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Fabio Dei, Antropologia Culturale

Capitolo 1
M-DEA: Discipline demoetnoantropologiche. Comprende l’antropologia culturale,
l’etnologia e la demologia, ossia la storia delle tradizioni popolari. Si parla quindi di studio
dell’uomo delle culture umane.
In antropologia parlando di cultura non si intendono solo i prodotti dell’attività intellettuale, ma
l’insieme degli elementi non biologici con cui i gruppi umani si adattano all’ambiente e organizzano
la vita sociale. Fanno parte della cultura i mezzi del lavoro, le istituzioni sociali, le parentele, il
linguaggio, etc.
Con etnologia ci si riferisce agli studi su specifici popoli e culture in ogni parte del mondo.
Con demologia si indica lo studio della tradizione popolare della società occidentale. E con
antropologia culturale si parla di approcci di tipo teorico e comparativo. Si tratta di distinzioni che
oggi hanno poco senso, a fronte della globalizzazione e dei mutamenti storici dei contesti in cui gli
antropologi lavorano.
È nella seconda metà dell’ottocento che l’antropologia culturale diventa un’autonoma
disciplina scientifica. Di solito si fa coincidere la sua nascita con l’uscita nel 1871 del libro di
Edward Tylor Alle origini della cultura (primitive culture). Alcuni antropologi vedono precursori
in autori come Erodoto, Montaigne e altri ancora, mentre altri antropologi ritengono non si possa
parlare di antropologia prima del novecento e della nascita delle metodologie di ricerca
caratteristiche di questa disciplina.
Alla fine dell’ottocento siamo nel periodo del positivismo, della fiducia nella scienza, ma
anche del colonialismo. In questo clima, l’antropologia si definisce come la scienza di ciò che
l’Europa si è lasciata dietro. Tylor parla di cultura primitiva, e vuole appunto studiare quei popoli
che non sono ancora stati toccati dalla modernità europea, dandogli però una qualche dignità di
esseri umani, non inferiori.
Questa definizione non ha più senso oggigiorno. Con la globalizzazione non esistono più
popoli “primitivi” e gli antropologi non sono più le avanguardie della cultura “moderna”. È difficile
oggi definire chi siamo noi e chi sono gli altri. In questo contesto l’antropologia culturale si
sofferma a studiare le differenze. Quale che sia l’oggetto di ricerca, la comprensione antropologica
passa attraverso il prisma della diversità culturale. Claude Levi-Strauss parla di sguardo da lontano
di chi si pone da estraneo. Clyde Kluckhohn parla del metodo antropologico come del “giro lungo”,
e l’italiano Francesco Remotti ha ripreso questa definizione per mettere in contrapposizione gli
autori che attraverso l’analisi del nostro modo di pensare cercano l’assoluta razionalità, con quelli
che vogliono definire la razionalità passando attraverso la molteplicità delle consuetudini locali.
Da qui l’importanza che la comparazione riveste nella ricerca antropologica.
Oltre all’interesse per le differenze culturali, tratto distintivo dell’antropologia è la ricerca
sul campo. La nascita di questa metodologia di lavoro è legato ai padri fondatori della disciplina
nel novecento, come Franz Boas e Malinowski. Prima di allora gli antropologi vittoriani non erano
ricercatori, ritenendo che lo studio e la ricerca sul campo dovessero essere affidati a figure
differenti. Il manifesto programmatico dell’antropologo novecentesco studioso e avventuriero si
trova nel libro di Malinowski del 1922, Argonauti del pacifico occidentale, una monografia sui
popoli dell’arcipelago melanesiano delle Trobriand. Nell’introdurre la ricerca, Malinowski
rivendica sia la preparazione metodologica che la diretta esperienza vissuta. Conia l’espressione
osservazione partecipante.
Anche il modello malinowskiano però è mutato nel tempo. Oggi le condizioni sono troppo diverse
per l’antropologo solitario che esplora una cultura intatta e isolata. Oggi siamo pieni di mass media,
specialisti, turisti, etc.
Essendo un campo così ampio, l’antropologia si articola in partizioni specialiste,
innanzitutto di natura geografica. Ma ci sono specialismi anche riguardo il tipo di fonte e
rappresentazione che l’antropologo sceglie di privilegiare. Le fonti orali sono lo strumento più
comune, mentre le fonti scritte sono a lungo state considerate estranee a un’antropologia dedita allo
studio di società illetterate. Oggi sono ovviamente di natura cruciale. Ci sono quindi le fonti
iconiche, fotografie e videoriprese. Le fonti materiali invece pongono attenzione sugli oggetti e sui
manufatti.
A questi specialismi vanno sommati quelli con cui l’antropologia si combina con altre
discipline. Abbiamo quindi l’antropologia storica, antropologia linguistica, psicologica, medica,
l’etnopsichiatria, l’antropologia filosofica.
L’antropologia novecentesca segue un approccio olistico che considera la cultura come un
tutto, ma capita che gli studiosi si specializzino su ambiti specifici della cultura, come: i sistemi di
parentela, quelli economici, le istituzioni politiche, il linguaggio, religione e magia, i sistemi di
saperi naturalistici e cosmologici, l’estetica e l’arte.
I più recenti studi della disciplina hanno fatto emergere campi di ricerca nuovi che prima
non erano presenti. Oggi si parla anche di antropologia urbana, le ricerche svolte in città piuttosto
che nei villaggi. Abbiamo oggi l’antropologia del turismo, dello sport, sul consumo di massa,
un’antropologia della violenza, dei processi migratori, dei processi educativi e ancora
un’antropologia di internet e delle comunità virtuali. Sono tutti temi che riguardano tutti, sia i paesi
occidentali che quelli che un tempo erano considerati terzo mondo.

Capitolo 2
Il termine razza lo si trova a partire dal cinquecento per indicare una discendenza, ma solo
nel diciannovesimo secolo il temine ha assunto l’attuale significato. Nell’ottocento il concetto di
razza diventa fulcro di una concezione etico-politica dei rapporti tra occidente e paesi colonizzati.
La diffusione di questo termine è tutt’uno con le dottrine razziste che si diffondono nell’ottocento.
Gobineau nel 1856 pubblica il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, in cui sostiene la
biologizzazione di ogni differenza tra culture, la presenza di una gerarchia tra razze e l’orrore per la
mescolanza tra razze. Gobineau ritiene che la superiorità della razza bianca sia minacciata dagli
incroci con le altre razze. Egli crede che il destino di ogni popolo sia stabilito dalla razza di
appartenenza, non c’è possibilità di miglioramento, e anzi la sua visione è degenerativa, in quanto il
mescolarsi tra razze implicherebbe perderne l’autenticità. Ad esempio per lui le civiltà greche e
romane erano superiori a quelle europee a lui contemporanee. La decadenza europea non può essere
fermata, e deriva dalla sua spinta imperialista.
Altro filone del razzismo ottocentesco è quello positivista e illuminista che pone le sue basi
sul lavoro di Darwin e Spencer. Darwin con la teoria dell’evoluzionismo pone fine alla disputa tra
teorie monogenetiche e poligenetiche delle razze. Per la teoria monogenetica tutte le razze hanno
un’origine comune, e l’evoluzionismo sostiene questa tesi. Ciò però non abbatte la classificazione
in razze, anzi la alimenta: se tutte hanno la stessa origine, le differenze sono dovute a un miglior
adattamento, a una sorta di supremazia.
Se da un lato viene abolito il razzismo per motivi religiosi, il razzismo diventa più
gerarchizzato che mai, dal momento che le differenze naturali non sono modificabili come quelle
religiose. Per questo nasce l’antisemitismo che porterà alla Shoa, innestandosi su una definizione
“scientifica” di razza.
Invece il razzismo progressista diffuso nei paesi democratici porta all’eugenetica, una delle
peggiori manifestazioni moderne di razzismo. Fu Francis Galton a formulare i principi
dell’eugenetica, ossia il desiderio di “aiutare” la selezione naturale impedendo ai più deboli di
riprodursi.
Anche il concetto “scientifico” di cultura si sviluppa nella seconda metà dell’ottocento. Per
l’antropologia la cultura non è solo la produzione intellettuale, ma l’insieme di tutte le pratiche, usi
e conoscenze che possiede una comunità e attraverso le quali si adatta all’ambiente e regola le
proprie relazioni sociali. Gli antropologi ottocenteschi sono influenzati dalle teorie razziste, ma
sono interessati allo studio della cultura come elemento di differenziazione tra i gruppi, ritenendo
l’evoluzione culturale come la continuazione dell’evoluzione biologica, finendo per fare comunque
una gerarchizzazione delle diverse culture. Ipotizzano un unico processo di evoluzione culturale, in
cui i diversi popoli si trovano in diversi stadi. I popoli “primitivi” sono quindi fermi a un periodo
precedente. Questa concezione giustifica il colonialismo, in quanto i rappresentanti del mondo
occidentale sono superiori e avanzati, mentre tutti gli altri sono come bambini, che vanno educati.
Nel novecento si ha un mutamento, portando a un concetto pluralista e relativista di cultura. Lo
sviluppo della ricerca sul campo insieme al crollo di molte idee positiviste dell’ottocento, fa
dell’antropologia uno strumento di critica all’etnocentrismo. All’idea di gerarchia piramidale si
sostituisce quella di un mondo suddiviso in un’incredibile pluralità di culture diverse e di uguale
dignità. Da qui il principio del relativismo culturale: non si possono formulare giudizi al di fuori del
contesto culturale.
Antropologi come Levi-Strauss e Herkovits riconoscono l’universalità dell’atteggiamento
etnocentrico, ma vedono come progresso culturale la capacità di tenerlo a freno, promuovendo il
dialogo tra culture diverse e l’abolizione di discriminazioni. Per Levi-Strauss barbaro è anzitutto chi
crede nelle barbarie.
Il termine usato oggi per definire gruppi umani con differenze più profonde da quelle
politiche, è etnia. Il termine deriva dal greco ethnos che indica un gruppo di individui distinto da
caratteristiche comuni. In greco veniva usato in modo discriminatorio, e con questo intento arriva al
cristianesimo e alla civiltà occidentale. Solo a partire dall’ottocento si afferma in senso neutrale.
Oggi lo usiamo in senso antropologico, definendo come etnia un popolo caratterizzato da lingue,
costumi, religione, etc, uguale, ma lo carichiamo anche di un senso discriminatorio, in quanto i cibi,
vestiti, etc, etnici sono sempre quelli altri. Spesso si finisce con il considerare l'appartenenza a una
etnia-cultura come una proprietà statica e immutabile. L’antropologia è colpevole di questa
essenzializzazione, avendo a lungo fornito un’immagine divisionista delle culture e delle etnie,
parlando spesso come di comunità ristrette e compatte, ignorando gli elementi di continuo
mutamento e scambio con i vicini. Ammesso e non concesso che questo modello fosse adeguato
agli studi antropologici del passato, oggi è quantomai superato. Oggi infatti l’antropologia critica
quei concetti di cultura, etnia, identità.
La tendenza all’essenzializzazione dei termini etnici e culturali rischia di avvicinare il
concetto a quello antico di razza, e a portare nuove forme di razzismo. L’essenzialismo culturale è
teorizzato in alcune forme odierne di pratica neo-razzista, in quello che viene definito razzismo
differenzialista o fondamentalismo culturale. Oggi è infatti impensabile parlare di razzismo come
in passato, ma si parla di differenze culturali ed etnie. Sulla base dell’accettazione di culture
differenti, si sostiene che queste culture non debbano essere mescolate. Questo fa riferimento anche
ad alcune formule di Levi-Strauss, per il quale la diversità culturale va preservata a tutti i costi,
quindi favorire il dialogo, ma preservare identità e confini.
Per questo oggi è difficile riconoscere il razzismo. Lo studioso Taguieff individua tre
atteggiamenti intellettuali e tre tipi di pratiche come denominatori comuni dell’ideologia e del
comportamento razzista. La prima è “la categorizzazione essenzialista degli individui, che implica
la riduzione dell’individuo allo statuto di un qualsiasi rappresentate del suo gruppo di
appartenenza”. In poche parole, un giudizio aprioristico basato sulla nascita di una comunità, basato
principalmente su stereotipi. La riduzione degli individui a “essenze” è una pratica diffusa in molti
ambiti, perché diventi carattere razzista occorre sia in gioco anche un’asimmetria di potere. Ossia,
l’essenzializzazione di una categoria debole da parte di individui privilegiati che vedono in loro una
minaccia.
Il secondo denominatore del razzismo per Taguieff è la stigmatizzazione. Una volta
categorizzati, gli individui subiscono un processo di esclusione simbolica, imperniato
sull’attribuzione degli stereotipi negativi. Il “nemico” viene disumanizzato, reso quasi un animale.
Il terzo elemento è la barbarizzazione, cioè la convinzione che certe categorie di esseri umani non
siano civilizzabili.
Dal punto di vista pratico, Taguieff individua tre tipi di azioni legate alle precedenti
condizioni, sebbene non ne siano la conseguenza diretta. Si parla di discriminazione, segregazione,
espulsione, seguite da forme dirette di persecuzione e infine dal genocidio.
D’altra parte, anche l’antirazzismo rischia di usare gli stessi strumenti ideologici
dell’avversario, ma anche di riprodurre gli stessi sistemi di essenzializzazione, stigmatizzazione e
barbarizzazione nei confronti dei razzisti. L’antirazzismo finisce col costruire un nemico astratto e
assoluti, il razzista, in una sorta di scontro del Bene contro il Male.
Inoltre, nelle indagini volte a scoprire il razzismo dissimulato, esso viene scoperto in
praticamente qualsiasi tipo di discorso. In pratica si scatena una caccia al discorso razzista senza
stabilire in anticipo i requisiti minimi per non essere definiti razzisti. Ciò porta al rischio di non
saper distinguere diversi livelli di pregiudizio. Non si possono porre sullo stesso piano
etnocentrismo e razzismo, i pregiudizi del linguaggio e gli enunciati volontariamente e
aggressivamente discriminatori.

