cristo, in e con la Chiesa, nella e dalla preghiera, sotto la guida dello Spirito Santo, in un clima
pasquale, sacrificale, cultuale ed eucaristico.
D’altra parte, l’azione della Chiesa è fattiva, pratica. Questo significa cercare di “modificare” la
situazione esistente e non conformarci ad essa. Questa è una nota caratteristica di chi è portatore
di un “messaggio”. A differenza di chi vuole trasmettere un mero insegnamento di contenuto
intellettuale o di una teoria, chi trasmette un messaggio sente l’urgente necessità di modificare
lo status quo. Questo spirito lo porterà a fare tutto il possibile nei limiti di ogni situazione con-
creta.
Come vedremo più avanti, oltre alla teologia pastorale esiste l’”arte” pastorale. Possiamo dire
che l’arte è un insieme di abilità che ci consente di far bene qualcosa. Più precisamente, il di-
zionario ci insegna che l’arte è un’ “attività umana basata sull’abilità individuale, sullo studio,
sull’esperienza e su un complesso specifico di regole” o, anche, “l’insieme delle regole e delle
conoscenze tecniche necessarie per compiere una determinata attività”2. Per imparare l’arte pa-
storale dobbiamo ricorrere sia alle qualità innate proprie, sia alle esperienze degli altri.
L’importanza di possedere quest’arte è palese: non basta lavorare, ma bisogna avere l’arte di
lavorare, lavorare bene con efficacia.
L’arte di lavorare suppone una serie di qualità. In primo luogo, dobbiamo menzionare la capa-
cità di prendere decisioni, che sono il cuore dell’azione. Ci sono molti che sono passivi, distratti
o timidi. Per evitare questi difetti, dovremo mettere da parte la timidezza, l’indecisione. La ca-
––––––––
1
Cfr. G. De Bretagne, Corsi di teologia pastorale, Queriniana, Brescia pp. 358-379.
2
De Mauro. Il dizionario della lingua italiana http://www.demauroparavia.it/
Teologia pastorale
pacità di prendere decisioni esige dimenticanza di noi stessi, volontà di assumersi rischi e re-
sponsabilità.
Un’altra qualità della persona efficace è quella di prestare attenzione ai risultati. Da una parte,
dobbiamo preoccuparci in modo fuorviante del successo, ma sì che si valutino continuamente
risultati e metodi. Lavorare senza controllare i risultati e senza esigere risultati non va bene, per-
ché, allora, l’attività procede in forma vaga, senza programmazione, senza impegno.
Nella vita reale siamo chiamati molte volte a prendere decisioni concrete, in situazioni molto
complesse. In quei momenti abbiamo bisogno della qualità della “prudenza”, che è l’abilità di
applicare le regole alla situazione concreta. Occorre memoria per ottimizzare il passato, intelli-
genza per analizzare i dati del presente, sagacia per acquisire l’informazione necessaria, docili-
tà per imparare da ciò che insegnano gli altri, capacità di previsione per disporre dei mezzi in
ordine al fine, circospezione per prendere in considerazione le circostanze, precauzione per evi-
tare problemi ed ostacoli. Per agire nelle situazioni particolarmente conflittuali, occorre buon
consiglio, giudizio sicuro ed equità. La prudenza è essenziale per governare se stessi, ma è an-
cor più importante per governare gli altri. Possiamo aggiungere anche che occorre l’arte di im-
parare dagli errori propri ed altrui!
Ecco cosa dice la Pastores dabo vobis su questa preparazione pratica e operativa.
«Lo studio della teologia pastorale deve illuminare l’applicazione operativa mediante la dedi-
zione ad alcuni servizi pastorali che i candidati al sacerdozio, con necessaria gradualità e sem-
pre in armonia con gli altri impegni formativi, devono assolvere: si tratta di “esperienze” pasto-
rali, che possono confluire in un vero e proprio “tirocinio pastorale”, che può durare anche per
diverso tempo e che chiede di essere verificato in maniera metodica» (Pastores dabo vobis, n.
57).
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Capitolo 1
L’AZIONE PASTORALE NELLA BIBBIA
L’obiettivo di questo capitolo è identificare le basi bibliche della teologia pastorale. Se la teolo-
gia è riflessione scientifica sui dati rivelati, domandiamoci, in primo luogo, cosa ci dice la Rive-
lazione sull’azione della Chiesa. Facciamo questa domanda per attivare la nostra fede nella pa-
rola di Gesù, perché solo così ci disponiamo a fare teologia, che è sempre la fede che riflette e
che cerca di comprendere. Questo è ciò che significa l’espressione: fides quaens intellectum. Il
non partire dal dato rivelato ci esporrebbe al rischio di pensare all’azione della Chiesa come se
questa fosse una mera istituzione umana, e come se la sua azione si misurasse coi criteri che si
applicano ad altre organizzazioni: numero di membri, potere, influenza, gradi di comando.
La Bibbia è piena di contenuto pastorale, e sarebbe impossibile esporlo tutto qui. Per questo,
invitiamo il lettore a fare una lettura personale della Bibbia, inforcando le lenti della teologia
pastorale, cioè domandandoci cosa ci dice Dio in riferimento alla nostra azione come cristiani.
Troverà una sorgente di luce per comprendere quel che è e deve essere l’azione della Chiesa. In
realtà, l’azione della Chiesa non è altro che la continuazione delle azioni (pastorali), di Dio stes-
so, prima nell’Antico Testamento e poi nel Nuovo. Di seguito offriamo semplicemente alcuni
spunti. Faremo attenzione solamente a quel che dice il Nuovo Testamento riguardo alla comu-
nità cristiana. L’importante è comprendere come la nostra azione pastorale fluisce dall’azione
di Gesù, come sua continuazione storica. Questa convinzione ci riempie di un senso di voca-
zione, di responsabilità, di consolazione interiore e di certezza. Per tutto questo è importante
che lo studente di teologia pastorale legga i riferimenti biblici con un spirito di preghiera e di
contemplazione. In questo modo, lo spirito di quelle parole passerà nel suo spirito di pastore e
di apostolo.
Incominciamo, dunque, col vedere come Gesù istruì i suoi discepoli circa i misteri del Regno
(Mt 13,10-17), e come insegnò loro il ministero della predicazione e della guarigione. Diede
loro anche il mandato di una missione universale (cfr Mt. 28,19-20), che includeva quelle che
oggi chiamiamo le tre funzioni pastorali: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni (mis-
sione profetica, che si suddivide in kerigmatica, catechetica e omiletica), battezzandole nel no-
me del Padre e del Figlio e dello Spirito santo (missione liturgica e sacramentale), insegnando
loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato (missione di governo delle anime e
dell’amministrazione dei beni spirituali e materiali). Questa missione è chiamata anche odegè-
tica, dalla parola greca “odeghèo”=“io guido”. Tutti i fedeli sono chiamati a partecipare a que-
sta missione. Come dicono i vescovi americani nella loro lettera pastorale sulla vocazione pa-
storale, dobbiamo ricevere con gratitudine i doni che Dio ci dà, coltivarli responsabilmente,
condividerli con gli altri con spirito di giustizia e restituirli a Dio colmi di frutti1.
Molto importante per l’azione pastorale è la solenne promessa che Gesù fece ai discepoli prima
––––––––
1
Cfr. USCB, Stewardship: A Disciple’s Response, 1992.
Teologia pastorale
di ascendere al cielo: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).
Inoltre, durante la sua vita diede loro molte istruzioni su come avrebbero dovuto compiere la
missione: istruzioni sul modo di esercitare l’autorità, di intendere la crescita del Regno. Non si
tratta di un trionfo temporaneo, e il successo temporaneo non è necessariamente un segno del
trionfo spirituale. Tra le azioni compiute da Gesù c’è la sua speciale scelta di Pietro, al quale dà
una missione speciale: quella di essere il garante dell’unità dell’azione della Chiesa nel tempo.
Negli scritti del Nuovo Testamento (specialmente gli Atti degli Apostoli), troviamo altre innu-
merevoli indicazioni sull’azione della Chiesa: il suo compito di evangelizzazione, la sua unità,
la sollecitudine della carità, l’insegnamento, la perseveranza nella preghiera, l’unione nella fra-
zione del pane (At 2,42). In poche parole: predicazione (Mt 10,7; At 6,2-4; 1Cor 1,17), liturgia
(1Cor 10,16-17; 1Cor 11,26; Mt 28,19; Gv 4,2; Col 2,12; Rm 6,1-11; At 8,17-19; Eb 6,2; At
6,6; 13,3; Ef 5,19-21; Col 3,16; Fil 2,5-11; 1Pt 1,18-21), e la sollecitudine della carità (Eb
13,17; Mc 10,43-45; At 20,24; Rm 11,13; 2Cor 1,24; 1Pt 5,2-3; At 6,14; Rm 12,7; 1Pt 4,11)2.
La parola “edificare” è usata molte volte nel Nuovo Testamento per significare l’azione della
Chiesa. È interessante vedere che la parola è usata frequentemente in un contesto polemico (cfr
Mt 25; Lc 20; At 4; 1Pt 2; At 7), come quando Gesù stesso dice: «Non avete forse letto questa
Scrittura: “La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è
stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri» (Mc 12,10-11). Su questa stessa linea, Gesù
afferma che edificherà la sua Chiesa su una roccia contro la quale non potranno prevalere le
forze dell’inferno. San Paolo, dal canto suo, insegna che dobbiamo stare attenti a come edifi-
chiamo e che, quanto al fondamento, «nessuno può porre un fondamento diverso da quello che
già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1Cor 3,10-11).
Tutto questo ci invita a guardare all’azione della Chiesa con occhi che vanno al di là delle appa-
renze, a comprendere che si tratta di un’azione soprannaturale, e che trova un’opposizione che
va oltre le forze naturali. In questo senso, l’Apocalisse è anche un trattato sull’azione della
Chiesa. Tutto ciò ci fa comprendere le parole di Cristo che ci invita ad un’azione caratterizzata
dalla dedizione più assoluta: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non so-
no venuto a portare pace, ma una spada» (Mt 10,34); «Nessuno che ha messo mano all’aratro e
poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio» (Lc 9,62); «Sii fedele fino alla morte e ti darò
la corona della vita» (Ap 2,10).
––––––––
2
Le citazioni sono prese da C. F. Floristan - M. Useros, Teología de la acción pastoral, BAC, Madrid,
1968, pp. 3-24.
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Capitolo 2
CHE COSA È LA TEOLOGIA PASTORALE?
Il termine “pastore” è stato usato nella Chiesa fin dai primi tempi, e designa la funzione degli
responsabili delle comunità. A partire dal Medioevo troviamo anche l’espressione ‘curato di
anime’ che significava praticamente la stessa cosa. L’espressione “teologia pastorale”, al con-
trario, ha una storia piuttosto recente, che c’è bisogno di studiare.
Nella storia di quest’ultima espressione troviamo una sequenza di teorie diverse, senza arrivare
ancora ad un’interpretazione che potremmo dire conclusiva. Ognuna delle teorie, tuttavia, col-
loca nella riflessione teologica alcuni elementi validi che vanno accumulandosi per fare una te-
ologia pastorale più o meno completa, o colma una lacuna che la versione precedente aveva1.
Così, per esempio, vediamo che, in un primo periodo, ci si accontentava di preparare i pastori
per l’amministrazione dei sacramenti. In una seconda fase, la teologia pastorale si ispirava ad
un orientamento più kerigmàtico, con un forte contenuto di proclamazione del messaggio della
Buona Novella. Nell’epoca immediatamente precedente al Concilio Vaticano II, si sottolineava
la dimensione universale della chiamata all’azione, mentre durante e dopo il Concilio si svilup-
pò la comprensione della dimensione storica e incarnata della Chiesa. La Pastores dabo vobis
(1994), al n. 57, raccoglie molto di questo sviluppo, ed è proprio da qui che vogliamo dare av-
vio al nostro studio.
Questo brano del documento si riferisce alla formazione dei seminaristi. Tuttavia, esso resta
valido per tutti noi operatori pastorali come, d’altra parte, per ogni cristiano, poiché siamo tutti
chiamati a partecipare alla missione della Chiesa. Leggiamo con attenzione il brano seguente.
«Si esige, dunque, [nella formazione pastorale] lo studio di una vera e propria disciplina teolo-
gica: la teologia pastorale o pratica, che è una riflessione scientifica sulla Chiesa nel suo edifi-
carsi quotidiano, con la forza dello Spirito, dentro la storia; sulla Chiesa, quindi, come “sacra-
mento universale di salvezza”, come segno e strumento vivo della salvezza di Gesù Cristo nella
Parola, nei Sacramenti e nel servizio della Carità.
stessa, secondo la felice espressione di san Beda il Venerabile: “Nam et Ecclesia quotidie gignit
Ecclesiam”. Tra questi principii e criteri si dà quello particolarmente importante del discerni-
mento evangelico della situazione socio-culturale ed ecclesiale entro cui si sviluppa l’azione
pastorale».
In questa citazione si possono apprezzare vari elementi importanti, che conviene sottolineare e
conservare:
a) la Chiesa vuole che i seminaristi ricevano una teologia pastorale che non si riduca alla comu-
nicazione di esperienze pratiche particolari, ma sia una vera scienza, cioè un insieme di principi
certi ed universali, che costituiscano la base di ciascuna delle attività concrete. Per esempio, non
dobbiamo accontentarci di ascoltare esperienze apostoliche pratiche di persone esperte. Questo
può essere molto utile e perfino necessario per la pratica pastorale, ma non costituisce la scien-
za pastorale.
b) Questa scienza deve essere teologica, cioè, ispirata a principi e criteri provenienti dalla fede,
dalla Parola di Dio, dalla Tradizione, dal Magistero. Non si tratta di interpretare in modo pura-
mente umano l’azione della Chiesa, i suoi successi e fallimenti, il suo futuro. Bisogna star atten-
ti a non ridurre la pastorale a uno studio sociologico, psicologico, statistico. Le scienze umane
possono aiutarci, possono dirci come stanno le cose nella Chiesa, ma non ci potranno mai dire
come devono essere le cose che si possono conoscere solo alla luce della Rivelazione.
c) Infine, la definizione sottolinea il ruolo speciale che deve svolgere il discernimento dei segni
dei tempi nella costruzione di questa scienza che è la teologia pastorale. Nell’ecclesiologia si
studia la Chiesa nella sua essenza (una, santa, cattolica, apostolica), ma nella teologia pastorale
si studia la Chiesa nel suo momento storico. Alcune domande pratiche possono servire a chia-
rirci quest’ultimo punto: cosa ci dice la Parola di Dio riguardo alla Chiesa che vive come mino-
ranza in un dato Paese? Quali sono i criteri fondamentali dell’azione della Chiesa in relazione
con la globalizzazione? Cosa si deve fare di fronte alla scarsità di vocazioni sacerdotali? Qui
non stiamo parlando dell’essenza della Chiesa, bensì della sua azione in un contesto storico
concreto.
Per concludere questo punto leggiamo il resto del testo al n. 57 e una parte del n. 58 della Pa-
stores dabo vobis, per cogliere la relazione che l’azione pastorale deve avere con lo spirito di
carità. Dice il documento:
«Ma lo studio e l’attività pastorali rimandano ad una sorgente interiore, che la formazione avrà
cura di custodire e di valorizzare: è la comunione sempre più profonda con la carità pastorale
di Gesù, la quale, come ha costituito il principio e la forza del suo agire salvifico, così, grazie
all’effusione dello Spirito Santo nel sacramento dell’Ordine, deve costituire il principio e la for-
za del ministero del presbitero. Si tratta di una formazione destinata non soltanto ad assicurare
una competenza pastorale scientifica e un’abilità operativa, ma anche e soprattutto a garantire la
crescita di un modo di essere in comunione con i medesimi sentimenti e comportamenti di Cri-
sto, buon Pastore: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Flp 2,5).
(…)
10
Cap. 2 - Che cosa è la teologia pastorale?
«n. 58. Così intesa, la formazione pastorale non può certo ridursi ad un semplice apprendistato,
rivolto a familiarizzarsi con qualche tecnica pastorale. La proposta educativa del seminario si fa
carico di una vera e propria iniziazione alla sensibilità del pastore, all’assunzione consapevole e
matura delle sue responsabilità, all’abitudine interiore di valutare i problemi e di stabilire le
priorità e i mezzi di soluzione, sempre in base a limpide motivazioni di fede e secondo le esi-
genze teologiche della pastorale stessa.
«Attraverso l’iniziale e graduale sperimentazione nel ministero, i futuri sacerdoti potranno esse-
re inseriti nella viva tradizione pastorale della loro Chiesa particolare, impareranno ad aprire
l’orizzonte della loro mente e del loro cuore alla dimensione missionaria della vita ecclesiale, si
eserciteranno in alcune prime forme di collaborazione tra loro e con i presbiteri accanto ai quali
saranno mandati. A questi ultimi compete, in collegamento con la proposta del seminario, una
responsabilità educativa pastorale di non poca importanza».
I cristiani hanno sempre meditato sull’agire dalla Chiesa, e lo vediamo perfino negli Atti degli
Apostoli, quando si pone il problema delle vedove, dando così origine all’istituzione del diaco-
nato (Cfr. Atti 6,1-6); lo vediamo anche nel Concilio di Gerusalemme, quando si decidono le
misure da prendere riguardo al battesimo dei giudei e dei pagani, così come riguardo alla distri-
buzione dei territori di missione (Cfr. Atti, 15,6). I documenti pastorali dei primi secoli (la Di-
dachè, Pastore d’Erme) sono pure riflessioni importanti sull’agire dalla Chiesa. Ma questa ri-
flessione non veniva fatta in maniera sistematica, e non si riteneva che tale riflessione dovesse
far parte del curriculum di studio di un candidato al sacerdozio. Questa comprensione si fece
strada relativamente tardi.
a) Prima tappa
Possiamo dire che questa maniera moderna di pensare della teologia pastorale ebbe inizio a
partire dal Concilio di Trento (1545), quando nella Chiesa si rinnovò la preoccupazione per la
vita e il ministero dei vescovi e dei sacerdoti. Sembra che il termine stesso di “teologia pastora-
le” fu usato per la prima volta da san Pietro Canisio (1521-1597), e il primo libro che fu scritto
con questo titolo fu stampato nel 1591. Fu l’Enchiridion theologiae pastoralis di Pietro Bin-
sfeld, vescovo ausiliare di Treviri2. A partire da quel momento vennero pubblicati vari catechi-
smi di carattere pratico come, per esempio, il Manuale parrochorum di Ludwig Engel (1661),
ed il Pastor bonus di Johannes Opstraet (1651-1720).
Quei libri avevano come obiettivo quello di aiutare i sacerdoti nel loro ministero, ma ancora
non incarnavano completamente quello che oggi l’espressione “teologia pastorale” vuol signi-
ficare in quanto disciplina specifica all’interno degli studi ecclesiastici. Questa concezione nac-
––––––––
2
C. Floristan - M. Useros, Teología de la Acción Pastoral, BAC, Madrid 1968, p. 79.
11
Teologia pastorale
que nel 1777 e, a partire da quel momento, andò maturando per gradi fino ai giorni nostri. Ogni
tappa presentava novità importanti, frutto dello sviluppo delle altre parti della teologia, special-
mente degli studi biblici e dell’eclesiologia.
Percorriamo ora quelle stesse tappe, tentando di raccogliere gli elementi validi di ognuna di es-
se. Conosceremo così la storia di questa disciplina e, allo stesso tempo, possiamo farci un’idea
complessiva di quello che dovrebbe essere la teologia pastorale. Questa è la cosa più importan-
te: formare la nostra propria capacità di riflettere sull’attività della Chiesa nel posto e nel mo-
mento in cui ci troviamo. Questa è una necessità che nasce dalla stessa missione che abbiamo
ricevuto da Cristo, e il farlo con serietà deve essere un’espressione del nostro amore per la
Chiesa e del nostro spirito di responsabilità. Se Socrate diceva che una vita non “riflettuta” non
valeva la pena di esser vissuta, a maggior ragione possiamo dirlo della vita nella Chiesa, perché
la Chiesa è per essenza azione, costruzione del Regno di Dio nel tempo.
La teologia pastorale appare per la prima volta come disciplina teologica, cioè parte integrante
degli studi ecclesiastici, a partire dalla riforma educativa introdotta dall’imperatrice Maria Tere-
sa d’Austria con il decreto del 3 ottobre 1777. Questa riforma fu ideata con l’aiuto dell’abate
benedettino Stefan Rautenstrauch (1734-1785). Rautenstrauch voleva superare la dimensione
eccessivamente pragmatica della preparazione pastorale dei sacerdoti e la dimensione eccessi-
vamente polemica della teologia del suo tempo, che spesso si soffermava a discutere di temati-
che marginali. Nella sua riforma, Rautenstrauch riuniva in un solo trattato tutti gli ambiti
dell’attività del sacerdote e non solo quello della confessione, come accadeva in molti dei ma-
nuali precedenti. La teologia pastorale era definita come quella parte della teologia che insegna
l’uso della teoria teologica nel e per il curato di anime3.
Questo inserimento della teologia pastorale negli studi diede origine ad una serie di manuali sul
tema. Questi libri di testo erano tipicamente divisi in tre parti: l’insegnamento,
l’amministrazione dei sacramenti e il governo della Chiesa. Coincidevano in gran parte coi
manuali precedenti e la loro preoccupazione principale era fissata sui doveri e sulle funzioni dei
sacerdoti, principalmente dei parroci.
Quale giudizio possiamo fare di questa tappa? Anche se questi libri furono di grande aiuto nella
preparazione pedagogico-pratica del clero, tuttavia, alla luce di una teologia più completa della
Chiesa, ci rendiamo conto delle loro manchevolezze. Esprimevano una pastorale incentrata su
una sola parte della Chiesa, il clero. Inoltre, tendevano a preparare sacerdoti-funzionari e non
sacerdoti animati di una mistica di vocazione, di missione. Certamente un manuale che ci aiuta
a sapere come fare le cose, come amministrare un sacramento e quali siano i requisiti canonici
––––––––
3
Questa innovazione introdotta da Rautenstrauch fu criticata da alcuni dei suoi contemporanei, che sospettavano che
con la riforma fossero mescolati alcuni interessi politici. Tuttavia, quello che qui c’interessa è registrare questa innova-
zione come una tappa importante nella configurazione della teologia pastorale quale disciplina propriamente detta.
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Cap. 2 - Che cosa è la teologia pastorale?
esatti di una pratica religiosa è una cosa buona ma, in se stesso, è insufficiente. Tale pratica o
“tecnica” pastorale deve essere accompagnata da uno spirito e da un’anima. Questo spirito e
questa anima sono costituite dai contenuti spirituali racchiusi nei riti e nelle azioni che realiz-
ziamo. Non basta il come, è necessario avere anche il che cosa.
Benché quell’epoca, con le sue imperfezioni, sia ormai passata, non dobbiamo mai dimenticare
il reale pericolo al quale ogni operatore pastorale è sempre esposto: quello di ridurre il proprio
lavoro alle funzioni che realizza, e di lavorare come un burocrate, nell’accezione negativa di
questo termine, cioè come una persona che svolge una funzione senza uscire dalla comodità dei
propri orari, senza vera passione per la missione e senza vivere la dimensione interiore che ogni
opera apostolica e pastorale ha quando è vissuta alla luce del mistero di Cristo.
La prima tappa della teologia pastorale ebbe la sua espressione in ciò che abbiamo chiamato
manualistica e che poneva enfasi sulle funzioni del sacerdote. Ma alla fine del XIX secolo ci fu
una salutare reazione contro questa maniera di vedere l’azione ecclesiale, e nacque così una
teologia pastorale ispirata ad elementi più dinamici e più spirituali, quali la Bibbia, la dimensio-
ne kerigmatica della predicazione, il concetto di storia della salvezza, la visione del Cristiane-
simo come evento. Con l’aiuto di questi elementi il sacerdote non è visto più come un funzio-
nario, bensì come un chiamato, come un uomo con una vocazione. Dicono Floristan e Useros
di questa tappa: “L’accento antropocentrico della tappa precedente viene corretto da una visio-
ne biblica. Si riflette sul pastore e non sul funzionario, poiché si parte dall’opera redentrice di
Cristo e della sua Chiesa invece che dalle esigenze delle istituzioni statali”4. Vari elementi della
teologia dogmatica svolsero un ruolo importante in questo rinnovamento della teologia pastora-
le, tra i quali occorre menzionare in modo speciale la riscoperta e lo studio del tema del Regno
di Dio. Questo studio fu compiuto nelle due nuove università della città di Tübinga: una cattoli-
ca e l’altra protestante. Inoltre, bisogna anche ricordare l’insegnamento di Johann Michael Sai-
ler (1751-1832), vescovo di Ratisbona (Regensburg).
Con l’aiuto di questi elementi, la teologia pastorale si arricchì di alcuni concetti essenziali che
non dovevano mancare in una corretta visione dell’azione pastorale. Si approfondiva via via,
inoltre, il mistero della Chiesa che vive nel tempo e che è essenzialmente missione. Ecco come
Floristán e Useros commentano l’influenza di Sailer su quest’epoca:
“Sailer, nell’epoca del tradizionalismo francese e del romanticismo tedesco, cerca un cristiane-
simo vivente ed una predicazione autentica. Riflette sul contenuto biblico e kerigmatico della
predicazione e attacca una pastorale razionalista, moralista ed utilitaria. Studia la Scrittura come
fonte della pastorale, basata su questa idea centrale: ‘Dio in Cristo, salute del mondo invaso dal
peccato’. Fa gravitare il centro della pastorale sulla proclamazione della fede. La sua preoccu-
––––––––
4
C. Floristan - M. Useros, op. cit., p. 82 (ns. trad.).
13
Teologia pastorale
pazione, con una disattenzione per la liturgia, si rivolge alla predicazione e alla catechesi. Dal
problema pedagogico del come Sailer passa all’osservazione del che cosa o contenuto
kerigmatico. Dopo l’insistenza sulla Scrittura, Sailer si basa anche sulla storia. Per meglio dire,
scopre la linea storico-salvifica che va dalla Genesi all’Apocalisse. Il cristiano è per lui evento,
storia di salvezza. Attacca la sterile speculazione della scolastica del suo tempo e distingue chia-
ramente tra vangelo e scolastica, tra l’annuncio della parola e la teologia di mestiere”5.
Verso la metà del XIX secolo gli ecclesiologi dell’epoca e, in particolare, Antón Graf 6, Johann
Adam Möhler (1796-1838) e Matthias Josef Scheeben (1835-1888) arricchirono la teologia
pastorale con un nuovo concetto della Chiesa intesa come presenza dinamica nella storia e por-
tatrice dell’azione salvifica di Dio. M. Midali spiega come, con l’aiuto di questi teologi, la
Chiesa prese coscienza di essere protagonista del suo proprio sviluppo e di dover definire la
propria missione come un “piantare, mantenere, realizzare e portare a compimento in tutti gli
uomini, con l’aiuto di Dio, la fede attiva nell’amore, cioè l’appropriazione soggettiva del cri-
stianesimo”7. Sempre secondo questi autori, la Chiesa per il suo sviluppo non doveva dipende-
re da interventi esterni come, per esempio, l’aiuto dello Stato, né da una erronea fiducia nella
Provvidenza tendente a ritenere che non fosse necessario impegnarsi, perché comunque la
Provvidenza stessa alla fine verrà per supplire a quel che non è stato fatto e per portare la Chie-
sa alla sua pienezza in maniera miracolosa. Se così fosse, mancherebbe il motivo per impe-
gnarsi.
L’apporto importante di questa tappa dello sviluppo della teologia pastorale stette
nell’insistenza di questi teologi sul fatto che tutti siamo responsabili dello sviluppo della Chiesa.
Essi davano risalto al fatto che la teologia pastorale, riflessione sull’azione della Chiesa, non
doveva essere una teologia clericale, con un accento eccessivo posto sul “pastore”, ma doveva
tenere conto della Chiesa intera. Per questo, Antón Graf cominciò ad usare il termine di “teolo-
gia pratica” invece di “teologia pastorale” per poter includere così tutti gli attori dell’azione
ecclesiale. In questa prospettiva definiva la teologia pastorale come la riflessione scientifica che
la Chiesa fa sulla costruzione e l’edificazione di se stessa. Guarda al futuro, e si colloca accanto
alla storia, che ci parla della Chiesa nel passato, e accanto alla dogmatica, che ci parla di quella
che è la sua essenza presente ed attuale.
Nonostante queste nuove intuizioni di Antón Graf sul coinvolgimento di tutti nella costruzione
della Chiesa, la teologia pastorale non si sviluppò immediatamente su quella linea, ma proseguì
ancora, fino all’inizio del XX secolo, con un’impostazione canonica che faceva dipendere la
––––––––
5
Ibidem, p. 81.
6
Cfr. Presentazione critica dell’attuale situazione della teologia pratica (1841); Manuale di teologia pratica (1841).
7
M. Midali, Teologia pastorale o pratica. Tomo 1: Cammino strorico di una riflessione fondante e scientifica, Las-
Roma 1991 (2a Edizione), p. 33. Per approfondire ulteriormente la teologia di Graf si possono leggere anche le pagine
successive: 37-40.
14
Cap. 2 - Che cosa è la teologia pastorale?
pastorale dal diritto e non, come in Graf, dall’ecclesiologia8. Si continuò ad usare il nome di
teologia pastorale (invece che di teologia pratica), ed in molti manuali si concentrava
l’attenzione sulle rubriche, sulle leggi canoniche, sulla cura delle anime e sulla direzione spiri-
tuale. Con l’insistenza su questi ultimi due concetti, la teologia pastorale assunse frequentemen-
te anche un carattere un po’ individualista. Un protagonista di questa tendenza conservatrice fu
Joseph Amberger (1816-1889).
Vari teologi intervennero negli anni antecedenti il Concilio per preparare la via e per dare alla
teologia pastorale la fisionomia che ha oggi. Tra gli altri occorre menzionare Constantin Nop-
pel, Franz Xavier Arnold, P. A. Liégé e Karl Rahner. Con Noppel (Aedificatio Corporis Chir-
sti, 1937) si attualizzò quella dimensione ecclesiale totale della teologia pastorale, che era anda-
ta perduta per alcuni anni. Arnold, da parte sua, definì la teologia pastorale come la riflessione
scientifica sulle forme di attuazione che Cristo volle per la sua Chiesa (parola, sacramenti, a-
zione) e, vedendo che tutti sono membri della Chiesa, insistette affinché tutti fossero considerati
come attori. Arnold fonde questa visione sulla sua cristologia e sull’Incarnazione: Dio fatto
uomo, azione di Dio nella storia. Il P. Liégé fa progredire ulteriormente la riflessione sulla di-
sciplina teologica della pastorale, sottolineando che la Chiesa nella predicazione, nei sacramenti
e nella promozione della santità svolge queste mansioni in nome di Cristo che continua ad agi-
re nella sua opera. Nel definire la teologia pastorale, Liégé torna a sottolineare il carattere
scientifico, il carattere teologico ed il carattere critico e storico della disciplina in questione.
L’azione, intesa nel senso di Blondel è la sintesi dell’essere, del volere e del pensare. L’azione
della Chiesa è lo spazio in cui si realizza il mistero, è il manifestarsi oggi del sacramento della
salvezza, è il posto della potenziale comprensione di tutto il mistero ecclesiale9.
Il lettore può apprezzare l’insistenza sulla storia in queste espressioni. Quel che potrebbe sem-
brare transitorio, poco importante, cioè la storia, acquista qui una densità e un peso determinan-
ti. Siamo già molto lontani dall’accontentarci di una semplice definizione delle funzioni del sa-
cerdote. La teologia approfondiva sempre di più la ricchezza interiore dell’azione della Chiesa,
fondandola sui tre ministeri di Cristo (profetico, liturgico e caritativo) e strutturandola alla luce
di due principi fondamentali (cristologico ed ecclesiologico). La teologia pastorale successiva
ha mantenuto essenzialmente questo stesso schema.
K. Rahner aggiunse a questa feconda linea di riflessione un ulteriore concetto: la necessità che
la Chiesa, nell’agire, legga ed interpreti i segni dei tempi o, in altre parole, interpreti teologica-
mente alla luce della Parola di Dio il contesto storico nel quale le è dato di vivere, ed in mezzo
––––––––
8
Un discepolo di Graf, J. Amberger, pubblicò un manuale di teologia pastorale diviso in due parti: diritto canonico (la
Chiesa già fatta, conclusa) e teologia pastorale, definita come un’introduzione del pastore alla retta amministrazione del
suo ufficio (la Chiesa che serve i suoi fedeli). Così la dimensione dinamica andò perduta.
9
Cfr. Midali, Teologia pastorale o pratica, Tomo 1: Cammino strorico di una riflessione fondante e scientifica, Las-
Roma 1991 (2a Edizione), p. 211.
15
Teologia pastorale
al quale deve portare avanti la sua edificazione10. Rahner definisce l’oggetto della teologia mo-
rale con la formula “autorealizzazione della Chiesa nel suo oggi”, definizione che fu accolta nel
famoso Handbuch der Pastoraltheologie. Praaaktische Theologie der Kirche in ihrer Gegen-
wart (“Manuale di teologia pastorale. La teologia pratica della Chiesa nel suo presente”), edito
in 5 volumi da Arnold, Rahner ed altri negli anni 1964-196911. Vediamo questa proposta in
modo più dettagliato.
L’oggetto materiale della teologia pastorale è la vita della Chiesa nella sua totalità (non solo il
pastore) e l’oggetto formale è il momento presente, la realizzazione nell’”hic et nunc” in con-
formità al suo essere ed al suo dover essere. In altre parole, la teologia pastorale è una scienza
teologica che, “in base ad un’analisi scientifico-teologica della situazione concreta attuale della
Chiesa, sviluppa i principi secondo i quali la Chiesa attualizza la sua propria essenza in questa
determinata situazione e in tal modo realizza la sua propria opera di salvezza”12.
Con questa visione della pastorale la Chiesa può pianificare una vera strategia d’azione e non
cadere in mere azioni tattiche che, a volte, sono affrettate e convulse dinanzi alle sfide tremende
dei tempi moderni. Di fronte a queste speciali sfide che l’età contemporanea pone alla Chiesa,
di fronte alle possibili paure che tale mondo può suscitare nell’agente pastorale, Rahner vuol
sottolineare fortemente che la Chiesa non deve mai alienarsi o sganciarsi dalla storia reale nella
quale vive, che la sua stessa essenza le impone di stare nella storia con tutto ciò che questo
comporta in termini di sorprese, di contingente, di rischio, di incompiuto. Questa prospettiva
permette anche di avere una visione positiva del mondo, il quale è proprio l’oggetto della auto-
comunicazione amorosa di Dio e che la Chiesa è chiamata a servire.
Avendo affermato quanto sopra, l’Handbuch procede a spiegare meglio alcuni punti del meto-
do proposto.
