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PREMESSA

Introduzione all’Antropologia culturale → temi fondamentali:


● Nozione di cultura
● Diversità culturale
● Etnocentrismo
● Relativismo
● Etnografia
● Comparazione
● Visione del mondo
● Forme di relazioni sociali e parentali
● Naturalizzazione delle appartenenze
● Questioni di genere
● Disuguaglianza
● Dinamiche migratorie
Lo studio degli esseri umani ha due dimensioni principali: quella socioculturale e quella biologica → questo
crea due discipline accademiche dell’anthropos:
1. Antropologia culturale e sociale: essa si occupa degli esseri umani organizzati in società e dotati di
specifiche visioni del mondo, proponendo un linguaggio scientifico per lo studio delle diversità e
delle somiglianze socio culturali rintracciabili. La loro metodologia principale, ovvero l’indagine
etnografica, li ha condotti a studiare soprattutto gruppi umani coevi al ricercatore.
2. Antropologia fisica: essa si occupa principalmente delle variabilità dei caratteri morfologici, metri e
genetici all’interno di e tra le popolazioni umane. Gli antropologi biologici interrogano il passato
attraverso gli scavi in situ rinvenendo resti fossili di ominidi e testimonianze delle prime culture
materiali.
Gli esponenti di queste due discipline si riconoscono come antropologi, mentre differente è il caso
dell’Antropologia Filosofica, in cui gli studiosi si definiscono filosofi.

Fino a non molto tempo fa era diffusa anche la denominazione Etnologia, oggi molto meno utilizzata: gli
antropologi culturali/sociali e gli etnologi fanno lo stesso mestiere.
- Antropologia culturale: sfera simbolica, saperi e linguaggio;
- Antropologia sociale: sistemi sociali, giuridici e istituzioni;
- Etnologia: studio storico di aree culturali geograficamente limitate.

Nel corso del ‘900 si sono sviluppate alcune sotto-discipline dell’antropologia culturale: l’antropologia
politica, economica, medica ecc.
Discipline demoetnoantropologiche: Demologia – studio del folklore/tradizioni popolari
In Italia le differenti tradizioni sono state riassunte in “discipline demoetnoantropologiche” → Demologia:
studio del folklore e delle tradizioni popolari.

Il primo paese che vede sviluppare un interesse intellettuali nei confronti della diversità culturale è stata la
Francia → questo fu possibile all’eredità dello spirito illuminista e ad alcuni sviluppi della sociologia ma
nonostante ciò lo studio delle società “altre” non si consolidò oltralpe se non molto lentamente.
Già nella seconda metà del 1800 tale consapevolezza si stava sviluppando in Gran Bretagna e negli Stati
Uniti.
In Gran Bretagna, interesse degli uomini di scienza verso le società “altre”; inoltre, l’indirect rule, cioè la
particolare forma di gestione dei territori coloniali britannici, favorì lo studio dei modelli di organizzazione
politica, giuridica e sociale delle popolazioni indigene.
Negli Stati Uniti si percepiva la specificità rispetto alla vecchia Europa, anche grazie alla presenza sul
territorio americano di differenti gruppi nativi, i cosiddetti “indiani”, degni di essere indagati a partire dalla
loro complessità linguistica, culturale e sociale.
Sia in GB che in USA gli strumenti teorici per le indagini antropologiche si basavano sul paradigma
dominante dell’evoluzionismo portando ad ampie comparazioni e alla costruzione di classificazione e
tipologie delle società e dei tratti culturali rinvenuti nei differenti “angoli di mondo”.

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Gli evoluzionisti di fine 1800 sostenevano che tutte le culture umane seguissero una sola sequenza di
sviluppo che le avrebbe condotte dallo stadio selvaggio a quello della civiltà. Essi contribuirono in modo
determinante in modo determinante a riconoscere forme culturali significative anche per coloro che
venivano definiti “selvaggi” o “primitivi”.

Tra fine 1800 e 1920, l’Antropologia culturale si consolida attraverso una risoluta critica all’impianto teorico
evoluzionista e per mezzo di una decisiva revisione metodologica.
Franz Boas → ricerche presso i kwakiutl della costa Nordovest con obiettivo di compiere scavi etnografici
mirati e rigorosi che permettessero di definire le particolari conformazioni sociali e rintracciare le cause
storiche dei singoli tratti culturali registrati in specifiche popolazioni.

Per quanto riguarda l’antropologia britannica → 1898-1899 spedizioni allo Stretto di Torres organizzata
dall’Università di Cambridge, in cui si ebbero significativi contatti diretti con i nativi = grande
consapevolezza metodologica.
1922 → “Argonauts of Western Pacific” di Bronislaw Malinowski, incentrato sull’analisi dello scambio
cerimoniale kula effettuato dagli isolani delle Trobriand e basato sulla ricerca sul campo. L’antropologo
prefigura l’approccio funzionalista allo studio delle società → ogni elemento culturale è funzionale al
mantenimento della coesione sociale.

A partire dal 1920, l’antropologia culturale contribuisce alla conoscenza delle differenti culture attraverso la
stesura di accurate monografie basate sul rigore metodologico di prolungate ricerche sul campo.
Gli antropologi del 1900 contribuiscono a mostrare come la semplicità, la primitività e l’irrazionalità delle
altre culture siano riconducibili essenzialmente allo sguardo etnocentrico di noi occidentali, ovvero alla
tendenza a giudicare e a interpretare le altre culture sulla base della propria.
Altri antropologi hanno preso come riferimento Durkheim, Mauss, Lévi-Bruhl.

Francia, 1931-1933 spedizione “Dakar-Gibuti” → studio condotto dal direttore della missione Marcel Griaule
presso i Dogon dell’Africa occidentale; egli dimostra come il pensiero cosmogonico dei Dogon,
raccontatogli da un anziano cacciatore cieco, sia altrettanto complesso.

Il mondo degli umani non è univoco e di conseguenza occorre governare gli equivoci che insorgono perché
“il modo in cui essi non comprendono me è diverso dal modo in cui io non comprendo loro”.

1- CULTURA/CULTURE
L’introduzione e l’affinamento del concetto di cultura in senso antropologico, è stato uno degli snodi più
importanti tra 1800 e 1900, nello studio scientifico dell’essere umano inserito in società.
Remotti dice che vi sono due concetti di cultura:
❖ Formazione individuale: differenzia gli individui all’interno di una società tra colti e incolti;
❖ Formazione collettiva: individui in quanto membri di una società particolare o di un gruppo che
condivide forme di vita e visioni del mondo (cultura maori).
La cultura risulta rintracciabile in tutta l’umanità giustificando l’impresa di una conoscenza puntuale e
particolareggiata delle differenti forme di vita e visioni del mondo diffuse in ogni angolo del pianeta. La
cultura è costitutiva dell’essere umano → questa rilevanza costitutiva della cultura si afferma lentamente nel
1900 e affinchè ciò avvenisse, sono stati determinanti gli studi paleoantropologici sull’evoluzione umana che
hanno mostrato come molte acquisizioni culturali abbiano avuto effetti decisivi sullo sviluppo biologico
della specie (es. fuoco)

Edward Tylor: non esiste un unico grande assemblaggio sistemico comune a tutti gli esseri umani ma
esistono molti assemblaggi sistemici che noi antropologi culturali abbiamo denominato “culture”.

Arjun Appadurai:: disagio nell’utilizzare il concetto di cultura; non è il concetto stesso ma il preconcetto
“puzzare di qualche varietà di biologismo, inclusa la razza”.

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Tim Ingold: si domanda quanto sia lecito e in relazione a cosa tenere distinti umani e non umani.

IL CONCETTO DI CULTURA IN ANTROPOLOGIA di Francesco Remotti


CONCEZIONI DIVERSE DI “CULTURA”
Due concezioni di cultura:
● Nozione classica, tradizionale che propone un ideale di formazione individuale → dover essere per
alcuni individui di alcune società.
● Nozione moderna, scientifica → illustra una condizione che riguarda i membri di qualsivoglia gruppo
sociale

La prima concezione si rivede in espressioni come “uomo di cultura”, la seconda in altre come “la cultura
maori” o “la cultura dei giovani”.
Entrambe le concezioni hanno però alla radice la metafora agricola del coltivare – cultura deriva dal latino
colere: abitare, coltivare, ornare, venerare, esercitare. Alla base vi è l’idea di un intervento modificatore – es.
insediare un luogo, abitarvi e quindi trasformarlo.
Sia l’insediamento umano che la cura rivolta al corpo/facoltà/divinità sono cultura in latino.
Quest’idea si riversa sulla concezione classica in due modi; da un lato vi è separazione aristocratica
dell’individuo che si coltiva dal volgo incolto, sottrazione ai costumi della sua società, dall’altro introduzione
di egli ad un’altra società, quella dei dotti, caratterizzata da valori universali.

Ciò rende la concezione classica di cultura incompatibile ai costumi, sempre locali e particolari; la
comunità dei dotti è infatti astratta da condizionamenti locali e temporali, è realizzazione della vera
humanitas, senso più autentico ed elevato dell’essere umano.

In sintesi differenza tra concezione classica e modena : presenza /assenza di costumi come contesti
specifici di cultura.

La concezione descrittiva di cultura si differenzia per la dilatazione dei suoi contenuti e confini – in
primo luogo dell’inclusione dei costumi nella sua definizione.

Se la concezione classica era definita dalla liberazione dai costumi verso ideali, valori e verità, quella
contemporanea vede l’importanza dei costumi e la loro incidenza in una molteplicità di ambiti del
comportamento umano.

Voltaire nell’Essai sur les moeurs (1756) ci offre una delle prime espressioni della concezione moderna
di cultura.

1768-1780 - 3 spedizioni nel pacifico meridionale di James Cook. In questo periodo le numerose
relazioni di viaggio fanno da fonti imprescindibili per l’antropologia.

Johann Gottfried Herder fu una figura di maggior spicco per l’elaborazione del concetto moderno di
cultura. Egli desiderava rimanere in costante viaggio attraverso gli uomini per raccogliere
informazioni da ogni parte di terra. Tipico del suo pensiero è il rifiuto della “troppa filosofia di coloro
che vogliono ritrovare in un piccolo angolo di terra il mondo tutto”.“Se vogliamo chiamare questa
seconda genesi dell’uomo, che dura per tutta la sua vita, cultura, prendendo l’immagine dalla
coltivazione dei campi ... non ha importanza; ma la catena della cultura e dei lumi si estende fino alla
fine della terra”

Questa dilatazione etnografica del concetto di cultura implica un mutamento interno – anche gli
archi e le frecce, non soltanto la filosofia, sono ormai cultura.

G. Klemm disse che la cultura costituisce “ciò che vi è di essenziale nella storia”.

Edward B. Tylor, a cui dobbiamo la prima definizione organica di cultura, conosceva e condivideva la
tesi di Klemm, la centralità della cultura nella storia. La definizione di Tylor (Primitive culture, 1871)
vede la cultura come un insieme complesso che include qualsiasi capacità e abitudine acquisita
dall’uomo come membro di una società.

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Nella definizione tayloriana vengono incluse :

a) la dilatazione etnografica, confini allargati all’umanità intera


b) cultura come insieme che ingloba diverse attività (non soltanto quelle dotte)
c) carattere acquisito (non geneticamente) di questo insieme
d) connessione tra cultura e società – l’acquisizione avviene per il fatto stesso di far parte di un
gruppo sociale

Rimane però in lui una concezione evolutiva, il suo contributo è rivoluzionario per il tempo per la sua
estensione etnografica, pensa comunque però che lo sviluppo vada verso la civilizzazione europea –
l’innovazione sta nella continuità, nel potenziale di raggiungere la civilizzazione per tutti gli uomini,
uguaglianza di fondo che accomunava i ‘dotti’ ai ‘selvaggi’.

ABITI, COSTUMI, ESTERIORITÀ’


Le origini etnografiche del concetto di cultura hanno alcune conseguenze:
- Il compito dell’elaborazione e del raffinamento di questo concetto è stato assunto da quella tra le
scienze sociali il campo peculiare delle proprie ricerche, ossia l’antropologia culturale.
- Tali origini hanno portato ad individuare come contenuti della cultura proprio i costumi = aspetti o
dimensioni del comportamento umano che sono dotati di una regolarità variabile.

La nozione di costume è strettamente imparentata con quella di abitudine: costumi e abitudini si possono
etnograficamente rilevare anche nelle altre società, per quanto primitive possano apparire. Considerati privi
di cultura, costumi e abitudini, sono sempre apparsi bizzarri → una selva disordinata e senza senso. L’aver
dato a questi contenuti la forma della cultura ha significato il riconoscimento dell’esistenza di un senso, di
un ordine, di un fondamento, alla luce dei quali si dovrebbe considerare tanto la variabilità quanto la
regolarità di costumi e abitudini.
Questo avvicinamento e questa fusione tra il concetto di cultura e il concetto di costume-abitudine,
hanno prodotto un inglobamento dei costumi nella cultura.
La nozione di costume però ha perso terreno e si è eclissata e da decenni non si usa più; “usi e costumi”
rappresenta una facciata esterna, mentre il concetto di cultura si riferisce a elementi strutturali o a
momenti processuali costitutivi e interni.

L’aver inglobato i costumi come propri contenuti ha fatto sì che la cultura si appropriasse inevitabilmente di
certe loro caratteristiche → condizionamento reciproco: la cultura offre ai costumi senso di ordine, forma e i
costumi in cambio danno significato di esteriorità → la cultura, nel suo senso antropologico, proprio per la
sua variabilità, pare essere qualcosa che l’uomo che indossa: significato di cultura come abito, abitudine,
abbigliamento.

Alfred L. Kroeber, The superorganic 1917: esempio riguardo il diverso modo di adattamento a un ambiente
artico da parte di gruppi umani e di altri animali: i primi si adattano lentamente nel corso di generazioni
sviluppando ad esempio pellicce, gli uomini si adattano velocemente, indossando le pellicce animali. I primi
sviluppano dei cambiamenti interiori, organici, i secondi pare solo esteriori.
Questo permette agli umani maggiore rapidità, versatilità, mobilità e revocabilità dell’adattamento ma
implica perdita di garanzia di auto-perpetuazione di esso (es. nati nudi).
Il non coinvolgimento dell’organismo nei processi di adattamento culturale è la ragione del carattere di
esteriorità della cultura. La cultura si colloca da subito tra gli organismi umani e il mondo esterno.

Analisi di André Leroi-Gourhan → lo stesso ragionamento vale per gli utensili: essi costituiscono un
prolungamento verso l’esterno, anzi nell'esterno.
Entrambi questi autori non si limitano tuttavia a fornire esemplificazioni tecnologiche: accanto alla
tecnologia affiora inevitabilmente l’altro grande ambito della cultura umana, il linguaggio. Kroeber fa
l’esempio di un bambino nato in Francia da genitori francesi che viene però subito trasportato in Cina ed
impara solo il cinese. L’esteriorità della cultura può essere interpretata in una pluralità di prospettive: il
carattere esteriore della cultura si oppone al carattere interiore dell’istinto.

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Egli ha una visione stratigrafica della realtà umana, alla base vi è l’uomo come sostanza organica e
poi, su un piano separato, sovrapposto e autonomo, l’uomo come portatore di cultura. Per Kroeber
l’evoluzione culturale si innesta dopo il compimento dell’evoluzione biologica (produzione della nostra
realtà organica).

IL DIFFERENTE PESO DELLA CULTURA E LA SUA IMPRESCINDIBILITÀ’ BIOLOGICA


Gli sviluppi più recenti condannano la concezione stratigrafica, pur mantenendo l’idea di esteriorità. Per
Roger Keesing gli individui percepiscono spesso la cultura come una realtà esterna e potenzialmente
costrittiva ma è impossibile sollevare gli strati culturali per trovare sotto essi la natura umana nuda.

Per Clifford Geerz la cultura è un insieme di “fonti estrinseche di informazione” poste fuori dai “confini
dell’organismo umano” ma egli argomenta ampiamente contro la concezione stratigrafica: vari momenti
della filosofia moderna occidentale (ne è rappresentativo l’illuminismo) hanno mirato a ritrovare la natura
umana, la struttura permanente, offuscata dall’impurità dei costumi. Le ricerche antropologiche guidate
da questo obiettivo non poterono che vedere i costumi come strati superficiali, leggeri, ostacoli da
rimuovere sagacemente per trovare la cultura animi, la ragione pura.