Capitolo 3
Nel libro Noi, primitivi l’antropologo Francesco Remotti propone una rilettura della storia
della filosofia a partire dal problema della diversità culturale. Fin dall’epoca classica, osserva, il
tentativo di definire la ragione umana cercava di ignorare le diversità di costumi e culture. Da
Platone a Kant, il cammino per rivelare l’essenza della ragione è un “giro breve”, una riflessione
che il pensiero svolge su se stesso. Conoscere gli altri non è importante, anzi può essere di ostacolo,
come esplicita Kant parlando degli indigeni di Tahiti che, sebbene felici, sono selvaggi e pertanto
senza scopo.
Ma nella storia della filosofia ogni tanto si fa spazio un diverso atteggiamento, che Remotti
chiama giro lungo, che parte dal confronto con le diversità, l’idea che per capire la nostra ragione
bisogna ampliare lo sguardo, passare attraverso ciò che non ci è familiare. Sono stati i viaggi e le
scoperte geografiche a nutrire queste riflessioni, come la scoperta degli Indios americani. Il
pensatore che più di ogni altro ha trattato questo tema è stato Montaigne, nel 1500. Nel saggio Sui
cannibali smonta la tesi che vede i cannibali come barbari, ma anzi ne ricava l’idea di una pratica
culturale organica, priva di furore bestiale. Coglie la morale dell’atto di divorare parti dei nemici
uccisi in combattimento, mettendo questa pratica in contrapposizione con quelle occidentali che
infliggono pene e torture a uomini ancora vivi. Riconosce quello che oggi chiamiamo
etnocentrismo, ossia che ognuno riconosce come barbare quelle usanze che non gli appartengono.
Quindi quello che ci pare come verità assoluta è in realtà frutto della consuetudine, altro tema su
cui Montaigne dedica un intero saggio. Ognuno cresce circondato da questa consuetudine, e non
può che adeguarcisi. Ma se tutto è consuetudine, come ci si può sottrarre per giungere a una visione
più aperta? Questo è il paradosso del relativismo.
L’antropologia sta ovviamente dalla parte del giro lungo. La storia dell’antropologia è la
tensione tra un atteggiamento scientifico positivista che tuttavia si mette confronta con le
problematiche del “giro lungo”. In questo mettersi alla prova, l’antropologia si rapporta con la
sensibilità relativistica del ventesimo secolo. La cultura novecentesca tende allo scuotimento di
vecchie certezze, e anche l’antropologia non è da meno, affascinata dal tema del “primitivo dentro
di noi”. In questo clima si diffondono pensieri apertamente critici verso il positivismo e la credenza
secondo cui la coscienza si svilupperebbe su base induttiva, ossia quella credenza per cui i dati della
realtà sono assimilabili in modo diretto e quindi associati per ricavarne generalizzazioni e leggi. Le
filosofie novecentesche invece insistono sui processi attraverso i quali la realtà diventa esperienza.
La filosofia della scienza, a partire dagli anni ‘30, abbandona l’idea di una razionalità
induttiva, e sottolinea il rapporto tra fatti e teorie. Nel pensiero novecentesco il rapporto tra
razionalità scientifica e diversità antropologica si vanno invertendo. La filosofia abbandona la
ricerca di una perfetta corrispondenza con la realtà, e si concentra su una visione pratica della
razionalità stessa. È questa la visione che è stata chiamata del relativismo epistemologico. Non si
tratta di affermare che la verità o la realtà oggettiva non esistono, piuttosto di non pretendere di
possedere a priori criteri universali di razionalità prima di accostarci alle diverse culture.
Il problema che viene posto è se nel tentativo di capire le altre culture possiamo fare a meno di
alcuni criteri minimi di razionalità. Ci deve essere una sorta di ponte interculturale non sottoposto a
variazioni locali o storiche, che permettono la comunicazione. I relativisti rispondono che la
comprensione avviene su basi pratiche e non sulle teorie. Per Winch, la comprensione
antropologica deve mostrare la stregoneria, la religione e la scienza come diverse possibilità di dare
un senso al mondo e alla vita.
Questo è il relativismo epistemologico o cognitivo, che riguarda le forme della conoscenza.
Il termine relativismo viene usato dai sostenitori della razionalità cognitiva assoluta contro chi
vuole ricondurre la razionalità a condizioni storico-culturali. Serve a sottolineare il rischio di
immaginare diverse realtà quante sono le culture.
Un tipo di relativismo sostenuto in modo consapevole è quello etico, sostenuto da Franz
Boas e dai suoi allievi, a sostegno della tolleranza e dell’eguaglianza dei popoli non occidentali. Nel
1960 Melville Herkovits diceva, sul relativismo culturale, che certi principi come bello e brutto,
giusto e sbagliato, etc, vengono assorbiti fin dall’infanzia, e che i fatti del mondo sono visti
attraverso la cultura, così che la realtà passa dalle convenzioni di ogni singolo gruppo. Herskovits
elaborò un documento da sottoporre all’ONU in cui affermava che ogni individuo realizza la
propria personalità all’interno e attraverso la propria cultura, e che i suoi costumi e valori derivano
dalla sua cultura, che deve essere rispettata al di là delle differenze. Una dichiarazione dei diritti non
etnocentrica deve riconoscere il diritto di pensare secondo la propria cultura. Questo documento non
venne approvato dall’ONU.
Levi-Strauss negli anni ‘50 viene incaricato di scrivere una critica dell’ideologia razzista,
da cui nasce Razza e storia. L’antropologo sostiene che, una volta abbandonate le ideologie razziste,
ci troviamo ancora di fronte alle differenze delle culture. Per Levi-Strauss la diversità si concilia
con l’uguaglianza tra esseri umani in quanto l’umanità si realizza attraverso e non malgrado le
diversità culturali. Il progresso è infatti frutto della fecondazione tra culture diverse. Per lui però il
più grande pericolo della società contemporanea è l’omologazione culturale, cosa che lo porterà a
scontrarsi con l’UNESCO e con le proprie precedenti posizioni, riabilitando l’etnocentrismo come
unico metodo di salvaguardia delle identità culturali.
Le visioni di Herskovits e Levi-Strauss sono quelle che abbiamo definito essenzialiste, in
quanto ci presentano le culture come entità stabili e definite che impongono valori e comportamenti
ai loro membri, con il paradossale effetto di deresponsabilizzarli rispetto alle loro scelte. La
sensibilità antropologica odierna non si riconosce in questa visione. Tuttavia, nella critica di
Herskovits e Levi-Strauss, si deve continuare a prendere in considerazione la sorveglianza critica
dell'antropologia nei confronti delle tendenze etnocentriche delle dichiarazioni dei diritti, che
continuano a vedere l’uomo bianco occidentale come portatore del fardello di dover civilizzare gli
altri popoli. Sembra che il discorso umanitario sia più interessato a un’idea astratta di diritto che
non alle specifiche persone coinvolte.
Come nella pratica delle mutazioni genitali femminili, non si cerca di comprendere le
intricate manovre sociali che portano una donna a imporre questo dolore alla propria figlia pur di
permetterle di inserirsi nella società, ma vengono solamente barbarizzate e penalizzate.

