Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
L’antropologia nasce nella seconda metà dell’Ottocento e si sviluppa inizialmente nell’ambito delle scienze naturali
come “scienza naturale dell’essere umano”, che in origine analizza sia la dimensione biologica che quella culturale
della vita umana. L’antropologia, inoltre, nasce prima nei musei che nelle università: infatti, già nel Settecento erano
state costituite delle collezzioni di oggetti etnografici di interesse antropologico, che diventano poi, nel corso
dell’Ottocento, delle vere e proprie collezioni scientifiche, collocate dunque nei musei di scienze naturali. Ciò avviene
perché la stessa antropologia nasce nel mondo positivista, quando i comportamenti umani iniziano ad essere studiati
con metodo scientifico e non più con metodo “idealistico”; questo approccio scientifico si riflette nella considerazione
che l’essere umano vada studiato tre le altre specie naturali perché esso è soltanto una delle tante specie che
esistono. Ben presto, però, le strade si dividono: l’antropologia fisica si sviluppa in ambito biologico, mentre la
dimensione culturale viene studiata nell’ambito delle scienze umane, ovvero di quelle discipline che studiano il
comportamento umano utilizzando il metodo scientifico, basato su quattro grandi fasi: osservazione;
catalogazione/classificazione; comparazione; elaborazione/enunciazione di teorie.
Gli antropologi studiano gli esseri umani appartenenti ad ogni tempo e ad ogni luogo, ovunque essi trovino o vivano;
di particolare interesse è la diversità, che si origina dal fenomeno dell’adattabilità umana, e che costituisce
l’argomento principale dell’antropologia. Quest’ultima è una scienza olistica poiché si riferisce allo studio della
condizione umana considerata nel suo insieme: non solo npassato, presente e futuro, ma anche biologia, società,
linguaggio e cultura. L’adattamento si riferisce ai processi mediante i quali gli organismi riescono a superare con
successo gli stress e le forze avverse che agiscono nell’ambiente in cui si trovano; l’adattamento biologico può essere
genetico, fisiologico a breve termine o fisiologico a lungo termine, ma nel caso dell’uomo esiste anche l’adattamento
culturale, grazie ai vari mezzi di cui dispongono gli esseri umani.
La cultura
Da quando si iniziano a separare le due antropologie, l’antropologia culturale si sviluppa grazie alla introduzione di un
nuovo concetto di cultura, che prima non esisteva. La parola cultura deriva dal latino colĕre, coltivare, ma è stata
definita in diversi modi:
- definizione classica: secondo Cicerone, “cultura animi philosophia est” (la filosofia è la coltivazione dell’anima).
Nella tradizione classica, la cultura indicava il coltivare la mente e l’animo utilizzando l’apprendimento e lo
studio, ottenuto attraverso la lettura e la scrittura; in questo senso, esso era un concetto elitario, in quanto ai
tempi di Cicerone poche erano le persone ad avere accesso a questi mezzi. Secondo questa visione, la cultura è
qualcosa a cui possono arrivare solo alcune classi, ma allora come ci si spiega l’esistenza di una cultura in
numerosi popoli che non disponevano di un sistema di scrittura? In effetti, il corollario alla definizione di Cicerone
è che i popoli senza scrittura sono popoli senza cultura.
- definizione antropologica: secondo Edwuard Burnett Tylor, “la cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso
etnografico, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il costume o
qualsiasi altra capacità o abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società”. Questa visione,
introdotta dall’antropologo vittoriano nel 1971, in Primitive Culture, era quella dell’evoluzionismo sociale, diverso
da quello biologico di Darwin, che postulava un’evoluzione unilineare delle società e delle culture. Secondo
questa teoria, tutte le società procederebbero lungo una linea evolutiva che porterebbe, attraverso alcuni stadi
(selvatichezza, stadio primitivo, barbarie e infine civiltà) a raggiungere la meta della civiltà, secondo velocità
differenti. In questo senso, gli aborigeni australiani vivono allo stadio primitivo e sono paragonati ai nostri avi che
vivevano nel Neolitico; ovviamente non sono dei primitivi, ma semplicemente delle popolazioni che hanno scelto
delle soluzioni adattative diverse dalle nostre. L’evoluzionismo culturale è come una macchina del tempo, in cui
la diversità viene tradotta in termini temporali, in un’operazione assolutamente falsa e congetturale. Per Tylor, la
cultura è fatta dai saperi e dalle pratiche, anche le più umili, ma anche dalle capacità e dalle abitudini, che l’uomo
ha naturalmente ed inconsapevolmente. Dal momento che la naturalizazzione avviene in una fase in cui l’uomo
non è cosciente, noi consideriamo naturali soltanto i nostri costumi, mentre sono “barbari e innaturali” i costumi
degli altri; di conseguenza, per considerare le culture in altri termini occorre denaturalizzare, relativizzare e
diventare consapevoli: cultura è tutto ciò che non è trasmesso geneticamente e che è il contrario di biologia,
poiché non ha nulla a che fare con il patrimonio genetico di ogni popolo. La cultura si apprende non solo a livello
individuale, ma anche a livello di gruppo: è quindi un processo dinamico e basato sull’apprendimento.
L’acquisizione della cultura in Cicerone avveniva attraverso la lettura e la scrittura, ora invece essa viene acquisita
dall’uomo in quanto membro di una società, poiché essa è un fatto sociale e viene quindi condivisa.
L’etnia
Il concetto di etnia è molto complesso e controverso, oltre che molto pericoloso; esso spesso viene legato a quello di
razza, che però è una parola non valida per l’essere umano ma solo per alcune specie animali.
