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1. CAPITOLO PRIMO: AMBITI E OBIETTIVI DELL’ANTROPOLOGIA.

ANTROPOLOGIA: studio dell’essere umano nella sua globalità; scoprire quando, dove e perché
l’umanità è comparsa sulla terra e si è evoluta, e come si siano prodotte le varietà fisiche
presenti nelle popolazioni moderne; si interessa inoltre alla variabilità delle idee e delle usanze
tradizionali nelle società passate e presenti; inizialmente solo culture non occidentali, lasciando
ad altre discipline lo studio della civiltà occidentale e di analoghe società complesse, dotate di
una storia scritta, oggi sia città industriali sia remoti villaggi del mondo non occidentale;
questo perché ogni ipotesi generale sull’uomo dev’essere applicabile ai vari contesti
criterio storico + proporzioni mondiali dell’ambito di interesse + approccio olistico (o multi
prospettico = studio di molti aspetti dell’esperienza umana  tendenza alla specializzazione in
un settore particolare)
ciò che contraddistingue l’antropologia è proprio l’indagine degli elementi (i tratti, i
costumi) specifici di un gruppo umano
nasce alla fine dell’800
 serve a ridurre o risolvere i problemi sociali attraverso la comprensione e il cambiamento
delle condizioni che li creano
 contribuisce alla conoscenza del genere umano e permette di evitare fraintendimenti tra
popolazioni diverse (l’intolleranza nei confronti della diversità è infatti dovuta, in parte,
all’ignoranza in merito alle ragione della differenza tra le persone)

antropologia
 
antropologia fisica (o biologica) (*) antropologia culturale (§)
(settore molto ampio della ricerca  archeologia
antropologica)  linguistica
 etnologia (studia le culture più recenti, ci si
riferisce spesso con l’espressione più generale di
antropologia culturale)
L’antropologia nasce con Erodoto nel VI secolo a.C., primo narratore i viaggi interessato alla
diversità culturale.
Solo nella seconda metà dell’Ottocento diviene una disciplina scientifica in un contesto
coloniale in Occidente, soprattutto i Francia e Spagna.
ANTROPOLOGIA FISICA(*): origine e evoluzione del genere umano (paleontologia umana o
paleoantropologia); variazioni biologiche delle popolazioni contemporanee (focalizza il proprio
interesse sulla variabilità degli esseri umani)

CULTURA: abitudini mentali e comportamentali tipiche di una popolazione o di una società



ANTROPOLOGIA CULTURALE(§): archeologia (studio delle culture antiche attraverso i loro resti
materiali); antropologia linguistica (analisi linguistica in prospettiva antropologica); etnografia
(indagine su popolazioni viventi e recenti) 

linguistica strutturale (indaga i principi secondo cui suoni e parole sono organizzati nel
discorso)
sociolinguistica (si occupa degli aspetti sociali della lingua)

l’etnografo è un tipo particolare di etnologo che trascorre un periodo di tempo condividendo,


interagendo e osservando la popolazione che è oggetto del suo studio  etnografia (descrizione
dettagliata che segue all’indagine sul campo)  l’indagine etnografica non è soltanto descrittiva,
ma propone spiegazioni dei fenomeni osservati
etnostoria (studio dei mutamenti culturali che sopravvengono nel tempo)
L’antropologia è una disciplina pluriparadigmatica poiché è in stretta correlazione con altre
discipline, le quali guardano lo stesso fenomeno da angolazioni differenti.
Gli ambiti principali di questa disciplina sono: sistemi di parentela, sistemi economici,
stratificazione sociale, linguaggio verbale e non, religione e magia, etnoscienza ed espressione
estetica.
2. CAPITOLO SECONDO: RAZZA, CULTURA E ETNIA
RAZZA: parola usata dal 1500 per delineare una parentela, un lignaggio o una discendenza,
poi a partire dal 1800 ha assunto il significato attuale, ovvero: gruppo umano caratterizzato da
peculiarità sia somatiche, sia intellettuali che comportamentali.

GOBINAU--> 1856 Saggio sull'inuguaglianza delle razze umane che teorizza:


 Biologizzazione
 Gerarchia delle razze
 orrore per la mescolanza tra razze
Non è una teoria progressista, ma degenerativa: la storia implica mescolanze tra razze che ne
minano l'autenticità. Questa teoria è influenzata dalle teorie evoluzioniste di Darwin e Spencer.

MONOGENESI: tutta l'umanità ha una genesi comune e le differenze sono il frutto di un


processo di evoluzione.
POLIGENESI: le differenze rimandano ad un'origine diversa.

CULTURA: insieme di tutte quelle pratiche, usi, costumi, consuetudini e conoscenze, per
quanto banali e quotidiane che una comunità umana possiede e attraverso le quali si adatta
all'ambiente e regola le proprie relazioni sociali.

LEVI-STRAUSS--> "Barbaro è colui che crede nella barbarie."

ETNIA: gruppo di persone che condivide un insieme di elementi culturali. E' un termine usato
per esprimere differenze profonde e radicate tra gruppi umani. Deriva dal termine greco èthnos
che già all'epoca aveva un connotato dispregiativo.

3. CAPITOLO TERZO: ETNOCENTRISMO, RELATIVISMO E DIRITTI UMANI

RAGIONE E COSTUMI
La corrente principale della filosofia occidentale ha considerato la diversità degli usi e dei
costumi come un imbarazzante ostacolo. Il tentativo di definire la ragione umana, in una sua
forma pura, doveva sforzarsi di prescindere dalla frammentaria eterogeneità dei costumi.
Come nel cartesiano Cogito ergo sum, la filosofia si fonda sul più radicale e isolato degli atti
riflessivi, un pensiero che pensa sè stesso appunto. In questo tipo di indagine sull'uomo,
conoscere gli altri non è importante e può anzi essere un vero e proprio ostacolo.
Commentando i resoconti sui tahitiani dei viaggiatori, Kant afferma che è la loro perifericità e
l'isolamento a renderli irrilevanti per la ricerca sulla ragione sia essa pura o pratica.
Conoscerne i costumi e le credenze può al massimo rappresentare un esercizio di curiosità per
le retroguardie.
Nella storia della filosofia vi è un atteggiamento che viene chiamato da Remotti "il giro lungo":
esso è il confronto con la diversità, l'idea che per capire la nostra stessa ragione occorra
ampliare lo sguardo, passare attraverso quanto ci è familiare. Questo tipo di riflessione è stato
poi supportato dai viaggi e dalle scoperte geografiche.

RELATIVISMO EPISTEMOLOGICO
Il viaggio è fin dagli inizi la metafora portante della strategia conoscitiva: "un viaggio
d'esplorazione e di scoperta, in cui visiteremo molte e strane terre lontane, e strani popoli dagli
ancor più strani". Per quanto lontano il viaggio possa condurre, non si potrà scoprire nulla di
diverso da quell'unica ragione umana che trova il suo più perfetto modello nella scienza
moderna. Quanto si discosta dalla visione scientifica potrà essere compreso solo in termini di
imperfezione- frutto di uno sviluppo attardato o di pregiudizi che sviano la razionalità dai suoi
naturali percorsi. L'antropologia entra in rapporto con una più vasta sensibilità relativistica che
caratterizza fin dai suoi esordi il XX sec. Nel Novecento la scienza fa dubitare della tranquilla e
familiare solidità del mondo fisico; la letteratura e l'arte dissolvono i rassicuranti linguaggi
espressivi di tipo realista; anche il diffuso interesse per l'antropologia nei primi decenni del
Novecento si colloca in questo quadro: è il tema freudiano del primitivo dentro di noi che
affascina l'immaginario artistico e letterario nello stesso modo dell'inconscio.
Interessa inoltre segnalare come nel pensiero novecentesco il rapporto tra razionalità
scientifica e diversità antropologica si vada invertendo. Nel positivismo, la razionalità scientifica
sembra il solido punto di partenza rispetto al quale spiegare le bizzarrie delle altre culture;
nello scenario post-empirista del XX secolo, al contrario, la stessa razionalità scientifica viene a
poggiare su basi storico-culturali. L'antropologia può essere allora intesa come la descrizione
empirica di contesti nei quali maturano forme particolari e irriducibili di razionalità. Non si
tratta di affermare una dottrina secondo la quale la verità o la realtà oggettiva non esistono,
ma di non pretendere di possedere a priori criteri universali di razionalità prima di accostarci
alla diversità delle culture e delle epoche storiche. I relativisti rispondono che la comprensione
avviene sempre su basi pratiche e non a partire da un nucleo epistemologico dato.
Concludendo, noi possiamo giudicare falsa o illogica un'affermazione o una credenza all'interno
di un modo di vita specifico, guidato da norme condivise di ragionamento razionale: tuttavia
non possiamo formulare questo giudizio verso un intero linguaggio o un intero modo di vita.