Capitolo 4
Gli antropologi vittoriani non facevano ricerca sul campo. Nei loro saggi, si basavano sui
racconti di mercanti, missionari e viaggiatori vari. Il testo più famoso a questo riguardo è Il ramo
d’oro di Frazer, che parte da una teoria molto semplice: l’umanità primitiva è dominata da un
pensiero magico, basato sulle leggi dell’associazione di idee, similarità e contatto. Si basa su esempi
tratti dalla letteratura classica, dal folklore contadino e da vari resoconti etnologici, ed è in costante
aggiornamento, aggiungendo negli anni sempre nuovi casi ed esempi. Per quanto lui porti questi
esempi come prove, la sensibilità etnografica moderna è colpita dalla decontestualizzazione di
questi esempi. Senza il contesto, questi esempi non ci dicono nulla sulla società in analisi, quanto
sui pregiudizi europei. Oggi questi resoconti sono ingenui e inutilizzabili etnograficamente.
Tuttavia, la definizione di “antropologia da tavolino” non è del tutto giusta. Alcuni studiosi
erano in contatto con ampie reti di informatori sul campo, ai quali chiedevano resoconti specifici.
Per loro però l’etnologia descrittiva e quella comparativa dovevano essere tenute distanti, per
evitare pregiudizi e contaminazioni.
Con il ventesimo secolo si diffonde una diversa sensibilità, che mette in dubbio il momento
della raccolta dei dati e della produzione delle fonti. Si comincia a pensare che per cogliere ciò che
è importante ci sia bisogno di una specifica preparazione. Osservazione e interpretazione non sono
più separabili. Si comincia a delineare negli anni venti una figura che è teorico e ricercatore sul
campo. Negli USA la scuola di Franz Boas pratica l’indagine diretta presso gruppi di nativi
americani, mentre in Inghilterra si sviluppa attorno a Cambridge una scuola di ricerca intensiva in
aree limitate.
La nuova concezione trova la sua massima espressione in Malinowski, che trascorse lunghi
periodi di studio nell’arcipelago malesiano delle Trobriand. Visse all’interno del villaggio,
documentandosi sulla vita quotidiana dei nativi. Il suo libro Argonauti del pacifico occidentale
divenne un vero e proprio manifesto di questo nuovo modo di fare ricerca.
Gli aspetti fondamentali del metodo Malinowski sono il decentramento e il coinvolgimento
personale, quella postura che lui chiama osservazione partecipante. Bisogna per questo isolarsi dai
bianchi, e condividere con i nativi la quotidianità. Non si tratta solo di procurarsi informazioni
oggettive, ma di creare un rapporto empatico con i nativi.
Conseguenza di ciò è quella che è stata chiamata la natura olistica della rappresentazione
etnografica: una cultura deve essere osservata come un tutto. Non si può studiare la religione
separatamente dall’economia, etc.
Argonauti del pacifico occidentale è il paradigma di un nuovo genere di testo antropologico,
la monografia etnografica, un testo incentrato sul rapporto tra ricercatore e una cultura specifica.
In Argonauti la cultura trobriandese è descritta a partire dalla pratica del dono cerimoniale (il kula),
ma da questo aspetto analizza tutti gli aspetti della società. Nell’etnografia vediamo insieme il
rapporto empatico che si crea con i nativi, con l’esposizione scientifica del ricercatore.
Tutto il tipo di ricerca proposto da Malinowski diventerà da quel momento lo standard fino agli anni
‘70. I maggiori studiosi anglofoni di quel periodo hanno praticato studi simili, rimanendo legati a
uno specifico popolo (Mead e i samoani, Evans-Pritchard agli azande, etc) e in qualche modo
salvaguardandone l’unicità attraverso la registrazione etnografica. Ogni singolo ricercatore può
comprendere davvero solo il popolo in cui si è immerso, ma la somma di tante indagini forma una
sorta di banca dati universale. La dimensione comparativa può così tornare in primo piano,
confrontano tra loro interi sistemi culturali. Con un progetto fondato negli anni ‘30 da Murdock,
Human Relations area files, si mettono insieme i dati statistici di tutte le culture studiate,
codificandoli sotto un sistema decimale.
Fin’ora abbiamo parlato di Stati Uniti e Inghilterra. Nell'Europa continentale la Francia
sviluppa la più importante scuola di etnologia, sotto la guida di Marcel Mauss, che, sebbene non
fosse un ricercatore sul campo, scrisse un Manuale di etnografia pieno di nozioni e strumenti per i
raccoglitori sul campo. I suoi allievi hanno dato vita a una nuova tradizione etnografica, iniziata con
la missione Dakar-Gibuti volta ad attraversare le colonie africane francesi dalle coste dell’Oceano
Atlantico a quello Indiano, con lo scopo di raccogliere informazioni e oggetti della cultura africana.
Il viaggio si svolse negli anni ‘31-’33, sotto la guida di Marcel Griaule, allievo di Mauss.
Dopo la spedizione Griaule intraprese uno studio intensivo della popolazione Dogon,
interessandosi dapprima alle maschere e quindi al loro sistema mitico e cosmologico. Il suo
approccio a questo studio è diverso da quello che abbiamo già visto, in quanto lui si pone come
allievo e lascia al saggio locale il compito di spiegare la filosofia del suo popolo. Il suo libro più
famoso, Dio d’acqua è infatti un’opera dialogica.
Nel corso del novecento si crea un divario tra il lavoro sul campo in stile angloamericano e
le tradizioni di ricerca sulle culture contadine dei paesi europei. In Germania e in Italia nasce
l’interesse verso il folklore locale, concentrato dapprima sulla tradizione orale di canti e fiabe, poi
sugli usi e costumi della vita quotidiana. Il lavoro sul campo in stile malinowskiano si discosta
sempre più dallo studio folkloristico. Ci troviamo dunque di fronte a tradizioni nazionali che non
influenzano il dibattito internazionale, complice anche la difficoltà di distribuzione in lingue non
anglofone.
Tra gli anni ‘60 e ‘80 del novecento comincia un cambiamento negli studi antropologici,
complice la progressiva decolonizzazione dei paesi oggetto di ricerca e del loro desiderio di
divenire non più soggetti silenti ma di ottenere il diritto di parlare per sé. Anche gli antropologi
cambiano, acquisendo consapevolezza del loro ruolo politico e della complessità degli studi. Il libro
I dannati della Terra, dello psichiatra Frantz Fanon, sostiene che l’ordine coloniale può essere
superato solo con una rottura violenta e con il disfarsi dei saperi che l’occidente ha imposto ai paesi
colonizzati, saperi che li riducevano a culture primitive.
Cambia anche il modo di scrivere le etnografie. Alla monografia in tono impersonale in cui
gli informatori sono indicati generalmente come il loro popolo, si sostituiscono testi interamente
dedicati a singoli informatori, analizzati per le loro peculiarità personali più che per la loro cultura.
Si diffondono testi dialogici. A questo corrisponde una svolta riflessiva che sottolinea la complessità
del rapporto tra esperienza di ricerca e scrittura etnografica. Questo comincia a partire dalla
pubblicazione postuma del diario di Malinowski, che presenta la sua esperienza in maniera molto
diversa. Il Malinowski del diario vive un profondo e angoscioso senso di spaesamento culturale,
ossessionato dalla solitudine, depresso e spesso infuriato. Il diario mette in luce la finzione dei testi
etnografici, la loro costruzione letteraria.
Gli antropologi quindi si rendono conto che il loro lavoro non è diverso da quello del
romanziere. Questa prospettiva, maturata nell’antropologia interpretativa, viene assunta negli
anni ‘80 a partire dal libro-manifesto Writing Culture (scrivere le culture), di Clifford e Marcus.
Vogliono rileggere lo stile malinowskiano come una forma di scrittura etnografica realista, in cui
viene usato il presente etnografico, si nasconde l'autore, etc. Dalle mancanze di questo stile nascono
le etnografie riflessive, che puntano sull’emotività del ricercatore, etnografie dialogiche,
polifoniche, testi narrativi o poetici.
La ricerca antropologica oggi coinvolge troppe possibilità ed è difficile tracciarne un quadro
preciso, ma ha dei tratti comuni. Se la decolonizzazione ha comportato una rivoluzione dell’oggetto
etnografico, la globalizzazione ne ha sancita la scomparsa. Gli antropologi ora devono studiare la
loro stessa casa e quella degli “altri”, che non sono più l’oggetto specifico della disciplina. Oggi si
parla spesso di antropologie multisituate, per indicare una pluralità di prospettive. Per non parlare
dello studio delle comunità su internet, che non hanno un vero e proprio luogo, e per cui è stato
coniato il termine nethnografy.
Cosa importante, sono nate le “antropologie indigene”, ossia le culture che si studiano da
sole antropologicamente, con gli antropologi “interni” che evidenziano gli errori degli “esterni”.
Alla ricerca pura si affianca una ricerca applicata, con progetti di cooperazione internazionale in
diversi campi, dall’economia alla medicina, con obbiettivi pratici. Anche la ricerca “pura” si fa
guidare dall’“uso pubblico”, concentrandosi sui possibili contributi dell’antropologia ai grandi
problemi del nostro tempo.

Capitolo 5
L’antropologia culturale nasce e prospera in rapporto con la teoria dell’evoluzione,
ritenendosi in diretta continuità con la biologia. L’evoluzionismo antropologico ha l’obbiettivo di
risalire indietro nel tempo, alla scoperta dell’origine delle forme culturali odierne. Per riempire i
buchi del passato, per gli studiosi dell’ottocento la risposta era il metodo comparativo: accostare
dati incompleti provenienti da luoghi e momenti diversi per integrarli come parte di un unico
disegno. Questa soluzione vede come presupposto il principio uniformista, per la quale l’evoluzione
segue sempre lo stesso percorso. Soprattutto, il presente sembra costellato di elementi del passato,
che vengono chiamati dagli studiosi sopravvivenze. La caccia alle sopravvivenze è affascinante:
immaginando origini arcaiche, spesso di natura magico-rituale, si risemantizza il presente.
Un esempio è la teoria di Tylor sulla religione. Dopo aver notato che il concetto di religione è
presente in tutte le culture, si possono affiancare e vedere i lati comuni. Hanno molte differenze, ma
tutte credono nell’anima. Quindi in tutte le religioni deve esserci stata una fase animistica, poi
sviluppatasi nelle religioni che conosciamo.
Oggi questo tipo di ricerca ci sembra etnocentrica, visto che lo stadio finale dell’evoluzione
è quello della civiltà borghese occidentale.
A cavallo tra ottocento e novecento nascono gli indirizzi di ricerca diffusionisti, che
vogliono cercare le origini dei fatti culturali ma in modo meno ipotetico, attraverso prove
documentate. Gli evoluzionisti credono nella poligenesi, ossia la nascita di fatti culturali simili in
aree diverse, mentre i diffusionisti credono nella monogenesi, ossia se c’è un tratto comune in aree
lontane, bisogna risalire al punto comune di irradiazione. Anche Franz Boas e l’antropologia
americana di inizio novecento puntano su ricostruzioni diffusioniste, favorendo un approccio
idiografico, cioè concentrato su casi specifici e volto a ricostruire i processi di formazione dei tratti
culturali. Per questo la sua scuola verrà chiamata di particolarismo storico.
La dimensione collettiva e sociale della cultura sta al centro del lavoro della scuola di
Durkheim, che verrà detta sociologica e annovererà nomi come Mauss, Hertz e Hubert. L’assunto
di Durkheim è che la società è più della somma degli individui e funziona secondo meccanismi
oggettivi di cui non sempre gli attori sociali sono consapevoli. Non sono i pensieri e desideri degli
individui a determinare la società, ma, al contrario, è questa che modella i pensieri degli individui. A
mediare tra società e individui è la coscienza collettiva e le rappresentazioni collettive. Credenze o
modi di sentire comuni ai membri di una società che non sono acquisite attraverso l’esperienza ma
fondano l’esperienza stessa. Sono di questo tipo le rappresentazioni religiose, come possiamo
vedere ad esempio nel saggio del 1903 di Mauss e Hubert sul mana, ossia la convinzione in
Malesia di una forza o potere impersonale che pervade tutto. Grazie a questa nozione la realtà della
magia è fuori discussione, presente a priori di qualsiasi esperienza. Si tratta di una categoria di
pensiero collettivo, che influenza il pensiero individuale.
Al tema della religione Durkheim dedica una sua grande opera, Le forme elementari della
vita religiosa, in cui analizza la religione a partire dalla contrapposizione tra sacro e profano. Il
sacro, ritiene, si distingue per il fatto di riferirsi a esperienze collettive e sociali. Nel lavoro di
Durkheim svolgono un ruolo importante le religioni totemiche degli aborigeni australiani. Il culto si
indirizza verso un totem nel quale si riconosce l’antenato originario del clan, una personificazione
della collettività.
L'antropologia britannica è la prima a rompere con i precursori evoluzionisti e a ridefinirsi
come antropologia sociale, dedita allo studio della società come un sistema complesso in cui ogni
parte ha una specifica funzione nei confronti del tutto. Questo orientamento teorico prende il nome
di funzionalismo. Di fronte a un fatto culturale non ci si chiede più come ha avuto origine, ma a
cosa serve in relazione con gli altri.
È in particolare Radcliffe-Brown a dire che l’antropologia non si occupa di individui
astratti definiti dai propri bisogni naturali, ma di persone concrete in società particolari. Radcliffe-
Brown riprende Durkheim nel considerare la società come una totalità organica, in cui il concetto di
funzione ha significato solo in rapporto alla continuità della struttura sociale.
Il metodo di Malinowski e la teoria di Radcliffe-Brown, combinati, risultano vincenti. Tra
gli anni ‘30 e ‘60 molti studiosi si dedicano a gruppi di piccole dimensioni caratterizzati
dall’assenza di uno stato moderno. Si chiedono come sia possibile la coesione sociale senza uno
stato giungendo alla conclusione che è questo il ruolo delle istituzioni culturali, anche di quelle
apparentemente più lontane dalla pratica politica. Il compito degli antropologi è mostrare questa
funzione nascosta. Lo studioso più rappresentativo di questi anni è Evans-Pritchard. Nella sua
prima opera studia la stregoneria presso gli Azande, che attribuiscono l’origine di ogni disgrazia
alla stregoneria, una forza malefica che un individuo, volontariamente o meno, rivolge a un altro. Il
responsabile dell’atto malefico viene individuato da pratiche divinatorie largamente riconosciute
anche dagli accusati, che accettano di compiere azioni riparatorie. Evans-Pritchard dimostra due
punti: il primo è che non vi è nulla di irrazionale in questa credenza. Il secondo è che la stregoneria
è insieme un modo di interpretare e fronteggiare la conflittualità sociale. Grazie a questi processi la
reciproca aggressività fra soggetti in conflitto viene incanalata istituzionalmente e trova valvole di
sfogo legittimate.
Nella monografia sui Nuer, invece, Evans-Pritchard affronta il tema di un’anarchia ordinata.
I Nuer si suddividono in gruppi di parentela con un antenato comune, non legati ad alcuna autorità
centrale. Pur senza questa autorità, la società non si disgrega, in virtù di un sistema segmentario
nel quale alleanza e conflitto si delineano su diversi livelli di profondità genealogica.
A partire dagli anni ‘50 il funzionalismo viene sostituito dallo strutturalismo, che più che
una teoria è uno stile di pensiero. In antropologia è legato al nome di Levi-Strauss, che nel 1949
scrisse il libro Le strutture elementari della parentela. Nell’affrontare la varietà delle forme di
parentela e, successivamente, dei racconti mitologici, Levi-Strauss non si limita a classificarli, ma
cerca di scoprire il principio che li genera. Parte dall’analisi strutturale del linguaggio: impariamo a
parlare grazie a un meccanismo generativo presente a priori dell’esperienza, matrice di tutti i
linguaggi possibili. Levi-Strauss si propone di trattare la cultura come un linguaggio che comunica
attraverso gli elementi dell’esperienza umana. Ciascun campo dell’esperienza sociale viene ordinato
dalla cultura in precise configurazioni: le strutture. Non strutture sociali, ma come categorie dello
spirito umano. Nel caso della parentela, la diversità dei sistemi esistenti si può ridurre a un unico
principio: alcuni matrimoni sono consentiti, altri no. Ad esempio è universale il divieto di incesto,
che viene chiamato struttura elementare.
Per Levi-Strauss la basilare contrapposizione di cui parla ogni sistema culturale è quella fra
natura e cultura: la separazione dell’umanità dallo stato di natura è la nascita della cultura. Negli
anni ‘60, studiando i miti degli indigeni dell’Amazzonia, si propone di analizzarli come costruzioni
logiche. Un singolo mito può non essere sufficiente come unità di analisi: le classificazioni logiche
che lo generano in genere emergono analizzando un intero corpus di varianti. Bisogna anche tenere
conto del fatto che un elemento non rappresenta mai qualcosa di per sé, ma solo in rapporto a
qualcos’altro.
Per lo strutturalismo, il significato della cultura non può essere colto dagli attori sociali, ma
solo dall’esterno. Questo lo accomuna col marxismo, una corrente teorica che si fa spazio alla fine
degli anni ‘60. Per il marxismo bisogna andare oltre la superficie delle produzioni culturali per
cogliere le oggettive realtà sottostanti, che consistono nello sviluppo storico delle relazioni tra classi
sociali. Gli studiosi marxisti si concentrano sullo studio degli aspetti economico-politico delle
società tradizionali cercando di ricondurli a modelli di produzione pre-capitalistici. Il marxismo
sviluppa semmai un’altra riflessione: un ripensamento della natura del sapere antropologico alla
luce del suo rapporto con il colonialismo. I problemi delle diversità culturali si rivelano così
determinati dalla diseguaglianza nei rapporti di dominio che l’occidente stabilisce con gli “altri”.
Come altro indirizzo dell’antropologia abbiamo poi l'approccio interpretativo, affermatosi
sul finire del novecento a partire dal lavoro di Geertz con il testo Interpretazione di culture. Si
oppone ai principi di strutturalismo e marxismo: riparte dal particolarismo storico di Boas e
dall’obbiettivo conoscitivo di Malinowski, per capire il significato delle azioni. Il concetto del
significato è fondamentale. Capire il significato è un lento processo per tentativi portato avanti con
leggerezza e sensibilità. In questo senso parliamo di interpretazione.

