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ANTROPOLOGIA CULTURALE

CAPITOLO 1
DEA: discipline demoetnoantropologiche. La demologia studia la cultura popolare e tradizionale della
nostra società. L’etnologia studia i popoli e le culture in ogni parte del mondo. L’antropologia culturale si
occupa di arte, scienza, letteratura ma anche tecniche, linguaggio e credenze. Quella fisica studia
l’evoluzione e gli aspetti biologici dell’uomo. Non c’è una data precisa dell’origine dell’antropologia
culturale ma per convenzione, si fa risalire a fine ‘800 con il Colonialismo. L’Europa si considera il vertice del
progresso; l’antropologia vuole studiare il passato ed il primitivo; parlare di culture del primitivo significa
valorizzarla e schierarsi contro il razzismo biologico. In realtà, la stessa antropologia ha in sé l’idea di
disuguaglianza, mantenendo un rapporto contradditorio con il colonialismo.
L’antropologia ha una vocazione verso la diversità e le varie culture, allontanandosi dai concetti di popolo e
territorio. L’antropologo agisce per comparazione cercando di individuare quali sono le leggi universali dello
sviluppo culturale. Questa comparazione e questo confronto ci fa capire che la nostra cultura non è né la
migliore né l’unica. L’antropologo del ‘900 attua una ricerca sul campo, mentre nell’800 si distingueva il
lavoro sul campo dallo studio; i dati erano raccolti da viaggiatori, missionari e funzionari risultando così
incerti. Nel ‘900 la figura del teorico e quella del ricercatore d fondono dando vita alla figura
dell’antropologo, ci chiarisce Malinowski, nel quale tale figura studia e si prepara sia teoricamente sia la
diretta esperienza vissuta della cultura che si intende studiare; senza la preparazione l’antropologo avrebbe
molte più difficoltà ad individuare i tratti rilevanti di un contesto culturale ed a trasformare quei tratti in
dati. Lo studioso fa l’esperienza del lavoro: impara il linguaggio locale; studia gli aspetti economici, politici e
religiosi attraverso interviste, fotografie e diari (APPROCCIO OLISTICO). Poiché la ricerca sul campo richiede
permanenza, ogni studioso può diventare esperto di una, due, massimo tre aree geografiche, all’interno
delle quali vengono scelte dei temi; ad esempio trigoneria in Africa, onore nelle culture mediterranee, dono
in Oceania. Le fonti possono essere orali, scritte (diari, lettere, letteratura popolare), iconiche (immagini,
foto, video) e materiali (artigianato, musei, arte popolare). Esiste pure l’antropologia storica, del mondo
antico, linguistica, psicologica, medica, filosofica, etno-psichiatrica.
L’antropologia serve alla mediazione culturale, alle ONG, nei musei, per capire le civiltà inclusa la nostra,
per riflettere sul nostro etnocentrismo e sulla diversità culturale e per superare il concetto che il diverso è
un nemico.

CAPITOLO 2
RAZZA: solo nel ‘800 il termine razza ha assunto l’attuale significato: gruppo umano di cui le caratteristiche
fisiche ed intellettuali, sono trasmesse per via ereditaria, e trova il suo sviluppo nel colonialismo. In quel
periodo si diffondono teorie razziste, come quella di Gobineau de “Il saggio sull’ineguaglianza delle razze
umane”. Afferma che ogni differenza tra la cultura e la civiltà è biologica; esiste una gerarchia tra le razze
con la razza bianca che predomina sulle altre. La superiorità della razza bianca sarebbe dimostrata dallo
sviluppo della razza occidentale e dalla bellezza. L’ultimo punto è l’orrore per la mescolanza tra le razze; la
razza bianca è minacciata dagli incroci e sta decadendo per questo motivo.
Sono invece illuministe le teorie di Darwin che afferma che tutta l’umanità ha stessa origine e le differenze
fra i popoli sono il frutto di un’evoluzione diversa (TEORIA EVOLUZIONARIA), però ciò non elimina la
classificazione gerarchica; nel ‘900 si diffonde anche la teoria eugenetica (RAZZA BUONA/BELLA) da Galton
che vuole favorire gli organismi migliori eliminando i deboli, in quanto difettosi (USA e Svezia sterilizzazione
forzata, Nazismo).
CULTURA: nel secondo ‘800 per cultura si intende arte, letteratura ma anche pratiche quotidiane, si
sostiene l’unità del genere umano e lo studio delle differenze tra i gruppi umani. Gli antropologi spiegano le
differenze con un’evoluzione a diverse velocità però ciò giustifica il Colonialismo e l’Imperialismo; i
colonizzati vanno aiutati a crescere anche con metodi severi. Nel ‘900 si afferma il pluralismo delle culture
ed il Relativismo Culturale (ogni cultura deve essere studiata senza confronti con le altre).
(L’Etnocentrismo di ogni cultura può portare ad esaltare i propri costumi come unici, giusti, discriminando
gli altri): Summer.
Nella seconda metà del ‘900, la biologia e la genetica contribuiscono all’abbandono del concetto di razza.
ETNIA: la parola deriva da “etnos” che in greco vuol dire “diverso”. Questo significato è arrivato fino a tutto
il 900. I gruppi etnici sono stati considerati come gruppi fissi etnici; oggi l’antropologia sta rivedendo i suoi
criteri e riconosce che le realtà etniche sono il frutto di processi storici e politici, quindi sono delle realtà in
continuo cambiamento.