Con Kroeber il peso della realtà umana venne ripartito equamente tra livello organico e culturale; la
concezione etnografica di cultura gli permette di donare senso ai costumi e vederli come modelli funzionali
e ineliminabili – rimane però una concezione stratigrafica.

Gli sviluppi recenti spostano il peso decisamente verso i costumi e le abitudini, l’uomo non si può scoprire
nudo, al di là delle sue usanze e ciò non è dovuto a carenze analitiche. I costumi non nascondono l’uomo ma
lo foggiano direttamente, sono la sua realtà, la sua essenza va cercata nei costumi. Questa concezione
sottrae i costumi alla loro marginalizzazione e soprattutto restituisce importanza alla loro variabilità.
L’essenza umana viene separata da una presunta stabilità e resa consustanziale alla variabilità. La cultura
rimane esteriore ma l’interiorità perde la sua autonomia, la cultura extraorganica prende in carico il peso
dell’umanità. La cultura è esteriore ma non superficiale o leggera, non si aggiunge ai processi organici,
diviene il nuovo centro di gravità, la stabilità essenzialistica è persa e gli uomini sono ciò che di volta in
volta divengono.

Le condizioni di possibilità delle argomentazioni di Geerz si trovano in alcune scoperte in ambito


paleoantropologico che iniziano ad emergere negli anni 20. Sono emblematiche le scoperte
sull’Australopithecus africanus (1924, Sudafrica) e sullo Zinjanthropus (1959, Tanzania) per la
realizzazione che gli antenati dell’Homo sapiens, con capacità volumetrica del cervello pari ad un
terzo di quella dell’uomo contemporaneo, disponessero già di forme di cultura. Shwerwood
Washburn dice che sia probabilmente più corretto considerare gran parte della nostra struttura fisica
come risultato della cultura.

La cultura è si esteriore rispetto l’organismo individuale ma interviene prima che l’evoluzione


organica produca l’uomo come è attualmente, la paleontropologia mette in crisi i rapporti di
successione lineare tra evoluzione organica ed evoluzione culturale e ne scompagina l’ordine
gerarchico.

Il rifiuto dell’ordine diacronico, prima (organismo) e dopo (cultura), implica rifiuto dei piani gerarchici
(sotto e sopra) della visione stratigrafica per cui la cultura è sovrastruttura.

La cultura interagisce profondamente con l’evoluzione organica, non interviene a cose fatte, ne è
componente imprescindibile.

Nella visione stratigrafica e di successione lineare si è indotti a dare al cervello una posizione prioritaria,
trainante per la formazione della cultura. Leroi-Gourhan ci fa invece notare, tramite l’analisi degli
Australontropi, che lo sviluppo organico del cervello si colloca in ultima posizione, benché diventi poi
trionfante. Dall’inizio della stazione eretta allo sviluppo attuale della massa cerebrale passano milioni di anni
durante i quali l’Homo sapiens sfrutta le mani per la costruzione di utensili. A queste forme di
esteriorizzazione della mano (utensili) si accompagna l’esteriorizzazione della capacità simbolica, il
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linguaggio (anch’esso reso possibile dalla stazione eretta, la liberazione delle mani dall’attività motoria libera
la bocca dall’attività prensile).
Non vi è semplice ribaltamento dello schema stratigrafico-lineare ma posizionamento dell’attenzione sul
fatto che lo sviluppo cerebrale avviene in un ambiente già culturale. La cultura che produce gli utensili è si
prodotto del cervello ma a sua volta questo sia prodotto dalla cultura – il rapporto è interattivo e
bidirezionale. Il modello interattivo sostiene che la cultura fosse elemento vitale, non lusso o abbellimento
opzionale.
Anche C. Geerz sottolinea la “sovrapposizione di più di un milione di anni tra l’inizio della cultura e la
comparsa dell’uomo come lo conosciamo oggi”.

L’impatto della cultura sull’evoluzione non è testimoniato solo dal modo in cui gli utensili hanno dato
maggiori capacità di adattamento, sopravvivenza e vantaggio evolutivo all’uomo; il funzionamento
del nostro cervello è inconcepibile in un vuoto culturale come quello dei polmoni in un ambiente
privo di aria. Non solo la nostra corteccia cerebrale è cresciuta in interazione con la cultura ma il
nostro apparato nervoso sarebbe incapace di dirigere il nostro comportamento e organizzare la
nostra esperienza senza simboli significanti – ed è di questi che per Geerz consiste la cultura. La
cultura sta alla base della sopravvivenza umana.

SIMBOLI CONDIVISI
Il modello interattivo ci fa intendere la cultura non come uno strumento materiale utile al
perfezionamento o potenziamento dei propri organi bensì come prerequisito simbolico dell’esistenza
biologica, psicologica e sociale.

Non si inverte l’ordine ponendo la cultura assolutamente prima dell’evoluzione organica ma li si pone
in interazione circolare e retroattiva.

Dall’inizio della cultura alla creazione dell’uomo attuale vi è stato un passaggio lento ma deciso da
forme di controllo del comportamento genetiche a forme di controllo culturali. Si è privilegiata
sempre più la versatilità della cultura rispetto alla rigidità della genetica – vi è stato “crescente
affidamento a sistemi di simboli significanti” e una sempre minor presa del controllo genetico (Geerz).
Ciò ha provocato uno scarto tra ciò che dice il nostro corpo e ciò che dobbiamo sapere per funzionare,
un vuoto da riempire noi stessi con le informazioni fornite dalla nostra cultura – queste son
conservate, trasmesse e rinnovate dalla “sostanza simbolica della cultura”.

Questo modello implica rifiuto della separazione natura/cultura e conseguentemente della


separazione individuo/società quali entità autonome. L’interazione tra organismo e cultura è resa
implica l’interazione sociale – comunicazione, scambio di azioni, informazioni e prodotti; si formano in
questo contesto sia i simboli che gli individui che li usano.

Lo stretto collegamento tra simbolismo e vita sociale fanno si che, come sosteneva Leroi-Gourhan, sia
impossibile pensare ad una prima fase di evoluzione preoccupata con lo sviluppo materiale di
strumenti per l’adattamento e una seconda in cui, allentata la pressione dei problemi materiali, ci si
sia potuti dedicare alla produzione simbolica.

La comunicazione tramite simboli condivisi sta anche alla base della creazione dell’identità culturale,
si produce un noi e si determinano le differenze tra noi e altri.

REIFICAZIONE E PRECARIETÀ : L’ “IN PIÙ CULTURALE”


Roger Keesing, parlando di “magia dei simboli condivisi”, allude al fatto che questi agiscano come
presupposti e condizioni della vita sociale – presupposti in quanto sullo sfondo, non esplicitati,
esercitati quotidianamente in maniera a-critica negli atteggiamenti che appaiono più naturali.

È grazie a questo stare sullo sfondo che esercitano la loro influenza sugli uomini, dirigendo e
plasmando il loro modo di agire, pensare e sentire. Già Montaigne, Pascal e Marx avevano parlato di
questo potere misterioso.

La magia dei simboli condivisi d’altro canto comporta talvolta anche esaltazione, trasposizione di
questi presupposti in entità che dominano esplicitamente la coscienza; a questi ci si può riferire
direttamente per orientare le azioni e motivare le scelte morali. Questi presupposti che stanno alla
base delle abitudini possono essere naturalizzati o sovraumanizzati, resi intatti o considerati
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intoccabili – i simboli condivisi vengono in entrambi i casi sottratti alla presa della consapevolezza e
alla manipolazione sociale; ciò fa parte di un processo più ampio chiamato entificazione,
sostanzializzazione, autonomizzazione o reificazione.

Questo conferimento ai simboli di una condizione di realtà autonoma (di cui sono esempio i
rituali/abitudini della vita quotidiana e le cerimonie/credenze religiose) è considerato in genere una
disfunzione del linguaggio e della cultura ma è invece uno dei suoi caratteri fondamentali. Questo
processo fa da salvaguardia e consolidazione dei simboli condivisi, rende qualcosa di eminentemente
sociale in qualcosa che non ha a che fare con la società – nel caso della naturalizzazione la precede,
nel caso della religione/sovraumanizzazione va oltre. Questo trucco è fondamentale a conservare i
presupposti al funzionamento della vita e delle società.

La reificazione simbolica determina un certo in più culturale, complica la linearità del funzionamento
bisogno/risposta, rende il tragitto più difficile del necessario. Il riconoscimento di ciò rende riduttive le
tesi, come quelle del materialismo culturale di Marvin Harris, secondo cui posti di fronte ad un
compito si preferisce portarlo a termine con il minore dispendio possibile di energie.

La cultura esiste solo per quanto è messa in atto, per quanto la reificazione aiuti a conservare il traffico
di simboli esso è sempre precario; la reificazione nasce appunto come risposta alla precarietà. E’
sufficiente una qualche variazione nella riproduzione delle forme culturali per insinuare l’idea della
loro precarietà.

La consapevolezza di questa precarietà dev’essere presente, per quanto camuffata, nelle culture
stesse, ciò può spiegare il surplus simbolico, la complicazione rispetto la mera utilità (es. miti,
credenze, rituali). La funzione di questi surplus sarebbe di convincere e rassicurare circa le validità
delle soluzioni adottate. Si tratta di operazioni metasimboliche (Jakobson – metalinguistiche), la
cultura stessa produce risposte ulteriori mediante cui pensa se stessa e interpreta le risposte che essa
fornisce per la sopravvivenza e l’adattamento. La precarietà, non completamente superabile dalla
reificazione, fa si che ogni cultura sia anche metacultura.

//La precarietà della cultura fa si che essa rifletta su se stessa ed interpreti la sua funzionalità, ciò si
manifesta in operazioni, come i rituali, che vanno oltre la funzionalità stessa e sottolineano
l’importanza della cultura.

LE VARIAZIONI E IL MUTAMENTO
Nella sua stessa realizzazione attraverso le manifestazioni individuali la cultura attualizza la sua
precarietà, ogni attualizzazione individuale è una variazione – anche se minima. La cultura si realizza
non già nonostante, bensì entro le variazioni (lo stesso vale per le specie biologiche in una prospettiva
darwiniana). Anche de Saussure, pur distinguendo nettamente tra langue e parole riconosceva che la
lingua non è una sostanza ma è una forma che esiste solo nei soggetti parlanti.

Il ribaltamento nel rapporto gerarchico tra forme generali e variazioni individuali portò Darwin a
riconoscere il carattere convenzionale del concetto di specie – lo stesso avvenne in antropologia, la
culture venne riconosciuta come astrazione. Radcliffe-Brown partì da questa conclusione per
assegnare tutto il peso alla struttura sociale (simil Marx?), Kluckhohn invece per sottolineare l’utilità
epistemologica del concetto di cultura.

Si ha quindi smobilitazione del concetto di struttura sociale quale entità autonoma a favore del
concetto di strategia e scelta da parte degli attori sociali; tutto questo fa venir meno la
contrapposizione tra antropologia culturale (prevalentemente americana) e antropologia sociale
(prevalentemente britannica).

La definizione di cultura come astrazione da parte dello scienziato sociale significa contrastare la
reificazione. Coloro che assecondano la reificazione e vedono la cultura come un oggetto autonomo
vanno a marginalizzare il mutamento o a conferire la capacità di mutamento alle stesse forme
simboliche. Coloro che sottolineano la reificazione invece (es. Marx, Engels, Saussure) fanno si che il
mutamento divenga centrale per il concetto di cultura. La maggioranza delle variazioni rimangono
subliminali, sotto la soglia della coscienza; si hanno però anche progressi sensibili quando le variazioni
prendono la stessa direzione, un orientamento (Sapir: “deriva”).

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Herskovits: “La maggior parte delle variazioni casuali presenti nella cultura scompaiono con
l’individuo che le manifesta; quelle che non scompaiono, che vengono raccolte da altri membri della
società, tendono a essere cumulative”.

Il fatto che l’orientamento delle correnti venga percepito chiaramente solo dopo il loro termine e il
fatto che le variazioni individuali abbiano un carattere anonimo, impercettibile, non deve far
dimenticare che queste siano il magma vitale della cultura, non un’imperfezione sociale ma una
necessità adattiva.

La nozione di variazione implica le tendenze all’uniformità, queste fanno da argini alle variazioni. Le
culture si definiscono su questo intreccio tra invarianza e variazione – per definire una cultura non si
può che cogliere le forme consolidate del suo fluire, le costanti astratte scollate dalle variazioni
infinitesimali.

A qualunque livello metodologico (micro o macro) si svolga l’indagine, è ormai affermata


l’impossibilità di scindere tra sistema e mutamento (Jakobson), tra struttura e storia (Sahlins).

DILATAZIONI E SCONFINAMENTI CONCETTUALI


Il processo di modernizzazione ha segnato il confine tra il concetto antropologico di cultura che
osserva i comportamenti tradizionali e la ragione o razionalità che dovrebbe liberare dai costumi. Ci
sono stati prevalentemente antropologi dal lato delle società dominate dai costumi e filosofi e
sociologi in mezzo alle società modernizzate e “razionalizzate”.
I concetti di cultura e ragione non sono però rimasti immobili, sono slittati l’uno verso l’altro. La
razionalità è defluita verso la cultura demistificandola e riconoscendo le strutture logiche delle
interazioni economiche, gli scambi matrimoniali e dei miti; la cultura si è inserita nelle crepe della
razionalità nelle dimostrazioni di come nelle teorie filosofiche della ragione si trova spesso il tentativo
di dar forma di sapere universale a giustificazioni per le credenze particolari – si dimostra così l’effetto
del costume sulla razionalità. Viene smentita la pretesa di universalità, lo schema ‘razionale’ e
‘obiettivo’ di ogni gruppo umano dato non è mai il solo possibile.
Un altro sconfinamento notevole è quello della cultura verso la natura, la cultura si è dilatata dai dotti,
al “primitivi” ai primati e oltre. Lo stesso concetto di cultura messo a disposizione dagli antropologi
viene applicato ora dagli studiosi del comportamento animale.
I filosofi rivendicano la ragione per non spartire la cultura con i primitivi, gli antropologi il simbolismo
ed il significato per non estenderla agli altri animali.

Nel 1949 Lévi-Strauss apriva Le strutture elementari della parentela con un capitolo intitolato Natura
e cultura rivendicando una solida linea di demarcazione nel linguaggio articolato. Nella seconda
edizione (1967) ammette però che questa linea è tenue e tortuosa. Egli nota che anche alcuni animali
costruiscono utensili, hanno complessi procedimenti di comunicazione ed impiegano veri e propri
simboli – si chiede quindi se l’opposizione tra natura e cultura non sia una creazione artificiale della
cultura, un’opera difensiva della cultura per affermare la propria originalità. In questo caso
bisognerebbe “risalire verso la sua sorgente e contrastare il suo slancio” per riannodare i fili che la
connettono al resto della natura.
Come nel caso della reificazione, cogliere “l’essenza” della cultura implicherebbe lottare contro di
essa.

Pare vi siano due opzioni per coglierne il senso:

1. rimanere all’interno delle correnti culturali ricostruendone la storia (Kroeber) o


interpretandone i simboli/significati (Geertz)
2. uscire dalla cultura per andare verso la realtà che la precede e la fonda – (Lévi-Strauss: spirito
umano; Freud: inconscio, Marx: struttura economica)

Qualunque sia la strada il sentimento di arbitrarietà e precarietà non è del tutto evitabile.

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Geertz presenta un’immagine della cultura come costituita da ragnatele di significati che l’uomo ha
tessuto e fra cui rimane sospeso.

Lévi-Strauss invece come un’efflorescenza passeggera destinata a inabissarsi nel vuoto scavato dal
suo furore, opere sottili e raffinate di cui non rimarrà più niente.

Geerz preferisce guardare le trame simboliche, Lévi-Strauss il crepuscolo degli uomini, la fine della
cultura umana. Per quanto divergenti, entrambe le prospettive trasmettono però l’idea di cultura
come elaborazione fittizia e precaria di cui l’uomo non può fare a meno.

La dilatazione verso la natura priva l’uomo dell’esclusività della cultura ma arricchisce e riequilibra la
sua immagine riannodando i collegamenti naturali essenziali.

La dilatazione verso la ragione priva questa delle pretese di universalità – il concetto di cultura però
permette di reinterpretare l’universalità piegando la ragione dalla sua verticalità originaria e
mettendola su un piano orizzontale, non di superiorità normativa ma di somiglianza; ci si adatta ad
uno scambio di conoscenze reciproche, si possono ascoltare le ragioni degli altri uomini e delle altre
specie.