RELATIVISMO ETICO
Un tipo di relativismo che è stato invece sostenuto in modo esplicito e consapevole è quello
etico, riguardante la formulazione di giudizi morali e sistemi di valori.
Il documento, dal titolo Statement on Human Rights, affermava con molta nettezza che ogni
individuo realizza la propria personalità all'interno e attraverso la propria cultura, e che
"costumi e valori sono relativi alla cultura da cui derivano". Dunque, una dichiarazione dei
diritti veramente universale e non etnocentrica deve tenere in considerazione la legittimità di
agire e di pensare in conformità alle credenze, ai costumi e ai codici morali della propria
cultura. Lo Statement antropologico non fu accolto nella dichiarazione dei diritti. La cultura
politica prevalente nelle Nazioni Unite vedeva le differenze come disuguaglianze, laddove gli
antropologi le vedevano come uno sfondo indiscusso da rispettare e salvaguardare. Come
conciliare allora il riconoscimento della diversità con i principi di unità e uguaglianza del genere
umano? La soluzione per Levi-Strauss consiste nell'affermare che la comune umanità si
realizza attraverso e non malgrado le differenze culturali.

4. CAPITOLO QUARTO: LA RICERCA SUL CAMPO E L'EVOLUZIONE DEI METODI


ETNOGRAFICI

ANTROPOLOGIA DA TAVOLINO
I grandi studiosi vittoriani non svolgevano in modo diretto ricerca sul campo. I loro libri erano
costruiti come trattati comparativi di racconti e resoconti di mercanti, missionari, coloni,
naturalisti ed altri viaggiatori, che descrivevano in modi più o meno dettagliati gli usi e i
costumi delle popolazioni locali. Molto spesso questi trattati non narravano oggettivamente
delle lontane tribù polinesiano o dell'Africa, ma i fatti in questione ci dicevano solamente
qualcosa dei loro pregiudizi, volti ad attribuire ai selvaggi credenze superstiziose di tipo
infantile.
Frazer e i suoi contemporanei pensavano che la solidità di queste opere consistesse proprio nel
loro fondamento empirico, dunque gli antropologi ottocentesco non erano totalmente insensibili
all'importanza di una ricerca in grado di produrre fonti di prima mano; ma in generale
ritenevano quello del ricercatore sul campo e quello del comparatista due ruoli completamente
diversi, che erano e dovevano rimanere separati.

MALINOWSKI E LA NASCITA DEL MODERNO FIELDWORK


Nel XX secolo si sviluppa progressivamente una sensibilità volta ad unire le due figure del
ricercatore e del comparatista in un'unica figura. Il primo a dar vita a questa figura unica fu
Bronislaw Malinowski, un atropologo polacco formatosi a Londra che tra il 1914 e il 1918
trascorse lunghi periodi in un arcipelago malesiano, dove condusse una ricerca etnografica
vivendo all'interno di un villaggio e documentando tutti gli aspetti della cultura locale. Il
metodo di Malinowski è caratterizzato da due aspetti: il decentramento e il coinvolgimento
personale. L'indagine etnografica si presenta dunque come un compito che coinvolge l'intera
personalità dell'etnografo e la sua più ampia sfera esistenziale, egli dunque deve tagliare i
ponti con la propria realtà ordinaria e sottoporsi a pesanti privazioni al fine di raggiungere una
nuova consapevolezza. Inoltre è il concetto di "dato" che cambia, infatti ora non si tratta solo
di procurarsi informazioni oggettive, ma di stabilire un rapporto empatico con i nativi.
La cultura è un'entità organica, in cui ogni parte dipende da ogni altra: e il compito
dell'antropologo è quello di comprendere le relazioni tra le varie parti.

L'EPOCA D'ORO DELLA RICERCA SUL CAMPO


Argonauti del Pacifico occidentale non è un resoconto di ricerca come tanti: è il paradigma di
un nuovo genere di testo antropologico, la monografia etnografica, che da allora in poi
sostituirà l'obsoleto format del trattato comparativo. La monografia è un testo incentrato sul
rapporto esclusivo tra un ricercatore e una cultura specifica. In Argonauti la cultura
trobriandese è descritta a partire da una sua particolare istituzione, il dono cerimoniale; questo
aspetto non può essere affrontato senza collocarlo in modo sistematico nella dimensione
ecologica ed economica, di parentela, di potere, di saperi e pratiche religiose.
Importante da notare è che il tipo di ricerca proposto da Malinowski diventa lo standard per le
maggiori scuole antropologiche per circa mezzo secolo, dagli anni '20 agli anni '70. In questa
fase classica, in ogni caso, gli antropologi credono fermamente nell'oggettività dei dati.

6. CAPITOLO SESTO: SPIEGARE, COMPRENDERE E INTERPRETARE

SPIEGAZIONE E COMPRENSIONE
Le scienze sociali cercano di assomigliare per quanto possibile a quelle naturali o esatte:
individuano fatti che si presumono oggettivi, li sottopongono a classificazioni e
generalizzazioni, cercano di stabilire relazioni causali. In definitiva il loro obiettivo è di spiegare
certi fenomeni umani e sociali in riferimento a leggi di carattere generale. Tuttavia una
tradizione di pensiero sostiene l'irriducibilità dei fenomeni sociali e culturali ai metodi
naturalistici. Nella seconda metà dell'Ottocento fu teorizzata una separazione netta tra le
scienze naturali e le scienze dello spirito, come la storia e gli studi sociali. Le prime si
esercitano su oggetti e fenomeni esterni alla coscienza umana e mirano a proporre una
spiegazione; mentre le seconde hanno a che fare con comportamenti umani intenzionati che
nono possono essere semplicemente colti dall'esterno. Infatti il metodo delle scienze dello
spirito è quello della comprensione, dunque il tentativo delle scienze umane di imitare il
metodo di quelle esatte sarebbe puramente illusorio.