Capitolo 15
La parentela è il livello più basilare nell’organizzazione delle relazioni sociali. Le regole
dell’appartenenza familiare riguardano ogni individuo fin dalla sua nascita, e tutte le altre forme di
relazione vengono dopo. Però, la loro vicinanza al piano dell’esistenza biologica, non rende la
parentela un’istituzione naturale.
L’analisi antropologica ci costringe a uno straniamento. Tutti viviamo all’interno di sistemi
familiari e li diamo per scontati, ma in altre culture vengono usati i gradi di parentela in modo
diverso, ad esempio tutti gli zii paterni sono chiamati padre. Per gli evoluzionisti ottocenteschi,
queste definizioni non erano ancora pienamente sviluppate o complete. Ma ovviamente non c’è
nessun criterio neutrale che permetta di valutare la completezza di una definizione. Si tratta
piuttosto di diversi modi di concepire i rapporti e i sentimenti di parentela. In ogni specifica società
la parentela poggia su “relazioni primarie” radicate nelle istituzioni quanto nell’intimo
dell’individuo e ne definiscono l’identità. In pratica, l’ombra dell’etnocentrismo si proietta
sull’intero campo di studi della parentela, rischiando di applicare le nostre definizioni a culture
diverse. David Schneider ha scritto negli anni ‘70 che la parentela sta solo nella testa degli
antropologi. Infatti vediamo in un suo studio nell’isola di Yap, in Micronesia, come qui ci sia un
sistema similare al rapporto tra padre e figlio, tra citimangien e fak, ma che non è collegato a
rapporti di sangue quanto sull’interazione e sul fare.
La parentela è stata trattata come un sistema di legami tra persone che poggia su tre tipi di
relazione: discendenza, collateralità e affinità. La discendenza indica relazioni di filiazione, la
collateralità quelle tra individui che hanno antenati in comune (fratelli, cugini, etc) e l’affinità
indica i legami acquisiti tramite matrimonio. I sistemi di parentela possono essere unilaterali o
bilaterali (in cui si riconoscono gli ascendenti sia da lato paterno che materno). I sistemi bilaterali
vengono talvolta erroneamente equiparati a quelli cognatici, nei quali la discendenza può essere
definita sia dal lato materno che paterno sulla base di fattore esterni come, ad esempio, la residenza.
I sistemi unilaterali invece seguono solo la discendenza paterna – patrilineare – o materna –
matrilineare.
In molte società agricole o pastorali la discendenza unilaterale costituisce un “gruppo
corporato", un insieme di persone che convivono, si trasmettono di generazione in generazione beni
e diritti, rappresentano un’unità socio-economica.
Comunemente un gruppo fondato sulla parentela viene detto lignaggio, mentre un insieme
di lignaggi che si riconoscono in un unico antenato mitico sono detti clan. L’antropologia classica
ha attribuito grande importanza ai lignaggi, considerati la base naturale della società. Oggi questa
visione è messa in discussione: molti esempi etnografici mostrano che i gruppi corporati si
costituiscono anche sulla base di criteri diversi dalla parentela.
La discendenza matrilineare è diversa dal matriarcato: per matriarcato si intende una
ipotetica fase originaria della società umana caratterizzata dal potere femminile. Nella discendenza
matrilineare la prole appartiene al gruppo di parentela della donna, nel quale l’autorità familiare e
politica è comunque detenuta dagli uomini.
Nel classificare le forme di parentela grande importanza è data ai sistemi terminologici, cioè
al modo in cui una cultura definisce i diversi legami di parentela. Lewis Mogan, precursore
ottocentesco di questi studi, aveva distinto due tipi di terminologia: quella descrittiva, in cui ogni
grado ha un termine diverso, e quella classificatoria, che ripartisce i parenti in classi contrassegnate
da un unico termine. Gli studi novecenteschi hanno finito con l’accordarsi su una più complessa
classificazione basata sulla combinazione di otto criteri (i criteri di Kroeber): la generazione, il
genere, la distinzione tra consanguinei e affini, la distinzione tra consanguinei diretti o collaterali, la
distinzione tra parenti materni e paterni e tra le loro età, la distinzione parallelo/incrociato, la
condizione in vita o meno del parente. Diversamente combinati, questi criteri darebbero vita a sei
tipi fondamentali di terminologie, ossia i sistemi: eschimese (distingue i fratelli dagli altri
collaterali, come i cugini, e i genitori dagli zii), hawaiano (non distingue i gradi di parentela
all’interno di una stessa generazione), irochese (accomuna genitori e zii, ma distingue i cugini
incrociati e paralleli), crow (tipico delle società matrilineari, fonde madre e sorelle, padre e fratelli,
e tutte le figure maschili della famiglia materna), omaha (patrilineare e speculare al precedente),
sudanese (usa termini diversi per ogni singolo parente, distinguendo anche per sesso, generazione e
per tutti gli altri criteri di Kroeber).
Alla fine degli anni ‘40 Levi-Strauss propose un discorso completamente diverso,
imperniandolo sul principio di reciprocità che struttura le alleanze matrimoniali. Quindi le due
maggiori teorie della parentela nell’antropologia classica riguardano se la parentela ha la sua
essenza nella discendenza oppure nell’alleanza.
La teoria della discendenza si sviluppa negli anni ‘20, supportata da autori come Evans-
Pritchard. La teoria dell’alleanza è appunto quella introdotta da Levi-Strauss con Le strutture
elementari della parentela, per il quale l’elemento essenziale della vita sociale è la reciprocità, che
si trova principalmente nello scambio matrimoniale. Levi-Strauss definisce “elementari” le regole
matrimoniali che definiscono le persone con cui una persona si può sposare, mentre sono
“complesse” delle regole con alcune generali interdizioni e che portano la scelta del matrimonio
sulla base di criteri esterni alla parentela. Secondo questo punto di vista, i sistemi di denominazione
di parentela sono la conseguenza di specifiche regole matrimoniali.
Queste due teorie condividono un presupposto: la parentela è una forma culturale autonoma
e primaria.
L'antropologo britannico Leach sostenne che la parentela non rappresenta mai una categoria
a sé stante, ma che le norme che la regolano sono intrecciate con il potere e gli interessi economici,
tanto da giungere ad affermare che ciò che gli antropologi chiamano parentela non è che un modo
per parlare di proprietà.
Un altro presupposto in comune alle due teorie è il ruolo passivo attribuito alle donne, che
appaiono come semplici oggetti di scambio in strategie di parentela controllate dagli uomini. La
loro funzione riproduttiva le confina in casa e impedisce loro l’accesso alla sfera politica.
Fin dall’ottocento, l’antropologia aveva usato l’espressione per riferirsi a un sistema
religioso diffuso tra gli aborigeni australiani centrato sul culto di un antenato come a un clan
identificato da un animale e connesso a regole esogamiche. In un volumetto del ‘62, Levi-Strauss
aveva cercato di dimostrare che il totemismo in realtà non esiste, ma è solo il tentativo degli
antropologi di conferire coerenza a un insieme di pratiche e pensieri dei nativi. Il fulcro di questi
pensieri non era una “credenza” bensì un pensiero logico volto a classificare insieme il mondo
naturale e sociale.
Ora Schneider cerca di fare la stessa cosa con la parentela, mettendo in guardia gli
antropologi dal rischio di assumere i presupposti della parentela occidentale come sua realtà ultima
e profonda, considerando le altre ideologie come variazioni o deviazioni.
Questa teoria prese il sopravvento nei decenni successivi, portando a liquidare la teoria
classica funzionalista e strutturalista. D’altra parte, se la parentela non esiste non vuol dire che non
esistano i fenomeni che la teoria classica cercava di comprendere, e quindi gli studi su questi
elementi hanno continuati ad esserci, anche se con diverse parole chiave. Sono emersi in primo
piano i temi del genere, della costruzione sociale della persona, delle emozioni.
Un particolare interesse si sviluppa per le ontologie locali, i modi in cui nelle diverse culture
viene inteso il concepimento, la natura della discendenza, etc.
Alcuni etnografi si son trovati a sostenere che i popoli indigeni vivono letteralmente in una
realtà diversa rispetto quella dei popoli occidentali: non hanno altre visioni del mondo, ma
costruiscono in modo diverso la realtà. Un approccio che è stato chiamato prospettivismo o
multinaturalismo o come svolta ontologica dell’antropologia.
Su questo tipo di lavori si è basato Marshall Sahlins per proporre una teoria universalista
della parentela. A suo parere esiste un carattere fondamentale della parentela che giustifica le
diverse forme nelle culture umane. Non è basato sull’idea occidentale di consanguineità, ma sulla
reciprocità dell’essere, una nozione che può essere fatta risalire ad Aristotele ma che trova
soprattutto esempi etnografici nelle più diverse culture.
La proposta di Sahlins ha suscitato critiche, in particolare per la disinvoltura nell’uso degli
esempi etnografici e per la vaghezza del concetto di reciprocità dell’essere, che potrebbe essere
applicato a così tante relazioni da svuotarlo da ogni significato.
Una riflessione sul ruolo delle donne e i rapporti di genere si comincia a diffondere dagli
anni ‘70, e si possono distinguere almeno tre direzioni del dibattito antropologico al riguardo: il
“problema delle donne” nella ricerca etnografica, il problema della costituzione socio-culturale
delle differenze di genere e l’analisi del dominio maschile e della violenza simbolica.
“Problema delle donne” è l’espressione per indicare l’assenza di voci femminili nella
produzione etnografica, assenza giustificata dalla natura maschile delle istituzioni di quegli anni. Le
donne, rinchiuse nella sfera domestica, non prendono parola nei testi etnografici, e sono descritte
dall’esterno come oggetti di scambio. Ma in questo periodo una nuova generazione di antropologhe
comincia una propria produzione etnografica. L’idea chiave in questi lavori è la rivendicazione della
capacità di azione sociale. Infatti, anche nelle società che riservano ruoli economici e di potere agli
uomini, anche le donne influenzano la vita pubblica, ed è compito dell’etnografia mettere in luce
questi aspetti nascosti. Contemporaneamente, le antropologhe cominciano una ricerca su come il
genere del ricercatore influenzi la ricerca.
L’antropologia cerca di mostrare come le relazioni uomo-donna possano cambiare con
l’organizzazione socio-culturale, sia come la costruzione culturale dei due sessi sia soggetta a
variazioni. È questa indagine a portare negli anni ‘80 alla diffusione del termine genere come
contrapposto a sesso. In questo campo di studi, grande attenzione viene data a identità di genere
“non convenzionali” o che sfuggono a una netta dicotomia maschio/femmina. Di queste identità ci
sono moltissimi esempi nelle civiltà studiate o, in occidente, all’ambito delle relazioni LGBT+, in
cui difesa dei diritti gli antropologi sono spesso intervenuti.
Per quanto riguarda il concetto di dominio maschile, ci sono state teorie marxiste e
psicoanalitiche che presentano il dominio maschile come tratto universale della storia umana. Le
teorie marxiste radicavano la diseguaglianza tra i generi nelle strutture economico-sociali del modo
di produzione domestico. Questa analisi economica non si adatta però con gli studi della
costruzione culturale del genere. Pierre Bourdieu, nell’opera Il dominio maschile, parte
dall’esempio di una società androcentrica dell’Algeria, in cui le donne sono solo oggetto di
scambio, una logica che ha influenzato le società occidentali a lungo. Ma in questo popolo la
diseguaglianza tra uomini e donne è sostenuta da un intero sistema di classificazioni cosmologiche
che riguardano il mondo naturale come l’universo morale. Il tutto accompagnato da rituali volti a
virilizzare i ragazzi e femminilizzare le ragazze, specialmente insegnando a queste ultime tutto ciò
che non possono fare. Per chi vive in quella cultura, tutto ciò appare normale e nell’ordine naturale
delle cose, ed è proprio questa sua capacità di sembrare naturale sta la forza del dominio. Bourdieu
pone proprio l’accento su questo processo di naturalizzazione che ci fa apparire rovesciato il nesso
causa-effetto. Il sistema di rappresentazioni simboliche in cui siamo immersi mostra le differenze
biologiche tra uomo e donna come base del dominio maschile.
Ne consegue che il ruolo dell’antropologia è quello di snaturalizzare, storicizzandola, la
divisione tra i sessi. Per Bourdieu, però, non è possibile una “cultura delle donne”, così come
nessun’altra cultura subalterna a parte quella dominante, visto che per lui il dominato tende a fare
suo il pensiero del dominatore. Sembra che ogni tentativo di rovesciare il sistema di dominio si
chiuda in un circolo vizioso. L’unica via di uscita, forse, è l’amore puro.
L’amore romantico ci appare in una forma naturalizzata, come se in quanto esseri umani
amiamo in questo modo e basta. Gli antropologi sono spesso scettici su questo tema, e concordano
che la sua origine sia occidentale e recente. Per verificare questa tesi, pensiamo agli Umeda, un
popolo che vive nelle foreste della Nuova Guinea e costituito da meno di mille persone. Il loro
sistema di matrimonio preferisce quello tra cugini incrociati, e ogni ragazzo conosce da tutta la vita
la bambina che dovrà sposare. L’idea di innamoramento per come la concepiamo noi in questo
ambiente è impossibile. O, se esiste, esiste nascosto, del tutto scisso dall’istituzione matrimoniale.
Non esiste spazio per il discorso sull’amore nella sfera pubblica, tant’è vero che non esiste una
parola nel linguaggio nativo per la parola amore.
Nel processo di modernizzazione dell’Europa il discorso sull’amore si sviluppa lentamente e
solo in relazione ai ceti sociali più alti. Solo con la cultura di massa, in età contemporanea, il
modello romantico si afferma. La principale condizione di questa affermazione costituisce
nell’individualizzazione: le opportunità economiche dell’età industriale indeboliscono i vincoli
comunitari.
Negli ultimi decenni del novecento, Giddens mette in evidenza il diffondersi della nozione
di “relazione pura”, ossia la libera decisione di due persone di iniziare una relazione al di fuori di
ogni ruolo precostituito e obbligo di continuità, solo in virtù dei benefici che le parti ritengono di
trarne, e con l’obbligo di interrompere la relazione non appena questi benefici non dovrebbero più
esserci. La relazione pura supera alcune caratteristiche dell’amore puro. Il romanticismo classico
presuppone una devozione assoluta ed eterna e l’idea di che il rapporto debba naturalmente sfociare
nel matrimonio, mantenendo rigidamente divisi i ruoli maschile e femminile, con le donne che
vedono il coronamento della loro vita e ricerca romantica nel ruolo di moglie e madre. Nella
relazione pura questi ruoli vengono superati, sotto la spinta dell’emancipazione femminile. Mentre
fino a qualche tempo fa la stabilità del legame familiare sembrava più importante dei sentimenti,
oggi troviamo moralmente ingiusto subordinare la purezza del sentimento a qualsivoglia costrizione
esterna.
Come la parentela, anche la famiglia è uno dei grandi temi della ricerca antropologica. E
come la parentela, è stata affrontata attraverso un’attenta classificazione delle forme che può
assumere. Così, sul piano matrimoniale, abbiamo la famiglia monogamica e quella poligamica.
Quest’ultima si divide in poliginica e poliandrica. Sul piano della struttura familiare, abbiamo
famiglia nucleare, estesa (convivono con parenti non sposati) o multipla (convivono più nuclei).
Abbiamo ad esempio la famiglia mezzadrile, che si è estinta nel secondo dopoguerra, ma era
costituita da più nuclei che vivevano insieme per poter soddisfare il bisogno di braccia a lavoro nei
campi.
Oggi stiamo passando dalla nuclearizzazione all’individualizzazione, scomponendo le
famiglie, a causa della costruzione di nuclei familiari sempre meno numerosi, la tendenza a sposarsi
e avere figli in età più avanzata, la diminuzione del tasso di fecondità, l’aumento di separazioni.
Malgrado i fattori di trasformazione radicale e gli attacchi subiti, la famiglia è viva e vegeta, e
rappresenta ancora il punto più importante per i legali e le relazioni.
Le ricerche antropologiche sulle famiglie contemporanee evidenziano come quando le
strutture classiche della parentela di spezzino o indeboliscano, esse non scompaiono ma vengono
ricucite o riconfigurate sul piano culturale.