RAZZISMO DIFFERENZIALISTA: strumento teorizzato secondo ideologie e pratiche neo-razziste. Questo
nuovo tipo accetta il relativismo culturale (secondo il quale tutte le culture hanno pari importanza e
dignità) ma questa tolleranza porta a pratiche xenofobe, secondo il quale i nostri usi, costumi ed identità
non devono essere mescolate. Secondo Strauss bisogna favorire lo scambio ed il dialogo ma evitare
contaminazioni troppo profonde che facciano perdere il senso della diversità.
Taguieff individua tre atteggiamenti intellettuali comuni dell’ideologia e del comportamento razzista: la
“categorizzazione essenzialista”, ossia che un individuo nasce tale e riamane tale senza poter migliorare il
suo status sociale; la “stigmatizzazione”, ossia che una volta categorizzati, l’individuo può subire un
processo di esclusione fondato su stereotipi negativi (una conseguenza della stigmatizzazione è la mixo
fobia, ovvero la paura di mescolanza); il terzo elemento è la “barbarizzazione”, ossia quella convinzione che
certe categorie di esseri umani non possono essere civilizzabili; è il più alto grado di distanziamento ed
esclusione in quanto il barbaro è l’antitesi stessa della civiltà. La barbarizzazione porta a politiche
eliminazioniste, perfino di genocidio.
Ci sono tre tipi di azioni legate alle precedenti condizioni: 1) segregazione, discriminazione e persecuzione;
2) violenza essenzialista (rivolto contro una categoria in quanto tale); 3) genocidio/sterminio.
Le pratiche di persecuzione e di violenza sono anche frutto di esperienze di vita, vissuto personale,
ideologie politiche, etc.
ANTI-RAZZISMO: il razzista è una figura centrale negativa ma è anche un pericolo per l’analisi culturale del
razzismo. Anche chi si dichiara antirazzista è carico di stereotipi e pregiudizi verso gli altri, ma è anche vero
che spesso non si distinguono i vari livelli di pregiudizio. A volte per voler individuare il razzismo non si
colgono le espressioni più pericolose per la convivenza civile.

CAPITOLO 3
LA RAGIONE ED I COSTUMI: per ampliare la ragione occorre allargare lo sguardo, ossia conoscere nuove
culture che inizialmente ci appaiono come bizzarre. Questa riflessione è nata a seguito dei viaggi e delle
scoperte geografiche del ‘500. Sono state individuate pratiche come quella del cannibalismo, simbolo di
disumanità, che spesso viene attribuita ai selvaggi. (ad esempio, gli Indios erano considerati una tribù da
dominare e non da civilizzare). Montaigne individua il cannibalismo come rituale ed atto morale che si può
facilmente contrapporre alle torture utilizzate dagli europei nei confronti dei nemici. La consuetudine
influenza i nostri comportamenti e solo attraverso il “giro lungo” capiamo la diversità dei costumi e le azioni
abituali della cultura opposta.
RALATIVISMO EPISTEMOLOGICO: Per arrivare alla comprensione ed alla conoscenza del “diverso”
dobbiamo costruire un ponte verso la cultura d’arrivo senza maturare forme di irrazionalità. È necessario
rinunciare ad alcuni criteri minimi su cui si poggia la nostra mentalità ed eliminare le forme di chiusura
verso il diverso, anche eliminando pregiudizi che si basano su variazioni locali o storiche. Questo
atteggiamento nel cogliere contesti nel quale maturano forme di razionalità, prende il nome di “relativismo
epistemologico”, che pretende di non avere criteri universali ancor prima di accostarsi ad altre diversità
culturali o ad epoche storiche. Peter Winch afferma che un antropologo non può necessariamente
considerare falso od illogico qualcosa che non appartiene alla sua cultura ma deve avvicinarsi ed entrare in
contatto con essa per capire i modi di vivere dell’altro. Per Winch, l’opposto deve essere soggetto ad una
comprensione antropologica che ci mostri scienza, religione come diverse possibilità di dare un senso al
mondo ed alla vita, come diverse concezioni di bene e di male.
RELATIVISMO ETICO: tale relativismo riguarda la formulazione di giudizi morali e sistema di valori; i due
principali esponenti sono Herskovitz e Strauss: il primo afferma il rispetto delle differenze culturali e il
legame tra diritti e culture, sostenendo che ogni uomo è libero solo quando la società nella quale vive
definisce la libertà e che i diritti che lui ha sono quelli che lui stesso si riconosce in quanto membro della
società. Strauss afferma che non bisogna limitarsi ad affermare l’uguaglianza naturale in quanto l’uomo si
realizza in culture tradizionali. Quindi la comune umanità si realizza con le diversità culturali. Secondo
Strauss il più grande pericolo sta nell’omologazione culturale e nella scomparsa delle culture tradizionali ed
a tal proposito si occupò di scrivere una critica all’ideologia razzista.
ANTROPOLOGIA E DIRITTI UMANI: quando ci opponiamo contro qualcosa di negativo è corretto considerare
l’universalità dei diritti della persona che stiamo difendendo. Ad esempio (questione diritti dei bambini)
alcune società patriarcali, come quella somale o nigeriana, nelle quali vengono mutilati i genitali femminili.