ETNOCENTRISMO CRITICO
Ernesto de Martino non mette in dubbio la superiorità della cultura occidentale. E’ anche
consapevole del fatto che la conoscenza non può che avvenire attraverso le proprie categorie e
modelli concettuali. Tuttavia egli nota che l’etnologia offre una grande opportunità all’uomo
occidentale: quella di farsi “un radicale esame di coscienza e di rendersi conto che le sue
categorie interpretative hanno una storia che è loro propria”. Inoltre propone di ritrovare un
terreno comune a tutti gli uomini nel segno di un “umanesimo etnografico”.
Quindi, recuperata la dimensione critica sul proprio sapere e la propria finitezza, la cultura
occidentale è quindi libera di incontrare gli altri su un terreno costruttivo. Nelle parole di De
Martino questo progetto si definisce “un etnocentrismo critico che si configura come una
continua ridiscussione delle proprie categorie analitiche, in una discussione che più che a una
loro modifica in funzione dell’oggetto di conoscenza, mira a produrre nell’etnologo la
“consapevolezza” del fatto che egli sta osservando una cultura aliena attraverso delle categorie
“storicamente determinate” di cui tuttavia egli non può fare a meno”.
Una posizione che fa del punto di vista critico un incontro costruttivo e non un giudizio
polemico unilateralmente superiore.
L'etnocentrismo critico ha il merito di conservare le istanze anti-positivistiche degli approcci
comprendenti, evitando tuttavia i paradossi e le contraddizioni del relativismo culturale.
RETORICHE E POLITICHE DELL'ETNOGRAFIA
Anche se influenzata dalla teoria geertziana e da un'ampia tradizione comprendente delle
scienze sociali e umane, una parte consistente dell'antropologia resta legata al modello
naturalistico: si tratta delle correnti neo-evoluzioniste di ecologia culturale e della sociobiologia.
Questi studi affrontano i fenomeni umani e culturali su una scala diversa da quella etnografica
e sono interessati alle funzioni adattive che essi svolgono per la specie; nel caso della
sociobiologia l'oggetto di ricerca sono più i geni degli esseri umani, e i fenomeni culturali sono
valutati in relazione al concetti di successo riproduttivo. Del tutto legittimi quando si
mantengono sul piano di una teoria generale dell'evoluzione, questi indirizzi pretendono
talvolta di spiegare fenomeni storici o pratiche socio-culturali specifiche, cadendo in un
determinismo naturalistico rozzo. Applicando queste teorie però si trascurano i complessi livelli
di mediazione che si collocano tra la costituzione genetica degli individui e quello specifico
comportamento.
L'antropologia interpretativa da parte sua non abbandona né il rigore scientifico né la stretta
aderenza alla realtà per il fatto di rifiutare il determinismo naturalistico.
Oltre all'antropologia interpretativa di Geertz è decisiva l'influenza di Edward Said e della sua
opera Orientalismo del 1978. In quest'opera Said ha cercato di decostruire le rappresentazioni
che il mondo occidentale ha dato dell'Oriente, analizzando un'ampia produzione discorsiva che
include la letteratura, i racconti di viaggi, gli studi filologici e storico-antropologici.

L'APPROCCIO POST-COLONIALE
Verso la fine degli anni '80 vediamo convergere la tradizione comprendente delle scienze sociali
con la critica alle implicazioni ideologiche coloniali e post-coloniali dell'antropologia. E' un
atteggiamento cui viene certe volte attribuita l'etichetta di post-moderno.
Si sviluppano in questa direzioni correnti di pensiero di vario tipo, che si riconoscono nella
generica denominazione di antropologia critica e confinano con l'ambito degli studi post-
coloniali. Come abbiamo visto, per comprendere o anche solo descrivere una pratica sociale
occorre passare attraverso i significati e le intenzioni che gli attori le attribuiscono. Ad esempio,
di fronte ad un rito religioso dovremmo tirare in ballo le credenze teologiche, le concezioni del
sacro, il senso di peccato e di salvezza e il rapporto con le divinità, e tutta una serie di
elementi che appartengono alla cultura dei partecipanti.
Queste teorie post-coloniali o neo-marxiste negano la datità delle differenze culturali,
riconducendole ad oggettive configurazioni economico-politiche che producono disuguaglianza
e violenza.

6. CAPITOLO SETTIMO: FOLKLORE, CULTURA POPOLARE E CULTURA DI MASSA

EGEMONIA E SUBALTERNITA’
Dopo il congresso e la Mostra di Etnografia del 1911 si verifica in Italia un arresto degli studi
antropologici, dopo la guerra due saranno i motivi a determinare la stagnazione della ricerca in
campo Folkloristico e antropologico: il primo è il fascismo che traglia i contatti tra gli studiosi
italiani e quelli internazionali, il secondo è il ruolo cruciale che gioca l’idealismo storicistico di
Benedetto Croce, il quale non vede di buon occhio lo sviluppo delle scienze umane e sociali.
Solo nel secondo dopoguerra le cose cambiano radicalmente, l’Italia si apre alla cultura
internazionale in cui vengono tradotte le più grandi opere di psicanalisi e antropologia, inoltre
si sviluppa un indirizzo di studi incentrato sulla cultura popolare, il cui fondatore fu A. Gramsci.
Egli definì il folklore come tratto culturale nella collocazione delle dinamiche dei rapporti sociali,
come fenomeno centrale dei rapporti tra le classi. Ne Quaderni ( sua più grande opera)
individuava gli intellettuali come i mediatori dei processi di egemonia culturale. Bosio invece
propone la figura di un intellettuale rovesciato, il quale non insegna ai ceti popolari ma impara
da loro.
I vecchi studi basati sul concetto di folklore come spirito della nazione o sopravvivenza
conservano un valore documentario e possono essere reintegrati in una moderna scienza della
cultura popolare, ovviamente rileggendoli sullo sfondo della contrapposizione egemonia -
subalternità
CULTURA POPOLARE E CULTURA DI MASSA
Il nuovo paradigma cambia anche il ruolo degli antropologi: non sono più intellettuali rovesciati
né disvelatori di dimensioni periferiche o nascoste delle pratiche sociali, ma diventano da un
lato dei tecnici del patrimonio etnografico materiale o immateriale e dall'altro molti di loro si
dedicano ad analizzare i processi di patrimonializzazione stessi, facendone emergere le
connotazioni politiche ed ideologiche.
In entrambi i casi, gli antropologi non si identificano del tutto con il linguaggio essenzialista del
patrimonio. Nei recenti dibattiti teorici è stato ripensato in profondità proprio quel concetto di
tradizione su cui il paradigma di patrimonio si impernia. La tradizione non deve essere intesa
come permanenza del passato nel presente, bensì come un processo di attiva costruzione di un
passato significativo in relazione alle esigenze del presente. Dunque più che tradizione,
dovremmo usare il termine "processi di tradizionalizzazione o folklorizzazione".
Il paradigma patrimoniale proietta nel passato le differenze da proteggere. La concezione
gramsciana suggerisce invece di studiare nel loro sviluppo storico e quindi anche nel presente
le relazioni tra egemonico e subalterno.
Quindi non c'è uno spazio nella contemporaneità per le culture popolari? Ci sono due modi di
rispondere a questa domanda:
 il primo è quello di cercare la cultura popolare al di fuori della sfera di influenza della
cultura di massa, in quegli ambiti in cui essa non riesce ad entrare.
 la seconda strategia consiste nel cercare il popolare nelle modalità stesse del consumo
di massa, in quanto è stato dimostrato che il consumo non è una pratica puramente
passiva.
E' importante precisare che lo studio del consumo come pratica culturale ha bisogno di un
approccio etnografico, occorre cioè vedere e sentire cosa la gente fa e dice mentre ne fruisce.