Ugo Fabietti, Storia dell’antropologia

Capitolo 2
L’Inghilterra Vittoriana può essere considerata la culla dell’antropologia moderna. Questa
antropologia fu, per diversi decenni, una scienza “ottimista”, definita da Tylor come la “scienza del
riformatore”. Il libro più famoso di Tylor è Cultura Primitiva, che parla dell’evoluzione delle idee
religiose da uno stadio primitivo a uno razionale. La sua definizione di cultura avrebbe costituito,
tra critiche e consensi, il nucleo dell’antropologia di lì in poi: la cultura è quell’insieme complesso
che include conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, costume e qualsiasi altra capacità e
abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società. Un’idea importante che passa da
questa definizione è che la cultura è presente ovunque, così come che la cultura è acquisita, non
connaturata a una “razza”.
Come i suoi contemporanei, Tylor riteneva che esistessero popoli superiori e inferiori. La
civiltà era pensata come risultato di un processo cumulativo evolutivo basato su una crescente
complessità organizzativa. I popoli “selvaggi” quindi non erano che fermi agli stadi precedenti della
storia umana, e potevano essere usati per illustrare gli stili di vita degli umani preistorici.
I temi di riflessione dei primi antropologi furono la religione e la parentela. Tylor dedicò
gran parte della sua prima opera all’evoluzione della religione e all’animismo, ossia la credenza
secondo la quale gli oggetti possedevano un’anima. Per Tylor l’animismo era alla base di tutte le
religioni, dai selvaggi agli uomini civili, e gli permetteva di definire in un colpo solo l’essenza del
pensiero mitico, magico e religioso, e di distinguerlo da quello scientifico e razionale.
Altro importante concetto dell’antropologia introdotto da Tylor in Cultura primitiva, è
quello delle sopravvivenze, ossia una credenza, un’idea, una pratica, il cui significato era andato
perso da secoli ma che continuava ad esistere. Un fossile sociale, ma anche una miniera per
l’indagine storica.
Il concetto di cultura come insieme complesso, la nozione di sopravvivenza e la
comparazione costituirono i punti di partenza per la ricostruzione degli stadi evolutivi della cultura.
Nel saggio Su di un metodo per lo studio dello sviluppo delle istituzioni Tylor cercò di stabilire la
frequenza statistica con cui certe pratiche rituali si trovino in presenza della discendenza
matrilineare o patrilineare.