In primo luogo si chiarisce come la Chiesa legge i segni dei tempi e come può essere sicura di
leggerli bene, cioè d’accordo con i principi teologici, ed in che cosa si differenzia questa cono-
scenza dalla conoscenza della scienza sociologica. L’Handbuch risponde spiegando che qui si
tratta di una conoscenza speciale, un sensus fidei che la Chiesa del suo proprio essere. Tale
concezione a partire dalla fede contiene molti elementi della conoscenza profana, ma è anche
basata sull’azione dello Spirito Santo ed è, pertanto, un conoscere teologico. Le scienze profane
saranno sempre parziali e non possono avere la visione del tutto. Tuttavia sono necessarie e
hanno perfino qualcosa di teologico. Sono necessarie, perché servono come provocazione e
––––––––
10
Cfr. http://theologytoday.ptsem.edu/jan1981/v37-4-article2.htm: Secondo Rahner, la teologia pastorale (o, meglio, la
teologia pratica) non è limitata alla azione del clero, ma si estende a tutto ciò che la Chiesa in quanto tale opera. La teo-
logia pratica pertanto è una disciplina a sé stante e costituisce una delle dimensioni essenziali di tutte le altre discipline
teologiche. Come disciplina a sé stante, la teologia pastorale tenta di comprendere la situazione attuale in cui si trova la
Chiesa e in relazione alla quale essa deve realizzarsi. Questo è molto differente da ciò che fanno la sociologia,
l’economia, la psicologia e l’antropologia culturale, perché esamina i dati di queste scienze dalla prospettiva ecclesiale e
di fede apportata in maniera critica dalla teologia (ns. trad.).
11
Midali offre uno studio dettagliato di questo Handbuch in, M. Midali, Teologia pastorale o pratica. Tomo 1: Cam-
mino strorico di una riflessione fondante e scientifica, Las-Roma 1991 (2a Edizione), pp. 157-177.
12
V. Grolla, L’agire della chiesa. Lineamenti di teologia pastorale, Messaggero, Padova 1995, p. 36. Si può vedere
l’uso di questa definizione nel Manuale di teologia pastorale (Handbuch der Pastoraltheologie).
16
Cap. 2 - Che cosa è la teologia pastorale?
sollecito alla coscienza del fedele; hanno qualcosa di teologico, perché sono come
un’intelligenza di quel che viene intuito per l’istinto della fede.
Un secondo punto spiega i passi di una metodologia per la teologia pastorale. Vengono segna-
lati tre passi:
1) la ricerca di alcuni principi teologici universali che orientino tutta l’azione di auto-
realizzazione della Chiesa.
2) una fase “critica”, che consiste nell’analisi socio-teologica della situazione attuale e
dell’azione della Chiesa nel momento presente. Questa critica (giudizio) deve essere fatta, co-
me la lettura dei segni, alla luce di una concezione teologica della Chiesa e non puramente pro-
fana. Ma deve essere “critica” e provocare riflessione. Ecco qui alcuni esempi del tipo di do-
mande che possono sorgere in questa fase: fino a che punto il modo attuale dell’organizzazione
ecclesiale è idoneo alla realizzazione della Chiesa? Fino a che punto il modo di esercitare
l’autorità aiuta od ostacola la causa ecumenica? È adeguato il modo di amministrare i sacra-
menti? Com’è la predicazione dei ministri? Com’è la catechesi? Come interagiscono i diversi
gruppi ecclesiali tra loro e con la parrocchia?, etc.
3) un momento normativo nel quale si determina come si può e come si deve operare affinché
l’azione della Chiesa si realizzi in maggior conformità con l’essenza della Chiesa. La Chiesa
deve compiere permanentemente questo processo, e questa revisione è l’espressione concreta
della sua condizione di semper reformanda.
17
Teologia pastorale
Il terzo punto di chiarimento si riferisce alla tematica della teologia pastorale. L’Handbuch la
organizza secondo i seguenti temi: (i) i soggetti dell’azione della Chiesa (tutti i cristiani, Papa,
vescovi, sacerdoti); (ii) le funzioni fondamentali (predicazione, liturgia, amministrazione dei
sacramenti, disciplina, servizio); (iii) gli aspetti sociali (relazione con la sociologia, modelli so-
ciali, processi di comunicazione); (iv) i presupposti antropologici (l’esistenziale soprannaturale,
la libertà, uomini-donne); (v) le strutture formali fondamentali (mediazione di salvezza, forme
di pietà cristiana, relazione tra élite e massa, comunicazione intraecclesiale, sussidiarietà, etc.).
Ognuno di questi elementi è vagliato alla luce della sua valenza rispetto al criterio fondamenta-
le della realizzazione totale del popolo di Dio.
Nonostante i meriti evidenti dell’Handbuch e del concetto di teologia pastorale che esso inse-
gnava, vari punti furono criticati dalla riflessione teologica successiva. Questa critica diceva che
non avevano carattere scientifico gli imperativi pastorali che derivavano dall’analisi storica. I-
noltre, si biasimava il modo di mettere in relazione la chiesa essenziale e la chiesa esistenziale
come con la formula di “auto-realizzazione della Chiesa”. A poco a poco nacquero allora nuo-
ve proposte di teologia pastorale, fondate questa volta su un principio cristologico più che ec-
clesiologico. In questa prospettiva ci si domanda: in che modo l’evento cristiano può diventare
attivo in maniera decisiva nella vita umana? Quali sono i modi in cui la comunità cristiana può
comunicare la fede all’uomo contemporaneo? Qui, il servizio della Chiesa è considerato come
proclamazione e come testimonianza di un incontro avvenuto. L’accento è posto su Cristo e la
Chiesa è vista come comunità di testimoni di Lui. Allo stesso modo della concezione preceden-
te, la pastorale deve affrontare la tensione che sempre esiste tra il futuro della promessa e
l’adattamento al presente, tra le norme e le novità. Bisogna adattare ed avere una mentalità a-
perta alla critica, perché Gesù, in quanto evento, apre il futuro assoluto della verità e mette in
discussione tutti i modelli esistenti14.
g) La pastorale nel Vaticano II.
Ritorniamo ora un momento al Concilio Vaticano II. Il termine ‘pastorale’ e la sua relazione
con la dogmatica fu oggetto di molta discussione, perché si trattava di assicurare/salvaguardare
un equilibrio opportuno tra l’essenza della Chiesa e la sua realizzazione nel momento presente.
Il risultato fu una gamma di riflessioni pastorale che M. Midali descrive con una serie di quali-
––––––––
pri inizi, i quali si chiariscono solo nel corso del tempo; il superamento dei propri inizi e, pertanto, l’emergere sempre del
nuovo; l’esperienza dell’imprevisto e del rischio che non sono eliminati dal fatto che si guarda all’essenza permanente
della Chiesa. In sintesi, la Chiesa si trova nella sua propria essenza concreta solo nella totalità della sua storia, intesa non
come un mero succedersi di avvenimenti, bensì come un ritrovare la sua propria essenza. In modo che ciò che caratte-
rizza la sua storicità non è il rimanere, ma il realizzarsi sempre di nuovo (cfr. M. Midali, p. 161).
14
Questa fu la prospettiva di H. Schuster nel suo scritto Die Praktische Theologie unter dem Anspruch der Sache Jesus
(p. 180). J. G. Goldbrunner recupera il principio dell’Incarnazione e lo propone come la strada migliore per superare una
tendenza orizzontalista della teologia pastorale. Ferdinand Klostermann (1907-1983) propone il principio della comuni-
tà come il punto di partenza. Partendo della comunità primitiva sottolinea un doppio aspetto: metanoia personale vissuta
sempre in comunità, dimensione misterica e dimensione umana, permanenza e aggiornamento continuo. La Chiesa è
estranea al mondo, ma anche a servizio dell’evangelizzazione dello stesso.
18
Cap. 2 - Che cosa è la teologia pastorale?
ficativi che indicano la complessità della presentazione conciliare. Le sue riflessioni sono di ti-
po dogmatico-pastorale, di tipo applicativo, di tipo deduttivo e, anche, induttivo; ci presenta,
infine, una riflessione di tipo progettuale e strategico come metodo basato nel vedere, giudicare
e agire15.
In conclusione, tra tutte queste sfumature cosa dice il Concilio riguardo alla ‘pastorale’? Il Con-
cilio parla dei tre uffici tradizionali (profeta, sacerdote e re) e sotto questa luce sviluppa la figu-
ra, le funzioni e le attività dei pastori. Il Concilio colloca questi uffici nell’insieme della Chiesa
secondo un’ecclesiologia rinnovata, che segna tutti i fedeli come soggetto dell’azione della
Chiesa, abbracciando le differenze essenziali nell’organicità della Chiesa. E, cosa dice riguardo
alla teologia pastorale? In diversi punti, il Concilio sottolinea il carattere pastorale di tutta la
teologia e di ognuno dei trattati (GS 44b; GS 62g; SC 16; OT 14-16). Fa, inoltre, riferimenti ai
diversi campi o settori della teologia pastorale (OT 19) e all’uso delle scienze umane (OT 20).
Il Concilio, pertanto, non intende offrire una teoria sulla teologia pastorale bensì, come dice
Midali, “il suo contributo innovatore sta nel modo in cui l’assemblea conciliare fa riflessione
teologico-pastorale, e non tanto nei pronunciamenti espliciti circa la teologia pastorale”16.
La teologia pastorale è considerata oggi una disciplina ancora aperta a nuove prospettive, e
molte questioni necessitano di ulteriori studi. Ecco qui due esempi di argomenti che ancora de-
vono essere maturati: la relazione tra l’unità e la molteplicità, tra la gerarchia e la comunione e,
in secondo luogo, la questione dell’equilibrio che occorre assicurare tra la teologia pastorale
deduttiva (applicazione di principi dottrinali alla pratica) e quella induttiva (interpretazione di
situazioni concrete e proiezione di mete pastorali). Gli anni del postconcilio diedero segni delle
possibili tensioni che possono nascere intorno a questi binomi.
In riassunto, dopo questo lungo e complesso percorso storico segnaliamo in modo indicativo
alcune linee fondamentali e caratterizzanti della teologia pastorale.
La teologia pastorale è una riflessione sull’azione della Chiesa nella sua storia concreta, che ab-
braccia tutti gli attori e non solo i pastori.
La teologia pastorale deve sforzarsi di essere una vera scienza e non limitarsi ad aspetti edifi-
canti e didattici.
In terzo luogo, deve avere una serie di principi permanenti unitamente ad un’apertura alle esi-
genze della storia.
Può usare nel suo lavoro entrambi i metodi: il metodo deduttivo-applicativo e il metodo indut-
tivo.
Infine, deve usare in maniera teologicamente sapiente le scienze umane.
La struttura della teologia pastorale può seguire più o meno i punti indicati di seguito:
––––––––
15
M. Midali, Teologia pastorale o pratica, Tomo 1: Cammino storico di una riflessione fondante e scientifica, Las-
Roma 1991 (2a Edizione), pp. 113-131.
16
M. Midali, Teologia pastorale o pratica, Tomo 1: Cammino storico di una riflessione fondante e
scientifica, Las-Roma 1991 (2a Edizione), p. 146.
19
Teologia pastorale
Nei libri di teologia pastorali troviamo diversi modi di organizzare la materia. Di seguito esa-
miniamo alcuni esempi.
20
Capitolo 3
CRITERIOLOGIA DELL’AZIONE PASTORALE
Abbiamo già visto che la teologia pastorale ha l’obiettivo di studiare la relazione tra la costru-
zione della Chiesa (oggetto materiale) e la situazione storica in cui vive (oggetto formale). si
tratta di collocare la Chiesa nella storia, poiché è qui che è chiamata ad edificarsi dai piani di
Dio. La relazione tra la teoria e la pratica che la teologia pastorale contempla non è una sempli-
ce ‘applicazione’ di contenuti fissi all’azione pastorale, bensì lo studio appassionato del farsi
stesso della Chiesa nel suo momento storico. È un coniugare la Chiesa esistenziale – che si e-
volve e cresce – con gli elementi fissi e necessari che la dottrina dogmatica ci sulla Chiesa es-
senziale. Per poter agire secondo la sua essenza, la Chiesa ha bisogno di alcuni principi chiari
che le servano da guida nella sua attuazione, e di questo si tratta nel presente capitolo. Questi
criteri indicano come la Chiesa può ottenere i migliori risultati secondo la volontà di Dio. È im-
portante dire “secondo la volontà di Dio’, perché, altrimenti, si corre il rischio di ridurre la pia-
nificazione dell’azione della Chiesa ad elementi puramente umani e, forse, di tentare di risolve-
re i suoi problemi con un corso di amministrazione di istituzioni. In fondo, per la teologia si
tratta di sapere come agire, certamente in maniera efficace, ma secondo quel che Dio ha pensa-
to per la sua Chiesa. Solo così è teologia.
Alcuni autori distinguono tra principi ed imperativi, considerando che i principi devono essere
pochi, mentre gli imperativi potrebbero essere molteplici e, in un certo senso, variabili secondo
tempi e luoghi. Senza ignorare la validità di questo ragionamento, noi non faremo qui questa
distinzione e presentiamo una lista di indicazioni che dovrebbero formare oggi l’anima interiore
della teologia pastorale, della teoria di azione della Chiesa1. Questa lista non vuol essere una
lista esaustiva, ma è nostra speranza che rappresenti i criteri più importanti, senza i quali diffi-
cilmente si potrebbe avere un’azione autenticamente ecclesiale. Qui parliamo di criteri per la
teologia pastorale generale. Successivamente, ogni settore della pastorale dovrebbe elaborare il
suo proprio elenco di criteri che si riferiscono più precisamente a ogni area specifica: pastorale
giovanile, pastorale sociale, pastorale della salute, etc.
––––––––
1
È sempre difficile descrivere il processo intellettuale per il quale da principi generali arriviamo
all’ultima decisione prudenziale nell’atto concreto. Alcuni spiegano il processo con la dottrina del
sillogismo. A volte un sillogismo può avere diversi livelli, con varie premesse minori. In questo caso le
premesse più generali potrebbero chiamarsi ‘principi’ e ‘imperativi’ le premesse più vicine all’azione.
Nella Dottrina Sociale della Chiesa si parla di principio e valori permanenti, criteri di giudizi ed
orientamenti per l’azione. Il metodo Vedere, Giudicare ed Agire pure è servito. Nel vedere si descrive
la situazione, nel giudicare si esprimono i principi e nell’agire si esprimono imperativi di azione più
concreti.
Teologia pastorale
1. Principio teocentrico
Si tratta di dare a Dio il posto che gli spetta nell’azione della Chiesa, collocando sempre questa
azione all’interno del disegno divino. Tutto è cominciato nel disegno di Dio (cfr. Ef 1,4-5,10),
perché è stato Lui a decidere di chiamare i credenti, è Lui che ha l’iniziativa più importante. Se
non tenessimo conto di questa iniziativa di Dio, faremmo del cristianesimo un umanesimo. La
pastorale deve sempre impegnarsi per non lasciarsi portare dal naturalismo, bensì per orientarsi
con la rivelazione (vangelo) e sentirsi all’interno di una storia di salvezza. In questo senso,
nell’azione pastorale bisogna rifuggire costantemente dal pelagianismo, che pone l’accento
sull’azione umana. Il cristianesimo non è in primo luogo la salita dell’uomo verso Dio (come si
fa in molte religioni), bensì la discesa di Dio verso l’uomo. In questo senso, si dice che è una
religione misterica e di salvezza.
La tentazione del naturalismo è molto grande nel nostro tempo. Con lo sviluppo delle scienze e
delle idee di libertà, individualità ed autonomia che ha caratterizzato la cultura moderna e post-
moderna, questa tentazione ha acquistato forza. Il naturalismo rappresenta una dimensione teo-
rico-pratica dello spirito umano, che si traduce in un richiudersi dell’uomo su se stesso e sul
mondo, voltando le spalle a Dio. L’inmanentismo materialista, il relativismo filosofico, il sog-
gettivismo morale, l’agnosticismo religioso sono le manifestazioni più eccellenti di questa di-
mensione naturalista, che va da certe espressioni imprecise ed equivoche fino alle posizioni e-
streme e chiaramente differenziate. Nel libro Dinamismo della fede e incredulità, J. Loew e
G.M.-M. Cottier lo sintetizzano così: “Sarebbe tuttavia errato vedere oggi in esso soltanto quel-
lo che è stato nel passato. Il suo incontro col progresso dell’éra tecnica l’ha come rivivificato e
metafmorfosato; ne ha tratto un dinamismo nuovo ed un estemo potere di seduzione”2.
La Chiesa non è aliena né esente dalle tentazioni che gli uomini soffrono. Come dice Paolo VI
nell’Ecclesiam suam, n. 24,: «È a tutti noto che la Chiesa è immersa nell’umanità, ne fa parte,
ne trae i suoi membri, ne deriva preziosi tesori di cultura, ne subisce le vicende storiche, ne fa-
vorisce le fortune». La tentazione del naturalismo ha molte manifestazioni che colpiscono la
nozione di santità, la morale, la solidità della fede, il sacerdozio, l’autorità, l’ordinamento cano-
nico e la disciplina della Chiesa, il dialogo con le altre religioni, l’amore e la fedeltà alla Chiesa
e al Papa, una visione orizzontale dell’apostolato.
Concludiamo questa sezione con un’altra citazione di Loew-Cottier, che esprime molto bene il
motivo per il quale ci siamo dilungati su questo principio, e che ci indica la strada giusta da in-
traprendere:
“Si parla molto, e con ragione, della necessità di un impegno temporale dei cristiani. Ma in real-
tà questa è per loro una vocazione secondaria, che presuppone la loro vocazione prima: voca-
zione di membri del Regno di Dio che non è di questo mondo. Per ispirare, di riflesso, l’attività
temporale e naturale, deve prima esistere, e con una certa densità, la grazia. Proprio per questo,
––––––––
2
Dinamismo della fede e incredulità, Morcellliana, Brescia 1965 (orig. fr. Dynamisme de la Foi et In-
croyance , Les éditions du Cerf, Paris 1963), p. 20.
22
Cap. 3 - Criteriologia dell’azione pastorale?
prima che essere «impegno» per uno scopo temporale, la vita cristiana è disimpegno, separa-
zione, al fine appunto di appartenere senza equivoci al Regno di Dio. L’irradiazione del tempo-
rale per mezzo della grazia è possibile solo come sovrabbondanza di una ricchezza. E
d’altronde solo nella misura in cui is mistero della grazia sarà vissuto con una certa pienezza, la
sua santità, ed essa sola, assicurerà la necessaria distinzione dei piani. Il pericolo che non è, o-
himé, chimerico, è quello di precipitarsi nell’impegno temporale come su di un alibi che di-
spensa da una vita al livello del soprannaturale, come se il uno tenesse il posto dell’altro”3.
2. Principio cristologico
La Chiesa realizza la sua opera nella storia radicata nell’Incarnazione, e tenendo conto delle e-
sigenze pasquali del mistero cristiano. Questo criterio ci porta a ricordare che ogni azione pasto-
rale deve essere teàndrica, allo stesso tempo divina e umana, e che questi due elementi non pos-
sono essere separati. Se prescindiamo dall’intervento di Dio in Cristo, arriviamo di nuovo ad
una pelagianismo pastorale; se prescindiamo dall’atto personale umano, ci imbattiamo in una
specie di docetismo apostolico, come se non importasse quel che succede nella storia.
Molte altre conseguenze procedono ancora da questo principio che ora enunciamo soltanto:
l’uomo come cammino della Chiesa (cfr. Redemptor hominis), l’accoglimento della legge della
croce e della resurrezione, l’autonomia delle realtà temporali. Per la Chiesa, quest’ultimo punto
è una sfida permanente, ma che assume un’importanza nuova a causa degli interrogativi che gli
eventi recenti suscitano riguardo alla relazione tra la religione ed il mondo politico sociale.
Come un’applicazione molto concreta, il criterio cristologico ci ricorda l’importanza della co-
municazione nella Chiesa: contenuti, conoscenza dell’interlocutore, mediazioni attraverso le
quali il messaggio viene trasmesso. In molti sondaggi si dà risalto alla comunicazione come la
prima e principale necessità della gente, ed è anche una lamentela frequente in ambiti ecclesiali:
da un apparato audio che non funziona fino alla scarsa lettura, dei documenti del Papa e dei ve-
scovi, da parte dei fedeli e, forse, anche dei pastori. La Chiesa è per essenza comunicazione e
non si insisterà mai abbastanza su questa dimensione in un’epoca nella quale i mezzi di comu-
nicazione sono tanto importanti.
3. Principio pneumatológico
Si tratta qui del luogo e dell’azione dello Spirito Santo nell’opera della Chiesa. È lo Spirito che
dà la vita e fa crescere il popolo di Dio. Lo Spirito è l’ambasciatore di un mondo definitivo e
mantiene la Chiesa in quella tensione tra quel che è già e quello che sarà. Lo Spirito è il fonda-
mento del nuovo popolo di Dio. È Lui che dona i carismi della gerarchia e di tutto il popolo.
Sebbene questi due aspetti dei carismi siano uniti ed agiscono congiuntamente, lo Spirito con-
serva sempre una libertà, e spesso questa libertà stimola e spinge alla Chiesa.
––––––––
3
Dinamismo della fede e incredulità, Morcellliana, Brescia 1965, p. 69-70.
23
Teologia pastorale
Un’altra applicazione attuale è la spiegazione che l’Enciclica fa del senso militante della vita
cristiana. Al n. 55 dice: «Purtroppo, risulta dalla storia della salvezza che quel farsi vicino e pre-
sente di Dio all’uomo e al mondo, quella mirabile “condiscendenza” dello Spirito incontra nella
nostra realtà umana resistenza ed opposizione». Partendo dall’intimo di ogni uomo questa resi-
stenza arriva a formare autentiche strutture ideologiche, filosofiche e programmi di azione e di
formazione dei comportamenti umani. È qui che nasce la lotta tra la Civiltà dall’amore – inau-
gurata dallo Spirito Santo nella Pentecoste – e la civiltà della morte. Di fronte a questi segni di
morte che si moltiplicano, la Chiesa ha il compito di infondere nella società la forza della sua
fede: «Lo Spirito di Dio (…) con mirabile provvidenza dirige il corso dei tempi e rinnova la
faccia della terra» (Gaudium et spes, n. 26).
24
Cap. 3 - Criteriologia dell’azione pastorale?
razzisti, le stesse tensioni interreligiose (…) un crescente affievolirsi della solidarietà inter-
personale (…) il tentativo di far prevalere un’antropologia senza Dio e senza Cristo. La cultura
europea dà l’impressione di una “apostasia silenziosa” da parte dell’uomo sazio che vive come
se Dio non esistesse»4.
4. Principio ecclesiologico
Nella Lumen Gentium troviamo la dottrina del Concilio sull’essenza della Chiesa. Non c’è
dubbio che resta ancora molto da fare per trarre da quella dottrina tutta la sua potenzialità, e far
sì che la Chiesa e le chiese corrispondano più pienamente a ciò che lì si dice: popolo di Dio,
partecipazione, comunione, etc. È quel che dice il Papa nell’enciclica Ut unum sint, indicando
la sua volontà di fare tutto il possibile per trovare i modi di esercitare l’autorità, affinché ri-
splenda al di sopra delle vicissitudini storiche quale segno di unità:
« Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel con-
statare l’aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la
domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinuncian-
do in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova. (…) Ri-
volgendomi al Patriarca ecumenico, Sua Santità Dimitrios I, ho detto di essere consapevole che
“per delle ragioni molto diverse, e contro la volontà degli uni e degli altri, ciò che doveva essere
un servizio ha potuto manifestarsi sotto una luce abbastanza diversa”. (…) Possiamo cercare,
evidentemente insieme, le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio di
amore riconosciuto dagli uni e dagli altri», (n. 95)5.
È un esempio di come non si deve avere paura di riconoscere in ogni modo i limiti di qualsiasi
forma storicamente condizionata della Chiesa6. Ma, d’altra parte, saranno l’amore e l’adesione
––––––––
4
Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa (28 giugno 2003), 7-8-9.
5
Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Ut Unum Sint (25 maggio 1995), 95.
6
In alcuni ambienti – specialmente dopo il Concilio – si è potuto notare un certo fastidio nel parlare di
questo problema. Mi pare che sia il caso delle parole di Floristán e Useros quando dicono, per esempio,
25
Teologia pastorale
alla Chiesa a portarci a fare questi giudizi nella maniera corretta. Noi non inventiamo la Chiesa,
i sacramenti. Li riceviamo. I santi sono stati i grandi riformatori e “modernizzatori” della Chie-
sa attraverso i secoli, ed essi ci danno un esempio luminoso di come si può combinare l’ascolto
delle novità che lo Spirito Santo suscita continuamente, l’amore per la Chiesa e l’obbedienza
alla sua gerarchia.
Cosa fare di fronte ai molti gruppi che chiedono “riforme” alla Chiesa7? Se ci atteniamo al cri-
terio ecclesiologico così come è stato applicato dall’attuale Papa e dai santi di tutti i tempi, po-
tremo giudicarli in carità e verità. Carità con le persone, verità con la sostanza della questione.
Così il nostro giudizio sarà sereno, senza creare divisioni immaginarie e stereotipate tra conser-
vatori e progressisti. Non bisogna aver paura delle riforme. Chi è contento di tutto non si muo-
ve, e questo non è necessariamente segno di fedeltà; può anche darsi che si tratti di inerzia. A
ciò si applica quanto detto da san Tommaso: camminare sulla via ci avvicina alla meta; correre,
ma fuori strada, ce ne allontana irrimediabilmente. Andare al passo con la Chiesa, né avanti né
indietro, deve essere la metodologia di una sana pastorale.
5. Principio storico-salvifico
Queste convinzioni ci impongono l’obbligo di prestare una speciale attenzione agli eventi stori-
ci. Ci obbliga a leggere “i segni dei tempi”. Ciò non è impresa facile, perché non è semplice
sapere come si intrecciano le due storie: quella profana e quella salvifica. Ma la Chiesa ha que-
sto speciale istinto, che le è concesso dallo Spirito Santo.
––––––––
a p. 121, che le nostre chiese locali dovrebbero essere meno statali e più basate sul popolo di Dio, meno
esageratamente naturali o spirituali e più teàndriche, meno disincarnate e più impegnate nel mondo con
segni rigorosamente cristiani, meno classiste e più aperte ai poveri. L’”istituzione Chiesa” è al servizio
del mistero di Cristo nelle anime. Non coincide in estensione con la salvezza, perché Dio può operare
nelle anime anche al di fuori della Chiesa (almeno senza intervento visibile della Chiesa). Per affronta-
re questi temi nella vita pratica la chiave è l’autentico spirito cattolico.
7
Ci sono molti gruppi nella Chiesa di oggi che lottano per cause che sono contrarie al Magistero in ma-
terie como l’ordinazione delle donne, l’omosessualità, la contraccezione, l’ammissione dei divorziati
risposati alla comunione, l’aborto. Alcuni dei più conosciuti sono: “We Are Church” (“Siamo Chiesa”);
“WOC: Women’s Ordination Conference” (“Conferenza per l’Ordinazione delle Donne”); “CSO: Ca-
tholics Speak Out” (“Cattolici che Parlano Apertamente”); “Call to Action” (“Chiamata all’Azione”);
“Association for the Rights of Catholics in the Church” (“Associazione per i Diritti dei Cattolici nella
Chiesa”); “CORPUS: Nacional Association for a Married Priesthood” (“Associazione Nazionale per il
Matrimonio dei Sacerdoti”); “Dignity/USA” (“Dignità USA”); “New Ways Ministry” (“Ministero dei
Nuovi Cammini”); “Priest for Equality” (“Sacerdoti per l’Uguaglianza”); “Pax Christi dello Stato del
Maine”; “Women Church Convergence” (“Convergenza delle Donne nella Chiesa”); “Catholics for a
Free Choice” o “CFFC” (“Cattolici per il Diritto a Decidere”); “Catholics Organizations for Renewal”
(“Organizzazioni Cattoliche per il Rinnovamento”).
26
Cap. 3 - Criteriologia dell’azione pastorale?
Questo principio illumina anche la relazione che deve regnare tra la Chiesa ed il mondo, tra la
missione di evangelizzare e la promozione umana. Partendo da quanto affermato nella Gau-
dium et spes, negli anni ‘70 la Chiesa ha sviluppato questa dottrina (cfr. Documento sulla giu-
stizia, nel Sinodo del ‘71; Sinodo del ‘74; Evangelii nuntiandi del ‘75), arrivando ad affermare
che l’azione per la promozione umana è una parte essenziale della sua missione (Giovanni Pao-
lo II, Puebla 1979). Questo avviene così, perché l’uomo realizza la sua salvezza eterna in que-
sto mondo, nelle condizioni sociali, politiche ed economiche contingenti. Per tutto questo la
Chiesa si impegna per instaurare una società degna dell’uomo, una civiltà dell’amore e della
giustizia che acceleri e non rallenti la storia pasquale. Qui le implicazioni pastorali sono im-
mense e si riferiscono all’impegno dei cristiani nel mondo, nelle strutture, in tutti gli ambiti
dell’attività umana. Si tratta, come dice J. Maritain, di creare “un certo regime comune tempo-
rale le cui strutture recano, su gradi e modi del resto molto variabili, l’impronta della concezio-
ne cristiana della vita: un regime temporale o di un’età di civiltà la cui forma animatrice sarebbe
cristiana”8.
Essendo la Chiesa una chiesa universale, la teologia pastorale deve orientare l’azione verso
questo valore universale. Da una parte, la cattolicità significa che ogni parte individuale reca i
suoi doni alle altre parti e a tutta la Chiesa. Così, la Chiesa intera e ciascuna delle parti si raffor-
zano mediante la comunicazione ed il lavoro comune (cfr. LG 13). D’altra parte, la comunità,
per non trasformarsi in un arcipelago di sette, deve avere sempre gli stessi criteri basilari nati
dalla Pasqua di Cristo. Questo non significa uniformità tout court tra le comunità particolari,
bensì, piuttosto, comunione all’interno di ogni comunità e di queste tra loro. A sua volta questo
presuppone sempre la collegialità, la corresponsabilità, l’apertura all’azione sorprendente dello
Spirito Santo, come insegna chiaramente il Vaticano II. Giovanni Paolo II ha espresso recen-
temente queste idee ad un gruppo di Vescovi del Brasile e ha spiegato alcune applicazioni pra-
tiche che ne derivano.
«Il Popolo di Dio si presenta come una comunità, nella misura in cui i suoi membri possiedono
e partecipano degli stessi “beni” che servono per identificarlo e distinguerlo dagli altri gruppi
sociali. San Paolo riassume i beni che concorrono a costituire il Popolo di Dio, proclamando
che per i seguaci di Cristo vi è “un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Ef 4, 5).
Tutti hanno il diritto di ricevere in modo unitario e omogeneo non solo la verità rivelata, ma an-
che il pensiero comune dell’Episcopato nazionale, attraverso le dichiarazioni fatte a nome della
Conferenza dei Vescovi. Faccio quindi appello al vostro senso di responsabilità per i pronun-
ciamenti fatti attraverso i mezzi di comunicazione sociale, in rappresentanza della stessa Confe-
renza. Il fatto che una comunicazione sia di totale responsabilità personale, conformemente a
quanto indicato dai vostri Statuti (cfr Cap. IV, art. 131), non esclude la coerenza dottrinale e la
fedeltà al Magistero della Chiesa […]»9.
––––––––
8
Umanesimo integrale, Borla, Torino 1967, p. 171.
9
Discorso di Giovanni Paolo II ai Vescovi della Conferenza Episcopale del Brasile in visita “ad limina
Apostolorum”, 7 febbraio 2003, n.5.
27
Teologia pastorale
Questo tema ci invita a fare anche una riflessione sulla relazione che deve esistere tra la pastora-
le e il diritto canonico. È noto che il diritto nella Chiesa deve essere inteso alla luce del mistero
rivelato, e che è concepito come servizio alle anime (salus animarum). Ma persiste in alcuni
l’idea che il diritto significhi legalismo e che, in pratica, coarti la libertà e la spontaneità dei figli
di Dio. Perciò si ritiene che, perché si tratta di “pastorale”, sia lecito passar sopra ed ignorare le
leggi della Chiesa.
Bisogna riflettere attentamente sulla relazione tra la pastorale e il diritto per comprendere come
siano due facce della stessa medaglia, e che non possono essere separate né, ancor meno, con-
trapposte. Un pastoralismo ad oltranza in realtà non è pastorale, perché va contro la salute delle
anime; una mentalità giuridica ad oltranza cadrebbe nell’abuso e fallirebbe nel suo obiettivo,
che è sempre il bene delle anime. Il vero senso pastorale tiene conto dei diritti oggettivi e il vero
senso giuridico tiene conto del principio di equità. Il Papa precisa anche questo aspetto nel suo
discorso ai vescovi brasiliani:
«Tale visione è certamente inadeguata, visto che, come ho già avuto occasione di dire, anche di
recente, le norme canoniche si basano su una realtà che le trascende e comprende aspetti essen-
ziali e permanenti nei quali si concretizza il diritto divino (cfr. Discorso al Pontificio Consiglio
per i Testi Legislativi, 24/01/2003, n. 2). È pertanto necessario pensare che l’azione pastorale
non si può ridurre a un certo pastoralismo, inteso nel senso di ignorare o attenuare altre dimen-
sioni fondamentali del mistero cristiano, fra le quali quella giuridica. Se la pastorale diluisce
qualsiasi obbligo giuridico, relativizza l’obbedienza ecclesiale, privando di senso le norme ca-
noniche. La vera pastorale non potrà mai essere contraria al vero Diritto della Chiesa»10.
Nella pastorale bisogna proteggere l’unità profonda a livello profetico, liturgico, educativo e,
nel contempo, rispettare la pluralità di funzioni gerarchiche, funzionali, spirituali e carismatiche.
Bisogna lavorare affinché il pluralismo sia sempre all’interno della comunione, cercare di con-
giungere le forze in una certa unità, in un progetto. Nella fede non ci può essere pluralismo ide-
ologico o religioso, perché la fede è unica. Ma a livello di stili di vita cristiana, di riti e di teolo-
gie, c’è sempre stata una pluralità, e questo deve essere visto come una ricchezza e non come
una debolezza. Ad ogni modo, bisogna far convergere tutto verso l’unità della fede, seguendo il
sensato adagio “in necessariis unitas, in aliis libertas, super omnia caritas” (unità nelle cose
essenziali, libertà nel resto, carità al di sopra di tutto). Per ottenere l’armonia tra la pluralità e
l’unità c’è bisogno di dialogo. Ma non basta il dialogo superficiale o meramente diplomatico. È
necessario un dialogo basato sull’autenticità. L’atteggiamento di dialogo si situa al livello della
natura della persona e della sua dignità, è passaggio obbligato del cammino da percorrere verso
l’autocompimento dell’uomo, del singolo individuo come anche di ciascuna comunità umana.
––––––––
10
Discorso di Giovanni Paolo II ai Vescovi della Conferenza Episcopale del Brasile in visita “ad limina
Apostolorum”, 7 febbraio 2003, n. 6.
11
Cfr. Prat y Pons p. 79ss).
28
Cap. 3 - Criteriologia dell’azione pastorale?
Sebbene dal concetto di dialogo sembri emergere in primo piano il momento conoscitivo (dia-
logos), ogni dialogo ha in sé una dimensione globale, esistenziale. Il dialogo non è soltanto uno
scambio di idee. In qualche modo esso è sempre uno scambio di doni12.