7. CAPITOLO OTTAVO: VERSO UN'ETNOGRAFIA DEL CONSUMO CULTURALE

LA TEORIA CRITICA
Caratteristica cruciale della società industriale è la netta separazione tra sfera della produzione
e sfera del consumo, invece nei contesti preindustriali questa separazione è parziale, ad
esempio, la famiglia contadina tradizionale si rivolge raramente al mercato e produce da sé
molte delle cose che servono. Certo, l'autosussistenza non è mai totale; tuttavia molti tratti
culturali erano prodotti e consumati all'interno della stessa comunità locale.
Nei contesti industriali avanzati, i momenti di coincidenza tra produzione e consumo si
riducono drasticamente, in quanto la gran parte dei beni (NB: per beni di consumo si
intendono sia quelli materiali come il cibo, sia quelli intellettuali come la cultura o l'istruzione)
viene prodotta dall'industria e distribuita al consumatore attraverso i mercati. Il riconoscimento
delle differenze culturali (della linea di frattura tra egemonico e subalterno) deve passare
all'interno delle pratiche di consumo di massa.
Per questo è così importante per l'antropologia affrontare il campo del consumo.
Apparentemente questo tipo di società sembra il trionfo della democrazia. La cultura,
tradizionalmente riservata ad una ristretta élite, è disponibile per le masse grazie alle
tecnologie mediali e al mercato capitalistico. Ma di fatto la cultura che viene così diffusa è
quanto di più distante si possa immaginare dalla grande tradizione europeo: ne è infatti una
grottesca caricatura, che con il pretesto dell'ampia accessibilità svuota le forme di ogni
contenuto, in quanto il suo reale contenuto è l'assoggettamento totale dell'individuo al sistema.
Autori come T.W. Adorno e altri esponenti della Scuola di Francoforte, studiano come il
dominio del sistema capitalistico si insinua fino all’interno della sfera soggettiva, nelle prime
fasi il capitalismo esercita il potere attraverso delle strutture coercitive esterne,
successivamente si passa ad una cultura di massa come strumento di dominio che influenza le
coscienze degli individui. Adorno vuole scoprire i significati reali e sostiene che i significati si
celino più nella struttura formale che nei contenuti espliciti, gli individui sono assoggettati nella
società di massa da un potere che neanche percepiscono. Inoltre secondo questi autori l'analisi
sui mass media deve essere condotta all'interno di quella più ampia sul sistema sociale
industriale e postindustriale di cui essi sono parte integrante. L'analisi dei mezzi di
comunicazione di massa risulta così essere inerente a un aspetto specifico del rapporto
individuo-società, vale a dire ai meccanismi di manipolazione della coscienza individuale
tramite i quali il sistema capitalistico si impone sulla coscienza individuale. Nel nome del
benessere economico l'uomo rinuncia alla propria libertà individuale divenendo facile preda
delle mode consumistiche e uniformando il proprio comportamento a quello della massa. Da
qui l'affermarsi di fenomeni quali il conformismo e il mimetismo, tipici delle società attuali.
All'interno di questa prospettiva la funzione primaria dei mezzi di comunicazione di massa è
allora quella di diffondere i valori del consumo, indicando come desiderabile, bella, necessaria,
ma anche artistica, ora questa ora quella merce. In questo modo la società industriale riesce a
perpetuare se stessa, creando al contempo negli individui un consenso interiore che ne
assicura la fedeltà.
L’ANALISI SEMIOLOGICA
Negli anni ’60 – 70 l’obiettivo di molte discipline era quello di svelare il contenuto nascosto
delle cose, grazie anche alla semiotica, disciplina che studia i segni ed il modo in cui questi
abbiano un senso. Si tende ad associare il contenuto esplicito al contenuto latente (si palesa
nell’uso dei simboli) ad un prodotto che potrebbe avere dei significati culturali no dichiarati,
quali status sociale, purezza e sicurezza. Ad esempio un modello di auto, il Tour de France, un
alimento assumono un carattere mitologico, il quale rimanda ad un significato ulteriore.
Dunque l’analisi semiologica vuole cogliere il messaggio che la cultura pop contiene e le
categorie morali su cui la società borghese si fonda. ( Eco ha studiato cosa nasconde il fumetto
Superman).

STRATEGIE DELLA DISTINZIONE


Già dagli anni '60 Umberto Eco si rendeva conto della necessità di programmi di analisi
empirica, infatti in questa direzione si sono mossi altri indirizzi, che hanno affrontato il
consumo culturale non tanto come insieme di messaggi da decifrare, bensì come un sistema di
pratiche di concreti attori sociali. La domanda cruciale dunque è. che cosa fanno quelle persone
quando leggono Superman, ascoltano musica jazz o scelgono detersivi al supermercato?
Introducendo un aspetto del consumo che ancora non abbiamo trattato, possiamo iniziare a
rispondere. Gli approcci critici fin qui discussi pensano all'industria culturale come ad una forza
omologante, che cancella ogni differenza e rende le sue vittime tutte uguali, esemplari
intercambiabili di uomo-massa. Eppure ciò contrasta con un evidente aspetto delle pratiche di
consumo: per gli attori sociali, esse rappresentano un'arena privilegiata di espressione, se non
persino di produzione, di differenze sociali. Lontano dall'uniformare, il consumo serve a
distinguere.
Questo aspetto del consumo è stato analizzato da Veblen in un saggio intitolato La teoria della
classe agiata. Il libro analizza le forme di consumo vistoso da parte delle classi dominanti.
Nella società pre-industriale i ceti superiori si distinguono evitando occupazioni che hanno a
che fare con la produzione diretta. Con il capitalismo e il prevalere della borghesia, che basa il
proprio potere sulle attività produttive, questo sistema si disgrega; ma il principio che rende
prestigiose le pratiche inutili continua a sussistere, spostandosi sul piano dei consumi.
Spesso l'antropologia e la sociologia hanno contrapposto il consumismo moderno, concepito
come pura rincorsa utilitaria ai beni, a istituzioni tradizionali quali il dono, volte a costruire e
rinsaldare legami sociali. Se seguiamo Veblen invece le cose appaiono molto diverse: le
moderne pratiche di consumo sembrano piuttosto riprendere e inglobare le relazioni morali che
nella società arcaica caratterizzavano il dono. Si può dunque pensare che tutto il consumo è in
qualche misura vistoso e percorso da rapporti di emulazione. Il che significa considerare il
consumatore come un soggetto calcolatore, che strumentalmente uniforma i propri gusti,
preferenze e desideri a ciò che più gli conviene in termini di status.
Proprio in questo punto si innesta la riflessione di Bourdieu, il quale introduce il concetto di
habitus. L'habitus consiste in una serie di competenze, disposizioni, atteggiamenti che il
soggetto incorpora attraverso il processo di inculturazione. E' dunque un oggettivo indicatore di
status sociale, anche se gli individui lo percepiscono come naturale predisposizione, come una
indiscussa guida alle pratiche sociali e ai giudizi estetici. Esso disegna una cartografia delle
differenze sociali in base a due indicatori: il capitale economico e il capitale culturale, questo dà
luogo a 4 grandi famiglie.
 ceti ad alto capitale economico e alto capitale culturale
 ceti ad alto capitale economico e basso capitale culturale
 ceti a basso capitale economico e alto capitale culturale
 ceti a basso capitale economico e basso capitale culturale
Bourdieu vede il consumo culturale come un campo definito da queste posizioni nel quale i
soggetti si muovono non solo in modi che rispecchiano la loro collocazione, ma perseguendo
attivamente strategie di distinzione. Diversamente da quanto sembrava a Veblen, secondo
Bourdieu le strategie distintive sono più demarcanti che emulative: sono cioè rivolte verso il
basso, nel tentativo di tracciare linee di separazione dai gruppi inferiori la cui ascesa è vista
come inappropriata e minacciosa.
L'APPROCCIO ETNOGRAFICO
Le società di interesse antropologico sono il regno del dono in contrapposizione al mercato,
della produzione artigianale in contrapposizione a quella industriale, di uno scambio armonico
di dare e avere con il mondo naturale in contrapposizione al rapporto predatorio implicato dal
consumo di massa.
Le pratiche e le istituzioni delle moderne società occidentali sono diventate oggetto legittimo
della ricerca antropologica. Tra i primi a considerare le società in quest'ottica di consumo è
stata Mary Douglas, la quale non si è accontentata di considerare riti e simboli solo come
strumenti di coesione, ma anche come aspetto emergente di sistemi categoriali e classificatori
socialmente condivisi che ordinano l'esperienza del mondo, sia naturale che sociale. Douglas
affronta in chiave analoga il problema del consumo di massa. il suo bersaglio critico sono qui le
teorie degli economisti, secondo i quali il comportamento di consumo sarebbe guidato da una
pura razionalità utilitaria. Secondo l'antropologa, il consumo è razionale, ma in modo diverso:
esso rappresenta un complesso sistema culturale, vale a dire un campo in cui si costruisce
l'intelligibilità del mondo. In altre parole, i beni sono indicatori di categorie culturali e oggetto
di pratiche di tipo rituale. I riti sono convenzioni che tracciano definizioni collettive visibili, con
l'intento di contenere le fluttuazioni dei significati: essi si servono spesso di oggetti materiali, e
quanto più costosi sono gli addobbi per il rituali, tanto più forte sarà l'intenzione di fissare il
significato per il futuro. In questa prospettiva i beni sono accessori rituali: il consumo è un
processo rituale la cui funzione primaria è di dare un senso al flusso indistinto degli eventi.
Sinteticamente:
 i beni di consumo rappresentano un ricco sistema semantico, strutturato attorno alle
principali categorie delle società contemporanee;
 i comportamenti di consumo rappresentano un campo morale e hanno natura in ultima
analisi rituale. Quindi sono pratiche che costituiscono e commentano i legami sociali;
 i consumatori utilizzano in modo attivo e spesso creativo i beni, e non sono solo vittime
passive delle strategie di marketing;
 di conseguenza l'attenzione del ricercatore passa dall'analisi semiotica dell'oggetto alla
descrizione delle modalità di fruizione da parte di specifici soggetti sociali;
 una tale descrizione deve avere carattere etnografico . cioè deve cogliere le pratiche
della quotidianità attraverso il rapporto diretto con gli attori sociali.