Secondo le idee etnocentriche, che rimangono in auge fino agli anni Quaranta, la parola etnia fa riferimento a
persone che vivono in un gruppo, o ad una schiera di uomini di una particolare tribù, o ancora ad una nazione e ad un
popolo; gli “altri”, ovvero i popoli stranieri, sono i “ta etne”, che non hanno istituzioni politiche e vivono nel caos. In
questo senso, il termine etnia può essere associato anche a quello di tribù, che in passato era usato dagli Inglesi per
indicare una ripartizione amministrativa e che oggi viene utilizzato tecnicamente per parlare delle società lignatico-
segmentarie, ovvero quelle società in cui tutto viene organizzato in base al clan.
Lo struttural-funzionalismo sviluppa una concezione dei gruppi umani basata sul discontinuismo etnologico, per cui si
pensa ai popoli come gruppi chiusi con caratteristiche precise, ben distinti gli uni dagli altri.
Basandosi sul concetto di società come sistema chiuso, autosufficiente e statico, Malinowski, attraverso una
concezione di tipo olistico della cultura (cioè come insieme discreto, complesso e autosufficiente), elabora il
funzionalismo, che ritiene che ogni tratto culturale -> organizzazione dello spazio; grado di parentela; legame
matrimoniale; vita sessuale sia funzione dell’organizzazione sociale. A completare questa teoria, Radcliffe-Brown
elabora lo strutturalismo sociale: l’antropologia deve studiare la struttura sociale, e quindi il tessuto delle relazioni
sociali, poiché una società è composta da individui e ciascuno occupa una posizione precisa all’interno della società. A
queste idee si aggancia Evans-Pritchard che, studiando la popolazione Nuer nel testo I Nuer: un’anarchia ordinata,
non si immagina per loro un cambiamento o un progresso in futuro, ma vede soltanto un popolo statico e fisso, privo
di storia, che non può mirare a nessun futuro e che mai è cambiato rispetto al passato.
Questa concezione di chiusura e fissità si espande maggiormente nel periodo del colonialismo, quando ai popoli
africani, società aperte all’origine, vengono imposte categorie rigide, che rientrano nella classificazione etnica e non
tengono conto della storia -> Conferenza di Berlino del 1912: i confini dell’Africa coloniale vengono tracciati con
squadra e righello, senza tener conto degli equilibri sociali, politici e culturali presistenti; di conseguenza, con il
colonialismo si è venuto a creare un sistema che ha destabilizzato completamente gli equilibri. Ancora prima, esso ha
introdotto a livello teorico il concetto di etnia: in epoca precoloniale le identità venivano definite non attraverso
categorizzazioni di tipo etnico, ma attraverso categorizzazioni di tipo politico, quindi come società claniche o
centralizzate; con il colonialismo, invece, si creano delle definizioni etniche, dette etnonimi, che attribuiscono ai
popoli colonizzati significati di tipo razziale-biologico. Di fatto, gli effetti di questo approccio sulla vita delle
popolazioni locali sono stati catastrofici -> genocidio del Ruanda.
L’antropologia visiva
L’antropologia visiva è quel settore dei media che si occupa di immagini in movimento e fotografie, nato con
l’antropologia, e quindi prima dell’antropologia dei media.
Nei primi anni dell’Ottocento si comincia infatti ad osservare lo sviluppo della fotografia ed in seguito, con la prima
rappresentazione dei fratelli Lumiére a Parigi nel 1895, anche del cinema. L’antropologia, sin da subito, sceglie di
veicolare i suoi messaggi utilizzando queste nuove tecnologie: il primo filmato in proposito, realizzato con una ripresa
ottenuta con un fucile cronofotografico, rappresenta alcuni Senegalesi deportati a Parigi per l’esposizione universale, e
venne realizzato per convincere le altre popolazioni della colonizzazione europea, legittimandola con rappresentazioni
visive che fomentassero la propaganda razzista e di svalutazione dell’altro. Questo discorso, dunque, utilizza molto le
immagini, soprattutto in tempi in cui il livello di ignoranza era ancora molto alto, in modo tale da educare ed informare
la gente tramite la vista.
Quando si parla di antropologia visiva, e quindi dello studio degli altri attraverso foto e film, si devono tenere conto
due approcci all’interno dei quali questo settore si sviluppa:
- approccio metodologico: questo ambito utilizza la fotografia e il cinema nella ricerca antropologica. Si pensa sia
importante raccogliere immagini, perché vengono considerate dei documenti oggettivi che testimoniano una
realtà etnografica, e vengono quindi trattate come vere e proprie “prove”. La fiducia nella fotografia era tanta, in
quanto essa era in grado di fissare un momento ed era considerata una rappresentazione oggettiva della realtà
(cosa che oggi sappiamo essere assolutamente non vera, in quanto le fotografie sono frutto di una lavorazione
che modifica la realtà).
- approccio teorico: si sviluppa negli anni Ottanta e Novanta come un approccio più ampio, che non considera
l’antropologia visiva solo come metodo, ma come ambito di studio. Si arriva alla consapevolezza che tutte le
culture producono immagini e che quindi esistono culture visive diverse sparse in tutto il mondo, in continuo
cambiamento, poiché ciascuna ha un proprio sistema di rappresentazione delle percezioni.
Si capisce quindi che la cultura di un popolo va sì a condizionare e a costruire la rappresentazione visiva, ma ancora
prima la percezione visiva, che diventa non più un fatto esclusivamente naturale, ma influenzato fortemente dalla
cultura.