Cristo è venuto al mondo per darci la legge suprema della carità (cfr Gv 13,1-20). Se ci do-
mandiamo qual è, in sintesi, la missione della Chiesa possiamo rispondere senza dubbio in que-
sto modo: diffondere nel mondo la carità di Dio. L’amore, pertanto, ha il primato nell’azione
pastorale della Chiesa. Questo amore deve essere espresso in molte maniere. In primo luogo,
all’interno, tra i membri della Chiesa, tra le sue organizzazioni ed istituzioni. Questa deve esse-
re una carità orizzontale (relazione tra uguali) e verticale (relazione tra gerarchia e sottoposti).
Deve abbracciare la mente, il cuore e la lingua. Riguardo a quest’ultimo punto, conviene ricor-
dare ciò che dice Giacomo: «Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto» (Gc 3). Si de-
ve bandire soprattutto la maldicenza, la mormorazione, la critica distruttiva. Tutte queste forme
di disamore fanno molto male, e sono capaci di sopprimere la fama e la dignità delle persone
che è quanto di più sacro esse abbiano.
In secondo luogo, c’è la carità verso l’esterno, nell’azione della Chiesa per i poveri, per coloro
che soffrono nel mondo (non solo i membri della Chiesa), per la pace. È questo aspetto che i-
spira alla Chiesa il suo messaggio di solidarietà, orientato allo sviluppo autentico dell’uomo e
della società.
«L’attesa [del Regno futuro, alla fine della storia] non potrà esser mai una scusa per disinteres-
sarsi degli uomini nella loro concreta situazione personale e nella loro vita sociale, nazionale e
internazionale, in quanto questa – ora soprattutto – condiziona quella»14. È intorno all’amore
fatto solidarietà che la Chiesa imposta la sua pastorale sociale. Non è con l’odio, ma con
l’amore che la Chiesa vuol operare per la giustizia nella società. Bisogna cedere il posto
all’amore, al perdono e alla misericordia: «La mentalità contemporanea, forse più di quella
dell’uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla
vita e a distogliere dal cuore umano l’idea stessa della misericordia»15.
È anche intorno al concetto dell’amore (civiltà dell’amore) che la Chiesa imposta oggi la sua
pastorale familiare: «Da quanto finora è stato detto risulta in modo chiaro che la famiglia sta
alla base di quella che Paolo VI ha qualificato come “civiltà dell’amore”. (…) Se prima “via
della Chiesa” è la famiglia, occorre aggiungere che anche la civiltà dell’amore è “via della
––––––––
12
Cfr. Giovanni Paolo II., Lett. Enc. Ut unum sint, nn. 28-36.
13
Cfr. (Prat y Pons p. 81).
14
Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis, n. 48.
15
Lett. Enc. Dives in misericordia, n. 2. Nel n. 12 si chiede se basti la sola giustizia. La risposta è netta:
non basta la giustizia perché l’esperienza storica dimostra che la sola giustizia non riesce a risolvere i
problemi sociali e che molte volte la giustizia portata all’estremo diviene ingiustizia.
29
Teologia pastorale
Chiesa”, la quale cammina nel mondo e chiama su tale via le famiglie e le altre istituzioni
sociali, nazionali e internazionali, a motivo proprio delle famiglie ed attraverso le famiglie. La
famiglia infatti dipende per molteplici motivi dalla civiltà dell’amore, nella quale trova le ra-
gioni del suo essere famiglia. E in pari tempo la famiglia è il centro e il cuore della civiltà
dell’amore»16. Per concludere questo argomento, è opportuno ricordare ciò che dice il Papa in
questo stesso documento alle famiglie, riguardo alla lotta che si fa oggi per confondere la verità
dell’amore. Questo è un tema “pastorale” di grande attualità, perché questa confusione mette in
pericolo il bene dell’uomo e crea le condizioni per l’oggettualizzazione della donna, la degra-
dazione della sessualità e la distruzione della civiltà stessa.
«Chi può negare che la nostra sia un’epoca di grande crisi, che si esprime anzitutto come pro-
fonda “crisi della verità”? Crisi di verità significa, in primo luogo, crisi di concetti. I termini
“amore”, “libertà”, “dono sincero”, e perfino quelli di “persona”, “diritti della persona”, signifi-
cano in realtà ciò che per loro natura contengono? Ecco perché si rivela tanto significativa ed
importante per la Chiesa e per il mondo — prima di tutto nell’Occidente — l’Enciclica sullo
“splendore della verità” (Veritatis splendor). Solo se la verità circa la libertà e la comunione
delle persone nel matrimonio e nella famiglia riacquisterà il suo splendore, si avvierà veramente
l’edificazione della civiltà dell’amore e sarà allora possibile parlare con efficacia — come fa il
Concilio — di “valorizzazione della dignità del matrimonio e della famiglia”»17.
Questo è certamente ancora un tema aperto. Da una parte, abbiamo avuto negli ultimi anni in-
segnamenti profondi sulla missione della donna, espresse in documenti come la Mulieris digni-
tatem, la Christifideles laici, il Discorso del Papa per la Giornata della Pace del 1995. D’altra
parte, è evidente che la donna ancora non realizza tutte le sue potenzialità nella Chiesa e nella
società.
Conosciamo le inquietudini che circolano riguardo all’ordinazione di donne al sacerdozio, al
rispetto pratico della sua dignità e uguaglianza e al suo inserimento nei processi decisionali.
Mettendo da parte le esagerazioni con cui si fanno a volte queste rivendicazioni, possiamo ri-
conoscere che oggi c’è ancora molto da fare per quanto concerne la donna. Nella sua lettera alla
donna del 29 giugno 1995, Giovanni Paolo II dice che è necessario far memoria della discrimi-
nazione che c’è stato in passato. Conclude, quindi, con una raccomandazione piena di carica
pastorale:
30
Cap. 3 - Criteriologia dell’azione pastorale?
lo scorcio di questo secondo millennio, viene spontaneo di chiederci: quanto del suo messaggio
è stato recepito e attuato?»18. La missione e la sfida pastorale deve essere sviluppata anche nella
difesa e nella promozione della dignità e dell’uguaglianza della donna, insieme alla corretta
stima delle peculiari doti con le quali Dio ha voluto crearla.
Data l’importanza che le donne hanno nella vita delle parrocchie e delle comunità, e per avere
un’idea chiara del loro ruolo, è assai raccomandabile la lettura attenta del documento della
Congregazione del Clero intitolata “Istruzione su alcune questioni circa la collaborazione dei
fedeli laici al ministero dei sacerdoti” (cfr. Appendice).
Questo documento tratta specificamente della collaborazione dei fedeli laici al ministero dei
sacerdoti, dando per scontata l’importanza della loro presenza negli altri ambiti dell’azione ec-
clesiale, specialmente in quelli che hanno a che vedere direttamente con l’ordinamento della
società. In effetti, «occorre tener presente l’urgenza e l’importanza dell’azione apostolica dei
fedeli laici nel presente e nel futuro dell’evangelizzazione. La Chiesa non può prescindere da
quest’opera, perché è connaturale ad essa, in quanto Popolo di Dio, e perché ne ha bisogno per
realizzare la propria missione evangelizzatrice» (Premessa).
Quanto alla loro collaborazione al ministero dei sacerdoti, il documento non intende dare un
insegnamento teologico completo, bensì vuole «una risposta chiara ed autorevole alle pressanti
e numerose richieste pervenute ai nostri Dicasteri da parte di Vescovi, presbiteri e laici i quali,
di fronte a nuove forme di attività “pastorale” dei fedeli non ordinati nell’ambito delle parroc-
chie e delle diocesi, hanno chiesto di essere illuminati» (Premessa). Ad ogni modo, offre come
cornice dottrinale, alcuni criteri tra i quali troviamo l’affermazione: «Se, dunque, l’esercizio da
parte del ministro ordinato del “munus docendi, sanctificandi et regendi” costituisce la sostanza
del ministero pastorale, le diverse funzioni dei ministri sacri, formando una indivisibile unità,
non possono essere capite separatamente le une dalle altre, anzi devono essere considerate nella
loro mutua corrispondenza e complementarietà. Solo per alcune di esse, e in certa misura, pos-
sono cooperare con i pastori altri fedeli non ordinati, se sono chiamati a svolgere detta collabo-
razione dalla legittima Autorità e nei debiti modi», n. 2.
––––––––
18
Questo stesso impegno è espresso nel messaggio del 1° gennaio 1995, n.4: «Purtroppo, una lunga
storia di peccato ha turbato e continua a turbare l’originario progetto di Dio sulla coppia, sull’«essere-
uomo» e sull’«essere-donna», impedendone la piena realizzazione. Bisogna ad esso ritornare, annun-
ciandolo con vigore, perché soprattutto le donne, che più hanno sofferto per tale mancata realizzazione,
possano finalmente esprimere in pienezza la loro femminilità e la loro dignità. Per la verità, nel nostro
tempo le donne hanno compiuto passi importanti in questa direzione, giungendo ad esprimersi a livelli
rilevanti nella vita culturale, sociale, economica e politica, oltre che, ovviamente, nella vita familiare. E
stato un cammino difficile e complesso e, qualche volta, non privo di errori, ma sostanzialmente positi-
vo, anche se ancora incompiuto per i tanti ostacoli che, in varie parti del mondo, si frappongono a che
la donna sia riconosciuta, rispettata, valorizzata nella sua peculiare dignità [cfr. Giovanni Paolo II, Lett.
ap. Mulieris Dignitatem (15 agosto 1988), n.29: AAS 80 (1988), 1723]. La costruzione della pace, in
effetti, non può prescindere dal riconoscimento e dalla promozione della dignità personale delle donne,
chiamate a svolgere un compito insostituibile proprio nell’educazione alla pace. Rivolgo perciò a tutti
un pressante invito a riflettere sull’importanza decisiva del ruolo delle donne nella famiglia e nella so-
cietà e ad ascoltare le aspirazioni di pace che esse esprimono con parole e gesti e, nei momenti più
drammatici, con la muta eloquenza del loro dolore».
31
Teologia pastorale
Senza vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata la Chiesa non può crescere. Cristo lo disse:
pregate, affinché il Padre mandi operai alla vigna. Questa preoccupazione porterà la Chiesa ad
incrementare la preghiera per le vocazioni e a prendere provvedimenti concreti, affinché coloro
che sono chiamati da Dio al sacerdozio e alla vita consacrata possano trovare la via più facil-
mente, e possano avere l’appoggio umano e spirituale di cui necessitano per discernere la voce
di Dio che li chiama. Sarà molto importante il lavoro con le famiglie cristiane, perché la fami-
glia sarà sempre la culla dove la vocazione nasce e cresce. Questi temi sono stati sviluppati in
diversi documenti recenti, ai quali si può ricorrere per maggiori dettagli su questo importante
aspetto della vita pastorale della Chiesa: messaggi del Papa per la giornata annuale delle voca-
zioni, esort. apost. Pastores dabo vobis (1992), esort. apost. Vita Consecrata (1996), Nuove vo-
cazioni per l’Europa (1997), della Congregazione per l’Educazione cattolica.
Giovanni Paolo II l’ha detto molte volte: il mondo ha bisogno di testimoni e non di parole.
Questo è il segreto dell’evangelizzazione, perché l’annuncio di Cristo fondato sulla testimo-
nianza provoca una “crisi” in chi vede e ascolta, apre alla comunicazione divina, prepara
all’incontro. L’incontro è sempre accompagnato dalla sorpresa, dalla gioia, dalla scoperta. Pa-
storalmente è questa l’immagine della Chiesa; essa ripete con gli apostoli: abbiamo visto il Si-
gnore».
In fondo, i criteri hanno la funzione di dirci dove andiamo e di indicarci il senso ultimo
dell’azione pastorale. Paul M. Zulehner, nel suo testo di teologia pastorale, spiega come in al-
cuni chiese si percepisce una crisi di orientamento, dovuta ad un appannamento di questo sen-
so. L’effetto immediato di questa crisi è la perdita della capacità di operare. Allora si occupa il
tempo in attività non essenziali e che evitano di affrontare i veri problemi della Chiesa, si perde
il tempo in attività inutili o in passatempi, si cade nella routine amministrativa, si permettono
atteggiamenti di critica o, peggio, di cinismo. L’attivazione dei criteri enumerati in questo capi-
tolo – insieme ad altri che non abbiamo menzionato, ma che il lettore conosce – sarà l’antidoto
per evitare i mali che abbiamo appena richiamato e per ispirare un’azione pastorale feconda.
Siamo consapevoli che si potrebbe continuare a indicare principi ed imperativi per l’azione pa-
storale, ma chiudiamo qui questo capitolo. Invitiamo il lettore a riflettere sulla sua stessa espe-
rienza, sulle conoscenze della sua fede, per vedere se ci sono altre formulazioni necessarie ed
utili.
32
Capitolo 4
LA PREDICAZIONE
La predicazione è la proclamazione del mistero della salvezza, realizzata da Dio stesso attraver-
so i suoi legittimi rappresentanti, in ordine alla fede e alla conversione, e per la crescita della
vita cristiana. Analizziamo ad una ad una le parole di questa definizione.
Proclamazione: Questo tratto la distingue da un qualsiasi altro tipo di insegnamento. Non con-
siste nell’insegnare qualcosa né nel dimostrare una tesi o un sistema... Piuttosto, è l’annuncio
solenne di eventi, degli eventi più grandi della storia... “Proclamazione” indica solennità e im-
portanza degli eventi che vengono annunciati.
Del mistero della salvezza: queste parole indicano l’oggetto della predicazione che si riassume
nella persona di Cristo morto e risorto.
Realizzata da Dio stesso: il soggetto della predicazione è Dio. È Lui che parla e annuncia la sua
intenzione di salvare l’uomo, chiamandolo alla fede.
Attraverso i suoi legittimi rappresentanti: nella predicazione ci sono due individui: uno princi-
pale e l’altro strumentale e secondario. La parola ed il vangelo di Dio sono proclamati attraver-
so rappresentanti qualificati. La predicazione è una funzione della Chiesa, un atto gerarchico e
non un dono privato di Dio ad un singolo uomo.
In ordine a: il fine della predicazione, nel piano di Dio, è la conversione alla fede. Ma questo
fine può essere mancato a causa delle cattive disposizioni dell’uomo. Proclamando la suo vo-
lontà salvifica, Dio vuole che l’uomo la accolga e si salvi, ma l’uomo può respingerla. In questo
caso, la predicazione non opera la fede, benché sia in ordine alla fede.
Alla conversione: il fine della predicazione è la fede, l’accettazione del piano salvifico divino,
accettazione che comporta la conversione dell’uomo. Nella fede, l’uomo risponde
positivamente a Dio, accoglie la sua parola di salvezza e di grazia.
g) per la crescita della vita cristiana: queste parole alludono ad altre due forme di predicazione.
La conversione, effetto della fede, è una realtà che ammette approfondimento ed evoluzione
tanto sul piano intellettuale (catechesi), quanto nel suo aspetto volitivo (omelia).
––––––––
1
In questo capitolo ci rifacciamo al libro di D. Grasso, L’annuncio della salvezza. Teologia della Predicazione, M.
D’Auria, Napoli 1966.
Teologia pastorale
a) Sintomi
“C’è un deserto materiale e spirituale sotto i pulpiti”. C’è poco interesse nei fedeli. Le viene
rimproverato di essere astratta, irreale, troppo frammentaria e poco genuina, e di segno preva-
lentemente moralizzante. Il predicatore non riesce ad inserire la sua parola nella situazione reale
dell’uomo contemporaneo, non riesce a far breccia in lui. La sua parola è disincarnata, d’altri
tempi. Non ha l’aspetto di trattare problemi vitali, decisivi per la vita.
Il cristiano la vede come una specie di obbligo al quale deve sottostare quando va in Chiesa. È,
spesso, un rito meccanico. Si preferisce la messa in cui non c’è predicazione.
1) Crisi religiosa. La crisi affonda le sue radici nella situazione stessa dell’uomo e nello stato
del cristianesimo. La crisi della predicazione è un aspetto ed una conseguenza della crisi reli-
giosa che colpisce tutte le religioni, benché, all’interno del cristianesimo si manifesti più acuta-
mente. Si dice che la religione è in crisi, che non comunica niente all’uomo di oggi e che è so-
stituita dalla tecnica.
Senza esagerare, possiamo dire che l’uomo di oggi sente meno la religione e la necessità di
Dio. La scienza ha addormentato il sentimento di religiosità, soprattutto in quelli che avevano
ricevuto una falsa educazione: Dio che risolve i problemi qui e ora. Il mondo della tecnica im-
pone all’uomo un ritmo di vita finalizzato solo al benessere e, in tale ambiente, la religione “è di
troppo” e a volte disturba. Così, è logico che l’uomo senta avversione per la predicazione e sia
disposto ad esagerarne i difetti (per altri versi reali). Questa crisi viene da lontano, come rilevò il
famoso libro di Godin e Daniel (Parigi 1943) “Francia, paese di missione”. La terra di missione
cambiava.
2) Inflazione della parola. Sentiamo tante cose, tante parole che tutto ci scivola di dosso. Que-
sta inflazione ha reso gli uomini diffidenti; non credono più nella parola: vogliono fatti. Pren-
dono come criterio valutativo ciò che è utile e non ciò che è vero, la sua efficienza concreta e
non il principio astratto.
3) Difetti della predicazione. Gli uomini di Chiesa criticano la predicazione dei loro pastori.
Sembra che la predicazione non corrisponda alla spiritualità che questi laici adulti vogliono e
cercano.
La verità è che la spiritualità contemporanea cerca l’essenziale e detesta perdersi nel margina-
le... Oggi le devozioni non attraggono più. Il cristiano è stanco del carattere frammentario della
predicazione del mistero cristiano. Cerca un centro attorno al quale possa raggruppare i diversi
aspetti, convinto che non esiste spiritualità senza unità. In questo anelito è latente il desiderio di
un maggior contatto con le fonti della spiritualità: la Bibbia e la Liturgia.
34
Cap. 4 - La predicazione
4) Difficoltà della comunicazione. Una causa intrinseca è che la predicazione è una comunica-
zione, e la comunicazione, come è noto, è sempre un’avventura, un rischio. La fenomenologia
ci ha dimostrato la difficoltà di realizzare un vero incontro tra persone, la difficoltà di aprire re-
ciprocamente la propria interiorità all’altro. Nell’incontro con Dio, l’uomo si trova di fronte
Qualcuno cui non potrà nascondere nulla della propria intimità. Per questo motivo, è “o tutto o
niente” e, quindi, piuttosto “tutto”. La fede sarà per colui che la accoglie uno sconvolgimento
totale della sua persona: essa esige che si fissi un nuovo centro personale.
6) Crisi antica. Non è una crisi nuova. Già san Paolo doveva incoraggiare Timoteo a non ar-
rendersi (2Tm 4,4). Deogratias, il diacono, domanda a sant’Agostino come evitare la noia nei
suoi ascoltatori e lo stesso Agostino non esita a dire che il popolo preferisce gli spettacoli del
circo ai suoi sermoni (cfr. De catechizandis rudibus).
Ci sono stati molti eventi nella Chiesa che hanno fornito elementi vari per il superamento della
crisi della predicazione; si tratta di usarli bene. Mi riferisco al movimento liturgico, biblico e
patristico. La filosofia della comunicazione e dell’incontro ha dato apporti interessanti. Lo svi-
luppo della teologia kerigmatica e l’insistenza sulla testimonianza hanno procurato piste valide.
Ma anche una buona teologia della predicazione può aiutare molto: la crisi il più delle volte
viene dall’ignoranza di ciò che accade nella predicazione. È necessario avere una teologia della
parola salvifica. Dobbiamo chiederci profondamente: cos’è la parola di Dio? E quale è la sua
funzione nel mondo e nella Chiesa?
Cominciamo questa breve “teologia” della predicazione chiarendo qual è l’oggetto della stessa.
Scopriamo così che questo oggetto è espresso in forme diverse nei vari scritti del Nuovo Te-
stamento. Nei sinottici leggiamo che è il “Regno di Dio”, oggetto della predicazione dello stes-
so Gesù. Si identifica con Lui stesso. Negli Atti degli Apostoli, vediamo che si parla della “pa-
rola di Dio”. Sappiamo dell’importanza della “parola” nella Bibbia: più che una dimensione
noètica, ha una dimensione dinamica, creativa, efficace. Si identifica con la persona che la pro-
nuncia e pertanto, in questo caso, con Dio stesso. Per la sua stessa natura va rivolta a qualcuno e
attende una risposta. Gesù Cristo è parola di Dio. Ma anche negli Atti si parla del Cristo pa-
squale come oggetto della predicazione: Cristo morto e risorto. In altre parti del Nuovo Testa-
mento si parla del “vangelo” come oggetto della predicazione. In questo caso, si parla della
35
Teologia pastorale
buona notizia della venuta del Regno, della salvezza. In san Paolo abbiamo un insieme di e-
spressioni, ma è molto importante l’uso che questi fa della parola “mistero” per designare
l’oggetto della sua predicazione: il mistero in Dio, il mistero rivelato, il mistero proclamato. Il
contenuto del mistero è la partecipazione ai beni di Dio annunciata dal profeta Isaia per i tempi
messianici, è la vocazione dei gentili, è la riconciliazione universale in Cristo. Questo cristocen-
trismo contiene implicita una teologia della storia: la storia è una trama di eventi preparati da
Dio e ordinati alla realizzazione di un fine: la rivelazione e la comunicazione di Cristo. Cristo è
l’Alfa ed Omega.
Il mistero di Cristo è considerato in diretta relazione con l’uomo e con la sua salvezza. “E per la
nostra salvezza...” è la frase che riassume tutto. Salvezza dal male fisico e morale; salvezza che
è anche realizzazione del destino pieno dell’uomo. Tanto nel suo aspetto negativo quanto nel
suo aspetto positivo viene messa in evidenza la dipendenza dell’uomo da un altro che lo deve
salvare. Il cristianesimo, inoltre, aggiunge a tutto questo la meravigliosa abbondanza di grazia
che Dio offre.
Secondo san Paolo, tutta la storia è ordinata a questo fine: renderci consapevoli della nostra in-
capacità di raggiungere la nostra salvezza.
Altro grande tema di una teologia della predicazione è quello del suo soggetto: la persona che
parla. Ovviamente il predicatore umano parla. Ma qui interviene un mistero, e ci sono ragioni
per pensare che Dio è il primo soggetto attivo della predicazione.
a) Dio
Dio è il primo protagonista della predicazione. Ma in che senso? Se leggiamo la Sacra Scrittu-
ra, scopriamo che si usa l’espressione “parola di Dio” in due sensi: in un senso, è Dio che inse-
gna (1Ts 2,13; Rm 10,14; Eb 12,25; 2Cor 13,3) e nell’altro è l’uomo che insegna riguardo a
Dio (Col 1,7). I Padri, Agostino specialmente, lo intesero nel senso soggettivo, cioè che è Dio
che insegna. Poi, ha prevalso una concezione più intellettualista, che intendeva l’espressione
piuttosto nel secondo senso (cfr san Tommaso, Trento). Recentemente si è recuperato l’aspetto
più dinamico.
Sebbene vi siano ragioni per negare un’interpretazione in senso oggettivo (la rivelazione si è
già conclusa ed alcune cose che i predicatori dicono non sembrano far onore a tale teoria), tut-
tavia sembrano più numerose le ragioni che sono a beneficio di un’interpretazione forte.
36
Cap. 4 - La predicazione
1) La fede viene dalla predicazione. Se Dio non fosse nella predicazione, essa non genererebbe
la fede. La chiamata di Dio è una chiamata d’amore, e questo si comprende meglio se Dio è
personalmente presente all’incontro. Per questo Atti 4,4 userà l’espressione “credere nella paro-
la” e lo stesso si potrebbe dedurre da quella frase di Cristo: «chi viene a me non avrà più fame e
chi crede in me non avrà più sete» (cfr. Gv 6,35).
2) L’efficacia che la Sacra Scrittura attribuisce alla parola viene meglio compresa se Dio è pre-
sente. In questo senso Paolo, in quanto missionario, si riferisce a se stesso chiamandosi “litur-
go”, cioè colui che realizza un rito nel quale Dio agisce.
3) La funzione di “maestro” che viene attribuita a Cristo è più completa, se abbraccia anche
l’area della grazia esterna (non solo di quella interna).
Anche se possiamo pensare ad un’azione di Dio in primo piano, ciò non è al fine di diminuire
l’importanza dell’altro fattore, il secondo soggetto della predicazione, l’uomo: «è piaciuto a Dio
di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» (1Cor 1,21; Tt 1,1-3; Ef 3,8-9). Cristo
istituisce l’economia della predicazione, come ci dice Mt 28, e unisce la sua voce a quella della
Chiesa. Da allora gli apostoli non possono tacere, perché sentono che hanno ricevuto questo
mandato da Dio. Non sono meri portatori della sua voce, bensì ambasciatori che parlano in suo
nome. Cristo, inoltre, promette loro la sua assistenza e la sua assidua presenza.
Il soggetto di questa funzione/missione è rappresentato da tutti i fedeli, poiché, in virtù del bat-
tesimo, sono partecipi della missione profetica di Cristo e chiamati, secondo la condizione giu-
ridica propria, ad esercitare questa missione della Chiesa. Per ulteriori note su questa funzione
(la sua trasmissione) si veda ciò che dice il Diritto della Chiesa (canoni 747-772).
La predicazione per mezzo di soggetti umani è un aspetto della legge generale della legge
37
Teologia pastorale
Dio lo ha amato per una ragione intrinseca alla nostra condizione umana. San Tommaso spiega
così la ragione dei riti dei sacramenti. Inoltre, è un desiderio innato dell’uomo quello di avere
accanto Dio, toccarlo in qualche modo.
Per discrezione divina. Questa maniera di rivolgersi a noi è “amabile” e rispetta la nostra liber-
tà. Non ci stupisce con miracoli. Gesù stesso è discreto, e ci ha lasciato solo il miracolo morale
della Chiesa.
Ma c’è anche qui un mistero che causa “scandalo”: in un segno sensibile si nasconde l’opera
divina. È una kenosis (è un mezzo debole, una “follia”: 1Cor 1,21). La mente umana ha sempre
avuto difficoltà a congiungere l’infinito e il finito, e tende piuttosto a separarli. Il cristianesimo li
unisce (senza confonderli).
Perché Dio sceglie la parola, esattamente? Perché la parola è contenuta / interrogazione / aper-
tura. Perché la parola è il mezzo di comunicazione tra le persone, è il mezzo per uscire dalla no-
stra solitudine. Perché nella parola un “io” si rivolge ad un’altra persona e si apre a lei in attesa
di comunicazione. Questa condizione umana è conseguenza dell’insufficienza dell’uomo, della
coscienza che egli ha di non bastare a se stesso, di non essere autosufficiente. A livello umano,
quando si parla, si esce dalla propria solitudine. Così anche per Dio la parola è il mezzo che E-
gli usa per amare; per dialogare con coloro che sono “soli” nel senso più forte del termine. Per
questo, la parola indica Dio stesso, si identifica col suo amore per l’uomo.
La scolastica dimenticò questo aspetto dinamico e si concentrò sul concetto di veritas. Suárez,
al contrario, uscì da questo schema e considerò che la grazia interna coincideva col momento
della predicazione e, per questo, sono colpevoli quelli che ascoltano la parola e non l’accettano.
La predicazione è l’organo della grazia che cambia il cuore. Invece, Ripalda concepisce la pre-
dicazione come mera grazia esterna, che muove ad atti naturali dei quali Dio – per una legge –
si serve per suscitare con la sua grazia l’atto soprannaturale. Questa teoria si diffuse come rea-
zione al protestantesimo. Ma oggi si cerca un nuovo equilibrio tra queste due concezioni.
38
Cap. 4 - La predicazione
5. La predicazione e la fede
a) La fede è credere Deo (credo con l’aiuto di Dio), credere Deum (credo ciò che Dio mi dice),
credere in Deum (la mia fede è un impulso verso Dio, mi unisco a Dio). Come abbiamo già
detto, dopo Trento l’atto di fede fu molto razionalizzato. Oggi stiamo tornando a concepirlo
nelle sue molte sfumature: credere Deo, credere Deum, credere in Deum. Questo corrisponde
di più alla Sacra Scrittura, in cui appare l’aspetto personale della fede: la chiamata – la sequela
(cfr. Gv 1). Già san Tommaso l’aveva detto: l’importante è l’Altro, non quello che dice.
b) L’elemento di “dramma” nell’atto di fede: il seme che muore. Dio va incontro all’uomo nel-
la sua parola. Quando pensiamo questo, c’è una prima reazione di gioia, di accettazione, di
soddisfazione, di senso della vita. Ma, dopo, c’è una reazione di paura. Perché? Perché i valori
che vengono offerti sono soprannaturali e non c’è evidenza naturale. Perché si tratta di accettare
una Persona che non si piega a me. Perché questa persona è un uomo crocifisso che mi dice che
per vivere bisogna morire. Infine, ho una reazione di difficoltà, perché Dio si presenta attraver-
so segni, e questo non mi impressiona tanto quanto la sofferenza attuale o la rinuncia attuale
che mi viene chiesta.
c) La grazia di Dio, il Maestro Interiore che rivela, testimonia, illumina e “unge”. In questo
dramma l’uomo ha un alleato: la grazia, il Maestro Interiore che crea in lui l’attrazione verso
Cristo. Sant’Agostino diceva proprio questo: “Revelatio est attractio”. È ciò che san Tommaso
chiamerà “Lumen fidei”, “instinctus”, “connaturalitas”. Ricordiamo le parole di Cristo: «Nes-
suno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato» (cfr Gv 6, 44.65). È Dio che
muove l’anima.
d) La risposta dell’uomo può essere una tra le seguenti: a) negazione, b) scetticismo, c) credere.
La grazia di Dio opera nell’anima, ma rimane sempre la libertà della persona che deve aprire la
porta a Cristo.
e) La persona che crede entra in una dimensione particolare nel rapporto con Dio. Questo in-
contro è caratterizzato dai seguenti elementi: è un incontro e una donazione di due persone, e
non solo un atto intellettuale; questo incontro è in continuo sviluppo: può crescere e può dimi-
nuire; è un chiaroscuro (“cum assensione cogitare”) che richiede uno sforzo continuo; è una
situazione di rischio in quanto l’uomo è chiamato a confidare, a far affidamento su un altro; in-
fine, ha il carattere di “conversione” e di morte al modo puramente umano di pensare. La fede,
inoltre, ha una dimensione teologale (la virtù della fede), sacramentale (il nuovo essere) e mora-
le (l’uomo nuovo).
39
Teologia pastorale
Abbiamo optato prima per l’opinione teologica che spiega l’espressione “parola di Dio” in sen-
so forte: è Dio che parla. Ora ci interroghiamo circa l’efficacia della predicazione. Questa do-
manda nasce perché vediamo effetti molto differenti negli uomini. Come si spiega questo? San
Tommaso opta per una spiegazione secondo la quale la predicazione è (solo) la causa dispositi-
va strumentale. Sarebbe come un maestro nell’insegnamento, un medico con la natura corpora-
le, un agricoltore con la natura del campo. La predicazione, secondo questa opinione, non pro-
duce la grazia. Il maestro soltanto facilita il lavoro che il discepolo deve fare. Dato che la giusti-
ficazione è un risultato superiore a ciò che il soggetto può realizzare, deve venire da fuori. La
predicazione aiuta la volontà mostrandole l’utilità che ha e l’onestà che l’atto di credere implica.
Tuttavia, come obiezione, vediamo che la Bibbia parla di un’azione della parola: che è una
spada che taglia. Pertanto, sembrerebbe indicare un’efficacia propria. Nell’AT vediamo che la
parola è mezzo di azione: Gn 1,-6; Sal 147,15-18; Sal 29; Is 55,10-11. Nel NT si dice che “tutto
è stato fatto per mezzo del Verbo” (cfr Gv 1,3); ci genera (Gc 1,18; 1Pt 1,28); san Paolo dice
“parola di salvezza, di riconciliazione” in senso attivo (genitivo oggettivo). Eb 4,12 dice che la
parola taglia come spada, che ha una vitalità che non può essere trattenuta.
Sembra, pertanto, che abbia un’efficacia indipendente dallo strumento e dalle sue intenzioni
(cfr. Fil 1,15-18; 1Cor 2,1). È efficace perché la persona di Dio è presente nella sua parola. Per-
tanto, possiamo parlare di una certa sacramentalità. La predicazione annuncia fatti che hanno
un significato speciale per l’uomo. Questi fatti sono simboli dell’amore di Dio per l’uomo. Ma
questi simboli hanno bisogno della spiegazione della parola. Questi fatti non soltanto significa-
no l’amore di Dio, bensì lo contengono, lo realizzano, lo aggiornano a oggi. Il sacramento, dal
canto suo, è un simbolo e come tale “parla”. Ha qualcosa della parola. Anzi, la parola è parte
integrante di ogni sacramento. È la sua forma. Inoltre, il sacramento viene dalla fede che, a sua
volta, viene dalla predicazione.
40
Cap. 4 - La predicazione
e) efficacia come attrazione di Dio (Gv 6,41ss). Dio come verità e bontà supreme attrae; Dio
fatto carne attrae. In Gv 6 si vede questa grazia interna. Ma esiste allora la libertà? Certo, perché
Dio chiama mediante l’attrazione. Ma può esserci attrazione solo quando c’è necessità, vuoto.
L’attrazione non sopprime la libertà; basta vedere ciò che accade nell’amore. L’attrazione im-
plica che uno amava già quel valore: ne aveva sete. Nel caso della fede, è un’attrazione sopran-
naturale causata dalla grazia. Pertanto, la parola di Dio, presentando Cristo, esercita un fascino
sull’uomo; è il fascino della sua bontà e della sua verità. Per san Tommaso ci sono diversi modi
di attrazione: c’è l’attrazione delle ragioni, dei miracoli; ma c’è anche un’azione interna della
grazia che desta il diletto e l’amore della verità. Nell’intimità dell’anima che ascolta la parola di
Dio si realizza un dialogo intimo misterioso, che può portare alla salvezza o al rifiuto di Cristo.
7. La predicazione e la testimonianza
Siamo arrivati all’ultimo aspetto della predicazione: la testimonianza. Sappiamo che la parola
di Dio si comunica attraverso la bocca, ma anche mediante tutta la vita. Questo è ciò che chia-
miamo “testimonianza”. Giovanni Paolo II ha detto che il mondo di oggi necessita di “testimo-
ni” e non solo di teorie.
Se esaminiamo Mc 16, Mt 28, Atti 1,2 e Tm 1,8 vedremo questa espressione usata in maniere
diverse, ma mantenendo sempre essenzialmente lo stesso significato. Vediamo.
a) Significato del termine. La parola “testimonianza” esprime una volontà e l’atto di dare fede
di un fatto. Nell’Antico Testamento prevale il concetto di testimonianza come espressione di
una volontà. In questo senso, san Paolo è testimone in quanto “portatore della volontà salvifica
di Dio”. Ma è usato anche nel senso più tipicamente greco di “attestare un fatto”. Allora abbia-
mo il senso più completo: testimonianza = attestare il fatto della volontà salvifica di Dio.
b) La testimonianza diretta degli apostoli. Gli apostoli annunciano fatti che hanno osservato
personalmente. Ma sono fatti che hanno colpito le loro vite, che hanno dato alle loro vite un
nuovo orientamento dal quale non possono più prescindere. In altre parole, oltre a dar fede dei
fatti, testimoniano il significato dei fatti. Sentono che i fatti della vita di Cristo li colpiscono per-
sonalmente, vitalmente, in funzione della loro salvezza. Per questo, non sono semplicemente
“ripetitori” di una medesima cosa, bensì essi affermano che quei fatti incidono sui loro destini.