Questa pratica può risultare disumana, andando anche contro alle esigenze delle bambine, ma ciò è
effettuata per favorire l’adattamento e l’accettazione delle femmine nella società, per paura che non
possano trovare un marito o possano essere considerate come impure. Queste critiche non negano
l’importanza dei diritti umani ma la differenza delle prospettive (anche tra mondo occidentale ed orientale)
deve essere rimarcata. L’individuo deve costruirsi la propria personalità all’interno della propria cultura.
CAPITOLO 4
RICERCA SUL CAMPO ED EVOLUZIONE DEI METODI ETNOGRAFICI
ANTROPOLOGIA DA TAVOLINO: l’antropologia durante l’epoca vittoriana, non si affidava agli studi ed alle
ricerche sul campo ma per risalire ad usi e costumi delle popolazioni locali si basavano sui testi e racconti di
mercanti, missionari e funzionari coloniali che erano a loro volta ispirati sulla letteratura delle popolazioni
locali.
MALINOWSKI E LA NASCITA DEL MODERNO FIELDWORK: nel XX secolo si sviluppa la figura di antropologo
che deve essere teorico e ricercatore. Le due principali figure furono Boas e Malinowski; in particolar modo
Malinowski che è considerato tutt’oggi il fondatore dell’antropologia moderna. Trascorse lunghi periodi
presso l’arcipelago della Trobriand, conducendo una ricerca etnografica intensiva e solitaria, vivendo nei
villaggi e documentando tutti gli aspetti quotidiani e della cultura dei nativi. Gli aspetti principali individuati
per Malinowski sono il decentramento (evitare l’influenza della propria cultura al fine di considerare le altre
come bizzarre) ed il coinvolgimento personale, tagliandosi fuori dalla compagnia degli uomini bianchi e
stando a contatto con gli indigeni entrando in empatia con loro e con la loro vita sociale. Questa è una
critica diretta verso gli “antropologi da tavolino”, in quanto non si potrà mai cogliere la routine degli
indigeni e tutti i fattori che caratterizzano la loro cultura stando appunto seduti. Bisogna prendere con
serietà ogni aspetto della cultura tribale e non solo quelli della religione o dell’organizzazione sociale.
La cultura è un’entità organica in cui ogni parte dipende dall’altra: è compito dell’antropologo comprendere
la relazione tra le parti.
L’EPOCA DELL’ORO DELLA RICERCA SUL CAMPO
Il libro di Malinowski “Argonauti del Pacifico occidentale” diede vita ad un nuovo genere di testo
antropologico: la monografia etnografica, testo incentrato sul rapporto tra ricercatore ed una cultura
specifica, che si cerca di rappresentare in tutti i suoi aspetti, cogliendo lo stile peculiare di un modo di vita.
Il libro realizzato da Malinowski tratta della cultura del popolo trobriandese a partire dalla pratica dei
“kulache”, ovvero sullo scambio di oggetti diversi tra i partecipanti. Si trattava di uno scambio rituale che
aveva il compito di instaurare un rapporto di fiducia e di mantenere e creare rapporti sociali. Malinowski
diventa e rappresenterà dagli anni ’20 agli anni ’70 lo standard di antropologo, ovvero quella figura di
studioso che parte in posti lontani e primitivi (i “fieldwork”) per realizzare i propri studi e coltivare le
proprie curiosità e conoscenze. Malinowski insisteva su questo punto in quanto la modernità rappresentava
una minaccia per tutte queste culture che rischiavano di scomparire e quindi era necessario salvarne il più
possibile attraverso la registrazione: si cerca di creare una mappatura universale di tutte le culture
sommando tutte le indagini fino a creare una banca dati universale. Più si andava avanti con gli anni era
facile creare dei “restudies”, ossia di compiere delle ricerche sul campo realizzate già da altri anche se
alcune ricerche hanno dimostrato di essere abbastanza distanti da altre fatte in precedenza.

TRADIZIONI MINORITARIE: tra i paesi dell’Europa la Francia è quello che più si sviluppa in ambito
etnografico grazie alla figura di Mauss. A differenza della realtà francese, le altre mantengono vive le
tradizioni di studio sulle realtà contadine, quindi nell’ambito del folklore, e non espandendosi oltre per
conoscere nuove realtà come fecero quella francese ed anglofona. Il fieldwork si concentra sulla raccolta di
informazioni, attraverso documentazione, analisi di materiale d’archivio, reperti, dialogo con le popolazioni
locali; il folklore esce dalla città alla campagna, ma non va oltre i confini di un altro mondo. Lavora anche su
documenti diversi, mutati dalla storiografia o dalla filologia. Ernesto De Martino propone una via di mezzo
tra folklore e fieldwork, attraverso le sue spedizioni nel Mezzogiorno, con ricerca sul campo, metodi di
rilevazione folklorica, analisi storiche, etc.
DECOLONIZZAZIONE E SVOLTA RIFLESSIVA: con il processo di decolonizzazione, il metodo dei fieldwork
entra in crisi, tra gli anni ’60 ed ’80. Con le richieste di indipendenza dei vari paesi africani, l’antropologia
viene vista con sospetto ed utilizzata solo allo scopo di parlare per loro e come portatrice di interessi
coloniali; ciò porta all’abbandono degli studi degli antropologi per mancanza di sicurezza. Si inizia anche a
mettere in discussione la figura del ricercatore e dell’informatore. Il Malinowski dell’epoca si lascia
trasportare dalla negatività dell’epoca, giungendo anche a sperimentare momenti di insofferenza, collera e
di disprezzo razziale verso gli indigeni (Diario di campo). Ma ciò non risulta essere finzione di quanto detto
precedentemente nel libro degli Argonauti, ma è semplicemente una ricerca ricostruita con un nuovo
risultato.
