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L’antropologia

L’antropologia nasce nella seconda metà dell’Ottocento e si sviluppa inizialmente nell’ambito delle scienze naturali
come “scienza naturale dell’essere umano”, che in origine analizza sia la dimensione biologica che quella culturale
della vita umana. L’antropologia, inoltre, nasce prima nei musei che nelle università: infatti, già nel Settecento erano
state costituite delle collezzioni di oggetti etnografici di interesse antropologico, che diventano poi, nel corso
dell’Ottocento, delle vere e proprie collezioni scientifiche, collocate dunque nei musei di scienze naturali. Ciò avviene
perché la stessa antropologia nasce nel mondo positivista, quando i comportamenti umani iniziano ad essere studiati
con metodo scientifico e non più con metodo “idealistico”; questo approccio scientifico si riflette nella considerazione
che l’essere umano vada studiato tre le altre specie naturali perché esso è soltanto una delle tante specie che
esistono. Ben presto, però, le strade si dividono: l’antropologia fisica si sviluppa in ambito biologico, mentre la
dimensione culturale viene studiata nell’ambito delle scienze umane, ovvero di quelle discipline che studiano il
comportamento umano utilizzando il metodo scientifico, basato su quattro grandi fasi: osservazione;
catalogazione/classificazione; comparazione; elaborazione/enunciazione di teorie.
Gli antropologi studiano gli esseri umani appartenenti ad ogni tempo e ad ogni luogo, ovunque essi trovino o vivano;
di particolare interesse è la diversità, che si origina dal fenomeno dell’adattabilità umana, e che costituisce
l’argomento principale dell’antropologia. Quest’ultima è una scienza olistica poiché si riferisce allo studio della
condizione umana considerata nel suo insieme: non solo npassato, presente e futuro, ma anche biologia, società,
linguaggio e cultura. L’adattamento si riferisce ai processi mediante i quali gli organismi riescono a superare con
successo gli stress e le forze avverse che agiscono nell’ambiente in cui si trovano; l’adattamento biologico può essere
genetico, fisiologico a breve termine o fisiologico a lungo termine, ma nel caso dell’uomo esiste anche l’adattamento
culturale, grazie ai vari mezzi di cui dispongono gli esseri umani.

L’etimologia della parola “antropologia”


La parola “antropologia” deriva dal greco ἄνθρωπος, uomo, e λόγος, discorso e argomento; l’antropologia è quindi il
“discorso sull’essere umano”. Esistono comunque diversi tipi di antropologia: antropologia politica, antropologia dei
media, antropologia visiva, antropologia museale, antropologia economica ecc.; ancora prima di queste suddivisioni
settoriali, che dipendono dal focus che ciascuno vuole dare alle proprie ricerche, c’è però una distinzione a monte, più
importante, che riguarda gli ambiti in cui la costruzione del sapere antropologico si sviluppa.
Claude Lévi-Strauss, nel volume Antropologia Strutturale, dà una definizione dei tre grandi ambiti di costruzione del
sapere antropologico, che lui considera come tre momenti successivi, attraverso cui tutti gli antropologi in qualche
modo devono passare per costruire una loro visione antropologica:
- etnografia: dal greco έθνος, “popolo”, e γράφω, “scrivo”, l’etnografia è quindi la “rappresentazione delle etnie”.
Gli antichi Greci non utilizzavano mai il termine ethnos in riferimento a se stessi, ma sempre in riferimento agli
altri, ai “barbari”; essi si definivano invece come coloro che avevano la polis, quel sistema politico che si sviluppò
in riferimento alla città e al governo, basato sulla partecipazione, sulla cooperazione e su una prima idea di
democrazia. Il termine “etnia” si radica quindi in una prospettiva etnocentrica ed è utilizzato prevalentemente per
definire gli “altri”: ad esempio, veniva usato molto ai tempi del colonialismo in riferimento ai popoli che dovevano
essere amministrati. Esso è quindi un “contro-concetto”, cioè un concetto indotto per contrasto: l’identità si
definisce in rapporto all’alterità ed è sempre un fatto relazionale.
L’etnografia è il metodo che utilizzano gli antropologi quando vanno sul terreno per raccogliere i loro materiali e
le loro osservazioni, che sono rappresentazioni; esse servono poi per costruire una documentazione etnografica,
che è la base del sapere antropologico. È importante ricordare che l’etnografo difficilmente può basarsi soltanto
sul sapere bibliografico, ma serve sempre un’esperienza diretta, fatta sul terreno; essa è particolarmente
importante nel caso in cui venga condotta in una società completamente diversa dalla propria, perché la diversità
vissuta in prima persona è il più forte motore euristico dell’antropologia, uno “shock” che dà inizio alla ricerca.
Il primo antropologo che ha sottolineato l’importanza del terreno è Malinowski, che nel 1922 pubblica Argonauti
del Pacifico Occidentale, nel quale emerge il metodo dell’osservazione partecipante: non basta osservare, ma è
necessario anche partecipare ed essere coinvolti negli eventi della vita sociale.
- etnologia: dal greco ἔθνος, “popolo”, e λόγος, “discorso”, l’etnologia è quindi il “discorso sulle etnie”.
In questa fase si sviluppa la comparazione: l’approccio etnologico è tipicamente un approccio di tipo comparativo,
poiché la documentazione etnografica, raccolta sul campo dai diversi ricercatori e poi normalmente tradotta in
monografie e testi, deve essere comparata con materiali provenienti da altre società. Esistono diversi tipi di
comparazione:
- comparazione a scala regionale: si comparano società vicine tra loro; essa consente di percepire le variabili e
anche la storia che intercorre fra loro;
- comparazione a scala universale: è un tipo di comparazione più ampia e approfondita -> l’etnomusicologia va
a studiare gli strumenti musicali tipici di ogni popolo e le analogie o le differenze fra uno o l’altro strumento.
La comparazione, regionale o universale, è il secondo momento della produzione del sapere antropologico: infatti,
l’obiettivo dell’antropologo non è studiare una singola cultura, ma estrapolare da una singola cultura dei temi più
ampi e generali, che riguardano anche noi stessi. Dunque, l’etnologia è la scienza che maggiormente valorizza la
diversità e mette in luce quanto siano numerose le soluzioni culturali e adattative in cui le varie società vivono.
- antropologia: partendo dalla comparazione, la terza fase si occupa di formulare teorie che riguardino l’essere
umano più in generale e il suo funzionamento. L’antropologia si differenzia a seconda delle tradizioni
accademiche nazionali: in Europa, ad esempio, la distinzione più usuale è quella tra antropologia culturale
(spesso denominata etnologia), che guarda al punto di vista socio-culturale, e antropologia fisica, che guarda al
punto di vista biologico. L’interdipendenza tra la dimensione biologica e quella culturale resta fondamentale:
natura e cultura sono due dimensioni inscindibili e il loro rapporto è interattivo, poiché una cultura si studia senza
mai dimenticare l’aspetto biologico, e allo stesso tempo studiare l’essere umano dal punto di vista biologico
significa oggi prendere in considerazione l’importanza della cultura.

La cultura
Da quando si iniziano a separare le due antropologie, l’antropologia culturale si sviluppa grazie alla introduzione di un
nuovo concetto di cultura, che prima non esisteva. La parola cultura deriva dal latino colĕre, coltivare, ma è stata
definita in diversi modi:
- definizione classica: secondo Cicerone, “cultura animi philosophia est” (la filosofia è la coltivazione dell’anima).
Nella tradizione classica, la cultura indicava il coltivare la mente e l’animo utilizzando l’apprendimento e lo
studio, ottenuto attraverso la lettura e la scrittura; in questo senso, esso era un concetto elitario, in quanto ai
tempi di Cicerone poche erano le persone ad avere accesso a questi mezzi. Secondo questa visione, la cultura è
qualcosa a cui possono arrivare solo alcune classi, ma allora come ci si spiega l’esistenza di una cultura in
numerosi popoli che non disponevano di un sistema di scrittura? In effetti, il corollario alla definizione di Cicerone
è che i popoli senza scrittura sono popoli senza cultura.
- definizione antropologica: secondo Edwuard Burnett Tylor, “la cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso
etnografico, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il costume o
qualsiasi altra capacità o abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società”. Questa visione,
introdotta dall’antropologo vittoriano nel 1971, in Primitive Culture, era quella dell’evoluzionismo sociale, diverso
da quello biologico di Darwin, che postulava un’evoluzione unilineare delle società e delle culture. Secondo
questa teoria, tutte le società procederebbero lungo una linea evolutiva che porterebbe, attraverso alcuni stadi
(selvatichezza, stadio primitivo, barbarie e infine civiltà) a raggiungere la meta della civiltà, secondo velocità
differenti. In questo senso, gli aborigeni australiani vivono allo stadio primitivo e sono paragonati ai nostri avi che
vivevano nel Neolitico; ovviamente non sono dei primitivi, ma semplicemente delle popolazioni che hanno scelto
delle soluzioni adattative diverse dalle nostre. L’evoluzionismo culturale è come una macchina del tempo, in cui
la diversità viene tradotta in termini temporali, in un’operazione assolutamente falsa e congetturale. Per Tylor, la
cultura è fatta dai saperi e dalle pratiche, anche le più umili, ma anche dalle capacità e dalle abitudini, che l’uomo
ha naturalmente ed inconsapevolmente. Dal momento che la naturalizazzione avviene in una fase in cui l’uomo
non è cosciente, noi consideriamo naturali soltanto i nostri costumi, mentre sono “barbari e innaturali” i costumi
degli altri; di conseguenza, per considerare le culture in altri termini occorre denaturalizzare, relativizzare e
diventare consapevoli: cultura è tutto ciò che non è trasmesso geneticamente e che è il contrario di biologia,
poiché non ha nulla a che fare con il patrimonio genetico di ogni popolo. La cultura si apprende non solo a livello
individuale, ma anche a livello di gruppo: è quindi un processo dinamico e basato sull’apprendimento.
L’acquisizione della cultura in Cicerone avveniva attraverso la lettura e la scrittura, ora invece essa viene acquisita
dall’uomo in quanto membro di una società, poiché essa è un fatto sociale e viene quindi condivisa.

L’emergere della cultura nell’evoluzione della specie


L’antropologia culturale si deve focalizzare anche sulla dimensione biologica, e in particolare domandarsi se la cultura
contraddistingua la nostra specie dalle altre specie animali; quindi, essa si deve chiedere come e quando la cultura
compaia nella specie umana. Vi sono diverse teorie a riguardo:
- teoria del punto critico (teoria classica): si considera l’emergere della cultura come successivvo al raggiungimento
di un certo volume cranico, più o meno all’altezza dell’uomo di Neanderthal; raggiunto questo volume,
cominciano ad essere acquisite facoltà linguistiche e di fonazione. Questa teoria è stata abbandonata in seguito al
ritrovamento di alcuni utensili risalenti ad un periodo anteriore all’homo sapiens, che dimostrano quindi
l’esistenza di una cultura già in precedenza.
- teoria dell’incompletezza biologica: la cultura in sé è considerata come parte del processo che permette al
cervello di evolversi a livello biologico, presentando così un processo interattivo tra le due parti, per il quale man
mano che si sviluppa la cultura aumenta anche lo sviluppo cerebrale. Perciò, lo sviluppo cerebrale non è un
prerequisito allo sviluppo culturale, bensì una conseguenza: il cervello umano è plastico e si modifica a partire
dall’ambiente culturale, quindi via via che cresce la produzione culturale si modifica anche l’organo a livello
cerebrale. La teoria è detta “dell’incompletezza biologica” perché la nostra specie è biologicamente incompleta,
nel senso che per sopravvivere ha bisogno di cultura, che può ottenere solo dalle soluzioni culturali, le quali
completano appunto il funzionamento dell’essere umano; in questo si vede quanto l’uomo dipenda a livello
biologico dalla cultura, poiché senza di essa non è in grado di sopravvivere.

Il concetto semiotico di cultura di Geertz


Un’ulteriore definizione di cultura viene data da Clifford Geertz, etnografo e teorico dell’antropologia, nel libro
Interpretazione di Culture, in cui inquadra e sviluppa la corrente ermeneutica, che dà una svolta interpretativa
all’antropologia (da qui il concetto di “svolta ermeneutica”). Infatti, dagli anni Settanta si sviluppa un nuovo
paradigma teorico che prende le distanze dalla concezione naturalistica che ancora era presente nell’approcciarsi
all’antropologia, secondo la quale l’uomo andava studiato con un metodo scientifico alla ricerca di leggi generali;
proprio Geertz è uno dei primi che se ne distanzia: “ritenendo, insieme con Max Weber, che l’uomo è un animale
sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura consista in queste ragnatele e che
perciò la loro analisi non sia anzitutto una scienza sperimentale in cerca di leggi (scienza nomotetica), ma una scienza
interpretativa in cerca di significato”.
Nella definizione di cultura di Geertz viene sottolineata l’importanza della rappresentazione (ovvero la forma che
diamo agli oggetti, agli spazi, ai nostri corpi, ecc.), modificata per creare modelli culturali nuovi secondo precise
esigenze simboliche. Se la cultura è fatta da rappresentazioni ed è interpretativa, il lavoro dell’antropologo è quello di
interpretare i testi (scritti, orali, visivi, sonori, ecc.) per comprenderne il significato; c’è quindi una differenzia
sostanziale dalla visione di Tylor, poiché in questo caso viene enfatizzato l’aspetto semiotico della cultura, cioè
vengono studiati i significati.
Da questa nuova prospettiva della cultura si arriva ad una nuova definizione dell’antropologia: “sebbene la cultura
esista nella stazione commerciale, nel forte sulla collina o nel tratturo delle pecore, l’antropologia esiste nel libro,
nell’articolo, nella conferenza, nella mostra al museo o, talvolta, ai giorni nostri, nel film. Rendersi conto di questo
significa essere consapevoli che nell’analisi culturale non si può tracciare il confine tra i modi di rappresentazione e il
contenuto oggettivo”. Dunque, nella definizione di cultura vengono prese in considerazione le parole di Tylor, per cui
la cultura si basa sulla capacità umana di apprendimento culturale e include le regole di condotta interiorizzate dagli
individui, che portano l’uomo a pensare e ad agire in modi caratteristici, inoltre, sebbene anche altri animali abbiano la
facoltà di apprendere, solo gli esseri umani dispongono di una capacità di apprendimento culturale basata sull’uso di
simboli: l’uomo pensa simbolicamente, assegnando un significato ad oggetti ed eventi in modo arbitrario e spesso
condiviso, ma comunque le persone possono assimilare gli insegnamenti culturali sia in modo consapevole che non.
I livelli di cultura, infine, possono essere più o meno estesi rispetto all’ambito di una nazione: ad esempio, il
colonialismo e l’immigrazione hanno permesso una trasmissione più ampia di modelli culturali differenti, travalicando i
confini nazionali. Per questo motivo l’antropologia sceglie di prendere in considerazione tratti universali e generali,
legati ad elementi biologici, psicologici, sociali e culturali, e quindi di adottare una prospettiva comparativa nella
propria analisi.

L’etnia
Il concetto di etnia è molto complesso e controverso, oltre che molto pericoloso; esso spesso viene legato a quello di
razza, che però è una parola non valida per l’essere umano ma solo per alcune specie animali.
Secondo le idee etnocentriche, che rimangono in auge fino agli anni Quaranta, la parola etnia fa riferimento a
persone che vivono in un gruppo, o ad una schiera di uomini di una particolare tribù, o ancora ad una nazione e ad un
popolo; gli “altri”, ovvero i popoli stranieri, sono i “ta etne”, che non hanno istituzioni politiche e vivono nel caos. In
questo senso, il termine etnia può essere associato anche a quello di tribù, che in passato era usato dagli Inglesi per
indicare una ripartizione amministrativa e che oggi viene utilizzato tecnicamente per parlare delle società lignatico-
segmentarie, ovvero quelle società in cui tutto viene organizzato in base al clan.
Lo struttural-funzionalismo sviluppa una concezione dei gruppi umani basata sul discontinuismo etnologico, per cui si
pensa ai popoli come gruppi chiusi con caratteristiche precise, ben distinti gli uni dagli altri.
Basandosi sul concetto di società come sistema chiuso, autosufficiente e statico, Malinowski, attraverso una
concezione di tipo olistico della cultura (cioè come insieme discreto, complesso e autosufficiente), elabora il
funzionalismo, che ritiene che ogni tratto culturale -> organizzazione dello spazio; grado di parentela; legame
matrimoniale; vita sessuale sia funzione dell’organizzazione sociale. A completare questa teoria, Radcliffe-Brown
elabora lo strutturalismo sociale: l’antropologia deve studiare la struttura sociale, e quindi il tessuto delle relazioni
sociali, poiché una società è composta da individui e ciascuno occupa una posizione precisa all’interno della società. A
queste idee si aggancia Evans-Pritchard che, studiando la popolazione Nuer nel testo I Nuer: un’anarchia ordinata,
non si immagina per loro un cambiamento o un progresso in futuro, ma vede soltanto un popolo statico e fisso, privo
di storia, che non può mirare a nessun futuro e che mai è cambiato rispetto al passato.
Questa concezione di chiusura e fissità si espande maggiormente nel periodo del colonialismo, quando ai popoli
africani, società aperte all’origine, vengono imposte categorie rigide, che rientrano nella classificazione etnica e non
tengono conto della storia -> Conferenza di Berlino del 1912: i confini dell’Africa coloniale vengono tracciati con
squadra e righello, senza tener conto degli equilibri sociali, politici e culturali presistenti; di conseguenza, con il
colonialismo si è venuto a creare un sistema che ha destabilizzato completamente gli equilibri. Ancora prima, esso ha
introdotto a livello teorico il concetto di etnia: in epoca precoloniale le identità venivano definite non attraverso
categorizzazioni di tipo etnico, ma attraverso categorizzazioni di tipo politico, quindi come società claniche o
centralizzate; con il colonialismo, invece, si creano delle definizioni etniche, dette etnonimi, che attribuiscono ai
popoli colonizzati significati di tipo razziale-biologico. Di fatto, gli effetti di questo approccio sulla vita delle
popolazioni locali sono stati catastrofici -> genocidio del Ruanda.