In una testimonianza ci si vincola personalmente con piena libertà a ciò che si dice. Sì, attesto
alcuni fatti, ma c’è qualcosa di più: il significato che questi dati hanno per me.
In questo senso, negare ciò che io stesso attesto sarebbe la mia distruzione. Per questo san Pao-
lo dirà “per me vivere è Cristo”. La testimonianza, pertanto, non è possibile senza il coinvolgi-
mento della persona. Da questo coinvolgimento parte il significato dei fatti.
Da qui la differenza netta tra la scienza e la predicazione. La scienza trasmette i fatti nella loro
veridicità; la predicazione annuncia anche il loro significato. Dare testimonianza è dichiarare
che si rinnegherebbe se stessi se si negasse quel fatto, quella realtà di cui si è testimoni.
41
Teologia pastorale
La fede, pertanto, è trasmessa da persone convinte del valore di quei fatti. La testimonianza ori-
gina il mistero, pone l’uomo di fronte ai valori decisivi della sua esistenza e lo obbliga ad uscire
dalla sua indifferenza, a reagire. L’effetto della testimonianza è sconvolgente per l’uomo. La
testimonianza ha l’effetto di creare in lui un’inquietudine metafisica e religiosa. Dalla testimo-
nianza sgorga un’attrattiva, un fascino, un appello spirituale che invita a credere e ad accettare i
valori che vengono testimoniati e che il testimone ha sperimentato sulla sua stessa pelle.
c) La testimonianza indiretta della comunità. San Pietro ricorderà ai suoi fedeli che non solo lui
è testimone di Cristo, ma anche loro lo sono. Lo Spirito Santo viene dato a molti altri in ordine
alla testimonianza (Atti 5,32). Si tratta della testimonianza di vita dei primi cristiani (Atti 2,44-
47; 4,32-35; 5,13). Ma, oltre alla testimonianza indiretta della loro vita, i fedeli danno anche la
testimonianza della loro parola (come nel caso di Stefano). Sono due testimonianze che vanno
di pari passo: bisogna eliminare tutto ciò che potrebbe ostacolare l’efficacia della Parola: motivi
indegni (1Ts 2,3-7), il rispetto umano (2Cor 4,2), il basarsi sull’umana sapienza (1Cor 2,4). Bi-
sogna stimolare ciò che aiuta: farsi tutto a tutti (2Cor 12,8). La santità di vita è al servizio della
Parola.
d) La necessità di segni per accreditare la parola come parola di Dio. Perché è tanto importante
la testimonianza? Perché la predicazione è l’annuncio della parola di Dio mediante la parola
umana. Per questo deve essere accreditata come Parola di Dio. Per questo Cristo accompagna
la sua predicazione da segni (cfr. Gv 15,24). Così fanno anche gli apostoli (cfr. Atti 4,29-30). I
miracoli contribuiscono a creare quell’atmosfera di mistero che è così necessario per scuotere
l’uomo dal suo letargo e per collocarlo di fronte al problema della presenza di Dio (cfr. 2Cor
12,12).
Ma, dopo l’epoca degli apostoli, qual è il segno? Sant’Agostino, san Giovanni Crisostomo, san
Gregorio Nazianzeno, Francisco de Vitoria e molti altri hanno dato risposte a questa domanda:
ora bisogna creare il “miracolo” della santità, la testimonianza di vita dei cristiani. Pertanto, la
santità del predicatore e della Chiesa fa parte della predicazione ed uno dei segni della Parola di
Dio è, proprio, la santità. La predicazione è certamente efficace di per sé, perfino quando si fa
per motivi indegni (cf Fil 1,15-18), e non è legata in maniera assoluta alla santità del predicato-
re. Ma, sì, è legata alla santità della Chiesa in quanto tale. Sappiamo che la Chiesa non smetterà
di essere santa. Ma ora ci sono luci ed ombre. Per il bene della predicazione deve prevalere la
luce.
42
Cap. 4 - La predicazione
1. Storia
2. Definizione
• Generale o fondamentale.
• Speciale secondo l’età.
• Articolata secondo situazioni particolari: missionaria, handicappati, scuola...
• Con contenuti speciali: biblica, liturgica, sacramentale.
• Catechetica istituzionale.
• L’uso dei mezzi, la dinamica di gruppi, etc.
4. Necessità
La catechetica è essenziale alla teologia: per tradurre i contenuti, per aprire alla interdi-
sciplinarietà....La catechetica è essenziale per la prassi pastorale. Non si deve cadere nel
né nel empirismo pastorale (non basta la “pratica” senza la riflessione) né il deduttivi-
smo pastorale (non si può dedurre dai principi teologici tutta la prassi). E’ necessario il
dialogo permanente fra catechesi e catechetica. Azione e riflessione. Così si preparano i
catechisti per la situazione di cambiamento permanente propria della nostra società, do-
ve ci vuole creatività, immaginazione, aggiornamento.
Altrettanto si preparano per capire i problemi, gli schemi culturali degli uomini.
––––––––
2
Cfr. L. Soravito, “Catechetica”, Enciclopedia di Pastorale, Piemme 1992, Vol I, pp. 443-447.
43
Capitolo 5
LA PASTORALE D’INSIEME
La pastorale ne guadagnerà molto, se sapremo non solo lavorare, ma anche imparare l’”arte del
lavoro efficace”. Questo richiede un maggior impegno, una maggior responsabilità, ma dà an-
che maggior serenità. L’improvvisazione non solo è negativa quanto ai risultati, ma fa anche
male alle persone, le rende nervose, frustrate e scoraggiate.
La pianificazione non è una novità nel mondo della pastorale. In un certo senso, i pastori
l’hanno sempre fatta, e basta vedere i molti concili che hanno segnato la storia della Chiesa –
pensiamo al Concilio di Trento –, nei quali si faceva un bilancio della situazione e si prendeva-
no decisioni strategiche importanti. Tuttavia, negli ultimi tempi, la pianificazione ha assunto
una forma particolare, che si chiama “pastorale d’insieme”, ed è questa che vogliamo esamina-
re nel presente capitolo.
La pastorale d’insieme nasce fondamentalmente per tre motivi: a) come reazione alla progres-
siva scristianizzazione della società nei secoli XIX e XX; b) come risultato della presa di co-
scienza del carattere ecclesiale dell’apostolato; c) come risultato anche dalla maggior coscienza
della dimensione episcopale dell’apostolato1.
a) La pastorale d’insieme
La pastorale d’insieme nasce soprattutto come risposta agli interrogativi urgenti che la scristia-
nizzazione dei Paesi tradizionalmente cattolici poneva alla Chiesa. All’inizio del XX secolo in
alcuni Paesi, si verificò un allontanamento delle masse – dapprima quelle operaie e in seguito
anche altri settori – perdevano il contatto con la Chiesa, abbandonavano le loro abitudini cri-
stiane e assumevano diversi stili di comportamento, come se non fossero mai stati cristiani2.
Due scritti di quegli anni provocarono un certo shock nell’ambito ecclesiale: “Francia: paese di
missione” (France pays de misión, 1943) di H. Godin e Y. Daniel, e “Rinascimento o declino
––––––––
1
Cfr. Problèmes missionnaires de la France rurale, Paris 1945.
2
Il lettore può facilmente applicare al presente ciò che qui si dice riguardo all’ambiente dell’inizio del
XX secolo.
Cap. 5 - La pastorale d’insieme
della Chiesa” (Essor ou declin dell’Eglise) del Cardinal Suhard. La situazione descritta in que-
sti ed altri studi poneva interrogativi circa l’efficacia della pastorale: perché la pastorale non è
più efficace, nonostante gli sforzi generosi di molti sacerdoti e laici? Da cosa dipende la spro-
porzione apparente tra le risorse investite ed i risultati ottenuti? Quali devono essere gli agenti
della pastorale della Chiesa: gli individui, i gruppi, i movimenti, i sacerdoti, i laici? Come si de-
vono integrare i diversi soggetti in un’unica pastorale della Chiesa? Prendendo in considerazio-
ne le circostanze attuali, possiamo aggiungere altri interrogativi: come si sta rispondendo ai
cambiamenti veloci e profondi dei nostri tempi? Come stiamo rispondendo alla maggiore mo-
bilità dei fedeli e all’intrecciarsi dei diversi ambienti? Queste domande, oltre ad avere una va-
lenza di tipo sociologico, contengono anche un chiaro senso teologico, perché la Chiesa si co-
struisce nella vita reale e l’uomo concreto è la via della Chiesa.
Scristianizzazione voleva dire rottura tra la fede professata e la vita pratica, tra le pratiche reli-
giose e gli altri ambienti in cui si sviluppava la vita degli uomini. La Chiesa era ancora presente
nella forma, ma non penetrava più la vita sociale e culturale. Accadeva tanto nel mondo ope-
raio quanto in quello rurale.
Nella ricerca di risposte a questa situazione, la pastorale ha elaborato una serie di concetti che
sono importanti per comprendere quella che, poi, si è arrivati a chiamare “pastorale di insieme”.
Ambienti (milieu). Si constatava sociologicamente che la vita religiosa degli individui dipende-
va molto da tutto l’ambiente in cui vivevano. Pertanto, non bastava un apostolato di carattere
individuale (sacramenti, direzione spirituale), ma si doveva agire su un insieme più ampio di
fattori che costituivano l’ambiente. Bisognava fare “pastorale dell’ambiente”. M. Midali spiega
così il concetto: «Il nodo del problema pastorale è ravvisato nel rapporto tra vita ecclesiale e
ambiente o gruppo sociale (milieu). L’ambiente risulta da una rete di interazioni tra massa e de-
terminati soggetti attivi dell’ambiente stesso, capaci da un lato di modificare le tendenze e,
dall’altro, di recepirne le sue sollecitazioni. Il modo medio di pensare del gruppo esercita
un’impercettibile ma costante pressione sull’individuo e tende a modellarne la mentalità su
quella del gruppo stesso. E dato che l’individuo appartiene a più gruppi sociali, avviene che
quelli più concentrici lo influenzano maggiormente attraverso il modello di vita, quelli meno
concentrici mediante le istituzioni »3
Zona umana. L’azione pastorale doveva andare oltre la dimensione geografica della parrocchia
ed ampliare la sua influenza in quella che fu chiamata la zona umana, intesa questa come
l’unità elementare della vita di un gruppo di persone, e che comprendeva «la rete di rapporti
intercorrenti tra gli individui di un territorio sufficientemente esteso per permettere lo sviluppo
di tutte le dimensioni maggiormente significative dell’esistenza umana»4 Questo significava
uno sforzo per raggiungere pastoralmente tutti i luoghi nei quali un individuo potrebbe trovarsi
––––––––
3
Midali, Teologia pastorale o pratica, Tomo 1: Cammino storico di una riflessione fondante e scienti-
fica, Las-Roma 1991 (2a Edizione), p. 60.
4
Midali, Teologia pastorale o pratica, Tomo 1: Cammino storico di una riflessione fondante e scienti-
fica, Las-Roma 1991 (2a Edizione), p. 62.
45
Teologia pastorale
nel corso di una giornata, di una settimana, di un anno. Pensiamo ad un giovane: vive in fami-
glia, ma lavora in una fabbrica, si diverte in un bar. Per essere efficace l’azione pastorale do-
vrebbe rivolgersi a tutta questa zona, affrontando contemporaneamente i diversi problemi ed
elementi che costituiscono tale zona. Come si può vedere la parrocchia resta, ma tenta di esten-
dere la sua “area di competenza”.
Cristianizzazione. L’azione pastorale usava questa parola per designare il tipo di lavoro che
conveniva realizzare. Non bastava più la coltivazione di una vita ecclesiale, ma era necessaria
una nuova proposta del Vangelo, un nuovo incontro con Cristo. Il problema della scristianizza-
zione colpiva la società in diverse maniere. C’era una parte che era ancora cristiana, dove si
conservava la pratica religiosa, ma dove non c’era capacità di apostolato. Il gruppo si chiudeva
in se stesso, alla maniera della “cristianità”. In questo caso, cristianizzazione significava recupe-
rare il vigore missionario. Gli indifferenti costituivano il secondo gruppo. Questi si sentivano
ancora attratti dalla figura di Cristo, ma si allontanavano sempre di più dalla Chiesa e dalla reli-
gione organizzata: Cristo sì, la Chiesa no! La cristianizzazione di questo gruppo significava re-
cuperare il senso della comunità, dei sacramenti, della pratica religiosa. Infine, esisteva l’area
della gente lontana da Cristo e dalla Chiesa. In questo caso si trattava di un’autentica zona di
missione. Si capiva, inoltre, che la pastorale non poteva essere un semplice attrarre questa gente
alla Chiesa, ma era necessario condurli di nuovo a Cristo.
Il militante e la squadra. Ridisegnando in questa maniera la pastorale si dava anche una ridefi-
nizione dei soggetti dell’evangelizzazione. Certamente il sacerdote restava come protagonista
importante ma, al suo fianco, troviamo la figura del laico militante che ha una vocazione apo-
stolica personale. Non è semplicemente un esecutore delle indicazioni della gerarchia, o un
semplice aiutante del sacerdote ma, in quanto battezzato, la sua vocazione ha una consistenza
propria. Allo stesso tempo si sviluppa la figura della équipe, sottolineando di nuovo il carattere
comunitario dell’essere missionario.
Élite. Questo concetto nacque in contrapposizione al concetto di massa. La massa era definita
come lo strato sociale che non ha iniziativa propria, ma è guidata da altri. A livello pastorale la
parola massa designava coloro che appartenevano alla Chiesa in maniera minimalista e passi-
va. Le élite, al contrario, erano caratterizzate dalla loro capacità di azione e di iniziativa. La pa-
storale prevedeva l’azione delle élite sulla massa mediante determinate iniziative di stimolo e
attraverso lo stabilimento delle condizioni sociali che avrebbero facilitato l’annuncio evangeli-
co al milieu pagano. Il lavoro con le élite potrebbe sembrare un’attività pastorale esclusoria, ma
non era così. Ecco come Joseph Cardijn, fondatore della JOC, spiegava il rapporto tra élite e
massa.
46
Cap. 5 - La pastorale d’insieme
te, influenti ed attive di un’organizzazione di masse, ma devono essere élite prese tra le masse e
che agiscono all’interno delle masse e non élite distanti e separate. Dobbiamo avere leader che
stanno con e per i loro uomini nelle trincee, sul fronte, in battaglia”5.
Se la prima fase nell’articolazione della pastorale d’insieme è stata una reazione ad una situa-
zione di crisi, la seconda fase originò dalla presa di coscienza del valore intrinseco di un’azione
pastorale organizzata. Facendo un’auto-verifica, la pastorale trovava che la sua azione era spes-
so segnata dal disordine, dall’anarchia, dall’ansietà, dalla frammentarietà, dall’improvvisazione
e da una forte dipendenza dall’attività individuale. Allo stesso tempo, si notava che l’azione pa-
storale in una zona aveva bisogno dell’organizzazione e del coordinamento di tutte le forze in
campo. Questa constatazione sociologica coincideva con una riflessione teologica fondamenta-
le, che sottolineava la dimensione personale e comunitaria della Chiesa così come la collegialità
dei suoi ministri. L’essere comunità esige un operare comunitario. In questa prospettiva, si
concepiva l’azione per équipe (queste équipe erano come raggi che partivano da un centro per
arrivare a tutti i punti della circonferenza) e si giustificava l’esigenza di un’azione più comunita-
ria ed ecclesiale. Nessuno può fare pastorale come un ‘cavaliere solitario’, come un franco tira-
tore. Questo spirito fu notato al Congresso nazionale della Union des Oeuvres di Francia nel
1956, che si tenne proprio sotto il titolo “La pastorale: un’opera comune” (Pastorale oeuvre
commune).
Lo stesso concetto comunitario si sviluppò nella pastorale dall’America Latina, sotto l’influsso
del movimento “Per un Mondo Migliore” del P. Lombardi. Questo movimento promosse pro-
getti importanti di rinnovamento parrocchiale, noti col nome di “Nuova Immagine di Parroc-
chia” (NIP).
Infine, un terzo elemento che influì sull’elaborazione del concetto di pastorale d’insieme fu la
riscoperta del carattere episcopale e, pertanto, diocesana, della pastorale. Quanto più zonale è la
pastorale tanto più naturale è vedere il vescovo come il primo pastore. Oggigiorno, questa azio-
ne del vescovo è strutturata mediante i diversi organismi diocesani. Come sappiamo, in primo
luogo c’è il consiglio presbiterale (LG 28; CD 28; OT 7; Ecclesiae sanctae) che in maniera
consultiva aiuta il vescovo nel governo della diocesi. Poi, c’è il suo consiglio pastorale (OT 41)
che studia e soppesa quel che concerne le opere pastorali. Questo consiglio è molto raccoman-
dato, ma non è obbligatorio. Le persone che lo compongono vengono scelte in ragione della
loro esperienza e tecnica, e non per rappresentatività. Questo consiglio ha voto consultivo e da
esso procedono le diverse commissioni pastorali: famiglia, giovani, catechesi, eccetera… Oltre
a questa organizzazione di vertice, una diocesi grande normalmente è divisa in zone pastorali.
––––––––
5
Cfr. Discorso del 26 agosto 1935, nel corso della prima settimana internazionale della JOC, Bruxelles
25-29 Agosto 1935. http://www.cardijn.net/cardijn/1935001-3verites/;(traduzione nostra) .
47
Teologia pastorale
Senza pretendere di fare un diagramma perfetto né completo, ma solo per dare una delucida-
zione, presentiamo di seguito un organigramma pastorale di una diocesi. La complessità salta
agli occhi, così come pure la necessità di far sì che tutti gli agenti della pastorale convergano
verso il bene comune della Chiesa particolare. Fondamentalmente, possiamo dire che la struttu-
ra pastorale a livello diocesano sarebbe la seguente: il vescovo col suo presbiterium.
In primo luogo, c’è la pastorale d’insieme, così come l’abbiamo descritta sopra, che consiste
nel coordinamento operativo di tutti gli agenti in campo. È stata usata di più nei paesi europei. È
un piano che suppone uno spirito ecclesiale positivo in tutti gli interessati, affinché non si con-
verta né in una burocrazia soffocante, che non riesce ad integrare gli elementi nuovi, né in lette-
ra morta, a causa dell’insubordinazione di alcuni.
Il secondo tipo è quello che opera nei Paesi dove ci sono poche risorse umane e materiali, e do-
ve si è obbligati a economizzare. Troviamo questo tipo di piano nei Paesi di missione, in Ame-
rica Latina ed in Africa. In questi casi, normalmente, ha una maggiore azione centralizzatrice.
Il terzo tipo, più che un piano d’insieme, consiste nell’offrire alla pastorale un’idea ispiratrice di
––––––––
6
Cfr. S. Pintor, L’uomo via della Chiesa. Manuale di Teologia Pastorale, EDB, Bologna 1992, p.219.
48
Cap. 5 - La pastorale d’insieme
Piani di questo tipo, normalmente, si fanno anche usando alcune parole chiave come, per e-
sempio, pace, nuova evangelizzazione, missione, cristianizzazione, liberazione, speranza, vita,
popolo. Parole come queste assolvono diverse funzioni all’interno della pastorale. Hanno una
funzione espressiva in quanto manifestano l’identità di un gruppo, di una Chiesa particolare e
suscitano nei membri una serie di esperienze nuove. In secondo luogo, hanno una funzione di
orientamento, in quanto ricordano a tutti la meta finale, la missione fondamentale. Solitamente
danno luogo a nuove iniziative. Hanno anche una funzione critica e di discernimento: aiutano
ad identificare le azioni più valide ed utili. Ovviamente, qualsiasi parola ha dei limiti in quanto
sottolinea solo un aspetto del vangelo, dipende da un certo contesto e, infine, l’uso può logorar-
la7.
––––––––
7
Si può vedere l’interessante studio che fa P. M. Zulehner su queste parole chiave nel suo Teologia
Pastorale Vol. 1, Queriniana, Brescia 1992, pp. 64-98.
49
Capitolo 6
LA PROGRAMMAZIONE PASTORALE
Il tema della pastorale d’insieme ci porta a trattare il tema della programmazione. Nella nostra
cultura moderna, la programmazione ha assunto una grande importanza e sentiamo continua-
mente parole come pianificazione strategica, programmi di qualità, benchmarking, standard
internazionali ISO 2001, etc. Senza voler fare della Chiesa una mera istituzione umana, dob-
biamo tuttavia riconoscere la necessità di programmare la nostra azione apostolica, perché non
c’è dubbio che è volontà di Dio che l’azione sia efficace: “la mia Parola non ritorna senza avere
compiuto la sua funzione”. Senza pianificazione c’è un pericolo reale di confondere movimen-
to con azione. Ci può essere molto attivismo, ma senza risultati.
Quel che si dice di seguito è semplicemente un esercizio che vorrebbe servire da stimolo affin-
ché ogni lettore faccia un reale processo di pianificazione della propria attività o realtà pastora-
le. Qui parleremo della Chiesa in generale, ma ogni lettore dovrà applicare le idee alla sua realtà
personale e particolare. Questo può essere un processo appassionante perché, in un certo senso,
è una risposta pratica all’invito che Cristo ci fa ad essere suoi messaggeri e a dedicarci a quella
missione con tutta la passione della nostra anima. Inoltre, vogliamo essere “efficaci” e, pertanto,
vogliamo evitare l’improvvisazione, identificare i problemi e determinare le azioni più valide.
Tutto questo non si può fare senza una buona pianificazione. Questo è un processo che convie-
ne fare “in ginocchio”, accompagnati dalla preghiera, perché è Dio che costruisce la casa ed in
vano lavoriamo noi operai, se lo facciamo lontano da Lui1. Quel che segue è uno dei numerosi
possibili schemi di pianificazione. Nella Chiesa esistono diversi movimenti che si dedicano ad
offrire metodi di pianificazione pastorale, e il lettore li potrà consultare con profitto2.
––––––––
1
Ecco come un pastore (di Milwaukee, Usa), presenta il compito ai suoi fedeli: «Se ti trovi su una bar-
ca quando arriva una tempesta, rema verso riva come se tutto dipendesse da te, ma prega come se tutto
dipendesse da Dio”. Questo è un esempio della nostra fede che tutto è nelle mani amorose, provvidenti
ed onnipotenti di Dio, Padre misericordioso che ha sempre cura di noi, ma che vuole anche utilizzare
tutta la nostra forza, tutti i nostri talenti, tutto il nostro ingegno, l’energia e i doni per cooperare col suo
piano per le nostre vite. Vorrei considerare insieme con voi un compito che richiederà molta preghiera
e molto remare: pianificazione pastorale. Ricordate quando Gesù usò la parabola dell’agricoltore e del
seme? L’agricoltore lavora duro per preparare la terra, strappando le erbe, concimando la terra, aprendo
il solco e piantando il seme… E dopo confida pazientemente nella provvidenza di Dio e nel tempo
buono perché arrivi il raccolto. Questo è un paradigma della terra ed è ciò che voglio intendere con pia-
nificazione pastorale: dobbiamo preparare, aprire il solco, far pulizia, e piantare per il futuro, e subito
confidare che il Signore del raccolto farà fruttificare” (Arcivescvo T. Nolan). Questo vescovo dice, poi,
di voler fondare la pastorale della sua diocesi su quattro principi: l’eucaristia (Ecclesia de Eucaristia),
l’importanza della parrocchia, il servizio, una diligente pianificazione.
2
Uno di questi è SINE (Sistema integrale della Nuova Evangelizzazione). Molte diocesi e molte par-
rocchie hanno un piano pastorale cui si può accedere attraverso Internet.
Cap. 6 - La programmazione pastorale
La prima cosa che bisogna formulare è la missione, l’obiettivo finale di tutto ciò che si farà con
le azioni concrete. Nel caso della Chiesa Universale, questa missione ce la dà il Vaticano II,
quando dice, nella Lumen Gentium, che la Chiesa ha la missione di essere il sacramento di sal-
vezza per tutto il mondo. Ha il mandato del suo fondatore di andare in tutto il mondo a predica-
re la Parola, a battezzare e a realizzare il culto spirituale, a condurlo all’obbedienza della fede3.
All’interno di questa grande missione della Chiesa, ognuno può formulare la propria missione:
di una chiesa particolare, di una comunità, di un’opera. La missione è quella che normalmente
appare, per esempio, nei primi paragrafi della Regola di una Congregazione religiosa: mirare
alla santificazione dei suoi membri e all’estensione del Regno di Cristo nella società4. Nel lin-
guaggio preciso degli uomini d’affari generalmente si dice che la formulazione della missione
deve consistere in una sola frase, che dica il nome dell’agente (persona, comunità, opera), quel
che fa, per chi lo fa e dove. Una buona formulazione può dare ad un gruppo o a un’opera la di-
rezione definitiva della sua azione.
La pianificazione è la proiezione mentale del futuro che desideriamo costruire. Nella formula-
zione della visione viene descritta la realtà che vogliamo che esista al termine di un certo perio-
do di tempo. Questo periodo può essere di 5 o 10 anni. Ciò dipenderà da ogni realtà concreta.
L’importante è capire che con questa prospettiva vogliamo mettere in chiaro ciò che vogliamo
che esista alla fine di questo periodo.
Facciamo ora un sforzo per pianificare la Chiesa dell’anno 2025. Ovviamente, qualsiasi descri-
zione sarà necessariamente incompleta e parziale, ma è necessario fare una pianificazione, per-
ché, se un’istituzione non pensa al suo futuro, la cosa più sicura è che non avrà alcun futuro5.
Così: vogliamo che la Chiesa dell’anno 2025 si caratterizzi:
– per l’unità coi fratelli ortodossi e con alcune delle chiese della Riforma;
– per un numero sufficiente di vocazioni sacerdotali e alla vita consacrata, per poter rispondere
alle Chiese particolari e per poter inviare missionari ai Paesi in cui ce n’è più bisogno.
– per il suo essere un popolo cattolico, formato nella dottrina e nella liturgia;
––––––––
3
Cfr. LG, n. 5.
4
Basta una breve navigazione in Internet per raccogliere una serie di formulazioni della missione di
gruppi, di organizzazioni religiose: “Noi, sorelle di Maryknoll, siamo impegnate a varcare le frontiere,
siano esse culturali, religiose, sociali o geografiche, per proclamare la Buona Novella del Regno di
Dio” (Constituciones,, Articles #22, 40; trad. ns.); “Noi, sorelle della Provvidenza di San Vincenzo de
Paoli siamo una congregazione apostolica di donne consacrate mediante i voti e chiamate ad essere i
canali della Provvidenza di Dio nel mondo, mediante un servizio di compassione in risposta alle neces-
sità del nostro tempo”.
5
“If you fail to plan you plan to fail” (Schuller): “Si fallisci nel pianificare, pianifichi di fallire”.
51
Teologia pastorale
– per una vita familiare saldamente fondata sulle virtù cristiane e capace di educare cristiana-
mente i figli, obbediente alla dottrina cattolica sulla sessualità e sul rispetto per la vita;
– per le comunità parrocchiali dinamiche nella carità verso tutti;
– per il suo essere una Chiesa in cui la donna possa esercitare pienamente la propria missione.
Sicuramente il lettore potrà aggiungere a questa lista molti altri elementi, o sostituire la lista con
un’altra completamente nuova. L’importante è “osare” pensare il futuro e decidere questo futu-
ro, sapendo che è Dio, in fin dei conti, che ha tale futuro nelle sue mani. Questo stesso esercizio
può essere fatto su una realtà più specifica: una parrocchia, una diocesi, la catechesi nella par-
rocchia, l’apostolato giovanile, le vocazioni, etc.
Una volta formulata la missione e la proiezione, sappiamo quel che vogliamo. Ora occorre e-
saminare le nostre forze e le nostre debolezze per procedere con prudenza e raggiungere i nostri
obiettivi. Questa analisi viene fatta in due dimensioni: uno sguardo all’interno della Chiesa o
dell’opera, per individuare le forze e le debolezze, ed un altro sguardo all’esterno, per distingue-
re le opportunità e le minacce. Quali sono le debolezze e le forze, le opportunità e le minacce
con le quali la Chiesa deve oggi fare i conti nel proprio lavoro pastorale e nell’immediato futu-
ro7?
La parola “minacce” può attirare l’attenzione. Si può parlare di “minacce” per la Chiesa? Cer-
tamente! La Chiesa ha la promessa di Cristo che le porte dell’Inferno non prevarranno contro di
essa, ma questo non ci esime dalla vigilanza e dalla necessità di “lottare” in sua difesa, perché il
Nuovo Testamento ci presenta la Chiesa sottoposta alla persecuzione e in battaglia contro le
forze del male. È importante renderci conto che l’azione della Chiesa è contrastata da forze mi-
steriose, che combattono contro di essa8. La consapevolezza di questa realtà deve imprimere in
tutti noi un maggior senso di responsabilità, di amore e di dedizione agli impegni pastorali.
Per fare una radiografia della Chiesa, delle sue forze e delle sue debolezze, delle minacce e del-
le opportunità, disponiamo di una grande abbondanza di documenti. Pensiamo specialmente ai
sinodi celebrati in preparazione dell’anno giubilare del 2000 (Ecclesia in Africa - 14 Settembre
––––––––
6
Quest’analisi in inglese viene chiamata “analisi SWOT” (Strenghts, Weaknesses, Opportunities, Threats:
forze, debolezze, opportunità, minacce).
7
Qui, per ragioni di spazio, non faremo quest’analisi seguendo i quattro punti (forze, debolezze, oppor-
tunità, minacce). Tuttavia, in una pianificazione concreta bisogna procedere secondo questo ordine.
8
Cfr. SCDF, Dichiarazione circa l’appartenenza dei cattolici ad associazioni massoniche (Declaratio
de canonica disciplina quae sub poena excommunicationis vetat ne catholici nomen dent sectae masso-
nicae aliisque eiusdem generis associationibus), 17 febbraio 1981 Dichiarazione circa le associazioni
massoniche (Declaratio de associationibus massonicis), 26 novembre 1983; Lettera al Nunzio aposto-
lico in Brasilia riguardante alcune interpretazioni delle norme circa l’iscrizione alle sette massoniche,
26 febbraio 1975; Notificazione ai Presidenti delle Conferenze episcopali riguardante l’appartenenza di
cattolici ad associazioni massoniche, 19 luglio 1974; Notificazione riguardante l’abolizione dell’Indice
dei libri (Notificatio de Indicis librorum prohibitorum conditione), 14 giugno 1966; Decreto riguardan-
te la vigilanza dei Pastori della Chiesa sui libri – Ecclesiae pastorum (Decretum de Ecclesiae pastorum
vigilantia circa libros), 19 marzo 1975.
52
Cap. 6 - La programmazione pastorale
1995; Ecclesia in America - 22 Gennaio 1999; Ecclesia in Asia - 6 Novembre 1999; Ecclesia
in Oceania - 20 Novembre 2001; Ecclesia in Europa - 29 Giugno 2003), le encicliche e le co-
municazioni puntuali dei diversi dicasteri della Santa Sede. In tali documenti, troviamo studi
che sono il frutto di molta ricerca e riflessione, e costituiscono uno strumento essenziale per
qualsiasi lavoro di pianificazione pastorale. Vorremmo invitare il lettore ad accompagnare la
propria pianificazione con la lettura dei documenti che più si avvicinano alla sua realtà geogra-
fica o pastorale. Esaminando i documenti, il lettore potrà rendersi conto di ciò che significano le
forze, le debolezze, le opportunità e le minacce. Si renderà anche conto di come quelle forze e
debolezze sono, a volte, facce opposte della stessa medaglia: l’uomo stesso che dubita e spera,
che si perde e, allo stesso tempo, cerca una via.
Nel documento post-sinodale Ecclesia in Europa il Papa ci dà una descrizione sintetica di quel
che possono essere alcune delle forze e delle debolezze della Chiesa, oggi. Di seguito leggiamo
il testo stesso e, poi, faremo un commento su ciò che implica.
«Questa parola è rivolta oggi anche alle Chiese in Europa, spesso tentate da un offuscamento
della speranza. Il tempo che stiamo vivendo, infatti, con le sfide che gli sono proprie, appare
come una stagione di smarrimento. Tanti uomini e donne sembrano disorientati, incerti, senza
speranza e non pochi cristiani condividono questi stati d’animo. Numerosi sono i segnali pre-
occupanti che, all’inizio del terzo millennio, agitano l’orizzonte del Continente europeo, il qua-
le, “pur nel pieno possesso di immensi segni di fede e testimonianza e nel quadro di una convi-
venza indubbiamente più libera e più unita, sente tutto il logoramento che la storia antica e re-
cente ha prodotto nelle fibre più profonde dei suoi poli, generando spesso delusione”.
Tra i tanti aspetti, ampiamente richiamati anche in occasione del Sinodo, vorrei ricordare lo
smarrimento della memoria e dell’eredità cristiane, accompagnato da una sorta di agnostici-
smo pratico e di indifferentismo religioso, per cui molti europei danno l’impressione di vivere
senza retroterra spirituale e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato
dalla storia. Non meravigliano più di tanto, perciò, i tentativi di dare un volto all’Europa esclu-
dendone la eredità religiosa e, in particolare, la profonda anima cristiana, fondando i diritti dei
popoli che la compongono senza innestarli nel tronco irrorato dalla linfa vitale del cristianesi-
mo.
Nel Continente europeo non mancano certo i prestigiosi simboli della presenza cristiana, ma
con l’affermarsi lento e progressivo del secolarismo, essi rischiano di diventare puro vestigio
del passato. Molti non riescono più ad integrare il messaggio evangelico nell’esperienza quoti-
diana; cresce la difficoltà di vivere la propria fede in Gesù in un contesto sociale e culturale in
cui il progetto di vita cristiano viene continuamente sfidato e minacciato; in non pochi ambiti
pubblici è più facile dirsi agnostici che credenti; si ha l’impressione che il non credere vada da
sé mentre il credere abbia bisogno di una legittimazione sociale né ovvia né scontata.
53
Teologia pastorale
che attanaglia molte persone, e la perdita del significato della vita. Tra le espressioni e i frutti di
questa angoscia esistenziale vanno annoverati, in particolare, la drammatica diminuzione della
natalità, il calo delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, la fatica, se non il rifiuto, di
operare scelte definitive di vita anche nel matrimonio. (…)
Alla radice dello smarrimento della speranza sta il tentativo di far prevalere un’antropologia
senza Dio e senza Cristo. Questo tipo di pensiero ha portato a considerare l’uomo come “il cen-
tro assoluto della realtà, facendogli così artificiosamente occupare il posto di Dio e dimentican-
do che non è l’uomo che fa Dio ma Dio che fa l’uomo. L’aver dimenticato Dio ha portato ad
abbandonare l’uomo”, per cui “non c’è da stupirsi se in questo contesto si è aperto un vastissi-
mo spazio per il libero sviluppo del nichilismo in campo filosofico, del relativismo in campo
gnoseologico e morale, del pragmatismo e finanche dell’edonismo cinico nella configurazione
della vita quotidiana”. La cultura europea dà l’impressione di una “apostasia silenziosa” da par-
te dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse.