CULTURAL STUDIES (Leggere il paragrafo dal libro per capire meglio i concetti)
I Cultural Studies sono scuola e corrente sociologica indirizzata allo studio dei fenomeni sociali
e culturali contemporanei secondo una prospettiva critica. I Cultural Studies sono infatti
caratterizzati da una profonda vocazione “politica”, che porta a indagare da vicino il rapporto
fra potere e cultura e a considerare la cultura stessa non solo un campo di analisi ma anche il
luogo dove operare criticamente e politicamente. Dal punto di vista metodologico, i Cultural
Studies rifiutano un'identità disciplinare precisa e un approccio univoco, preferendo aprirsi, in
fase di analisi, a letture articolate di tipo insieme estetico, economico, storico-politico, in una
sorta di “bricolage” metodologico dove possono incontrarsi e combinarsi diverse strategie
d'indagine. I Cultural Studies sono quindi caratterizzati da una forte vocazione alla
multidisciplinarietà. Storicamente, nascono in Gran Bretagna, con la fondazione nel 1964 del
Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) presso l'Università di Birmingham, diretto da
Richard Hoggart. Dal 1969, e per il decennio successivo, il CCCS vene diretto da Stuart Hall,
forse l'esponente di maggior spicco internazionale della scuola. Dalla Gran Bretagna, i Cultural
Studies si sono poi diffusi in diversi Paesi, soprattutto negli Stati Uniti e in Australia,
assumendo di volta in volta caratteristiche metodologiche e finalità diverse a seconda dei vari
contesti nazionali e culturali. Inizialmente il gruppo si caratterizzò per la critica alla tradizione
umanistica universitaria, accusata di promuovere un tipo di cultura fruibile solo da un ristretto
numero di eletti, poi ha spostato la propria attenzione a tematiche diverse, concentrandosi nel
corso degli anni a studiare principalmente i subcultural groups, primo fra tutti l'universo dei
giovani, le loro mode e i loro stili di vita, soprattutto in conflitto con la cultura ufficiale; i mass
media e il loro ruolo ideologico e poi il multiculturalismo, il rapporto tra “locale” e “globale” e in
generale la condizione postmoderna.
8. CAPITOLO NONO: CORPO SALUTE E MALATTIA

LA PROSPETTIVA BIOMEDICA
Il senso comune ci abitua a pensare noi stessi come composti da un corpo, una mente e una
rete di rapporti sociali; e a considerare queste tre sfere come autonome e separate. Il corpo è
qualcosa di materiale, dunque è descritto oggettivamente dalle scienze naturali e la sua cura è
compito della medicina. La mente è qualcosa di immateriale, racchiusa nel corpo, nella quale
risiede la nostra più intima essenza individuale. La mente è oggettivamente descritta dalla
mente psicologica. Infine vi è la sfera dei rapporti sociali, dove persone già interamente
formate si rapportano tra loro: questo è l'ambito descritto e studiato dalla politica e dalla
sociologia. La cultura è il tessuto connettivo tra queste sfere dalla vita umana, quindi non è
possibile comprendere il corpo e la mente senza considerare gli aspetti sociali,politici e
culturali.
Questo è il nucleo concettuale dell'antropologia medica. Nella definizione di tale settore
dell'antropologia Byron Good individua tre livelli:
 l'esperienza di dolore del paziente
 i suoi tentativi di comunicare e descrivere questa esperienza
 la condizione biologica del corpo
La medicina moderna articola questi tre piani dando la precedenza a quello biologico. Nel XX
secolo M.Foucault ha descritto la nascita della biomedica moderna in termini di una rivoluzione
epistemica cioè una nuova articolazione dello sguardo e del discorso sul corpo, dove le
scoperte, le osservazioni e gli esprimenti possono assumere un significato. Lentamente questo
modello è seguito dal senso comune occidentale. Tuttavia il determinismo biologico, sostenuto
dal sapere medico e dalle istituzioni sanitarie dello Stato, diviene egemone; ed è questo che
rende così difficile accettare l'idea che corpo, salute e malattia possano rappresentare campi
culturali.

CONOSCENZE E CREDENZE
Anche l'antropologia è radicata nella visione positivista della scienza e prende in considerazione
le concezioni premoderne del corpo e della medicina solo come forme di ignoranza o di
conoscenza imperfetta. Le pratiche di diagnosi e guarigione nelle culture primitive sono trattate
in due modi: uno è quello dell'uso di erbe e rimedi naturali, e l'altro quello basato su visioni
magiche e rituali. Dunque l'antropologia poggia sulla distinzione tra conoscenza e credenza, la
prima esiste semplicemente perché è vera, la seconda invece viene fuori in assenza di
conoscenza: il pensiero primitivo si rifugerebbe in quel poco che ha a disposizione, ovvero i
tentativi pseudo-razionali di spiegare e risolvere il male.
L'antropologia medica nasce con il superamento di tale prospettiva e con la volontà di trattare
in modo simmetrico la nostra e le altre medicine, non si tratta di assumerne una come vera,
piuttosto si tratta di capire sia la nostra che le altre come modi complessi di affrontare il male
nelle società umane. L'approccio simmetrico impone di non assumere la verità o la falsità come
costitutive del fenomeno che vogliamo comprendere.