Il genocidio del Ruanda


In epoca precoloniale, il sistema del Ruanda era di tipo agro-pastorale, in cui i Tutsi erano allevatori e gli Hutu erano
agricoltori, ed interagivano fra loro scambiandosi dei prodotti. Non si poteva quindi parlare ancora di etnie, ma di
classi occupazionali (Obwoko = categorie); non era comunque qualcosa che si ereditava con il sangue, in quanto i
matrimoni fra i due gruppi erano comuni e c’era un’ampia mobilità tra le classi.
I Tedeschi occuparono il territorio del Ruanda dal 1890 al 1914, anno in cui esso divenne una colonia del Belgio; i Belgi,
però, negli anni Trenta fecero un censimento della popolazione chiedendo esplicitamente ad ogni persona a quale
etnia appartenesse, ed in seguito emisero le prime carte di identità. Mettendo nero su bianco l’appartenenza etnica,
in un processo di reificazione, le categorie si irrigidirono e non fu più possibile cambiare gruppo. L’amministrazione
coloniale trasformò quindi quella che era una semplice differenziazione socio-economica in una differenza razziale,
basata sull’aspetto fisico degli individui: i Pigmei, gruppo etnico corrispondente ad appena l’1% della popolazione,
erano di bassa statura, gli Hutu di media altezza e i Tutsi molto alti, con lineamenti del volto più sottili. Attraverso
queste sottili distinzioni, il Ruanda si trasformò in un regno al centro del quale era posto un sovrano, alle cui
dipendenze stavano capi militari e da cui dipendeva una popolazione contadina; la dinastia reale e militare era
composta da Tutsi, che divennero i ricchi al potere, mentre la classe povera venne formata dagli Hutu, che dovevano
subire tutto. L’odio interetnico fra Hutu e Tutsi costituì la radice scatenante del conflitto: dopo sanguinose rivolte e
massacri, gli Hutu presero il potere tra il 1959 e il 1962 e iniziò la lunga persecuzione dei Tutsi. Il genocidio del
Ruanda fu uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’Africa del ventesimo secolo: dal 6 aprile alla metà di luglio
1994 vennero massacrate sistematicamente, a colpi di arma da fuoco, circa un milione di persone.
A pochi mesi dal genocidio, nel 1995, uscì Les Médias du génocide di Jean-Pierre Chretién, un libro che corrispose al
risultato di una ricerca che puntava ad analizzare come avessero reagito i media di fronte ad una tragedia di questa
portata. I ricercatori, aiutati dall’associazione Reporters sans Frontières, si interrogarono sul ruolo della radio-
diffusione e dei giornali, gli organi che più di altri incitano all’odio e alla propaganda razziale, andando ad esaminare
alcune registrazioni radiofoniche e alcuni giornali del Ruanda.
La radio inizialmente trasmetteva poco e la sua posizione era neutrale; in seguito, però, si sentì il bisogno di creare
una radio che desse voce alla rivolta degli Hutu, dando così vita alla Radio Télévision Libre des Mille Collines nel 1993.
Essa nacque in toni populisti, essendo ufficialmente una radio di comunità, fatta dal basso per permettere ai contadini
di far sentire la loro voce ed esprimere i loro malesseri nei confronti della politica; in realtà si poneva come la voce
dell’opposizione Hutu, tanto da essere detta “Radio dell’Odio”, perché mentre di sera venivano trasmesse canzoni, di
giorno veniva costantemente fomentato l’odio nei confronti dei Tutsi. E infatti fu proprio la radio a segnare l’inizio del
genocidio: dopo l’incidente aereo nel quale perdono la vita sia il presidente del Ruanda sia quello del Burundi, la radio
diffonde l’incidente incitando la popolazione all’odio nei confronti dei Tutsi con la frase “bisogna tagliare le cime più
alte degli alberi”.
I giornali non esistevano in Ruanda prima della colonizzazione, in quanto la tradizione si basava prevalentemente
sull’oralità; vennero portati soprattutto dai colonizzatori cattolici belgi, che per l’evangelizzazione prevedevano la
lettura e la scrittura, e quindi l’alfabetizzazione sistematica della popolazione. La pubblicistica in lingua kinyarwanda si
sviluppò lentamente, soprattutto a seguito della presa di potere degli Hutu e dell’espulsione dei Tutsi; a seguito di una
progressiva formazione di partiti e movimenti integralisti, però, si svilupparono alcune riviste, tra cui la più importante
era il Kangura (che significa ‘Sveglia!’), un giornale Hutu radicale, che denunciava la supremazia dei Tutsi che si era
venuta a creare durante il colonialismo. I Tutsi erano arrivati ad essere visti come popolo eletto, destinato a dominare,
ma attraverso questa rivista essi cominciarono ad essere definiti “scarafaggi”, poiché avevano iniziato a scappare da
una parte all’altra, nascondendosi e stando attenti ai pericoli come degli scarafaggi; anche dal punto di vista grafico
vengono utilizzati molti disegni caricaturali, poiché sono immediati e incitano più facilmente l’odio verso i Tutsi.
Dopo i sanguinosi massacri, Paul Kagame, presidente del Ruanda e generale del Fronte Patriottico Ruandese, rientra
con le truppe di Tutsi da Nord e riprende le redini del Paese, scacciando i genocidari Hutu. La Francia, in una mossa
controversa, apre un corridoio umanitario verso Est e garantisce la fuga ai genocidari: circa un milione di Hutu
scappano in Congo, dove vengono accolti in un enorme campo profughi, le cui condizioni saranno talmente precarie
da far scoppiare la guerra del Congo due anni più tardi.
In Ruanda, però, cambia la Costituzione: le etnie, o meglio le categorie, vengono eliminate, perché non servono
classificazioni se tutti i Ruandesi appartengono ad un’unica nazionalità. Dal punto di vista politico, i processi più
importanti vengono condotti nei tribunali dell’Aia, però per i processi più piccoli si adotta una soluzione simile a quella
del Sudafrica: nascono alcuni tribunali popolari, chiamati Gacaca, dove spontaneamente i genocidari colpevoli si
presentano e a fronte di una commissione vengono re-inseriti nella società. Dunque, al contrario della giurisprudenza
europea, che punta prima alla condanna e poi alla riabilitazione, qui le azioni penali vengono intraprese ai fini della
riconciliazione, affinché il Paese possa trovare una via per la riappacificazione. Attualmente, per mantenere vivo il
ricordo delle vittime del genocidio, il Ruanda si sta impegnando a creare memoriali e luoghi dedicati al ricordo,
siccome molti furono i morti insepolti. Per quanto riguarda il ruolo delle donne, è stato creato un sistema di
rappresentanza femminile unico al mondo che parte dai villaggi e arriva ad un parlamento internazionale, il National
Women Council, che evidenzia l’attività sociale delle donne sul territorio.

Fredrik Barth e I gruppi etnici e i loro confini


Fredrik Barth, antropologo norvegese, comincia ad interessarsi alla definizione dell’etnia.
I gruppi spesso sono mutevoli e i loro confini si modificano; per questo, raggruppare per religione, lingua, territorio,
organizzazione politica o cultura può essere fuorviante e controproducente. Ma se il contenuto del gruppo è così
fluido e mutevole, che cosa definisce allora un gruppo?
Un gruppo, per Barth, è definito semplicemente dai confini intorno ai quali tale gruppo è circoscritto: quindi non
occorre concentrarsi su cosa sta al centro, ma sui confini geografici, sociali e culturali; ciò perché i confini sono
pensati come dei laboratori identitari, dove si costitruiscono le identità, e sono i luoghi dell’etnogenesi, dove nasce
l’etnia.
Barth organizza un vero e proprio modello teorico per studiare le etnie a partire dai confini. Essi sono porosi: infatti, i
membri di un gruppo cambiano continuamente perché la gente passa frontiere e cambia costumi, usanze, lingua, ecc.;
eppure, spesso l’identità permane. Per questa ragione, Barth quando parla di gruppi etnici fa riferimento al processo
osmotico (l’osmosi è un processo biologico attraverso cui un organismo naturale assimila ciò che è fuori e lo
riproduce): occorre osservare ciò che avviene quando i gruppi interagiscono per arrivare a comprendere la storicità
dell’identità etnica.

Jean-Loup Amselle e Elikia M’Bokolo e L’invenzione dell’etnia


Questa nuova visione di etnia viene portata ancora più avanti da Amselle e M’Bokolo: per loro, l’etnia è
un’invenzione.
I due, riprendendo lo studio di alcuni gruppi etnici africani, vedono come in molte società africane l’etnia sia un
costrutto coloniale: è infatti durante il colonialismo che i gruppi cominciano ad essere considerati in maniera
discontinua. Se però si considera il periodo prima della colonizzazione, Amselle afferma che occorre studiare gli spazi e
le regioni all’interno dei quali i diversi gruppi si confrontano: in particolare, egli suggerisce di non studiare i gruppi
etnici singolarmente, secondo un approccio mono-etnico, ma di fare un’antropologia topologica (degli spazi), poiché è
proprio all’interno di questi spazi che si osservano scambi culturali, religiosi, linguistici, politici e altri processi dinamici
grazie ai quali i gruppi possono nascere come scomparire.

Sistemi di sussitenza e sistemi politici


Le grandi tipologie di società che esistono al mondo si fondano su due grandi pilastri:
- sistemi di sussistenza (economia);
- organizzazione politica.
Non esiste una relazione deterministica tra i due, però è vero che in certi sistemi non è possibile raggiungere un grado
di centralizzazione elevato semplicemente perché non c’è una base economica solida.
La prima forma di sussistenza nella quale la nostra specie ha vissuto per circa il 90% della sua storia è quella della
caccia e raccolta, di cui l’homo sapiens dispone sin da quando si è differenziato dall’antenato antropomorfo. In questo
tipo di economia non è presente l’addomesticamento degli animali e delle piante, poiché si vive rispettando
l’ambiente così com’è, attraverso regole e riturali ben precisi e cercando di trarvi tutto ciò di cui si ha bisogno per
vivere. Attualmente, i cacciatori e raccoglitori sparsi nel mondo sono ancora numerosi, anche se la colonizzazione, la
nazionalizzazione e l’introduzione delle frontiere hanno sedentarizzato questi gruppi, che erano tendenzialmente
nomadi poiché ad un certo punto le risorse di un determinato territorio finivano e occorreva spostarsi in un luogo più
prospero.
Con la rivoluzione neolitica si cominciano ad addomesticare gli animali e a lavorare il terreno. Per questa ragione, si
creano delle prime comunità che danno vita a società incentrate sul pastoralismo, tutte molto simili tra loro e con la
medesima struttura governativa. Attualmente, esse sono presenti soprattutto in Africa.
Quando le società introducono tecnologie raffinate nella coltivazione del terreno come l’aratro, è possibile ottenere
un surplus che supera quello dei bisogni individuali; ciò permette lo sviluppo di un’organizzazione politica raffinata, in
cui le società sono centralizzate, cioè si danno dei capi e poi ciascun membro assume un ruolo ben specifico. Questo
tipo di società è basato quindi sull’agricoltura e si contrappone al tipo precedente di società, detto acefalo.
Con lo sviluppo agricolo si arriva infine allo sviluppo industriale. Esso, grazie alla crescita esponenziale della
produzione e dei consumi, permette lo sviluppo e la diffusione di governi centralizzati, in cui i ruoli sono ben definiti e
rispettati sotto le direttive di un capo, che gestisce sia la forza lavoro che la produzione.
Le forme di organizzazione politica che possono essere associate a questi sistemi di economia sono le bande, le società
lignatico-segmentarie (o tribù), i domini e i regni/gli Stati.
I cacciatori-raccoglitori si organizzano in bande, che sono gruppi molto ristretti (di al massimo 80 individui); di norma,
esse sono gruppi esogamici, cioè i matrimoni sono possibili tra individui di bande diverse, in cui vige la poligamia. Esse
sono governate da un sistema di relazioni parentali, quindi non ci sono capi ma solo un primus inter pares; i rapporti
di genere, inoltre, sono abbastanza paritari poiché un gruppo così piccolo ha bisogno di molta solidarietà per vivere.
All’interno di questi gruppi, le ore dedicate al lavoro sono molto poche, e questa è una delle ragioni per cui l’arte viene
invece molto sviluppata.
I gruppi pastorali si organizzano invece in società lignatico-segmentarie o tribù. L’organizzazione politica è acefala e si
basa sulla parentela e sulla discendenza; esistono infatti delle regole per definire i gruppi di parenti, perché la
discendenza può essere di tipo matrilineare, patrilineare o bilineare. Le tribù si basano su “segmenti” di clan, di
generazione in generazione: man mano che si allarga, il clan si divide in sottogruppi.
I gruppi agricoli si strutturano in domini, cioè in società con capi: il potere si centralizza ed inizia a crearsi una
gerarchia in funzione del genere e dell’età. In quest’organizzazione politica, l’amministrazione del territorio si
complica e dunque si sviluppa, dando quindi luogo a società centralizzate anche territorialmente.
La società industrializzate si organizzano in regni o Stati: sono sempre società centralizzate, con posizioni sociali
dentro gerarchie molto rigide, ma sono generalmente più grandi e complesse, anche a livello territoriale.

Gli aborigeni australiani


Un esempio di società di cacciatori e raccoglitori è costituito dagli aborigeni australiani. In Australia, numerosissimi
erano i gruppi di cacciatori e raccoglitori presenti prima dell’arrivo degli Europei, che abitavano quelle terre da oltre 50
mila anni, continuando a vivere seguendo un modello di caccia e raccolta molto particolare. Con l’arrivo
dell’esploratore James Cook nel 1768 iniziò il grande genocidio degli aborigeni australiani: da un milione che erano si
ridussero a soli 60 mila individui, in parte stipati in riserve. L’Australia divenne una colonia penale inglese, in cui
venivano mandati tutti i prigionieri inglesi che, una volta arrivati, si impossessavano con brutalità del territorio.
Oggi le relazioni con gli aborigeni sono ancora molto difficili e senza alcuna speranza di integrazione, poiché non sono
riusciti a superare le violenze subite: infatti, solo dieci anni fa il Primo ministro australiano ha chiesto scusa
pubblicamente per la prima volta per i fatti passati, senza però offrire alcun risarcimento economico (neanche la loro
terra, il loro bene più prezioso). Inoltre, è importante ricordare che gli aborigeni hanno ottenuto la cittadinanza
australiana attraverso un referendum solamente nel 1967, il che significa che sono stati per moltissimo tempo senza
cittadinanza nel Paesi in cui vivevano da migliaia di anni.
I gruppi degli aborigeni erano numerosissimi e tantissime erano le bande che vivevano di caccia e di raccolta, con una
struttura politica basata sulla parentela; erano società esogamiche basate su una struttura a metà: ciascuna banda
era suddivisa in un gruppo A e in un gruppo B, e ciascun membro del gruppo A si doveva sposare con un membro del
gruppo B. Gli aborigeni erano nomadi: gli uomini cacciavano e le donne si dedicavano al raccolto. Sicuramente, però,
era molto importante la loro concezione sacralizzata della terra, ritenuta appunto sacra poiché al suo interno
vivevano gli spiriti degli antenati; questi gruppi, infatti, ritenevano di discendere da un antenato comune, identificato
in un animale o in un totem, attraverso un’idea di reincarnazione molto particolare. Questa visione così sacra della
terra, intrisa di mitologia, rinvia alle origini del creato, perché gli aborigeni hanno la consapevolezza di essere lì da
tanto tempo e immaginano l’universo come il tempo del sogno, secondo una visione onirica; quindi, i quadri e le
rappresentazioni sono anche chiamate “sogni” o “visioni” perché sono intrisi di una percezione extra-sensoriale e
onirica, attraverso la quale si rappresenta lo spazio, il tempo, la storia e la geografia del mondo aborigeno.
In quest’ottica è più che comprensibile la reazione degli aborigeni alle azioni degli Europei, i quali non sono riusciti a
cogliere la sacralità dei terreni. Infatti, nella società aborigena si evitavano la violenza e la crudeltà e si guardava al
pacifismo, mentre la crudeltà degli Europei fece crollare tutti i loro principi con un’evangelizzazione di massa e una
civilizzazione forzata -> “generazione rubata”: si tolgono i bambini agli aborigeni per farli crescere da coppie europee.

David MacDougall e Di chi è la storia?