Una visione, infatti, consiste nel percepire le immagini, poi memorizzarle ed infine rappresentarle sotto forma di
comunicazioni che immettiamo nel circuito comunicativo; tuttavia, la percezione è selettiva e limitativa. Questo in
parte è dovuto al fatto che la visuale dell’uomo è biologicamente limitata, nel senso che il suo campo visivo è di 180
gradi e il suo occhio è sensibile solamente a certe frequenze; tuttavia, esistono anche delle abitudini percettive che
provengono dall’ambiente culturale in cui viviamo -> percezione dei colori: non è assoluta, ma in parte determinata,
ed è per questo che alcune culture identificano quattro colori primari, mentre altre undici.
James Gibson ha introdotto l’approccio ecologico allo studio di immagini, per cui la visione, formata dalla percezione e
dalla rappresentazione, è un fatto ecologico fondamentale nell’adattamento: non soltanto è vero che l’uomo ha
bisogno di percepire l’ambiente e di ricevere da questo degli input, ma anche l’uomo può modificare l’ambiente
stesso, perché la visione è un fenomeno interattivo e l’immagine si costruisce nel rapporto tra un soggetto che vede
ed un oggetto che è visto. Secondo Gibson esistono due tipi di rappresentazione visiva:
- rappresentazioni chirografiche (da kefir, mano), cioè fatte a mano;
- rappresentazioni fotografiche (da fotos, luce), cioè fotografie.
Anche la percezione e la rappresentazione dei suoni sono in realtà un fatto culturale, poiché anch’essi sono
determinati sulla base delle diverse culture e hanno importanze diverse da popolo a popolo. Per l’Europa e, in
generale, per l’Occidente del mondo più industrializzato, molto è il valore che si dà alla vista (società “oculocentrica”),
ma per molti popoli africani è fondamentale, invece, la parola.
Tutto ciò che riguarda i sensi dà vita ad un’antropologia dei sensi che non riguarda solo la vista e l’udito, ma
comprende anche i sensi considerati più primitivi che sono il tatto, l’olfatto e il gusto; infatti, l’ esperienza etnografica
sul campo deve essere un’esperienza multisensoriale, e non solo intellettuale, che preveda la partecipazione e il
coinvolgimento di tutte le dimensioni sensoriali ed estetiche.
Ovviamente, i due approcci che sono stati più studiati sono l’antropologia visiva e l’antropologia dei suoni, tra cui
l’etno-musicologia, che è lo studio sistemi musicali extra-europei. In merito a questo, l’antropologo S. Feld ha studiato
il paesaggio sonoro del popolo Kaluli, che proviene sia dalla natura e dai suoi suoni: le musiche tradizionali e i canti di
questo popolo sono un vero e proprio medium che permette loro di trasmettere percezioni, pur non avendo attrezzi
elettronici di ultima generazione.
Il rapporto media-religione
Jack Goody, nel testo La logica della scrittura e l’organizzazione della società, si occupa dell’Africa occidentale per ciò
che riguarda i media che comunicano la religione.
Dedicandosi allo studio della religione africana, salta subito all’occhio la distinzione tra religioni del libro (Ebraismo,
Cristianesimo e Islam), in cui la scrittura è il mezzo privilegiato di trasmissione dei dogmi e dei valori contenuti, e
religioni dell’oralità. L’Africa, infatti, in passato era immersa in religioni orali: di fatto, tranne che per i casi di Egitto
(egiziano) ed Etiopia (aramaico), sul continente non si è prodotta alcuna scrittura né sono state inventate tecnologie
mediatiche per trasferire la parola in forma scritta; al contrario, si utilizzano forme legate all’oralità in qualsiasi ambito,
soprattutto in quello religioso, come la preghiera, il racconto, la canzone. Centrali nella religione africana sono quindi
le forme rituali, che sono delle cerimonie che si svolgono in una data specifica e che mettono insieme un sistema di
linguaggi, in cui non solo si utilizza la parola, ma anche altri linguaggi performativi ed estetici, ancor più utili a
rappresentare le sensazioni extra-intellettuali e corporee.
Questa esperienza corporea spesso si traduce in percezioni extra-sensoriali in una cosiddetta trance, nel tentativo di
andare al di là dei limiti della nostra percezione per accedere al mondo degli spiriti e cogliere tutta la spiritualità. La
parola trance deriva da transformation e indica una condizione di alterazione momentanea della coscienza; essa viene
utilizzata nelle religioni africane per accedere ad un mondo invisibile dove abitano gli spiriti, talvolta più importante
del mondo reale. Tuttavia, per non rischiare che si esageri, questi rituali sono spesso gestiti e seguiti da una cornice di
anziani e specialisti, dove i limiti vengono definiti nettamente. I pentecostali utilizzano ampiamente la trance come
tecnica che serve a manifestare la possessione spiritica, cioè l’idea che uno spirito possa entrare dentro una persona e
ne prenda possesso. Non necessariamente la possessione implica una trance, ma spesso molte possessioni utilizzano
la trance per innescare la possessione.
Le chiese pentecostali pongono al centro della loro pratica il miracolo della Pentecoste. Questo perché esse nascono
proprio nel contesto africano, in cui le pratiche corporali di discesa dello spirito nei corpi sono molto diffuse grazie alle
religioni dell’oralità già presenti. Il pentecostalismo recupera questa dimensione e la pone al centro di tutto con
successo: la sua diffusione è infatti in continuo aumento, anche perché questa religione risponde a degli interrogativi a
cui le religioni tradizionali scritte e più “occidentali” non sanno rispondere in quanto la scrittura irrigidisce di fatto le
frontiere, perché ha un effetto di fissazione ed incapsulamento; al contrario, le culture dell’oralità sono dinamiche e
rendono difficile individuare delle distinzioni nette.