ATTEGGIAMENTO NATURALE E ANTROPOLOGIA DEL CORPO


All'antropologia medica interessa affermare che il progresso non può essere letto in passaggio
da ignoranza a sapere, ma come transizione tra complessive cornici di senso che articolano in
modo diverso il rapporto tra corpo, esperienze e linguaggio. Tali cornici sono alla base di
atteggiamenti della vita quotidiana. Il paradigma costituisce uno sfondo di questo tipo.
Compito dell'antropologia non è falsificarlo, né tanto meno sostenere cornici alternative.
Semmai si tratta di collocarlo all'interno di una visione più ampia, che consenta di esercitare la
comprensione di altre forme culturali, in senso sia storico che etnologico. Ernesto De Martino è
il più importante esponente di questa corrente di pensiero. Secondo questo antropologo l'oblio
caratterizza il senso comune ed anche le scienze che chiamiamo naturali; tuttavia ci sono due
momenti in cui l'atteggiamento naturale viene problematizzato: le crisi psicopatologiche e la
comprensione storica e antropologica. Qui dunque torniamo al problema del rapporto tra
biomedicina e antropologia: la seconda non può mettere in discussione il concetto di natura su
cui la prima si fonda. I due saperi stanno su piani diversi. L'antropologia non intende né
confermare né confutare la biomedicina.
Nasce l'antropologia del corpo, il cui pioniere fu Marcel Mauss. Egli propone uno schema
classificatorio per lo studio delle tecniche corporee, basato su un percorso di ciclo della vita,
sulla distinzione tra varie funzionalità; e ancora, suggerisce di indagare la distinzione delle
tecniche per sesso ed età, per gradi di efficacia, per modalità di trasmissione e addestramento.
Anche Mary Douglas parla degli usi simbolici del corpo: il corpo, afferma la studiosa ha
un'ampissima gamma di possibilità simboliche ed espressive, che vengono però limitate da
regole sociali.

SINDROMI CULTURALMENTE CONDIZIONATE


Gli antropologi individuano tre diverse accezioni di "malattia":
 disease: con questo termine si intende la malattia come entità nosologica identificala
dalla biomedicina
 illness: con questo termine si intende l'esperienza soggettiva di sofferenza
 sickness: con questo termine si intende il ruolo sociale dell'ammalato
Tuttavia queste tre dimensioni non coincidono sempre: si può avere illness ma non disease, ad
esempio quando si prova un disagio che i medici non riconduco ad alcuna anomalia.
Il riconoscimento dello stato di malattia dipende da molte variabili sia di carattere culturale,
che socio-economico. la biomedicina è una cornice di riconoscimento diagnostico più o meno
universale.
Le sindromi culturalmente condizionate sono malattie riconosciute e diffuse in una specifica
area geografica e culturale.
es: in Italia riscontriamo il tarantismo pugliese.

EFFICACIA SIMBOLICA
Il concetto di efficacia simbolica era stato formulato per la prima volta da Levi-Strauss. egli
nota come il metodo di guarigione degli sciamani di una tribù di Panama assomigli a quello
della psicoanalisi, la quale, attraverso un linguaggio specifico, rende possibile esprimere
conflitti che non si potrebbero altrimenti manifestare, e con ciò conduce allo scioglimento. Per
Levi-Strauss dunque la cura sciamanica si pone a metà tra la medicina organica e una terapia
basata sul linguaggio come la psicoanalisi.

INCORPORAZIONE E ANTROPOLOGIA CRITICA


L' incorporazione nuovo termine dell’antropologia medica, è quel processo continuo che porta
a somatizzare la cultura e ad agire su di essa attraverso il proprio corpo.
L'antropologia ha evidenziato come il corpo umano non sia solo un'entità biologica ma il
risultato di una negoziazione con le forze sociali, politiche, economiche, storiche, che lo
plasmano, lo influenzano e a sua volta ne sono influenzate. Queste forze condizionano il corpo.
A sua volta il corpo diviene anche strumento che plasma la dimensione culturale e sociale,
assecondandola o contrastandola, diventando così strumento di resistenza. In questa
prospettiva, il corpo diviene anche costruzione sociale/culturale e la società/cultura diviene
anche l'insieme dei corpi che la compongono e la influenzano (e quindi non solo l'insieme delle
loro idee).
Due antropologhe americane Lock e Hughes hanno coniato l’espressione mindful body (corpo
pensate) in cui vi è la compresenza di 3 dimensioni: sociale, politico e personale. Il corpo
sociale che è quello di cui parla l'antropologia simbolica, ovvero il corpo come riflesso della
società, il corpo politico che è quello plasmato dalle relazioni col potere, e infine il corpo
personale che è dimensione esistenziale del corpo stesso, che non è solo vittima del potere ma
soggetto attivo di strategie di autoaffermazione.

PLURALISMO MEDICO E MEDICINE NON CONVENZIONALI


Per pluralismo medico si intende la compresenza, istituzionalizzata o di fatto, di biomedicina e
medicine tradizionali nei sistemi di diagnosi e di cura. Tale pluralismo si è andato ad affermare
in occidente con la diffusione delle medicine non convenzionali: saperi e pratiche diagnostiche
e terapeutiche che si differenziano in modo sostanziale dalla biomedicina, anzi spesso
polemizzano con essa. Omeopatia, agopuntura, pranoterapia e shiatzu sono alcune forme di
medicine non convenzionali. Le MNC sono interessanti per l'antropologia in quanto delineano
un sistema di pluralismo medico di fatto, inoltre segnano importanti mutamenti nelle
concezioni di corpo, di salute e malattia. Il più importante tra questi mutamenti è la
rivendicazione della libertà di scelta terapeutica , che viene invocata da molti come un diritto
fondamentale del cittadino-consumatore.