Capitolo 4
Sul finire dell’ottocento gli studi svolti dai ricercatori inglesi dettero stimolo per lo sviluppo
dell’antropologia statunitense, specie dopo l’arrivo dell’antropologo tedesco Franz Boas, destinato
a divenire la figura di riferimento. Boas aveva già lavorato con gli eschimesi e sulle coste canadesi
del pacifico, cominciando a concepire il lavoro sul campo come studio di singole culture o di aree
culturali particolari. Era il prologo di quel “particolarismo” che per Boas era condizione preliminare
di ogni progetto di comparazione. Nel 1911 scrisse L’uomo primitivo, che è forse il primo libro
scritto da un antropologo contro il razzismo.
I limiti del metodo comparativo dell’antropologia è forse il più importante testo teorico di
Boas, nel quale enuncia anche i principi del metodo storico. Boas respinge l’ipotesi per cui tratti
simili siano spuntati in luoghi lontani senza nessuna origine comune. Boas riteneva che l’obbiettivo
fondamentale dell’etnologia fosse la conoscenza delle cause storiche che avevano determinato la
nascita dei tratti culturali propri di una determinata società. Questo era possibile solo attraverso la
ricerca della cultura complessiva di quella tribù in relazione con la ricerca della loro distribuzione
presso le tribù limitrofe. Queste considerazioni sono alla base del particolarismo storico.
Tra il 1894 e il ‘95 Boas condusse una ricerca presso gli indiani Kwakiuti. Presso di loro
Boas documentò il potlatch, un insieme di pratiche rituali diffuse tra le popolazioni indiani che
conducevano a una sorta di ostentazione, prevedendo la distruzione di una grande quantità di beni
materiali. Attraverso il potlatch individui dello stesso status sociale si sfidavano in una gara di
distruzione. Oggi si considera questa pratica un mezzo per evitare di rintrodurre nel processo
produttivo elementi che avrebbero potuto alterarlo, ma all’epoca Boas lo considerò, erroneamente,
in termini economici come investimento, vendita e capitale, facendo credere si trattasse di una
popolazione di trafficanti.
Boas non cessò mai di ripetere che uno dei compiti fondamentali dell’etnologia era quello di
stabilire i processi psicologici che operavano nello sviluppo dei fenomeni culturali. Per lui, sembra
uno sforzo vano ricercare le leggi sociologiche senza prestare attenzione alla psicologia sociale,
ossia a come un individuo reagisce alla cultura.

Capitolo 5
Durkheim fu il padre di quella che venne chiamata la scuola sociologica. Per lui tute le
società possedevano una coscienza collettiva ed erano quindi comparabili. In questa prospettiva
comparativa la sociologia di Durkheim si apre all’etnologia. I primi interessi etnologici di
Durkheim si rivelano ne La divisione del lavoro sociale, in cui l’intensità con cui la coscienza
collettiva si mostrava nelle diverse società viene messa in relazione con il tipo di solidarietà
presente tra i membri. Nelle società caratterizzate dalla massima solidarietà la coscienza collettiva
era tanto forte da essere coestensiva delle coscienze singole. Nelle società dove prevaleva la
coscienza del singolo, la coscienza collettiva occupava spazi più ristretti.
Il lavoro di Durkheim Le forme elementari della vita religiosa tentata di elaborare una teoria
generale della religione e della società attraverso quegli elementi che fanno parte di tutti i sistemi
religiosi e sociali. Questo perché per Durkheim la religione era un fatto unitario, in quanto, per
quanto diverse, rispondono tutte agli stessi bisogni.
Durkheim parte dal totemismo degli aborigeni australiani, il culto di un gruppo di persone
che si identificava in un animale, vegetale o fenomeno naturale che sarebbe diventato il simbolo del
gruppo, di un antenato comune e del loro culto stesso.
Capitolo 6
Gli studi etno-antropologici italiani sono legati per la maggior parte agli studi folkloristici
da una parte, e a quelli sui popoli classici dall’altra, sebbene la parte sugli studi popolari o
demologia ha avuto il sopravvento.
Nei primi anni del novecento la cultura antropologica italiana era in ritardo rispetto quella
di altri paesi europei, forse in conseguenza del “ritardo” con cui l’Italia era giunta all’unità. La
ricerca di fiabe, canti e tradizioni popolane erano come un modo di ricercare l’anima del paese.
Dopo un periodo di studi su singole località, ebbe inizio uno studio sulle peculiarità
regionali. L’effettivo iniziatore degli studi demologici del nostro paese fu Giuseppe Pitré, che fece
una lunga opera di raccolta e registrazione etnografica delle tradizioni popolari della Sicilia, da cui
nacque la Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, in venticinque volumi di proverbi, favole,
credenze, etc.

Capitolo 7
Marcel Mauss fu l’ultimo degli allievi di Durkheim e l’ultimo degli etno-antropologi
francesi a non aver fatto ricerca sul campo, ma fu un grande sostenitore della ricerca etnografica. Fu
promotore della fondazione del 1925 dell’Istituto di Etnologia dell’Università di Parigi. L’opera di
Mauss spazia dallo studio della magia e della religione a quello della persona e della società. Uno
dei primi lavori importanti di Mauss fu Su qualche forma primitiva di classificazione, scritto con
Durkheim, che vuole mostrare come la classificazione dell’universo naturale non è effetto di
un’attitudine spontanea della mente umana, ma che la classificazione delle cose riproduce la
classificazione degli uomini.
Come esempio di ciò, parlano di alcune tribù di aborigeni australiani. Questi si dividevano
per classi matrimoniali, non fondate sulla discendenza, e ogni classe era associata a un totem, ossia
un animale, vegetale o fenomeno naturale.
Per Durkheim e Mauss a un cambiamento della società corrispondeva un cambiamento
nell’ordine di classificazione delle cose.
L’elemento rilevante di questa teoria è l’idea di una omologia strutturale del sociale e del
simbolico, l’ipotesi che avrebbe permesso a Mauss di spingersi a studiare i fatti sociali totali. Mauss
vedeva, nella morfologia dei gruppi sociali, non qualcosa che doveva essere spiegato, ma qualcosa
che permetteva di spiegare i diversi aspetti della vita sociale.
Tra il ‘23 e il ‘24, Mauss pubblicò il Saggio sul dono, costituito in gran parte sui lavori
etnografici di Boas sul Potlatch e su quelli di Malinowski sul Kula caratteristico di alcune isole
della Malesia. Questi lavori sembrano dimostrare l’esistenza presso le società primitive di forme di
scambio e circolazione dei beni materiali, che spinsero Mauss a interpretare questi fenomeni come
esempi di fatto sociale totale, in quanto collegati ad altri aspetti della vita sociale. Per Mauss, tre
erano le regole alla base del dono, ossia: dare, ricevere e ricambiare. Per Mauss queste pratiche
rappresentavano un commercio di ordine nobile, per stabilire pacifiche relazioni (il kula) o allo
scopo di acquisire prestigio (potlatch).

Capitolo 9
Il periodo compreso tra la fine del diciannovesimo secolo e la prima guerra mondiale fu un
periodo di transizione per l’antropologia, in particolare quella britannica. Soprattutto, prese sempre
più piede la ricerca sul campo, complici anche i vasti possedimenti coloniali della Gran Bretagna.
La pubblicazione del Ramo d’oro di Frazer, nel 1890, segna una svolta sia per la teoria
antropologica che per l’intera mentalità scientifica dell’ottocento. Pur rimanendo sempre la più forte
tra le potenze economiche mondiali, la Gran Bretagna comincia in questo periodo un lento declino.
Le idee autocelebrative degli anni 1850-‘80 vengono messe in discussione: non è un caso se in
questo periodo viene scritto Cuore di Tenebra, che racconta la sconvolgente esperienza della perdita
di un bianco in Sudafrica. Questa “crisi delle certezze” che colpì l’Europa in quel periodo
ovviamente si rifletté anche sull’antropologia.
Un tratto saliente dell’antropologia dell’ottocento era stata la separazione tra antropologi e
etnografi, tra chi formulava le teorie e chi osservava i popoli primitivi, spesso tramite questionari
inviati dagli studiosi ai commercianti, militari, esploratori, etc., che si trovavano sul posto.
Tra coloro che hanno interpretato meglio il ruolo di etnografo, vediamo Lorimer Fison e
Alfred Howitt, due missionari che, oltre a intavolare una corrispondenza, scrissero un loro trattato
etnografico sull’organizzazione sociale delle comunità australiane. Il legame più famoso tra un
teorico e un etnografo fu quello tra Frazer e William B. Spencer e Francis Gillen, un professore
di biologia e un magistrato australiani. Oltre alla corrispondenza con Frazer, i due scrissero Le
tribù primitive dell’Australia Centrale nel 1899 e Le tribù nordiche dell’Australia Centrale nel
1904. Su questi lavori studiosi come Durkheim e Mauss fondarono le proprie teorie sul totemismo.
Alla fine del diciannovesimo secolo, la ricerca etnografica ebbe un forte stimolo da
programmi di studio che prevedevano la raccolta sistematica di dati su base regionale in Canada,
Gran Bretagna, India, Pakistan, eccetera. Queste grandi “survey”, ricognizioni, contribuirono allo
sviluppo dell’antropologia come disciplina accademica.
Tra i ricercatori sul campo vi erano scienziati e non umanisti, come biologi, psicologi,
medici, influenzando la tecnica di raccolta di dati sul campo. Come nel caso di Haddon, un biologo
di Cambridge, che scrisse Spedizione allo stretto di Torres, una pietra miliare nella storia
dell’antropologia, che ottenne anche il risultato di collezionare una serie di oggetti oggi conservati
nel museo di Cambridge e il riconoscimento dell’antropologia come disciplina accademica anche da
parte dei non addetti ai lavori.
Successivamente, in sostituzione della ricognizione, preziosa ma rapida e superficiale,
nascono le monografie etnografiche, lavori dedicati allo studio dei molteplici aspetti della vita
sociale e culturale del gruppo preso in esame.
In questa generazione “di mezzo”, un ruolo particolare lo ricopre William H. R. Rivers,
medico e psicologo, che partecipò alla spedizione allo Stretto di Torres. Qui fece ricerche sulle
capacità percettive dei nativi, giungendo alla conclusione che non c’erano differenze con quelle
degli studenti di Cambridge. Ben presto però cominciò a interessarsi alle terminologie delle
parentele presso i popoli primitivi.
Rivers sviluppò quello che chiamò il “metodo genealogico” nella raccolta dei termini di
parentela, che costituiva nel chiedere a un individuo il nome dei parenti più prossimi e il termine di
parentela con cui li definiva, poi i parenti più lontani, fino a ottenere un quadro esaustivo dei
termini in quella società.

Capitolo 10
Il 1922 è l’anno di pubblicazione di Argonauti del Pacifico occidentale di Malinowski, una
pietra miliare della storia dell’antropologia. Malinowski era un cittadino polacco che si trovava in
Australia allo scoppio della prima guerra mondiale, e quindi gli fu impedito di ripartire ma gli fu
concesso di continuare i propri studi antropologici. Malinowski studiò l’organizzazione sociale,
politica e giuridica degli abitanti delle isole Trobiand, ma anche i miti, i riti, la lingua e il
comportamento sessuale. Al suo ritorno in Gran Bretagna trovò l’ambiente accademico stagnante
per via della guerra, condizione che lo favorì.
Malinowski dette il via alla cosiddetta “osservazione partecipante”, una nuova modalità
che permetteva di creare un rapporto empatico con i nativi, cercando di prendere parte il più
possibile alla vita degli stessi, allo scopo di cogliere il loro punto di vista sul mondo. La
pubblicazione dei “diari segreti” di Malinowski però rivelò il suo disagio nel trovarsi solo con i
nativi.
Il punto centrale di Argonauti una forma di attività di scambio praticata da alcune comunità
stanziate su isole anche piuttosto lontane tra loro. Questa forma di scambio, detta anche kula,
avveniva su una serie di isole che possiamo considerare disposte su una circonferenza. Tra queste
isole circolavano due tipi di oggetti: collane di conchiglie rosse, dette soulava, e bracciali di
conchiglie bianche, mwali. Le prime circolano solo in senso orario, i secondi in senso antiorario, in
quanto potevano essere scambiati solo tra loro. Gli scambi venivano accompagnati da dei rituali
accompagnati da pratiche magiche. Durante questi scambi, venivano scambiati anche degli oggetti
di valore d’uso, gimwali.
Lo scambio kula è uno scambio di tipo cerimoniale di cui Malinowski comprese la portata
sociologica in senso generale, cioè la funzione che esso svolgeva nel mantenere i rapporti tra i vari
gruppi. Tuttavia Malinowski gli attribuì un significato di tipo economico, nel tentativo di dare
un’immagine più accettabile del selvaggio.
Mise inoltre in evidenza l’esistenza di una rete di rapporti tra individui, clan e tribù fondato
sul principio della reciprocità. Tutto ciò che circondava lo scambio kula era regolato da una logica
sociale che promuoveva la solidarietà e l’organicità della società e della cultura. Ogni fase della vita
sociale appariva così segnata da comportamenti di mutua assistenza, dall’offerta di doni, di vendette
e risarcimenti.
Una teoria scientifica della cultura venne pubblicato postumo nel 1944, e in questo libro
Malinowski cerca di creare una teoria ordinata e scientifica dell’oggetto dell’antropologia.
L’immagine della società e della cultura di Malinowski era un insieme di pratiche e comportamenti
tendenti al mantenimento dell’equilibrio interno della società e al funzionamento della stessa.
Quello che potrebbe essere definito il “funzionalismo ristretto” di Malinowski. A questa teoria,
con la pubblicazione del 1944 Malinowski affianca una visione particolare della cultura: dopo aver
definito la cultura come il tutto integrale degli strumenti, dei beni di consumo, dei raggruppamenti
sociali, delle idee e delle arti, Malinowski la definisce come un vasto apparato in parte materiale, in
parte umano e in parte spirituale con cui l’uomo può venire a capo dei problemi che gli stanno di
fronte.