Il pentecostalismo gioca su questo dinamismo e su pratiche fluide e performative, più malleabili; per questo, riesce
meglio ad adattarsi a nuovi contesti sociali e soprattutto mediatici. Alla dicotomia che proponeva Goody, dunque, si
aggiunge un terzo tipo di religione: quello delle religioni dell’audiovisivo, che puntano ad una diffusione mediatica
maggiore.
Il pentecostalismo opera sia una continuità, poiché recupera certi valori del passato, come la corporeità delle religioni
dell’oralità, sia una discontinuità, perché riadatta i valori della tradizione in termini moderni; inoltre, i pentecostali
vogliono operare una rottura completa con il passato, demonizzandolo, perché la vera fede è quella in Gesù Cristo e
quindi tutte le altre forme di spiritualità devono essere abolite. Tuttavia, in una regione politeista come quella africana
non è necessario convertirsi: queste religioni sono infatti formate da tante divinità e da tanti spiriti diversi, che
pervadono la percezione dei vivi, quindi Gesù viene aggiunto alle altre divinità in un’opera di sincretismo religioso.
Il pentecostalismo, comunque, si pone come una religione della modernità e del futuro, perché serve per emigrare e
creare nuovi rapporti operando una rottura anche a livello sociale, ma forse è anche una religione della post-
modernità, perché spesso si rafforza nelle comunità virtuali, come social network e siti web, in cui la società
interagisce e coopera in un discorso religioso che utilizza i media più avanzati. A questo proposito, Benedict Anderson,
in Comunità immaginate, ha fatto uno studio sull’evoluzione dei media dalla stampa a caratteri mobili alle tecnologie
più moderne: egli ha descritto i nuovi immaginari sociali che si stanno tuttora costruendo grazie a questo tipo di
comunità virtuali, sempre più ampie.
Le società lignatico-segmentarie
Un’economia di tipo pastorale corrisponde ad un’organizzazione politica e sociale di tipo lignatico-segmentaria. Le
società lignatico-segmentarie sono società acefale, cioè sono società senza capi non centralizzate né territorialmente
né politicamente; l’equilibrio è mantenuto comunque, nonostante l’assenza di burocrati e di apparati organizzativi
sviluppati.
Queste società sono dette lignatiche perché sono basate sui lignaggi, segmenti di clan (gruppi di discendenza
unilineare che ritengono di discendere da un antenato comune) composti da quattro/cinque generazioni, che sono in
media le generazioni che una persona riesce a ricordare; sono invece dette segmentarie perché una parte del
lignaggio si separa, in un processo di fissione, e colonizza un altro territorio. Queste struttre complesse sono basate su:
- sistema lignatico (elemento temporale): la concezione della discendenza struttura la società;
- organizzazione politico-territoriale (elemento spaziale): si struttura sulla base dei clan e dei lignaggi in
sottoinsiemi fisici e territoriali, che si inquadrano in strutture più ampie sempre divise in sezioni. Questo tipo di
società senza capi non cade nell’anarchia perché il principio politico è quello della segmentazione, per cui il
sistema si divide e ognuno ha delle figure di riferimento. Tuttavia si vengono anche a creare delle opposizioni,
delle rivalità e dei nemici, i quali però sono risolti o perlomeno ridotti attraverso un sistema di alleanze, che
riunifica la società. La violenza è funzione dell’alleanza: la violenza è infatti funzionale a tutto il sistema perché dà
subito vita ad un meccanismo di coesione e strutturazione della società;
- sistema delle classi di età: tutte le società africane sono strutturate in classi di età, e quindi gli individui sono
raggruppati tra membri nati in un certo periodo.
La radio oggi
La radio e in generale il panorama radiofonico sono mutati parecchio negli ultimi anni: la radio ha attualmente delle
caratteristiche che la rendono molto versatile, tanto che per fare una radio ci vuole davvero poco. La radio è infatti
cambiata totalmente rispetto agli anni Trenta, in ogni suo aspetto: l’oggetto, il modo, i linguaggi sono ormai molto
diversi. Si sta diffondendo la radio di flusso, di sottofondo, che sta abbattendo la radio parlata: il flusso radiofonico è
costruito da brani musicali intervallati da interventi di conduttori che possono durare anche solo 20 secondi. Un altro
tipo di radio è invece la radio dei programmi, che è quella di cui si ricordano i nomi dei conduttori e da cui si possono
scaricare i podcasts.
Genere e antropologia
Non si può comprendere completamente com’è strutturata una società se non si analizzano i rapporti e i ruoli di
genere al suo interno.
Cos’è il genere? Noi siamo abituati a pensare che essere uomo o donna sia un fatto naturale; in realtà non lo è, perché
esso è un fatto culturale e varia da società a società. Un antropologo, comparando le concezioni di genere delle
diverse società, può osservare una grande pluralità di modelli: questo non fa che sottoscrivere che non si tratta di
categorie naturali e innate, poiché il modo in cui ciascuna cultura interpreta la biologia è variabile; inotre, anche
quando si considera l’identità di genere ci si sta occupando di interpretazioni culturali che sono variabili e diverse. In
sintesi, le stesse strutture di genere sono costruzioni sociali e culturali.