LA DIMENSIONE CULTURALE -ARJUN APPADURAI


L’OCCHIO DELL’ANTROPOLOGIA
Il sostantivo cultura tende alla reificazione, fa della cultura una sostanza che sembra riportarla nello
spazio discorsivo della razza; l’idea stessa che si vuole contrastare con il concetto di cultura. Appadurai
preferisce l’aggettivo, culturale. Se implica una sostanza mentale → privilegia l’idea di condivisione e
accordo.

Vista come sostanza fisica la cultura puzza di biologismo, es. razza, categoria scientificamente
superata. Il superorganico di Kroeber presenta entrambi i versanti di sostanzialismo (sia mentale che
fisico) criticati da Appadurai. Gli sforzi compiti soprattutto dall’antropologia americana, che per
aggirare questa trappola, considerano la cultura prevalentemente forma linguistica (es.
strutturalismo saussuriano) evitano solo in parte questi pericoli. Una qualità dello strutturalismo che
dimentichiamo facilmente è però il suo nucleo contestualizzante e oppositivo, da esso traiamo l’uso
dell’aggettivo culturale che conduce al campo delle differenze. Questo campo, più contrastivo che
sostantivo, permette di evidenziare punti di somiglianze e contrasto tra tutti i tipi di categorie.
Indicando una qualsiasi pratica come dotata di dimensione culturale sottolineiamo l’idea di differenza
situata, differenza in rapporto a qualcosa di locale.

Piuttosto che considerare la cultura una sostanza è utile considerarla come una dimensione di
fenomeni, dimensione che si accompagna alla differenza situata e incarnata. Sottolineando la
dimensionalità piuttosto che la sostanzialità la cultura può essere uno strumento euristico per
parlare della differenza piuttosto che essere proprietà degli individui o dei gruppi.

Vanno considerate culturali però solo quelle differenze che esprimono o formano la base per la
mobilitazione di identità collettive. La cultura è una dimensione pervasiva del discorso che sfrutta la
differenza per generare diverse concezioni di identità di gruppo. Il termine marcato cultura si riferisce
quindi al sottoinsieme di differenze che articola il confine della differenza; il mantenimento del
confine è quindi questione di identità collettiva costituita da alcune differenze tra le altre.

Questa accezione di cultura sottolinea sia il possesso di certi attributi che la costruzione cosciente ed
immaginativa, la mobilitazione delle differenze per la creazione del sottoinsieme di esse che
costituisce l’identità collettiva. Oltre che per la consapevolezza, questa concezione è
fondamentalmente differente dal concetto antiquato di etnicità perché la direzione è inversa, non si
tratta di estensione del sentimento primordiale di parentela ad unità più estese ma iscrizione di
fenomeni di vasta dimensione nei corpi degli individui tramite la messa a fuoco di pratiche su scala
sempre più ridotta.
Questa concezione si avvicina alla concezione strumentale dell’etnicità (opposta a quella
primordialista), differisce però su due versanti. In primo luogo i fini per cui si formano le identità
possono essere orientati, invece che a strumentalità “extraculturali” (economiche, politiche, emotive),

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all’identità stessa. Questa mobilitazione dei marcatori di differenza può essere parte di una
contestazione dei valori riguardo la differenza, distinta da altre conseguenze utilitarie.
In secondo luogo gli approcci strumentali non spiegano il processo per cui certi criteri di differenza
vengono re-inscritti nella fisicità dei soggetti (reificati?) così da essere vissuti come naturali e al
contempo coinvolgenti emotivamente.
Siamo passati dalla cultura sostanziale alla cultura come dimensione di differenza alla cultura come
identità collettiva basata sulla differenza alla cultura come processi di naturalizzazione di un
sottoinsieme di differenze mobilitate per articolare l’identità di gruppo.

Il culturalismo è la politica dell’identità mobilitata al livello dello Stato nazionale; distribuzione dei
diritti a seconda delle classificazioni riguardo l’identità collettiva.

La rinascita mondiale dei nazionalismi e separatismi etnici non è quel tribalismo che riguarderebbe
vicende antiche ma fa parte di una trasformazione più vasta che indichiamo col termine culturalismo.

I movimenti culturalisti spesso si fondano su eventi reali o potenziali di migrazione o secessione. Sono
sensibilissimi ai temi di identità, cultura ed eredità – il materiale culturale viene mobilitato come parte
del linguaggio esplicito in maniera strategica e populista.
I movimenti culturalisti delle minoranze tendono ad essere antinazionali e metaculturali.
Il culturalismo è la forma che la differenza culturale tende ad assumere in un’epoca di mediazione di
massa, emigrazione e globalizzazione.

ABITARE O COSTRUIRE -TIM INGOLD


Saggio che descrive i suoi tentativi di comprendere le relazioni tra gli esseri umani e l’ambiente

La vita non comincia qui e finisce lì, continua sempre. Per questo un ambiente non è mai dato ma è
sempre in costruzione. Punto di partenza : esseri umani abitino mondi discorsivi di significati
culturalmente costruiti, sovrapposti a un substrato materiale continuo e indifferenziato.

I modelli degli ecologi e dei biologi evolutivi per spiegare le relazioni tra organismi e ambiente non
lasciavano spazio a ciò che Ingold definiva come la più importante caratteristica dell’attività umana, il
fatto di essere motivata ed intenzionale. Egli distingueva inizialmente tra relazioni intersoggettive e
relazioni con l’ambiente naturale, relazioni tra persone e relazioni tra organismi. Questo lo portò però
ad un dualismo cartesiano, rispecchiato dalla separazione tra scienze naturali e scienze umane – “C’è
qualcosa di sbagliato, pensai, se l’unico modo di comprendere il nostro coinvolgimento creativo nel
mondo è di chiamarcene fuori.”

Per risolvere il problema Ingold si ispirò al lavoro in biologia evolutiva che sfida l’egemonia
neodarwinista, alla psicologia ecologica, opposta a quella cognitivista, ed alla fenomenologia di
Heidegger e di Merlau-Ponty.

Questi tre approcci hanno in comune il capovolgimento dell’ordine normale (occidentale) delle
priorità di forma e processo. La vita non è dispiegamento di una forma preesistente ma il processo
attraverso cui essa si genera e si mantiene. Hanno poi in comune il punto di partenza dell’agente nel
suo contesto ecologico, nel-mondo, non separato. Il mondo diviene ricco di significato non in quanto
costruito a seconda di un disegno formale ma attraverso il suo essere abitato → prospettiva
dell’abitare.

EDIFICARE AMBIENTI, COSTRUIRE DEI MONDI


La definizione di Geerz per cui l’uomo è “impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto”
lascia intendere una differenza, le ragnatele dei ragni catturano mosche, non pensieri.

J. von Uexkull dice che ogni soggetto intesse relazioni con qualche aspetto delle cose attorno a sé
creando una salda rete che sostiene la sua stessa esistenza – inizia la sua esposizione parlando di
acari. Nelson Goodman definisce gli uomini come costruttori di mondi, rimane però in sospeso come
gli atti umani di costruzione differiscano da quelli animali.

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Inizialmente Ingold adotta il concetto di progetto ed esecuzione per distinguere tra costruzione
umana e animale. I castori costruiscono e hanno sempre costruito le stesse tane. Le case umane sono
variate nel tempo e nello spazio. La differenza sta nelle origini del progetto che governa la costruzione
– il progetto della tana del castoro è iscritto nel genotipo del castoro stesso, egli è mero esecutore di
un progetto che si è evoluto assieme alla sua morfologia e al suo comportamento attraverso la
selezione naturale. Nei termini di Dawkins, la tana fa parte del genotipo esteso (effetti genetici che
vanno oltre al corpo) del castoro. I progetti umani sono invece d’autore, costruiti attraverso processi di
decisione, selezione intenzionale di idee. In passato estese quest’argomentazione agli utensili, sono
strumenti solo quelli di cui si fa un immagine conscia prima dell’esecuzione materiale. Se l’essenza del
fare sta però nella progettazione conscia allora non è necessaria l’alterazione fisica – l’utensile può
essere creato tramite cooptazione, la pietra diviene martello per selezione, come la caverna diviene
casa. Abbiamo quindi due modi del fare, cooptazione e costruzione.

Si poté comprendere la storia delle cose attraverso passaggi successivi di cooptazione e costruzione,
adozione delle cose agli obiettivi, modificazione di queste per servirli meglio, cooptazione dei nuovi
strumenti per nuovi obiettivi etc. Questo stesso modello venne usato per render conto dell’evoluzione
degli organismi (Darwin, libro sulle orchidee).

Per von Uexkull gli animali vanno considerati come soggetti, non macchine; vi è un soggetto che usa
gli organi sensori e motori come strumenti, non mero assemblaggio di essi. Gli animali non possono
però cogliere gli oggetti come neutrali, ma solo in base al proprio Umwelt, il mondo costituito dalle
loro attività vitali specifiche (es. quercia, molteplici abitanti). Gli umani possono invece cogliere l’albero
come albero, non costruiscono il mondo in virtù di ciò che sono ma in base alle possibilità che
possono concepire, limitate solo dall’immaginazione.

Le reti di significato per gli animali sono tese tra essi e gli oggetti, derivano dall’immersione pratica,
per l’essere umano le reti sono iscritte sul piano separato di rappresentazioni mentali. L’animale
percepisce oggetti in quanto immediatamente disponibili per l’uso, l’umano come fenomeni a cui
assegnare poi usi potenziali. Come rappresentazioni mentali gli oggetti appartengono ai mondi
intenzionali, come fenomeni reali ad oggetti neutrali dell’ambiente fisico. In antropologia ci si
riferirebbe rispettivamente ai due mondi come cultura e natura.

In un saggio del 1987 Ingold concludeva che “costruire equivale a dare un ordinamento culturale alla
natura – è l’iscrizione di un progetto ideale sulla materialità del mondo degli oggetti”. È ora
imbarazzato di ciò.

LA CASA COME ORGANISMO


Anche la quercia però assume la sua forma, varia, in base alle attività degli animali che ci abitano,
contribuiscono a dare la forma che l’albero prende nel corso dei secoli. Allo stesso modo, tutti gli
abitanti della casa contribuiscono a modificarla in continuazione. La distinzione tra casa ed albero non
è assoluta ma relativa al grado di coinvolgimento umano nel processo generatore della forma.

Costruire è un processo che continua per tutto il tempo in cui un ambiente viene abitato – non
comincia con un progetto preformato per finire con un artefatto concluso. La stessa “forma finale” è
un momento passeggero in cui la forma viene associata ad un obiettivo umano e dissociata dal flusso
continuo dell’attività intenzionale. Siamo sempre immersi nell’azione e solo per brevi tratti la
giudichiamo col pensiero. Costruiamo nel processo stesso dell’abitare. (es. lezione, case di fango in
Ghana).

2-COMPARAZIONE/ETNOGRAFIA
Comparazione ed etnografia sono 2 temi che caratterizzano l’antropologia culturale, in quanto la rendono
riconoscibile e l’hanno accompagnata nella sua storia.

Comparazione → è un aspetto non solo della disciplina antropologica, ma anche della cultura e del modo in
cui questa viene costruita.
Nella vita gli esseri umani procedono inevitabilmente per comparazione, quando cercano e riconoscono le
affinità e divergenze tra oggetti e concetti, o quando riducono l’ignoto a categorie familari. Etnografia :
fondamento empirico dell’antropologia culturale.
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Durante il corso della storia gli antropologi hanno disseminato descrizioni, teorizzazioni e punti di vista è
avvenuto a partire da esperienze prolungate di contatto diretto con i contesti di vita in cui i fenomeni
culturali oggetto di ricerca prendono vita.
La comparazione è uno strumento fondamentale per l’antropologia, ma il modo in cui è stata intesa è
variato nel tempo.
Nella fase iniziale → 2°metà 800, lo sforzo comparativo venne messo a servizio di una missione scientifica,
che voleva individuare le leggi dell’evoluzione socioculturale, ma questa operazione fu presto sottoposta a
critiche e quindi delegittimata.

Franz Boas, 1°critico dell’evoluzionismo, nella sua opera I limiti del metodo comparativo, dimostrò la
necessità di superare le modalità di ricerca dell’evoluzionismo : il destinatario delle critiche dell’antropologia
non era l’evoluzionismo darwinista, ma quello sociale, per via dell’uso del metodo comparativo.
Comparatismo evoluzionista : in esame oggetti culturali con lo scopo di classificarli in una scala che andava
dal “primitivo” al “civilizzato”. I parametri di valutazione erano condizionati dall’osservatore e non tenevano
conto dei significati localmente attribuiti ai fenomeni.
Boas propose di abbandonare la storia congetturale universale per focalizzare l’attenzione sull’irriducibile
specificità dei tratti culturali e della loro storia in aree geografiche limitate → nacque il “metodo
storico/particolarismo storico” in antropologia.
La comparazione rimase più limitata, circoscritta ad ambiti regionali.
900’ il rifiuto di gerarchizzare differenti forme di umanità nei termini dell’evoluzionismo sociale, con il
rigetto di ogni forma di etnocentrismo → elemento distintivo dell’antropologia.

Nel contesto evoluzionista, la raccolta dei dati e la riflessione su questi era affidata a persone differenti.
Gli esponenti del pensiero antropologico e sociologico tra 800/900, non fecero mai ricerche sul campo, ma
si basavano su fonti scritte o elaboravano il materiale degli etnografi.
Morgan nell’800 costruì sul campo un profilo antropologico, anche Boas fece ricerche sul campo.

1922 → consacrazione del metodo etnografico come tratto distinto dall'antropologia, collegata a Bronislaw
Malinowski, che in quell’anno pubblicò Argonauti del Pacifico occidentale, la cui introduzione divenne il
manifesto del metodo etnografico.
L’antropologo raccomandava la frequentazione intensa e prolungata del contesto di ricerca e forniva alcuni
modi di operare. Anni 80’ venne messo in dubbio il modello malinowskiano.

IL METODO COMPARATIVO - Ugo Fabietti


COMPARAZIONE COME SPIEGAZIONE
Dimensione comparativa legata all’antropologia in quanto sapere specifico, questa comparazione resta un
antico progetto della disciplina. Tutto per l’antropologia può essere comparato.
Il progetto comparativo presuppone un’elaborazione concettuale che renda gli oggetti adeguati al
progetto stesso : bisogna che la riflessione di tipo comparativo dalla più spontanea alla più sistematica,
elabori criteri della comparazione stessa. Questi criteri non sempre sono coerenti.
Ogni progetto comparativo esige che per comparare si definiscano i termini stessi della comparazione.
Il legame tra programma di ricerca comparativa e oggetti da comparare, può essere esemplificato dal
progetto dell’evoluzionismo ottocentesco, con il suo modo di particolare di rappresentare la cultura.
La cultura intesa come “insieme complesso” di natura “cumulativa” risultava scomponibile in parti ed
elementi separabili e descrivibili, che potevano essere accostati ad altri desunti da contesti culturali diversi.

Il progetto comparativo dell’antropologia ha subito diverse modificazioni, la tendenza di queste è che con il
tempo lo stile comparativo è stato segnato da una considerazione sempre maggiore dei “significati
indigeni” o per meglio dire “del punto di vista del nativo”.
Inizialmente il sapere antropologico fu caratterizzato da assunti oggi difficilmente difendibili, ma altri hanno
continuato da allora a costituire una specie di “rumore di fondo” della disciplina : uno di questi è il nesso
che lega comparazione e spiegazione → vi è una concezione della comparazione che si ritiene finalizzata

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alla spiegazione dei fatti che sono di interesse per l’antropologia, questa disciplina ha per lungo tempo
cercato di produrre una spiegazione di alcuni fenomeni in termini di relazioni causali.

I 1°antropologi che non avevano contatti diretti con le popolazioni di cui scrivevano, anteponevano un ideale
di antropologia come scienza oggettiva a quello di antropologia come esperienza etnografica.
Per loro i fatti erano attendibili se lo era la fonte che li riportava, non si chiedevano il loro significato.