PROSPETTIVE ATTUALI: la ricerca di oggi non riguarda più partire per posti lontani ma di avere una
prospettiva di pluralità (= etnografie multi situate). I temi più affrontati in questo periodo sono la
migrazione, le violenze, i diritti umani, le guerre e così via ma per approfondire tali temi bisogna costruire
ampi percorsi di circolazione, gli stessi dei soggetti che intendiamo studiare. Non solo non esistono più
culture da analizzare, ma anche le varie popolazioni indigene riescono ormai ad analizzare se stesse
antropologicamente. Ma gli antropologi interni spesso fanno sembrare ridicoli gli interventi di antropologi
esterni e la loro pretesa di capire una nuova cultura in pochi mesi. Pretendere di descrivere una cultura oggi
è altamente complicato, specie se si pensa che la ricerca pura sta subendo carenze di finanziamenti. Gli
antropologi cercano proprio per questo motivo di cooperare internazionalmente in campi come la
medicina, l’economia o l’agricoltura, senza dimenticare i supporti che l’informatica e l’internet possono
aggiungere.
CAPITOLO 5
LA SCUOLA EVOLUZIONISTA: l’evoluzionismo antropologico ha l’obiettivo di risalire indietro nel tempo per
scoprire l’origine delle forme viventi e culturali attraverso l’utilizzo del metodo comparativo che come
presupposto ha il “principio uniformista”, ovvero che tutta l’evoluzione si sviluppa in modo graduale e
costante seguendo alcune leggi che restano invariate nel tempo e nello spazio. Ma l’evoluzione non
procede tutta allo stesso ritmo pur essendo uniforme. Ci sono tratti culturali e simboli passati che si
chiariscono solo prestando attenzione a stadi arcaici. Gli antropologi parlano di sopravvivenza di tutti gli usi
e costumi recenti che hanno radici in credenze e valori passati.
Ad esempio, le differenti religioni odierne si fondano tutte sulla credenza dell’anima che nasce dalla
riflessione sul mondo, sulle esperienze di morte e di sogno del filosofo selvaggio. Successivamente, nel ‘400
e nella società vittoriana, si spiegò tutto ciò attraverso l’intervento divino, in quanto l’essere umano da
selvaggio non avrebbe mai potuto elevarsi da solo ad una condizione di superiorità.
VERSO UNA TEORIA SOCIALE DELLA CULTURA: Taylor affermò che la cultura riguarda le capacità e le
abitudini acquisite dall’uomo in quanto membro della società. Durkheim recuperò tale affermazione,
affermando poi che la società è qualcosa di più della somma degli altri individui che la compongono. La
società funziona secondo meccanismi oggettivi che neanche gli attori sociali riescono ad individuare se non
grazie allo sguardo scientifico. A fare da tramite tra società ed individuo ci sono i concetti di “coscienza
collettiva” e “rappresentazioni collettive”; si tratta di credenze comuni ai membri di una società o cultura.
Attraverso le rappresentazioni collettive la società influenza il pensiero individuale. Ad esempio, ciò che noi
crediamo sacro ha lo stesso potere che la società esercita sull’individuo. Riconosciamo le divinità come
onnipresenti, onnipotenti e immortali; dunque è la sovra-individualità il tema portante dell’esperienza
religiosa. Il rito è il momento cruciale dell’esperienza religiosa in cui la collettività si impone alla coscienza
individuale e ne diventa parte integrante sottoforma di sentimenti morali. Negli individui, durante il rito, vi
è l’”effervescenza collettiva”, ossia quel momento in cui gli individui esprimono la loro appartenenza al
gruppo attraverso il corpo e le emozioni prima che sul piano intellettuale.
FUNZIONALISMO: sviluppatosi nei primi decenni del ‘900, il funzionalismo mira a sottolineare i nessi
funzionali tra i suoi elementi mettendo in risalto la centralità delle diverse forme di organizzazione sociale,
ponendo davanti ad ognuna di queste organizzazioni dei bisogni umani (ad esempio la magia e la religione
fungono da controllo dell’ansia e da rassicurazione). Sono società e persone concrete che nella vita
necessitano di pratiche culturale anche per il mantenimento e la continuità della struttura sociale. Pur
sottolineando i rapporti sociali, il funzionalismo tende a descrivere società omeostatiche (che tendono a
raggiungere una stabilità interna senza mai variare, anche al variare delle condizioni esterne), ma ciò è dato
dal fatto che i ricercatori studiano popolazioni che si trovano immobilizzate dal dominio coloniale.
Successivamente, superati gli anni 30 e inseriti in quelli 50, gli studiosi svilupperanno una consapevolezza
critica sul tema a seguito del processo di decolonizzazione.