Gli aborigeni sono stati l’oggetto di studio di molti antropologi fin dai primi anni del Novecento, i quali molto spesso
hanno documentato le proprie ricerche attraverso filmati -> Desert people negli anni Sessanta. Naturalmente, negli
anni Sessanta non esistono più bande che vivono secondo l’unilinearità, perché ormai il genocidio è avvenuto;
tuttavia, la rappresentazione costruita attorno a queste società è assolutamente peculiare. Infatti, prima degli anni
Sessanta la produzione era totalmente nelle mani dei bianchi e non c’erano interazioni tra gli studiosi e le popolazioni;
dunque, la rappresentazione degli aborigeni seguiva una visione etnocentrica, prodotta nello spirito del positivismo.
Per questo si sviluppò un processo di oggettivazione particolarmente umilante per quei popoli: ad esempio, le
persone venivano fotografate nude per essere catalogate, quindi venivano viste come degli oggetti da poter studiare
al pari di un minerale.
Tutto questo, ad un certo punto, va in crisi, anche grazie all’intervento di alcuni studiosi come Geertz: infatti, essi
fanno tramontare il modello tradizionale della rappresentazione etnografica per cui noi siamo “soggetti” e gli altri
invece sono “oggetti”. Negli anni Ottanta, dunque, sorge una nuova riflessione: la costruzione di una rappresentazione
etnografica in una prospettiva non coloniale, in cui le relazioni sono paritarie e non c’è una superiorità da una parte o
dall’altra, è possibile, perché è possibile considerare gli aborigeni come soggetti ed interlocutori; si sviluppa quindi in
antropologia la dimensione intersoggettiva, per la quale i due soggetti dialogano tra loro.
Avviene quindi la cosiddetta rivoluzione epistemologica, che delinea due prospettive:
- iniziano ad essere create le prime produzioni native, attraverso i media “nativi”, in cui le comunità locali parlano
di se stesse. Questa non è antropologia vera e propria, ma è impadronirsi dei mezzi di rappresentazione da parte
di società che prima ne erano escluse: questi popoli sentono il bisogno di creare degli archivi per conservare la
loro cultura, ad esempio i filmati vengono usati per tramandare usanze, e di comunicare con l’esterno per dare
visibilità alle loro proteste, al fine di emergere sulla scena internazionale.
- inizia a diffondersi l’idea che esistano delle produzioni partecipative, ovvero è possibile “andare al di fuori di uno
schema naturalistico, secondo una prospettiva extra-positivistica, in cui i popoli diventano soggetti e ciò che
occorre fare è rapportarsi in maniera pacifica e dialogante con questi soggetti, cogliendone il loro punto di vista”.
Nell’articolo di MacDougall Di chi è la storia?, del 1991, emerge il fatto che ciò che conta è chi sta parlando e a chi
si rivolge; nasce quindi la consapevolezza che la rappresentazione etnografica, e in particolare quella del cinema
antropologico, non può più essere considerata una rappresentazione di tipo oggettivo, ma occorre domandarsi
“di chi sia la storia” e condividerne il senso con le persone con cui lavoriamo. Nasce così un’antropologia
dialogica e condivisa, che non si basa sull’osservazione, ma sul dialogo e sullo scambio di punti di vista, grazie alla
partecipazione diretta delle persone oggetto della ricerca.
Fin da subito gli aborigeni furono rappresentati attraverso fotografie e filmati, ma seguendo una prospettiva
positivista, che sviluppava un’immagine esotica e primitivista. Con il referendum e l’attivismo politico, gli aborigeni
rivendicarono la rappresentazione di se stessi; iniziò dunque un processo di lenta concessione agli aborigeni di una
formazione per insegnare loro a produrre. Negli anni Settanta, gli aborigeni cominciarono quindi a creare dei video
nelle comunità e nelle riserve rivolti alla comunità stessa, quindi parlati in lingua aborigena, per rivendicare la loro
lingua madre, soppressa dall’inglese, e avere una maggiore visibilità sulla scena internazionale. In seguito, vennero
trasmessi anche programmi radiofonici in lingua aborigena, e in alternativa alla tv del governo centrale, l’Australian
Broadcasting Corporation, gli aborigeni proposero la Special Broadcasting Service, un programma rivolto alle diversità
linguistiche e culturali, che rispettava ogni diversità e dava ad ognuna di queste la possibilità di rappresentarsi. A
questo punto, lo sviluppo di piccole stazioni radiofoniche aborigene si diffuse capillarmente anche in contesti urbani, e
gli aborigeni si resero conto del fatto che fosse importante dare la giusta rappresentazione di se stessi nel contesto
mondiale: di conseguenza, si svilupparono contemporaneamente i media indigeni e l’attivismo politico, per produrre
messaggi rivolti verso l’esterno. Il nuovo paradigma antropologico che ne deriva costruisce rappresentazioni che
mettono al centro la dimensione intersoggettiva e che devono essere negoziate con la comunità interessata.
In società che tradizionalmente sono “agrafe”, ovvero non utilizzano la scrittura, il film è un buon mezzo di
condivisione, perché è un linguaggio estetico e più famigliare. Un esempio di progetto antropologico partecipativo è il
film Dieci Canoe di Rolf De Heer del 2006, realizzato proprio in collaborazione con il popolo aborigeno: è infatti il
primo lungometraggio interamente in lingua aborigena e rispetta le direttive di questo popolo.

L’antropologia visiva
L’antropologia visiva è quel settore dei media che si occupa di immagini in movimento e fotografie, nato con
l’antropologia, e quindi prima dell’antropologia dei media.
Nei primi anni dell’Ottocento si comincia infatti ad osservare lo sviluppo della fotografia ed in seguito, con la prima
rappresentazione dei fratelli Lumiére a Parigi nel 1895, anche del cinema. L’antropologia, sin da subito, sceglie di
veicolare i suoi messaggi utilizzando queste nuove tecnologie: il primo filmato in proposito, realizzato con una ripresa
ottenuta con un fucile cronofotografico, rappresenta alcuni Senegalesi deportati a Parigi per l’esposizione universale, e
venne realizzato per convincere le altre popolazioni della colonizzazione europea, legittimandola con rappresentazioni
visive che fomentassero la propaganda razzista e di svalutazione dell’altro. Questo discorso, dunque, utilizza molto le
immagini, soprattutto in tempi in cui il livello di ignoranza era ancora molto alto, in modo tale da educare ed informare
la gente tramite la vista.
Quando si parla di antropologia visiva, e quindi dello studio degli altri attraverso foto e film, si devono tenere conto
due approcci all’interno dei quali questo settore si sviluppa:
- approccio metodologico: questo ambito utilizza la fotografia e il cinema nella ricerca antropologica. Si pensa sia
importante raccogliere immagini, perché vengono considerate dei documenti oggettivi che testimoniano una
realtà etnografica, e vengono quindi trattate come vere e proprie “prove”. La fiducia nella fotografia era tanta, in
quanto essa era in grado di fissare un momento ed era considerata una rappresentazione oggettiva della realtà
(cosa che oggi sappiamo essere assolutamente non vera, in quanto le fotografie sono frutto di una lavorazione
che modifica la realtà).
- approccio teorico: si sviluppa negli anni Ottanta e Novanta come un approccio più ampio, che non considera
l’antropologia visiva solo come metodo, ma come ambito di studio. Si arriva alla consapevolezza che tutte le
culture producono immagini e che quindi esistono culture visive diverse sparse in tutto il mondo, in continuo
cambiamento, poiché ciascuna ha un proprio sistema di rappresentazione delle percezioni.
Si capisce quindi che la cultura di un popolo va sì a condizionare e a costruire la rappresentazione visiva, ma ancora
prima la percezione visiva, che diventa non più un fatto esclusivamente naturale, ma influenzato fortemente dalla
cultura.
Una visione, infatti, consiste nel percepire le immagini, poi memorizzarle ed infine rappresentarle sotto forma di
comunicazioni che immettiamo nel circuito comunicativo; tuttavia, la percezione è selettiva e limitativa. Questo in
parte è dovuto al fatto che la visuale dell’uomo è biologicamente limitata, nel senso che il suo campo visivo è di 180
gradi e il suo occhio è sensibile solamente a certe frequenze; tuttavia, esistono anche delle abitudini percettive che
provengono dall’ambiente culturale in cui viviamo -> percezione dei colori: non è assoluta, ma in parte determinata,
ed è per questo che alcune culture identificano quattro colori primari, mentre altre undici.
James Gibson ha introdotto l’approccio ecologico allo studio di immagini, per cui la visione, formata dalla percezione e
dalla rappresentazione, è un fatto ecologico fondamentale nell’adattamento: non soltanto è vero che l’uomo ha
bisogno di percepire l’ambiente e di ricevere da questo degli input, ma anche l’uomo può modificare l’ambiente
stesso, perché la visione è un fenomeno interattivo e l’immagine si costruisce nel rapporto tra un soggetto che vede
ed un oggetto che è visto. Secondo Gibson esistono due tipi di rappresentazione visiva:
- rappresentazioni chirografiche (da kefir, mano), cioè fatte a mano;
- rappresentazioni fotografiche (da fotos, luce), cioè fotografie.
Anche la percezione e la rappresentazione dei suoni sono in realtà un fatto culturale, poiché anch’essi sono
determinati sulla base delle diverse culture e hanno importanze diverse da popolo a popolo. Per l’Europa e, in
generale, per l’Occidente del mondo più industrializzato, molto è il valore che si dà alla vista (società “oculocentrica”),
ma per molti popoli africani è fondamentale, invece, la parola.
Tutto ciò che riguarda i sensi dà vita ad un’antropologia dei sensi che non riguarda solo la vista e l’udito, ma
comprende anche i sensi considerati più primitivi che sono il tatto, l’olfatto e il gusto; infatti, l’ esperienza etnografica
sul campo deve essere un’esperienza multisensoriale, e non solo intellettuale, che preveda la partecipazione e il
coinvolgimento di tutte le dimensioni sensoriali ed estetiche.
Ovviamente, i due approcci che sono stati più studiati sono l’antropologia visiva e l’antropologia dei suoni, tra cui
l’etno-musicologia, che è lo studio sistemi musicali extra-europei. In merito a questo, l’antropologo S. Feld ha studiato
il paesaggio sonoro del popolo Kaluli, che proviene sia dalla natura e dai suoi suoni: le musiche tradizionali e i canti di
questo popolo sono un vero e proprio medium che permette loro di trasmettere percezioni, pur non avendo attrezzi
elettronici di ultima generazione.

I media e l’espansione dell’immaginario pentecostale in Africa sub-sahariana


Nell’Africa contemporanea avvengono la creazione e il successivo sviluppo di religioni mediatiche, tra cui il più diffuso
è il pentecostalismo. Esso nasce nei primi anni del Novecento negli Stati Uniti, a Chicago, negli ambienti
afroamericani; per questa ragione, si dice che esso svolga una “missionarizzazione alla rovescia”. Oggi è presente
principalmente nei paesi del Sud del mondo ed è la religione che sta vivendo una maggior crescita, mettendo in crisi
lo stereotipo del cristianesimo come religione “occidentale” e “bianca”, e anche quello di un progressivo declino della
religione cristiana nel mondo; ciò è dovuto in parte al fatto che la religione pentecostale sia quella che più di ogni altra
si è avvalsa dei media per trasmettere il proprio messaggio.
Secondo la definizione di Joel Robbins, “il pentecostalismo è la forma di cristianesimo nella quale i credenti ricevono i
doni dello Spirito Santo e hanno esperienze estatiche come il parlare in lingue, la guarigione e la profezia”: dunque, la
teologia si fonda sul Battesimo dello Spirito Santo e sui carismi che ne derivano. In questa visione, ogni “rinato”,
partecipando del potere dello Spirito, possiede doni carismatici, anche se in misura diversa; il carisma assume quindi
una posizione centrale nella teologia pentecostale.
Fondamentale è la relazione tra l’esperienza estatica (trance) e l’uso dei media, perché sia i film cristiani sia i culti
settimanali si basano sulla idea di un mondo visibile, della vita di tutti i giorni, che interagisce con un mondo invisibile e
intangibile. È un tipo di espressione religiosa che si connota come “effervescenza rituale”: è un culto “vivo”, diverso
dalla religione cattolica, a cui si partecipa in maniera vivace e attiva e che si connota per il forte ricorso alla
“deliverance” (esorcismo): infatti, al centro delle religioni pentecostali vi è l’idea per cui bisogna liberarsi dagli spiriti
maligni attraverso pratiche di purificazione ed esorcismo.
Negli ultimi trent’anni, il pentecostalismo si è diffuso in Kenya, Congo, Uganda, Tanzania, Ruanda, ecc., ma in ogni
luogo in cui si diffonde incontra e a volte si scontra con presenze religiose e politiche pre-esistenti. Ad esempio, in
Uganda è è presente solo dal 1986 perché prima non era garantita la libertà di culto; è stato poi ripristinato
dall’attuale Primo ministro ugandese a seguito di scontri e guerre interne, e si è quindi diffuso capillarmente. La data
di sviluppo del movimento è significativa: la liberalizzazione delle religioni si lega infatti alla liberalizzazione dei mezzi
di comunicazione e alla privatizzazione di questi, che dà vita alle prime radio, ai primi giornali e alle prime tv gestite
da privati, e non dallo Stato. Con l’arrivo della dottrina liberale anche in Africa, infatti, si diffondono l’idea di
comunicazione come “business” e quella di produrre guadagni attraverso la divulgazione, commercializzando
qualsiasi cosa, persino la religione. Si parla quindi di “mercato religioso”: sempre meno le persone si identificano con
la religione in cui sono nati, ma esse scelgono dentro questo mercato quella che più li aggrada. In Uganda, a Kampala
in particolare, è quindi presente un panorama religioso variegato, con tre religioni coloniali principali: la Church of
Uganda, anglicana, la Chiesa Cattolica e l’Islam. Storicamente sono anche importanti le minoranze Sikh e Hindu, con
templi importanti, ed è presente il maggiore tempio Baha’i del continente; inoltre, vi sono numerose chiese avventiste
e di altre confessioni cristiane.
Oggi, solo a Kampala esistono oltre mille chiese pentecostali, perché la diffusione del pentecostalismo non coinvolge
solo lo spazio virtuale dei mesia, ma anche il territorio urbano; a questo proposito, vengono anche organizzate delle
“marce” sul territorio cittadino per evangelizzare in strada, in una logica secondo la quale le città diventano spazi da
“conquistare e purificare”. Dalle chiese biwempe (papiro), in origine costruite con canne di papiro ma oggi strutture
realizzate con materiali di fortuna, si passa attraverso varie fasi in un processo di ingrandimento alle mega churches, di
dimensioni tali da ospitare oltre diecimila persone, per simboleggiare un’espansione non solo fisica, ma anche
mediatica, del pentecostalismo; questo passaggio da povertà a ricchezza e grandezza permette di capire quanto
questa religione, espandendosi, si istituzionalizzi e diventi ben organizzata. Per questo, si forma una rigida gerarchia
suddivisa in settori -> media; marketing; vendita; missioni, non più lasciata alla spontaneità; avviene quindi il
passaggio da una prospettiva “other worldly” a “this worldly”, dal “salvare le anime” a “salvare la nazione”, il cui
principale obiettivo è la moralizzazione della sfera pubblica grazie all’aiuto dei media.
Tra le religioni, i pentecostali sono infatti i più abili a sfruttare le nuove opportunità offerte dai mezzi di comunicazione
e a creare con essi uno “stile culturale” specifico. La crescita del movimento pentecostale si lega dunque strettamente
alla diffusione dei media: ad esempio, molte chiese hanno una loro radio, le maggiori denominazioni hanno anche un
canale televisivo in cui trasmettono gli eventi della chiesa e altri programmi cristiani, i social media vengono utilizzati
in modo mirato -> si commentano i post dei pastori, i dvd e YouTube vengono utilizzati per diffondere le prediche dei
pastori, vengono prodotti video o film per diffondere i temi del movimento. È importante notare che sono molte le
persone non pentecostali sintonizzate a queste radio, semplicemente perché sono interessate agli argomenti trattati.
Inoltre, ci sono anche frequenti talk show in cui si dibatte dei temi più caldi, spesso con la presenza dei “pastori-star”,
leader carismatici che sanno persuadere con le loro parole chi segue questi programmi -> Robert Kayanj, gestendo il
proprio sito web, incarna l’organizzazione stessa della chiesa e ne diventa una figura di riferimento.
La comparsa della nuova industria di video-film in Africa, che si avvia con Nollywood, rappresenta l’emergere di nuovi
immaginari della società, alternativi a quelli prodotti e diffusi dallo Stato. Tra questi, si fa strada con forza
l’immaginario della “global christianity”, modificato e riadattato in chiave locale: in Africa, vengono infatti prodotti
migliaia di video-film cristiani che contribuiscono a riconfigurare l’immaginario sociale non solo dei credenti, ma di
tutto il popolo. Ma che legame ha l’utilizzo dei mezzi di comunicazione con l’espansione e la differenziazione del
“mercato religioso”? Gli studiosi, a partire dalla considerazione che l’attenzione viene posta non solo verso il
contenuto del messaggio religioso, ma anche nei confronti della attraverso cui passa, osservano infatti che le religioni
generano forme di espressione specifiche che entrano nella sfera pubblica e contribuiscono a definirla, quindi non
separate dalla società, secondo un secolarismo accentuato.
Qui si sviluppa anche il genere della Christian music, che attinge ampiamente a forme espressive contemporanee e ai
generi musicali più noti; i video vengono prodotti con tecniche avanzate e montati attraverso processi di produzione
costosi e complessi. Le radio cristiane, quindi, trasmettono in modo esclusivo questa musica, ma è interessante notare
che anche quelle non cristiane lo fanno perché queste canzoni riscuotono grande successo. Inoltre, si diffondono pure
i video-film “Pentecostal style”, che attingono ai temi del quotidiano ma li rileggono attraverso il riferimento al
mondo spirituale dell’invisibile; essi hanno uno stile caratterizzato dalla mescolanza di intrattenimento, insegnamento
morale, elementi horror e magia. Le aspettative del pubblico sono quelle di vedere in scena il quotidiano ma con
elementi di extra-ordinarietà, affinché i contenuti siano facilmente accessibili ma non noiosi.