In tale orizzonte, prendono corpo i tentativi, anche ultimamente ricorrenti, di presentare la cul-
tura europea a prescindere dall’apporto del cristianesimo che ha segnato il suo sviluppo storico
e la sua diffusione universale. Siamo di fronte all’emergere di una nuova cultura, in larga parte
influenzata dai mass media, dalle caratteristiche e dai contenuti spesso in contrasto con il Van-
gelo e con la dignità della persona umana. Di tale cultura fa parte anche un sempre più diffuso
agnosticismo religioso, connesso con un più profondo relativismo morale e giuridico, che af-
fonda le sue radici nello smarrimento della verità dell’uomo come fondamento dei diritti inalie-
nabili di ciascuno. I segni del venir meno della speranza talvolta si manifestano attraverso for-
me preoccupanti di ciò che si può chiamare una “cultura di morte”».
Questo testo ci pone di fronte ad un problema che colpisce la radice stessa della Chiesa: la fede.
Non si tratta di una difficoltà particolare, ma delle fondamenta stesse dell’edificio. Per questo
merita un’analisi più dettagliata.
La perdita di vigore nella fede ha una causa che si chiama “immanentismo”, una parola che è
sinonimo di “naturalismo” e di quello che in ambienti anglosassoni si chiama “secular huma-
nism”.
L’immanentismo è una dimensione teorico-pratica dello spirito umano che si traduce nel pren-
dere l’uomo quale ultima misura di tutto, e nel negare la possibilità di conoscere con certezza
qualsiasi cosa che non rientri in tale misura. Questo ambiente di immanentismo, prodotto e al
contempo causa dell’illuminismo, dell’ateismo e dell’indifferentismo, rappresenta, certamente,
una minaccia per la Chiesa, perché è fortemente radicato nel mondo, e la Chiesa vive nel mon-
do ed i suoi membri sono soggetti all’influsso di esso. Occorre una speciale vigilanza affinché
la Chiesa non si lasci influenzare al punto di perdere la propria identità. L’immanentismo dà
frutti molto cattivi per la Chiesa. Vediamo alcuni.
a) Perdita della visione soprannaturale di fede. Uno degli effetti principali dell’immanentismo
è quello di fiaccare la fede e far sì che perda di vista l’orizzonte ultimo, il cielo, la vita eterna. La
debolezza della fede favorisce, a sua volta, la comparsa di eresie (oggi più subdole di un tem-
54
Cap. 6 - La programmazione pastorale
Forse è la stessa difficoltà che la Chiesa ha sempre affrontato, ma oggi ha si presenta in maniera
più insinuante, perché ha la pretesa di essere scientifica e illuminata, come logica conseguenza
di un inevitabile processo di maturità dello spirito, come una necessaria demitologizzazione.
Dunque, una minaccia più insidiosa. Paolo VI, nella sua esortazione Evangelii nuntiandi (n.
80), metteva in guardia la Chiesa con queste parole:
«Avviene così che si sente dire troppo spesso, sotto diverse forme: imporre una verità, sia pure
quella del vangelo, imporre una via, sia pure quella della salvezza, non può essere che una vio-
lenza alla libertà religiosa. Del resto, aggiungono, perché annunziare il vangelo dal momento
che tutti sono salvati dalla rettitudine del cuore? Se, d’altra parte, il mondo e la storia sono pieni
dei “germi del Verbo”, non è una illusione pretendere di portare il vangelo là dove esso già si
trova nei semi, che il Signore stesso vi ha sparsi?
Chiunque si prenda cura di approfondire, nei documenti conciliari, le domande che questi alibi
vi attingono troppo superficialmente, troverà tutt’altra visione della realtà. Sarebbe certo un er-
rore imporre qualcosa alla coscienza del nostri fratelli. Ma proporre a questa coscienza la verità
evangelica e la salvezza in Gesù Cristo con piena chiarezza e nel rispetto assoluto delle libere
opzioni che essa farà – senza “spinte coercitive o sollecitazioni disoneste o stimoli meno retti” –
lungi dall’essere un attentato alla libertà religiosa, è un omaggio a questa libertà, alla quale è
offerta la scelta di una via, che gli stessi non credenti stimano nobile ed esaltante. È dunque un
crimine contro la libertà altrui proclamare nella gioia una buona novella che si è appresa per
misericordia del Signore? E perché solo la menzogna e l’errore, la degradazione e la pornogra-
fia avrebbero il diritto di essere proposti e spesso, purtroppo, imposti dalla propaganda distrutti-
va dei mass media, dalla tolleranza delle leggi, dalla timidezza dei buoni e dalla temerità dei
cattivi?
Questo modo rispettoso di proporre il Cristo e il suo regno, più che un diritto, è un dovere
dell’evangelizzatore. Ed è parimenti un diritto degli uomini suoi fratelli di ricevere da lui
l’annuncio della buona novella della salvezza. Questa salvezza Dio la può compiere in chi egli
vuole attraverso vie straordinarie che solo lui conosce. Peraltro se il Figlio è venuto, ciò è stato
precisamente per rivelarci, mediante la sua parola e la sua vita, i sentieri ordinari della salvezza.
E ci ha ordinato di trasmettere agli altri questa rivelazione con la sua stessa autorità. Non sarà
inutile che ciascun cristiano e ciascun evangelizzatore approfondisca nella preghiera questo
pensiero: gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio,
benché noi non annunziamo loro il vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per
––––––––
9
Nel suo libro Il futuro del cattolicesimo. La Chiesa dopo Papa Wojtyla, Piemme, Casale Monferrato
1997, Gianni Baget Bozzo avverte che la Chiesa ha resistito alle persecuzioni del XX secolo, ma ram-
menta che, generalmente, a ogni epoca di martiri segue una di eresie. Secondo Baget Bozzo, oggi gli
oppositori della Chiesa sono più subdoli, sono all’interno della Chiesa stessa e si nascondono dietro a
teorie che possono perfino sembrare religiose.
55
Teologia pastorale
paura, per vergogna – ciò che san Paolo chiamava “arrossire del vangelo” – o in conseguenza
di idee false, trascuriamo di annunziarlo? Perché questo sarebbe allora tradire la chiamata di
Dio che, per bocca dei ministri del vangelo, vuole far germinare la semente; dipenderà da noi
che questa diventi un albero e produca tutto il suo frutto».
b) Sfiducia nella ragione. Un problema che è in relazione con quanto detto sopra e, forse, parte
della sua causa, è la diffidenza che il mondo secolarizzato ha nella ragione e nella possibilità di
conoscere la verità. Questo fatto ha una storia complessa. Il mondo moderno (a partire dal seco-
lo XVI) è stato caratterizzato dall’euforia nel potere della ragione, ed è certo che la ragione rag-
giunse grandi risultati nelle scienze e nell’organizzazione politica della società. Ma si riteneva
che la ragione avrebbe avuto un futuro in crescendo, cioè che avrebbe continuato su un percor-
so uniforme, verso risultati sempre più perfetti. Questa euforia era spesso accompagnata
dall’idea che la religione, la teologia e qualsiasi pensiero basato su una rivelazione fosse una
cognizione dubbiosa e pericolosa, perché avrebbe potuto dare adito ad atteggiamenti emotivi, a
fanatismi. Era, quindi, meglio prescindere dalla religione o, addirittura, combatterla e sradicarla
completamente dalle menti degli uomini10.
Questa euforia razionalista non durò a lungo. Per diverse vie, cominciò a diffondersi il sospetto
che la ragione umana non fosse tanto potente, che non era tanto universale come si voleva far
credere, ma aveva piuttosto i suoi “punti di vista”, che era relativa, che le sue conclusioni erano
provvisorie, che non era capace di dare unità ai diversi campi del sapere. Infine, nel XX secolo,
siamo stati testimoni del nichilismo, una corrente che si dedicò a seminare dovunque per la sfi-
ducia in tutto ciò che voleva essere una risposta definitiva.
Nell’enciclica Fides et Ratio Giovanni Paolo II va incontro a queste difficoltà, e ci mette in
guardia contro il rischio di cadere in un atteggiamento di nichilismo nella filosofia (non esiste
verità), in un atteggiamento di relativismo nel campo della conoscenza e della morale (non ci
esistono verità assolute), e in un atteggiamento di pragmatismo e di edonismo nella vita pratica
(le azioni valgono per quel che valgono i loro risultati)11.
––––––––
10
Forse una delle espressioni più tristi di questa situazione la troviamo oggi al constatare la lotta che la
Chiesa ha dovuto intraprendere (con il Papa in prima fila) per chiedere che la Costituzione Europea
faccia riferimento alle radici cristiane del Continente nella nuova bozza che si sta preparando. Qui si
può vedere in atto ciò che Paolo VI aveva detto nella Populorum progressio (n. 42): «È un umanesimo
plenario che occorre promuovere. Che vuol dire ciò, se non lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli
uomini? Un umanesimo chiuso, insensibile ai valori dello spirito e a Dio che ne è la fonte, potrebbe
apparentemente avere maggiori possibilità di trionfare. Senza dubbio l’uomo può organizzare la terra
senza Dio, ma “senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusi-
vo è un umanesimo inumano”. Non v’è dunque umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel
riconoscimento d’una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana. Lungi dall’essere la norma ul-
tima dei valori, l’uomo non realizza se stesso che trascendendosi. Secondo l’espressione così giusta di
Pascal: “L’uomo supera infinitamente l’uomo”».
11
Infatti, se seguiamo la successione dei documenti e degli interventi del Papa negli ultimi tempi, abbiamo
una radiografia impressionante delle necessità pastorali più urgenti della Chiesa: l’enciclica Fides et Ratio
ed il problema della fiducia nella capacità della ragione umana di cogliere la verità, l’enciclica Veritatis
splendor, che affronta l’esistenza o meno di verità morali assolute, la Dominus Iesus, che spiega il senso
della salvezza in Cristo rispetto ai valori presenti in altre religioni, la Redemptoris missio, che segnala
l’insidia rappresentata dalla perdita dello spirito missionario, la Evangelium vitae che propone la dimensio-
56
Cap. 6 - La programmazione pastorale
Quando, dopo la caduta delle ideologie del XIX e del XX secolo, gli uomini si sono chiesti
quali fossero le basi sulle quali potevano costruire la società, la risposta offerta dai nichilisti non
era molto promettente: non si può costruire su nessuna verità forte, perché non ci fidiamo più
della ragione; né si può parlare di valori permanenti, perché non esistono tali valori; né si può
pensare di costruire su un ideale, perché gli ideali sono pericolosi e suscettibili di essere usati
ideologicamente e fanaticamente12. Allora, l’unica cosa che resta è costruire sulla semplice in-
tuizione di ciò che è immediatamente “utile e piacevole”. Salta agli occhi la pericolosità di tale
atteggiamento!
c) Scarsità di vocazioni. Un ambiente come quello che abbiamo appena descritto causa un pro-
fondo sconforto, e non è idoneo né per raccogliere vocazioni né per restituire ai cristiani il senso
della missione. Se non esiste verità, perché qualcuno dovrebbe dare la vita per diffonderla? Se
non esiste verità, è facile che il sacerdote o la persona consacrata perda la sua identità profonda.
Allora, il sacerdote e la persona consacrata vengono visti spesso come operatori sociali, come
psicologi, però non come persone al servizio di un mistero di salvezza, di redenzione dal pecca-
to, di una promessa di vita eterna. Un volta di più, invece del messaggio forte del vangelo, vie-
ne offerto un messaggio di umanesimo moderno o postmoderno, con un tocco di una vaga reli-
giosità aggiunta13.
Insieme alla scarsità di vocazioni c’è anche il capitolo della formazione delle vocazioni sacer-
dotali e della vita consacrata. I recenti problemi per i casi di pedofilia riguardanti alcuni sacer-
doti ha rimarcato questo aspetto in maniera drammatica. Oltre al danno inflitto alle vittime,
questi eventi hanno gravemente danneggiato la fiducia dei fedeli e l’autorità morale della Chie-
sa. Non possiamo ignorare questo effetto profondo, ed è necessario lavorare seriamente in di-
versi campi per recuperare quell’autorità in tutta la sua integrità. Alcuni attaccano il celibato dei
sacerdoti come fosse un qualcosa che dovrebbe sparire, e lo identificano e denunciano come
parte della causa degli scandali che talvolta si verificano. Tuttavia, la Chiesa continua a difende-
re il valore del celibato, e non lo considera un ostacolo affinché ci sia un numero sufficienti di
vocazioni nella Chiesa. Tuttavia, tutto questo costituisce una sfida importante per gli anni a ve-
nire14.
––––––––
ne sacra della vita umana, la Familiaris consortio che affronta i temi del matrimonio, della sessualità uma-
na, dell’anticoncezione, i documenti sull’Ispirazione, la Bibbia, i vescovi, il Jubileo del 2000, l’Islam, la
lettera alle donne e quella alle famiglie (femminismo), l’identità delle università della Chiesa (Ex corde Ec-
clesiae), la preghiera (infiltrazione delle filosofie orientali).
12
Cfr. Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici
nella vita politica, 16 gennaio 2003.
13
Cfr. Nuove vocazioni per una nuova Europa, della Pontificia opera per le vocazioni ecclesiastiche,
frutto del Congresso sulle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa, tenutosi a Roma dal
5 al 10 magio 1997; Congregazione per l’educazione cattolica, Le persone consacrate e la loro missio-
ne nella scuola. Riflessioni e orientamenti (19 novembre 2002).
14
Cfr. C. Cochini, The Apostolic Origins Of Priestly Celibacy, Ignatius Press 1990; Cfr. Jubilee for
Priests nel sito della Congregazione per il Clero.
57
Teologia pastorale
d) Dissenso. Il problema del dissenso è un altro anello nella catena che inizia con
l’immanentismo. Questo dissenso sorge a livello teologico e a livello morale. A livello teologi-
co, la Congregazione per la Dottrina della fede ha pubblicato un documento sulla “vocazione
ecclesiale del teologo”, nel quale dedica un terzo dell’esposizione proprio al tema del dissen-
so15. Il dissenso può creare nella Chiesa un Magistero parallelo: di fronte al Magistero del Papa
e dei vescovi in comunione col Papa, si erge un altro insegnamento che, evitando un confronto
diretto, continua a diffondere insegnamenti che sono contrari al Magistero autentico. Diceva a
questo riguardo Paolo VI:
«Giungono fino a Noi voci confuse e strane, che ci fanno riflettere molto e che sogliono anche
sorprenderci e rattristarci, perché sono voci che provengono non solo dalle moltitudini di coloro
che non hanno la fortuna di possedere la nostra fede, ma sogliono provenire anche dai settori
migliori del popolo di Dio, sempre fedeli ed uniti a Noi, e nei quali ordinariamente la dottrina
della Chiesa è alimentata con ferventi studi, è coltivata con pensieri saldi, è onorata con feconda
vita cristiana; vengono a farsi eco di errori antichi e moderni, già rettificati e condannati dalla
Chiesa ed esclusi dal patrimonio delle sue verità, o anche a proporre ipotesi trasformate subita-
mente in affermazioni, che vorrebbero chiamarsi scientifiche e che mettono in discussione
principi, leggi, tradizioni alle quali la Chiesa è legata fermamente e dalle quali è inconcepibile
che Essa possa mai separarsi; o ad insinuare critiche ripugnanti sulla storia e sulla struttura della
Chiesa e a proporre revisioni radicali di tutta la sua azione apostolica e della sua presenza nel
mondo, di modo che la Chiesa, lungi dal trarre di lì quelle virtù e quelle nuove forme cui tende
l’aggiornamento conciliare, finirebbe per assomigliare a questo mondo che, invece attende da
Essa il raggio della sua luce ed il vigore del suo sale, non la compiacente acquiescenza alle sue
discutibili teorie e abitudini profane»16.
58
Cap. 6 - La programmazione pastorale
le altre religioni18.
f) Disorientamento nella dottrina morale. Se c’è disorientamento nel dogma, è logico che ci sia
disorientamento anche nella morale. Nell’enciclica Veritatis splendor – rivolta ai vescovi – il
Papa dice di sentire il bisogno di «riflettere sull’insieme dell’insegnamento morale della Chie-
sa, con lo scopo preciso di richiamare alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che
nell’attuale contesto rischiano di essere deformate o negate» (ivi, n. 4). Queste verità si riferi-
scono fondamentalmente alla relazione tra libertà e verità, e all’esistenza di norme morali asso-
lute. L’enciclica è un’avvertenza a non cadere nel proporzionalismo e nel conseguenzialismo
morali19.
Un tema che emerge dalla Veritatis splendor è quello del martirio. Il XX secolo è stato un seco-
lo di martiri, e si deve pensare che esso dovrà far sempre parte del bagaglio spirituale del cri-
stiano. Per convincerci di questo, basta vedere la geografia del mondo di oggi, nella quale con-
statiamo che la Chiesa è perseguitata in maniera violenta in molte parti. L’attentato contro la
vita del Papa nel 1983, è un simbolo di quel che può accadere. L’assassinio del Cardinal Posa-
das a Guadalajara (Messico) e i sequestri di vescovi e sacerdoti in America Latina sono altret-
tanti indizi. Non è fantasioso dire che il martirio deve essere un tema da considerare nella pasto-
rale della Chiesa di domani.
Oltre al martirio cruento c’è il martirio della fedeltà alla vita cristiana. Giovanni Paolo II parla di
questo nella sua enciclica, nei numeri 90-94. Oltre a questo martirio della fedeltà, si deve parla-
re anche dei martiri della diffamazione e dell’esclusione: quando qualcuno non si allinea con le
correnti di moda, non è infrequente vedere che vengono fatti oggetti di campagne che tentano
di distruggerli. Alcune correnti, che si dichiarano democratiche, agiscono duramente contro co-
loro che non si conformano. Concludiamo questo paragrafo con una citazione dell’enciclica:
«Tutti i cristiani devono esser pronti a dare ogni giorno anche a costo di sofferenze e di gravi
sacrifici. Infatti di fronte alle molteplici difficoltà che anche nelle circostanze più ordinarie la
fedeltà all’ordine morale può esigere, il cristiano è chiamato, con la grazia di Dio invocata nella
preghiera, ad un impegno talvolta eroico, sostenuto dalla virtù della fortezza, mediante la quale
— come insegna san Gregorio Magno — egli può perfino “amare le difficoltà di questo mon-
do in vista del premio eterno”» (n. 93).
Oltre a quelle che abbiamo appena esaminato, la Chiesa si trova ad affrontare molte altre diffi-
coltà, che faranno parte della sua pastorale nei prossimi anni. Pensiamo all’unità dei cristiani, al
dialogo con le altre religioni, al rapporto con le sette. Pensiamo anche all’ignoranza della fede,
che caratterizza perfino coloro che sono ancora cristiani di nome, e il cui numero sta crescendo.
––––––––
18
Cfr. Dichiarazione sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo (Declaratio de Iesu Christi
atque Ecclesiae unicitate et universalitate salvifica), 6 agosto 2000; Notificazione a proposito del libro
del P. Jacques Dupuis, S.J. «Verso una teologia del pluralismo religioso», 24 gennaio 2001.
19
Cfr. Notificazione riguardante alcuni scritti del R.P. Marciano Vidal, C.Ss.R. (Notificatio super qui-
busdam scriptis Marciani Vidal), 22 febbraio 2001.
59
Teologia pastorale
I lettori possono condurre una propria ricerca e aggiungere e togliere ciò che abbiamo inserito,
per fare, poi, l’analisi più concreta delle realtà pastorali loro proprie.
Ora, dobbiamo passare alla parte propositiva. A questo punto, ci domandiamo: cosa è assolu-
tamente necessario fare, se vogliamo arrivare a realizzare ciò che abbiamo indicato nella mis-
sione e nella proiezione? La risposta deve consistere in una serie di azioni strategiche. Non de-
vono essere moltissime; possono essere tra le 10 e le 15. Devono essere “azioni” e non suolo
desideri. Cioè, devono essere suscettibili di esprimersi in forma di verbi transitivi: formare,
chiedere, ottenere, riunire, creare... Infine, devono essere “strategiche”, cioè azioni
assolutamente indispensabili, se vogliamo conseguire gli obiettivi proposti. Poi, si suddividono
in altre azioni più concrete, che possiamo chiamare “tattiche”.
a) Le strategie.
Cosa è necessario che la Chiesa faccia nei prossimi anni per conseguire i suoi obiettivi? Di
nuovo, possiamo ricorrere ai documenti citati prima per cercare in essi l’ispirazione necessaria.
In quei documenti vediamo menzionate le seguenti azioni strategiche. Qui prendiamo come
punto di riferimento la Ecclesia in Europa, e traiamo i seguenti orientamenti che proponiamo
come azioni strategiche per costruire la Chiesa che vogliamo per il prossimo futuro.
– Proclamare il mistero di Cristo, con coraggio e con la testimonianza di vita. Questa procla-
mazione si riferisce al primo annuncio, alla catechesi, alla formazione della fede adulta.
– Testimoniare la fede nell’unità e nel dialogo. Questo implica collaborazione ecumenica e dia-
logo con le altre religioni.
– Evangelizzare la cultura (inculturazione della fede). In questa azione hanno un ruolo fonda-
mentale le scuole, l’educazione dei giovani, l’attenzione ai mass-media.
– Promuovere lo spirito missionario della Chiesa d’Europa.
– Celebrare con forza il mistero di Cristo nella preghiera e nei sacramenti. Bisogna riscoprire la
liturgia, il senso del mistero, con speciale attenzione per l’Eucaristia e la Riconciliazione, la
preghiera comunitaria, la pietà popolare ed il giorno del Signore.
– Vivere l’amore di Cristo nel servizio. In questa azione hanno molta importanza il volontaria-
to, l’amore preferenziale per i poveri, i disoccupati, i malati.
– Riproporre la verità sulla famiglia e il matrimonio come santuario della vita e fondamento
della società. Servire in maniera speciale il Vangelo dalla vita.
– Creare una società degna dell’uomo, una civiltà dell’amore e della giustizia, caratterizzata
dalla sua capacità di accoglienza ed integrazione degli immigrati.
– Agire in qualità di Chiesa delle beatitudini e della novità di Dio, per dare un’anima al Conti-
nente Europeo, promuovere i valori universali, la solidarietà e la pace in collaborazione con le
istituzioni civili.
– Volgere lo sguardo a Maria.
– La Parrocchia.
– I Movimenti.
60
Cap. 6 - La programmazione pastorale
A questo punto, sviluppiamo le ultime due strategie che, in realtà sono implicite in tutto quel
che abbiamo detto, e che esprimono due realtà che nascondono molte delle forze e delle oppor-
tunità della Chiesa dei prossimi anni. Rappresentano anche possibili debolezze e minacce, ma
queste possono essere superate ampiamente col buon uso delle loro forze positive.
b) Vediamo adesso la questione della parrocchia.
1) Significato. La parrocchia come noi la conosciamo oggi esiste più o meno dal XII secolo. Si
trattava di un’unità giurisdizionale che regolava anche la questione delle proprietà e dei benefi-
ci. Per un certo tempo, il termine ha avuto anche un significato civile.
Etimologicamente, la parola deriva da un termine greco, “parokia”, che significava “quelli che
vivono vicino”. Ma, inizialmente, indicava anche il gruppo di persone che non erano residenti.
Pertanto, la parola aveva entrambi i sensi: quello di vicino e quello di viandante. Nel primo sen-
so, la parola ci dice che la parrocchia è la nostra casa. Nel secondo senso, ci dice che siamo
viandanti, che “non siamo di qui”. In entrambi i casi, il significato esprime una verità importan-
te della nostra fede.
La parrocchia non è di diritto divino, non appartiene alla rivelazione, bensì all’ambito pastorale.
Tuttavia, ha una forte carica teologale.
2) Difficoltà e crisi. Oggi la parrocchia ha molte difficoltà ed è oggetto di molte critiche. Tutta-
via, se alcuni anni fa si parlava della sua morte, oggi si è tornati a riconoscere il suo valore per-
manente. Vediamo alcune di queste critiche, e scopriamo in cosa sta l’importanza di questa
struttura pastorale.
La prima critica che sentiamo è che la parrocchia ha perso il suo senso di missione. Essa presta
molta attenzione ai pochi che la frequentano, è molto preoccupata per la loro sopravvivenza
numerica, ma è incapace di andare alla ricerca delle pecorelle smarrite, specialmente dei giova-
ni. Una Chiesa così, che non è missionaria, non è Chiesa. (Evangelii nuntiandi, n. 14; Ad Gen-
tes, n. 37 e 39).
Altri dicono che la parrocchia come struttura sociale è superata, perché appartiene ad una situa-
zione di tipo rurale-patriarcale, dove ci sono relazioni umane strette e personali, e che non si
adegua bene ad un ambiente industriale e urbano, dove le relazioni sono frammentate e piutto-
sto impersonali. Come risultato, abbiamo una parrocchia che non riesce a stare in mezzo alla
gente, che non condivide le angosce e le speranze delle persone, e che si concentra sulla sacre-
stia.
Un’altra serie di critica originano dalla poca personalità delle parrocchie. Queste critiche dicono
che le parrocchie si riducono spesso ad essere succursali dell’amministrazione diocesana, e non
assumono iniziative proprie. Si nota in esse un’omogenizzazione propria dell’epoca industriale,
con le caratteristiche tipiche della massimizzazione delle risorse, la centralizzazione e la specia-
lizzazione, senza dar sufficiente espressione alle peculiarità di ogni luogo. In questo modo, la
parrocchia diventa un “distributore di benzina”, dove si va per riempire il serbatoio e poi riparti-
61
Teologia pastorale
L’accusa della clericalizzazione è una delle più forti e frequenti. La parrocchia è vista come il
luogo in cui celebrare riti sacri, e non come luogo di comunione. Sembra che non si sia ancora
valorizzata e assimilata la ricchezza della dottrina del Vaticano II sui laici, forse a causa di una
mancanza di formazione del clero, che insegna a delegare.
A questa immagine di fallimento si contrappone l’immagine dei gruppi e dei nuovi movimenti,
che si presentano con più dinamicità, flessibilità e successo.
In risposta a queste difficoltà, possiamo dire che le parrocchie non fanno altro che riflettere le
difficoltà generali della Chiesa, e che i loro malanni sono più fisiologici che patologici. In altre
parole, si tratta di trovare vie di rinnovamento e non di rimozione. In realtà, la parrocchia resiste
e ha resistito nonostante le trasformazioni dei tempi. Questo perché, per molti, la parrocchia è
“la Chiesa”, la “loro Chiesa”. Le altre sollecitazioni sono lontane e non sono presenti nella vita
normale della gente. Per molti, la parrocchia è il luogo nel quale entrano per la prima volta in
contatto con la fede, e in cui vivono i momenti più significativi (battesimo, prima comunione,
matrimonio, funzioni funebri)20.
Cosa possiamo dire del confronto tra parrocchia e nuovi gruppi? Entrambe le forme costitui-
scono una ricchezza per la Chiesa, e non si deve fare un confronto, né pensare la parrocchia in
termini di vita cristiana minimalista mentre i movimenti rappresenterebbero la perfezione.
Nemmeno si deve pensare la parrocchia in termini di chiesa popolare e i gruppi come chiesa-
comunità. Tutti questi confronti sono erronei, perché tutto questo è la Chiesa, in ognuna delle
sue parti.
La difesa più importante della parrocchia sta nella sua dimensione territoriale. Questa territoria-
lità rappresenta la sua vera “essenza teologica”. È un tipo di organizzazione che conviene es-
senzialmente alla Chiesa, perché esprime una logica che va molto oltre la mera efficienza. E-
sprime lo “stare con gli uomini nel loro habitat”, e questo è essenziale per il piano salvifico.
Forse ciò è meno visibile in città, ma tendenzialmente c’è sempre. Questa territorialità rende la
––––––––
20
Ecco come un vescovo si esprime riguardo alla sua parrocchia di origine: “Un secondo principio che
ci occorre quando pianifichiamo il futuro è il fattore fondamentale dell’importanza che ha la parroc-
chia. Ogni mattina la prima cosa che faccio è andare nella cappella della mia casa. Faccio genuflessione
di fronte all’Eucaristia, e subito guardo il crocifisso che sta sul tabernacolo. Quel crocifisso è stato fatto
dalle mani dal parroco fondatore della mia prima parrocchia, a Ballwin, nel Missouri. Pregai di fronte
ad esso ogni giorno, quando ero bambino. Quella parrocchia fu il canale della grazia di Dio, misericor-
dia e salvezza per me. Senza quella parrocchia non sarei l’uomo, il sacerdote o il vescovo che sono og-
gi. Quella parrocchia per me è stata una famiglia accogliente e gentile, una comunità dove si rendeva
culto e ci si santificava, dove imparai a pregare ed a conoscere la mia fede in una scuola eccellente, do-
ve i bisognosi erano serviti e dove il Vangelo era proclamato con altrettanta convinzione di quella pri-
ma Pentecoste a Gerusalemme. In questo ultimo anno felice, ho conosciuto migliaia di voi. Dopo a-
vermi detto il suo nome, la seconda cosa che la maggioranza di voi mi dice è il nome della parrocchia a
cui appartiene. Noi Cattolici amiamo le nostre parrocchie, ci identifichiamo con loro”. (Lettera pastora-
le, T. Dolan, Vescovo di Milwaukee).
62
Cap. 6 - La programmazione pastorale
Chiesa visibile e concreta nella storia degli uomini, fa sì che sia superi la tendenza elitaria ed
individualista della religione, permette che si dia spazio affinché agiscano tutti i doni dello Spi-
rito.
La territorialità è anche missionaria, perché lo stesso contatto diretto con la gente consente che
la Chiesa locale superi la dimensione puramente organizzativa e si lanci al servizio reale degli
uomini.
Infine, la parrocchia garantisce che ogni persona credente venga accolta, senza nessun altro cri-
terio di discriminazione. In poche parole, la parrocchia riflette la cattolicità della Chiesa.
3) Rinnovamento della pastorale della parrocchia. La risposta alle obiezioni non ignora una
realtà: la necessità di rinnovamento nella parrocchia. Alla parrocchia è rivolto in maniera spe-
ciale il richiamo del Papa alla nuova evangelizzazione, caratterizzata da un nuovo spirito, un
nuovo metodo e un nuovo linguaggio. Queste novità costituiscono una sfida per tutte le parroc-
chie.
Cambiamento di metodo. Bisogna uscire dal tempio e cercare coloro che non sono vicini. Bi-
sogna passare dall’essere una Chiesa del tempio all’essere una chiesa di strada. Si pone anche il
problema del criterio di appartenenza alla Chiesa. Come sappiamo, in tempi recenti, alcune
persone hanno chiesto per via legale la cancellazione dei loro nomi dai registri battesimali, co-
me manifestazione della loro volontà di non appartenere alla Chiesa nella quale sono stati bat-
tezzati. Il battesimo oggi non basta più come criterio per valutare il numero dei nostri fedeli.
Forse, può servire la frequenza? Anche questo pare un criterio riduttivo, perché non si deve
neppure arrivare all’estremo dell’elitarismo da parte di quelli che frequentano. Realtà ecclesiali
come il Cammino neocatecumenale sembrano indicare una via intermedia e al contempo effi-
cace per esprimere ciò che significa appartenere alla Chiesa21.
Cambiamenti nel modo di concepire i ministri. Questo è un altro punto delicato, e non si deve
arrivare agli estremi che già compromettono la dottrina cattolica. Non si tratta di una competi-
zione tra clero e laici per occupare la scena, bensì di trovare la vera vocazione e funzione eccle-
siale di tutti. Fino a poco tempo fa, il modello era “clerocéntrico”, con l’attività dei laici consi-
derata in funzione di “aiuto”. Oggi, la teologia ci ha insegnato che la missione dei laici è molto
più di un aiuto. Non è una delegazione, ma piuttosto un diritto-dovere (LG 33; AA 3). Il clero,
come qualcuno ha detto provocatoriamente, non ha “la sintesi di tutti i ministeri”, ma ha “il mi-
nistero della sintesi”. Nella Chiesa primitiva troviamo sempre un modello valido e motivante.
Era una chiesa con un’incontenibile e appassionato desiderio di far conoscere Cristo. Era con-
sapevole di essere lievito nella massa. Non era il proseletismo numerico ciò che preoccupava,
ma il dare testimonianza viva di Cristo, perché l’invio era sentito da tutti. Questa consapevolez-
za è andata in parte perduta col passar dei secoli, a causa di un’evoluzione storica che ha pro-
gressivamente portato a concentrarsi sul clero. Oggi esiste un nuovo desiderio di vitalità, e ci
––––––––
21
Il 29 giugno 2002 il Consiglio Pontificio per i Laici ha emanato il Decreto di approvazione degli sta-
tuti del Cammino Neocatecumenale.
63
Teologia pastorale
sono molte parrocchie vivaci e profetiche che sanno inserire i laici, formarli e lanciarli
all’azione. In realtà, più che un problema teorico, è un problema di passaggio all’azione, per
mettere in pratica quello che già si sa.
Prima di lasciare tale questione, conviene sottolineare che è importante non clericalizzare i laici.
Si tratta di trovare per loro percorsi appropriati. Lo stesso si deve dire della missione della don-
na. Ecco quel che dice a questo riguardo Giovanni Paolo II, nella sua Lettera alle Donne, 29-6-
1995 (n. 10).
«Auspico dunque, carissime sorelle, che si rifletta con particolare attenzione sul tema del « ge-
nio della donna », non solo per riconoscervi i tratti di un preciso disegno di Dio che va accolto
e onorato, ma anche per fare ad esso più spazio nell’insieme della vita sociale, nonché di quella
ecclesiale. Proprio su questo tema, già affrontato peraltro in occasione dell’Anno Mariano, ebbi
modo di intrattenermi ampiamente nella menzionata Lettera apostolica Mulieris dignitatem,
pubblicata nel 1988. Quest’anno poi, in occasione del Giovedì Santo, alla consueta Lettera che
invio ai sacerdoti ho voluto unire idealmente proprio la Mulieris dignitatem, invitandoli a riflet-
tere sul significativo ruolo che nella loro vita svolge la donna, come madre, come sorella e co-
me collaboratrice nelle opere di apostolato. È questa un’altra dimensione – diversa da quella
coniugale, ma anch’essa importante – di quell’”aiuto” che la donna, secondo la Genesi, è chia-
mata a recare all’uomo».
Cambiamento di stile. Anche se continuano ad esserci grandi riunioni per la celebrazione della
messa e degli altri atti religiosi e si parla della pastorale delle celebrazioni di massa, non c’è
dubbio che la parrocchia si deve adattare anche ai piccoli gruppi, nei quali verranno enfatizzati
di più aspetti come il condividere, il pregare e il dare testimonianza. Ci sarà perciò bisogno, di
una nuova catechesi, specialmente quella permanente per gli adulti. Una catechesi che non sia
concepita solo in funzione dei sacramenti, ma piuttosto in funzione della vita. Si dovrà pensare
anche ad una catechesi rivolta alle diverse categorie professionali, e non solo organizzata se-
condo le fasi della vita (infanzia, gioventù, età adulta). Tutto questo presuppone creatività da
parte dei ministri. La stessa creatività sarà necessaria nella predicazione, perché la parrocchia
dovrà essere più evangelizzatrice e predicherà di meno ai già convertiti.