1871 : Morgan studiò i sistemi di parentela, delineando una stirpe di “tappe”, che hanno per lui
contrassegnato lo sviluppo dell’istituzione familiare e dei sistemi terminologici a essa correlati.
In tutto ci sono 15 tappe, e ognuna era preceduta da una e ne precede una.
Com’era possibile per Morgan sostenere che tali pratiche fossero in successione tra loro ?
La complessità maggiore o minore delle pratiche e i collegamenti che si potevano stabilire tra esse furono il
risultato di un lavoro di comparazione condotto in diversi continenti, raccolte direttamente da Morgan →
sono delle costruzioni create astraendo dalle proprietà che l’occhio dell’osservatore presume siano presenti
nell’esistenza.

Tylor e poi Durkheim indussero cambiamenti nell’uso della comparazione.


Durkheim fa riferimento nelle Regole del metodo sociologico al metodo delle correlazioni
statistiche/variazioni concomitanti → questo metodo era già stato utilizzato da Tylor nel 1889, che lo aveva
utilizzato per una ricerca su 300 società per stabilire una correlazione tra alcuni riti, il tipo di discendenza.
Scopo : dimostrare su basi statistiche che se questi elementi si presentavano congiuntamente in un certo
numero di casi era lecito supporre che quando uno di essi si presentava in modo isolato dovevano esserne
presenti anche altri.
Il metodo delle variazioni concomitanti consente, di prevedere, quando un fenomeno varia, varierà anche
quello con con il fenomeno è statisticamente associato. Questo metodo lega la comparazione alla
spiegazione, e la comparazione stessa all’idea di casualità e di predittività.

COMPARAZIONI CONTROLLATE
1965 Evans-Pritchard pubblicò un saggio sul metodo comparativo. Pur dichiarandolo irrinunciabile, limitò
le classiche pretese del metodo incarnate dall’antropologia britannica (Frazer) e americana (Murdock).
Polemizzando con questi autori spostò l’accento sulla ricerca delle differenze : per lui l’antropologia doveva
spiegare le differenze. Di conseguenza il metodo comparativo così come era stato applicato non aveva dato
i frutti sperati, e ci si doveva chiedere per quale ragione più i dati sulle società studiate dagli antropologi si
accumulavano più era difficile creare leggi generali sulla vita sociale. Pritchard allora propende a
un’immagine della ricerca come più simile alle scienze storiche che a quelle naturali, posizione esposta
precedentemente sostenendo di dover essere un etnografo prima di un antropologo.
Spostando il discorso dalla comparazione generalizzante alla conoscenza delle singole culture Pritchard si
mostra consapevole del pericolo di una frantumazione dell’antropologia → allora propone l'esercizio di un
metodo comparativo su scala limitata, che prenda in conto società di 1 solo tipo o tematiche circoscritte.
→ si intrave un cambiamento importante nello statuto epistemologico della dimensione comparativa: non è
più la condizione di metodo per la formulazione di leggi generali, ma uno strumento di migliore
comprensione della specificità sociale e culturale.
Questa pratica del metodo comparativo limitato era già in atto presso i ricercatori sensibili a un’utilizzazione
critica degli strumenti metodologici dell’antropologia, tra questi : Nadel che utilizzò la comparazione del
tipo esplicativo indicata da Pritchard, in quanto non si poneva di formulare una teoria generale della
credenza della stregoneria nelle società analizzate, ma mirava a spiegare le differenze esistenti nella
credenza in questi popoli.
Nadel si propone di operare un lavoro di comparazione che tenga conto del contesto, ossia dell’influenza
esercitata da determinate istituzioni apparentemente prive di relazioni con l’argomento studiato. Le
variazioni concomitanti sono per lui le relazioni tra elementi del contesto che devono essere comprese per
fornire la spiegazione di come una credenza si manifesti in maniera diversa tra gruppi dello stesso posto.

CLASSIFICAZIONI POLITETICHE E RETI DI CONNESSIONI


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Fine anni 50’ Edmund R. Leach pose per la 1°volta un problema cruciale circa la validità della comparazione.
La sua critica si rivolgeva a un tipo specifico di comparazione.
Ultimi 30 anni le pretese comparativiste dell’antropologia sono state attaccate, fino alla totale dissoluzione
del progetto comparativo. Queste critiche provengono sia da coloro che hanno visto in questo metodo lo
strumento di un’antropologia animata da uno spirito “positivistico”, “oggettivante”, ma anche da coloro che
partendo da posizioni “decostruzioniste”, hanno conferito un senso nuovo alla comparazione → Needham
operò uno smantellamento della parentela, criticando la pretesa di poter considerare la nozione di
parentela come in grado di ricoprire un’area omogenea e definita di fenomeni empirici. Partiva dal fatto che
non vi sono ovunque classi di fenomeni omogenei a cui attribuire la qualifica di “fenomeni di parentela”: suo
rifiuto deriva dal fatto che ciò che noi chiamiamo parentela non trova corrispondenze nelle società diverse
dalla nostra. Partiva da una constatazione analoga a quella di Goodenough nel suo tentativo di trovare una
definizione universalmente valida di matrimonio. Ma per Needham la tendenza a definire universalmente le
categorie della parentela deriva da due fattori :
- eccessivo attaccamento ai fatti empirici
- accettazione di un'idea del tutto non realistica di come si formano le classificazioni

Discutendo del principio della discendenza Needham sosteneva che non vi fosse accordo in antropologia su
che cos’è una società patrilineare, poiché non possiamo accomunare tra loro società solo per questa
caratteristica.
Possiamo dire che una società è patrilineare o matrilineare solo se tutte le caratteristiche vengono
trasmesse in base allo stesso principio, ma questo non avviene sorge allora il problema di che cosa farsene
di definizioni come società patrilineare o matrilineare.
Prese in esame 3 società : A, B, C tra A e B somiglianza, tra B e C somiglianza, ma no tra A e C → ma gli
antropologi tendono comunque a classificarle nella stessa classe di società patrilineare : classificazioni di
tipo monotetico = nascono dall’elaborazione di categorie basate sull’assunto che determinate proprietà
sono presenti in maniera costante.
Needham sceglie di considerare le classificazioni politetiche = classi composte da individui che non
condividono tutti 1 o + tratti specifici, ma condividono alcuni variamente distribuiti.
Questo tipo di classificazione che per Needham rispondono meglio all’esigenza di un’antropologia che mira
a comparare in maniera debole , stabilendo connessioni piuttosto che comparazioni, ricordano le
“somiglianze di famiglia” di Wittgenstein : che si possono rintracciare negli individui appartenenti alla
stessa famiglia, ma nessun individuo possiede le stesse identiche caratteristiche di un altro, anzi certi
individui non ne possiedono nessuna in comune, ma in mezzo a questi individui ve ne sono alcuni che ne
possiedono alcune le quali fanno sì che anche individui del tutto diversi tra loro risultino appartenenti alla
stessa famiglia.
Per Wittgenstein questo modo in cui gli esseri umani producono le loro classificazioni, ed è questo che
garantisce la produttività dei concetti.

Le classificazioni riflettono non una realtà oggettiva, ma principi d’organizzazione che stanno dalla parte del
soggetto che classifica.
Il fatto che esistano elementi attorno ai quali, si costituiscono queste classificazioni è argomento della
“teoria dei prototipi” = elementi che servono da modello per le nostre costruzioni classificatorie.

Con Needham sembra tramontare la possibilità di comparazione, se comparare significa accostare tra loro
società allo scopo di costruire dei tipi → per Leach questo ha una utilità, ma anche limitazioni.
Però Needham si rivela fiducioso nel fatto che il riconoscimento dei nostri limiti delle nostre capacità di
categorizzazione ci porti alla via del riconoscimento dei limiti politetici che caratterizzano la realtà.

Meno scettici sono stati coloro che ritenevano che si potessero creare delle connessioni nelle classificazioni
politetiche o nelle somiglianze di famiglia, in modo da arricchire la nostra comparazione
Remotti, Pignato e Piasere hanno affrontato in questa prospettiva le tematiche della comparazione.
Difatti Remotti dopo aver provato la prospettiva delle somiglianze di famiglia, ha posto al centro della
problematica comparativa la dimensione connessionista che dovrebbe non solo evitare le impasses del

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comparativismo classificatorio e tipologizzante, ma assegnare allo sguardo comparativo dell’antropologia
una validità metodica fondamentale
Per lui vale l’idea di poter stabilire dei fasci di relazioni tra fenomeni, reti di connessioni, che l’antropologia va
tessendo nei e tra i più svariati contesti.
La consavolezza della parzialità delle reti di connessioni che riusciamo a stabilire va con un’altra
consapevolezza che è quella che la realtà non può essere descritta una volta per tutte.

La prospettiva connessionista nasce dallo scetticismo di fronte alla possibilità di praticare comparazioni
fondate su un’idea di causazione lineare tra elementi e di poter racchiudere la realtà in tipologie esaustive. Il
connessionismo rappresenta un passo verso una concezione del sapere antropologico come prodotto di
“un'attività costruita” dipendente da forme categoriali del soggetto, che possono dipendere da fattori
cognitivi, tanto naturali quanto culturali.
Con il connessionismo siamo di fronte all’idea della conoscenza come qualcosa di non riconducibile ad
operazioni specifiche di un soggetto astratto condotto indipendentemente dal contesto pratico dell’azione
umana.

COMPARAZIONE COME TRADUZIONE


Tentativi in direzione di una valutazione contestuale dei fenomeni culturali comparabili hanno portato a
forme di comparazione basate su processi di traduzione.

Goodenough comparò alcuni casi etnografici empirici che a suo giudizio dovevano fornire la base per
definizioni di portata generale.
Emerge il problema della definizione degli oggetti che si intendono studiare, e questo problema rinvia a
quello più generale dei concetti e della loro descrizione.
Prendendo in esame l’opera di Murdock, Goodenough esamina la definizione di famiglia nucleare : questa
è per Murdock il gruppo costituito da un uomo. una donna e la loro prole ed è una situazione universale.
Queste definizioni solo per Goodenough una proiezione etnocentrica, in quanto definiscono la famiglia
come qualcosa che è il più vicino possibile all’idea che noi abbiamo di essa. Noi siamo vittime del nostro
etnocentrismo, prendendo un’unità significativamente funzionale della nostra società, e trattando il più
simile equivalente funzionale rinvenuto altrove come se fosse, la stessa cosa.
Se però il nostro compito è quello di descrivere e di comparare tutte le società con finalità generalizzanti,
concetti come quelli di famiglia e matrimonio servono solo come termini di paragone al negativo : servono
per confrontare per difetto, tutte le altre forme di questa istituzione.

Goodenough è quindi alla ricerca di un metodo comparativo che renda possibile formulare una definizione
di matrimonio in termini non etnocentrici : parte da uno studio di Gough sul matrimonio secondo cui
questo dovrebbe stabilire la legittimità di un neonato affinché divenga riconoscibile come membro della
società. Gli studi di Goodenough fanno però notare che il modo in cui il bambino riceve legittimità sociale
non ha sempre a che fare con unione tra uomo e donna.Gough ha avuto il merito di cercare un principio
universale (necessario per comparare e generalizzare) ma la legittimazione della prole non richiede
transazione tra uomo e donna.
Unico principio che Goodenough ritiene utile alla definizione universale del matrimonio è quello correlato
con la riproduzione sessuale → principio dell’accesso sessuale.
Questo è per Goodnough conseguenza di alcune caratteristiche prettamente umane :
a) tendenza a stabilire relazioni continuative su base affettiva forse deriva dal fatto che →
b) i neonati necessitano un contatto prolungato con gli adulti, questo si traduce in →
c) tendenza a sviluppare attaccamento nei confronti di partner sessuali con l’effetto →
d) sviluppare atteggiamento combattivo e competitivo per l’accesso alle donne
e) uomini e donne cresciuti come fratelli tendono a non stabilire legami sessuali tra loro.

→ conseguenza : tendenza a sviluppare relazioni continuative con 2 categorie di persone :


● fratellanza → si stabilisce nello stesso momento in cui si stabilisce la relazione di maternità/paternità
● coloro con cui stabiliscono relazioni sessuali

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Goodenough può tentare una definizione di matrimonio : “transazione che si risolve in un accordo in cui
una persona stabilisce un diritto continuativo di accedere a una donna, e nel quale questa è considerata
suscettibile di avere figli”.

Dalla ricostruzione delle analisi di Goodenough risulta che la “comparazione contestualizzante”, porta con
sé un problema di traduzione. Vi è la necessità di conoscere i significati contestuali delle istituzioni e questi
significati devono essere tradotti per essere comparati.
Questa prospettiva porta con sé una domanda : come tradurre ?
Nel caso specifico della parola matrimonio, la prospettiva di Goodenough è di tipo etico, si analizzano le
istituzioni matrimoniali nel loro contesto significante ma non dal punto di vista del nativo, punto di vista che
può essere colto attraverso una prospettiva di tipo emico che consente di descrivere meglio i contesti
particolari : es analisi di Geertz che attua un lavoro comparativo sull’idea di persona, si interroga su cosa si
trovi nell’idea che i javanesi, i balinesi e i marocchini hanno del “Sé” → in quest’analisi la dimensione
descrittiva p ciò in cui si risolve la comparazione stessa.
Idea di Pritchard viene in un certo senso accolta da Geertz mediante un’analisi concreta di 3 casi particolari,
al termine di questa non viene proposta una definizione generale su che cosa sia la “persona”.

L’ETNOGRAFIA E LA POLITICA DEL CAMPO - Jean-Pierre Olivier de Sardan


L’inchiesta di tipo antropologico vuole avvicinarsi il più possibile alle situazioni naturali dei soggetti, in una
situazione di interazione prolungata tra il ricercatore e le popolazioni locali, al fine di produrre delle
conoscenze contestualizzate, trasversali, volte a rendere conto del “punto di vista dell’attore”, delle pratiche
e dei loro significati.
La pratica antropologica non è caratterizzata da procedure formalizzabili che basterebbe rispettare, ma la
ricerca sul campo è innanzitutto una questione di abilità che vengono acquisite sul campo.
La ricerca sul campo/ricerca etnografica/socio-antropologica si basa sulla combinazione di 4 forme di
produzione di dati :

1. osservazione partecipante → attraverso un soggiorno prolungato, e l’apprendimento della lingua presso i


soggetti di una ricerca, l’antropologo si scontra che le realtà che intende studiare.
Vi possono essere situazione di osservazione e situazioni di interazione.
In tutti i casi, le informazioni e le conoscenze acquisite possono essere sia registrate dal ricercatore, ma
possono anche restare informali o latenti.
Se sono registrate si trasformano in dati e corpus, altrimenti prendono il ruolo dell’ordine
dell’impregnazione.

Dati e corpus
Il ricercatore deve prendere appunti, sul campo o a posteriori, e tentare la conservazione di ciò a cui ha
assistito. Tramite tali procedure produrrà dei dati e costituirà dei corpus → assumono la forma concreta del
taccuino, in cui l’antropologo registra ciò che vede e sente.
I dati sono la trasformazione in tracce oggettivate di pezzi di realtà come sono stati selezionati e percepiti
da ricercatore.
Le osservazioni del ricercatore sono strutturate da quello che cerca, dal suo linguaggio e dalla sua
personalità, solo il suo desiderio di conoscenza e la sua formazione alla ricerca possono avere la meglio sui
suoi pregiudizi ed emozioni.
La competenza del ricercatore sul campo sta nel poter osservare ciò a cui non è preparato e l’essere in
grado di produrre i dati che lo obbligheranno a modificare le proprie ipotesi.

L'eterno dibattito sulla misura in cui l’osservazione modifica i fenomeni osservati non è privo di risvolti:
● una parte dei comportamenti non è modificata dalla presenza dell’antropologo o lo è in minima
parte e una delle dimensioni di saper fare il ricercatore è capire quale.
La presenza prolungata dell’antropologo riduce i fattori di disturbo.

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● ci sono alcuni comportamenti modificati in modo significativo → 2 soluzioni : prima è tentare di
annullare questo cambiamento attraverso procedure; la seconda è di trarre profitto, in questo caso
le modificazioni diventano oggetto della ricerca.

L'atteggiamento di osservazione comprende non solo i rituali o comportamenti quotidiani, ma riguarda


anche le interazioni locali, nelle quali il ricercatore è poco o per nulla coinvolto. Il ricercatore è un
osservatore ma anche ascoltatore. L’antropologo sposa le forme del dialogo ordinario.
L’impregnazione
Il ricercatore non si sente sempre in servizio, vivendo osserva e queste osservazioni vengono registrate nel
suo inconscio, non si trasformano in corpus e non si iscrivono nel quaderno di campo, ma giocano il ruolo di
familiarizzazione dell’antropologo con la cultura locale.
E’ in questo modo che si impara a sapere di che cos’è fatta la vita di tutti i giorni nel villaggio e di che cosa si
parla spontaneamente in questo. Tutto ciò si acquisisce in maniera inconscia e torna molto utile sia sul
campo che nelle elaborazioni successive dei dati.