Capitolo 11
Con l’espressione “antropologia psicoanalitica” si è soliti indicare tutti i tentativi di
applicare le teorie psicoanalitiche ai fenomeni della cultura e del comportamento sociale.
Una teoria dell’origine e dello sviluppo della cultura viene proposto da Sigmund Freud in
Totem e Tabù, scritto sotto la suggestione letteraria di Il ramo d’oro di Frazer. Freud voleva
rispondere a due domande: che cos’è il totemismo? E qual è la relazione tra il totemismo e
l’esogamia?
Freud si avvicinò allo studio del mondo primitivo attraverso l’antropologia e la biologia
evoluzionista. La sua teoria era che nell’era primitiva i figli si contendono col padre il diritto di
accoppiamento, e infine lo uccidono e se ne cibano. All’idea di un’umanità dedita al cannibalismo,
Freud affianca quella di una famiglia poligamica. Il suo scopo era quello di collocare all’origine
dell’uomo in quanto essere culturale, quel complesso di Edipo che lui riteneva l’elemento
fondamentale della psicologia. Quindi, dopo l’uccisione del padre, i figli, spinti dal senso di colpa,
lo avrebbero idealizzato, vietandosi di accoppiarsi con la madre e le femmine del gruppo, dando
così origine al totemismo e all’esogamia: quindi l’autointerdizione nei confronti delle donne del
clan e il divieto di uccidere e cibarsi dell’animale totemico.
Tabù è un adattamento della parola polinesiana tapu, un termine che vuol dire proibito,
pericoloso. Il pari rigore con cui i nevrotici e i selvaggi rispettano i tabù autoimposti e quelli sociali,
induce Freud a considerare questo rigore come il prodotto di ciò che egli chiama “ambivalenza”.
Allo scopo di sostenere la propria tesi, Freud prese tre esempi da Frazer relativi a tre specie di tabù,
quelli relativi ai nemici uccisi, quelli riguardo i sovrani e dei morti.

Capitolo 12
Nel periodo posteriore la prima guerra mondiale, la tradizione italiana degli studi etnografici
vide l’affermazione della prospettiva diffusionista elaborata dalla scuola austro-tedesca. Vi
aderirono padre Schmidt, il quale insegnò in Italia, e lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni.
La tradizione etnologica italiana ebbe rappresentanti di un certo livello negli africanisti
Carlo Conti-Rossini ed Enrico Cerulli, e di meno in Renato Boccassino. Conti-Rossini e Cerulli
erano influenzati dalla prospettiva storico-giuridica e concepirono lo studio delle culture extra-
europee come entità storiche, aprendosi alla prospettiva storico-culturale. I loro studi furono più del
tipo della ricognizione etnografica che non della monografia.
Il primo italiano a fare una monografia etnografica è Vinigi Grottanelli, con I Mao, uno
studio di una popolazione del Sudan. Questa monografia, nonostante la brevità del soggiorno di
Grottanelli, è un resoconto “completo” della cultura e della società Mao.
Non mancano, nel periodo compreso tra le due guerre, studi sui territori coloniali italiani in
nord Africa ed Eritrea, opera più di funzionari militari che di etnografi.
Uno degli elementi frenanti allo sviluppo di un’etnografia italiana sul modello britannico fu
il fascismo, che andò asservendo l’etnologia alle proprie tesi razziste sul proprio diritto di
civilizzare le popolazioni “inferiori”.
Durante l’ottavo convegno “Alessandro Volta” tenutosi a Roma nel 1938, viene fuori un
atteggiamento paternalista quando non razzista verso la “razza negra”. Presenti al convegno anche
antropologi fisici come Lidio Cipriani, uno dei teorici della “razza pura” che dichiarò esistesse una
inferiorità mentale nelle popolazioni africane. Affermazioni di questo tipo erano solo il corollario
della messa a punto, quello stesso anno, del Manifesto della Razza, che si proponeva di fornire una
base ideologica-giuridica alla politica razzista dei fascisti. Il convegno Volta è un punto di arresto e
arretramento degli studi antropologici in Italia.
Alcuni intellettuali italiani si schierarono decisamente contro il regime fascista dopo le leggi
razziali e la decisione di entrare in guerra a fianco della Germania. Uno di questi fu Ernesto De
Martino, etnologo che nel 1941 pubblicò Naturalismo e storicismo nell’antropologia, un’opera che
voleva iniziare la radicale riforma del sapere etnologico.
De Martino mise in atto una forte critica sia verso il naturalismo, ovvero l’atteggiamento
teorico tipico della scuola francese di Durkheim quanto di quella austro-tedesca, che verso il
funzionalismo. Ciò che De Martino gli rimproverava era l’incapacità di pensare all’esperienza
storica dei primitivi all’interno di una filosofia che fosse in grado di restituirne il senso. Nel suo
libro De Martino segue Benedetto Croce nella sua metodologia, ma se ne allontanava al tempo
stesso, concentrando la propria attenzione sulle plebi del mezzogiorno.

Capitolo 13
In Francia, i lavori di etnolinguistica di Delafosse e quelli etnologici di Tauxier gettarono le
basi dell’africanistica. Verso la fine degli anni ‘20, l’insegnamento di Marcel Mauss pose le basi
per l’avvento di una nuova fase dell’etnologia. La conoscenza delle culture primitive divenne, in
Francia, affare di stato. Nel 1931 il parlamento francese istituì la Missione Dakar-Gibuti, con lo
scopo di raccogliere dati sulla lingua dei paesi attraversati e oggetti per il Museo Etnografico del
Trocadero di Parigi. La missione durò due anni. Direttore della missione era Marcel Griaule, un
allievo di Mauss. Di questo viaggio abbiamo documentazione nel libro di Michael Leiris Africa
fantasma, il primo tentativo antropologico di coordinare l’osservazione di se stessi e quella degli
altri.
Nel 1938 Griaule pubblicò Maschere Dogon, uno studio di un rituale e della relativa
simbologia presso i Dogon. Griaule concepì l’idea di un’interconnessione tra simbologia, mito, rito
e sacrificio Dogon, concependo le cosmologie primitive come un sistema coerente e autonomo di
pensiero, idea che approfondirà in Dio d’acqua.
L’idea dell’etnologia come disciplina fondata sullo studio in profondità delle singole culture
rappresentò, per l’etnografia francese, qualcosa di paragonabile al particolarismo storico di Boas
in America e al funzionalismo di Malinowski in Gran Bretagna. Correlata a questa idea
“particolaristica” di Griaule è quella per cui lo studio delle culture “altre” deve mirare a
comprendere i sistemi cosmologici così come concepiti dai nativi.

Capitolo 15
Dopo la partenza di Malinowski per gli Stati Uniti, Radcliffe-Brown divenne la figura più
influente dell’antropologia britannica. Allievo di Rivers, Radcliffe-Brown fu molto influenzato da
Durkheim. Cercò infatti, nel suo libro Gli isolani delle Andamane, di definire la funzione sociale
dei fenomeni mitico-religiosi.
Fin dagli anni ‘20 Radcliffe-Brown si pose il problema di definire l’antropologia a partire
dalla formulazione di un metodo che potesse giustificare la sua credenza che tutti gli esseri umani,
per vivere in società, devono avere una religione, la credenza in un Potere Invisibile. Tale metodo
consisteva, principalmente, nell’identificazione dei meccanismi che operano all’interno delle
società consentendone il funzionamento, per poi generalizzarle fino al livello di “leggi”. Così
definito, il metodo designava l’oggetto dello studio: le leggi che determinano il funzionamento e le
trasformazioni della società.
Radcliffe-Brown fondava l’antropologia su un metodo di tipo “induttivo” caratteristico
delle scienze naturali: tutti i fenomeni sono sottoposti alle leggi della natura, quindi è possibile
scoprire e provare alcune regole generali. L’antropologia sociale di Radcliffe-Brown era quindi una
scienza naturale della società. Dallo studio della cultura, che si traduceva spesso nello studio del
comportamento dell’individuo all’interno della società, Radcliffe-Brown fa nascere l’idea di
struttura sociale.
La struttura sociale designa la trama dei rapporti realmente esistenti tra gli individui, e si
svolge in rapporto con il processo sociale e la funzione sociale. Il processo sociale è la moltitudine
delle azioni degli esseri umani e le loro interazioni, mentre la funzione sociale è il rapporto tra la
struttura e il processo vitale.
Il settore a cui Radcliffe-Brown ha fornito il contributo maggiore, è quello dello studio dei
sistemi di parentela. Il suo studio nasce soprattutto dalla sua esperienza con gli aborigeni australiani.
La peculiarità di questo lavoro consisteva nell’avere predetto, a partire dalla letteratura etnografica,
l’esistenza del sistema matrimoniale kariera, sistema che prende il nome da una tribù dell’Australia
nord-occidentale. Questo è un sistema in quattro sezioni in cui un individuo viene messo in una
sezione diversa sia da quello del padre che della madre, ed è obbligato a sposarsi con una persona
che non appartenga a nessuna delle tre sezioni occupate da se stesso e i genitori.
Un altro sistema è quello omaha, così chiamato da una tribù di nativi americani, in cui la
figlia del fratello della madre (per noi chiamata cugina o cugina incrociata matrilaterale) viene
chiamata madre. Questo per il verificarsi della situazione in cui un uomo possa sposare la figlia del
fratello della moglie – la propria nipote – e quest’ultima diventare quindi matrigna dei propri cugini.
Radcliffe-Brown cercò di definire il significato delle terminologie di parentela a livello di
struttura sociale, enunciando dei principi strutturali alla luce dei quali le terminologie acquisivano
valore sociale. Il primo di questi principi è l’unità del gruppo dei fratelli, cioè dei figli dello stesso
padre e della stessa madre senza distinzione di sesso. Questo forma un’unità solidale, un insieme di
individui nei cui confronti chi non appartiene al gruppo si rivolge con lo stesso comportamento e
nome. Ad esempio, chiamando allo stesso modo il padre, suo fratello e sua sorella. Un altro
principio è quello dell’unità di lignaggio, in cui un individuo si rivolge a tutti gli individui
appartenenti alla linea di discendenza di uno dei genitori con lo stesso nome, quindi chiamando la
madre, le sue sorelle, le cugine e le figlie di queste “madre”.
Nel 1929 nel saggio La teoria sociologica del totemismo Radcliffe-Brown formulò una
teoria del totemismo che mise in discussione quella di Durkheim. Radcliffe-Brown accettava
l’interpretazione funzionale di Durkheim, ma rifiutava l’ipotesi dell’adozione animale o vegetale di
quest’ultimo. Radcliffe-Brown pensava che l’atteggiamento rituale nei confronti di animali e piante
precedesse l’utilizzazione in ambito totemico. Nel 1952, ne Il metodo comparativo
dell’antropologia sociale, Radcliffe-Brown abbandonò la spiegazione economico-sociale del
totemismo e si concentrò su altri due problemi: perché solo alcune specie e piante vengono scelte
come totem? E perché si ritrovano spesso abbinate certe specie che, pur essendo simili, sono
considerate opposte? Radcliffe-Brown giunse alla conclusione che il mondo animale e vegetale
venisse rappresentato con relazioni simili a quelle umane, e che le coppie di opposizione sono
espressione dell’applicazione di un determinato principio strutturale.
Altro personaggio di spicco dell’antropologia britannica è Evans-Pritchard, con il quale
l’antropologia sociale di Radcliffe-Brown subì importanti mutamenti di prospettiva. Il suo primo
libro importante è Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, del 1937. Gli Azande sono un
popolo stanziato tra il Sudan e il Congo, presso i quali Evans-Pritchard aveva studiato la loro
concezione di magia e stregoneria. Fra gli Azande qualsiasi disgrazia viene attribuita alla magia.
Chi subisce la disgrazia consulta gli oracoli. Stregoneria, oracoli e magia costituiscono un
complesso sistema di credenze e di riti che acquistano senso solo se visti come parti interdipendenti
di un sistema complesso. La stregoneria provoca la morte, quindi la morte è la prova dell’esistenza
della stregoneria. Gli oracoli confermano questa cosa, e la magia serve a vendicare la morte. Il
problema della razionalità, secondo Evans-Pritchard, non può essere posto nei termini di vero o
falso, ma di coerenza all’interno del sistema di credenze. Questa ricerca dette inizio, in Gran
Bretagna, a una serie di studi sui sistemi di pensiero.
Nel 1965 Evans-Pritchard pubblicò Il metodo comparativo nell’antropologia sociale, nel
quale, ripercorrendo la storia dell’antropologia, polemizzava con Frazer, che forniva esempi ad
hoc per dimostrare le proprie teorie precostruite, mentre criticò aspramente i tentativi allora in corso
di classificare i tratti culturali allo scopo di produrre una teoria sulle variazioni concomitanti. Non
per questo si doveva però abbandonare il principio della comparazione: Evans-Pritchard denunciò il
pericolo della frammentazione dell’antropologia in una serie di studi monografici. Avanzò quindi la
proposta di un metodo comparativo su scala ridotta, che studiasse società basate sulla loro
organizzazione o situate in aree geografiche circoscritte.