Il genere non è il sesso. Gli antropologi, con i loro studi, si trovano nella posizione ideale per osservare l’influenza
dell’ereditarietà e quella dell’ambiente sul comportamento umano: infatti, ciò che ci caratterizza come individui
adulti è determinato, nella fase di crescita e sviluppo, sia dai geni ereditati sia dall’ambiente. La differenziazione
sessuale, per cui uomini e donne sono geneticamente diversi, è un processo biologico: le donne hanno due cromosoni
X, mentre gli uomini hanno un cromosoma X ed un cromosoma Y; è il padre a determinare il sesso del nascituro,
poiché è portatore del cromosoma Y, mentre la madre trasmette sempre il cromosoma X.
La diversità cromosomica si esprime attraverso differenze ormonali e fisiologiche: gli esseri umani, infatti, presentano
disformismo sessuale, ovvero maschio e femmina hanno delle diversità che riguardano non solo i caratteri sessuali
primari (-> genitali) e secondari (-> seno; voce), ma anche il peso, l’altezza, la longevità, la forza. Gli antropologi hanno
quindi individuato similitudini e differenze nei ruoli e nelle caratteristiche fisiologiche di uomini e donne: gli uomini,
infatti, tendono ad essere più alti, a pesare di più e ad essere più aggressivi, mentre le donne tendono a vivere più a
lungo e ad avere un’eccellente capacità di resistenza.
Tuttavia, se prima si parlava di disformismo, individuando solo due uniche possibilità, ora si parla di un processo che
segue un continuum, che va da maschio a femmina, con una varietà di possibilità intermedie. I casi intermedi
vengono definiti inter-sessuati: essi non hanno patologie né disordini veri e propri, ma per molto tempo sono stati
considerati in questo modo; si interveniva quindi chirurgicamente, ma con conseguenze drammatiche, perché questi
soggetti non si riconoscono nel sesso assegnatoli. Oggi, siccome viviamo in una cultura in cui la norma è ancora
maschio-femmina, essi fanno fatica ad inserirsi nella società, perché è molto forte il senso per cui il diverso non è
ammesso, e quindi gli individui devono adattarsi alla società (e non viceversa).
Genere/gender
Il genere è l’insieme delle caratteristiche socioculturali che ogni società attribuisce alla persona a seconda del sesso a
cui appartiene. In italiano, la parola “genere” deriva da tre diversi termini inglesi:
- genre: forma di espressione letteraria, musicale, artistica;
- genus: insieme tassonomico di specie diverse (classificazioni scientifiche);
- gender: categoria grammaticale presente in alcuni ceppi linguistici.
Gli antropologi hanno acquisito dati etnografici sulle somiglianze e sulle differenze di genere in molti ambienti
culturalmente diversi, e hanno così individuato i cambiamenti dei ruoli di genere dettati dall’ambiente, dall’economia,
dalle strategie adattive e dal tipo di sistema politico di ciascuna società.
I ruoli di genere sono i compiti e le attività che una cultura assegna ai sessi. Collegati ai ruoli di genere ci sono gli
stereotipi di genere, che sono delle idee sulle caratteristiche di maschi e femmine.
La stratificazione di genere descrive una distribuzione iniqua di ricompense, come il potere e il prestigio, tra uomini e
donne, che riflette le differenti posizioni nella gerarchia sociale -> nelle società senza Stato politico, la stratificazione di
genere è legata al prestigio sociale e alla ricchezza.
Nella grammatica, due sono le possibilità di genere, maschile e femminile, ma ci sono delle eccezioni, perché esiste
una relazione tra lingua e società: i nomi sono molto organizzati e rigidi nelle società eteronormative; dove c’è il
neutro spesso ci sono nomi neutri (come il nome Andrea); nelle lingue come il Bantu, in Africa, i nomi non hanno
genere, ma sono neutri.
In ambito socio culturale, molte sono state le donne attive in questo senso. Simone de Beauvoir, nel libro Il secondo
sesso del 1949, afferma che “donne non si nasce ma si diventa”: il maschile e il femminile non sono altro che una
distinzione culturale, che la società assume artificialmente perché la cultura interviene sulla natura. In questo senso,
esistono anche delle modifiche e degli interventi più o meno invasivi -> circoncisione; moda, che definiscono una certa
una certa identità di genere rispetto ad un’altra.
Se teniamo presente i due piani di sesso e genere, si vede che le possibilità in natura non sono solo due, ma molteplici,
perché esistono persone che nascono di un certo sesso ma si sentono di un altro; se vogliono diventare dell’altro
sesso, vengono definiti transessuali.
I Masai
I Masai sono un popolo molto numeroso che vive al confine tra Kenya e Tanzania, attualmente confinato in riserve.
Questo popolo segue, come tutte le società lignatico-segmentarie, una struttura rigida e gerarchica, in cui il genere è
fondamentale nella organizzazione: nascere uomo o donna fa una grande differenza e occorre chiedersi quale sia il
ruolo di ciascun genere nella struttura sociale.
In quasi tutte le società, soprattutto quelle centralizzate, esiste una gerarchia di genere, in cui in quasi tutte le donne
sono poste al di sotto dell’uomo: il genere sta quindi alla base della struttura sociale ed è fondamentale capire come si
definiscono i rapporti uomo-donna per definire la società. Il modello dei Masai segue una rigida gerarchia prestabilita
e piramidale che condiziona in modo molto marcato ogni individuo dal punto di vista economico, sociale, politico e
psicologico.