2. i colloqui → la produzione da parte del ricercatore di dati sulla base di discorsi autoctoni che lui stesso
sollecita resta un elemento centrale della ricerca sul campo perché l’osservazione partecipante non
permette di accedere a numerose informazioni anche se necessarie alla ricerca, per questo si deve ricorrere
al sapere o al ricordo degli attori sociali; ma anche perché la rappresentazioni degli attori locali sono
elemento indispensabile per la comprensione del sociale.
Rendere conto del “punto di vista dell’attore”è la grande ambizione dell’antropologia.

Consulenza e racconto
I colloqui oscillano tra questi due poli : consulenza e racconto. L’informatore è quindi un consulente,
narratore e spesso entrambi.
Il colloquio verte su referenti sociali o culturali e in questi casi si consulta l’interlocutore, che è invitato a dire
ciò che pensa o sa sull’argomento, viene supposto che l’informatore rifletta almeno parzialmente un sapere
comune e condiviso con altri locali.

Il colloquio come conversazione


Avvicinare al massimo il colloquio guidato a una situazione banale di interazione quotidiana, cioè di
conversazione mira a ridurre l’artificialità della situazione di colloquio.
Il dialogo è una costruzione metodologica, mirante a creare, una situazione d’ascolto tale che l’informatore
dell’antropologo possa disporre di reale libertà di parola e non si senta in una condizione di interrogatorio.
Il colloquio sul campo tende a situarsi agli antipodi della situazione di somministrazione dei questionari, che
rivela un forte coefficiente di artificialità e unidirezionalità.
Ci sono colloqui che mantengono la struttura del questionario, anche se le domande sono aperte. La guida
al colloquio rischia in questo modo di limitare il ricercatore a una lista di domande standard, a discapito
dell’improvvisazione che ogni vera discussione richiede.
Vi è quindi una distinzione tra guida al colloquio = in cui si organizzano in anticipo le domande che uno
pone e il canovaccio di colloquio = promemoria personale che permette di non dimenticare gli argomenti
importanti.

La ricorsività del colloquio


Un colloquio di ricerca deve anche permettere di formulare nuove domande.
Vi è una grossa differenza tra il colloquio condotto dal ricercatore e la somministrazione di un questionario,
poiché durante il colloquio condotto dal ricercatore si ammettono digressioni, giri di parole e nel momento
in cui l’interlocutore è fuori tema o quando le sue risposte sono confuse, il ricercatore lo solleciterà perché
esso parla proponendo nuove piste → ricorsività = ci si basa su ciò che è stato detto per produrre nuove
domande → questa capacità di decifrazione istantanea, di riformulazione di un nuovo problema è il cuore di
saper fare il ricercatore sul campo.

Il colloquio come “negoziazione invisibile”

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L’intervistato non ha gli stessi interessi del ricercatore. L’informatore non rinuncia a utilizzare strategie attive
miranti a trarre profitto dal colloquio o strategia di difesa miranti a ridurre al minimo i rischi della parola.
Il problema del ricercatore è quello del double bind(doppio legame) è che allo stesso tempo deve
mantenere il controllo del colloquio e lasciare l’interlocutore esprimersi come gli pare e a modo suo.

Il realismo simbolico nel colloquio


Il ricercatore è professionalmente tenuto ad accordare credito ai discorsi del suo interlocutore → condizione
d’accesso alla logica e all’universo di coloro che l’antropologo studia, attraverso questo può abbattere i suoi
pregiudizi e preconcetti : Bellah chiama questo “realismo simbolico” = la realtà si deve accordare alle
parole degli informatori è nel significato che questi ci mettono.
Nello stesso tempo un indispensabile attenzione critica mette in guardia il ricercatore dal prendere come
oro tutto ciò che gli viene detto.
Va messa insieme empatia e distanza, rispetto e diffidenza. Durante il colloquio bisogna dar credito alle
affermazioni sul senso dell’interlocutore : non si può accedere a questo senso se non prendendo sul serio ciò
che vien detto, successivamente la decifrazione critica, verterà sul senso di questo senso, e sul rapporto di
chi enuncia con l’enunciato, con il referente e il contesto.

Il colloquio e la durata
Il colloquio è almeno l’inizio di una serie e di una relazione.
Un colloquio successivo permette spesso di sviluppare e commentare questioni sollevate
precedentemente. In ciascun nuovo colloquio con lo stesso interlocutore, questo riconosce all’intervistatore
una maggiore competenza.

3. procedure di censimento → sia nel quadro dell’osservazione che in quello del colloquio guidato, si fa
appello a delle particolari operazioni di produzione di dati chiamati procedimenti di censimento perché si
tratta di produrre sistematicamente dei dati intensivi in numero finito.

4. raccolta di fonti scritte → alcune di queste vengono prodotte prima della ricerca sul campo, e in questo
caso permettono una familiarizzazione o meglio l’elaborazione di ipotesi esplorative e di domande
particolari. Altre sono inscindibili dalla ricerca sul campo e sono a esse integrate.
Altre ancora possono costituire corpus anonimi, distinti e complementari a quelli prodotti dalla ricerca sul
campo.

LA POLITICA DEL CAMPO


Il processo di ricerca sul campo si può anche intendere in forma sintetica, al livello di certe esigenze
metodologiche che fanno dell’antropologia una scienza sociale empirica.
Questo campo che accumula le diverse forme di produzione dei dati passati prima in rassegna fa capo a
una strategia scientifica del ricercatore.

Triangolazione
Triangolazione = principio base di ogni inchiesta : le informazioni devono avere riscontro. Ogni
informazione proveniente da un’unica persona è da verificare → con la pratica della triangolazione semplice
il ricercatore fa un confronto incrociato tra gli informatori; ma si potrebbe parlare di triangolazione
complessa nel momento in cui si tenta di analizzare la scelta di molteplici informatori, questa intende far
variare gli informatori in funzione del loro rapporto con il problema trattato.
Vuole incrociare i punti di vista quando ritiene che la loro differenza produca senso.
Non si tratta di confermare o verificare, ma di ricercare dei discorsi in contrasto, in modo da costruire una
ricerca delle differenze significative.
Gruppo strategico = aggregazione di individui che hanno globalmente, di fronte a uno stesso problema,
uno stesso atteggiamento, determinato in larga misura da un rapporto sociale simile rispetto a questo
problema. Questi gruppi variano a secondo dei problemi considerati.
Questo approccio si oppone al punto di vista culturalistico che postula omogeneità e coerenza di una
cultura; la posizione di “anti coerenza” è euristicamente più utile così come lo è un approccio a una
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società attraverso i suoi conflitti.

L’iterazione
La ricerca sul campo procede per iterazione = ricorda il va e vieni di un ricercatore sul campo.
Gli interlocutori non sono scelti in anticipo ma prendono posto in base a compromessi tra i piani del
ricercatore, le disponibilità degli interlocutori, le occasioni che si presentano, i canali di parentela,
amicizia e clientela. Da ogni colloquio nascono nuove piste e queste riflettono le reti reali
dell’ambiente studiato; la ricerca sul campo si adegua ai circuiti sociali e alla loro complessità.
Iterazione è anche un va e vieni tra problematica e dati, interpretazione e risultati.

La saturazione
Quando si può mettere fine alla fase del campo ?
Ci si accorge abbastanza presto quando su un problema, decresce la produttività delle osservazioni e dei
colloqui.
La durata della ricerca sul campo varia a seconda delle proprietà empiriche, cioè dalle caratteristiche del
tema di ricerca che il ricercatore si è dato in questa società locale.

Il gruppo sociale testimone


Risulta utile darsi un luogo intensivo di ricerca, questo “gruppo testimone”varia a seconda dei temi della
ricerca e può essere di dimensioni differenti : una famiglia, un villaggio, un laboratorio.
Su uno stesso spazio sociale si sovrappongono contemporaneamente l’osservazione partecipante, i colloqui
approfonditi, le tecniche di censimento e la ricerca di documenti scritti.
L'intensività permette anche di effettuare continuamente dei confronti tra diverse fonti d’informazione.
La trappola in cui molti sono caduti di questo “gruppo testimone” è di rinchiudersi in questo e limitarsi a
produrre monografiche esaustive di mico-comunità.
Bisogna attuare una ricerca più estensiva.
Un “gruppo sociale testimone”può rinviare a un solo gruppo strategico. Nella maggior parte dei casi
comprende persone che appartengono a più gruppi.

Gli informatori privilegiati


Informatore privilegiato può essere considerato un caso estremo di gruppo sociale testimone ristretto a un
solo individuo. Il ricorso a questo deve combinarsi con il principio di triangolazione.
Si devono distinguere diversi tipi di informatori privilegiati : generalisti (danno accesso a rappresentazioni
usuali), tramiti, mediatori (aprono la strada verso altri attori chiave), esperti, con un ruolo di consulenza o di
narrazione.

LA GESTIONE DEI “FATTORI DI DISTURBO”


La ricerca sul campo ha le sue perturbazioni. La politica del campo viene condotta navigando a vista tra
questi fattori di disturbo, ma non ci si può sfuggire. L’obiettivo del ricercatore è di cercare di padroneggiarli
o controllarli.

L’incliccaggio
L’inserimento del ricercatore in una società non si fa mai nel suo insieme, ma attraverso gruppi particolari. Il
ricercatore può essere assimilato, ma talvolta con la sua complicità, a una fazione locale, il che comporta 2
inconvenienti :
● rischio di diventare troppo la voce della fazione e di riprenderne i punti di vista
● pericolo di vedersi chiudere la porta in faccia dalle altre fazioni
Incliccaggio → principale problema della ricerca sul campo.
Il ricorso ad un interprete, che è sempre anche un informatore privilegiato, introduce delle forme particolari
di incliccaggio : il ricercatore dipende dalle affinità e ostilità proprie del suo interprete, così come dalle
appartenenze o dagli ostracismi a cui lo espone lo statuto di quest'ultimo.

La soggettività del ricercatore

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Il ruolo personale del ricercatore è una risorsa, ma anche un elemento perturbante.
La maggior parte dei dati è prodotta attraverso le sue interazioni con gli altri → questi dati rappresentano un
“fattore individuale” che non può essere né esaltato, né negato, ma può solo essere controllato. A questo
scopo è utile il suo diario, che gli permette di valutare le sue emozioni, dare le testimonianze del suo
coinvolgimento personale.
Anche il lavoro in squadra è utile perché vale come controllo reciproco della soggettività.
Ci sono altri 2 problemi contigui :
● delle incessanti pressioni degli stereotipi e delle ideologie sullo sguardo dell’antropologo;
● atteggiamento degli interlocutori e le loro azioni di regia nei confronti dell’antropologo e degli altri →
problema della gestione del sé analizzato da Goffman.

CONCLUSIONE : PLAUSIBILITÀ E VALIDITÀ


Sono stati fatti molti tentativi contemporanei per definire le condizioni della validità in etnografia, come per
esempio i 3 criteri proposti da Sanjek :
1. in che misura le teorizzazioni dell’antropologo si fondano sui dati di campo forniti come “prove” ?
2. siamo informati sul “percorso del campo”, cioè su chi sono gli informatori e su come sono state
raccolte le loro informazioni ?
3. le decisioni interpretative effettuate a mano a mano sono esplicitate ?

De Sardan non è sicuro che si debba parlare di “criteri”, ne che si possa delimitarli così.
Ma per lui la preoccupazione per la validità dei dati debba essere al centro del lavoro sul campo sembra la
condizione per ogni pretesa di plausibilità dell’antropologia. Questi dati sono montati, selezionati, ritagliati,
messi in scena in funzione dell’intenzione dimostrativa e narrativa del ricercatore.
La presenza simultanea di descrizioni, citazioni e casi riflette sul prodotto antropologico finale il lavoro
empirico sul campo, ne garantisce la validità e la critica.
Il ricercatore deve rompere con i propri pregiudizi e il proprio senso comune e riuscire a cogliere il senso
comune del popolo studiato in modo da trasformare l’esotico o il familiare.
Il ricercatore deve essere capace di agire come coloro che studia all'interno del campo, Goodenough definì
la cultura come la conoscenza necessaria per comportarsi in modo appropriato.
La validità dei prodotti sul campo dipende in buona parte da un criterio simile ma esso non è formalizzabile
e quantificabile.
La diversità dei dati e delle ricerche è ciò che fa sì che sia necessaria una politica di campo.

3- PERCEZIONE/CONOSCENZA
Il linguaggio e la molteplicità delle lingue sono centrali sia per la cultura che per l’antropologia culturale. Lo
studio del linguaggio è strada maestra per comprendere i modelli di pensiero e le pratiche culturali. Nel
primo testo Alessandro Duranti discute temi che interessavano già i primi antropologi come la rilevanza
della lingua e la diversità grammaticale nel determinare la visione del mondo (relatività linguistica). Gli
antropologi del linguaggio condividono i programmi di ricerca dei sociolinguisti – l’attenzione verte sulle
varietà interne alle comunità dei parlanti e ai repertori piuttosto che agli aspetti formali e astratti. Si
focalizzano in particolar modo sulla lingua come strumento d’azione sociale e come prodotto storico-
sociale. Alla complessità della traduzione tra culture si aggiunge la difficoltà della traducibilità linguistica.
Benché l’attenzione al linguaggio abbia contribuito ad affinare lo studio delle diversità culturali, negli ultimi
30 anni non sono state poche le accuse verso alcune indagini di aver appiattito l’agire sociale (incarnato,
corporeo, sensoriale) alla sua dimensione semiotica, riducendo esperienza a rappresentazione. Alessandro
Duranti negli anni 90 ha introdotto il concetto di ethnopragmatics – studio etnolinguistico focalizzato
sull’analisi di pratiche culturali contenenti attività comunicative in specifici contesti d’uso. Questo ha
contribuito all’interconnessione tra linguaggio ed esperienza ma vi sono stati antropologi come Thomas
Csordas che sono andati oltre nella volontà di superamento del dualismo cartesiano.

Il testo di Michael Jackson si inserisce in questa tradizione, per lui risulta spesso fallimentare tradurre l’agire
in parole e ritenere che gli atti abbiano sempre significati ulteriori al coinvolgimento sensoriale; egli vuole
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valorizzare le pratiche corporee, anche come metodo di accesso dell’antropologo stesso a conoscenza
empatica e imitativa.

Di Philippe Descola è ripresa una sezione dell’opera Oltre natura e cultura (2005); egli si focalizza sulla
necessità di indagini minuziose e partecipate tese ad individuare specifici habitus – mantenendo però
l’ambizione di ricercare le strutture di inquadramento che spieghino la regolarità e la coerenza dei differenti
modi di abitare e percepire il mondo; gli “schemi elementari della pratica”. Propone di riesumare lo studio
delle strutture (Lévi-Strauss) ma con lingua e strumenti nuovi e con minore astrazione. Questi schemi
ordinatori dell’esperienza permettono di avere l’idea di condividere con altri una stessa cultura o
cosmologia.
Descola vuole un’antropologia ispirata alla chimica, ovvero ambiziosa quanto basta per avanzare grande
trasversalità; gli antropologi dovranno però sempre alimentare la tensione tra micro etnografico e macro
trasversale.

LA DIVERSITÀ LINGUISTICA -ALESSANDRO DURANTI


LA LINGUA NELLA CULTURA : LA TRADIZIONE BOASIANA
A fine ottocento e inizio novecento, dalla fondazione dell’American Ethnological Society (1842) e
dell’American Anthropological Association (1902), l’antropologia statunitense era concepita come disciplina
olistica – studiava dati fisici, linguistici, culturali e archeologici delle popolazioni umane. Gli antropologi
erano tenuti ad avere una conoscenza generale di tutti gli ambiti oltre che una conoscenza approfondita
della loro specializzazione.
In Europa invece gli etnologi avevano i propri dipartimenti distinti da quelli degli antropologi, paleontologi e
filologi.