Il rapporto media-religione
Jack Goody, nel testo La logica della scrittura e l’organizzazione della società, si occupa dell’Africa occidentale per ciò
che riguarda i media che comunicano la religione.
Dedicandosi allo studio della religione africana, salta subito all’occhio la distinzione tra religioni del libro (Ebraismo,
Cristianesimo e Islam), in cui la scrittura è il mezzo privilegiato di trasmissione dei dogmi e dei valori contenuti, e
religioni dell’oralità. L’Africa, infatti, in passato era immersa in religioni orali: di fatto, tranne che per i casi di Egitto
(egiziano) ed Etiopia (aramaico), sul continente non si è prodotta alcuna scrittura né sono state inventate tecnologie
mediatiche per trasferire la parola in forma scritta; al contrario, si utilizzano forme legate all’oralità in qualsiasi ambito,
soprattutto in quello religioso, come la preghiera, il racconto, la canzone. Centrali nella religione africana sono quindi
le forme rituali, che sono delle cerimonie che si svolgono in una data specifica e che mettono insieme un sistema di
linguaggi, in cui non solo si utilizza la parola, ma anche altri linguaggi performativi ed estetici, ancor più utili a
rappresentare le sensazioni extra-intellettuali e corporee.
Questa esperienza corporea spesso si traduce in percezioni extra-sensoriali in una cosiddetta trance, nel tentativo di
andare al di là dei limiti della nostra percezione per accedere al mondo degli spiriti e cogliere tutta la spiritualità. La
parola trance deriva da transformation e indica una condizione di alterazione momentanea della coscienza; essa viene
utilizzata nelle religioni africane per accedere ad un mondo invisibile dove abitano gli spiriti, talvolta più importante
del mondo reale. Tuttavia, per non rischiare che si esageri, questi rituali sono spesso gestiti e seguiti da una cornice di
anziani e specialisti, dove i limiti vengono definiti nettamente. I pentecostali utilizzano ampiamente la trance come
tecnica che serve a manifestare la possessione spiritica, cioè l’idea che uno spirito possa entrare dentro una persona e
ne prenda possesso. Non necessariamente la possessione implica una trance, ma spesso molte possessioni utilizzano
la trance per innescare la possessione.
Le chiese pentecostali pongono al centro della loro pratica il miracolo della Pentecoste. Questo perché esse nascono
proprio nel contesto africano, in cui le pratiche corporali di discesa dello spirito nei corpi sono molto diffuse grazie alle
religioni dell’oralità già presenti. Il pentecostalismo recupera questa dimensione e la pone al centro di tutto con
successo: la sua diffusione è infatti in continuo aumento, anche perché questa religione risponde a degli interrogativi a
cui le religioni tradizionali scritte e più “occidentali” non sanno rispondere in quanto la scrittura irrigidisce di fatto le
frontiere, perché ha un effetto di fissazione ed incapsulamento; al contrario, le culture dell’oralità sono dinamiche e
rendono difficile individuare delle distinzioni nette.
Il pentecostalismo gioca su questo dinamismo e su pratiche fluide e performative, più malleabili; per questo, riesce
meglio ad adattarsi a nuovi contesti sociali e soprattutto mediatici. Alla dicotomia che proponeva Goody, dunque, si
aggiunge un terzo tipo di religione: quello delle religioni dell’audiovisivo, che puntano ad una diffusione mediatica
maggiore.
Il pentecostalismo opera sia una continuità, poiché recupera certi valori del passato, come la corporeità delle religioni
dell’oralità, sia una discontinuità, perché riadatta i valori della tradizione in termini moderni; inoltre, i pentecostali
vogliono operare una rottura completa con il passato, demonizzandolo, perché la vera fede è quella in Gesù Cristo e
quindi tutte le altre forme di spiritualità devono essere abolite. Tuttavia, in una regione politeista come quella africana
non è necessario convertirsi: queste religioni sono infatti formate da tante divinità e da tanti spiriti diversi, che
pervadono la percezione dei vivi, quindi Gesù viene aggiunto alle altre divinità in un’opera di sincretismo religioso.
Il pentecostalismo, comunque, si pone come una religione della modernità e del futuro, perché serve per emigrare e
creare nuovi rapporti operando una rottura anche a livello sociale, ma forse è anche una religione della post-
modernità, perché spesso si rafforza nelle comunità virtuali, come social network e siti web, in cui la società
interagisce e coopera in un discorso religioso che utilizza i media più avanzati. A questo proposito, Benedict Anderson,
in Comunità immaginate, ha fatto uno studio sull’evoluzione dei media dalla stampa a caratteri mobili alle tecnologie
più moderne: egli ha descritto i nuovi immaginari sociali che si stanno tuttora costruendo grazie a questo tipo di
comunità virtuali, sempre più ampie.

Le società lignatico-segmentarie
Un’economia di tipo pastorale corrisponde ad un’organizzazione politica e sociale di tipo lignatico-segmentaria. Le
società lignatico-segmentarie sono società acefale, cioè sono società senza capi non centralizzate né territorialmente
né politicamente; l’equilibrio è mantenuto comunque, nonostante l’assenza di burocrati e di apparati organizzativi
sviluppati.
Queste società sono dette lignatiche perché sono basate sui lignaggi, segmenti di clan (gruppi di discendenza
unilineare che ritengono di discendere da un antenato comune) composti da quattro/cinque generazioni, che sono in
media le generazioni che una persona riesce a ricordare; sono invece dette segmentarie perché una parte del
lignaggio si separa, in un processo di fissione, e colonizza un altro territorio. Queste struttre complesse sono basate su:
- sistema lignatico (elemento temporale): la concezione della discendenza struttura la società;
- organizzazione politico-territoriale (elemento spaziale): si struttura sulla base dei clan e dei lignaggi in
sottoinsiemi fisici e territoriali, che si inquadrano in strutture più ampie sempre divise in sezioni. Questo tipo di
società senza capi non cade nell’anarchia perché il principio politico è quello della segmentazione, per cui il
sistema si divide e ognuno ha delle figure di riferimento. Tuttavia si vengono anche a creare delle opposizioni,
delle rivalità e dei nemici, i quali però sono risolti o perlomeno ridotti attraverso un sistema di alleanze, che
riunifica la società. La violenza è funzione dell’alleanza: la violenza è infatti funzionale a tutto il sistema perché dà
subito vita ad un meccanismo di coesione e strutturazione della società;
- sistema delle classi di età: tutte le società africane sono strutturate in classi di età, e quindi gli individui sono
raggruppati tra membri nati in un certo periodo.

Evans-Pritchard e I Nuer – Un’anarchia ordinata


Edward Evan Evans-Pritchard dedica allo studio dei Nuer, popolazione stanziata nel Sud del Sudan, un periodo
importante della sua ricerca e pubblica I Nuer – Un’anarchia ordinata nel 1940. Lo studioso si reca tra i Neur spinto dal
governo coloniale inglese, che gli chiede di andare perché si sono verificati dei problemi nel Paese ed è quindi
necessario raccogliere informazioni a riguardo dell’organizzazione sociale dei Nuer, affinché essa venga poi gestita al
meglio.
I Nuer sono circa un milione di persone che confinano con altri popoli pastori, stanziate vicino al Nilo e fortemente
condizionate dalle esondazioni periodiche che allagano i campi, rendendoli fertili e coltivabili. Essi vivono quindi in un
ambiente che si modifica molto nel corso del tempo, con importanti cambiamenti stagionali; ciò condiziona parecchio
la loro concezione ciclica del tempo, che viene percepito in due modalità differenti:
- tempo annuale: la percezione del tempo su base annuale viene scandita da due stagioni: la stagione Tot, della
pioggia, da marzo a settembre, e la stagione Mai, secca, da settembre a febbraio. Nel periodo di pioggia, i Nuer si
spostano in alture, mentre nel periodo di secca riscendono e coltivano.
- tempo giornaliero: è scandito dalle attività pastorali che si susseguono nell’arco della giornata, come portare al
pascolo il bestiame.
I Nuer ovviamente hanno anche una concezione lineare del tempo, nel senso che il passato non ritorna più. Il tempo
lineare in queste società è calcolato sulla base del gruppo di discendenza e della conoscenza delle generazioni che si
susseguono all’interno del proprio clan (“quando è nato il mio trisnonno ci fu una grande carestia”), per cui la
percezione delle generazioni che si susseguono dà una linea del tempo unidirezionale.
Tra i Nuer una classe di età si genera attraverso un rituale di iniziazione, per cui i ragazzi diventano adulti dopo aver
superato un rituale iniziatico e di passaggio, spesso anche doloroso. Infatti i ragazzi, quando raggiungono l’eta di 12-14
anni, vengono sottoposti ad un rito chiamato Gar, che consiste nell’incisione di sei linee profonde e orizzontali sulla
fronte, che perdureranno per tutta la vita. Queste sono modificazioni del corpo fatte dalla cultura e che danno al
corpo una nuova forma culturale, nel senso che, proprio perché sono dolorose, consentono di ricordare questo
momento, considerato cruciale nella vita: il dolore consente di cambiare, perché incarna il potere trasformativo del
rituale.

L’antropologia della radio


Sara Zambotti è la prima antropologa italiana ad essersi occupata di media.
Ad un certo punto, studiando l’antropologia, ci si è accorti che era imprenscindibile occuparsi dei media, in quanto
sono parte integrante della vita quotidiana: sia come mediatori, sia come agenti di rappresentazioni culturali di realtà
a noi distanti, in senso geografico e mentale. L’interesse a questo aspetto, tuttavia, è maturato soltanto
recentemente, negli anni Novanta: fino a quel momento, infatti, era dominante lo stereotipo per cui l’antropologia era
convinta di andare alla ricerca di culture che rappresentavano stadi evolutivi precedenti al nostro, con una mentalità
fortemente razzista e retrograda. Soltanto dagli anni Novanta, in un processo di critica interna alla disciplina molto
profonda, è cambiato il paradigma di ricerca e si sono sviluppate categorie di questo nuovo modo di “fare
antropologia”:
- antropologia dei testi: è un filone di studi molto attento ai testi, ai contenuti, a ciò che i media dicono e
trasmettono; ne fanno parte tutti quegli articoli di giornale e quei servizi televisivi che vanno a studiare la
rappresentazione, che è basata su un certo tipo di percezioni che coinvolgono la nostra mente in modo
significativo -> se la comunicazione è a distanza o in presenza; se l’ascolto è collettivo o individuale.
- antropologia tecnologica: è un filone molto attento alla tecnologia. Gli antropologi guardano non tanto a cosa i
media dicono, ma a come lo dicono attraverso la rappresentazione: come si fruisce di un contenuto fa quindi
parte dell’esperienza mediatica che è la tecnologia. Questo tipo di antropologia, inoltre, va a vedere come certi
mezzi di comunicazione vengono considerati rappresentazioni culturali.
- antropologia del contesto: è un filone sviluppatosi successivamente, che si concentra sullo studio del contesto
storico, sociale e culturale, necessario nello studio dell’etnografia.

La radio negli anni Trenta


La radio rappresentava negli anni Trenta il simbolo della simultaneità, della velocità, dell’immediatezza, tanto che
ascoltare lezioni radiofoniche era considerata la cosa più innovativa e tecnologica che si potesse fare. La radio era
inoltre stata disegnata come il mezzo tecnologico più avanzato dal fascismo e, in generale, da tutti i regimi totalitari
del tempo. Dall’Europa, infatti, si assiste ad una diffusione di questo mezzo in tutto il mondo, al punto che molto
presto anche le colonie e i paesi più poveri e ai margini dello scenario internazionale ne poterono usufruire
ampiamente; è interessante notare le reazioni di quei popoli di fronte a questo mezzo di comunicazione così
innovativo e sorprendente.
Rudolf Mrazek ha studiato l’arrivo e la diffusione della radio nella colonia olandese di Giava, vicino all’Indonesia. Egli
intende portare avanti un’antropologia di tipo “storico”: ha infatti ricostruito la storia dello sviluppo della radio in
questa terra, partendo da spunti e da numerose ricerche interessanti.
In un articolo, egli racconta l’introduzione della radio in questa colonia per sottolineare come questo fatto abbia
permesso la diffusione di un certo tipo di cultura: per la prima volta, infatti, colonie e paesi colonizzatori erano
sintonizzati sulla stessa frequenza e questo fomentava l’idea di appartenenza allo stato regnante. L’articolo si apre
con l’appello di una giovane donna, Cartini, che scrive ad un uomo che vive in Olanda; la donna fa parte di una classe
sociale alta e, scrivendo la lettera, usa metafore che hanno a che fare col paesaggio tecnologico in cui vive -> dice di
sentirsi come se fosse unita all’uomo da un cavo tecnologico. Con ciò, Mrazek vuole sottolineare che tutto ciò che fa
parte della nostra esperienza tecnologica ci influenza e ci condiziona anche nel parlare.
La radio, a quel tempo, era vista davvero come strumento che abbatteva limiti e confini, permettendo una
partecipazione contemporanea di spettatori da ogni parte del mondo, con un’idea di connessione estrema e totale,
che mette al centro la conoscenza. Questo viene percepito nella colonia, secondo Mrazek, in maniera ancor più
evidente, al punto che, forse, il ruolo della radio come “abbattitrice di confini” è addirittura strumentale da parte dei
paesi europei colonizzanti. Di fatto, la rappresentazione del potere è fortemente legata ai mezzi di comunicazione:
nei paesi colonizzanti per fomentare l’idea di potere, mentre nei paesi colonizzatori per arrivare veramente a tutti
quanti, nel senso che il confine veniva identificato con la massima estensione del messaggio radiofonico (“fin dove
arriva, allora lì è sempre Olanda”).
Dopo la morte di Cartini, l’articolo racconta cosa vedrà il figlio diffondersi nella colonia: “nei quattro decenni che
seguirono la morte di Cartini, il territorio delle Indie fu prima collegato via cavo, poi via etere, modernizzando il
sistema di comunicazione”.
Mrazek continua la storia fino a quando Giava, da olandese che era, diventa improvvisamente colonia giapponese.
Con la presa da parte dell’esercito giapponese dell’antenna radio, si decreta la fine del potere olandese: l’autore
intende quindi sottolineare quanto questo passaggio politico abbia cambiato totalmente anche lo scenario culturale.
In un conflitto, infatti, è interessante notare che anche elementi come la radio, e in generale il mercato musicale-
mediatico, ne risentano subito e ne vengano condizionati. Mrazek sceglie quindi di raccontare cosa vedeva la gente
fuori dalla finestra e a quali sconvolgimenti assisteva.
Questo articolo di Mrazek si colloca nell’Italia degli anni Trenta, in cui erano interessanti anche le rappresentazioni
grafiche della radio, vista come strumento per comunicare con i parenti quando erano lontani in guerra: infatti, essa
era in grado di rendere “reali” e “presenti” le persone lontane. Essa era anche rappresentata come lo strumento da
cui “uscivano” i giornali di carta stampata, nel senso che, come ogni altro media, contiene il mezzo che l’ha preceduta.
La radio, inoltre, era il simbolo di un’aderenza totale alla realtà: essa, nella sua rapidità e simultaneità, era strumento
di verità. Per questi aspetti, il futurismo, movimento di avanguardia del tempo, la elogiò particolarmente. Da
Marinetti fu definita “radia”: la sincronizzazione era considerata un’esperienza percettiva sconvolgente, ma la radio
era davvero capace di irradiare ed espandersi nell’ambiente; i programmi in diretta, quindi, divennero effettivamente
sinonimo di presenza e simultaneità, poiché erano visti come degli eventi a cui si stava veramente partecipando.
Marinetti e i futuristi, interessati all’innovazione, paragonarono la radio ad una sinestesia, ovvero un qualcosa che
metteva più sensi insieme per abolire i confini di spazio, superando quindi il teatro e soprattutto il libro (simbolo di
una società rigida).

La radio oggi
La radio e in generale il panorama radiofonico sono mutati parecchio negli ultimi anni: la radio ha attualmente delle
caratteristiche che la rendono molto versatile, tanto che per fare una radio ci vuole davvero poco. La radio è infatti
cambiata totalmente rispetto agli anni Trenta, in ogni suo aspetto: l’oggetto, il modo, i linguaggi sono ormai molto
diversi. Si sta diffondendo la radio di flusso, di sottofondo, che sta abbattendo la radio parlata: il flusso radiofonico è
costruito da brani musicali intervallati da interventi di conduttori che possono durare anche solo 20 secondi. Un altro
tipo di radio è invece la radio dei programmi, che è quella di cui si ricordano i nomi dei conduttori e da cui si possono
scaricare i podcasts.

Marshall McLuhan e Gli strumenti del comunicare


In questo testo, McLuhan afferma che è importante studiare i media non tanto in base ai contenuti che veicolano, ma
in base ai criteri strutturali con cui organizzano la comunicazione; questo pensiero è notoriamente sintetizzato con la
frase “il medium è il messaggio”, nel senso che il messaggio di un medium è nel mutamento di proporzioni, di ritmo o
di schemi che esso introduce nei rapporti umani -> la ferrovia non ha introdotto nella società il movimento, il
trasporto, la ruota o la strada, ma ha accelerato e allargato le proporzioni di funzioni umane già esistenti creando città
di tipo totalmente nuovo e nuove forme di lavoro e di svago.