Spencer analizza il concetto di genere per i Masai con una piramide sociale demografica: i bambini sono
numerosissimi, ma molti muoiono per malnutrizione o condizioni igieniche precarie, e allo stesso tempo gli anziani
sono davvero pochi. I bambini sono concepiti come esseri neutri dal punto di vista del genere: essi sono molto simili
gli uni agli altri e per differenziarli bisogna intervenire in modo significativo durante la pubertà. In questo momento,
infatti, si opera un rito di passaggio, che segna il passaggio dall’infanzia neutra ad uno stadio superiore, in cui si
determina la categorizzazione di genere; questo rito comporta la circoncisione sia per i maschi che per le femmine. I
maschi circoncisi abbandonano il villaggio e vanno a vivere tutti insieme lontano dalla famiglia, iniziando così un lungo
periodo di formazione detto Moranato. I Moran diventano guerrieri e lo rimangono per una decina di anni, fino ad un
altro rito di passaggio, l’Eunoto, attraverso il quale diventeranno patriarchi. Infanzia, Moranato e Patriarcato sono i
tre gradi di età per i maschi.
Le ragazze, invece, vengono sottoposte ad una modificazione degli organi genitali molto più invasiva e pericolosa
rispetto ai maschi. Nel caso dei Masai si pratica l’escissione, cioè la rimozione parziale o totale del clitoride e delle
piccola labbra, con o senza escissione delle grandi labbra; le ragazze, a questo punto, diventano donne adulte e
possono essere sposate dai patriarchi. È consuetudine che i patriarchi pratichino la poligamia, ovvero che siano
sposati con più donne, e quindi qualche uomo resta escluso.
Gli uomini anziani hanno ricchezza, potere, proprietà di donne, bambini e bestiame; per descrivere questi
possedimenti i Masai usano il termine enkitorria (beni, bestiame e donne). È interessante notare che anche le donne
sono dentro questo termine, in quanto non hanno possibilità di possedere alcunché né sono autosufficienti dal punto
di vista della sussistenza. Culturalmente, nascono certamente sistemi di disuguaglianza sociale: ciò avviene anche per
la divisione del lavoro su base sessuale.
Il concetto di habitus
La parola “habitus”, in latino, indica l’aspetto esteriore, la corporatura, la condizione, il carattere; oggi, essa descrive
l’insieme di comportamenti e atteggiamenti che una persona assume in funzione del proprio stato sociale, quindi
indica la natura sociale delle abitudini corporee, che variano a seconda del genere, dell’età, dello status, seguendo
specifici modelli culturali.
Marcel Mauss, in Le tecniche del corpo, del 1936, afferma che “il corpo è il primo e il più naturale strumento
dell’uomo. È il primo e più naturale oggetto tecnico e, nello stesso tempo, mezzo tecnico dell’uomo ”. Egli è infatti il
primo studioso che si occupa del corpo in senso antropologico: lo considera uno strumento che deve essere plasmato
e modellato per occupare una determinata posizione nella società, attraverso delle tecniche specifiche per ogni
cultura -> danza; saluto, gestualità.
Con la nozione di “corpo”, Mauss indica la proiezione della struttura sociale sui corpi delle persone, ovvero l’aspetto
sociale delle nostre abitudini corporee; queste svolgono infatti un ruolo fondamentale nella società, poiché la
disciplina del corpo ha delle regole rigide ma diverse per ogni cultura, determinando quindi lo status di ogni individuo.
Anche e soprattutto il genere si proietta sui corpi con un suo habitus specifico, costruito attraverso dei modelli estetici
come le mutilizioni degli organi genitali: il corpo deve dunque avere una forma immediatamente percepibile come
quella che più rispecchia la posizione dell’individuo nella società.
Al discorso di Mauss, in Per una teoria della pratica, Pierre Bourdieu aggiunge il concetto di classe: l’habitus non è solo
il genere, ma anche la classe sociale. Per Bourdieu, infatti, la struttura sociale modella durevolmente il corpo, la sua
forma, le sue percezioni, le sue valutazioni, le sue azioni; in altre parole, quindi, il nostro corpo è un oggetto che viene
continuamente modellato all’interno di una struttura sociale specifica, con regole molto rigide, e noi non solo
assumiamo una forma corporea specifica, ma anche le percezioni che ne derivano. L’habitus corporeo, di
conseguenza, è un prodotto sociale ed è “storia fatta natura”, ovvero racconta la nostra storia individuale, in cui ci
sono le “cicatrici” e i segni che formano la storia della nostra vita personale, e al contempo la nostra storia collettiva,
ovvero quella che racchiude il modo con cui ci dobbiamo muovere ed atteggiare con gli altri.
Il muridismo senegalese
Guido Zingari si è occupato di una confraternita religiosa senegalese nella città di Toubà, utilizzando
sistematicamente l’elemento audiovisivo nelle sue ricerche; i suoi lavori, quindi, si collocano all’interno
dell’antropologia visiva, poiché egli intende sottolineare l’utilizzo e la potenzialità del mezzo audiovisivo e del
linguaggio cinematografico ai fini della ricerca, con l’obiettivo di produrre lavori e testi cinematografici in maniera
innovativa.
Il documentario tradizionale è infatti strumento di formazione, perché veicola delle determinate informazioni su un
tema specifico; il documentario per il cinema, invece, si distingue e fa un passo avanti poiché, oltre che a veicolare
informazioni, intende illustrare e rappresentare una tesi, attraverso l’ausilio di immagini e suoni, assumendo un
particolare punto di vista. Il cinema, quindi, sull’onda degli sviluppi che si stanno verificando, cerca di andare oltre la
natura tradizionale del documentario con la sua dimensione informativa, per fare una ricostruzione del mondo, o di
frammenti del mondo, che va ad esplorare ed indagare. Questo, in termini metodologici, si trasforma in un’ apertura
dello sguardo: gli antropologi devono essere disposti ad ammettere nuove realtà, mettendo in discussione la propria
cultura; ciò comporta anche un particolare uso dei mezzi, andando direttamente sui luoghi a riprendere ciò che si
vede e, successivamente, dedicarsi al montaggio.