Franz Boas fu lo studioso che più rappresentò l’ottica olistica nella teoria e nella prassi. Le sue ricerche
presso gli eschimesi e gli indiani kwakiutl lo indussero allo studio del linguaggio e delle lingue
indiane. Sostenne che non si poteva comprendere una cultura senza l’accesso alla sua lingua – questo
non solo per motivi pratici ma anche teorici, per via dell’intimo legame tra lingua e cultura: se
l’etnologia è la scienza dei fenomeni mentali dei popoli, il linguaggio umano ne è una delle
manifestazioni più importanti ed è parte essenziale della psicologia dei popoli. Lui trasmise ai propri
allievi l’interesse per le lingue indiane d’America; alcuni di essi come Edward Sapir fornirono degli
importanti contributi non solo alla linguistica degli indiani d’america, ma più in generale, allo studio
del linguaggio.

L’idea boasiana per cui la lingua è necessaria al pensiero umano divenne una tesi fondamentale
dell’antropologia culturale americana della prima metà del 900. Kroeber, allievo di Boas, dice che le
astrazioni necessarie alla cultura sono possibili solo mediante il linguaggio o suoi surrogati secondari
(scrittura, enumerazione etc.). Questa concezione fece si che i sistemi linguistici potessero fare da
guida ai sistemi culturali. Boas pubblicò infatti numerosi volumi di etnografie prevalentemente
basate su testi raccolti dai membri dei popoli stessi, trascrizioni di ricordo delle tradizioni passate – ciò
faceva parte della sua “antropologia del salvataggio” nata dalla preoccupazione per lo svanire e il
mutare delle lingue e delle culture indigene d’America.

Trascrivendo e traducendo questi testi Boas rimase impressionato dai diversi modi di classificare il
mondo e l’esperienza umana in base alle diverse lingue – ognuna seziona la realtà in maniera
arbitraria. Utilizzò questa affermazione come ulteriore prova del relativismo culturale (ciascuna
cultura va compresa in base ai suoi stessi principi – opposto dell’evoluzionismo).

L’esempio delle diverse parole con cui gli eschimesi descrivono la neve per Boas era volto a sottolineare che
lo sviluppo di distinzioni lessicali vada ricondotto a motivazioni culturali. Quest’intuizione fu in seguito
modificata da Sapir e Whorf – sostennero che codificando l’esperienza in modo particolare l’utilizzo della
lingua può predisporre i parlanti a vedere il mondo in base alle intuizioni che offre.

LA RELATIVITÀ LINGUISTICA
Nell’articolo La posizione della linguistica come scienza (1929) Sapir affermò che gli umani sono alla merce
della lingua che parlano. Whorf formulò la questione come “principio di relatività linguistica” – per lui le
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diverse grammatiche portano a diverse valutazioni e osservazioni di atti simili; gli osservatori avrebbero
quindi visioni del mondo in qualche modo differenti.
Esemplificando come le lingue diverse classificano lo spazio il tempo e la materia Whorf sostenne che ogni
struttura grammaticale contiene una teoria della struttura dell’universo. Provò ad esemplificare altri effetti
del linguaggio sulla cognizione con l’esempio dei fusti di benzina vuoti e di come la parola empty li faccia
sembrare innocui benché siano contengano vapori esplosivi.

Le teorie Sapir-Whorf ricevettero molta attenzione e tentativi di verifica o critica empirica, le considerazioni
su come la lingua influenzi o meno il pensiero, sulle categorie grammaticali come luogo privilegiato per la
trasmissione delle categorie sociali, rimangono comunque importanti per l’antropologia del linguaggio.

LA LINGUA COME GUIDA AL MONDO : LE METAFORE


I recenti contributi allo studio sulle metafore rappresentano un’ulteriore versione dell’ipotesi Sapir-Whorf;
queste sono viste come schemi concettuali con i quali comprendiamo il mondo. George Lakoff e Mark
Johnson ipotizzano che :
1. il nostro linguaggio quotidiano sia più ricco di metafore di quanto pensiamo
2. queste siano mezze per configurare un tipo di esperienza nei termini di un altra
3. implichino alcune “teorie folk” sul mondo o sull’esperienza di esso

Due esempi sono la teoria come edificio (foundation, support, shaky, stand, fall, collapse, framework) ed il
comprendere come vedere (I see, it looks, punto di vista, the whole picture, insightfull, brillante
osservazione, è chiaro, elucidate). Ciò permette di creare connessioni fra ambiti esperienziali separati e
porne coerenza. Si tratta di “metafore strutturali”, esse pongono somiglianze tra due ambiti. La metafora
per cui le idee sono cibo si basa su altre metafore più basilari, come: la mente è un contenitore (teoria forte
sulla natura della mente umana). Per Lakoff e Johnsonn una metafora diviene una caratterizzazione
accettabile della nostra esperienza quando sia accorda con altri concetti e forme metaforiche creando una
totalità coerente → questo paradigma è affascinante per gli antropologi culturali che considerano la cultura
come un sistema di conoscenza.

TERMINI DI COLORE E RELATIVITÀ LINGUISTICA


Una forte critica alla relatività linguistica giunse dalle ricerche di B. Berlin, P. Kay e C.K. McDaniel. Essi si
occuparono dello studio translinguistico dei termini di colore (studio empirico su 20 lingue e ricerca
bibliografica su 78) individuando dei vincoli universali 1) sul modo in cui le lingue codificano e organizzano i
termini fondamentali di colore e 2) su come cambiano nel tempo aggiungendone di nuovi. Scoprirono 11
categorie percettive universali. Queste 11 categorie possono essere interpretate cronologicamente in scala
evolutiva che parte dai termini per bianco e nero per poi arrivare agli altri. Kay e McDaniel dissero che il loro
studio sulla terminologia dei colori fondamentali tra lingue geneticamente irrelate faceva da prova empirica
contro la versione sia forte che debole dell’ipotesi Sapir-Whorf – vi sono state sia conferme che critiche di
ciò.
Scoprendo una gran tendenza “naturale” a dare un nome ad alcune distinzioni di colore misero in crisi la
nozione dei segni linguistici come arbitrari/convenzionali (da Saussure): sistemi di classificazione simili tra
lingue irrelate→ principi di codificazione linguistica indipendenti dalla lingua.
La terminologia del colore mette in luce per Kay e McDaniel che la teoria degli insiemi sfumati e quella dei
prototipi (elemento è membro di un insieme in una certa misura) sono più adatte a rendere conto
dell’organizzazione del lessico rispetto alla teoria standard degli insiemi (elemento è o non è membro di un
insieme).

LINGUAGGIO, LINGUE E VARIETÀ LINGUISTICHE


Linguaggio: facoltà umana di comunicare con particolari tipi di segni organizzati in unità.

Una lingua: particolare prodotto socio-storico di un gruppo dato; inglese, swahili etc.

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Le ricerche sistematiche su una lingua qualsiasi svelano però notevole variazione interiore tra diversi
parlanti e situazioni. Anche gli ambienti urbani in cui ci si considera parlanti di una stessa lingua
possono mostrare forme linguistiche molto diverse e diverse regole di interpretazione (in base al
gruppo, professione, situazione specifica). Vanno colte le variazioni ed il rapporto fra gruppi di persone
e le reti entro quali operano. Le caratterizzazioni degli stessi abitanti sono inaffidabili, il motivo per cui
si considera una varietà dialetto piuttosto che lingua può rifarsi alla stigmatizzazione o ad una
decisione politica. I sociolinguisti preferiscono parlare di varietà (o varietà linguistica, varietà di
lingua): insieme di forme comunicative e norme che ne governano l’uso.

Le varietà dei sociolinguisti possono corrispondere a ciò che altri ricercatori chiamano lingue, dialetti
o stili.

COMUNITÀ DI PARLANTI : DALL'IDEALIZZAZIONE ALL’ETEROGLOSSIA


Antropologia del linguaggio e sociolinguistica sono interessati alla definizione – speech
community/comunità di parlanti: gruppo reale di persone che condividono qualcosa nel modo di
utilizzo della lingua.

L’approccio differisce da quello dei grammatici formali, essi muovono dall’assunto che la comunità in
cui operano sia omogenea. L’omogeneità è un assunto molto comune nella scienza, si parte da
un’idea di ordine e uniformità, le variazioni sono messe da parte come eccezioni. Chomsky ne è
esempio: vi dev’essere una proprietà della mente che consente alle persone di acquisire la lingua “a
partire dalle condizioni di un’esperienza pura e uniforme”, solo dopo aver creato i principi idealizzati
e universali si possono studiare le condizioni più complesse. Il tipo idealizzato di esperienza
menzionato da Chomsky viene studiato analizzando le intuizioni di un parlante nativo di una data
lingua che giudica se una determinata forma linguistica “sounds right” (sia accettabile) – i giudizi di
accettabilità forniscono la base per le generalizzazioni che assieme a ipotesi riguardo strutture
soggiacenti sono utilizzate per postulare principi applicabili ad ogni lingua, formando la “Grammatica
Universale” (Chomsky). Questo metodo di verificare quante parole diverse si adattavano a uno stesso
modello si è rivelato efficace per portare alla luce regole e generalizzazioni riguardo le regolarità
sintattiche. Solleva problemi però se adottato per comprendere cosa significhi conoscere una lingua
o una piccola parte di essa.

Hymes sottolinea che la stessa definizione di accettabilità sia problematica dato che conoscere una
lingua non significa soltanto conoscere ciò che è grammaticalmente accettabile ma anche ciò che lo
è socialmente e culturalmente; tipo di informazione inottenibile tramite la sola immaginazione. Il
metodo dell’idealizzazione ha conseguenze problematiche, una riguarda il purismo linguistico:
Chomsky afferma esplicitamente che solo le lingue pure, non dei miscugli, possono fare da oggetto di
studio ideale. Tuttavia, ogni comunità di parlanti studiata sistematicamente evidenzia qualche grado
di differenziazione linguistica, sociologica e culturale; vi è sempre mescolanza (che sia tra estremi,
inglese vs francese, o differenziazione stilistica/dialettale). Questo programma implica che lo studio
pratico applicato possa non avvenire mai. In quarant’anni di intensa ricerca in linguistica teorica si è
detto pressoché nulla su come riconnettere la conoscenza astratta dei membri idealizzati ai concreti
atti di performance linguistica in comunità reali. Se invece accogliessimo l’idea che la varietà è parte
integrante delle culture e della natura umana, che esistono sempre forze contrastanti sia negli
aggregati umani che negli individui stessi potremmo adottare un diverso programma fondato
sull’assunto che la variazione è la norma e va documentata. Mikhail Bachtin (linguista, filosofo, critico
letterario) affermò che l’omogeneità linguistica è una costruzione ideologica legata allo sviluppo
degli stati europei e agli sforzi di creare identità nazionali tramite lingue nazionali con un unico nome
(tedesco, francese, russo...) – queste nozioni unificate non hanno necessariamente riscontro nell’uso
reale; le voci diverse presenti nel discorso di chiunque vengono descritte da Bachtin con il termine
eteroglossia. Nelle lingue eteroglotte vi è tensione ininterrotta tra forze centripete (p. politici e
istituzioni che tentano di imporre una varietà a scapito di altre) e forze centrifughe (allontanano i
parlanti dal centro favorendo la differenziazione, impersonate dai margini). Anche la stessa resistenza
all’omogeneità fa da strategia per la creazione di identità sociali o etniche.

COMUNITÀ DI PARLANTI MULTILINGUI

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Paul Kroskrity nel suo studio della comunità dei tewa dell’Arizona osserva come tre secoli di contatto
e matrimoni misti tra essi egli hopi non sono riusciti ad estirpare la lingua tewa, essi continuano a
serbare la propria identità non accessibile agli hopi. Questi conoscono almeno tre lingue ma la lingua
tewa è il tramite simbolico più importante per il mantenimento della loro identità; il suo stesso
statuto speciale è però ciò che la mette a rischio poiché è vietato trasmetterla a persone considerate
esterne al gruppo.
Anche lo studio di Kathrin Woolard sulla lingua catalana a Barcellona mostra come una lingua di
minoranza possa sopravvivere come simbolo di identità etnica e misura di prestigio. Nonostante i
secoli di controllo politico da parte del governo spagnolo e la sua imposizione del castigliano, il
catalano sopravvive come prima lingua di buona parte della catalonia ed ha uno status elevato. Essa è
la lingua della borghesia locale, i lavoratori immigrati dall’Andalusia parlano invece castigliano; le
forze centrifughe sono qui rappresentate dalla popolazione nativa più ricca. La lingua trae la sua forza
da chi parla piuttosto che dal luogo, la forma più invadente dell’autorità è inculcata non dalle
istituzioni formali come la scuola ma nei rapporti personali e nella discriminazione tra quartieri operai
e residenziali.
Jane e Kenneth Hill affrontano il destino della lingua messicana (aka azteco o nuhatl) – le comunità
del vulcano Malinche hanno tratto numerosi prestigi dallo spagnolo acquisendone tratti
grammaticali e lessicali; l’intrecciamento di queste lingue è tale che gli Hill parlano di lingua
sincretica piuttosto che di mescolanza. Sino a tempi recenti si è riuscito a controllare la forza dello
spagnolo restringendone l’uso agli argomenti colti, ai rapporti con gli stranieri e all’inautentico
opposto al familiare/intimo quotidiano. Il sincretismo è però in crisi, lo spagnolo si sta imponendo ed il
messicano sta diventando una lingua segreta, adotta funzioni comunicative sempre più ristrette
(parole d’ordine o provocazioni agli estranei) e viene svalutata; si tratta di un totale rifiuto di quella che
è diventata una lingua oppressa. Ciò ricade in una tendenza più ampia di abbandono dell’identità
“indigena” a favore di un’identità “messicana” (eg. Modo di vestire, tipi di case costruite, prodotti
consumati etc.)

La lotta non è però terminata, alcuni imparano il messicano da adulti e lo spagnolo per alcuni
continua ad avere funzione di distanziamento. Anche se molte città malinche sono divise tra
mexicanos e castellanos (divisione linguistica) si inizia ad ammettere la possibilità di identità etnica
condivisa.

Gli Hill continuano proponendo un certo numero di pass possibili per reagire al discorso del purismo,
accettando la natura mutevole, eteroglotta di qualsiasi comunità di parlanti e difendendo l’eredità
culturale contenuta nelle lingue indigene.
Concludono con un omaggio alla diversità linguistica, sottolineando la responsabilità dei popoli del
mondo nel tenere sotto controllo l’imperialismo culturale e nel favorire la conservazione delle
lingue storico-naturali, considerate come tesori che appartengono all’umanità intera.

LA CONOSCENZA DEL CORPO -MICHAEL JACKSON


Come si rischia di utilizzare i popoli di studio come oggetti, mezzi per i nostri fini, si tende a fare lo
stesso per i nostri corpi. Contro la divisione Cartesiana Merlau-Ponty fa notare che il corpo umano è
esso stesso un soggetto, il soggetto è necessariamente incorporato. Inoltre se gli esseri umani si
distinguono dagli altri esseri organici e inorganici, non è tanto per specifiche caratteristiche
extracorporee, ma piuttosto per il carattere distintivo dei loro corpi.

Fino a 35 anni circa, dice Jackson che la sua consapevolezza di estendeva al suo corpo solo nella
misura in cui era affamato, provava desiderio, dolore o stanchezza. Il suo corpo entrava e usciva dalla
sua consapevolezza come un estraneo. Sostiene che quando iniziò le lezioni di hatha yoga fu come
scassinare i lucchetti di una gabbia. Dice che per la prima volta iniziò a vivere il suo corpo in piena
consapevolezza, ma questa consapevolezza si trasformò lo portò a scontrarsi con la forza
dell’abitudine. Presto gli fu chiaro che l’abitudine a usare il corpo in modo disarmonico non si può
cambiare desiderando di muoversi in modi differenti. La mente non è separata dal corpo.
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La nostra coscienza e volontà sono incorporate, noi siamo le nostre abitudini, queste quindi non
possono essere cambiate a mera volontà ma richiedono pratica e apprendimento di nuove tecniche.

INIZIAZIONI E IMITAZIONI
1970 – Sierra leone, villaggio kuranko di Firawa, riti di iniziazione femminile (fine infanzia), danze
yatuiye e yamayili. Inizialmente Jackson interpretò le varie attività rituali come rappresentazioni
simboliche di preoccupazioni inconscie prendendo il modello interpretativo dello studio strutturale
del mito. Le iniziazioni potevano esser viste come un mito messo in scena piuttosto che espresso a
parole. Notava che i significati rituali spesso non vengono verbalizzati e forse non possono esserlo ma
applicò un metodo che “riduce gli atti a parole e dà agli oggetti uno specifico vocabolario” e
procedette a tradurre le azioni in parole.