11. CAPITOLO UNDICESIMO: IL DONO FRA ECONOMIA E ANTROPOLOGIA

Il lavoro di maggior importanza di Mauss è sicuramente Il Saggio sul dono. In questo saggio
Mauss, rifacendosi agli studi di Franz Boas sul rituale del potlàc e di Bronislaw Malinowski
sul kula, descrive la socialità del dono nelle società arcaiche e primitive. Da questa ricerca
Mauss ricava alcune tesi fondamentali sulla natura del dono: 1) il dono è socialità obbligatoria;
2) il dono non è quindi pratica disinteressata; 3) il dono crea, rafforza e conserva i legami
sociali e comunitari; 4) il dono, “come prestazione totale”, unisce gli aspetti sociali ed
economici, ed è perciò rudimento economico, cioè è parte di una economia primitiva
indissolubilmente legata alla socialità e alla vita.
Mauss individua tre caratteristiche fondamentali del dono: “dare, ricevere, ricambiare” e
mostra come i tre fondamenti del dono fossero essenzialmente obbligatori all’interno delle
comunità primitive da lui studiate. Si deve “dare” per mostrare la propria potenza, la propria
ricchezza; si è nell’obbligo di “ricevere”, cioè non si può rifiutare il dono, pena la scomunica
della comunità ed il disonore; si deve “ricambiare”, cioè restituire alla pari o accrescendo ciò
che si è ricevuto: restituire meno di ciò che si è ricevuto è un’offesa al donatore.
Ma alla imposizione sociale si aggiunge lo spinta al dono determinata dall’animismo dei
primitivi, che spiritualizzano gli oggetti e li credono provvisti di un anima. L’oggetto ricevuto
possiede un anima e incorpora l’identità del donatore; il donatario che non se ne libera, che
non ricambia al dono, verrà colpito e danneggiato dall’influsso dello spirito contenuto
nell’oggetto. Si deve donare per non entrare in conflitto con lo spirito della cosa.
Al di sopra di questo doppio fondamento, il legame forte tra uomini e cose, e la grande
importanza delle cose, Mauss spiega come le cose possedute (e quindi donate) determinino
propriamente il valore degli individui all’interno della tribù: maggiore è il prestigio degli oggetti
posseduti e donati, maggiore è il valore dell’uomo.
La scoperta della obbligatorietà del donare, nell' individuazione delle relazioni sociali che
inducono e forzano il donare e il contraccambiare al dono, pone la socialità del dono all’interno
della nozione di utile. Mauss dimostra come il dono nel passato non fosse gratuito e
disinteressato come la concezione contemporanea vuole fare credere: il donare è nell’interesse
del donatore, cosi come il contraccambiare è nell’interesse del donatario. L’individuo che non
dona viene posto ai margini della società, cosi come il donatario che non accetta, o che non
corrisponde al dono offende e incrina i legami con la famiglia del donatore.
La socialità del dono svolge una basilare funzione sociale, crea, rafforza e conserva i legami
comunitari tra individui, tra famiglie, tra tribù, tra sessi. L’economia del dono, nell’obbligo a
concorrere al continuo “dare e ricevere”, rinsalda e fortifica un fitto insieme di relazioni sociali e
comunitarie all’interno delle tribù primitive. Mauss definisce il dono come facente parte “del
sistema delle prestazioni totali”, in quanto meccanismo che interessa la totalità delle classi
sociali e delle relazioni comunitarie, capace quindi di rinsaldare le relazioni tra tutte le classi
sociali.
Il “fatto sociale totale” è l’oggetto teorico definito da Marcel Mauss che ha maggiormente
influenzato l’antropologia del secolo scorso. La nozione di “fatto sociale totale” è confluita,
anche se con distinzioni fondamentali, nello strutturalismo del grande antropologo Claude Levi-
Strauss. Per fatto sociale totale si intendevano quei fatti in grado di influenzare e determinare
una messe di fenomeni di natura analoga, quei fatti cioè capaci di coinvolgere gran parte delle
dinamiche della comunità. Tutti i prodotti ed i beni immessi nel sistema della circolazione per
mezzo del dono sono anche pretesto per creare e fortificare complesse trame di relazioni
sociali. Attraverso un singolo fatto, un solo fenomeno, si poteva cosi spiegare la struttura e
forma dei rapporti sociali nel suo complesso. Per Mauss il fatto sociale totale era un
potente strumento a disposizione dello studioso: una struttura base attraverso la
quale diveniva possibile dirimere ed interpretare dinamiche apparentemente lontane
e di natura diversa.
Mauss nota che questa obbligatorietà al restituire, è una forma rudimentale di credito, ed
affermando ciò l’autore porta una critica alla “sociologia inconsapevole”, cioè a quella sociologia
colpevole di riconoscere il solo baratto, cioè lo scambio simultaneo di beni, come forma
economica di commercio delle società antiche. Nelle società arcaiche esiste anche un
“termine”, un tempo stabilito, entro il quale il dono deve essere ricambiato, entro il quale il
debito deve essere risarcito. Entro questo termine il donatario è colpito dalla influenza negativa
della cosa donata. Nel tracciare una sorta di genealogia della prassi economica della vendita, il
dono verrebbe prima del baratto per l’etnologo francese. Il baratto sarebbe originato dal dono
come avvicinamento dei tempi di ricambio della cosa donata; dal baratto si sarebbe poi passati
alla vendita. All’interno di questa interpretazione del dono come economia rudimentale,
possiamo anche dire che questo “obbligo della reciprocità” si presenti come una spinta. Il
donatario si vede nella necessità di reperire, produrre e possedere una quantità crescente di
oggetti, aumentando cosi la quantità di beni circolante. Il fondamento economico del dono
delle società arcaiche è però nettamente differente dalla concezione economica moderna che
scinde abissalmente gli aspetti materiali-produttivi da quelli etici-affettivi. Il dono rientra in
quello che Mauss definisce il “sistema delle prestazioni totali”, quel sistema che coinvolgendo,
oltre che tutte le classi sociali, anche tutte le forme della vita comunitaria, è sistema sociale ed
economico nel contempo. Il dono quindi occupa tutti gli aspetti della vita della comunità, sia
quelli economici che quelli sociali. La dimostrazione che nelle società arcaiche non vige la
separazione tipica del moderno, tra sfera economica e sfera sociale-affettiva, è un importante
lascito dell’antropologia culturale proposta da Mauss. Coerente con la dimostrazione della
ricerca dell’interesse e dell’utile come fondamento di tutte le socialità basate sul dono, nelle
conclusioni del Saggio sul dono, Marcel Mauss deriva una interessante interpretazione
dell’Homo oeconomicus. Il carattere distintivo dell’Homo oeconomicus moderno, la differenza di
esso se rapportato all’uomo arcaico, non consterebbe appunto nella ricerca dell’utile e
dell’interesse, che già era presente nelle società primitive, ma nella razionalizzazione e
tecnicizzazione di questa ricerca. Per Mauss non è la presenza di un fondamento di utile ad
indicare l’uomo economico contemporaneo contrapposto ad un “disinteressato e buon
primitivo”, sarebbe la scientificità con cui nel moderno si organizza l’utile: sono il puro e freddo
calcolo e la razionalità applicata del capitalista e del banchiere, ad identificare e
contraddistinguere l’uomo economico moderno.

11.CULTURE GLOBALI E LOCALI

Il termine globalizzazione indica il flusso crescente di commercio, finanza, cultura, idee e


persone consentito dagli sviluppi delle tecnologie di comunicazione e trasporto. Si para di
globalizzazione quando i flussi assumono dimensioni che indeboliscono le istituzioni classiche
della modernità. Vi sono 5 filoni di studi sulla globalizzazione : GLOBALIZZAZIONE
ECONOMICA  riguarda i piani della produzione e consumo e gli scambi finanziari;
GLOBALIZZAZIONE POLITICA  riguarda la nascita e lo sviluppo di istituzioni internazionali;
NUOVI FLUSSI MIGRATORI  riguarda i movimenti demografici e le loro caratteristiche;
GLOBALIZZAZIONE DELLA CULTURA  riguarda i flussi comunicativi e l’ampliamento dei
mercati dell’industria cuturale; NUOVE GERARCHIE SOCIALI riguarda i rapporti di potere e di
disuguaglianza che si formano in un contesto di indipendenza.
Wallerstain coniò il termine di sistema – mondo per indicare la scala planetaria dei rapporti e
delle interconnessioni che caratterizza lo sviluppo del sistema capitalista, secondo l’autore il
capitalismo non può essere studiato partendo dall’analisi di unità ristrette perché i rapporti di
potere da esso definiti sono di scala mondiale. Altri autori invece evidenziano la formazione di
un’èlite globale che gestisce le principali sfere di governo. Autori come Hardt e Negri hanno
coniato la nozione di Impero che indica un apparato di potere decentrato che incorpora l’intero
sazio mondiale all’interno delle sue frontiere in continua espansione. Secondo Castells con la
sua nozione di età dell’informazione è la tecnologia informatica a creare un nuovo modello di
sviluppo basato sulla produzione e sugli scambi di beni immateriali, la nuova economia è
basata sull’informazione, sui sapere e sull’innovazione dove Internet diviene un ambiente
comunicativo, che trasforma il virtuale in una realtà.
La globalizzazione è costituita anche da flussi di persone, merci e comunicazione. Se
consideriamo la dimensione geografica, la quale consiste in movimenti migratori tra le aree più
povere del mondo verso quelle con tenore di vita più alto, vediamo che nel periodo della
globalizzazione acquisisce caratteristiche nuove poiché vi è il passaggio da un modello
internazionale ad uno transazionale di migrazione. Il termine transazionale si riferisce alla
costruzione di legami stabili e comunitari che attraversano i confini nazionali, grazie ai trasporti
e alle comunicazioni è possibile mantenere relazioni sociali con il paese di provenienza. Questo
fenomeno venne anche chiamato diasporico. Con il transazionalismo si supera la
contrapposizione tra le pratiche di assimilazione, in cui si intende assorbire i gruppi migranti
cancellando i loro tratti ‘origine e uniformandoli alla cultura di destinazione.
Numerose sono state le teorie che spiegano come i flussi globali di risorse culturali mutino
l’esperienza quotidiana e le strutture antropologiche; qui il discorso sulla globalizzazione si
trova a coincidere con quello sulla post- modernità ( cambiamenti di intendere la storia e il
progresso).
Due sono i modelli weberiano di modernità: uno è la de – differenziazione e l’altro è il dincanto
del mondo. Il primo afferma che la modernità produca una differenziazione tra tipi di attività,
istituzioni, tempi, spazi della vita sociale, codici e registri espressivi. Il secondo invece indica il
processo di secolarizzazione, inteso come separazione della fede dalla politica, da finalità
pratiche a dimensioni magiche, da pretese cosmologiche a quelle di scienza.
Le teorie sulla globalizzazione culturale si dispongono su 2 piani contrastanti, da un lato si
considera la globalizzazione come il frutto di grandi forze omogeneizzanti che cancellano le
differenze e le realtà locali, dall’altro si sottolinea la capacità dei contesti locali di reagire
all’inserimento in più ampie reti di rapporti. Il primo tipo di teorie è chiamato
dell’omologazione: imposizione dall’esterno di una cultura dominante che cancella quelle
dominate. Il secondo tipo si contrappone al primo e viene chiamato
dell’eterogeneità/ibridazione: forze economiche e modelli culturali egemonici interagiscono con
i contesti locali, modificandoli e a loro volta venendo modificati.
Hannerz per cultura mondiale intende un’organizzazione della diversità, un’interconnessione
crescente di culture differenti.
Appadurai vede la globalizzazione come il campo d’azione di forze diverse, complesse e
contrastanti, le quali si aggregano in 5 grandi dimensioni: ETHNOSCAPES panorama gruppi in
movimento TECHNOSCAPES  configurazione globale della tecnologia FINANCESCAPES 
movimenti del capitale globale MEDIASCAPES  produzione mediale e dell’informazione
elettronica IDEOSCAPES  scenari di valori, ideali, politici, ideologie, modi di immaginare la
realtà, il potere e la democrazia.