Le porte del paradiso è un classico esempio di film di osservazione, che ritrae la vita quotidiana di una piccola scuola
coranica nel Senegal, cercando di seguirne i ritmi e di raccogliere quello che la letteratura ottocentesca ha chiamato
spaccati di vita, ovvero quei momenti di vita quotidiana che pur essendo banali hanno qualcosa da comunicare. È un
film senza interviste, un fatto strano se si pensa che spesso i documentari sono formati principalmente da interviste e
commenti; tutto si fonda su un’osservazione “pura”, nel senso che lo sguardo è quello della telecamera, senza altri
interventi: il film non spiega niente, se non quello che mostra il contesto.
Il villaggio in cui è stato girato si trova subito al di fuori dei confini della città santa di Toubà, una città come il Vaticano,
che simboleggia l’Islam radicale; in essa si prevede l’esistenza di una sorta di clero che organizza e governa la società e
la comunità dei fedeli, diversamente dall’Islam ortodosso che non ammette figure di guida spirituale. Questo tipo di
Islam, molto presente in Iran e Turchia, ha come figure di riferimento i Marabut, delle vere e proprie guide spirituali
che hanno un loro potere e una sorta di responsabilità nel prendere in carico la comunità e funzionare da mediatori.
Il film assume il punto di vista di ragazzini di 6-7 anni che provengono da lontano, essendo stati staccati dalle loro
famiglie in tenera età per essere affidati ai Marabut, affinché imparino a memoria l’intero Corano. Quest’esperienza
traumatica dura molti anni e spesso non arriva al proprio obiettivo; tuttavia, questo momento difficile e di sforzo, in
cui devono elaborare anche un forte distacco, permette loro di diventare gradualmente piccoli uomini. Il regista si
identifica con questi ragazzini e con il loro sguardo infantile, ingenuo e inconsapevole; infatti, come loro, egli
(successivamente, lo spettatore) ha tutto un percorso da fare per arrivare al mondo adulto.
Il Piccolo Cinema, invece, è un esempio di web-documentario; esso è ambientato nel quartiere Falchera di Torino,
dove si trova il Piccolo Cinema, sia sala di proiezione che luogo di formazione. Il montaggio non esiste: i confini
vengono abbattuti e lo spettatore può davvero intervenire attivamente, diventando protagonista del racconto. Infatti,
dopo la breve presentazione iniziale si entra nella pagina della squadra di calcio di dodici ragazzini, che fungono da
guide per esplorare il quartiere; cliccando su ciascun ritratto si apre un percorso all’interno delle vite dei ragazzi, con
una rete di link e connessioni per seguire la vita quotidiana dei personaggi, approfondire certi aspetti che via via si
presentano, scegliere un altro personaggio collegato al precedente. La navigazione è collettiva ed assolutamente
partecipativa, perché coinvolge totalmente chi ne fruisce; l’intento è però sempre quello del documentario, ovvero
conoscitivo e formativo.
L’antropologia economica
L’antropologia economica studia le varie economie in un’ottica comparativa fra le diverse società.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, molti intellettuali si occuparono di individuare e descrivere
l’organizzazione e le qualità delle economie primitive che risultavano parte integrante della cultura di quelle
popolazioni di interesse etnologico che, oltre ad ignorare l’uso della scrittura, disponevano di un apparato tecnologico
molto elementare. I primi lavori di antropologia economica trassero ispirazione dal metodo evoluzionistico, dalla
storia e dall’economia; queste relazioni contenevano delle informazioni contrastanti che difficilmente venivano
organizzate in modo sistematico, poiché, oltre a risentire della mancanza di un corpo consolidato di teorie, erano in
qualche modo condizionate dai legami intellettuali e dai rapporti che ogni studioso intratteneva con altre discipline.
A partire dalla fine degli anni Trenta, la materia fu indicata in modi diversi, tra cui “sociologia economica”, “economia
primitiva”, “vita economica dei popoli primitivi”; solo nel secondo dopoguerra si giunse ad “antropologia economica”:
gli studiosi che se ne occupavano sentirono il bisogno di ridefinirne i metodi, i presupposti teorici, i modelli e i possibili
campi di indagine.
Con la pubblicazione, nel 1940, del trattato di Herskovits sull’economia dei popoli primitivi, venne nettamente a
delinearsi la scelta di campo operata da questo autore, che sosteneva fosse impos sibile spiegare gli eventi economici
in termini di teoria neoclassica; da questo pensiero si costituirà in seguito quella corrente di pensiero formalista che
oggi si propone come una delle due principali espressioni della moderna antropologia economica.
L’antropologia economica si è infatti concentrata principalmente su due quesiti fondamentali:
- in che modo sono organizzati produzione, distribuzione e consumo nelle diverse società? Questa domanda si
basa principalmente sui sistemi di comportamento umano e sulla loro organizzazione;
- quali sono le motivazioni che spingono le popolazioni di culture diverse a produrre, distribuire, scambiare e
consumare? Questa domanda si pone come obiettivo principale quello di indagare le ragioni degli individui che
partecipano a tali sistemi.
Le società centralizzate
Alla società centralizzata corrisponde un’economia di tipo agricolo: non vi è infatti centralizzazione senza agricoltura.