STRUTTURALISMO: negli anni 50, il funzionalismo viene sostituito dallo strutturalismo, legato a Strauss, che
vuole capire quali sono i principi che generano la grande varietà delle forme di parentela e dei racconti
mitologici. Ciascun campo dell’esperienza sociale ed esistenziale è ordinato secondo configurazioni ben
precise. Ogni società ha le proprie configurazioni ma tutte sono formate da fondamenti universali e basati
su matrici o modelli generatori; queste matrici sono chiamate strutture. Strauss identifica strutture
“elementari” che implicano le persone in gruppi simmetrici, come i matrimoni, nel quale si ha sempre la
contrapposizione tra natura e cultura e la separazione tra umanità e stato naturale.
Strauss studia anche il pensiero mitologico: il mito utilizza gli elementi più immediati dell’esperienza
comune, come animali e piante, aspetti sociali e naturali, utilizzandoli come operatori simbolici all’interno
dei quali si hanno diverse contrapposizioni, da cielo-terra a natura-cultura.
ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA: tale approccio si afferma negli ultimi decenni del 900 da Geertz, che
afferma che bisogna ripartire dal significato di ciò che i nativi dicono e fanno. Capire il significato è un lento
processo di avvicinamento che procede per tentativi; l’interpretazione è sempre possibile ma può essere
imperfetta. L’oggetto di queste analisi sono le “forme di vita” che poi verranno trascritte dall’antropologo;
la difficoltà sta anche nelle descrizioni ovvero nella costituzione dei dati, che implica il rapporto tra
esperienza di ricerca e scrittura.

CAPITOLO 7
FOLKLORE, CULTURA POPOLARE E CULTURA DI MASSA
La demologia si occupa dello studio dei ceti popolari all’interno delle società occidentali moderne.
Demologia e folklore si occupano dei dislivelli interni di cultura, in quanto il processo di sviluppo procede in
modo non uniforme. Da un lato troviamo l’arcaico, il primitivo ed il selvaggio e luoghi distanti, nel tempo e
nello spazio, dalla civiltà. Dall’altra troviamo il tradizionale, negli strati bassi della società, che hanno
difficoltà ad entrare nel processo di civilizzazione. Nel selvaggio si accompagnano due giudizi: il primo
quello del selvaggio come simbolo di condanna, d’arretratezza, d’ignoranza, di superstizione che
caratterizza il popolo; dall’altra l’esaltazione ed una nostalgia tutta moderna per la sua autenticità e la sua
naturalità per le primordiali virtù. Il folklore contadino è oggetto di scandalo per il suo attardarsi fuori dalla
modernità ma anche di grande osservazione morale per i valori di virtù genuine che si perderebbero con
l’avanzare della modernizzazione. Nel Romanticismo viene esaltata la “Volksgeist” ossia la spontaneità e
l’autenticità dell’estetica popolare, concepita come frutto di una creazione collettiva. Se ne privilegia il
carattere nazionale cioè la particolarità linguistica e culturale. Il Romanticismo favorisce valori come la
fratellanza e l’unione fra i popoli, valori che poi si perderanno. Nel Positivismo si analizzano gli aspetti della
cultura, come usi e costumi, superstizioni e credenze magiche. Da qui in poi nasce il folklore come oggetto
di “vero studio” nel quale si iniziano ad attivare studi di vario genere, comparativo soprattutto, per capire
l’origine della cultura umana.
FOLKLORE COME SCIENZA E POLITICA: a partire dal 1846, data nel quale venne introdotto il termine
folklore da Thoms, tale argomento divenne un’autonoma disciplina di studio e non più un ambito marginale
dell’attività dei filologi. Venne conferito al termine un orientamento quasi nostalgico, come qualcosa da
salvare a tutti costi, di un patrimonio che sembra destinato a scomparire. Ad un certo punto, folklore e
antropologia si divisero, poiché si orientò su singoli studi culturali più che sulla vita complessiva di intere
comunità e all’interesse per l’origine e la diffusione più che per il funzionamento del sistema sociale.
L’antropologia si è sviluppata in ricerca di pratica pura, mentre gli studi di folklore hanno trovato il loro
apice nei musei e nelle politiche territoriali di valorizzazione del patrimonio. Nel XIX secolo, la valorizzazione
della poesia popolare si accompagna alla costruzione di sentimenti e valori nazionalisti, diventando un utile
strumento per la creazione di una coscienza collettiva del moderno stato nazione. I folkloristi non
raccolgono solo poesia, teatro e fiabe ma a sua volta crea forme popolaresche di cultura, come fecero ad
esempio i fratelli Grimm, dimostrando così che anche i folkloristi contribuiscono alla costruzione di ciò che
iniziano a studiare. Ma negli ultimi anni si è visto il folklore come ad un deposito di simboli di appartenenza
ed identità, utile a ricreare una nuova ritualità a sostegno del potere.