Passiamo ora al secondo punto: i Movimenti e la loro integrazione nella pastorale della Chiesa.
Dopo una fase di reciproche difficoltà, le parrocchie e i movimenti stanno arrivando ad inte-
grarsi sempre di più. La riunione del Papa coi movimenti ecclesiali il giorno di Pentecoste del
1998 ha segnato un momento importante in questo cammino d’integrazione. C’è, tuttavia, an-
cora molta strada da percorrere. Così disse il Papa in quell’occasione:
«La loro [dei movimenti] nascita e diffusione ha recato nella vita della Chiesa una novità inatte-
sa, e talora persino dirompente. Ciò non ha mancato di suscitare interrogativi, disagi e tensioni;
talora ha comportato presunzioni ed intemperanze da un lato, e non pochi pregiudizi e riserve
64
Cap. 6 - La programmazione pastorale
dall’altro. È stato un periodo di prova per la loro fedeltà, un’occasione importante per verificare
la genuinità dei loro carismi.
Oggi dinanzi a voi si apre una tappa nuova: quella della maturità ecclesiale. Ciò non vuol dire
che tutti i problemi siano stati risolti. È, piuttosto, una sfida. Una via da percorrere. La Chiesa si
aspetta da voi frutti “maturi” di comunione e di impegno».
L’apporto dei movimenti è indubbio, e i movimenti sono stati definiti dal Papa “una speranza”
e “una manifestazione della primavera per la Chiesa” (cfr. Catechesi tradendae, n. 47). Hanno
rappresentato il lancio dei laici in una maniera più ampia e hanno colmato vuoti di pastorale che
le parrocchie non coprivano. Pensiamo a quei settori che andavano oltre le frontiere e le risorse
delle parrocchie come, per esempio, gli ambienti di emarginazione, la cultura, l’ecumenismo, il
dialogo interreligioso, la pace, l’educazione, etc.
Non mancano tuttavia i problemi. Il carattere autonomo dei movimenti comporta il rischio di
creare percorsi paralleli, e l’insistenza sul carisma può indurre i membri a radicalizzare
l’esperienza al punto di considerarla come l’unica via valida e come quella “più” evangelica.
Questo può portare all’esclusivismo, all’autosufficienza, all’isolamento. Inoltre, c’è il fatto che
alcuni di coloro che partecipano a movimenti e gruppi ecclesiali non perseverano in quei mo-
vimenti per tutta la vita. Devono perciò ripiegare sulla parrocchia. Se non c’è stata collabora-
zione prima, allora è possibile che alcune di quelle persone perdano contatto e, quando escono
dai movimenti, non trovino facilmente un reinserimento nella vita ecclesiale.
Alcuni vescovi si lamentano anche della poca collaborazione dei movimenti nei piani pastorali
diocesani. I movimenti, dicono questi vescovi, professano grande comunione con la Chiesa u-
niversale e col Papa, ma si distanziano dall’integrazione delle loro azioni a livello particolare,
dimenticando che la Chiesa di Cristo sta nella Chiesa locale (la Chiesa locale non è una mera
succursale amministrativa della Chiesa universale).
Un’altra critica accusa i movimenti di esaurirsi a beneficio dei loro membri, di preoccuparsi
solo del numero dei loro soci e delle loro opere, in modo che trovano difficile integrare le loro
azioni nel piano di insieme. Così la pastorale diocesana non riesce ad essere né organica, né
armonica, né unitaria. Come conseguenza-causa di questo atteggiamento, non partecipano, a
volte, nei consigli pastorali e non sono aperti a ricevere indicazioni.
D’altra parte, anche la parrocchia presenta dei problemi. I movimenti sentono le parrocchie
“strette”, troppo piramidali. Manca loro quell’ambiente di “famiglia”, di “gregge”. Il parroco a
volte sembra avere i tratti del signore feudale, e pretende di concentrare su di sé tutti i carismi e
le funzioni dimenticando che la parrocchia deve essere, in un certo senso, comunità di comuni-
tà.
Qual è la soluzione? Naturalmente la carità ed il buon buonsenso. Poi, bisogna fare un progetto
sufficientemente ampio per integrare tutte le forze vive della Chiesa. I movimenti, da parte loro,
devono riconoscere il ruolo insostituibile della parrocchia, come abbiamo detto sopra, senza
rinunciare al dovere di sviluppare il proprio carisma, che sarà rivolto ad alcuni obiettivi specifi-
65
Teologia pastorale
ci. Così, l’azione delle diverse associazioni non sarà vista come una supplenza della parrocchia,
bensì come un aiuto e un sostegno. Così, essi possono realizzare la loro pastorale ‘straordinaria’
all’interno della pastorale ‘ordinaria’ della parrocchia, debitamente organizzata e pianificata.
Tutto questo è chiaro sulla carta, ma sappiamo che solo lo spirito di carità può far ì che funzioni
nella pratica, e questa è la vera sfida.
66
Capitolo 7
LA PSICOLOGIA AL SERVIZIO DEL PASTORALE
In questo capitolo ci proponiamo di offrire al lettore non specializzato alcune nozioni basilari di
psicologia, nella convinzione che queste idee elementari possono essere utili nell’azione pasto-
rale. Lo facciamo anche perché, negli ambienti anglosassoni, la psicologia ha assunto un ruolo
importante nella pratica pastorale, e si è molto sviluppato il concetto del dialogo pastorale
(counseling).
Oggigiorno parliamo di “psicologia pastorale” senza troppi problemi. Tuttavia, non è sempre
stato così. In realtà, la psicologia come scienza moderna nacque e si sviluppò in un ambiente
che era in atteggiamento abbastanza conflittuale con la religione. A volte troviamo negli psico-
logi posizioni filosofiche anti-religiose. Il fondatore della psicologia moderna, Sigmund Freud,
affermò che la religione era una nevrosi ossessiva e, di conseguenza, non pochi apprendisti
consideravano la religione come un modo di pensare irrazionale, una malattia mentale. Ancora
oggi lo sentiamo dire da alcuni psicologi come, per esempio, Albert Ellis, che afferma risoluto
che quanto meno siamo religiosi, tanto più saremo emotivamente sani1. È interessante notare
che nei sondaggi americani il 95% della popolazione si dichiarano credenti in Dio, mentre solo
il 33% degli psicologi credono in un Dio trascendente.
In poche parole, una parte considerevole della psicologia è caratterizzata da una linea laica. Le
conseguenze di questo fatto possono essere molteplici. Può risultare nel non riconoscere nean-
che la dimensione spirituale, il valore della propria libertà, la moralità obiettiva degli atti, il de-
stino trascendente della persona, etc. Può risultare anche nell’uso di terapie che sono invasive
della personalità e moralmente inaccettabili, perché offendono la dignità della persona umana2.
––––––––
1
A. Ellis, Case Against Religion: A Psychotherapists View and the Case Against Religiosity, American
Atheist Press booklet.
2
A questo proposito, Pio XII parlò in diverse occasioni alle associazioni psicologiche, invitandole a
coltivare una visione sana dell’uomo nel pieno rispetto della sua libertà: Discorso sui limiti morali dei
metodi medici, 14 settembre 1952: AAS 44 (1952), pp.779-789; Discorso al V Congresso Internaziona-
le di Psicoterapia e Psicologia Clinica, 13 aprile 1953: AAS 45 (1953), pp. 278-286; Discorso al Con-
gresso Internazionale di Psicologia Applicata, AAS 50 (1958), pp.268-272. Il criterio di “normalità”
sarà un derivato dell’antropologia di base. Pio XII chiarisce anche questo punto nel suo discorso.
L’uomo è libero e responsabile, cioè, ha la possibilità oggettiva e soggettiva di operare secondo queste
regole. Questo è quel che avviene normalmente (ciò che è patologico non è l’ordinario, ma lo straordi-
nario). Ciò implica una serie di principi che il Papa elenca:
1. Ogni uomo deve essere considerato come normale finché non si dimostri il contrario.
2. L’uomo normale non solo possiede una libertà teorica, ma possiede anche, realmente, l’uso di essa.
3. L’uomo normale, quando utilizza come deve le energie spirituali che sono a sua disposizione, è ca-
pace di vincere le difficoltà che si oppongono all’osservanza della legge morale.
4. Le disposizioni psicologiche anormali non sono sempre insuperabili, e non impediscono sempre al
soggetto qualsiasi possibilità di operare liberamente.
Teologia pastorale
Infine, esiste il pericolo di misurare tutto con un criterio soggettivo: quel che mi fa sentire bene.
Così, l’individuo deve rispondere solo a se stesso e seguire uno stile di vita che porti alla realiz-
zazione di sé.
D’altra parte, la psicologia riconosce che la religione è un valore importante per la maggioranza
delle persone e, pertanto, dei suoi clienti. Negli studi pubblicati su riviste specializzate di psi-
chiatria, c’è un’evidenza abbondante della differenza che fa la religione nella cura dei problemi
mentali. Nell’83% dei casi le attività religiose come, per esempio, la preghiera e la partecipa-
zione ai servizi religiosi, apportano benefici alla salute mentale. Entità come il “National
Institute for Healthcare Research” (Istituto Nazionale per le Ricerche sulla Cura della Salute)
hanno dimostrato che i pazienti depressi o con tendenze al suicidio si rimettono più
rapidamente e con meno ricadute, quando gli psicologi che li hanno in cura includono elementi
spirituali nel loro trattamento. Mentre i migliori risultati si ottengono quando lo psicologo ed il
paziente condividono la stessa fede, si possono ottenere buoni risultati anche quando i
consulenti, pur non avendo la stessa fede del paziente, riconoscono e stimolano la religione del
paziente. Perfino psicologi come il citato Ellis riconoscono che è necessario tentare di
“approfittare” degli elementi religiosi, malgrado li consideri irrazionali.
In conclusione, possiamo dire che la psicologia e la religione hanno avuto un rapporto inizial-
mente piuttosto conflittuale. Oggi assistiamo ad un avvicinamento: la psicologia è più aperta a
riconoscere il valore della religione, e la religione è più aperta a riconoscere le scoperte della
psicologia e l’aiuto che da essa può ricevere. È in questo spirito di dialogo che proseguiamo ora
la nostra esposizione.
1. Definizione
68
Cap. 7 - La psicologia al servizio della pastorale
Semplificando molto possiamo dire, pertanto, che la psicologia antica è caratterizzata dal suo
carattere “filosofico”, mentre la psicologia moderna si distingue per il suo aspetto più “empiri-
co” e di osservazione dei fenomeni psichici. Alcuni psicologi hanno perfino tentato di “misura-
re” queste osservazioni, mentre altri insistevano su aspetti più complessi come, per esempio, la
teoria Gestalt, che dimostrò che la misurazione non poteva essere lineare a causa della presenza
di “schemi” (Gestalen), nei fenomeni. Anche la scuola behaviorista criticò il metodo della mi-
surazione, insistendo che non possiamo conoscere l’anima per introspezione, ma che bisognava
esaminare i dati della condotta. Infine, venne la psicoanalisi di Freud, che sottolineò l’influenza
della sessualità, dell’inconscio, della repressione. Alfred Adler (1870-1937), Carl Jung (1875-
1961), Erich Fromm (1900-1980) svilupparono in seguito la psicoanalisi con nuove sfumature.
2. I disordini mentali
I criteri di classificazione delle malattie mentali sono molteplici, e ognuno si basa su una teoria
differente. Per lo scopo di questo trattato, basta prendere conoscenza di alcune delle categorie
più usate, sia a livello del linguaggio scientifico, sia a livello del linguaggio comune. L’utilità di
conoscere questa classificazione è quella di rendersi conto dei diversi tipi di disordini, e di co-
noscere i propri limiti nel trattare persone che li soffrono. Ci sono disordini che hanno assolu-
tamente bisogno dell’intervento di un medico psicologo o psichiatra e, se l’agente pastorale non
ha queste competenze, deve sapere come rimettere al più presto possibile il caso all’istanza
competente. L’accoglienza e l’ascolto inizialmente possono servire, ma si deve fare tutto il pos-
sibile per arrivare ad un rimedio più radicale. Rimanere ad un livello di sola direzione spirituale,
o pensare che i mezzi spirituali della preghiera o dei sacramenti possono curare questi casi, sa-
rebbe un errore.
In forma abbreviata si parla di una divisione tripartita: psicosi, nevrosi e disordini della persona-
lità. Nel caso della psicosi si verifica una certa rottura con la realtà. Più tecnicamente, si parla di
psicosi se ci sono idee deliranti estranee, se si tratta di una voce che commenta continuamente i
pensieri o il comportamento dell’individuo, se due o più voci conversano tra loro. In questo
senso, si manifesta una disfunzione sociale e lavorativa. Nel caso della nevrosi si tratta di un
disordine più moderato, non si rompe con la realtà, ma si vive infelici ed inefficienti. Nel caso
dei disordini della personalità, forse l’individuo si sente “bene”, ma generalmente rende la vita
degli altri un “inferno”.
69
Teologia pastorale
3) Disturbi mentali dovuti a malattia medica, non classificati in altri commi: per esempio, di-
sturbi catatonici, disordini della personalità, ecc.
7) Disturbi di ansietà
Disturbo di angoscia con/senza agorafobia
Fobia specifica (animale, ambientale, situazionale, etc.)
Fobia sociale
Disturbo ossessivo-compulsivo
Disturbo per stress postraumatico
70
Cap. 7 - La psicologia al servizio della pastorale
8) Disturbi somatomorfi
Somatizzazione
9) Disturbi fittizi
Il malato segnala sintomi di patologie inesitenti
14) Disturbo del controllo degli impulsi non classificati in altri comma
Disturbo esplosivo intermittente
Cleptomania
Piromania
Gioco patologico
Tricotilomania
71
Teologia pastorale
Di fronte a questo mare di disordini mentali, cosa fa la psicologia? Negli ultimi cento anni sono
sorte differenti scuole, e ognuna offre un percorso di cura. Nella pratica, gli psicologi e gli psi-
chiatri usano elementi delle une e delle altre, e alcuni tentano di creare una teoria integrata o in-
tegrale, impresa per nulla semplice5. Ci sono state scuole neurofisiologiche, psicoanalitiche
(Freud, Adler, Jung, Fromm), behavioriste (I.P Pavlov, B.F Skinner, J. Wolpe), umaniste (Ma-
slow, Roger), cognitiviste (Frankl). Qui spiegheremo solo cinque scuole, pur sapendo che si
potrebbe parlare di molte altre quali, per esempio, la Gestalt, la scuola direttiva, l’analisi transa-
––––––––
3
Un sito Internet molto utile per studiare queste classificazioni è il seguente:
http://www.clinicapsi.com/problematicas.html
4
Cfr. Guida alle scuole psicologiche: http://www.mhaedu.org/tguidegloss.html
5
Cfr. R. Opazo Castro, Psicoterapia integrativa. Delimitación clínica, Ediciones ICPSI, Santiago de
Chile 2001.
72
Cap. 7 - La psicologia al servizio della pastorale
zionale6. È utile per gli agenti della pastorale conoscere i concetti fondamentali di queste scuo-
le, sia per poter prestare l’aiuto più opportuno alle persone che ne hanno bisogno, sia per poter
usare gli elementi più affini alla pratica pastorale di ciascuno.
Questa scuola cerca di valersi di tutto il bagaglio di conoscenze acquisite dalla fisiologia per
comprendere i processi coscienti che sono l’oggetto proprio della psicologia. Si fonda sull’idea
che tutte le nostre azioni, tutti i nostri sentimenti e pensieri sono associati ad eventi corporali.
Come conseguenza, studia la fisiologia dell’essere umano, ma specialmente il cervello8. Questa
scienza ha contribuito molto alla conoscenza del cervello e allo sviluppo di medicine che pos-
sono aiutare l’uomo. Tuttavia, siamo all’inizio del processo di conoscenza del cervello umano.
Inoltre, non bisogna cadere di nuovo nell’errore di ridurre l’uomo e i suoi valori, come per e-
sempio l’amore, alla loro componente fisica (l’azione della feniletilamina sul cervello).
Questa scuola osserva che c’è conflitto tra le tre componenti della persona chiamate Id (forze,
istinti), Io (razionalizzazione) e Super Io (norme sociali). I disordini psicologici sono frutto delle
repressioni che si annidano nella parte incosciente della mente. L’obiettivo della terapia sarà
quello di scoprire l’azione di queste energie (motivazioni incoscienti), sia mediante processi di
libera associazione, sia esprimendo tutto ciò che venga alla mente; si tratta di oggettivare queste
energie e, poi, incanalarle in una condotta costruttiva. Il contributo innegabile di questa scuola è
costituito dalla scoperta di queste motivazioni profonde e nascoste e, pertanto, la maturazione di
alcune delle nostre motivazioni. I limiti si riscontrano nel suo determinismo, che riduce dram-
maticamente il campo della libertà umana e della responsabilità.
c) La scuola behaviorista
A differenza della psicoanalisi, questa scuola ritiene che la via per comprendere l’uomo non sia
l’introspezione, ma piuttosto l’osservazione dei suoi comportamenti e del modo in cui stabilisce
nessi tra gli stimoli e le risposte. Il nostro comportamento è una risposta ad una situazione, ad
alcuni condizionamenti. L’obiettivo della terapia è portare la persona a capire come può indurre
comportamenti più favorevoli. Qui il contributo è quello di aver evidenziato i condizionamenti
dell’agire umano. I limiti di questa teoria stanno nella riduzione della libertà e nella possibile
manipolazione cui potrebbe portare un’applicazione estrema della teoria (fondata su quantifica-
zioni, premi e punizioni).
––––––––
6
Cfr. L. Rosqueta-Rosales, Counseling in Perspective: theory, process, skills.
7
Wilhelm Wundt, Principles of Physiological Psychology, (1902), tradotto da Edward Bradford Titch-
ener (1904).
8
Neil R. Carlson’s Foundations of Physiological Psychology, 4th Edition, (1998).
73
Teologia pastorale
d) La scuola umanista
Fondata per reagire all’approccio tendenzialmente troppo freddo e scientifico della scuola be-
haviorista e a quello troppo pessimistico della psicoanalisi, questa scuola parte dalla convinzio-
ne che l’essere umano è positivo e che ha una tendenza innata a ricercare l’autorealizzazione e
lo sviluppo della sua personalità. Uno degli ostacoli che questo progetto trova è il dominio che
una concezione irreale di se stesso a volte esercita sull’uomo. Allora comincia a esserci un con-
flitto tra l’io ideale e l’io reale. L’obiettivo della terapia è ottenere l’autonomia, la responsabilità,
la forza interiore e portare l’individuo a comprendere che deve essere “autentico”, “coerente”,
“aperto”, “sincero con se stesso”, e che non si tratta di essere perfetto, intendendo la perfezione
in maniera impropria. La causa della sua incoerenza è l’idea falsa che ha di sé. Il metodo per
condurlo alla verità è basato su un atteggiamento positivo, affermativo e non direttivo dello psi-
coterapista, e sull’ascolto attivo. L’altro è un essere fondamentalmente buono, razionale, pieno
di potenziale, degno di fiducia. Non viene considerato un malato. Per questo, il metodo ha il
nome di “centrato sul cliente” (client-centered). Questa scuola ha avuto molto successo ed i
suoi metodi di accoglienza, le sue tecniche di dialogo e di ascolto hanno contribuito ad arricchi-
re l’incontro psicologico e pastorale. I limiti della scuola stanno nel fatto che favorisce una con-
cezione individualista e relativista, ponendo quale criterio ultimo il “sentirsi bene”. Inoltre, essa
non può riconoscere la complessità di certi disordini, e corre il rischio di perdere tempo nel ten-
tativo di affrontarli, in maniera però inadeguata.
e) La scuola esistenzialista
Se le altre scuole cercano nel passato il segreto per capire ciò che l’individuo sta soffrendo,
questa scuola guarda piuttosto al futuro o, almeno, al senso della vita. È un orientamento più
filosofico di altri, perché confida molto nel fatto che la ragione sia capace di scoprire “le ragio-
ni”. È basata su tre concetti fondamentali: la libertà della volontà; la ricerca di senso; la vita ha
senso. L’uomo subisce limitazioni della sua libertà, ma ha sempre la capacità di trascendere
questi limiti e di affermare coi suoi atteggiamenti e con le sue azioni ciò che davvero “vuole”.
Questo sforzo di trascendere i limiti imposti spinge l’uomo a raggiungere una dimensione spiri-
tuale o esistenziale che gli permette di scoprire il significato, il senso (meaning), nonostante i
limiti, nonostante la sofferenza. È questa volontà di significato che guida la nostra condotta. In
altre parole, l’uomo è disorientato quando non ha un senso che dia valore a ciò che vive ed, e-
ventualmente, a ciò che soffre. L’obiettivo di questa terapia è quello di confrontare le interpre-
tazioni che sta facendo il paziente con altre possibili interpretazioni che includono un senso. Si
tratta di aiutare l’individuo a trovare il “logos” di quello che sta vivendo. Questa teoria è ov-
viamente molto vicina allo spirito cristiano e al senso religioso della vita. Il suo limite sta nel
fatto che non riesce sempre a comprendere i fenomeni complessi.
4. Il dialogo pastorale
È una relazione da persona a persona, che mira a facilitare all’individuo la presa di decisioni
libere, in ordine al perfezionamento della sua personalità cristiana. A livello psicologico,
l’obiettivo del counseling è la libertà. A livello cristiano, l’obiettivo è la liberazione e la salvezza
74
Cap. 7 - La psicologia al servizio della pastorale
in Cristo. La decisione libera è lo strumento necessario per conseguire la meta finale di una per-
sonalità integrata. Il dialogo può essere formale o informale. È come un “camminare insieme”
verso l’incontro con Cristo.
Conviene qui ricordare i tipi di libertà che esistono. In primo luogo, c’è la libertà intesa come
assenza di compulsione. È la libertà “da”. Questa è la potenza passiva della libertà e non è an-
cora la vera libertà d’azione. Poi, c’è la libertà positiva. Qui bisogna fare i conti con la sponta-
neità delle forze istintive. Queste provengono dall’interno (come la libertà), ma non sono anco-
ra integrate dalla ragione, che è la facoltà propria dell’uomo. La libertà consiste nella capacità di
scegliere tra alternative valutate dalla ragione. Questa libertà può essere usata per il bene o per il
male. Essere libero è il preciso contrario dell’essere capriccioso, istintivo. Questa libertà non si
ottiene automaticamente, né facilmente.
b) Accoglienza. La persona chiede aiuto in una qualche situazione della sua vita che gli sta cau-
sando dolore. Chiede di essere accolta nella sua difficoltà, aiutata ad analizzare ed accompagna-
ta nel prendere decisioni. Questa accoglienza è favorita da elementi quali il contesto ambientale
del luogo dell’incontro, la presentazione fisica del terapeuta, gli atteggiamenti fisici ed il contat-
to visivo, i messaggi non verbali, l’ascolto. L’accoglienza deve essere modellata sull’esempio
di Dio, che ci accetta incondizionatamente (cfr. Fil 2,6-7). La qualità principale del dialogo è
l’empatia. Questo significa immergerci nel mondo soggettivo dell’altro, condividere la sua e-
sperienza come se fosse la nostra. Implica disciplina, senso della misura, rispetto, distanza per
non cadere nella mera simpatia, coinvolgendoci nel problema. Occorre dire che la persona non
si deve mai diventare un oggetto di studio e, men che meno, un “caso interessante”. Ecco alcu-
ne funzioni del dialogo di cui tener conto e alcune “tecniche” per renderlo più efficace.
Da un punto di vista cristiano il dialogo è chiamato ad interpretare ciò che è visibile alla luce
di ciò che è invisibile. Si tratta di mettere in contatto queste due dimensioni. Unire l’umano e il
divino, come fa Dio nell’Incarnazione. Così l’amicizia si fa carità, la libertà si fa vita pasquale,
il desiderio di progresso si fa escatologia, la tendenza alla socializzazione si fa corpo mistico.
Qui bisogna evitare certe reazioni inadeguate a quel che la persona va rivelando. I nostri inter-
venti, per esempio, non devono essere valutativi (“ma non guardare solo alle difficoltà!”), in-
terpretative (“senti, quello che sta succedendo è...”), risposte generiche di sostegno (“ma no,
abbi coraggio!”), di soluzione immediata (“ciò che devi fare è questo e quest’altro”).
La nostra reazione deve essere, al contrario, empatica, centrata sul tu dell’altra persona; non de-
ve riguardare tanto i contenuti ma ciò che la persona sta sperimentando. Un certo Hillary Parry
diceva già nel 1882 che “è più importante conoscere che tipo di persona ha una malattia che
conoscere che tipo di malattia ha il paziente”.
Sarà di grande aiuto saper riformulare ciò che l’altro dice. Questo si può fare parafrasando,
75
Teologia pastorale
c) Discernimento o diagnosi. Qui è dove entrano in gioco le diverse scuole, che rappresentano
molti differenti modi di interpretazione. Qui è importante basarsi su una sana antropologia, che
tenga conto di tutti gli elementi dell’essere umano: corpo ed anima, libertà, peccato e grazia,
legge della gradualità (cfr. san Tommaso quando parla di vizio, incontinenza, continenza, vir-
tù).
d) Azione. Tracciare con la persona un piano d’azione. Ricordiamo che la meta di un dialogo
pastorale è la libertà dell’altro. Quando un giorno mi dice che non ha più bisogno di me, allora
saprò di aver fatto un lavoro efficace. Pertanto, è contrario all’essenza del dialogo pastorale
qualsiasi processo tipo “manipolazione”, “innamoramento”, “dare informazione in qualità di
esperto”, “imporre soluzioni”, “trasfert”.
Concludiamo questo paragrafo con una bella citazione di sant’Ambrogio, tratta dal suo com-
mento ai salmi:
«L’arte di consolare si deve nutrire di dolcezza, non di asprezza; deve calmare il dolore, ad-
dolcire il bruciore, più che provocare turbamento. L’arte medica del corpo ci può dare
sicuro ammaestramento, poiché essa sa usare per le piaghe brucianti medicamenti più blandi,
atti ad alleviare il dolore. E le ferite prima si leniscono e poi si operano, proprio perché la durez-
za del taglio non irriti o esasperi la piaga. Dunque, quanto più dobbiamo stare attenti, nelle no-
stre visite di conforto, a non parlare con faciloneria o con superficialità! Per sette giorni è rima-
sto zitto Giobbe; sono rimasti zitti gli amici, e non avrebbero parlato, se Giobbe non avesse rot-
to il silenzio per il dolore. Bisogna infatti cercare bene il modo di iniziare, se non vuoi che la tua
consolazione sia urtante nella sua espressione. Anche il silenzio può essere una medicina, men-
tre chi parla troppo prematuramente, può ferire ancor di più. E non è strano che ferisca
altri quello stesso che è ferito di frequente, dato che la chiacchiera non va esente da peccato. In-
fatti il medico sa aspettare il momento giusto per concedere l’ausilio della medicina alle malat-
tie, quando queste hanno superato il loro eccesso, perché — così sostengono — una malattia
ancora acuta e non matura non contrasti con i rimedi terapeutici, non potendone trarre bene-
ficio. E quanto più dobbiamo noi spiare il momento giusto in cui possa fluire, tempestiva e sa-
nante, la nostra parola, che dia la sensazione, non di rinfocolare il dolore, ma di calmarlo!
La virulenza del dolore preme; ne è oppresso il cuore dell’afflitta, che ha perso il marito o figli
di morte prematura. Non c’è fretta! Lei non ti sta nemmeno ad ascoltare, prima che non sia
scemato l’accesso del dolore. Spesso abbiamo avuto modo di vedere liti, nate proprio da tenta-
tivi di consolazione. Sei andato per partecipare al dolore, non per provocare liti. Bisogna anche
cercar bene l’ordine in cui dire le cose, per non cadere in colpa davanti a Dio nell’intenzione di
consolare l’uomo. Attento a non dire: “Senti un po’ questo...”, e molte altre parole che non ser-
vono, se non vuoi sentirti rispondere: “Ascoltate, voi, consolatori di disgrazia!” (Gb 16,2). At-
tento a non suscitare nel dolore altrui la contesa di una disputa frivola. Fa’ attenzione a non es-
76
Cap. 7 - La psicologia al servizio della pastorale
sere assente, quando è necessario; o a non essere sì presente, ma con un linguaggio troppo du-
ro! Che cosa si dica a proposito di tali persone, possa insegnartelo Giobbe: “Mi sono so-
praggiunte tutte insieme le più gravi tentazioni; mi hanno circondato con un disegno preci-
so. I miei fratelli si sono allontanati da me, sono diventati amici di estranei piuttosto che
miei. I miei amici sono diventati spietati”» (Gb 19, 12-14).
77
Capitolo 8
PASTORALE MATRIMONIALE
Come vediamo in questo testo l’importanza della pastorale familiare si radica nella
sua grande potenzialità missionaria e umanizzante.2 Bisogna lavorare con le famiglie
che stanno vicine ma anche con quelle che stanno lontane. Il fatto che molte famiglie
non siano ‘praticanti’ non deve scoraggiare questa pastorale perché la Chiesa è per
vocazione “pastorale”, disposta a cercare con tutte le sue forze la pecora che si è al-
lontanata e a curare quella che zoppica. In questa sede esamineremo alcuni elementi
che possono aiutare in questo compito.
Più che una definizione si tratta di proporre alcune linee fondamentali in cui la Chie-
sa può dare assistenza alle famiglie. (La definizione è difficile, e ciò dovuto ai servi-
zi così diversificati che si danno in questo campo).
Alle volte -forse spesso- l’insegnamento della Chiesa non è visto come una buona
novella ma come un elenco di limitazioni arbitrarie e legali (p.e. sull’aborto, sugli
––––––––
1
Discorso alla VIII Assemblea del Pontificio Consiglio per la Famiglia (17 maggio 1990).
2
Prendo in questo capitolo alcune idee dallo Strumento di lavoro pubblicato dalla Diocesi di Roma per
il programma pastorale familiare 2003/4.
Cap. 8 - Pastorale matrimoniale
anticontraccettivi, etc.). Si pensa che queste cose sono come “inventate” dalla Chie-
sa.
Ma la Chiesa non presenta la sua dottrina come una “legge” ma come una dottrina di
salvezza e come qualcosa molto legata al mistero di Cristo nascosto nella Chiesa.
Questo è specialmente vero per quanto riguarda il matrimonio. Solo dentro lo splen-
dore del rapporto di Cristo con la sua Chiesa possiamo comprendere veramente la
permanenza, la fedeltà, l’apertura alla vita che deve caratterizzare ogni vita coniuga-
le.
Le famiglie hanno il diritto di ricevere questa buona novella dai sacerdoti. Por ciò, il
sacerdote non ha il diritto di sostituire questo messaggio con opinioni personali. Bi-
sogna essere onesti con la gente.
Le famiglie hanno anche diritto di che i pastori siano competenti in questo annuncio
e in questo aiuto. Questo suppone conoscere la dottrina della Chiesa e anche le dot-
trine umane che hanno relazione con la famiglia. Suppone conoscere, anche, i pro-
prii limiti e sapere quando conviene chiamare in causa una persona specializzata.
Le famiglie hanno, inoltre, il diritto alla comprensione. Una comprensione nella ve-
rità. La comprensione non significa abbassare la verità. Non c’è vera comprensione
nella menzogna. C’è bisogno di pazienza, di perseveranza per educare bene. Qui en-
tra la legge della gradualità.
Questa conversione è necessaria. Molti pensano che la dottrina della Chiesa è impra-
ticabile.
Una preghiera adeguata per tutti i membri della famiglia. La pastorale suppone sem-
pre l’educazione alla preghiera. Questa preghiera è necessaria per la conversione e
79
Teologia pastorale
Il Papa ha invitato i genitori a prolungare la loro paternità fisica fino alla paternità
spirituale insegnando ai figli l’arte della preghiera, della vita di sacramenti, della let-
tura della Bibbia, del rosario, etc.
Aldilà di una visione funzionalista della famiglia la Chiesa insiste sulla soggettività.
La soggettività di cui si parla è quella delle singole persone poste in relazione
all’interno della famiglia, per costituirla come «chiesa domestica». E, ancor di più, è
la soggettività delle singole famiglie poste in relazione all’interno della Chiesa, per
costituirla come «famiglia di famiglie». La nostra società è molto frammentata e
massificata. La famiglia può giocare un ruolo fondamentale per mettere le persone in
relazione, rendendoli persone, individui in grado di entrare in rapporto sempre più
profondo e umanizzante.
D’altra parte bisogna coordinare l’azione che si svolge in favore della famiglia. In
questo senso, abbiamo detto, la parrocchia tende oggi ad essere una comunità di co-
munità. Il coordinamento, conoscenza e stima reciproca tra tutti non può che rendere
più efficace le iniziative che si svolgono nel territorio. Alle volte c’è uno spreco di
energie importante e di risorse valide: “In un mare così pescoso di una città di più di
tre milioni di abitanti, se le reti di Pietro sono spesso così desolatamente vuote è per-
ché le sue maglie sono strappate. Dobbiamo almeno attenuare la frammentarietà del-
le iniziative pastorali, raggiungendo una maggiore organicità e anche completezza”3.
f) Inculturazione
Incorporare le caratteristiche della propria cultura nella promozione e sostegno della famiglia.
Non si può prescindere da questo aspetto culturale. Si deve prendere gli elementi buoni, che
sono compatibili con il Vangelo (p.e. il costume centroeuropeo di condividere il pane,
––––––––
3
Strumento di lavoro, p. 8.
80
Cap. 8 - Pastorale matrimoniale
l’importanza concessa ai rapporti interpersonali nella cultura occidentale che apre la porta alla
comunione...rifiutando quelli elementi che sono dannosi (v.gr. la televisione, il materialismo).
Bisogno evitare il ghettismo (gruppi culturali chiusi) ed è necessario essere aperti all’uni-
versalismo della Chiesa.
Qui c’è spazio soltanto per nominare questi problemi allo scopo di renderli presenti
al lettore. Ognuno di questi problemi merita un trattato specifico.
Nelle diverse parrocchie si fa un lavoro intenso per assicurare una buona preparazione
per il matrimonio. D’altra parte, non si può nascondere lo scontento generale riguardan-
te questa preparazione che, spesso, prende la forma di un “corso” più o meno lungo. Si
dovrebbe, piuttosto, impostare questa preparazione come un’esperienza di gruppo, di
amicizia e di comunità ecclesiale. Solo così questa esperienza si converte in un punto di
riferimento quando dopo, magari alle prese con una crisi, la coppia ha bisogno di soste-
gno. Il compito non è facile, e ciò è dovuto spesso allo stile di società in cui viviamo: le
distanze e la mobilità delle persone. Ma resta una sfida e, forse, l’unico modo di dare
aiuto alle coppie giovani.