L’evoluzione dei media


L’evoluzione delle tecnologie di comunicazione di massa in Europa e negli Stati Uniti tra diciannovesimo e ventesimo
secolo si può suddividere in quattro grandi periodi:
- primo periodo (1800-1925): è l’epoca dei media elettrici, poiché l’invenzione dell’elettricità, ad opera di Edison
nel 1882, trasforma le tecnologie esistenti e stabilisce la diffusione di nuovi strumenti di comunicazione e di
trasmissione della luce e del suono, come la radio, il grammofono, il cinematografo e il telegrafo. Ciò determina
una trasformazione dei tempi di lavoro e di produzione industriale, poiché le tecnologie meccaniche hanno una
nuova fonte di alimentazione alternativa e indipendente dal lavoro umano. Inoltre, viene inventata la
riproduzione visiva e sonora, grazie a degli impulsi elettrici, e si diffonde la comunicazione a distanza via cavo ->
telefono e, grazie a Marconi, dal 1924 anche quella via etere, attraverso onde elettromagnetiche -> radio.
- secondo periodo (1925-1945): lo sviluppo del capitalismo industriale, in relazione a fenomeni socio-politici
mondiali, come il colonialismo e i regimi totalitari, determina una grande partecipazione degli investimenti statali
nell’innovazione tecnologica, e la conseguente nascita dei monopoli statali della comunicazione, ad uso
propagandistico ed educativo -> radio; stampa; cinema. Da ciò consegue lo sviluppo della comunicazione uno-
molti, ovvero la nascita della comunicazione di massa e dell’industria culturale.
- terzo periodo (1945-1990): nel contesto della ricostruzione post-bellica e dell’importazione di capitali dagli Stati
Uniti tramite il Piano Marshall, si amplia e si diversifica la produzione industriale privata: ai grandi monopoli statali
fino ad allora impegnati nell’industria bellica si affianca la produzione privata di beni di consumo, che dà vita alla
società dei consumi, in cui il singolo utente è considerato in primo luogo un consumatore. Avviene inoltre una
miniaturizzazione dei mezzi -> walk-man, radioline, autoradio, e una personalizzazione del loro uso. La diffusione
domestica della televisione crea un nuovo rituale mediatico-familiare, intimo e non più pubblico e di massa;
questo comporta una trasformazione della funzionalità del mezzo, non più prevalentemente didattico, ma di
intrattenimento e con dichiarati scopi commerciali, i quali determinano la diffusione delle pubblicità come mezzo
di sostentamento delle nuove emittenti private.
- quarto Periodo (1990-oggi): l’invenzione del digitale permette di tradurre tutti i formati (audio, video e testo) in
un unico linguaggio matematico. Nasce il concetto di multimedialità, poiché a livello tecnologico si diffondono
nuove possibilità comunicative -> tv via cavo; tv satellitare. Le nuove tecnologie digitali, come Internet e il world
wide web, si diffondono in un’economia planetaria globalizzata e caratterizzata da nuove possibilità di
spostamento veloce di persone e merci, con lo sviluppo del concetto di “villaggio globale”. Lo sviluppo
dell’informatica e dei personal computer, in generale, determina una trasformazione delle pratiche
comunicative, nonché la pervasività crescente dei media come produttori di valori, di rappresentazioni culturali,
di identità.

Friedrich Kittler e Geschichte der Kommunikationsmedien


A parte che da McLuhan, il rapporto media-cultura è stato analizzato anche da Friedrich Kittler, che ha messo insieme
alcuni degli elementi fondamentali di McLuhan, come l’idea di “villaggio globale” o la massima “il medium è il
messaggio”. Secondo Kittler, prima di inventare qualcosa dobbiamo poterlo immaginare: le nostre “griglie di
rappresentazione” non sono infatti primariamente basate sul linguaggio, ma sulla sensorialità.
Anche le modalità con cui l’ambito della “ricezione corporea” viene definita sono il prodotto dell’interazione tra
tecnologia e sensi, quindi in Kittler si trova una storicizzazione della sensorialità. Infatti, “i media determinano le
nostre operazioni intellettuali”: ciò significa che esse sono influenzate dalla struttura tecnologica e materiale in cui
siamo immersi.

Genere e antropologia
Non si può comprendere completamente com’è strutturata una società se non si analizzano i rapporti e i ruoli di
genere al suo interno.
Cos’è il genere? Noi siamo abituati a pensare che essere uomo o donna sia un fatto naturale; in realtà non lo è, perché
esso è un fatto culturale e varia da società a società. Un antropologo, comparando le concezioni di genere delle
diverse società, può osservare una grande pluralità di modelli: questo non fa che sottoscrivere che non si tratta di
categorie naturali e innate, poiché il modo in cui ciascuna cultura interpreta la biologia è variabile; inotre, anche
quando si considera l’identità di genere ci si sta occupando di interpretazioni culturali che sono variabili e diverse. In
sintesi, le stesse strutture di genere sono costruzioni sociali e culturali.
Il genere non è il sesso. Gli antropologi, con i loro studi, si trovano nella posizione ideale per osservare l’influenza
dell’ereditarietà e quella dell’ambiente sul comportamento umano: infatti, ciò che ci caratterizza come individui
adulti è determinato, nella fase di crescita e sviluppo, sia dai geni ereditati sia dall’ambiente. La differenziazione
sessuale, per cui uomini e donne sono geneticamente diversi, è un processo biologico: le donne hanno due cromosoni
X, mentre gli uomini hanno un cromosoma X ed un cromosoma Y; è il padre a determinare il sesso del nascituro,
poiché è portatore del cromosoma Y, mentre la madre trasmette sempre il cromosoma X.
La diversità cromosomica si esprime attraverso differenze ormonali e fisiologiche: gli esseri umani, infatti, presentano
disformismo sessuale, ovvero maschio e femmina hanno delle diversità che riguardano non solo i caratteri sessuali
primari (-> genitali) e secondari (-> seno; voce), ma anche il peso, l’altezza, la longevità, la forza. Gli antropologi hanno
quindi individuato similitudini e differenze nei ruoli e nelle caratteristiche fisiologiche di uomini e donne: gli uomini,
infatti, tendono ad essere più alti, a pesare di più e ad essere più aggressivi, mentre le donne tendono a vivere più a
lungo e ad avere un’eccellente capacità di resistenza.
Tuttavia, se prima si parlava di disformismo, individuando solo due uniche possibilità, ora si parla di un processo che
segue un continuum, che va da maschio a femmina, con una varietà di possibilità intermedie. I casi intermedi
vengono definiti inter-sessuati: essi non hanno patologie né disordini veri e propri, ma per molto tempo sono stati
considerati in questo modo; si interveniva quindi chirurgicamente, ma con conseguenze drammatiche, perché questi
soggetti non si riconoscono nel sesso assegnatoli. Oggi, siccome viviamo in una cultura in cui la norma è ancora
maschio-femmina, essi fanno fatica ad inserirsi nella società, perché è molto forte il senso per cui il diverso non è
ammesso, e quindi gli individui devono adattarsi alla società (e non viceversa).

Genere/gender
Il genere è l’insieme delle caratteristiche socioculturali che ogni società attribuisce alla persona a seconda del sesso a
cui appartiene. In italiano, la parola “genere” deriva da tre diversi termini inglesi:
- genre: forma di espressione letteraria, musicale, artistica;
- genus: insieme tassonomico di specie diverse (classificazioni scientifiche);
- gender: categoria grammaticale presente in alcuni ceppi linguistici.
Gli antropologi hanno acquisito dati etnografici sulle somiglianze e sulle differenze di genere in molti ambienti
culturalmente diversi, e hanno così individuato i cambiamenti dei ruoli di genere dettati dall’ambiente, dall’economia,
dalle strategie adattive e dal tipo di sistema politico di ciascuna società.
I ruoli di genere sono i compiti e le attività che una cultura assegna ai sessi. Collegati ai ruoli di genere ci sono gli
stereotipi di genere, che sono delle idee sulle caratteristiche di maschi e femmine.
La stratificazione di genere descrive una distribuzione iniqua di ricompense, come il potere e il prestigio, tra uomini e
donne, che riflette le differenti posizioni nella gerarchia sociale -> nelle società senza Stato politico, la stratificazione di
genere è legata al prestigio sociale e alla ricchezza.
Nella grammatica, due sono le possibilità di genere, maschile e femminile, ma ci sono delle eccezioni, perché esiste
una relazione tra lingua e società: i nomi sono molto organizzati e rigidi nelle società eteronormative; dove c’è il
neutro spesso ci sono nomi neutri (come il nome Andrea); nelle lingue come il Bantu, in Africa, i nomi non hanno
genere, ma sono neutri.
In ambito socio culturale, molte sono state le donne attive in questo senso. Simone de Beauvoir, nel libro Il secondo
sesso del 1949, afferma che “donne non si nasce ma si diventa”: il maschile e il femminile non sono altro che una
distinzione culturale, che la società assume artificialmente perché la cultura interviene sulla natura. In questo senso,
esistono anche delle modifiche e degli interventi più o meno invasivi -> circoncisione; moda, che definiscono una certa
una certa identità di genere rispetto ad un’altra.
Se teniamo presente i due piani di sesso e genere, si vede che le possibilità in natura non sono solo due, ma molteplici,
perché esistono persone che nascono di un certo sesso ma si sentono di un altro; se vogliono diventare dell’altro
sesso, vengono definiti transessuali.

I modelli di genere ricorrenti


In base alle ricerche di alcuni etnologi che hanno confrontato i dati etnografici di varie culture, si possono ottenere
delle informazioni che differenziano i generi e i loro ruoli nei campi dell’economia, della politica, dell’attività domestica
e nei rapporti di parentela. Sono state selezionate casualmente 185 società ed è stata analizzata la suddivisione del
lavoro in base al genere:
- attività maschili: costruzione delle barche; lavorazione dei metalli; caccia ai volatili; macellazione; taglio del
legname; costruzione delle case; pesca.
- attività miste: accendere il fuoco; coltivazione; caccia ai piccoli animali; confezionamento dei vestiti; lavorazione
della cercamica.
- attività femminili: raccolta del legno; preparazione delle bevande; fare il bucato; cucinare; prendere l’acqua.

Gli Inuit e la loro concenzione di genere


Gli Inuit sono una società di cacciatori-raccoglitori in cui i nomi di persona non hanno genere.
Quando nasce un bambino, si ritiene che quella nascita sia il ritorno di un antenato: non è un nuovo individuo che
viene alla luce, ma è un antenato che ritorna, secondo una concezione circolare di reincarnazione. A tal proposito,
Bernard Saladin d’Anglure ha studiato a lungo la società Inuit dal punto di vista della costruzione della persona. Come
si fa a capire qual è l’identità dell’antenato reincarnato nel bambino? Occorre fare un rito sciamanico per assegnare
una atik, ovvero un’anima-nome: è dunque possibile che un bambino nato maschio si ritrovi ad incarnare un antenato
femmina.
A questo punto, il bambino viene educato secondo l’identità sessuale dell’antenato in questione; Saladin d’Anglure
parla infatti di “socializzazione invertita”, perché è possibile che un bambino venga educato in base al sesso opposto.
Dopo la pubertà, il bambino si accorge dell’inversione e può decidere se riallinearsi al sesso originario o restare così;
chi conserva l’identità di genere invertita è chiamato sipiniit e, solitamente, diventerà poi uno sciamano. Saladin parla
quindi di un terzo sesso, quello sciamanico appunto, che è una categoria assai importante, accettata e non
discriminata dagli Inuit perché composta da mediatori tra spiriti e viventi, e arricchita dallo stesso fatto di contenere in
sé due identità diverse.
In questa società, quindi, c’è un forte scardinamento della relazione sesso-genere: il genere non è definito dalla
biologia, ma è esplicitamente un costrutto culturale.

I Masai
I Masai sono un popolo molto numeroso che vive al confine tra Kenya e Tanzania, attualmente confinato in riserve.
Questo popolo segue, come tutte le società lignatico-segmentarie, una struttura rigida e gerarchica, in cui il genere è
fondamentale nella organizzazione: nascere uomo o donna fa una grande differenza e occorre chiedersi quale sia il
ruolo di ciascun genere nella struttura sociale.
In quasi tutte le società, soprattutto quelle centralizzate, esiste una gerarchia di genere, in cui in quasi tutte le donne
sono poste al di sotto dell’uomo: il genere sta quindi alla base della struttura sociale ed è fondamentale capire come si
definiscono i rapporti uomo-donna per definire la società. Il modello dei Masai segue una rigida gerarchia prestabilita
e piramidale che condiziona in modo molto marcato ogni individuo dal punto di vista economico, sociale, politico e
psicologico.
Spencer analizza il concetto di genere per i Masai con una piramide sociale demografica: i bambini sono
numerosissimi, ma molti muoiono per malnutrizione o condizioni igieniche precarie, e allo stesso tempo gli anziani
sono davvero pochi. I bambini sono concepiti come esseri neutri dal punto di vista del genere: essi sono molto simili
gli uni agli altri e per differenziarli bisogna intervenire in modo significativo durante la pubertà. In questo momento,
infatti, si opera un rito di passaggio, che segna il passaggio dall’infanzia neutra ad uno stadio superiore, in cui si
determina la categorizzazione di genere; questo rito comporta la circoncisione sia per i maschi che per le femmine. I
maschi circoncisi abbandonano il villaggio e vanno a vivere tutti insieme lontano dalla famiglia, iniziando così un lungo
periodo di formazione detto Moranato. I Moran diventano guerrieri e lo rimangono per una decina di anni, fino ad un
altro rito di passaggio, l’Eunoto, attraverso il quale diventeranno patriarchi. Infanzia, Moranato e Patriarcato sono i
tre gradi di età per i maschi.
Le ragazze, invece, vengono sottoposte ad una modificazione degli organi genitali molto più invasiva e pericolosa
rispetto ai maschi. Nel caso dei Masai si pratica l’escissione, cioè la rimozione parziale o totale del clitoride e delle
piccola labbra, con o senza escissione delle grandi labbra; le ragazze, a questo punto, diventano donne adulte e
possono essere sposate dai patriarchi. È consuetudine che i patriarchi pratichino la poligamia, ovvero che siano
sposati con più donne, e quindi qualche uomo resta escluso.
Gli uomini anziani hanno ricchezza, potere, proprietà di donne, bambini e bestiame; per descrivere questi
possedimenti i Masai usano il termine enkitorria (beni, bestiame e donne). È interessante notare che anche le donne
sono dentro questo termine, in quanto non hanno possibilità di possedere alcunché né sono autosufficienti dal punto
di vista della sussistenza. Culturalmente, nascono certamente sistemi di disuguaglianza sociale: ciò avviene anche per
la divisione del lavoro su base sessuale.

Il genere e i rituali di passaggio


Il genere spesso si definisce con rituali di passaggio strutturati in tre fasi:
- separazione: l’iniziato viene separato dalla realtà sociale;
- margine (limen): è la fase in cui avviene il rito, in cui si è al confine, né una cosa né l’altra;
- riaggregazione: corrisponde al ritorno a casa dell’iniziato, che è maturato e cambiato.
I rituali di passaggio significano una transizione da uno status all’altro fondamentale per costruire le identità: se il
genere abbiamo detto essere costruito, non si diventa adulti e lo si “acquisisce” senza essere passati attraverso questi
riti. A livello psicologico, essi aiutano molto perché la persona si deve adattare al cambiamento, e questo spesso
comporta una crisi costruttiva, in cui nuove sono le regole, le aspettative e le prospettive. Per superare tale crisi, la
persona deve essere aiutata; i riti di passaggio servono proprio a rendere meno dolorosa questa crisi, facilitando il
transito e consentendo il cambiamento.
In queste fasi di confine, siamo in condizioni di assoluta equità e neutralità e spesso i ruoli di genere vengono
annullati. Il rito del carnevale ne è l’esempio concreto: si interrompe l’attività sociale e ci si traveste nei più disparati
personaggi, annullando le distinzioni tra specie, tra generi e tra gerarchie; le regole vengono trasgredite e tutto viene
ribaltato.
Azzerata la struttura sociale con il rito, questa poi viene ricostruita con la riaggregazione. Durante questi rituali, infatti,
si compiono delle operazioni atropopoietiche, ovvero avviene la costruzione dell’essere umano: la società,
utilizzando riti e pratiche specifiche, crea fisicamente e psicologicamente l’uomo (andropoiesi) e la donna
(ginecopoiesi). Per questa ragione alcuni riturali prevedono la violenza sui corpi: bisogna ricordarsi cosa significa il
rituale, poiché esso è funzionale alla costruzione di un certo modello. Sono più diffusi quelli maschili in quanto la
virilità, meno evidente, ha bisogno di essere riaffermata continuamente, mentre per le donne è più facile esprimere la
propria naturale femminilità -> avere figli.