EGEMONIA E SUBALTERNITÀ
Gli studi di cultura popolare ebbero un brusco arresto a causa di due grandi fattori: il primo a determinarne
l’immobilità fu il Fascismo, che con le sue politiche autarchiche tagliò i contatti vitali tra l’Italia e gli altri
paesi specializzati in studi sociali-popolari. Questa immobilizzazione portò al sostegno delle aggressioni
coloniali e del Manifesto della Razza. Il secondo fattore di questo forte brusco fu l’Idealismo Storicistico di
Benedetto Croce, indirizzo di grande valore che non vedeva di buon occhio lo sviluppo delle scienze umane
e sociali, in quanto vede i ceti popolari come i rami secchi della civiltà umana. Le cose cambiano nel
secondo dopo guerra, in seguito alle traduzioni giunte in Italia della psicanalisi, della storia delle religioni e
dell’antropologia; ma le principali radici provengono dai “Quaderni del carcere” di Gramsci, incentrata sui
rapporti tra struttura economica e forze sociali e culturali, e su una lettura della cultura in cui le classi
esercitano un’azione egemonica nei confronti di quelle subalterne. Gramsci indica il folklore come quella
cultura popolare che si crea dalla raccolta di frammenti, che unendosi danno vita alla denuncia della
subalternità ed all’oppressione che esprimono una necessità di emancipazione. Indica il folklore come
rapporto tra le classi e come conseguenza diretta dei processi egemonici tramite i quali i ceti dominanti
esercitano il loro potere. Gramsci individua gli intellettuali come i principali mediatori di questa “egemonia
culturale” affermando la necessità di formare nuovi intellettuali organici e appartenenti alle classi
subalterne. Bosio, continuando il discorso di Gramsci, propone la figura di un “intellettuale rovesciato” che
impara dai ceti popolari attraverso il racconto delle loro storie. Cirese, altro intellettuale, ricompone i
frammenti del folklore per dare vita ad una nuova scienza moderna basata sulla contrapposizione
“egemonia-subalternità”, affermando che un tratto culturale non sarà mai subalterno od egemonico, ma la
sua natura dipenderà dal concreto e determinato contesto storico-sociale in cui si colloca. Da questo punto
ne derivano varie ricerche sugli aspetti della cultura popolare che si avvicinano a forme di denuncia sociale.
Interessante è notare che le classi subalterne non sono collocate nella documentazione ufficiale ma bisogna
intuirne la presenza attraverso le tracce lasciate indirettamente nel discorso egemonico.
FOLK REVIVAL: negli anni ’60 a causa della modernizzazione non vengono cancellate le differenze di classe;
le generazioni dell’inurbamento hanno cercato di disfarsi della memoria contadina, vista quasi come
arretrata. Al contrario, le nuove generazioni hanno fatto del folklore oggetto di nostalgia e di
patrimonializzazione. Il disgusto per la cultura di massa attraversa in quegli anni il campo intellettuale a
tutti i livelli. La sociologia critica della scuola di Francoforte vede quest’inurbamento come agente di un
nuovo totalitarismo che distrugge l’autonomia individuale; Pasolini vede nel consumismo la principale
causa di una “rivoluzione antropologica” che ha cambiato gli italiani. Le masse popolari si
“imborghesiscono” cadendo in una forma di oppressione e falsa coscienza ed è questa diffusa coscienza che
spinge a salvare il passato contadino. Gli studiosi, i portatori della tradizione e le amministrazioni locali
combattono questo consumismo favorendo la creazione di enti locali che sviluppano progetti sulla
memoria, sulle tradizioni e le radici del passato che convergono nella formazione di archivi di memoria
basati sulle fonti orali e musei del lavoro agricolo e della vita contadina.
PARADIGMA PATRIMONIALE: negli anni ’90 nasce un’istituzione internazionale dell’UNESCO incentrata sulle
nozioni di memoria e patrimonio che ne detta nuovi obiettivi di valorizzazione delle culture locali e
tradizionali. L’UNESCO ha favorito la costruzione di un quadro di riferimenti normativi per la salvaguardia e
la valorizzazione del patrimonio culturale dell’umanità. Nel 1972 fu creata la lista dei beni culturali e
naturali riconosciuti come “patrimonio dell’umanità”, di carattere storico-artistico e monumentale. A
questa ne sono state introdotte altre come quella delle memorie (archivi e documentari) e quella del
“patrimonio immateriale”, relativa alla cultura nel senso etnografico.
1989: Raccomandazione per la salvaguardia della cultura tradizionale e del folklore.
1993: “Tesori Umani Viventi”, programma volto a favorire la trasmissione del sapere tradizionale.
1999: “Capolavori del patrimonio orale ed intangibile dell’umanità”.
Viene associata l’idea di patrimonio a quella di tesori e capolavori, nell’individuazione di eccellenze che
emergono rispetto ad uno sfondo che non merita di essere salvaguardato. Il documento di “salvaguardia di
patrimonio culturale intangibile” viene creato per definire ciò che si chiamava folklore o cultura popolare.
In questa categoria sono compresi ambiti culturali quali:
- Tradizioni ed espressioni orali, incluso il linguaggio come veicolo del patrimonio intangibile;
- Pratiche sociali, riti e feste;
- Arti dello spettacolo
- Conoscenze e pratiche riguardanti la natura e l’universo;
- Artigianato tradizionale.
Questo documento rappresenta lo standard di riferimento per il ministero dei Beni Culturali, per le
politiche delle Regioni, degli Enti Locali e delle associazioni culturali. Tutti questi beni protetti
richiedono l’assenza di conflitto ed un totale consenso dell’umanità verso i tratti culturali da
salvare.