Di che cosa deve trattare un corso prematrimoniale. Ecco un piccolo elenco di punti che
non possono mancare: La dottrina cristiana: scrittura/magistero/sacramento; la comuni-
cazione e la vita insieme; l paternità responsabile. I metodi di pianificazione familiare;
81
Teologia pastorale
La liturgia del matrimonio ha avuto una storia assai variata nel percorso dei secoli. Nei
primi secoli, non ci sono prove di una celebrazione liturgica propriamente detta. I
cristiani celebravano il loro matrimonio come gli altri uomini, ma con la coscienza
82
Cap. 8 - Pastorale matrimoniale
della novità portata da Cristo (cfr. Lettera a Diognete). Per questa “novità” eliminarono
dalla cerimonia domestica gli aspetti pagani come, per esempio, i sacrifici agli dei e gli
eccessi libidinosi dei cortei matrimoniali. Nei secoli posteriori (IV-XIV) si passa dal
matrimonio come avvenimento profano-civile al matrimonio come avvenimento
cristiano. Allora due aspetti formano il nucleo del matrimonio: a) Il consentimento.
Seguendo il diritto romano il consentimento è posto come l’elemento essenziale del
matrimonio (sopra gli altri riti) e, man mano, diventa una parte della liturgia nella
Chiesa o piuttosto alla porta (In facie ecclesiae). Solo in Trento si fa obbligatorio per la
sua validità il consentimento matrimoniale davanti ad un sacerdote. b) Il velo e la
benedizione nuziale. Se trattava di un rito parallelo al rito della consacrazione delle
vergini e, in ambedue i casi, simbolizza la unione con Cristo.
Il rito attuale cerca di manifestare il rinnovamento che c’è stato nella teologia
sacramentaria e nel concetto del matrimonio e dell’amore della cultura recente. Il rito
anteriore insisteva sulla procreazione mentre il rito attuale manifesta una visione più
personalista e l’insieme dei testi mette in risalto la realtà integrale del matrimonio.
Si insiste sul fatto che il matrimonio si fa “dentro” la messa e non soltanto “durante” la
messa e l’orazione sugli sposi dopo il Pater mette in rilievo il suo nesso con l’eucaristia.
Finalmente, il nuovo rito favorisce con la sua ricchezza e possibilità di opzioni una
preparazione più personale della messa di nozze in vista ad una partecipazione
maggiore e più attiva. Diremmo che la messa deve essere solenne, ma semplice, non
folcloristica, ne lussuosa. Deve essere in qualche modo uguale per tutti. .
Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discerne-
re le situazioni. C’è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati
di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiusta-
83
Teologia pastorale
mente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canoni-
camente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda u-
nione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi
in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non
era mai stato valido.
Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori e l’intera comunità dei fedeli
affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si consi-
derino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati,
partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a fre-
quentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare in-
cremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della
giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere
di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La
Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così
li sostenga nella fede e nella speranza.
Similmente il rispetto dovuto sia al sacramento del matrimonio sia agli stessi
coniugi e ai loro familiari, sia ancora alla comunità dei fedeli proibisce ad
ogni pastore, per qualsiasi motivo o pretesto anche pastorale, di porre in atto,
a favore dei divorziati che si risposano, cerimonie di qualsiasi genere. Que-
ste, infatti, darebbero l’impressione della celebrazione di nuove nozze sa-
cramentali valide e indurrebbero conseguentemente in errore circa
l’indissolubilità del matrimonio validamente contratto.
84
Cap. 8 - Pastorale matrimoniale
Agendo in tal modo, la Chiesa professa la propria fedeltà a Cristo e alla sua
verità; nello stesso tempo si comporta con animo materno verso questi suoi
figli, specialmente verso coloro che, senza loro colpa, sono stati abbandonati
dal loro coniuge legittimo.
Con ferma fiducia essa crede che, anche quanti si sono allontanati dal co-
mandamento del Signore ed in tale stato tuttora vivono, potranno ottenere da
Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nel-
la preghiera, nella penitenza e nella carità.
È importante conoscere gli argomenti che usano nonché la risposta della Congrega-
zione per la Dottrina della Fede.
1) Dicono i vescovi: “I divorziati e i divorziati risposati si sentono per lo più non ca-
piti ed abbandonati ai loro problemi dalla chiesa e dalla comunità. Molti credono di
essere discriminati, rifiutati e persino maledetti. Fanno fatica ad accettare le prescri-
zioni e i regolamenti ecclesiali o semplicemente spesso li rifiutano; li esperimentano,
infatti, come una durezza e crudeltà incomprensibili”.5
––––––––
4
Lettera pastorale “Principi fondamentali per l’accompagnamento pastorale” di tre vescovi tedeschi
(Oskar Saier, Karl Lehmnann, Walter Kasper) 1993. Per ulteriori chiarimenti si può vedere i discorsi di
Giovanni Paolo II alla Rota romana ogni anno.
5
Seguiamo qui il riassunto offerto da Bruno De Filippis nel numero 4/01 della Lex et Ius: Cfr.
www.lexetjus.net/AAADE%20FILIPPIS.pdf
85
Teologia pastorale
4) Davanti a questo fatto i vescovi argomentano che il diritto canonico, tuttavia, può
istituire solo una norma generalmente valida, non può regolamentare tutti i singoli
casi, a volte molto complessi. Per questo andrà chiarito, nel colloquio pastorale, se
ciò che vale in generale risulta vero anche nella situazione concreta. In questi casi, e
in quelli simili, il colloquio pastorale può aiutare gli interessati a trovare una deci-
sione di coscienza, di cui ci si assume personalmente la responsabilità e che da parte
della chiesa e della comunità è da rispettare.
Il documento spiega anche che “la comunione con Cristo Capo non può mai essere
separata dalla comunione con i suoi membri, cioè con la sua Chiesa” e che pertanto
––––––––
6
S. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai vescovi della Chiesa Cattolica circa la rece-
zione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, 1994. Citato come SCDF.
86
Cap. 8 - Pastorale matrimoniale
c) Suggerimenti pastorali
Ribadita la dottrina morale e canonica, il documento propone una serie di attività pa-
storali che si devono attuare.
Pastoralmente c’è bisogno di insegnare questa dottrina della Chiesa (cfr. n. 6). Ma,
non è una disposizione “disciplinare” di legalismo esteriore; nemmeno é un giudizio
sulla soggettiva indegnità. È una conclusione che scaturisce della logica della fede
comune e mira specialmente al bene spirituale dei fedeli interessati, nonché della
Chiesa intera.
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Teologia pastorale
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Cap. 8 - Pastorale matrimoniale
sto non può essere un giudizio totalmente del singolo e che ci sono oggi processi che
rendono più facile il percorso di nullità se veramente c’è una causa solida.
4) Vivere in continenza
Ci possono essere delle ragioni che rendono inconveniente la separazione delle per-
sone risposate (v.gr. i figli). Questo esige trasformare il rapporto da coniugale a fra-
terno. In questo caso la coppia avrà bisogno di un accompagnamento vicino.
Con sollecita carità fare tutto quanto può fortificare nell’amore di Cristo e
della Chiesa i fedeli che si trovano in situazione matrimoniale irregolare. So-
lo così sarà possibile per loro accogliere pienamente il messaggio del matri-
monio cristiano e sopportare nella fede la sofferenza della loro situazione (S.
Congregazione della Dottrina della Fede, 1994, n. 10)
Sarà necessario che i pastori e la comunità dei fedeli soffrano e amino in-
sieme con le persone interessate, perché possano riconoscere anche nel loro
carico il giogo dolce e il carico leggero di Cristo. Il loro carico non è dolce e
leggero in quanto piccolo o insignificante, ma diventa leggero perché il Si-
gnore -e insieme con lui tutta la Chiesa - lo condivide (S. Congregazione
della Dottrina della Fede, 1994, n. 10).
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11
La prima convinzione è che, per un cristiano, il sacramento della penitenza è il cammino ordinario
89
Teologia pastorale
l’eucaristia non è necessaria per la salvezza distinguendo tra sacramentum e res sa-
cramenti. Si può ricevere la grazia del sacramento per il fatto che lo si desidera (cfr.
III,q. 73, a. 3).
Ma, il voto del sacramento può essere efficace se non si è in grazia? Certo il deside-
rio del sacramento sopra menzionato suppone la grazia e non si riceve il sacramento
perché c’è qualche ostacolo esteriore. Nel nostro caso, l’ostacolo è interiore. Ma,
possiamo porre la domanda: che cosa autorizza a pensare che i divorziati risposati
siano sempre e tutti in uno stato di peccato escludente la grazia? La CEI (1979) dice
che i fedeli non devono arrogarsi il diritti di giudicare lo stato dei divorziati: “I di-
scepoli del Signore nel qualificare la situazione dei divorziati risposati come disor-
dinata, non giudicano l’intimo delle coscienze, dove solo Dio vede e giudica” (n.18).
La loro esclusione dalla vita sacramentale non vuole essere un giudizio sulla sogget-
tiva indegnità. Non è improbabile che alcuni divorziati risposati possono sentirsi
senza colpa per diversi motivi: il modo in cui la rottura si è verificata, la certezza
morale soggettiva dell’invalidità del primo matrimonio ma senza poter provarlo in
tribunale ecclesiastico, l’incapacità di reggere una vita in solitudine senza cadere in
problemi psicologici o morali, l’incapacità di sostenere i figli senza un coniuge. La
società (e la stessa comunità parrocchiale) non è capace di aiutare persone sole.
Questo modo di riflettere può condurre ad una conclusione sbagliata. Pensare che le
persone sono escluse dai sacramenti soltanto per motivi “disciplinari” e così indebo-
lire molto la posizione della Chiesa. Ma non è così. Se da una parte non dobbiamo
cadere nella sopravvalutazione dei mezzi sacramentali al punto da negare che ci sia
salvezza senza di essi, dall’altra parte non dobbiamo cadere nella relativizzazione
che ci porta a considerare i sacramenti come optionals. Il grande valore dei sacra-
menti è che essi danno certezza del loro effetto! Per questo, è insensato pensare la
nostra vita al di fuori di questi mezzi ordinari (cfr. Reconciliatio et Poenitentia, n.
31,1). Ma i sacramenti sono un dono per la salvezza e non un criterio o una discri-
minazione per giudicare se una persona sia o non sia nel cammino della salvezza.
Conclusione
––––––––
per ottenere il perdono dei peccati gravi commessi dopo il battesimo. Certamente, il Salvatore e la sua
azione salvifica non è legato ai segni sacramentali in modo che non possa agire aldilà di essi. Sarebbe
insensato e presuntuoso prescindere degli strumenti di grazia e salvezza che lo stesso Signore ha stabili-
to.
90
Cap. 8 - Pastorale matrimoniale
Certamente questo tema non è chiuso. Lo dice anche il Card. Ratzinger firmando
l’introduzione a un volume che raccoglie studi e contributi “Sulla pastorale dei di-
vorziati risposati” (Libreria Editrice Vaticana, 1998). Il Cardinale ribadisce la tradi-
zionale posizione della Chiesa ma aggiunge una considerazione sui casi dei cristiani
non credenti, battezzati che non hanno mai creduto o non credono più in Dio. La
domanda è: possano contrarre un matrimonio sacramentale?12
Con una discussione così vivace intorno al tema dei divorziati riposati è facile di-
menticare un’altra categoria che merita tutta la sollecitudine della comunità ecclesia-
le: quelle persone che hanno sofferto la tragedia del divorzio ma che non si sposano
più. Anche loro hanno grandi bisogni di sostegno da parte della Chiesa. Alle volte
vivono situazioni di fedeltà eroica alla loro fede nella parola di Cristo e nell’amore
per quella persona che è stata ed è per sempre il loro coniuge.
La cerimonia di nozze dura un giorno, il matrimonio dura tutta una vita. In questa
parte vogliamo riflettere sul come aiutare le coppie a perseverare nel cammino intra-
preso. Da una parte, troviamo dei matrimoni splendidi che crescono con gli anni in
amore e felicità. Altri, purtroppo inciampano in difficoltà più o meno serie. Cer-
chiamo de rispondere a due domande. Qual è il segreto dei matrimoni felici? Come
possiamo aiutare le coppie in difficoltà?
1. La famiglia felice
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12
Per ulteriori notizie sul tema dei divorziati risposati si può vedere il sito internet del Centro Interna-
zionale Studi Famiglie: http://www.stpauls.it/cisf/bibliografie/divorzio.htm
91
Teologia pastorale
Per rispondere alla prima domanda ci riferiamo ad un’indagine fatta qualche anno fa
in cui vennero evidenziati sei ingredienti principali che caratterizzano la famiglia fe-
lice in tutte le parti del mondo. Adesso ci limitiamo ad elencare i contenuti principali
13. Le famiglie felici dimostrano sempre di avere i seguenti elementi distintivi:
ü Apprezzamento ed affetto: vuol dire che le persone sanno prendere cura degli
altri, c’è amicizia e rispetto per l’individualità di ciascuno. Sanno giocare insie-
me, hanno buon umore e sono capaci di esprimere l’affetto con gesti e con paro-
le. Hanno legami emozionali positivi. Sanno dire “grazie”. Una cosa molto im-
portante: ci sono molto più frasi positive che negative: in una proporzione del
10/1.
ü Impegno: vuole dire tempo ed energia in attività familiari, fiducia, onestà, affi-
dabilità, fedeltà, condivisione. Significa essere lì, l’uno per l’altro, dare priorità
pratica alla famiglia. Sanno litigare senza mai minacciare separazione. Danno at-
tenzione ad ogni singolo membro, c’è una solida fedeltà sessuale. In una parola,
l’amore resta sempre visibile aldilà dei cambiamenti normali della vita.
ü Comunicazione positiva: un ambiente attivo ma dove c’è anche tempo per parla-
re ed ascoltare, per la condivisione dei sentimenti. Si evita di colpevolizzare gli
altri. Si ha la capacità di accettare compromessi e di essere d’accordo nel disac-
cordo.
ü Tempo insieme: tempo di qualità in grande quantità, hanno piacere di essere in-
sieme, sanno stare insieme senza tensioni in un ambiente di fedeltà e di fiducia.
Piace condividere momenti di svago.
ü Benessere spirituale: religione e spiritualità, speranza, fede, impegno, valori etici
condivisi, apertura verso gli altri, verso la società e verso il mondo.
ü Gestione positiva dello stress e delle crisi. Non è che questi matrimoni non co-
noscono le difficoltà ma sanno prevenire le crisi e lavorare per risolverle in for-
ma positiva. Ecco una serie di tratti che dimostrano:
• Adattabilità.
• Vedere le crisi come sfida e opportunità per crescere insieme e stringere
l’unione invece di permettere la disintegrazione.
• Apertura al cambio.
• Tener duro durante la crisi.
• Focalizzano su punti positivi.
• Cercano aiuto quando è necessario.
• Quando ci sono problemi aprono dei canali di comunicazione consape-
voli che se chiudano la comunicazione le crisi aumentano.
• Vedere le cose in prospettiva.
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13
Questo indagine è stato realizzata dalla University of Nebraska Lincoln, pìu altre Università associate
in tutto il mondo. L’indagine rispecchia 20 anni di ricerca, più di 50 studi, con il lavoro di 60 ricercatori
su 17,000 persone in 27 paesi .
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Cap. 8 - Pastorale matrimoniale
2. La coppia in difficoltà
L’altro sbaglio che commettiamo è quello di scaricare la colpa dei problemi sugli
altri. Generalmente, quando gli altri mi fanno sapere che non si sentono bene, la mia
prima reazione è quella di dichiarare la mia “innocenza”. Il problema sta nell’altro.
Poi, per difendermi meglio posso passare al contrattacco, l’ironia, le comparazioni o,
peggio ancora, mi rifugio nel silenzio, minaccio la separazione. C’è chi ricorre alla
violenza fisica, ovviamente con risultati devastanti.
Per evitare questi problemi bisogna essere in possesso di una serie di regole o tecni-
che di comunicazione. Ecco alcune di queste regole.
§ Creare il clima di fiducia per poter parlare, dire, piangere, ridere, ecc.
§ Essere disposti ad accettare un’accusa”. La persona che soffre vuole essere
ascoltata prima di tutto.
§ Coltivare l’empatia. Spesso si soffre non tanto per il problema in sé ma per
l’incomprensione.
93
Teologia pastorale
Come esemplificazione di queste idee vediamo un po’ più da vicino il fenomeno del-
la comunicazione, specialmente il pericolo che rappresentano i malintesi. La caratte-
ristica più pericolosa dei malintesi è che possono esistere senza rendercene conto,
fino a quando esplodono14.
Semplificando molto il tema della comunicazione, possiamo dire che questa è for-
mata da un trasmettitore, un recettore ed un messaggio. Sappiamo che questi tre e-
lementi sono in continua interazione. Normalmente, quando diciamo una cosa, spe-
––––––––
14
Cfr. M. Ryan, La goccia che fa traboccare il vaso, Logos Press, Roma 2000.
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Cap. 8 - Pastorale matrimoniale
riamo che gli altri capiscano proprio quella e non fraintendano. Molte volte non è
così semplice, né così facile, perché l’altra persona può avere reazioni e sentimenti
che non sono mai stati intenzionalmente provocati. Di ciò vorrei che prendeste nota
per ricordarlo nella vostra vita matrimoniale. Cominciamo ad esaminare questo pro-
blema attraverso i seguenti casi.
* Un marito arrivò ad una riunione familiare dove erano presenti sua moglie e altre
persone. Fece il giro della stanza salutando ognuno. Quando tornarono a casa, la
moglie si arrabbiò molto perché il marito aveva salutato sua sorella prima di lei.
Lui ribadì che aveva salutato le persone in quell’ordine solo per la loro colloca-
zione nella sala. Non aveva nessun’altra intenzione.
* Mia moglie organizzò una cena senza avvisarmi in anticipo e, oltretutto, proprio
per la sera della partita di calcio in TV. Non dissi nulla e la presi con rassegna-
zione. Eppure, quando gli ospiti se ne andarono, lei si arrabbiò con me. Mi disse
che si sentiva molto male e addolorata nei riguardi degli ospiti per
l’atteggiamento che avevo tenuto durante la cena. Sorpreso, le spiegai che non
era così, infatti avevo rinunciato di buon grado alla mia partita di calcio. Lei ri-
badì: “Il tuo viso lungo mi diceva un’altra cosa”.
Qui abbiamo due esempi d’interferenza nella relazione umana e nella comunicazio-
ne. Nel primo caso vediamo come il marito (= trasmettitore), voglia semplicemente
salutare tutti (= messaggio), ma sua moglie (= recettore) interpreta un altro messag-
gio. Anche nel secondo caso il marito vuole fare del suo meglio (= messaggio), ma
sua moglie percepisce un’altra cosa, (attraverso la comunicazione non verbale del
marito). In entrambi i casi, in maniera non intenzionale, si provoca nell’altra persona
una reazione non voluta.
È chiaro che le reazioni emozionali come quelle di queste donne possono essere do-
vute a molti fattori: stanchezza, accumulazione, estrema sensibilità, atteggiamenti
negativi, problemi precedenti, etc. Pertanto, per una soluzione del problema, sarà
necessario che queste donne mettano tutto il loro impegno. Ora, voglio rivolgere la
mia attenzione ai mariti: come dovrebbero comportarsi se vogliono una buona co-
municazione e la soluzione del problema? In altre parole, che cosa si deve fare di
fronte a questo fenomeno della vita in comune, dove le reazioni delle altre persone
non sono sempre come le immaginiamo né secondo le nostre intenzioni?
a. Siate coscienti che le vostre parole e/o azioni possono provocare reazioni che non
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Teologia pastorale
* All’inizio del matrimonio, lui dedicava gran parte del suo tempo a raggiungere
un livello economico alto per il bene di tutta la famiglia. Lei si occupava della
formazione dei figli. Ad un certo momento, tutti i membri della famiglia hanno
cominciato a condurre una vita indipendente dal padre, visto che lui non c’era
quasi mai. Quando lui abbandonò il ritmo di lavoro che portava avanti da anni
per dedicarsi alla famiglia, si ritrovò solo. Sua moglie e i suoi figli continuarono
le proprie attività, senza dedicargli molto tempo. Una sera la moglie, com’era
ormai sua abitudine, dopo un’attività sociale con le amiche, tornò a casa tardi.
Seguì una forte discussione, perché lui si lamentava della mancanza di attenzione
nei suoi confronti.
Nel primo caso, la moglie ha le migliori intenzioni e, forse, è la migliore delle don-
ne; non ha nessuna intenzione di ferire e, tuttavia, la sua azione causa dispiacere a
suo marito. Anche nel secondo caso possiamo pensare che non c’è intenzione di fare
male a nessuno e, tuttavia, marito, moglie e figli sentono disagio e dolore. Possiamo
individuare la causa di tali dispiaceri e incomprensioni nel fatto che non è sufficiente
avere buone intenzioni senza tener conto dell’effetto che le nostre azioni hanno sugli
altri.
Benché non siano molto comuni, a volte, le reazioni in questi “malintesi” possono
essere molto violente e perfino tragiche, come è il caso descritto nella lettera che se-
gue. Ci sono persone particolarmente sensibili o deboli psicologicamente che, pro-
prio per questo, possono arrivare ad avere reazioni tanto estreme. D’altra parte, dal
nostro matrimonio o dalla nostra famiglia ci aspettiamo molto e, per questa ragione,
i problemi s’ingrandi-scono. Se uno sconosciuto ci ferisce con un insulto, sicura-
mente l’offesa passerà poco dopo, ma quando si tratta di un fratello, un marito o un
figlio, l’effetto sarà molto più duraturo e doloroso. Così, pure, quando percepiamo
dispiacere, fastidio, freddezza, allontanamento, ci sentiamo feriti. Il testo qui di se-
guito è la lettera di un figlio adolescente a suo padre. È solo un esempio di come non
sia sufficiente avere la “buona intenzione” di amare i propri cari. Ecco perché, per
ottenere una comunicazione serena, bisogna essere attenti alle possibili interferenze.
Papà: Mi costa molto sacrificio scriverti questa lettera, ma infine… mi piacerebbe
poterti dire quello che sento, anche se non oso. Non ho molta confidenza con te ed è
quello che più mi fa male.
Non esiste nessuno in questo mondo a cui voglia più bene. Ma ti sento tanto lontano.
Andiamo d’accordo, condividiamo alcune attività e so che tu tenti di farci felici,
ma… non basta, non so come dirtelo.
Vedo il tempo e lo sforzo che dedichi al tuo lavoro e ti ammiro per questo, ma credo
sinceramente che lo fai più per il tuo orgoglio e prestigio personale che per darci il
necessario. Sento, papà, che la vita passa molto rapidamente e mi fa male pensare
al poco tempo che abbiamo passato insieme. La mia infanzia è già passata, papà. E
tu, dov’eri? Ci sei stato poco. Perciò provo tanta rabbia. Dov’eri quando ho impa-
rato a conoscere il mondo? Dov’era la tua mano quando avevo paura? Dov’era il
tuo sorriso quando ero felice?
97
Teologia pastorale
Il tuo lavoro era tutto, i tuoi problemi… “non darmi fastidio”. Ed è qui che non ca-
pisco per quale motivo volete avere figli. Per soddisfare il vostro desiderio di avere
figli? Per la continuazione del proprio cognome? Per avere qualcosa in più che vi
appartiene? Non so, papà, non so.
Se tu sapessi quanto ha bisogno un figlio di avere un padre; e, per avere, mi riferi-
sco a braccia che ti stringono forte e ti dicono “ti voglio bene”, per sapere che pos-
so contare su di te per tutto, nel bene e nel male, che condividi i miei successi e i
miei fallimenti, che sei un amico al quale posso raccontare tutto.
Quando mi sento insicuro con i miei amici, quando non so comportarmi con le ra-
gazze e fingo di essere uno “spavaldo”. E non lo sono. Quando ho paura della mia
prima relazione con una ragazza… infine, papà, vorrei che tu fossi tante e tante co-
se, il mio maestro e la mia guida.
Quello che voglio è te, papà, e non un buon assegno. So che non mi manca niente e
cerchi di farmi piacere in tutto, ma io cambierei tutto questo affinché tu fossi mio
amico. Un vero amico, che mi faccia sentire che sono il “massimo”. Ma so che que-
sto non te lo posso chiedere, perché queste mie richieste sono “sciocchezze” per il
figlio di un padre così importante come te. Tuo figlio.
La prima reazione di un padre che sente un caso come questo, è difensiva: “Va bene,
ma bisogna lavorare duramente per dare alla famiglia ciò di cui necessita”, “forse il
padre non sapeva dare qualità al tempo”, “il ragazzo era ipersensibile”. Tutto ciò può
corrispondere alla verità. Ora, però, voglio ribadire il fatto che non possiamo fissarci
solamente sulle nostre buone intenzioni, ma dobbiamo considerare anche la situa-
zione oggettiva e reale dell’altro, quale che ne sia la causa.
Così è il mondo dei malintesi. La maggior parte delle persone sposate hanno buone
intenzioni e normalmente non vogliono far del male. Ma se vogliono che sia real-
mente così, è necessario che curino ciò che comunicano e che fanno involontaria-
mente. Abbiamo detto dall’inizio che l’amore nel matrimonio deve essere delicato e
curare queste cose, deve essere un’espressione di questa delicatezza. Mi interessa
quello che ti succede!
c. Scoprite in tempo le tensioni
Non tutti i malintesi hanno la stessa importanza, e non tutte le collere che seguono
hanno la stessa gravità per la relazione. Ci sono problemi che sono superficiali, mo-
mentanei, sporadici, che non portano ad altre conseguenze. Ad ogni modo non biso-
gna mai sottovalutare nemmeno queste “stupidaggini” poiché se hanno provocato
sofferenza vuol dire che per l’altro hanno importanza. Ma la situazione diventa gra-
ve nel momento in cui, qualunque sia la ragione, una mia azione ferisce l’altro. Una
cosa è dolore, un’altra cosa è provocare una ferita. Una situazione ci può arrecare
dolore e non succede niente. Un amico può rimproverarmi aspramente, può dirmi
delle verità difficili da accettare e possiamo litigare, e tutto ciò mi può dolere; ma
senza ferire. Invece, altre situazioni lasciano un segno diverso, aprono una ferita.
Come si possono distinguere le due situazioni? Certamente, la linea di divisione è
molto personale e può cambiare da un caso all’altro, ma generalmente sappiamo
98
Cap. 8 - Pastorale matrimoniale
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Teologia pastorale
* Nel nostro caso il pericolo è un apparecchio che si chiama TV. Che cosa stupida!
Nella nostra famiglia si stavano trascinando molte problematiche per la mancan-
za di conversazione, soprattutto il sabato e la domenica. A mio marito – pantofo-
laio – non interessava nient’altro all’infuori del tennis e del calcio. Logicamente,
mi feci questa domanda: perché si rifugia nella televisione? Quando glielo do-
mandai, si scatenò una forte lite.
In quest’ultimo caso si capisce chiaramente come si sviluppa un processo
negativo. La moglie accumula e continua ad “interpretare”, a modo suo,
l’atteggiamento di suo marito per poi fare una domanda in un momento
inopportuno. D’altra parte, sicuramente, anche il marito serbava dei sentimenti
negativi. Probabilmente non si sentiva innocente, dal momento che dedicava
alla televisione molto tempo durante la settimana, oppure provava qualche altro
risentimento nei confronti di sua moglie.
Quando in un matrimonio c’è un’ “esplosione” non bisogna cercare la causa neces-
sariamente nel fatto immediato. Non è così semplice: alle volte il vaso si è riempito
in precedenza, col passare del tempo. Alcuni dei casi appena menzionati illustrano
anche come gli sposi possono non conoscersi realmente. Possono, ad esempio, cre-
dere che tutto vada abbastanza bene, mentre in realtà si sta accumulando, insospetta-
bilmente, polvere da sparo.
Una variante di questo problema sono le discussioni che non arrivano mai a risolvere
niente. Man mano che un matrimonio avanza negli anni, va scoprendo certi temi o
situazioni che possono creare problemi, una serie di luoghi comuni che, quando si
toccano, provocano sicuramente una discussione. Si scatenano discussioni che non
portano a niente, poiché si impantanano come una ruota che gira nel fango. Non si
muove né avanti né indietro, bensì sparge solo fango da tutte le parti. Sarebbe me-
glio individuare quelle problematiche prima di sposarsi e prendere le precauzioni
necessarie. Ad ogni modo, con un po’ di calma e di obiettività, si può giungere a
conclusioni accettabili ed evitare le ferite. Di seguito vediamo alcune discussioni di
questo tipo (tutte sulla famiglia d’origine) e tentiamo di domandarci come fare per
evitare l’accumulo di sentimenti negativi in casi simili.
* Pur sapendo che il parlar male della mia famiglia ci aveva causato sempre pro-
blemi, lo ha fatto di nuovo. La situazione è precipitata.
* Per me, l’ultima goccia è stata l’occasione in cui, dopo varie discussioni sul tema
della mia famiglia d’origine, è venuto fuori che aveva organizzato un viaggio di
una settimana e mezza con i suoi genitori, quando avevamo già deciso di non
frequentarli per un periodo ragionevole.
* Stavamo parlando di un problema in relazione alla sua famiglia d’origine, quando
per l’ennesima volta si è chiusa in se stessa, dando risposte infantili ed assurde.
Ci siamo arrabbiati e siamo rimasti distanti.
Come si vede, la comunicazione esige una grande abilità per non trovarsi nel mezzo
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Cap. 8 - Pastorale matrimoniale
101
Teologia pastorale
La vita sessuale è un altro tema sommamente delicato, ed è un campo nel quale pos-
sono sorgere molti “malintesi”. Più che in qualsiasi altro campo qui è necessario il
dialogo per essere sicuri che i sentimenti vadano d’accordo con gli atti esterni.
* Mia moglie è sempre stanca per essere affettuosa e fare l’amore.
* Potrei piangere ed egli non se ne renderebbe conto.
Prima di finire questo capitolo vorrei menzionare qualcosa di molto grave per il
matrimonio: la violenza fisica. È un atto che, indipendentemente dal suo grado, lascia
sempre una vivo segno interiore, una ferita difficile da curare. È una “goccia” che
rapidamente riempie il vaso fino all’orlo, come è successo nel seguente caso raccontato
da una donna.
* Un giorno c’è stata una discussione – una delle tante – e tutto è finito quando mi
ha picchiata. Sono andata subito a casa dei miei genitori.
* La recente scomparsa di una mia carissima amica e della mamma di mio marito
ha creato in me un profondo sentimento pessimista e una grande paura della mor-
te. Un giorno, in un momento di tranquillità, sono riuscita, titubante, a parlarne a
mio marito non avendo previsto in lui, però, una reazione di collera tanto smisu-
rata da portarlo, per la prima volta, a colpirmi con uno schiaffo. Mi ha rimprove-
rato di aver rovinato quel momento di tranquillità e mi ha detto che non avrei do-
vuto mai più fargli certi discorsi. Io, impaurita da tale reazione, spaventata, sono
scappata in un’altra stanza. La faccenda si è conclusa senza l’aggiunta di parole
quando, tornata nella sua stanza, lui è scoppiato a piangere e io l’ho abbracciato.
Non siamo, però, più tornati sull’argomento.
Sulla stessa linea si trova la minaccia di divorzio. Per quanto difficile sia la situazio-
ne, non si deve mai usare il tema del divorzio come arma. Crea un dubbio profondo
ed una paura in tutti, anche nei figli. Questo mezzo o sospetto rimane nell’aria per
molto tempo e può essere un fantasma che aleggia intorno al matrimonio per anni.
Un marito commentava:
* Se me lo ha detto una volta, come posso sapere che non continua a pensarlo?
102
Capitolo 9
PASTORALE DELLA CONFESSIONE
a) L’ambiente
• Perdita del senso (verticale) del peccato.
• Assenza d’una moralità comune, sociale, accettata.
• Scarsa tensione ascetica verso una vita cristiana coerente.
• Accentuazione (giusta ma esasperata) della coscienza individuale, e una
mentalità secondo cui si può ricevere il perdono di Dio, perfino ordinaria-
mente, “in modo diretto”.
b) Problemi pratici
• Routine: senza fervore né spiritualità; concezione sbagliata degli effetti del
sacramento (l’ex opere operato).
• Esperienze negative avute nella confessione.
• Infantilismo morale (difficoltà per cogliere il senso del peccato, della re-
sponsabilità; livello basso di maturità morale).
• Confessioni “sbrigative”.
• Legalismo, ritualismo senza conversione e senza fare i conti con tutto il pro-
cesso.
Ci sono diverse forme di penitenza nella vita cristiana, e la Chiesa deve fare pastora-
le della penitenza e della riconciliazione nel dialogo pastorale, nella catechesi teori-
ca e pratica, nei sacramenti.
––––––––
1
Cfr. P. K. Demmer, Medicina Salutis. Appunti per la pastorale della riconciliazione, PUG, Roma 1986.
Teologia pastorale
Maestro. Il confessore, come ministro della Chiesa, è responsabile della retta for-
mazione della coscienza del penitente. Nella confessione non si deve fare un inse-
gnamento di tipo accademico-astratto, né si deve proporre tutta la dottrina senza
prendere in considerazione la situazione del penitente, la legge della gradualità, etc.
La coscienza erronea va illuminata e rettificata.ma nella misura della possibilità e
della sostenibilità, in quanto le concrete circostanze lo consentono. Secondo il caso,
il confessore può usare il probabilismo o il tutorismo.
104
Cap. 9 - Pastorale della confessione
del cuore che dà la scoperta affascinante di Dio e della sua misericordia. Non è basa-
ta sull’angoscia paralizzante incline ad ingabbiare il peccatore nel circolo vizioso
vigente fra angoscia e colpa. (Reconciliatio et paenitentia, n. 8). È anche riconcilia-
zione con se stesso, lontano tanto dall’angoscia quanto dall’auto-inganno e dall’ipo-
crisia. È, finalmente, riconciliazione con il prossimo.
Il proposito. Non basta il pentimento: bisogna guardare al futuro. Sta qui la funzione
del dialogo fra penitente e confessore. Il proposito rappresenta uno dei frutti più belli
della penitenza. La persona comunica il processo alle prese con le sue debolezze e
finalizza il processo con una nuova forza nella sua volontà. Magari la penitenza che
il confessore lascia possa servire d’accompagnamento al proposito e servir da soste-
gno. La penitenza, in questo caso, oltre la funzione di riparazione, svolge una fun-
zione da rafforzo, come in una fisioterapia si esercita la parte che era rota perché non
si rompa di nuovo nello stesso punto.
5. Situazioni varie
Nella pastorale della penitenza ci sono molte situazioni particolari e facciamo adesso
un accenno a soltanto due: la celebrazione comunitaria e la confessione dei bambini.
Nel rituale della penitenza ci sono diverse modalità possibili: confessione individua-
105
Teologia pastorale
1. Gli Ordinari ricordino a tutti i ministri del sacramento della Penitenza che
la legge universale della Chiesa ha ribadito, in applicazione della dottrina
cattolica in materia, che:
2. Gli Ordinari del luogo, nonché i parroci e i rettori di chiese e santuari, de-
vono verificare periodicamente che di fatto esistano le massime facilitazioni
possibili per le confessioni dei fedeli. In particolare, si raccomanda la pre-
senza visibile dei confessori nei luoghi di culto durante gli orari previsti, l’a-
deguamento di questi orari alla situazione reale dei penitenti, e la speciale
106
Cap. 9 - Pastorale della confessione
disponibilità per confessare prima delle Messe e anche per venire incontro
alla necessità dei fedeli durante la celebrazione delle SS. Messe, se sono di-
sponibili altri sacerdoti.