Il concetto di habitus
La parola “habitus”, in latino, indica l’aspetto esteriore, la corporatura, la condizione, il carattere; oggi, essa descrive
l’insieme di comportamenti e atteggiamenti che una persona assume in funzione del proprio stato sociale, quindi
indica la natura sociale delle abitudini corporee, che variano a seconda del genere, dell’età, dello status, seguendo
specifici modelli culturali.
Marcel Mauss, in Le tecniche del corpo, del 1936, afferma che “il corpo è il primo e il più naturale strumento
dell’uomo. È il primo e più naturale oggetto tecnico e, nello stesso tempo, mezzo tecnico dell’uomo ”. Egli è infatti il
primo studioso che si occupa del corpo in senso antropologico: lo considera uno strumento che deve essere plasmato
e modellato per occupare una determinata posizione nella società, attraverso delle tecniche specifiche per ogni
cultura -> danza; saluto, gestualità.
Con la nozione di “corpo”, Mauss indica la proiezione della struttura sociale sui corpi delle persone, ovvero l’aspetto
sociale delle nostre abitudini corporee; queste svolgono infatti un ruolo fondamentale nella società, poiché la
disciplina del corpo ha delle regole rigide ma diverse per ogni cultura, determinando quindi lo status di ogni individuo.
Anche e soprattutto il genere si proietta sui corpi con un suo habitus specifico, costruito attraverso dei modelli estetici
come le mutilizioni degli organi genitali: il corpo deve dunque avere una forma immediatamente percepibile come
quella che più rispecchia la posizione dell’individuo nella società.
Al discorso di Mauss, in Per una teoria della pratica, Pierre Bourdieu aggiunge il concetto di classe: l’habitus non è solo
il genere, ma anche la classe sociale. Per Bourdieu, infatti, la struttura sociale modella durevolmente il corpo, la sua
forma, le sue percezioni, le sue valutazioni, le sue azioni; in altre parole, quindi, il nostro corpo è un oggetto che viene
continuamente modellato all’interno di una struttura sociale specifica, con regole molto rigide, e noi non solo
assumiamo una forma corporea specifica, ma anche le percezioni che ne derivano. L’habitus corporeo, di
conseguenza, è un prodotto sociale ed è “storia fatta natura”, ovvero racconta la nostra storia individuale, in cui ci
sono le “cicatrici” e i segni che formano la storia della nostra vita personale, e al contempo la nostra storia collettiva,
ovvero quella che racchiude il modo con cui ci dobbiamo muovere ed atteggiare con gli altri.

Le rappresentazioni mediatiche del genere


I media hanno uno straordinario potere di veicolare e produrre rappresentazioni dei corpi femminili e maschili, in
quanto più di tutti costruiscono rappresentazioni all’interno delle quali noi ci sentiamo incasellati e imprigionati, in
modelli preconfezionati continuamente trasmessi.
Lila Abu-Lughod prende in considerazione queste nuove forme di produzione e si chiede come l’etnografia possa
incidere in contesti in cui la cultura è cambiata per adattarsi all’arrivo dei nuovi media . La studiosa, analizzando un
piccolo villaggio egiziano, si chiede quale sia il ruolo delle donne; stando per mesi a diretto contatto con questo
popolo, scopre che queste e i loro figli passano molto tempo davanti alla tv, guardando delle soap opera importate o
locali.
Abu-Lughod si chiede poi cosa possa offrire davvero l’antropologia nello studio dei media. Poiché l’antropologia si
occupa molto della fruizione dei media, in quanto il metodo etnografico prevede di studiare lo stesso campo in cui si
opera, è importante studiare il ruolo della tv per questa società: ella giunge alla conclusione che il ruolo della TV può
essere quello di uno spazio sociale che offre rappresentazioni, fruibili dalle persone, che costruiscono la struttura
sociale.
Abu-Lughod si concentra poi su una famiglia, trascorrendo dei mesi con loro. In questa famiglia, in quel periodo, è
gettonata una particolare serie tv, “Mothers in the House of Love”, facente parte di Arab Television Drama, un canale
interamente dedicato alla trasmissione di soap opera arabe ma in cui ampio spazio è dedicato anche alle serie tv
americane, le quali rappresentano un contesto più sviluppato, che propone modelli cittadini urbani modernizzati. La
studiosa si rende quindi conto del fatto che la cultura di questo piccolo villaggio, apparentemente locale, accoglie in
realtà molti elementi provenienti da lontano ed assume un atteggiamento cosmopolita e aggiornato sulle tendenze
più moderne e occidentalizzate. Si parla così di globalizzazione culturale: le culture si stanno uniformando, in un
processo di omogeneizzazione. Poiché circola moltissimo materiale, proveniente da tutte le parti del mondo, ogni
cultura lo assimila, e così trasforma la propria struttura sociale; ovviamente anche le culture locali dicono la loro,
reinterpretando i concetti esterni oppure proponendo prodotti locali simili in risposta.
Rispetto alle rappresentazioni mediatiche, Daniel Miller analizza cosa succede oggi nei social media. Nell’articolo Why
We Post, in particolare, si concentra sulla rappresentazione del genere dentro i social media, e quindi su come essa
influenza la struttura sociale.
Lorella Zanardo ha realizzato un filmato che analizza la rappresentazione delle donne in Italia e si interroga sulla
sostanziale “non-indignazione” delle donne in merito al ruolo, quasi di “oggetto”, che costoro hanno nei vari
programmi tv. Da qui si nota una una sorta di “biopotere”, ovvero un potere che la società esercita sui corpi e sulle
menti attraverso le varie rappresentazioni mediatiche.

Il muridismo senegalese
Guido Zingari si è occupato di una confraternita religiosa senegalese nella città di Toubà, utilizzando
sistematicamente l’elemento audiovisivo nelle sue ricerche; i suoi lavori, quindi, si collocano all’interno
dell’antropologia visiva, poiché egli intende sottolineare l’utilizzo e la potenzialità del mezzo audiovisivo e del
linguaggio cinematografico ai fini della ricerca, con l’obiettivo di produrre lavori e testi cinematografici in maniera
innovativa.
Il documentario tradizionale è infatti strumento di formazione, perché veicola delle determinate informazioni su un
tema specifico; il documentario per il cinema, invece, si distingue e fa un passo avanti poiché, oltre che a veicolare
informazioni, intende illustrare e rappresentare una tesi, attraverso l’ausilio di immagini e suoni, assumendo un
particolare punto di vista. Il cinema, quindi, sull’onda degli sviluppi che si stanno verificando, cerca di andare oltre la
natura tradizionale del documentario con la sua dimensione informativa, per fare una ricostruzione del mondo, o di
frammenti del mondo, che va ad esplorare ed indagare. Questo, in termini metodologici, si trasforma in un’ apertura
dello sguardo: gli antropologi devono essere disposti ad ammettere nuove realtà, mettendo in discussione la propria
cultura; ciò comporta anche un particolare uso dei mezzi, andando direttamente sui luoghi a riprendere ciò che si
vede e, successivamente, dedicarsi al montaggio.
Le porte del paradiso è un classico esempio di film di osservazione, che ritrae la vita quotidiana di una piccola scuola
coranica nel Senegal, cercando di seguirne i ritmi e di raccogliere quello che la letteratura ottocentesca ha chiamato
spaccati di vita, ovvero quei momenti di vita quotidiana che pur essendo banali hanno qualcosa da comunicare. È un
film senza interviste, un fatto strano se si pensa che spesso i documentari sono formati principalmente da interviste e
commenti; tutto si fonda su un’osservazione “pura”, nel senso che lo sguardo è quello della telecamera, senza altri
interventi: il film non spiega niente, se non quello che mostra il contesto.
Il villaggio in cui è stato girato si trova subito al di fuori dei confini della città santa di Toubà, una città come il Vaticano,
che simboleggia l’Islam radicale; in essa si prevede l’esistenza di una sorta di clero che organizza e governa la società e
la comunità dei fedeli, diversamente dall’Islam ortodosso che non ammette figure di guida spirituale. Questo tipo di
Islam, molto presente in Iran e Turchia, ha come figure di riferimento i Marabut, delle vere e proprie guide spirituali
che hanno un loro potere e una sorta di responsabilità nel prendere in carico la comunità e funzionare da mediatori.
Il film assume il punto di vista di ragazzini di 6-7 anni che provengono da lontano, essendo stati staccati dalle loro
famiglie in tenera età per essere affidati ai Marabut, affinché imparino a memoria l’intero Corano. Quest’esperienza
traumatica dura molti anni e spesso non arriva al proprio obiettivo; tuttavia, questo momento difficile e di sforzo, in
cui devono elaborare anche un forte distacco, permette loro di diventare gradualmente piccoli uomini. Il regista si
identifica con questi ragazzini e con il loro sguardo infantile, ingenuo e inconsapevole; infatti, come loro, egli
(successivamente, lo spettatore) ha tutto un percorso da fare per arrivare al mondo adulto.
Il Piccolo Cinema, invece, è un esempio di web-documentario; esso è ambientato nel quartiere Falchera di Torino,
dove si trova il Piccolo Cinema, sia sala di proiezione che luogo di formazione. Il montaggio non esiste: i confini
vengono abbattuti e lo spettatore può davvero intervenire attivamente, diventando protagonista del racconto. Infatti,
dopo la breve presentazione iniziale si entra nella pagina della squadra di calcio di dodici ragazzini, che fungono da
guide per esplorare il quartiere; cliccando su ciascun ritratto si apre un percorso all’interno delle vite dei ragazzi, con
una rete di link e connessioni per seguire la vita quotidiana dei personaggi, approfondire certi aspetti che via via si
presentano, scegliere un altro personaggio collegato al precedente. La navigazione è collettiva ed assolutamente
partecipativa, perché coinvolge totalmente chi ne fruisce; l’intento è però sempre quello del documentario, ovvero
conoscitivo e formativo.

L’antropologia economica
L’antropologia economica studia le varie economie in un’ottica comparativa fra le diverse società.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, molti intellettuali si occuparono di individuare e descrivere
l’organizzazione e le qualità delle economie primitive che risultavano parte integrante della cultura di quelle
popolazioni di interesse etnologico che, oltre ad ignorare l’uso della scrittura, disponevano di un apparato tecnologico
molto elementare. I primi lavori di antropologia economica trassero ispirazione dal metodo evoluzionistico, dalla
storia e dall’economia; queste relazioni contenevano delle informazioni contrastanti che difficilmente venivano
organizzate in modo sistematico, poiché, oltre a risentire della mancanza di un corpo consolidato di teorie, erano in
qualche modo condizionate dai legami intellettuali e dai rapporti che ogni studioso intratteneva con altre discipline.
A partire dalla fine degli anni Trenta, la materia fu indicata in modi diversi, tra cui “sociologia economica”, “economia
primitiva”, “vita economica dei popoli primitivi”; solo nel secondo dopoguerra si giunse ad “antropologia economica”:
gli studiosi che se ne occupavano sentirono il bisogno di ridefinirne i metodi, i presupposti teorici, i modelli e i possibili
campi di indagine.
Con la pubblicazione, nel 1940, del trattato di Herskovits sull’economia dei popoli primitivi, venne nettamente a
delinearsi la scelta di campo operata da questo autore, che sosteneva fosse impos sibile spiegare gli eventi economici
in termini di teoria neoclassica; da questo pensiero si costituirà in seguito quella corrente di pensiero formalista che
oggi si propone come una delle due principali espressioni della moderna antropologia economica.
L’antropologia economica si è infatti concentrata principalmente su due quesiti fondamentali:
- in che modo sono organizzati produzione, distribuzione e consumo nelle diverse società? Questa domanda si
basa principalmente sui sistemi di comportamento umano e sulla loro organizzazione;
- quali sono le motivazioni che spingono le popolazioni di culture diverse a produrre, distribuire, scambiare e
consumare? Questa domanda si pone come obiettivo principale quello di indagare le ragioni degli individui che
partecipano a tali sistemi.

Le società centralizzate
Alla società centralizzata corrisponde un’economia di tipo agricolo: non vi è infatti centralizzazione senza agricoltura.
Con la rivoluzione agricola, avvenuta intorno al 4000 a.C., la Mesopotamia passò da un’economia di sussistenza a
un’economia agricola, anche grazie all’alto grado di fertilità di quei territori e alla diffusione dell’aratro, la cui
tecnologia permetteva una raccolta più vasta; di lì a poco, comunque, tutte le popolazioni limitrofe seguirono a catena
questo modello.
Quando si ha una produzione intensiva si arriva a produrre un surplus, che comporta un aumento della popolazione e
un conseguente e necessario controllo dei territori più ampio, quindi diviene indispensabile dare vita ad una forma di
governo più complessa: la rivoluzione agricola è quindi naturalmente associata alla centralizzazione politica e
all’urbanizzazione (per questo tipo di società, infatti, la città è un’espressione della centralizzazione politica). Un altro
elemento connesso a questi sviluppi storici è la scrittura -> gli antichi Egizi avevano una società centralizzata con la
scrittura come pilastro fondante; tuttavia, esistono altre società centralizzate che non hanno prodotto scrittura -> il
Buganda è uno Stato ben organizzato a tutti gli effetti, ma la sua organizzazione non si avvale né di scrittura né di
moneta. Per quanto riguarda i mezzi di comunicazione, le società centralizzate, controllando dei territori vasti,
necessitano di comunicare con molte più persone simultaneamente; si passa quindi da una comunicazione faccia a
faccia ad una comunicazione più ampia ed estesa e si adottano forme di comunicazione avanzate -> sistema di
strade; acquedotti, in quanto le informazioni devono circolare velocemente e occorrono media adeguati.
In Le comunità devono poter immaginare, Benedict Anderson aggiunge delle caratteristiche delle società
centralizzate:
- il sistema politico è gestito da capi che amministrano il territorio;
- il sistema di comunicazione è controllato e gestito da funzionari specifici;
- è presente un sistema militare, in quanto tutte le società centralizzate hanno un esercito che garantisce il
mantenimento dell’ordine su tutto il territorio, anche utilizzando la forza per rimarcare il proprio ruolo; esso
assume un’organizzazione precisa, che è quella dell’esercito;
- il sistema giuridico è gestito da figure deputate all’esercizio del diritto, come giudici o capi religiosi, ed è richiesta
una specializzazione professionale;
- nel sistema economico è compreso un sistema fiscale: la ricchezza non va consumata tutta subito, ma va
conservata e redistribuita. Infatti, le “tasse” risalgono dal basso e vengono poi redistribuite, attraverso una
circolazione di beni che interessa e attraversa l’intera società; questa forma economica è stata quindi chiamata
“economia di tipo distributivo”. È interessante notare che la moneta come strumento di scambio è presente solo
in alcune società; altre praticano lo scambio o il baratto.