Bourdieu ci dice che i rituali, più che qualsiasi altra pratica, sottolineano l’errore di rinchiudere in
concetti una logica fatta per fare a meno di essi, trattare i movimenti del corpo come osservazioni
puramente logiche. Gli esseri umani non agiscono necessariamente in base ad opinioni,
Wittgenstein nelle Note sul ramo d’oro di Frazer (1967) sottolinea come Frazer non fosse giustificato
ad assumere che i rituali fossero basati su concezioni erronee del mondo – le opinioni possono
appartenere ai riti ma questi non pretendono di essere veri nei termini di una teoria sistematica della
conoscenza, hanno senso al livello dell’esperienza immediata.

Con l’esplorazione dei “dintorni di un modo di agire” (Wittgenstein) possiamo arrivare alla
comprensione attraverso l’attenzione a connessioni o “anelli intermedi” in questi dintorni invece che
spiegare gli atti in termini di cause, obiettivi, preoccupazioni etc. I kuranko non conoscono distinzione
tra lavoro pragmatico e attività rituale. Gli elementi ludici nei rituali non sono strettamente
paragonabili al teatro occidentale dove vi è direzione e interpretazione. Ciò si basa su una concezione
borghese di cultura come “super-organico”, separabile da movimenti corporei e compiti pratici.

In antropologia questo qualcosa d’altro della ricerca semantica è solitamente una categoria reificata
come solidarietà sociale, equilibrio funzionale, integrazione adattiva o struttura inconscia.

Le spiegazioni dei rituali in funzione di uno scopo pratico quale la solidarietà sociale o l’attenuazione
delle calamità tendono ad escludere le particolarità nell’uso del corpo che sono gli elementi più
notevoli del rito e che non fanno riferimento ad altro se non i dintorni di un’attività pratica.

I DINTORNI DI UN MODO D’AGIRE


Franziska Boas nel 1944 si chiedeva quale fosse la connessione tra i movimenti caratteristici delle
danze e i gesti e posture quotidiane del popolo in questione. Le osservazioni di Jackson vedono
diverse trasposizioni di gesti alla danza: dal campo maschile a quello femminile, dai riti funebri a quelli
di iniziazione, dalla boscaglia al villaggio. Inoltre non si tratta di coinvolgimento sentimentale
individuale poiché si imitano situazioni a cui non si è direttamente correlati.

Gli schemi d’uso del corpo analizzati sono neutrali, trasponibili attraverso settori, il loro carattere
regolare non è necessariamente risultato di regole o intenzioni conscie ma riguarda il fatto che i corpi
sono plasmati dalle abitudini inculcate in ambienti condivisi – movenze collettivamente orchestrate
senza bisogno di azione organizzatrice. Queste disposizioni durature sorgono in un ambiente di
attività pratiche quotidiane che Bourdieu, seguendo Mauss, chiama habitus.

Come hanno sottolineato anche Mauss e Dewey le abitudini sono interazionali, sono legate ad un
ambiente di soggetti e oggetti altri; le forme d’uso del corpo sono condizionate dalle nostre relazioni
con gli altri (es. disposizioni maschili o femminili) e con gli oggetti (es. postura da operaio). Le
rappresentazioni collettive, come il genere o la classe, sono correlate a schemi d’uso corporeo
generati nell’habitus. Le idee stereotipe e le abitudini corporee si rinforzano a vicenda e l’ambiente su
cui si sono fondate si fissa. Le relazioni abituali possono essere interrotte, gli schemi alterati di uso
corporeo possono provocare nuove idee (es. cambio respiro → tranquillità mentale) e viceversa
(depressione → postura curva).

Oltre a queste interruzioni possono esservi anche momenti di sconvolgimento; l’iniziazione kuranko
è in primo luogo sconvolgimento nell’habitus – ed è questo il fattore principale, più che precetti,
regole o regie, che mette in moto modificazioni sociali e personali. Lo sconvolgimento apre a
possibilità di comportamento incarnate ma normalmente non espresse.

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I bambini kuranko sono privi di connotazioni (comportamenti, acconciature, vestiti) di genere;
l’habitus trasformato nell’iniziazione attiva gli stili di comportamento e schemi di opposizione tra sessi
iscritti profondamente nell’inconscio somatico. Queste iniziazioni creano adulti responsabili necessari
al mantenimento della società. La mimesi del genere maschile aiuta a catturare “virtù maschili” come
forza d’animo e coraggio, imitare il rifiuto del cucciolo dello scimpanzé o la finta indifferenza in
pubblico dei partecipanti al funerale a sopportare la separazione dai figli perché diventino
indipendenti. Questo processo non coinvolge necessariamente un sapere verbale o concettuale, le
persone sono plasmate e plasmano un habitus che non è un oggetto di conoscenza. Questo
comportamento è generato dalla facoltà mimetica innata, in comune con gli animali, incorporata,
non è copia conscia; richiede solo un ambiente alterato per prendere piede ed entrare in gioco.

Harvey Sarles sottolinea l’aspetto esistenziale, è attraverso l’abitudine e l’interazione con altri che si
ottiene un senso del sé e del mondo esterno. I riti di iniziazione permettono di prendere una parte
attiva in un progetto che ricrea efficacemente il mondo permettendo ad ogni persona di scoprirsi
come contribuente al rinnovamento dell’ordine sociale.

I particolari modi d’uso del corpo durante l’iniziazione tendono a generare immagini nella mente la
cui forma è determinata dallo schema d’uso corporeo. Nel campo unitario corpo-mente-habitus è
possibile effettuare cambiamenti a partire da uno qualsiasi dei tre punti. La prassi corporea può
suggerire valori morali (es. precedente, accettazione della separazione; es. valore della moderazione
inculcato con il tabù che vieta di chiedere o nominare cibo nella capanna dell’iniziazione). Ciò che
viene fatto col corpo è la base per ciò che vien detto e pensato; le pratiche corporee mediano la
realizzazione personale di valori sociali. I fallimenti rispetto le aspettative morali tendono infatti ad
esser concepiti in termini corporei (portatrici di indebolimento, malattia, morte). Non è sorprendente
trovare enfasi sulle pratiche corporee in società orali dove l’apprendimento pratico avviene perlopiù
tramite osservazione e imitazione. L’impartizione diretta del sapere nei riti di iniziazione fa si che non
sia necessario formulare elaborazioni verbali astratte o concetti morali.

Quando i kuranko forniscono esegesi verbali si concentrano su metafore fondanti che fanno
riferimento a pratiche corporee nell’habitus (addomesticamento, plasmazione, essicazione,
maturazione, indurimento/raddrizzamento, ottenimento di un nuovo senso). Queste allusioni
schiudono reali connessioni tra maturità personale e utilità sociale, i campi del corporeo e del morale
sono fusi.

I movimenti del corpo possono fare più di ciò che le parole possono dire, come le tecniche musicali
quelle del corpo ci portano dal mondo delle distinzioni verbali ad una sfumatura dei confini. La
danza e la musica portano fuori dai ruoli abituali verso il riconoscersi come membri di una comunità –
favoriscono apertura, comprensione empatica e cameratismo che le forme verbali e cognitive
tendono ad inibire; questa reciprocità è esperita con il corpo prima di essere compresa dalla mente.
Merleau- Ponty parla di riconoscimento cieco. Vi è indeterminazione a livello di essenza, la stessa
imitazione può essere interpretata diversamente e la sua ambiguità porta, ad esempio, le donne
kuranko al silenzio riguardo le loro imitazioni degli uomini. La comprensione pratica può fare a meno
dei concetti e come ci fa notare Bordieu è perché le azioni parlano a voce più alta e in modo più
ambiguo delle parole fa si che sia probabile che portino a verità comuni, verità esperienziali che
emergono quando rompiamo l’impeto della mente discorsiva o ci lanciamo in attività collettive dove
ognuno trova un significato personale e al contempo rinforza l’impressione di una causa comune.

ACCENDERE UN FUOCO
L’argomentazione principale di Jackson è stata contro l’eccesso di astrazione nell’analisi etnografica.
Contro le tendenze a spiegare il comportamento umano in termini di modelli linguistici, schemi di
organizzazione sociale, istituzione o ruoli, strutture della mente o significati simbolici, Jackson si è
sforzato di avanzare un approccio dotato di una solida base, che parte dalle interazioni e dai
movimenti delle persone in un ambiente organizzato e che considera in dettaglio gli schemi di
pratica corporea che sorgono al suo interno. Il suo accento sul carattere incorporativo dell’esperienza
vissuta dall’interno dall’habitus rifletta anche la convenzione che l’analisi antropologica deve essere
consonante con i pdv nativi che, in società orali, sono radicati più in fatti e pratiche che in idee
astratte. La conoscenza antropologica non viene vista come un gioco linguistico in cui si assegnano
valori semiotici alle pratiche corporee ma come un modo di acquisire abilità pratiche e sociali senza
assunzione a priori su significato e funzione. Così facendo possiamo concretizzare una conoscenza
empatica.

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L’apprensione della tecnica per accendere un fuoco fa da esempio del fatto che le intuizioni
antropologiche di maggior valore derivano da imitazione ed esercizio di abilità pratiche. Le pratiche
corporee non vengono comprese tramite comunicazione lineare ma bisogna prenderne parte senza
secondi fini, abitare il mondo altrui; la partecipazione diventa un fine in sé.
George Devereux ha mostrato come la nostra personalità colori le caratteristiche delle nostre
osservazioni e che la “strada maestra verso un'obiettività autentica, anziché fittizia” è giocoforza la
strada della soggettività informata.
Il “fattore di disturbo” della soggettività individuale agisce tanto sul piano psicologico quanto su
quello somatico; l’esperienza dell’altro non viene compresa stando in disparte e dando per scontato il
suo punto di vista ma partecipando in modo corporeo ai compiti pratici locali. “Riconoscere il
carattere incorporato del nostro essere-nel-mondo è scoprire un terreno comune dove il sé e l’altro
sono uno” – condividendo la stessa pratica e lo stesso ambiente si perviene ad un sapere interpretato
si soggettivamente ma fondato su un campo esperienziale comune; comprensione empatica. La
natura pratica del pensiero kuranko va vista come preferenza etica non segno di incapacità
speculativa.

SIMBOLI
Si critica l’approccio intellettualista al simbolismo. Un simbolo era in origine un segno di
riconoscimento. Il significato di un simbolo implicava una presenza e un’essenza; qualcosa doveva
sempre essere apportato dall'esterno per rendere compiuto un simbolo, per completare la sua
importanza.
Per Freud l’elemento assente era un evento del passato o un trauma non superato. Un simbolo era
essenzialmente per definizione un effetto di qualche causa psichica nascosta o repressa.
Per molti antropologi dei simboli prevale la stessa nozione riduzionista di simbolo, sennonché la
realtà determinante è sociale invece che psichica. In entrambi i casi, il significato di un simbolo è dato
per situato in qualche essenza predeterminata piuttosto che nei contesti e nelle conseguenze del suo
uso. La completa conoscenza del simbolo non risiede in ciò che le persone che lo usano dicono o
fanno; dipende da un esperto che gli apporta significato o che ne rivela il significato sottostante.
L’obiezione di Jackson contro questo modo di pensare i simboli che si distacca dal senso originale di
simbolo, che implicava contemporaneità ed equivalenza tra un oggetto o un evento e l’idea a esso
associata. Contesta il principio per il quale un aspetto del simbolo sarebbe antecedente fondante
rispetto all’altro.
Il suo ragionamento va contro il parlare di comportamento corporeo come una simbolizzazione di
idee concepite indipendentemente da esso.

GLI SCHEMI DELLA PRATICA -PHILIPPE DESCOLA


I SAPERI DELLE COSE COMUNI
Il cambio di prospettiva nello studio della cognizione, dalla conoscenza concepita come sistema di
proposizioni esplicite in logica sequenziale all’interesse per le dimensioni non linguistiche di
acquisizione, attuazione e trasmissione del sapere ha permesso di comprendere meglio come i
modelli di relazione e comportamento orientano la pratica senza affiorare alla coscienza. Ne consegue
avvicinamento alla psicologia della Gestalt (configurazioni globali di tratti caratteristici) e
allontanamento dai concetti classificatori classici (liste scomponibili di attributi, definizioni necessarie
e sufficienti). Un buon numero di concetti classificatori sono infatti formati in riferimento a “prototipi”,
somiglianze di famiglia (es. casa).

Un altro fenomeno che mostra l’importanza degli aspetti non linguistici della cognizione riguarda
l’apprendimento di attività pratiche (es. cucinare, caccia); concatenazione di automatismi, non lista
di operazioni da effettuare.

Il modello connessionista di intelligenza artificiale, che invece che avere delle istruzioni salvate in
memoria rispondono in base alla natura degli stimoli ricevuti, sono compatibili con i concetti
classificatori prototipici, imitano il funzionamento delle reti neuronali, sono capaci di apprendimento,

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reagiscono rapidamente e riescono comunque ad obbedire a regole formali; tutto ciò li rende simili
alla cognizione umana nelle situazioni dove pare che le persone regolino le loro azioni come se
fossero dettate da imperativi culturali che non riescono ad enunciare.

SCHEMATISMI
La stimolazione euristica fornita dai modelli connessionisti così come la moltiplicazione degli studi
che si basano sulla formazione dei concetti classificatori e l'apprendimento del saper-fare hanno
portato psicologi e antropologi a interessarsi in modo più sistematico al ruolo delle strutture astratte
che organizzano le conoscenze e l’azione senza mobilitare immagini mentali o sapere esplicativo
vengono oggi definite “schemi”. Bisogna distinguere tra schemi cognitivi ritenuti universali
(esistenza ancora in discussione), quelli derivati da una competenza acquisita e dai casi di storia
individuale.
L’esistenza degli schemi universali è ancora in discussione, sia perché il legame che essi
presuppongono tra i dati biologici e la loro interpretazione concettuale o simbolica rimane spesso
speculativa, sia perché sono stati desunti a partire da sperimentazioni svolte quasi esclusivamente
nelle società industriali occidentali.

Sono soprattutto gli schemi acquisiti che detengono l’attenzione di coloro che si interessano alla
diversità degli usi del mondo dal momento che è in parte per effetto di questi meccanismi che i
comportamenti umani differiscono. Essi variano da individuo a individuo in ragione dell’affluenza di
schemi idiosincratici, come quelli che rendono possibile il concepimento ripetuto di un’azione o che
strutturano questi molteplici protocolli che ognuno di noi forgia nel tempo per ordinare delle
sequenze di compiti quotidiani.

Gli schemi collettivi sono di maggior interesse per la ricerca etnografica, costituiscono uno dei
principali mezzi per costruire significati culturali condivisi; si tratta di disposizioni psichiche, sensorio-
motrici ed emozionali interiorizzate grazie all’esperienza all’interno di un ambito sociale condiviso.
Permettono almeno tre tipi di competenza:
1. strutturare in modo selettivo il flusso percettivo dando preminenza ad alcuni tratti e processi
osservabili nell’ambiente
2. organizzare l’espressione del pensiero, delle emozioni e l’attività pratica secondo scenari
standardizzati
3. fornire un quadro per interpretazioni tipiche di comportamenti o avvenimenti

Gli schemi collettivi possono essere sia non riflessivi (non proposizionali) sia spiegabili
(proposizionali). Gli schemi non riflessivi non affiorano alla coscienza, bisogna desumerne l’esistenza e
le modalità a partire solo dai loro effetti. Il saggio di Mauss sulle tecniche del corpo e gli studi portati
da Bourdieu e i suoi discepoli sui differenti modi di habitus hanno adesso reso questo genere di
schema così familiare.

Tra gli schemi non riflessivi vi sono quelli integratori (tematici, si adattano a varietà di situazioni) e
quelli specializzati (circostanze molto specifiche).

Sugli schemi specializzanti esiste un ampio consenso, formano la trama della nostra esistenza
quotidiana, organizzano la maggior parte delle nostre azioni.

Gli schemi integratori sono più complessi, pare che la loro funzione mediatrice contribuisca
grandemente a formare il sentimento di cultura condivisa. Si tratta di strutture generatrici di
inferenze che assicurano la compatibilità tra famiglie di schemi specializzati consentendo di
generarne di nuovi per induzione. Questi schemi si costruiscono poco a poco con caratteristiche
identiche per via delle esperienze comparabili – il processo è facilitato dalla condivisione di una lingua
e dall’uniformità nei metodi di socializzazione dei bambini.