4. Alla luce e nel contesto delle norme precedenti, deve essere compresa e
rettamente applicata l’assoluzione a più penitenti insieme senza la previa
confessione individuale, prevista al can. 961 del Codice di Diritto Canonico.
Essa, infatti, «riveste un carattere di eccezionalità» e «non può essere impar-
tita in modo generale se non:
2º vi sia grave necessità, ossia quando, dato il numero dei penitenti, non si
hanno a disposizione confessori sufficienti per ascoltare, come si conviene,
le confessioni dei singoli entro un tempo conveniente, sicché i penitenti,
senza loro colpa, sarebbero costretti a rimanere a lungo privi della grazia sa-
cramentale o della sacra comunione; però la necessità non si considera suffi-
ciente quando non possono essere a disposizione dei confessori, per la sola
ragione di una grande affluenza di penitenti, quale può aversi in occasione di
una grande festa o di un pellegrinaggio».
pa, privi della grazia sacramentale. Si debbono perciò tener presenti le circo-
stanze complessive dei penitenti e della diocesi, per quanto attiene l’organiz-
zazione pastorale di questa e la possibilità di accesso dei fedeli al
sacramento della Penitenza.
108
Cap. 9 - Pastorale della confessione
la vita della Chiesa, la piena armonia tra i vari Episcopati del mondo, le
Conferenze Episcopali, a norma del can. 455 § 2 del C.I.C., faranno perveni-
re quanto prima alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei
Sacramenti il testo delle norme che esse intendono emanare oppure aggior-
nare, alla luce del presente Motu proprio sull’applicazione del can. 961 del
C.I.C. Ciò non mancherà di favorire una sempre più grande comunione tra i
Vescovi di tutta la Chiesa, spingendo ovunque i fedeli ad attingere abbon-
dantemente alle fonti della misericordia divina, sempre zampillanti nel sa-
cramento della Riconciliazione.
8. Fermo restando l’obbligo «di confessare i propri peccati gravi almeno una
volta all’anno», «colui al quale sono rimessi i peccati gravi mediante
l’assoluzione generale, si accosti quanto prima, offrendosene l’occasione, al-
la confessione individuale, prima che abbia a ricevere un’altra assoluzione
generale, a meno che non sopraggiunga una giusta causa».
109
Teologia pastorale
Tutto ciò che con la presente Lettera apostolica in forma di Motu proprio ho
stabilito, ordino che abbia pieno e durevole valore e sia osservato a partire
da questo giorno, nonostante qualsiasi altra disposizione in contrario. Quan-
to ho stabilito con questa Lettera ha valore, per sua natura, anche per le ve-
nerande Chiese Orientali Cattoliche, in conformità ai rispettivi canoni del
Codice loro proprio.2
Gli studi psicologici hanno rilevato le difficoltà e i pericoli che insidiano la matura-
zione morale del bambino. Certamente bisogna prestare attenzione ai passi di questa
maturazione. Ma, dall’altra parte, c’è stata un’applicazione sbagliata di questa pre-
occupazione riguardante la prima confessione. 3
Storicamente la confessione dei bambini comincia in una data tardiva (Dz 812: Il IV
Concilio Lateranense, 1215, stabilì che si deve fare una volta raggiunta la capacità di
discernere: postquam annos discretionis.
Il Direttorio catechistico (1971; AAS 1972, pp. 175-176) ritornò sulla posizione tra-
dizionale e nel 1973 una dichiarazione più decisiva fu fatta dalle due congregazioni
per il Culto e per il Clero (AAS 1973, p. 410). Le ragioni proposte sono le seguenti:
• Il diritto del bambino alle grazie del sacramento.
• I benefici spirituali della Penitenza come, per esempio, l’attenzione ai
peccati veniali, la formazione di abiti morali in questo periodo.
––––––––
2
Motu proprio Misericordia Dei, 17 aprile 2002.
3
Il sacramento della penitenza. Il ministero del confessore: indicazioni canoniche e pastorali, a cura di
E. Miragoli, Milano, 1999.
110
Cap. 9 - Pastorale della confessione
––––––––
4
Ai vescovi di Canada, 17 novembre 1978.
111
Capitolo 10
PASTORALE DEGLI INFERMI
L’Unzione degli ammalati è la celebrazione della buona novella davanti alla fragilità
e ai limiti dell’esistenza umana; è una testimonianza ecclesiale del messaggio evan-
gelico che vuol rinnovare l’uomo.1
1. L’Ordo
L’Ordo è stato unificato intorno al concetto più generale della cura degli infermi.
Questo è stato fatto principalmente per correggere radicalmente la tendenza troppo
diffusa di identificare qualsiasi visita ad una persona ammalata con l’idea della mor-
te e con il denominare questo sacramento come “estrema unzione”. Questo indirizzo
è palese dallo stesso titolo: Ordo Unctionis Infirmorum eorumque pastoralis curae.
b) Carattere dialogale: Si amministra a persone che hanno raggiunto l’uso della ra-
gione; Suppone preparazione e catechesi; Si deve amministrare alla persona prima
che perda la capacità di partecipare; Si esige il dolor per i peccati: attrizione almeno
(n. 7); Si presenta come una chiamata; Il linguaggio è più intelligibile; Consente a-
dattabilità a diverse circostanze;
c) Il soggetto del sacramento: una persona gravemente ammalata. Non deve conside-
rarsi il sacramento della terza età se non in quanto collegata con la malattia.
d) L’effetto del sacramento. L’accento è spostato dal perdono dei peccati alla “salvezza e rial-
zamento”. Certamente non vuole comunicare un’impressione magica o “miracolistica”. Ma si
vuole affermare con forza l’effetto totale: salute spirituale (fiducia in Dio, protezione contro le
tentazioni), salute fisica (nella misura in cui ciò è voluto da Dio per la salute spirituale), il per-
dono (quando necessario). In una parola, evita gli estremi e segnala come effetto la salvezza
dell’uomo integro (n. 6) in una prospettiva di antropologia biblica dove si considera l’uomo
nella sua unità anima-spirito-corpo.
2. L’ accompagnamento spirituale del morente
––––––––
1
A. Donghi, Sacramento dei Malati, in Enciclopedia di Teologia Pastorale, Vol. 3, p.252.
Cap. 10 - Pastorale degli infermi
Quali sono alcuni dei problemi che circondano il problema delle persone seriamen-
te ammalate? C’è paura quando appare il sacerdote. Si vede come premonizione del-
la morte. Ci sono casi dove la presenza del sacerdote non è gradita. Bisogna cercare
la collaborazione con il personale sanitario. Non è sempre facile, specialmente se si
vuole coinvolgerli. L’atteggiamento della società nei confronti della morte si può di-
videre in tre forme: abolire e non vedere la morte, procurare la morte (eutanasia),
accettare la morte nella sua realtà complessa. Paura di forzare il “ritmo” paziente.
Mutismo che spesso circonda l’ammalato grave.
Altre domande che occupano lo spirito dei malati gravi? Cosa accadrà alla mia mor-
te? Vi è qualcosa nell’aldilà? Perché mi tocca soffrire? Perché devo morire ora?
Come posso credere che la vita abbia un senso quando tante speranze rimangono
non realizzate? Sto morendo per colpe passate? Posso essere perdonato? Vi sono
speranze di guarigione?
Perché sono importanti le cure a livello fisico? I bisogni fisiologici sono i più radi-
cali. È inutile puntare su altri bisogni se questi non sono soddisfatti, specialmente il
bisogno di un’attenuazione della sofferenza e quello di dormire.
Cosa sono le cure palliative e qual è la loro importanza per la pastorale della Chie-
sa? Per cure palliative s’intende un trattamento del paziente affetto da patologie evo-
lutive e irreversibili (morente o terminale), attraverso il controllo dei sintomi e delle
alterazioni psicofisiche, più che della patologia che ne è la causa. Cercano di modifi-
113
Teologia pastorale
care e, se possibile, eliminare i fattori di sofferenza della persona morente, senza tra-
scurare un’assistenza spirituale ed il sostegno alla famiglia nella fase del distacco e
del lutto, rifiutando l’accanimento terapeutico.
Purtroppo in molti ambienti gli operatori sanitari non sono preparati per fare questo
lavoro. C’è una subcultura di rimozione delle realtà negative della vita, in particolare
della morte. Sono abili per manipolare apparecchi sofisticati, ma spesso del tutto
sprovveduti di fronte all’angoscia e alla solitudine del morente, e incapaci di stabili-
re adeguatamente una relazione di aiuto.
Quali sono i bisogni a livello psicologico? Poi c’è il bisogno della sicurezza psico-
logica: il malato ha bisogno di cure da persone qualificate; una presenza costante an-
che se non continua, così da non sentirsi abbandonato. Il linguaggio di questo biso-
gno è l’ angoscia. La pillola che calma serve piuttosto ad abbrutire, che non a libera-
re; anche le frasi generiche e vuote irritano (coraggio!). Si deve ascoltare paziente-
mente, anche se si afferra poco; bisogna anche saper tacere . Il malato sente anche il
bisogno di appartenenza: di amare ed essere amato. Bisogno di considerazione: di
non sentire di aver perso l’identità di uomo e di valere come uomo. Il moribondo
può avvertire piccoli segni come una sua messa in disparte. È un compito difficile e
non conviene cadere nell’evasione del ritualismo per riempire il vuoto e nascondere
la propria povertà. Bisogno di superamento: sublimazione del dolore e della morte.
Con il morente non bisogna dare niente per scontato: la stessa maturazione religiosa
può essere lenta e faticosa, anche in una persona profondamente religiosa.
Come si possono trattare le persone che non sono “religiose”? Conviene fare una
distinzione tra bisogno “spirituale” e bisogno “religioso”. Il bisogno religioso si ha
quando la persona appartiene ad una religione organizzata, e vuole essere trattata
all’interno di questa forma concreta. Altri, non avranno o non vorranno parlare in
termini di una religione specifica, ma sentono il bisogno di spiritualità.
114
Cap. 10 - Pastorale degli infermi
giamento che non sia la menzogna totale e che eviti la verità assoluta: e devono dire
al malato quel tanto di verità che egli in quel momento può affrontare e accettare,
tenendo conto che la sua reazione dipende da numerosi fattori come l’età, la fede,
l’apparente stato di salute attuale, l’ambiente familiare, il lavoro, ecc. Non ci sono
regole fisse, ma c’è uno schema generale.
Quali sono le tappe che segue un paziente nell’integrazione della malattia?2 Eliza-
beth Kubler-Ross ha descritto il processo, senza voler dire che tutti i malati presen-
tano il medesimo quadro.3 Shock-rifiuto-isolamento, collera, patteggiamento, de-
pressione, accettazione.
Shock, rifiuto, isolamento.4 La prima reazione del malato può essere un temporaneo
stato di shock, dal quale egli esce a poco a poco. Quando il suo iniziale senso di tor-
pore comincia a svanire ed egli può ritrovare le sue energie, la consueta risposta è: “
No, non posso essere io”. Il rifiuto è una difesa temporanea e ha la funzione di “pa-
racolpi”: permette al malato di ritrovare coraggio e, col tempo, di mobilitare altre
difese. Viene presto sostituito da una parziale accettazione, pur ripresentandosi di
tanto in tanto, anche durante le fasi avanzate della malattia. Secondo Elisabeth Ku-
bler-Ross, è più opportuno parlare della morte e del morire con i malati – se mostra-
no di desiderarlo – molto prima che la cosa stia realmente avvenendo. Passando le
settimane, al rifiuto subentra spesso l’isolamento dal mondo circostante, vissuto co-
me ostacolo alla realizzazione dei desideri di guarigione e di salute.
Collera. Quando la prima fase di rifiuto non può più durare, viene sostituita da sen-
timenti di rabbia, invidia, risentimento. Il malato si chiede: “perché proprio io?”.
Questa fase è molto difficile da affrontare dal punto di vista della famiglia e del per-
sonale, in quanto la collera è proiettata in tutte le direzioni e sull’ambiente, a volte
quasi a caso. I familiari che vanno a far visita al malato sono ricevuti con freddezza,
con indifferenza, il che rende l’incontro penoso; allora essi reagiscono con sensi di
colpa, lacrime, dolore, oppure evitano di tornare, aumentando lo sconforto del mala-
to. Il problema è che poche persone si mettono nei panni del malato e si domandano
l’origine del suo risentimento. Egli vede attorno a sé la vita che continua, mentre la
sua vita sta per finire prematuramente e tutto ciò per cui ha lavorato gli è negato.
Vuole inoltre rassicurarsi che non verrà dimenticato: alza la voce, reclama, pretende
––––––––
2 Cfr. Guerrieri, R., Assistenza al paziente morente, L’infermiere professionale di fronte alla morte, As-
115
Teologia pastorale
Patteggiamento. Il malato già senza speranza si illude di poter fare una specie di ac-
cordo che possa rimandare l’inevitabile evento: Il suo desiderio è quasi sempre il
prolungamento della vita, seguito da quello di essere per alcuni giorni liberato dal
dolore o dal disagio fisico. Il venire a patti è un tentativo di dilazionare: include un
premio offerto “per buona condotta”, pone anche un determinato limite di tempo che
gli consenta di fare una cosa che gli sta particolarmente a cuore e include una pro-
messa implicita che non chiederà di più se gli verrà concessa questa dilazione (anche
se, in fondo, la promessa non verrà mai mantenuta). I patti sono generalmente fatti
con Dio e per lo più tenuti segreti, menzionati tra le righe o confidati a un sacerdote.
Gran parte dei malati promette “una vita dedicata a Dio”, oppure il “dono del pro-
prio corpo alla scienza” in cambio di un po’ di tempo in più da vivere.
Depressione: Generalmente le depressioni sono dovute alle perdite subite per una
malattia, per un fallimento. Nel caso del morente la depressione è molto diverso dal
precedente e va trattato in modo diverso: non si presenta come il risultato di una
perdita subita, ma prende in considerazione le perdite che stanno per accadere. Al
contrario di quanto facciamo con una persona sana depressa, quando la depressione
è un modo per prepararsi all’imminente perdita di tutti gli oggetti del proprio amore,
forse non occorre più tanto incoraggiare e rassicurare. Non si dovrebbe incoraggiare
il malato a guardare il lato gioioso delle cose, poiché questo significherebbe per lui
non contemplare la morte imminente. Spesso questa depressione si soffre in silenzio
ed è la preparazione immediata della seguente fase.
Accettazione. In questa fase non sarà né depresso né arrabbiato per il suo “destino” e
può contemplare la sua prossima fine. Sarà stanco e molto debole, si assopirà spesso,
ma ciò non significa che egli abbandonerà del tutto la speranza. L’accettazione non
deve essere scambiata con una fase felice: è quasi un vuoto di sentimenti. “E’ come
se il dolore se ne sia andato, la lotta sia finita e venga il tempo per il riposo finale
prima del lungo viaggio”. Questo è il tempo in cui generalmente la famiglia ha biso-
gno di aiuto e di comprensione più del malato stesso
Come deve essere il rapporto con la famiglia del morente? La famiglia già ha
sofferto molto. Allora: rispetto, umiltà, pace. Sanno meglio di te quello che piace...
Prendere gli spunti da loro. Principio di sussidiarietà verso il paziente e verso la fa-
miglia. Attenzione quando ci sono conflitti nella famiglia. Non si può sistemare tutto
in un giorno, né aspettare un comportamento “esemplare”. Non lasciarsi coinvolgere
116
Cap. 10 - Pastorale degli infermi
Come si deve parlare con il malato? Evitando il linguaggio vuoto o formale. Di se-
guito, si può vedere una comparazione tra elementi di una conversazione formale ed
un’altra più vicina e pastorale.
Si deve parlare della morte con il morente? Se il morente offre la possibilità, non
avere dubbi di parlare sulla morte. Spesso lancerà suggerimenti obliqui per ‘provare
l’acqua’. Prendere l’occasione al volo. Se domanda: sto per morire?, la risposta deve
essere onesta ma dosata al momento del paziente. Si può rispondere con la domanda:
hai paura? e di che cosa? Temono per la famiglia che resta nel mondo e temono il
modo di morire, o che possono morire improvvisamente senza essere preparati. La
maggioranza delle persone non hanno visto mai una morte (tranne che al cinema).
Allora si può confortarli dicendo che la morte è generalmente pacifica, e assicurarli
che non moriranno soffocati senza aria. Si può spiegare il processo, se loro vogliono
117
Teologia pastorale
questo. Se il paziente crede in Dio, si possono condividere con loro tante cose sul
cielo, sui santi, sugli angeli (visti da tanta gente nel momento della morte). Si può
pregare con loro. Se la gente non crede in Dio, bisogna pregare molto per loro nel
segreto. Ovviamente, il momento della morte non è un momento di proselitismo. Se
preghiamo, Dio sa operare. Generalmente tutti vogliono trovare un Dio amoroso e
misericordioso5.
In passato si parlava molto della conversione del peccatore nel momento della mor-
te. Come si deve impostare questo discorso ?Quali sono i tipi di preghiera che si
possono adoperare? Diverse cose vanno dette sul questo argomento. In primo luogo,
per la pastorale, è tanto più importante il tempo della malattia, perché è allora che
più facilmente si può fare il vero processo di avvicinamento a Dio, la conversione,
etc. Il momento stesso della morte è difficile, l’ambiente è teso, non sappiamo il
grado di lucidità del morente. Senza negare l’effetto del sacramento, non bisogna
giocare con l’ex opere operato, c’è pericolo di rendere il rito banale (pensiamo
all’unzione e all’assoluzione). Quando il sacerdote non è stato chiamato e/o quando
il paziente è spiritualmente “ribelle”, bisogna operare con grande delicatezza. Biso-
gna non scandalizzarsi e continuare nel comportamento amichevole, cercando come
aiutarlo a scoprire un senso della sua sofferenza e, magari, a chiedere egli stesso
l’aiuto dei sacramenti. La preghiera è importante per un credente vicino alla morte:
“Vanno recitate quelle preghiere che egli conosce. Più si avvicina l’istante della
morte, più brevi devono essere le preghiere perché la ricettività del morente diminui-
sce. Si parla di giaculatorie che possono essere ripetute, ma sono indicate anche pre-
ghiere come il Rosario perché aiutano a creare un’atmosfera di tranquillità. Può ba-
stare anche un solo mistero del Rosario”. 6
––––––––
5
“There are no atheist in foxholes. The dying process is the ultimate foxhole for those with little or no
faith”: Kalina, K., Midwife for Souls. Spiritual Care for the Dying, St. Paul Books and Media, Boston,
1993, p. 41.
6
P. Gruber, Accompagnamento spirituale delle persone anziane prossime alla morte,
www.provincia.bz.it/sanita/downloads/ bioetica/capitoli/5.doc
118
Capitolo 11
PASTORALE DEL BATTESIMO
1. Catechesi
Questa catechesi è obbligatoria per l’adulto (e per tutti quelli che hanno raggiunto
l’uso della ragione CCC n. 852) e per i genitori dei bambini (CCC n. 851).
L’ambiente secolarizzato e religiosamente superficiale rende più urgente questa pre-
parazione (SC 59).
2. Temi
• Il peccato originale, la dimensione “verticale” del peccato.
• I segni, simboli e gesti: v.gr. la luce/le veste bianche/l’effetà.
• L’uomo nuovo/ il carattere battesimale.
• L’educazione dei figli. L’etica del battesimo.
• Temi biblici (specialmente messi in evidenza nella benedizione dell’acqua).
• Dimensione pasquale, ecclesiologica, pneumatologica, missionaria.
3. La celebrazione
• Dimensione comunitaria. Raccomandazione di celebrare il sacramento du-
rante la Pasqua o di Domenica e nella chiesa parrocchiale. La presenza dei
fanciulli.
• Nel Rituale un accento speciale è posto sui genitori.
• I nomi cristiani (cfr. CCC, n. 855: la responsabilità di genitori, padrini e pa-
store per scegliere un nome che non sia estraneo alla mentalità cristiana).
• Il dialogo iniziale vuole sottolineare la libertà, la responsabilità. Questo spi-
rito deve animare gli incontri del sacerdote con i genitori.
• Si riceve alla porta della Chiesa. Il simbolo della porta.
• Con il segno della croce culmina il rito d’accoglienza. Importante la cate-
chesi sui gesti liturgici.1
• Le letture bibliche preparate nella catechesi sono una parte fondamentale del
––––––––
1
M. Scouarnec, Vivere Credere Celebrare. (= Formazione degli animatori della celebrazione), Leu-
mann-Torino, LDC 1984. Commissione Liturgica Triveneta, Una Fede per celebrare. Valore e signifi-
cato della liturgia (= Formazione degli animatori della Celebrazione: Serie I: Sussidi a schede), Leu-
mann-Torino, LDC 1984. J. Aldazabal, Simboli e Gesti. Significato antropologico biblico e liturgico,
Leumann-Torino, LDC 1988.
Teologia pastorale
a) Importanza
b) Dimensione comunitaria
120
Cap. 11 - Pastorale del battesimo
c) Progressività
121
Teologia pastorale
ottobre 1980.2
- Battesimo e atto di fede: Battesimo e appropriazione personale della grazia
- Battesimo e libertà del bambino; Battesimo nell’attuale situazione sociolo-
gica non-omogenea; Battesimo dei bambini e pastorale sacramentale: sareb-
be priva di slancio missionario.
b) Famiglie irregolari
• Diritto del bambino a ricevere il battesimo.
• Necessità di assicurare l’educazione.
• Momento opportuno per la pastorale (Cf. Familiaris Consortio: il matrimo-
nio non deve essere abbandonato, escluso). Momento per un ripensamento
da parte dei genitori. A volte è un momento opportuno per un invito a rego-
larizzare il loro matrimonio.
c) Casi eccezionali
––––––––
2
Per alcune risposte cfr. anche C. Maniago, “Battesimo dei Bambini” in Enciclopedia di Pastorale,
vol. 3, p. 185-186.
122
Capitolo 12
PASTORALE SOCIALE
La pastorale sociale è l’azione organica di tutto il Popolo di Dio nella costruzione d’un
ordine temporale che consenta agli uomini il raggiungimento della loro vocazione inte-
grale. La Pastorale sociale, la diaconia, il compimento dei doveri temporali costituisco-
no una parte essenziale della missione della Chiesa. C’è un legame stretto fra evange-
lizzazione e promozione umana (Cf. Ev. Nunt. n. 31).
a) La società economica.
b) La società politica
c) La qualità di vita.
Teologia pastorale
c) Formare gli agenti di Pastorale sociale: quadri, opere, volontari, i costruttori della
nuova società.
124
BIBLIOGRAFIA
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126
Bibliografia
127
Documenti
§ Congregazione per la Dottrina della Fede: Documenti dottrinali
Notificazione riguardante alcuni scritti del R.P. Marciano Vidal, C.Ss.R. (Notificatio
super quibusdam scriptis Marciani Vidal), 22 febbraio 2001 AAS 93 (2001) 545-
555
In margine alla Notificazione circa alcuni scritti del R.P. Marciano Vidal, C.Ss.R.,
15 maggio 2001
Notificazione a proposito del libro del P. Jacques Dupuis, S.J. «Verso una teologia
del pluralismo religioso», 24 gennaio 2001.
Notificazione sugli scritti del P. Anthony De Mello, S.J. (Notificatio circa scripta
Documenti
Lettera su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione – Communionis notio
(Litterae ad Catholicae Ecclesiae episcopos de aliquibus aspectibus Ecclesiae prout
est communio), 28 maggio 1992 AAS 85 (1993) 838-850; DeS 15 (1994)
Istruzione circa alcuni aspetti dell’uso degli strumenti di comunicazione sociale nel-
la promozione della dottrina della fede – Il Concilio Vaticano II, 30 marzo 1992.
Communicationes 24 (1992) 18-27; EV 13, 865-876; LE 5460; Dokumenty, II, 28
Nota riguardante il libro «The Sexual Creators, An Ethical proposal for Concerned
Christians» (University Press of America, Lanham-New York-London 1986) del P.
André Guindon, O.M.I., 31 gennaio 1992
Nota riguardante «La norma morale di “Humanae vitae” e il compito pastorale» del
16 febbraio 1989
129
Teologia pastorale
Istruzione circa alcuni aspetti della «Teologia della liberazione» – Libertatis nuntius
(Instructio de quibusdam rationibus «Theologiae Liberationis»), 6 agosto 1984.
AAS 76 (1984) 876-909
Dichiarazione circa alcuni punti della dottrina teologica del professore Hans Küng –
Christi ecclesia (Declaratio de quibusdam capitibus doctrinae theologiae professo-
ris Ioannis Küng, qui, ab integra fidei catholicae veritate deficiens , munere docen-
di, qua theologus catholicus, privatus declaratur), 15 dicembre 1979 AAS 72 (1980)
90-92;
Lettera a S.E. Mons. John R. Quinn, Presidente della Conferenza Episcopale Ameri-
cana, contenente Osservazioni sul libro «“La Sessualità umana”. Studio commis-
sionato dalla “Catholic Theological Society of America” a cura del Rev. Antony
Kosnik» (Observations about the book «“Human Sexuality”. A study commissioned
by the Catholic Theological Society of America, Rev. Anthony Kosnik editor»), 13
luglio 1979
130
Documenti
Dichiarazione riguardante due libri del professore Hans Küng (Declaratio de duobus
operibus professoris Ioannis Küng in quibus continentur nonnullae opiniones quae
doctrinae Ecclesiae Catholicae opponuntur), 15 febbraio 1975 AAS 67 (1975) 203-
204;
Lettera ai Vescovi e altri Ordinari e Gerarchi della Chiesa Cattolica interessati circa i
delitti più gravi riservati alla Congregazione per la Dottrina della Fede (Epistula ad
totius Catholicae Ecclesiae Episcopos aliosque Ordinarios et Hierarchas interesse
habentes de delictis gravioribus eidem Congregationi pro Doctrina Fidei reservatis),
18 maggio 2001. AAS 93 (2001) 785-788
Lettera agli Ordinari riguardante le norme sugli esorcismi (Epistula Ordinariis loco-
rum missa: in mentem normae vigentes de exorcismis revocantur), 29 settembre
1985 AAS 77 (1985) 1169-1170
131
Teologia pastorale
Decreto riguardante la S. Messa per i defunti cristiani non cattolici – Accidit in di-
versis (Decretum de Missa publice celebranda in Ecclesia Catholica pro aliis chri-
stianis defunctis), 11 giugno 1976 AAS 68 (1976) 621-622;
Decreto riguardante la vigilanza dei Pastori della Chiesa sui libri – Ecclesiae pasto-
rum (Decretumde Ecclesiae pastorum vigilantia circa libros), 19 marzo 1975. AAS
67 (1975) 281-284;
Battesimo
Risposta al Dubbio proposto sulla validità del Battesimo conferito presso «La Chie-
sa di Gesù Cristo dei Santi dell’Ultimo Giorno», detta «Mormoni» (Responsum ad
propositum dubium de validitate baptismatis apud communitatem «The Church of
132
Documenti
Istruzione sul battesimo dei bambini – Pastoralis actio (Instructio de baptismo par-
vulorum), 20 ottobre 1980 AAS 72 (1980) 1137-1156;
Eucaristia
Lettera circolare ai Presidenti delle Conferenze episcopali circa l’uso del pane con
poca quantità di glutine e del mosto come materia eucaristica, 19 giugno 1995 Noti-
tiae 31 (1995) 608-610; Notiziario CEI 16 (1995) 280s; EV 14, 1694-1696; LE 5609
Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della comunione eucari-
stica da parte di fedeli divorziati risposati – Annus Internationalis Familiae (Epistola
ad Catholicae Ecclesiae Episcopos de receptione communionis eucharisticae a fide-
libus qui post divortium novas inierunt nuptias), 14 settembre 1994 AAS 86 (1994)
974-979
Risposte circa la comunione eucaristica del celebrante «per intinzione» e dei fedeli
sotto la sola specie del vino (Responsa ad proposita dubia de celebrantis commu-
nione «per intinctionem» et fidelium communione sub sola specie vini), 29 ottobre
1982 AAS 74 (1982) 1298-1299;
Lettera al Segretario della S. Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari circa
il Dicastero competente per la concessione di indulti per poter celebrare la Messa
con mosto di vino in casi speciali, 22 settembre 1981
Risposta al Presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti di America circa
la disciplina dell’uso del vino da parte di sacerdoti alcolizzati, 15 dicembre 1980
CanLDigest vol. 9, 583-585; LE 4819
133
Teologia pastorale
Risposta al Presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti di America ri-
guardante la natura e le qualità della materia per il pane eucaristico, 4 giugno 1979
CanLDigest vol. 9, 578-580; LE 4716
Penitenza
Lettera al Presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti di America circa
le condizioni e le norme dell’assoluzione sacramentale «comunitaria», 14 gennaio
1977 DocCath 74 (1977) 297;LE 4487; Origins 6 (1977) 595-596
Ordini sacri
134
Documenti
Matrimonio
Decreto circa l’impotenza che rende nullo il matrimonio (Decretum circa impoten-
tiam quae matrimonium dirimit), 13 maggio 1977 AAS 69 (1977) 426; DOCU-
MENTA 31
Norme di procedura per lo scioglimento del matrimonio in favore della fede (Nor-
mae procedurales pro conficiendo processu dissolutionis vinculi matrimonialis in
favorem fidei), 6 dicembre 1973
Istruzione sullo scioglimento del matrimonio in favore della fede – Ut notum est (In-
structio pro solutione matrimonii in favorem fidei), 6 dicembre 1973 DOCUMEN-
TA 19 EV 4, 1786-1791; LE 4244; Dokumenty, I, 19
Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacra-
ta in Europa (1998)
135
Teologia pastorale
Norme fondamentali per la formazione dei diaconi permanenti - Direttorio per il mi-
nistero e la vita dei diaconi permanenti
Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacra-
ta in Europa
Il Laico Cattolico: Testimone della fede nella scuola (15 Ottobre 1982)
Istruzione su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei
sacerdoti (1997)
136
Documenti
Dichiarazione del Pontificio Consiglio per la Famiglia sulla Risoluzione del Parla-
mento Europeo del 16 marzo 2000 che equipara la famiglia alle ‘unioni di fatto’,
comprese quelle omosessuali
Dichiarazione sulla diminuzione della fecondità nel mondo (27 Febbraio 1998)
Vademecum per i confessori su alcuni temi di morale attinenti alla vita coniugale
(1997)
§ Cor Unum
La Fame nel Mondo - una Sfida per Tutti: lo Sviluppo Solidale (1996)
137
Teologia pastorale
Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Motu proprio Dolentium Hominum (1985)
Sussidi Pastorali: Il Vangelo della Salute, di S.E.R.Mons. Javier Lozano B., Presi-
dente del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari
Lettera di fondazione del Pontificio Consiglio della Cultura (20 maggio 1982)
Presentazione del libro Fede e Cultura a Sua Santità Giovanni Paolo II, da parte di
S.Em.za Rev.ma Paul Cardinal Poupard, Presidente del Pontificio Consiglio della
Cultura (9 gennaio 2004)
Documento Gesù Cristo portatore dell’acqua viva. Una riflessione cristiana sul
“New Age”
138
Documenti
Messaggi del Santo Padre per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali
Orientamenti per la formazione dei futuri sacerdoti circa gli strumenti della comuni-
cazione sociale (19 Marzo 1986)
Lettera Apostolica “motu proprio” In fructibus multis con cui viene istituita la Ponti-
ficia Commissione per le Comunicazioni Sociali (2 Aprile 1964)
139
INDICE
INTRODUZIONE ................................................................................................................... 5
Capitolo 1 ................................................................................................................................ 7
L’AZIONE PASTORALE NELLA BIBBIA .......................................................................... 7
Capitolo 2 ................................................................................................................................ 9
CHE COSA È LA TEOLOGIA PASTORALE? ..................................................................... 9
1. La teologia pastorale in Pastores dabo vobis .................................................................. 9
2. Storia della teologia pastorale come disciplina accademica .......................................... 11
Capitolo 3 .............................................................................................................................. 21
CRITERIOLOGIA DELL’AZIONE PASTORALE ............................................................. 21
1. Principio teocentrico...................................................................................................... 22
2. Principio cristologico..................................................................................................... 23
3. Principio pneumatológico.............................................................................................. 23
4. Principio ecclesiologico................................................................................................. 25
5. Principio storico-salvifico ............................................................................................. 26
6. Principio della cattolicità............................................................................................... 27
7. Il principio dell’unità della missione in un contesto pluralistico ................................... 28
8. Primato della carità........................................................................................................ 29
9. Missione della donna nella Chiesa ................................................................................ 30
10. Collaborazione stretta tra movimenti e parrocchie ...................................................... 32
11. Priorità vocazionale ..................................................................................................... 32
12. Priorità della testimonianza ......................................................................................... 32
Capitolo 4 .............................................................................................................................. 33
LA PREDICAZIONE ............................................................................................................ 33
1. Definizione della predicazione ...................................................................................... 33
2. La crisi della predicazione............................................................................................. 34
3. L’oggetto della predicazione ......................................................................................... 35
4. Il soggetto della predicazione ........................................................................................ 36
5. La predicazione e la fede............................................................................................... 39
6. L’efficacia della predicazione ....................................................................................... 40
7. La predicazione e la testimonianza................................................................................ 41
Appendice sulla catechesi.................................................................................................. 43
Capitolo 5 .............................................................................................................................. 44
LA PASTORALE D’INSIEME............................................................................................. 44
Teologia pastorale
Capitolo 6 .............................................................................................................................. 50
LA PROGRAMMAZIONE PASTORALE ........................................................................... 50
1. Primo passo: Determinare la missione. ......................................................................... 51
2. Secondo passo: Formulare la proiezione ....................................................................... 51
3. Terzo passo: Analizzare le forze e debolezze, opportunità e minacce........................... 52
4. Quarto passo della pianificazione: Le azioni strategiche del piano di azione................ 60
Capitolo 7 .............................................................................................................................. 67
LA PSICOLOGIA AL SERVIZIO DEL PASTORALE ....................................................... 67
1. Definizione .................................................................................................................... 68
2. I disordini mentali ......................................................................................................... 69
3. Le teorie e i metodi psicologici ..................................................................................... 72
4. Il dialogo pastorale ........................................................................................................ 74
Capitolo 8 .............................................................................................................................. 78
PASTORALE MATRIMONIALE ........................................................................................ 78
1. Natura della pastorale familiare..................................................................................... 78
2. Preparazione per il matrimonio ..................................................................................... 81
3. La liturgia del matrimonio............................................................................................. 82
4. Pastorale delle persone divorziate risposate .................................................................. 83
5) Risposta della Santa Sede.............................................................................................. 86
5. Accompagnamento delle coppie.................................................................................... 91
a. Siate coscienti che le vostre parole e/o azioni possono provocare reazioni che non
avete voluto e che non avreste mai immaginato............................................................ 96
b. Non fidatevi delle vostre buone intenzioni................................................................ 96
c. Scoprite in tempo le tensioni ..................................................................................... 98
d. Non seminate venti, perché mieterete tempeste ...................................................... 101
142
Indice
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