Con la rivoluzione agricola, avvenuta intorno al 4000 a.C., la Mesopotamia passò da un’economia di sussistenza a
un’economia agricola, anche grazie all’alto grado di fertilità di quei territori e alla diffusione dell’aratro, la cui
tecnologia permetteva una raccolta più vasta; di lì a poco, comunque, tutte le popolazioni limitrofe seguirono a catena
questo modello.
Quando si ha una produzione intensiva si arriva a produrre un surplus, che comporta un aumento della popolazione e
un conseguente e necessario controllo dei territori più ampio, quindi diviene indispensabile dare vita ad una forma di
governo più complessa: la rivoluzione agricola è quindi naturalmente associata alla centralizzazione politica e
all’urbanizzazione (per questo tipo di società, infatti, la città è un’espressione della centralizzazione politica). Un altro
elemento connesso a questi sviluppi storici è la scrittura -> gli antichi Egizi avevano una società centralizzata con la
scrittura come pilastro fondante; tuttavia, esistono altre società centralizzate che non hanno prodotto scrittura -> il
Buganda è uno Stato ben organizzato a tutti gli effetti, ma la sua organizzazione non si avvale né di scrittura né di
moneta. Per quanto riguarda i mezzi di comunicazione, le società centralizzate, controllando dei territori vasti,
necessitano di comunicare con molte più persone simultaneamente; si passa quindi da una comunicazione faccia a
faccia ad una comunicazione più ampia ed estesa e si adottano forme di comunicazione avanzate -> sistema di
strade; acquedotti, in quanto le informazioni devono circolare velocemente e occorrono media adeguati.
In Le comunità devono poter immaginare, Benedict Anderson aggiunge delle caratteristiche delle società
centralizzate:
- il sistema politico è gestito da capi che amministrano il territorio;
- il sistema di comunicazione è controllato e gestito da funzionari specifici;
- è presente un sistema militare, in quanto tutte le società centralizzate hanno un esercito che garantisce il
mantenimento dell’ordine su tutto il territorio, anche utilizzando la forza per rimarcare il proprio ruolo; esso
assume un’organizzazione precisa, che è quella dell’esercito;
- il sistema giuridico è gestito da figure deputate all’esercizio del diritto, come giudici o capi religiosi, ed è richiesta
una specializzazione professionale;
- nel sistema economico è compreso un sistema fiscale: la ricchezza non va consumata tutta subito, ma va
conservata e redistribuita. Infatti, le “tasse” risalgono dal basso e vengono poi redistribuite, attraverso una
circolazione di beni che interessa e attraversa l’intera società; questa forma economica è stata quindi chiamata
“economia di tipo distributivo”. È interessante notare che la moneta come strumento di scambio è presente solo
in alcune società; altre praticano lo scambio o il baratto.
L’occidentalizzazione dell’Uganda
L’Uganda comprende l’ex regno del Buganda. Il protettorato inglese, seppur comprendesse diversi gruppi etnici della
zona, ha privilegiato la popolazione dei Buganda perché essa era la più numerosa, nonché la più adatta a governare, in
una forma di sub-imperialismo. Ovviamente anche in Uganda arriva la modernità, ma questo comporta vantaggi e
svantaggi e occorre quindi analizzare il fenomeno in maniera attenta e critica.
L’Uganda viene infatti catapultata nel sistema-mondo attraverso il commercio: dal 1850, i mercanti arabi giungono in
Africa centrale alla ricerca di prodotti da esportare, come avorio e pietre preziose, ma anche esseri umani; gli Arabi
importano anche nuovi beni, come il cotone, le armi da fuoco e, parlando di media, la scrittura. Di fatti, gli Arabi
iniziano la conversione religiosa partendo dalle corti: i sovrani vengono dunque convertiti attraverso l’insegnamento
dell’arabo, con il fine di poter leggere il Corano, poiché l’Islam è considerata una delle più importanti religioni del libro.
Si passa quindi da una religione trasmessa attraverso rituali di possessione al libro-medium; cambia perciò l’approccio
alla relazione tra le persone e il divino e soprattutto cambia il mezzo, in quanto prima si riceveva il divino dentro di sé,
ora invece bisogna leggere un libro.
Dopo gli Arabi, arrivano gli Inglesi, i missionari protestanti e quelli cattolici. Questa prima fase di arrivo delle religioni
del libro è caratterizzata da violenze: l’ingresso delle nuove religioni non avviene in modo pacifico soprattutto per via
della competizione tra le varie fedi; si formano infatti delle fazioni che strattonano il Kabaka da una parte e dall’altra,
in modo tale da favorire una religione su un’altra. La corte, da multietnica, cosmopolita e di innovazione religiosa,
diviene un luogo di conflitto e di violenza, soprattutto da parte dei missionari, che mirano a trasformare le istituzioni e
ad entrare nel profondo del tessuto sociale; si perde quindi quell’architettura bilanciata tra politica e religione.
Inoltre, avvengono numerose modifiche nel sistema anche con l’introduzione della proprietà privata della terra.
Prima, infatti, la terra non era di nessuno, ma era gestita dal sovrano, che la affidava ai contadini in un sistema
clientelare, in cambio di fedeltà e dipendenza al sovrano. La proprietà privata è però necessaria alla fondazione della
colonia: viene infatti stipulato il Buganda Agreement nel 1900, che sancisce che una metà del terreno sarà gestita
ancora dal sovrano, ma l’altra metà, ovviamente quella più fertile e migliore per le coltivazioni, diverrà proprietà
inglese. Questo determina quindi il completo scardinamento del sistema clientelare che vigeva precedentemente: di
fatto, i lavoratori dei campi divengono indipendenti e il sovrano perde la sua autorità.