CAPITOLO TREDICI: SPAZIO, LUOGO, CITTA’


L’antropologia cultuale è caratterizzata dal fare ricerca entro contesti locali, i quali
corrispondono a territori specifici ed essa ha fondato il suo lavoro verso un altrove più o meno
lontano. La descrizione dell’ambiente può avvenire sia in forma soggettiva ( es: impressioni
dell’etnografo) sia in forma oggettiva (es: clima, flora, fauna). Per definire ciò si utilizza la
distinzione tra elementi naturali ed elementi antropici di un paesaggio, i primi sono quelli che
esistono indipendentemente dall’uomo, invece i secondi sono quelli che l’uomo ha trasformato
per scopi produttivi. Dunque non esiste un ambiente puro perché lo spazio abitato viene
sempre modellato dall’uomo.

SPAZIO E CULTURA
Una caratteristica dell’antropologia è quella di descrivere lo spazio dal punto di vista del nativo
all’interno di un sistema simbolico; le descrizioni introduttive della ricerca antropologica
dipendono da ciò che colpisce il ricercatore, ma potrebbe non essere quello che descrivono gli
abitanti del posto. L’ ambiente viene reso significativo costruendo sistemi di corrispondenze e
differenze, metafore e modi nei quali viene raccontato, organizzato e utilizzato. Inoltre nella
nostra vita ci sono dei confini che hanno a che fare con lo status, come un certo tipo di gruppo
o una categoria sociale che sono fondamentali per la descrizione dell’ambiente. L’antropologia
ha anche sottolineato come le forme ed il funzionamento dei diritti territoriali possano essere
diversi da quelli ai quali siamo abituati.
Confine: individuazione di uno spazio nostro, cioè un territorio sul quale un gruppo umano
accampa determinati diritti.

SPAZIO E LUOGHI
In un’antropologia più recente, non si tratta più il tema dello spazio come lo sfondo della
descrizione culturale, ma come un problema da porre al centro dell’attenzione. Low e Zuniga
sostengono che il modo nel quali si concettualizza lo spazio sia essenziale per comprendere le
culture e le società, il luogo è considerato una delle dimensioni fondamentali della cultura.
Heidegger ad esempio capovolge il rapporto tra spazio e cultura, pensa che la dimensione
primaria della nostra esperienza sia un abitare concreto, fatto di luoghi. Augé invece ha
inventato la nozione di non- luogo, secondo lui i luoghi sono identitari, relazionali e storici ed
identificano un sociale organico, invece i non – luoghi sono quelli ai quali nessuno può
appartenere ( es: autostrada,stazione,centro commerciale,ministeri,banche). In questi luoghi
l’individuo è solo un utente, la cui identità è quella formale e burocratica dei documenti.
Secondo Certeau invece bisogna immergersi nei luoghi per capire se ciò che essi
rappresentano per coloro che vi abitano corrisponde a quello che essi risultano a chi li guarda
dall’esterno (es: il pedone). L’opera dell’autore, L’invenzione del quotidiano, pone diverse
questioni che hanno acquisito una notevole rilevanza per l’antropologia che si occupa di spazi e
luoghi, infatti da un lato vi è la sua ambizione a rappresentare una cultura radicale, dall’altro
lato è stata messa al centro dell’attenzione una dimensione infra – culturale.
L’antropologia contemporanea dei territori, spazi e luoghi si mescolano e configgono in 3
ispirazioni principali:
Considera un’etnografia del luogo entro le tradizioni culturali che mostra come il rapporto tra
uomini e spazio non è riconducibile a qualcosa di naturale.

1. Un approccio di ricerca orientato verso le dimensioni micro della memoria e della vita
quotidiana.
2. Si concentra sul modo in cui nozioni come territorio, spazio e luogo sono utilizzate
all’interno delle discipline sociali.
Feld e Basso con la loro raccolta di saggi tendono a far lavorare insieme questi tre filoni, Senso
del luogo (titolo della loro raccolta) è diventata un’espressione ricorrente negli studi
antropologici, poiché indica i processi e le pratiche culturali tramite le quali i luoghi assumono il
loro significato, tale espressione Mostra si applica sia ai contesti vicini sia distanti.

GRANDE CITTA’ (E IL VILLAGGIO)


Le metropoli occidentali non sembrano essere un posto da antropologi, poiché attorno a
termini come città e campagna vi sono stereotipi che danno un significato temporale: mentre
la campagna rimarrebbe agganciata ad una dimensione tradizionale, la città tenderebbe al
futuro rappresentando la vita moderna.
Secondo Tonnies la società è ideale e meccanica fondata sulla razionalità economica mentre la
comunità è reale ed organica fondata su sentimenti, valori e modelli di comportamento
comuni. La comunità viene vista come antica invece la società come nuova, ma il problema
non è la città che causa questa discrepanza ma la modernità che produce un ambiente umano
specifico: la grande città. Secondo Simmel in un contesto caratterizzato dall’economia
monetaria come la città, il singolo è più individualizzato e possiede un atteggiamento scettico e
distaccato.
La scuola di Chicago ha costituito a partire dagli anni ’20 del Novecento un punto nevralgico
dello studio antropologico legato alla città e all’urbanizzazione; i punti di studio fondamentali
sono 3:
 Il legame tra i fenomeni sociali e gli spazi concreti della città, in particolare l’approccio
ecologico, ovvero il modo in cui i gruppi di persone simili creano una propria nicchia
all’interno del tessuto urbano (segregazione urbana).
 L’approccio etnografico, ovvero l’uso di un’ampia gamma di metodologie dove il rigore
metodologico prevale a volte sull’urgenza di raccogliere informazioni.
 Il legame della Scuola con la ricerca verso migliori politiche urbane.

FLUSSI, RETI E MAPPE


Amalia Signorelli ha definito ruralcentrico un atteggiamento che porta ad occuparsi del mondo
contadino e a guardare la città come il punto d’arrivo del processo di urbanizzazione. Parlare di
antropologia urbana dipende dal fatto che i fenomeni culturali vengono analizzati in stretta
connessione con forme di organizzazione dello spazio caratteristiche di ciò che siamo abituati a
chiamare città. ( vedere i concetti di network e mappe della città).

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