Capitolo 16
Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale furono anni difficili per gli studi etno-
antropologici italiani, sui quali gravava l’ombra del sospetto per la loro compromissione con il
regime fascista e col razzismo.
Nel 1948 De Martino pubblicò Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo,
nel quale si impegnava in una ricostruzione della struttura del mondo magico.
Benedetto Croce divide le categorie dello spirito in quattro: estetica, concettuale,
economica ed etica, e non c’è spazio per la religione, concepita da Croce come una sorta di
aggregazione di istante appartenenti alle altre categorie. De Martino si è quindi sforzato di svicolare
lo studio del mondo magico da questa categorizzazione in cui non c’era posto per il magismo. Per
De Martino bisognava rimettere in discussione il proprio concetto di realtà, per capire in quale
misura i poteri magici sono reali o meno. Per lui i poteri magici sono reali, nel senso che sono
effettivamente efficaci, e come esempio porta i fenomeni paranormali.
Diventa allora centrale l’analisi della costruzione della realtà magica, la quale ruota attorno
al processo di costituzione della presenza. Mediante una serie di esempi tratti dalla letteratura
etnografica, De Martino descrisse l’emergere del magismo come primo tentativo coerente di
affermare la propria presenza nel mondo. A differenza degli evoluzionisti De Martino non pensa
alla magia come a una forma imperfetta di razionalità, non è una risposta allo stress emotivo
procurato da situazioni dall’esito incerto, ma una sorta di lotta ingaggiata dagli esseri umani per
poter esistere.
Nel 1949 De Martino pubblica Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, in cui il
binomio gramsciano egemonia-subalternità viene espanso dai rapporti tra classi ai rapporti tra le
culture. Il marxismo demartiniano fu etico, con una forte propensione per l’aspetto umanistico
dell’opera di Marx, funzionale all’apertura di De Martino alle problematiche meridionalistiche. In
questo contesto diventa importante il concetto di destorificazione: De Martino inaugura una
“antropologia del negativo”, l’antropologia delle masse che non fanno la storia ma che irrompono
nella storia. Il dramma della persona, impegnato a stabilire la propria presenza, diventa il dramma
dell’umanità estromessa dalla storia.
Si apre una riflessione sui rapporti tra soggetto conoscente – l’etnografo – e oggetto della
conoscenza, le comunità e gli individui studiati. Nasce quindi l’etnocentrismo critico. Il punto di
partenza di questa riflessione è ciò che egli chiama “umanesimo etnografico”, la via difficile, o la
via lunga, dell’umanesimo moderno, che assume come punto di partenza l’umanesimo più lontano
e, attraverso l’incontro sul campo, si espone all’oltraggio delle proprie memorie culturali. Si
presenta quindi il paradosso dell’incontro etnografico: o l’etnografo si fa “nudo come un verme”,
nel tentativo di liberarsi della propria storia culturale per comprendere i fenomeni culturali da
osservare, e diventa cieco e muto e perde la propria vocazione specialistica, oppure si affida alle
proprie categorie antropologiche, rischiando di cadere nell’etnocentrismo.
A partire dagli anni ‘50 cominciarono a diffondersi altre realtà antropologiche in Italia.
Abbiamo ad esempio Giuseppe Cocchiara, siciliano che fu influenzato tanto dalle filosofie
crociane quanto dalla scuola britannica di antropologia sociale. Cocchiara prese l’insegnamento di
Marett e il suo rifiuto al concetto delle sopravvivenze, e, senza perdere di vista l’insegnamento
crociano, scrisse che le tradizioni popolari, anche quando rievocano antiche esperienze religiose,
sono comunque “storia contemporanea”, ossia cambiano da un’epoca all’altra.

Capitolo 18
La ricerca e l’opera teorica di Claude Levi-Strauss può essere considerata come uno
sviluppo dell’etnologia francese durkheimiana. La sua prima opera di rilievo è Le strutture
elementari della parentela del 1949, dove presenta una teoria della proibizione dell’incesto, delle
origini della cultura e dello scambio matrimoniale.
Per Levi-Strauss la proibizione dell’incesto è l’unica regola che ha il carattere
dell’universalità: è infatti presente in tutte le società, sebbene i parenti toccati di volta in volta dalla
proibizione possono essere diversi. La proibizione dell’incesto segna il passaggio dalla natura alla
cultura. Levi-Strauss però non si concentra sul divieto, ma sulla parte positiva, ossia sul dover
cercare una compagna al di fuori del proprio gruppo. L’esogamia è quindi una espressione allargata
della proibizione dell’incesto, in quanto il cercare partner al di fuori della propria cerchia consente
di fondare un rapporto di comunicazione e scambio con altri gruppi.
Qui si inserisce la riflessione di Levi-Strauss sull’atomo di parentela, ovvero l’unità
minima parentale, composto da quattro individui: madre, padre, figlio e fratello della madre.
Quest’ultimo ha un rapporto con la sorella e il figlio inversamente proporzionale a quello del padre:
di affetto se il rapporto col padre è autoritario, e autoritario se il rapporto è di affetto. Questa è la
teoria generale della parentela, mentre poi abbiamo anche una teoria ristretta della parentela.
Per strutture elementari della parentela intendiamo i sistemi nei quali la nomenclatura
permette di determinare immediatamente il giro di parenti consanguinei e quelli affini o acquisiti,
per poi distinguere i parenti in due categorie: coniugi possibili e coniugi proibiti. La teoria ristretta
della parentela coincide con l’analisi delle strutture elementari, cioè quei sistemi che prescrivono il
matrimonio tra certe categorie di parenti.
La struttura più elementare di unione è rappresentata dal matrimonio tra cugini incrociati.
Un esempio sono i Bororo dell’Amazzonia, un gruppo di Indios brasiliani che hanno villaggi divisi
in metà esogamiche abitate da clan matrilineari. Tutti i membri dei clan della metà est devono
sposarsi con i membri del clan della metà ovest. Il matrimonio tra cugini incrociati bilaterali è un
modello molto ricercato perché si accorda con il loro modello di società.
Levi-Strauss parla di strutture di parentela, ma quando parliamo di strutturalismo
antropologico, o antropologia strutturale, si intende definire una teoria più ampia, che include anche
le riflessioni sulla parentela, e che ruota attorno una concezione particolare di “struttura”. Le
strutture, sostiene Levi-Strauss, sono prive di contenuto e inconsce, come il principio di reciprocità
che è alla base del passaggio dalla natura alla cultura. Questo passaggio si definisce con l’attitudine
dell’uomo a pensare le relazioni biologiche sotto la forma di opposizioni. Quindi bisogna ammettere
che l’opposizione, la dualità, l’alternanza, la simmetria, non sono tanto fenomeni da spiegare,
quanto i dati fondamentali delle realtà mentali e sociali. Questo trova piena espressione nella
nozione di inconscio strutturale. Non si tratta più di capire la differenza tra pensiero logico e
“prelogico”, razionale e mistico, ma di definire quelle leggi che possono essere le stesse per
entrambi i casi.
Levi-Strauss assunse come campo problematico quello della comunicazione: il linguaggio è
comunicazione, e anche la cultura lo è, in quanto frutto di passaggio dalla natura proprio grazie alla
comunicazione.
Nel libro Totemismo oggi Levi-Strauss fornì un’interpretazione nuova del fenomeno
totemico: vedeva in questo un semplice sistema di classificazione, senza unione mistica o prelogica
degli esseri umani con piante e animali. Gli animali e i vegetali che compaiono nei sistemi totemici
diventano portatori di relazioni concepite dal sistema speculativo a partire dai dati
dell’osservazione. Semplicemente offrono all’uomo un repertorio a cui attingere per le loro
classificazioni. Per Levi-Strauss quindi la definizione “pensiero selvaggio” diventa ironico, in
quanto non indica più un pensiero rozzo, ma che è fondato sulle stesse espressioni logiche di quello
“civilizzato”.
In una serie di saggi Levi-Strauss analizza il funzionamento del pensiero mitico la cui logica
costituisce, insieme alle classificazioni totemiche, il fondamento dell’attività simbolica caratteristica
del “pensiero selvaggio”. Nell’analisi dei miti non è più l’opposizione natura/cultura a fare da
sfondo al discorso teorico, ma la semplice analogia formale che assimila le unità costitutive del mito
alle unità della lingua. I primi, i mitemi, sono pensati sul modello dei fonemi, e il loro significato
viene concepito come dato solo in virtù del rapporto con altri mitemi.
Tristi Tropici, pubblicato nel 1955, è un “viaggio” in duplice senso: parla dei viaggi
compiuti da Levi-Strauss dal Brasile al Pakistan, ma è anche un viaggio nella memoria, alla
riscoperta delle motivazioni professionali che hanno determinato la sua carriera. È un libro denso di
riflessioni sulla civiltà umana e il suo destino. La riflessione di Levi-Strauss sulle società primitive
produce la distinzione tra le “società fredde” e le “società calde”. Ciò che viene descritto come
progresso è il prodotto recente di una società “calda”, che trae dai propri disequilibri interni
l’energia per produrre innovazioni in senso culturale e “bruciare” il mondo che la circonda. Nelle
società fredde, che non hanno disequilibri interni, non producono energia per modificare il mondo
circostante, umano e naturale. Questo libro evoca il senso di perdita, ma è anche una denuncia: la
tristezza dei tropici è il frutto della devastazione portata dalla civiltà occidentale che non rispetta la
natura e le società.

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