Il regno del Buganda


Il Buganda è uno dei regni presenti in Burundi, situato nell’Africa dei Grandi Laghi, ovvero nel cuore dell’Africa
Centrale. Questo regno presenta un tipo di società centralizzata dal Seicento ed è quindi un regno precoloniale,
formatosi ben prima dell’arrivo degli Europei. Questo territorio è molto omogeneo dal punto di vista ecologico; ciò è
importante perché una società si sviluppa anche in base al che territorio occupa. La regione, inoltre, è attraversata
dall’Equatore, per cui in parecchie zone piove molto e il terreno è fertile. Ne risulta, dunque, un’area geografica
particolarmente felice dal punto di vista ecologico, da molto tempo abitata da un susseguirsi di popoli.
Si può comprendere che, date condizioni climatiche così favorevoli, sin da subito si sia formata una serie di regni
interlacustri, di cui però si possiedono poche testimonianze scritte, in quanto la loro cultura si basa sull’oralità.
Nonostante questo, dagli anni Sessanta si sviluppa la convizione per cui esiste una storia dell’Africa anche laddove non
si è sviluppata la scrittura. Infatti, fino ad allora si pensava che “dove non c’è scrittura, è preistoria”, ma in realtà anche
queste società hanno una storia, la quale oggigiorno è conosciuta e i cui processi sono spesso oggetto di dibattiti.
In questa regione così fertile e ricca, infatti, ad un certo punto sono emersi dei sistemi politici di tipo centralizzato,
formati da domini e regni; il primo caso di Africa centralizzata, in particolare, è il regno del Bugnoro. Prima di questi,
esistevano semplicemente delle società organizzate sulla base della parentela, in cui i gruppi di agnati (membri di un
clan patrilineare) si spostavano con le loro mogli e i figli sul territorio, praticando orticolture e pastorizia; dovevano
spostarsi continuamente per sfruttare il territorio, seguendo la pratica della cosiddetta “agricoltura taglia-brucia”.
Il meccanismo della centralizzazione, per cui più clan decidono di unirsi e organizzarsi in una forma politica ampia, è
dovuto a due innovazioni che si sono verificate nell’area e che hanno modificato profondamente l’economia africana:
- introduzione dei bananeti: la banana viene importata nel Seicento dall’Indonesia, ma cresce molto bene in
queste zone dell’Africa e dalla sua introduzione è diventato un elemento essenziale per la popolazione, perché ne
ha arrichito l’alimentazione. Poiché la banana diviene un alimento base per questo popolo, la produzione agricola
si intensifica e vive una crescita esponenziale, con un conseguente aumento della popolazione.
- sviluppo di pastoralismo intensivo: inizialmente il pastoralismo era ridotto è domestico; in questa fase, invece,
aumenta la quantità del bestiame.
Da queste due rivoluzioni si sviluppano due specializzazioni occupazionali: una legata all’agricoltura e alla coltivazione
di banane, cereali e ortaggi, con gli Hutu, e un’altra legata al pastoralismo intensivo, con i Tutsi. Si sviluppa quindi un
sistema complesso ed efficiente di tipo agro-pastorale, in cui due grandi classi collaborano per dar vita ad
un’economia produttiva; ciò, tuttavia, non avviene nel Buganda, in cui mancano i pastori.
Inoltre, quest’area è stata interessata da numerose ondate migratorie di popoli che arrivavano da Nord, con lingue e
culture diverse; nonostante questa differenza netta, però, non ci sono mai stati conflitti tra le popolazioni locali e i
nuovi arrivati, ma anzi essi sono stati integrati nel sistema più ampio, ad esempio assorbendone alcuni tratti. È
interessante notare che questo nuovo sistema, derivato dall’incontro di popoli diversi, sorga proprio ai confini; si parla
quindi di processi di etnogenesi, in cui si fondano nuove culture.
Il modello politico centralizzato del Bugnoro si diffonde capillarmente e si vengono a creare numerosi regni. Il
Buganda nasce come “stato-vassallo” del Bugnoro, ma ad un certo punto si rende autonomo: seppur ispirandosi al
Bugnoro, però, questo regno decide di adottare forme originali e diverse. Politicamente, come in ogni società
centralizzata, governa una cerchia ristretta, con un sovrano (Kabaka, ovvero “mandibola”; viene così chiamato perché
quando muore gli viene staccata dal cranio la mandibola, che rappresenta la sovranità e viene poi conservata in un
santuario) al vertice che collabora con funzionari e capi territoriali (Lubuga) per amministrare il territorio e
mantenere la gente comune (Bakopi). Si segue quindi la dinastia di un sovrano specifico: la carica di sovrano viene
trasmessa direttamente ai figli e passa da clan a clan, affinché nel sistema tutti i clan siano rappresentati a
simboleggiare la coalizione fra clan; infatti, la stessa parola Buganda presenta la radice “ ganda”, che significa fascio e
simboleggia dunque questa coalizione.
In questa forma politica molto raffinata, il potere si esprime attraverso la comunicazione parlata. Il Kabaka non
governa da solo, ma è affiancato da sua madre (Namasole) e dalla sorellastra, cioè dalla figlia del precedente sovrano
avuta da un’altra moglie. I Kabaka, infatti, hanno tante mogli non solo perché la poligamia è consentita, ma anche
perché così tutti i clan possono andare al potere, dando in sposa al re una delle proprie donne.
È ovvio che vi siano molti candidati che aspirano alla carica di sovrano, soprattutto nel periodo di caos inter regno,
ovvero alla morte del sovrano precedente. In questo momento, quindi, si scatenano lotte fratricide fra capi finché un
candidato emerge per forza e astuzia; il meccanismo è dunque meritocratico: non è il primogenito a prendere il posto
del re, ma la persona più abile. In quel momento, viene intronizzata con lui anche la madre: avviene quindi
un’inversione del meccanismo patrilineare. È però interessante notare la presenza di questa triade bifronte, che
comprende sistematicamente sia il sesso maschile che quello femminile: non si può concepire potere se non si
coniugano i due generi; la circolazione del potere fra clan si basa infatti su tale bilanciamento di genere, che esiste
perché le donne devono controllare gli eccessi e gli squilibri del sovrano.
In questo sistema politico, è importante anche la religione di possessione, che utilizza il meccanismo di possessione
spiritica: i medium vengono posseduti dagli spiriti dei sovrani defunti, incarnandoli. Questi medium danno udienza alla
gente all’interno dei santuari, ovvero negli ex palazzi dei re, come una vera e propria corte che continua a governare in
forma spirituale. Infatti, la mandibola del re morto, simbolo della sua parola, viene conservata nel suo vecchio
palazzo, insieme alle reliquie del re e ai cordoni ombelicali dei suoi figli. Il cordone ombelicale, infatti, rappresenta una
sorta di “doppio” dell’identità individuale ed è per questo chiamato “gemello”: i medium ritenevano per l’appunto
che tutti abbiano un gemello alla nascita, incarnato nel cordone ombelicale, e che fosse utile per gli eredi andare a
parlare con i propri gemelli, o con quelli degli antenati.
I medium non sono funzionari del sovrano attuale, ma dello spirito di un vecchio sovrano; anche loro quindi,
governando implicitamente, consentono un bilanciamento del potere del re vivente e una sua disseminazione. Questo
sistema religioso ha inoltre disseminato sul territorio un vasto numero di tombe reali (attualmente 36, tutte presidiate
da medium), che così mostrano la genealogia dei re: pur non essendoci la scrittura, infatti, le tombe ci consentono di
conoscere la storia cronologica del Buganda, soprattutto perché ad ogni nuovo re corrisponde un nuovo palazzo, e
quindi una nuova capitale; proprio di questo gli esploratori coloniali rimasero molto sorpresi al loro arrivo.
La capitale del Buganda si chiama infatti “Kibuga”, termine generico che deriva dal verbo che indica lo spostarsi, e
quindi dà già un’idea di mobilità. Nella città, in una sorta di recinzione, sono contenuti il palazzo reale e le varie
residenze che vanno a costituire la corte (tranne quella della madre, che deve essere diviso dalla capitale da un
ruscello poiché il re e sua madre non si possono più vedere dopo l’incoronazione); tutto attorno vi è una vastità di
bananeti. Questo regno, ricco di vegetazione, è attraversato da un’ampia rete di strade ben tenute, che collegano la
capitale a tutto il regno, per metterla in comunicazione con tutti gli abitanti.
I primi stranieri ad occupare il Buganda sono i mercanti arabi, dediti al commercio di beni e di schiavi; essi avviano
un’intensiva islamizzazione del territorio avvalendosi della scrittura. Successivamente, si stanziano in questo territorio
gli Inglesi; in seguito giungono anche i missionari francesi e anglicani. Perciò, tra il 1850 e il 1890 si incontrano diverse
religioni nella capitale; esse vengono comunque accolte tutte allo stesso modo dal sovrano del Buganda che, per
restare in un clima pacifico, dà a tutti una terra, senza mai negare la possibilità di insediarsi nella capitale. Tuttavia, con
l’arrivo dei missionari questo clima di convivenza va in crisi e nasce una serie di conflitti, che aprono la strada ad un
ciclo di guerre sanguinose; le fazioni della corte si schierano o con gli arabi o con i cattolici, finché gli Inglesi non
prendono il potere nel 1894 con Lugard. Lugard, militare della corona britannica, entra nella capitale con le sue truppe
e si insedia in un terreno che sceglie lui, senza chiedere il permesso al re; egli decreta quindi la fine del regno perché
costruisce un forte dentro la capitale. Sempre nello stesso anno, viene istituito un protettorato inglese sulla zona;
poiché gli Inglesi, comunque, non vogliono spendere denaro per insediare dei loro funzionari, Lugard ottiene il ruolo di
“manipolatore” delle menti dei funzionari locali, che mantengono quindi il loro potere. Le forme di potere alternative
sono invece inconcepibili per gli Inglesi e per questo vengono distrutte e desacralizzate: la figura della regina madre,
ad esempio, perde completamente la capacità di controllo sul governo. Inoltre, viene smantellata tutta la dimensione
simbolico-religiosa e si assiste ad un’occidentalizzazione del regno del Buganda; per farlo, vengono importate le
popolazioni indiane, con il compito di costruire grosse infrastrutture come la ferrovia, utile ad esportare il caffè ed altri
prodotti del territorio. In tal modo, si viene a creare un sistema complesso che prevede:
- gli Inglesi in cima alla gerarchia;
- gli Indiani che controllano il commercio;
- i locali al fondo; tuttavia, alcuni di loro collaborano con gli Europei per interesse personale -> Apolo Kaggwa,
“sovrano-fantoccio” che governa manipolato dagli Inglesi.
Nel 1962, il Buganda, come la maggior parte delle colonie africane, raggiunge l’indipendenza, diventando repubblica
monarchica sotto la guida del Kabaka. Tuttavia, un colpo di stato nel 1966 spazza via la monarchia e abolisce i regni;
seguirà la tremenda dittatura sanguinaria di Idi Amin, militare africano educato in Scozia, per i successivi sette anni.
Fortunatamente Amin sarà sconfitto Yoweri Museveni, l’attuale presidente, che, impossessandosi del controllo del
Paese, stabilisce la democrazia: nel 1993 egli introduce infatti una nuova costituzione che riconosce l’autorità
tradizionale dei capi e restaura i regni. La tradizione dell’organizzazione politica non scompare, ma viene
reinterpretata: i processi di centralizzazione hanno infatti ripreso piede e coesistono con un contesto di Stato-nazione
in cui ci sono un Parlamento ed un’idea di governo nazionale; tuttavia, i regni sono istituzionalizzati soltanto in forma
culturale, quindi non possono avere eserciti né richiedere introiti né finanziarsi.
Attualmente, il Buganda presenta due milioni di abitanti ed è economicamente in crescita, con un forte aumento
demografico; è infatti una società estremamente dinamica che si rispecchia in una produzione culturale giovanile e
mediatica vivace.

L’occidentalizzazione dell’Uganda
L’Uganda comprende l’ex regno del Buganda. Il protettorato inglese, seppur comprendesse diversi gruppi etnici della
zona, ha privilegiato la popolazione dei Buganda perché essa era la più numerosa, nonché la più adatta a governare, in
una forma di sub-imperialismo. Ovviamente anche in Uganda arriva la modernità, ma questo comporta vantaggi e
svantaggi e occorre quindi analizzare il fenomeno in maniera attenta e critica.
L’Uganda viene infatti catapultata nel sistema-mondo attraverso il commercio: dal 1850, i mercanti arabi giungono in
Africa centrale alla ricerca di prodotti da esportare, come avorio e pietre preziose, ma anche esseri umani; gli Arabi
importano anche nuovi beni, come il cotone, le armi da fuoco e, parlando di media, la scrittura. Di fatti, gli Arabi
iniziano la conversione religiosa partendo dalle corti: i sovrani vengono dunque convertiti attraverso l’insegnamento
dell’arabo, con il fine di poter leggere il Corano, poiché l’Islam è considerata una delle più importanti religioni del libro.
Si passa quindi da una religione trasmessa attraverso rituali di possessione al libro-medium; cambia perciò l’approccio
alla relazione tra le persone e il divino e soprattutto cambia il mezzo, in quanto prima si riceveva il divino dentro di sé,
ora invece bisogna leggere un libro.
Dopo gli Arabi, arrivano gli Inglesi, i missionari protestanti e quelli cattolici. Questa prima fase di arrivo delle religioni
del libro è caratterizzata da violenze: l’ingresso delle nuove religioni non avviene in modo pacifico soprattutto per via
della competizione tra le varie fedi; si formano infatti delle fazioni che strattonano il Kabaka da una parte e dall’altra,
in modo tale da favorire una religione su un’altra. La corte, da multietnica, cosmopolita e di innovazione religiosa,
diviene un luogo di conflitto e di violenza, soprattutto da parte dei missionari, che mirano a trasformare le istituzioni e
ad entrare nel profondo del tessuto sociale; si perde quindi quell’architettura bilanciata tra politica e religione.
Inoltre, avvengono numerose modifiche nel sistema anche con l’introduzione della proprietà privata della terra.
Prima, infatti, la terra non era di nessuno, ma era gestita dal sovrano, che la affidava ai contadini in un sistema
clientelare, in cambio di fedeltà e dipendenza al sovrano. La proprietà privata è però necessaria alla fondazione della
colonia: viene infatti stipulato il Buganda Agreement nel 1900, che sancisce che una metà del terreno sarà gestita
ancora dal sovrano, ma l’altra metà, ovviamente quella più fertile e migliore per le coltivazioni, diverrà proprietà
inglese. Questo determina quindi il completo scardinamento del sistema clientelare che vigeva precedentemente: di
fatto, i lavoratori dei campi divengono indipendenti e il sovrano perde la sua autorità.

I Santi martiri dell’Uganda


Negli anni delle più gravi guerre religiose, prima dell’istituzione del protettorato, accade un episodio famoso nella
storia del cristianesimo, che riguarda i cosiddetti “martiri dell’Uganda”, divenuti poi sotto papa Paolo VI santi.
L’episodio riguarda un gruppo di giovani cattolici che vivevano a corte come paggi del re; infatti, secondo il sistema di
genere che vigeva nella corte del Kabaka, alcuni giovani maschi venivano inviati dai clan al sovrano come dono, perché
venissero educati alla politica della corte. I paggi erano simili ai servitori del sovrano, ma, occupandosi direttamente
del re, spesso capitava che avessero dei rapporti omosessuali con lui. Infatti, mentre fuori vigeva la poligamia, le
famiglie erano numerose e le donne erano fortemente sfruttate, nella corte la situazione era più complicata: a corte il
sesso non corrispondeva al genere. Il Kabaka era l’uomo tra gli uomini, nonché il potere, e quindi si esprimeva in
termini di sessualità maschile; poi c’erano i principi di sesso maschile (Balangira), considerati maschi, e le principesse
di sesso femminile (Bambeja), considerate a tutti gli effetti degli uomini, che quindi non potevano sposarsi né avere
figli, al pari della sorella del sovrano (Lubuga); c’erano poi le femmine considerate donne tra cui la madre del sovrano
(Namasole) e le varie concubine; in ultimo, i paggi maschi erano considerati e trattati come donne. Quindi, siccome le
identità di genere non determinavano un orientamento sessuale, c’era una certa libertà, per cui il re poteva avere
relazioni sia con le donne sia con i paggi.
I missionari cercano di porre un freno a questa situazione: uno dei loro obiettivi era ricondurre la sessualità,
concepita così diversamente, ad un canone di tipo europeo. I paggi vennero convertiti e questo portò ad un
inevitabile conflitto. La conversione, infatti, richiede l’abbandono totale della fede precedente e delle implicazioni
politiche annesse: nel momento in cui paggi rinunciarono ad avere rapporti sessuali con il Kabaka per abbracciare la
nuova fede, il Kabaka si vide sminuito e fu costretto ad intervenire violentemente per riaffermare il suo potere. I paggi
vennero dunque arrestati, torturati e bruciati vivi in un terreno di esecuzione, che oggi è un santuario in loro ricordo.
L’episodio fu talmente significativo che dieci anni dopo si svolse un processo diocesano per far luce sulla questione. In
questa sede, emergono due versioni di diversa interpretazione:
- interpretazione cristiana: questi ragazzi accettano di andare a morire per amore di Gesù; il Kabaka viene descritto
come malato e sadico;
- interpretazione africana: l’episodio è visto come un “atto dovuto”: il Kabaka doveva difendere la sua autorità.
Quello che è stato descritto come un martirio, qui è inteso in termini di sacrificio, una pratica molto attiva nella
religione tradizionale che comportava l’uccisione di persone innocenti per il bene del regno, poiché contribuivano
a bilanciare il potere del sovrano.
Nel processo, i sostenitori di quest’ultima interpretazione affermarono a gran voce: “sono nostri figli e li
uccidiamo per mantenere il sistema, ma non alziamo un dito su di voi, perché siete nostri ospiti; uccideremo però
tutti coloro che tenterete di istruire”.

Cambiamenti dei ruoli di genere in Uganda


L’occidentalizzazione del sistema politico andò di pari passo con l’occidentalizzazione del concetto di genere.
Nella società tradizionale, le donne non avevano nessuna autorità e venivano sfruttate: nella sfera domestica si
occupavano di tutti i lavori, mentre nell’ambito agricolo lavoravano il terreno per ottenere prodotti dalla terra; inoltre
poiché era vigente la poligamia, l’unica possibilità di fuggire dal sistema era rinunciare al matrimonio con un uomo e
alla maternità per sposarsi con gli spiriti, assumendo la funzione di medium (eppure, anche questa possibilità non era
tanto intesa come una loro decision, quanto più come una chiamata degli spiriti, rimarcando ancora una volta la
posizione di sottomissione della donna).
Nonostante ciò, queste donne riuscirono poco a poco a ritagliarsi il loro spazio politico e acquisirono una certa
indipendenza e ricchezza, diventano delle vere donne d’affari; in quest’ottica, quindi, le forme di resistenza sono
anche a livello delle costruzioni e delle rappresentazioni di genere. Successivamente, dentro le corti le donne
riuscirono ad ottenere una forte influenza politica, come nel caso delle principesse, della Namasole e della Lubuga.
Con l’arrivo dei missionari, il cui obiettivo era riordinare i ruoli della società, venne estirpata l’omosessualità e venne
trasformato il ruolo della regina-madre.
Per ciò che riguarda le rappresentazioni di genere, è importante notare che cambiarono anche i modi di vestire. Nel
Buganda tradizionale non esisteva la tessitura; prima del cotone si usava infatti l’Orobugo, un tessuto di corteccia che
veniva lavorato e con cui si confezionavano poi gli abiti. Con l’arrivo degli Inglesi, venne importato il cotone, con cui si
produssero i costumi tradizonali, riletti però in una chiave storica del tutto nuova, che segue lo stile vittoriano. Ad
esempio, le principesse venivano vestite secondo un modello tipicamente vittoriano, con abiti lunghi e corpo
completamente coperto.
Le principesse venivano inoltre educate ad un nuovo ruolo: non più Bambeja addette alla politica, ma legate all’idea di
una famiglia modello con un uomo e una donna che seguono uno stile di vita basato su un’economia di tipo
capitalista. Il sistema capitalista prevedeva un’espansione in ambito agricolo: si crearono i primi proletari, uomini che
lavorano nelle aziende agricole, mentre le donne erano incaricate al benessere della famiglia. Questo rappresentava
infatti il modello vittoriano, fondato sulla monogamia, con l’idea di una famiglia nucleare, in cui la donna non era più
al centro della politica, ma diventava l’“angelo del focolare”; pur continuando a coltivare la terra e ad avere un
minimo di autonomia (vendendo magari prodotti al mercato), il suo ruolo venne dunque completamente ripensato in
quest’ottica.
Inoltre, vennero istituite le prime scuole, create a corte, dove si educavano i principi e principesse a questi nuovi ruoli;
in particolare, le principesse dovevano essere abituate ad una moda più europea, educate a giochi tipo europeo,
formate per diventare maestre, conoscitrici della musica classica, dell’economia domestica e della cucina europea
(infatti, anche l’alimentazione cambiò, e i bambini cominciarono a mangiare alimenti ritenuti dagli Inglesi più sani e
idonei per lo sviluppo).
La nuova religione, ovviamente, divenne al centro dell’istruzione; vennero dunque vietate le stregonerie e tutte le
pratiche legate ai culti di possessione precedenti, che continueranno, però, ad essere praticati in privato, e il culto
tradizionale fu quindi dichiarato fuori legge attraverso un processo sia legislativo, in cui spesso i medium venivano
impiccati, sia culturale, perché i missionari diedero vita ad un vero e proprio processo di demonizzazione degli spiriti.
La colonizzazione è infatti anche una “colonizzazione delle menti”: se le credenze cambiano, aumenta il conflitto tra
passato e presente fin quando non avviene una rottura esistenziale con il passato.
Tuttavia, non mancava chi resisteva a queste modifiche così drastiche del sistema precedente: alcuni santuari
continuarono ad esistere come luoghi di resistenza anti-coloniali, per bilanciare il potere dei nuovi arrivati. Anche in
questo caso, però, non mancarono episodi violenti: nel 1919, ad esempio, tre medium profetizzarono la fine dei regni
tradizionali e si mossero attivamente contro gli Inglesi per evitarla, ma quest’ultimi ne furono spaventati e repressero
la rivolta nel sangue.