CULTURA POPOLARE E CULTURA DI MASSA


Oltre alle variazioni dell’UNESCO, cambia anche il ruolo degli antropologi davanti alle emergenze
patrimoniali, proponendosi come tecnici del patrimonio etnografico materiale e immateriale:
cercano di portare rigore filologico e cercano di analizzare i processi di patrimonializzazione,
facendone emergere le connotazioni politiche ed ideologiche. Si analizzano sia gli aspetti interni
delle pratiche al patrimonio, che cerca di farle dialogare con altri soggetti sociali, e gli aspetti
esterni che le studiano criticamente. Vi è stata una riformulazione del concetto d “traduzione”,
inteso da questo momento in poi come un processo di attivazione costruzione di un passato
significativo in relazione alle esigenze del presente. Sono le dinamiche e gli interessi del presente a
decidere quali aspetti del passato occorre ricordare e quali si possano dimenticare. Ma il problema
ancora esistente è quello della presenza di dislivelli interni della cultura contemporanea e la
correlazione tra differenze culturali e sociali. Per mantenere la cultura popolare nella
contemporaneità esistono due modi:
- Quello di cercare la cultura popolare o il moderno folklore al di fuori della sfera dell’influenza della
cultura di massa, negli spazi che essa lascia vuoti. Gli aneddoti, le piccole storie ed i pettegolezzi
sarebbero forme di folklore contemporaneo che si cristallizzano in veri e propri generi, come le
leggende metropolitane o le barzellette.
- Oppure si cerca il “popolare” nelle modalità stesse del consumo della cultura di massa.
Il consumo non è una pratica passiva ma implica modalità diverse di usare ed attribuire significato
ai prodotti consumati. Questo vale sia per le merci materiali ma anche per film, musica ed altri beni
intangibili che vengono scelti ed interpretati dai soggetti sociali. Questo punto è espresso da Hall
che parla di una decodificazione dei prodotti di massa che non coincide con il modo in cui la
produzione industriale li ha codificati. Lo studio etnografico del consumo come pratica culturale ha
l’intento di mostrare cosa vede e sente la gente che usufruisce di questi prodotti; al centro
dell’attenzione si collocano gli oggetti e le pratiche ordinarie e routinarie che la gente fa di questi
prodotti di massa.
CAPITOLO 14
GUERRA, VIOLENZA E GENOCIDIO
Il problema della violenza non è mai stato preso in considerazione nell’antropologia culturale; i libri
degli antropologi spesso non fanno riferimento a guerre o a conflitti anche quando colpiscono il
loro principale oggetto di studio, le popolazioni indigene extra occidentali. Fino al ‘900 si mantenne
questo tipo di disinteresse come se la guerra, anche durante nel periodo del Colonialismo, fosse
considerato un elemento di disturbo che bisogna mettere da parte per analizzare normalmente i
fatti antropologici. Occorre ora tenere conto di due punti di vista sulla violenza in campo
antropologico:
- Il primo, quella “hobbesiano”, che afferma la natura umana come aggressiva e violenta e quindi le
società per funzionare hanno bisogno di istituzioni/leggi/regole che la tengano sotto controllo e che
neutralizzino questi atteggiamenti aggressivi. Questa è la visione di tutto il mondo occidentale, che
ha individuato nelle varie istituzioni rituali (religione, sport e tutta la cultura moderna) delle forme
di controllo e degli spazi appositi dove la violenza può manifestarsi senza compromettere le
relazioni sociali. È avvenuto un “processo di civilizzazione” che ha eliminato dalla sfera pubblica
tutte le forme di aggressività e violenza e ciò è stato possibile grazie all’affermazione di poteri
statali che assumono il pieno controllo (monopolio) della violenza senza farla esercitare anche agli
altri individui; chi ha il monopolio sono i poliziotti, i soldati, etc. Quindi in noi individui è presente
l’idea di una violenza naturale che viene controllata grazie a questi poteri statali.
- L’altro punto, quella opposto, afferma che la società ed il potere sono le fonti di violenza. La civiltà
è fondata da un atto originario di violenza che però crea violenza per evitarne altra da qualcuno più
potente. Ad esempio, la messa a morte di Mussolini è stato un atto di violenza ma necessario per
evitare violenza ben peggiore.
GUERRE E RAPPRESENTAZIONE ETNOGRAFICA DELLA VIOLENZA
Solamente nell’ultimo decennio del ‘900 vennero iniziati a trattare argomenti come la violenza, il
conflitto e la memoria traumatica. Spesso ci si vede coinvolti nelle “nuove guerre”, ossia quelle
guerre combattute tra forze ribelli e governatrici di uno stesso Stato, cercando di ottenere il
consenso e l’appoggio, anche militare, della popolazione civile.
Nella Prima Guerra Mondiale, non vi era stato il coinvolgimento dei civili, nella Seconda la metà dei
morti è stata civile; basti pensare ai bombardamenti, alla Shoah o ai campi di concentramento e
sterminio. Infine, nei conflitti di fine secolo, il 90% dei morti è sempre stato civile. Tutto ciò porta
alla conclusione che l’obiettivo delle strategie belliche è quello di terrorizzare la popolazione in una
sorta di “pulizia etnica” (ovvero che le “razze inferiori” devono sparire) e la guerra, ogni giorno
sempre di più, diventa parte della quotidianità. L’obiettivo degli antropologi e dei modelli
etnografici è di ricostruire un ordine culturale e la coerenza di un modo di vita; obiettivo molto
difficile in quanto la violenza mira a distruggere l’ordine e la popolazione in tutte le sue forme
(distruzione dei beni materiali e sentimentali: casa e famiglia ad esempio). Le stesse idee che
vengono a crearsi sulle guerre ed anche i vari tentativi di capire le ragioni della violenza e della
guerra si avvicina a rendere ragionevole la guerra stessa. Ci si chiede se l’unica cosa da fare sia
tacere, anche davanti allo “sfruttamento” delle immagini dei mass-media per entrare nella nostra
intimità emotiva ai fini di ascolti e successo commerciale, ma ovviamente non possiamo non fare
nulla nei confronti di chi soffre.
TESTIMONIANZE E MEMORIA TRAUMATICA
Molto importante per gli studi sulla violenza sono le testimonianze dirette dei testimoni.
L’antropologo deve diventare uno scriba su tutto ciò che viene detto ma la situazione diventa
particolarmente difficile quando a parlare non è una vittima, ma colui che ha messo in atto la
violenza. Eticamente possiamo dire che sia più ragionevole dare voce alle vittime, ma non sempre
ciò che ci viene raccontato è la verità, in quanto il racconto delle vittime non sarà mai oggettivo e
verranno coinvolti all’interno della storia l’emotività e ciò che il cuore dice, mentre la storia si
occupa di cercare la verità. Quando i testimoni raccontano devono combattere contro un lacerante
trauma esistenziale che li hanno colpiti nell’animo, negli affetti e nei principi base di socialità (non
riescono a creare amicizie o relazioni sociali di qualsiasi genere). Il principio della violenza finisce col
coincidere con quello della memoria traumatica, che anche secondo recenti studi sia stata
influenzata dalla “radioattività”, facendo sì che le esperienze traumatiche restino impresse nella
memoria, continuando ad agire anche dopo molto tempo.
Lo studio della memoria traumatica tocca due punti: da un lato tenta di comunicare con le
soggettività e dall’altro porta verso “forme pubbliche di elaborazione del lutto” (musei,
commemorazioni, monumenti, luoghi di memoria, etc.); tale elaborazione del lutto si intreccia
spesso con il “raggiungimento della giustizia”, ovvero l’accertarsi che delle punizioni dei colpevoli
attraverso interventi istituzionali e giuridici, che talvolta può aiutare al superamento del trauma. La
giustizia non rappresenta un compromesso in quanto esisteranno sempre quelli che non vogliono
ricordare e quelli che non possono dimenticare. La memoria sarà sempre divisa e a rimanere un
terreno di manifestazione dei conflitti rispetto ai quali la giustizia deve cercare di fare mediazione.
MITO E REALTÀ NEL CONFLITTO ETNICO
Il tratto specifico di queste nuove guerre è che tutte si mostrano come movimenti che partono
dall’identità razziale, etnica o religiosa, per rivendicare a sé lo Stato. Ma tutte queste teorie è giusto
che vengano smontate poiché, come dice Ugo Fabietti, quando gli uomini entrano in guerra lo
fanno per conquistare il potere e lo schierarsi in un gruppo risulta essere la soluzione più efficace
per raggiugere quel traguardo e l’identità è una conseguenza dei conflitti, non la causa. Tuttavia,
sono ancora esistenti forme di violenza contro i nemici “etnici”; questa tipologia di violenza non
deriva da situazioni politico-economiche o propagande nazionaliste ma queste forme atroci di
conflitti etnici sono riconducibili alla Globalizzazione ed il suo indebolimento dei confini. La furia
delle violenze è riconducibile alle incertezze che il mondo contemporaneo a proposito delle nostre
identità e di quelle degli altri; quindi la violenza può essere considerata come un mezzo per
raggiungere quella realtà dove l’anomalia è diventata una regola.
UN CONTINUUM GENOCIDA
Come sono stati possibili avvenimenti come la Shoah e le Guerre Mondiali in periodo dominato
dall’emancipazione femminile, dalla tolleranza e dalla cultura della pace? Innanzitutto, ci
interroghiamo sulle condizioni sociali, economiche e politiche che hanno permesso non solo guerre
ma anche strutture come lager e gulag; dall’altro ci chiediamo come i persecutori siano stati in
grado di compiere tali azioni e allo stesso tempo come masse di persone abbiano potuto assistere a
tutto ciò senza reagire. Secondo alcuni studi di psicologia sociale, la compassione umana non è
sufficiente a sottrarsi (liberarsi) al volere dell’autorità; le persone che obbediscono all’autorità
delegano la responsabilità dei loro comportamenti ad altri e quindi anche la loro coscienza morale.
Un’espressione nata dopo gli avvenimenti è quella di “Banalità del Male”, nata dopo le dichiarazioni
di Adolf Eichmann, criminale di guerra nazista che durante il processo si presentò come un semplice
burocrate, che non aveva fatto niente di male e che seguiva semplicemente il suo lavoro
organizzativo. Queste sue affermazioni mostrano il male “anonimo” che non ha bisogno di
mostruosità ma si esercita attraverso ordini ed amministrazione. Anche oggi parliamo di un
“Continuum Genocida” in quanto nella vita quotidiana sono presenti forme di violenza in maniera
nascosta e spesso autorizzata come nelle scuole pubbliche, ospedali, case di cura, prigioni. Questi
atteggiamenti portano ad un individuo di cui ne è vittima ad assumere lo status di non-persone,
giungendo anche a forme di esclusione sociale o disumanizzazione.

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