L’arrivo dei nuovi media con la colonizzazione


Con la colonizzazione si hanno delle novità anche nell’ambito delle tecnologie mediatiche, poiché cambia
progressivamente il mediascape, ovvero il paesaggio mediatico. Prima dell’arrivo degli Occidentali, infatti, queste
società, non possedendo né scrittura né rappresentazioni visive, utilizzavano soprattutto l’arte performativa, in
particolare la musica e la danza, sotto forma di cantastorie e pantomima.
La musica, in quest’ottica, era un veicolo potentissimo e assumeva anche funzione politica: i miti spesso venivano
cantati da musicisti professionisti, i cantastorie, che cantavano e suonavano l’arpa; a costoro era concesso l’uso della
satira, e quindi l’arte ancora una volta era utilizzata per bilanciare il sistema politico. Nei clan, invece, i rituali erano
molto musicali; nei culti di possessione, ancora, i medium impersonavano teatralmente e mimeticamente lo spirito
che li possedeva e mettevano in scena una storia, quasi come se fosse uno spettacolo.
Con l’arrivo degli Arabi e poi dei missionari viene introdotta la scrittura: nascono quindi delle figure locali di
intellettuali che imparano non solo a leggere e a scrivere l’inglese, ma anche a scrivere e a trascrivere la propria lingua.
Apolo Kaggwa, il “sovrano-fantoccio”, è considerato il primo etnografo nativo, perché decise di trascrivere nella sua
lingua le storie del suo regno e del suo clan e fondò anche una casa editrice, l’Apolo Kaggwa Publishers. La sua
capacità fu proprio quella di impadronirsi di una tecnologia coloniale, farne tesoro e sfruttarla per il proprio profitto
personale (la scrittura gli permise infatti di diventare il più ricco del regno). Inoltre, attraverso la diffusione di testi
scritti, la popolazione iniziò un processo di alfabetizzazione, grazie al quale oggi il 68% degli abitanti sanno leggere e
scrivere.
Grazie all’arrivo degli Inglesi si svilupparono fortemente anche altri media, tra cui il teatro. Prima, infatti, il teatro non
esisteva come forma espressiva tradizionale; certamente, il rito aveva elementi di teatralità, ma questa era intesa
diversamente dall’idea di teatro occidentale, poiché esso era considerato dagli Inglesi al pari di una forma educativa
per la formazione degli studenti.
Accanto al teatro, si sviluppò il cinema: infatti, gli Inglesi produssero dei film sia per gli Inglesi stessi, che dovevano
essere informati di quello che accadeva in patria, sia per i nativi, in quanto questo era considerato uno strumento
educativo e di formazione. Negli anni Trenta, si sviluppò la Bantu Educational Kinema Experiment, la quale distribuiva
film a scopo educativo i tutti i villaggi dell’Africa centro-orientale; questi film erano infatti muti e venivano sonorizzati
nelle lingue locali quando arrivavano in loco. Tali film veicolavano, in ottica prettamente coloniale, un’immagine
offensiva dell’Africano, visto come un bambino ingenuo, a cui tutto doveva essere insegnato; per questo, dagli stessi
Africani venivano accolti con ironia e sarcasmo, spesso perché li trovano addirittura ridicoli e surreali. Il cinema,
dunque, non incontrò il favore dei locali, perché era un cinema che veniva imposto dagli stranieri, andando contro la
tradizione.
Con l’indipendenza, nel 1962, gli Inglesi lasciarono a Kampala un teatro nazionale che sarebbe dovuto servire a
portare avanti una tradizione teatrale educativa, ma sin da subito si svilupparono una produzione teatrale e una
produzione cinematografica locali, rese possibili anche dalla nascita di numerose sale cinematografiche.
Successivamente, durante la dittatura, Amin fece chiudere queste sale, senza però ostacolare il teatro, che rimase
l’unica forma espressiva concessa.
Dal 1986, con l’inizio della democrazia, cominciò a riaffermarsi il cinema (e poi la TV, seppur con diffusione limitata e
parziale): inizialmente, solo sotto forma di teatro filmato; poi, a partire dal 2005, sotto forma di cinematografia vera e
propria. Questo sviluppo cinematografico fece affiorare negli Ugandesi l’idea di autoproduzione cinematografica,
permettendo così la nascita dei film di Nollywood, importanti strumenti anticoloniali che con il tempo diventarono
sempre più vivaci, dando vita a produzioni non importate, ma nate direttamente dal tessuto sociale -> Boda Boda
Thieves: è un film raffinato dal punto di vista delle inquadrature e della sceneggiatura, e tratta temi attuali e moderni;
incarna quindi perfettamente il prototipo di prodotto cinmatografico alla “occidentale”, pur essendo totalmente
“made in Africa”.
La produzione in Uganda attualmente si distingue in due categorie di film e registi:
- downtwon cinema, cioè cinema dei bassi fondi;
- uptown cinema, cioè cinema più raffinato. Questi film, solitamente, vengono direttamente distribuiti per far
circolare il maggior numero di copie, tanto da raddoppiare l’investimento, in modo che l’industria giri e incontri il
favoro del pubblico locale.
Un altro fenomeno che si sta sviluppando è la diffusione di film hollywoodiani in lingua locale. Sono quindi nate delle
figure professionali, i V-Jay, che traducono in diretta in lingua luganda i film americani, reinterpretandoli anche in
maniera particolare; questa riappropriazione dei film, assimilati e modificati, si traduce in una capacità di agire sulle
rappresentazioni mediatiche e non subirle, in un ambiente mediatico fortemente attivo e vivace.

Arjun Appadurai e Modernità in Polvere


La definizione di cultura di Tylor oggi non è più applicabile: data la dinamicità della società e la presenza dei nuovi
media, la concezione strutturata e chiusa della cultura è ormai tramontata, dunque occorre ridefinirla.
Per Arjun Appadurai, la modernità è in polvere, poiché è per tutti e si declina in forme particolari e sempre diverse da
paese a paese; nulla è fisso, ma tutto continua a modificarsi. È molto difficile cogliere questa modernità così
frantumata, ma Appadurai ne dà un’immagine concreta: il frattale, una figura geometrica priva di regolarità che
richiede calcoli matematici che rientrano nelle cosiddette “teorie caotiche”. Crisi, genocidi, conflitti e guerre sono
infatti fenomeni caotici, che noi siamo incapaci di prevedere; è chiaro quindi che siamo lontani dalla concezione
dell’ordine tipica dello struttural-funzionalismo, ma viene invece rimarcata l’idea di caoticità.
Appadurai è un antropologo di origine indiana che si è occupato di questo, dando una forte centralità ai media nella
prospettiva antropologica. Egli ha pubblicato molti volumi, tra cui i più importanti sono:
- The Social Life of Things (1986): si occupa della circolazione e della “risignificazione” degli oggetti nel mondo
globale; gli oggetti sono intesi sia dal punto di vista del consumo, sia come oggetti culturali, museabili, di
patrimonio artistico. Già in questo libro emergono alcuni temi importanti come i flussi: per lo studioso, è infatti
fondamentale studiare i flussi, e non le realtà statiche, perché gli oggetti circolano oltre i confini. Quindi, già nel
1986 Appadurai rifiuta un’antropologia localizzata, che si concentra su una regione o su un’area geografica, ma
ritiene necessario studiare i flussi che interessano la circolazione degli oggetti e dei tratti culturali.
- Disjuncuture and Difference In the Global Cultural Economy (1990): emerge l’importante concetto di disgiuntura,
che identifica la distanza che oggi si crea tra i vari flussi della nostra vita sociale, nei quali siamo inseriti ->
economici; finanziari; politici; mediali; ideologici. Infatti, tutto fluisce, ma non in maniera sincronica: i flussi sono
quindi disgiunti, e queste disgiunture creano una particolare situazione caotica nella vita sociale. Inoltre, in questo
testo egli sostiene che la globalizzazione sia strettamente collegata all’eterogeneità: nella dimensione globale,
infatti, i gruppi etnici sentono il bisogno di rimacare la propria specificità. I fenomeni culturali hanno delle proprie
specifiche peculiarilità localmente, sulle quali i gruppi vogliono insistere, e questo crea un sistema globale
complesso.
Nel 1996, Appadurai pubblica Modernità in Polvere, in cui analizza i flussi culturali globali attraverso la creazione di
nuovi sistemi di studio. Secondo Appadurai, noi siamo immersi in una circolazione globale di materiale globale, a cui
tutti possono accedere, soprattutto se possiedono competenze linguistiche; questo materiale può essere utilizzato e
rielaborato secondo il proprio punto di vista. Seguendo questa teoria, non vale più l’immagine tipicamente coloniale di
centro-periferia, poiché oggi ovunque sono presenti centri di produzione culturale che entrano nel panorama
globale, in particolar modo grazie alla più ampia accessibilità garantita dal digitale. Appadurai parla quindi di flussi di
materiali culturali che circolano oltre i confini statali, culturali, linguistici; essi definiscono cinque panorami culturali
(landscapes), che sono prospettici, ovvero vengono percepiti secondo la propria prospettiva:
- etnorami (ethnoscapes), in cui circolano gruppi etnici: questi flussi descrivono la circolazione di gruppi e persone
a scala globale. Seppur alcune comunità restino stabili, è crescente il numero delle persone in movimento per
tante ragioni -> turismo; immigrazione; rifugiati politici. Vi è infatti un continuo movimento globale di persone
oltre i confini nazionali e identitatari: oggi, infatti, il concetto teorico di identità, inteso come prodotto culturale
localizzato in un dato territorio, è tramontato. Per Appadurai, le identità si costruiscono anche al di fuori del
territorio, cioè all’interno dei flussi etnici; è importante sottolineare che non si tratta di un’uniformità identitaria
intesa come conseguenza della globalizzazione, ma di un rimarcare la propria diversità all’interno di una
dimensione globale, in cui le differenze sono valorizzate.
- mediorami (mediascapes), in cui circolano materiali mediatici: per Appadurai, tutti i flussi si rispecchiano nel
panorama mediatico-ideologico.
Lo studioso parla soprattutto di immagini, poiché esse sono connesse all’immaginario e all’immaginazione,
ovvero a quel processo attuato dalla fantasia che rende dinamico il sistema dei materiali culturali. Infatti, nei
centri di produzione circolano immagini e, in senso più ampio, rappresentazioni (-> riviste; giornali; serie TV; film)
che sono accessibili a tutti; in tal modo, esse vanno a costituire dei repertori di rappresentazioni globalmente
condivise, nei quali realtà e finzione si mescolano, perché le rappresentazioni sono sia lo specchio di quello che
avviene negli altri flussi, sia delle invenzioni della gente. Le rappresentazioni diventano quindi metafore attraverso
cui la gente vive e riproduce dei modelli che determinano molto l’esperienza di vita.
Appadurai, inoltre, analizza molti ambiti, come la moda e l’arredamento domestico, e da questi studi sostiene che
i film veicolano certi modelli che così si globalizzano; ciò influisce profondamente sulla nostra vita quotidiana e sul
consumo.
- tecnorami (technoscapes), in cui circolano tecnologie e prodotti industriali: le tecnologie e i prodotti industriali
sono in costante movimento e in continua evoluzione.
- finanziorami (financesscapes), in cui circola denaro: il denaro viene trasferito in maniera rapidissima e costante
grazie al sistema finanziario virtuale. La distribuzione di capitale che una volta era possibile solo in Occidente, oggi
invece avviene ovunque e in qualsiasi momento.
- ideorami (ideoscapes), in cui circolano idee: per Appadurai, tutti i flussi si rispecchiano nel panorama mediatico-
ideologico. Oggi, infatti, circolano una serie di sistemi ideologici e di “parole chiave” che stanno raggiungendo il
globo: concetti come “democrazia”, “diritti umani”, “libertà”, “cittadinanza”, che fondamentalmente vengono
tutti dall’Illuminismo europeo, si stanno diffondendo su scala globale, anche grazie alla diaspora degli intellettuali
che viaggiano ovunque e insegnano in varie università, facendosi portatori della circolazione di idee.
Appadurai definisce questi flussi i “mattoni dei mondi immaginati”; la sua riflessione prende infatti avvio da quella di
Benedict Anderson sulle comunità immaginate. Per Anderson, infatti, il grande cambiamento avviene con la stampa a
caratteri mobili, introdotta nel 1445: prima della sua invenzione, la comunicazione era faccia a faccia, ma questa
grande novità permette lo sviluppo di una comunicazione a distanza, o telecomunicazione, che usa ampiamente
scrittura e stampa. Progressivamente cresce l’alfabetizzazione, poiché la gente vuole essere in grado di leggere e di
scrivere per comunicare a distanza; ciò consente quindi alla comunità di immaginarsi in un ambiente più ampio.
Anderson mette quindi al centro della sua riflessione i media e parla di “capitalismo a stampa”: prima della
rivoluzione industriale, la diffusione della stampa pone le basi per un nuovo tipo di comunicazione, che offre la
possibilità di creare comunità più ampie e complesse che sono in grado di autoprodurre, in una concezione
capitalistica.
Appadurai prende spunto anche da McLuhan, che parlava della nascita di un nuovo ordine globale in cui i media
creano una sorta di ordine mediatico globale. Appadurai afferma che però McLuhan ha tralasciato un aspetto
essenziale: i media creano comunità, ma man mano che il processo mediatico va avanti si perde il radicamento
territoriale e le comunità divengono delocalizzate, virtuali e mediatiche. Infatti, oggi tutto viene deterritorializzato: le
persone e le merci emigrano, viaggiano e si spostano, quindi permangono delle comunità ma sono solo immaginate, e
quindi “l’immaginario diventa una pratica sociale”.
Il punto su cui Appadurai più insiste è la disgiuntura: i flussi non vanno in parallelo, ma vengono declinati in maniera
disomogenea. Le persone, le tecnologie, i soldi, le immagini e le idee percorrono dei cammini che non sono isomorfi,
poiché noi cogliamo alcuni flussi più di altri: per esempio, il Giappone favorisce la circolazione tecnologica ma
ostacola la circolazione di persone; la Germania o la Svizzera, invece, favoriscono la circolazione di persone e
accolgono la costruzione di comunità dentro il loro territorio. Il sistema è molto complesso, e analizzare queste
disgiunture aiuta a comprendere le diversità che lo attraversano.
La globalizzazione sottolinea una rivendicazione identitaria, che è molto diffusa tra le popolazioni “indigene”, poiché
costoro vivono nella scena globale ed è proprio in questa scena che si sente maggiormente l’esigenza di rivendicare la
propria identità, in una sorta di “revival” identitario legato alla globalizzazione, e non derivante dalla tradizione.
Nella scena globale, dunque, si sente il bisogno di riaffermare la propria diversità, anche in termini di mercato e
merchandising. Si tratta quindi di un processo di indigenizzazione: lo scenario globale si indigenizza -> in Nigeria
giungono nuove tecnologie, ma sono usate in modi particolari, quasi “indigeni” appunto, che noi Occidentali facciamo
fatichiamo a comprendere, poiché la rivendicazione identitaria è molto forte.
Nel capitolo Giocare con la modernità, Appadurai analizza il gioco del cricket, esportato dagli Inglesi in tutte le
colonie; per questa ragione, viene innalzato a simbolo della colonizzazione inglese. In contesti così diversi, come in
India o in Africa, tutti praticano ancora oggi questo sport: il fatto che il cricket, come tanti altri fattori, resista, rende
chiaro il rapporto dialogico che vi è tra società colonizzate e società conquistatrici. Inoltre, Appadurai utilizza il
discorso sul cricket per analizzare il processo di indigenizzazione di un tratto culturale arrivato dall’esterno con la
colonizzazione: infatti, questo gioco si è modificato e ha assunto forme diverse da zona a zona. Il cricket, per lo
scrittore, è quindi il simbolo della modernità con cui le popolazioni indigene hanno “giocato”, modificandolo a
seconda delle loro esigenze e tradizioni, fino a farlo diventare diversissimo dal gioco originale; in alcuni casi, esso si è
avvicinato addirittura ai rituali tradizionali, diventando una danza con costumi spettacolari e bellissimi, che
sottolineano l’eroticità e la bellezza. Il film Trobrian Cricket: una risposta ingegnosa al colonialismo riprende proprio il
discorso di Appadurai sul processo di indigenizzazione estremamente creativo elaborato dai Trobriandesi.

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