Vanno presi come schemi dominanti quelli attivati nel maggior numero di situazioni e che
subordinano gli altri schemi alla loro logica. Ne può essere esempio lo studio di A. Haudricourt in cui
distingueva due forme di “trattamento della natura e dell’altro”: azione indiretta negativa (favorire le
condizioni di crescita modificando ambiente e senza controllo diretto, es pianta) e azione diretta
positiva (intervento diretto coercitivo, es pecore). La validità della bipartizione netta è contestabile ma
ha attirato l’attenzione sulla possibilità di schemi identici molto generali applicabili in ambiti
differenti, sia verso gli umani che verso i non-umani.

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DIFFERENZIAZIONE, STABILIZZAZIONE, ANALOGIE
Le schematizzazioni dell’esperienza dei gruppi umani non si prestano a descrizioni semplici come
quelli dell’antropologia strutturale; più che trovarle nei precetti che le giustificano queste si deducono
dagli usi, dai comportamenti, nelle interazioni. Gli schemi consolidati negli anni di formazione
permettono di adattarsi a situazioni inedite che vengono percepite come casi particolari di situazioni
già conosciute. Le emozioni intense suscitate da tali avvenimenti contribuiscono a loro volta a
rinforzare le connessioni neuronali attivate stabilizzando le associazioni. Questa integrazione
dell’esperienza in schemi duraturi è ciò che rende efficaci i riti di iniziazione che permettono di
trasmettere e riprodurre norme.

L’antropologia deve comprendere la logica del lavoro di composizione, prestare attenzione agli ordini
emergenti la cui regolarità traspare sotto la proliferazione degli usi.

4- COSMO-LOGIE/SOCIO-LOGIE
Questa sezione si concentra su 2 forme di logos : cosmo-logie e socio-logie, che portano alla luce la
duplice natura dell’antropologia, è una disciplina dedicata alla cultura e alla società, da qui
antropologia culturale e antropologia sociale, che nel novecento ebbero storie imparentate ma
distinte e che oggi sono pressoché sinonimi. Le cosmo-logie riguardano le visioni del mondo e le
riflessioni su esso, le socio-logie le logiche che formano i tipi di istituzione, organizzazione e
legittimazione delle relazioni e gerarchie sociali (sganciato da Sociologia come disciplina).

Nel primo brano vengono prese in considerazione le varie Cosmologie e sul modo in cui
l’antropologia ha trattato questo tema, la varietà delle riflessioni riguardo il posto che occupiamo
nell’universo – queste possono essere percepite in termini paritari o gerarchizzate. Parlare di
cosmologie al plurale significa :

1. percepire le differenze,
2. accoglierle
3. valutarle in termini paritari oppure disporle in una gerarchia di valori

E’ proprio la valutazione a costituire un elemento critico intorno al quale si possono raccogliere le più
varie posizioni, proposte dagli antropologi in particolare quando si tratta di collegare la variabilità
delle cosmologie a distinzioni basate su una divisione del tipo “noi vs loro”. Questo ci rimanda al tema
dell’evoluzionismo sociale. La convinzione che esistano società/culture superiori e inferiori è stata
rigettata da tempo dall’Antropologia culturale, ma rimane parte del senso comune.

Michael Herzfeld propone di mettere sullo stesso piano di cosmologie sia quelle insite nei rituali non
occidentali che il paradigma scientifico che informa l’attività di ricerca accademica. Una cosmologia
mette a disposizione una nozione di ordine, della sua origine e modalità di mantenimento, destino
finale, teodicea e concezione del tempo (ciclico o lineare). Queste nozioni possono essere scritte, orali
o inscritte in pratiche (es. procedure scientifiche o rituali).

Lo sforzo intellettuale degli antropologi, non si indirizza solo su quanto c’è di condiviso, ma anche e
soprattutto sulle forme attraverso cui si organizzano le differenze, le disuguaglianze e le gerarchie
all’interno di un determinato gruppo o nei rapporti tra gruppi. Tali differenze possono essere molto
marcate e talvolta offendere il senso della dignità umana.

Maurice Godelier affronta il tema dell’organizzazione sociale a partire dai sistemi di scambio tra
gruppi e popolazioni. Da Malinowski a Boas a Mauss, i sistemi di scambio sono stati utilizzati per
mettere in rilievo i principi costitutivi di un sistema di relazioni sociali e illustrarne le peculiarità a
partire dal principio di reciprocità individuato da Malinowski. Godelier ricostruisce la storia di questo
tema classico e lo aggiorna, quello che ne ermege è che non vi è più stretta identificazione tra tipi di
società e sistemi di scambio ma riflessione sui modi diversi in cui questi sistemi si articolano e
cambiano.

Mentre i primi due saggi si basano sulle differenze nel tempo e nello spazio, quello di Lila Abu-
Lughod procede per approfondimento intensivo di un caso monografico – lo sfondo comparativo non
può che rimanere però implicito. Con il suo studio dei beduini del deserto libico-egiziano mette in
luce la dialettica di identità e differenze – l’identità collettiva, pur quando si giustifica nel sangue e
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nelle origini, non può che definirsi per contrasto all’alterità. La centralità della relazione in seno
all’identità fonda una ideologia morale che attribuisce valore a sentimenti e comportamenti connessi
all’affiliazione tribale e alla parentela. Abu Lughod ci permette di intraprendere un viaggio denso
all’interno di un singolo contesto, all’interno della complessità dei codici di comportamento, di lettura
delle relazioni, delle condivisioni, delle identificazioni e delle differenze, e si unisce a Herzfeld e
Godelier nel testimoniare lo sforzo degli antropologi contro qualsiasi pretesa di semplificazione, di
banalizzazione e di strumentalizzazione politica delle culture non occidentali.

COSMOLOGIE -MICHAEL HERZFELD


VIVERE NEL COSMO
La cosmologia ha a che fare in modo cruciale con la definizione dei confini tra natura e cultura.
Questo termine abbraccia sia la religione che la scienza e si rivela più utile all’antropologia che studi
che separano queste categorie.
Per i fisici il cosmo o universo rappresenta la totalità delle cose fisiche : non solo la materia, ma anche
lo spazie, il tempo.

I fisici credono che la natura obbedisca a leggi immutabili alle quali gli umani possono adattare le loro
idee se posseggono le necessarie capacità razionali – si ha una concezione della perfezione
intellettuale eroica, pura e disinteressata che trascende la realtà sociale; ciò si contrappone alla vera
produzione sociale della scienza. Si tratta di una cosmologia che non necessariamente esige di
credenze, ma che esige l’accettazione pragmatica del processo attraverso il quale gli scienziati isolano
il proprio lavoro da qualsiasi interesse per il significato o dalle conseguenze sociali e politiche di ciò
che fanno.

Dal momento in cui noi accettiamo che gli etnografi delle società esotiche di piccole dimensioni e dei
lavoratori scientifici siano interessati allo stesso modo all’organizzazione delle idee sull’universo, la
distinzione tra stati razionali e pre-razionali della mente collettiva giunge a dissolversi in maniera
sconcertante. Inoltre dal momento in cui riconosciamo il ruolo della scelta e dell'agentività, la
cosmologia non serve più da fattore determinante per l’azione, ma come una copiosa fonte di
immagini e come un’argomentazione da cui gli individui e i gruppi possono attingere in maniera
creativa mentre cercano spiegazioni e giustificazioni per le loro attività.

Tramite la cosmologia consideriamo l’universo come un’entità organizzata, è ciò è stato indicato
come l’ordine del mondo. Questioni centrali riguardano anche l’origine di questo ordine, come è
mantenuto e se alla fine esso sia destinato a scomparire. Il tentativo di ricondurre l’apparente
organizzazione causale dell’universo a un senso di ordine, si fonda su supposizioni relative alla natura.

Il concetto di ordine, è l’elemento di maggior interesse dei sistemi cosmologici, dagli schemi religiosi
di popoli distanti nello spazio geografico e temporale fino alle argomentazioni della fisica e della
chimica moderne. E’ un costrutto sociale, accomuna la cosmologia scientifica e la dottrina religiosa.
L’universo non è un cumulo di componenti fisici ordinati casualmente ma una disposizione
organizzata di materia ed energia su diversi livelli di dimensione e complessità – questo ordine del
mondo porta alle questioni sulla sua origine, mantenimento e eventuale destino (scomparire?). Vi è
una propensione o bisogno umano di dedurre l’ordine dall’apparente caos dell’esistenza (previsioni
del tempo, prospetti assicurativi, indici Dow Jones).

Nel nostro mondo le questioni cosmologiche restano centrali : non siamo sfuggiti alla dialettica
fondamentale tra natura e cultura che Levi-Strauss ha identificato come la caratteristica che
definisce il processo di umana autorealizzazione.

Tempo fa John Middleton ha attestato la validità di una ragguardevole storia degli studi cosmologici,
alcuni dei quali di considerevole estensione e sensibilità. Gli antropologi secondo Middleton si sono
avvicinati alla cosmologia in quanto fenomeno culturale, si tratta di rappresentazioni collettive, fatti
sociali. Lo studio comparativo delle cosmologie ha preso piede con Durkheim nel primo ventesimo
secolo e sebbene legato ad una visione positivista della scienza le conseguenze delle sue intuizioni lo
superano. Presupponendo l’esistenza di facoltà di raziocinio universali Durkheim asserì che non
esistono false religioni, tutte rispondono a date condizioni dell’esistenza umana – tutte sono aderenti
al reale e lo esprimono. I primi sistemi di rappresentazione per l’uomo di sé e del mondo erano di
origine religiosa, conclude che non vi è religione che non sia al pari tempo una cosmologia.

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Per Durkheim i concetti chiave che dominano la nostra vita intellettuale (le categorie dell’intelletto
che partono da Aristotele – es. tempo, spazio, qualità, quantità, causa, sostanza) sono un prodotto del
pensiero religioso e quindi fondamentalmente sociali. La causa determinante di un fatto sociale per
lui andrebbe cercata tra i fatti sociali che la precedono e non tra stati di coscienza individuale.

Steven Lukes pensa che l’idea di Durkheim per cui i concetti siano rappresentazioni collettive sia
equiparabile a quella di Wittgenstein per cui i concetti operano all’interno di forme di vita sociale
accordandosi alle norme. Questa prospettiva permette un’osservazione della società come prototipo
per le relazioni logiche tra le cose; ciò scredita la visione evoluzionista del mito e del rituale
permettendo di considerare entrambi come prodotti di un ordine sociale non meno logico di quello
occidentale.

Il suggerimento di Levi-Strauss secondo il quale i modelli consci degli informatori sono meno utili di
quelli consci svelati da una trasparente e disinteressata analisi dello studioso, deriva da una
persistente riluttanza, che può essere ridotta alla corrente di Durkheim e ai suoi predecessori
evoluzionisti, verso il riconoscimento delle origini locali delle nostre intuizioni teoriche.

Secondo Evans-Pritchard l’antropologia sociale analizza le società come sistemi morali o simbolici e
non come sistemi naturali, è meno interessata al processo piuttosto che al progetto, e perciò ricerca i
modelli e non le leggi. Questa è stata una dichiarazione dell’interesse comparativo dell’antropologia e
quella che ha aperto lo spazio all’analisi degli usi e dell’interpretazione cosmologica.

La tradizione durkheimiana è rimasta radicata ai presupposti evoluzionisti da cui i suoi sostenitori


hanno tentato in tutti i modi di prendere le distanze. Per Durkheim e Mauss, la mancanza della
differenziazione dei ruoli nelle cosiddette società primitive non ha lasciato spazio al ruolo
dell’agentività individuale.

Per le cosmologie dell’occidente post illuminista, l’esercizio dell’agentività individuale ha necessitato


la liberazione dell’intelletto e i pensatori occidentali in genere hanno dato per scontato che si
trattasse di un’acquisizione di pochi popoli. Il discorso della scienza sociale è diventato il veicolo di
disciminazione tra l’attività intellettuale del colonizzatore e la supposta passività del colonizzato, come
tutte le cosmologie, si trattava di una profezia che si autorealizzava e che si è riprodotta anche in altre
gerarchie come quelle di genere, casta, classa, burocrazia e sistemi educativi.

TEODICEE POPOLARI E DOTTRINALI


Gli esseri umani devono sempre assegnare la responsabilità e la colpa. Non si tratta solo di una
questione di legalità. Si tratta anche di un importante aspetto della costruzione di un mondo che sia
per noi vivibile : se dobbiamo in ogni caso ammettere la colpa delle terribili condizioni del nostro
mondo, o se non siamo in grado di spiegare le piccole e grandi tragedie che ci accadono in modo da
non precluderci la speranza di un futuro migliore, dovremmo giudicare la nostra esistenza
intollerabile. Anche se la colpa non è invocata, la disgrazia esige una spiegazione → gli esseri umani
cercano una rassicurazione di fronte al caso.

In molte società le persone elaborano quell’aspetto esegetico della cosmologia conosciuto come
“teodicea” = giustificazione divina, ma in termini più specifici, la spiegazione dottrinale di ciò che si
abbatte su di noi, come la dilagante ingiustizia del mondo in cui abitiamo.

Altro modo di considerare questo argomento è in termini di responsabilità : si tratta di una questione
fondamentalmente politica. Basandosi in parte sul riconoscimento di Talal Asad che il controllo
dell’incertezza si colloca al centro di ciò che intendiamo per potere Thomas Malaby ha formulato una
politica della contingenza che include le ripercussioni sociali e il significato del caso. Come il filosofo
del linguaggio J.L.Austin ha sottolineato le giustificazioni presuppongono un insieme di idee inerenti
alla relazione di causalità che permettono ad un individuo di sottrarsi dalla responsabilità diretta per
gli effetti delle azioni alle quali esso prende parte. In termini antropologici potremmo affermare che il
diritto di assegnare e di evadere la responsabilità è un fenomeno fondamentalmente politico.

Molti stratagemmi esplicativi messi in atto per eludere la colpa finiscono sotto il titolo di stregoneria,
la quale, nella sua accezione classica, permette alla gente di incolpare gli altri in maniera non
circostanziata. Questo permette di eludere la colpa per le disgrazie e allo stesso tempo di evitare di
turbare l’armonia sociale. Argyrou ha sottolineato che queste accuse, inoltre, appellandosi a una

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convenzione sociale, servono come strategia sociale, indipendentemente dal fatto di voler asserire o
meno che gli attori individuali in realtà credano all’idea di una magia nera.

Non si tratta solo di una questione di colpa, l’idea che queste cose siano state mandate per metterci
alla prova benché possa provocare l’indignazione di qualcuno nei confronti del destino crudele, e offra
sul momento una magra consolazione, provvede a offrirci una rassicurazione sulla generale
prevedibilità del mondo. In questo senso sociale, la promessa di ordine rappresenta la forma più
esclusiva di speranza.

Le accuse di stregoneria si basano su un principio fondamentale della teodicea : c’è un male generale
nel mondo, e alcuni individui sono sufficientemente sfortunati da esserne i latori. Coloro i quali
stregano deliberatamente gli altri certamente saranno condannati, ma coloro che sono stati accusati
di averlo fatto di solito rivendicheranno di essere privi di tali intenzioni.

MITOLOGIA E COSMOLOGIA
Il concetto di mito è preoccupante per l’antropologia moderna. Dato che il termine spesso è associato
alla nozione di finzione o di falsa credenza, la distinzione tra narrazioni storiche e narrazioni mitiche
dipende sia dalle scelte ideologiche che dalle definizioni che entrano in uso.

Hill e altri autori hanno opportunamente sollevato la questione chiedendosi fino a che punto sia utile
operare una distinzione tra mito e storia, suggerendo che i tentativi di trattare il mito come una
rappresentazione simbolica piuttosto che una verità storica possano essere meno innocui di quanto
sembrano.

Nel 19°sec anche i primi antropologi hanno pensato al mito in termini evoluzionisti : si trattava di un
evoluzionismo specificatamente colonialista → essi hanno ritenuto il mito come l’espressione della
superstizione, un termine dispregiativo il cui uso, nel secolo successivo è andato gradualmente
scomparendo in virtù del maggior rispetto intellettuale per le istituzioni indigene richiesto dal
funzionalismo. Dalla tradizione iniziata da Durkheim alla rivista Année sociologique emergono 2
importanti approcci per lo studio del mito :

1. sviluppato da Malinowski e approfondito dallo storico delle religioni Mircea Eliade, oltre a
ripetere l’idea che i miti rappresentano narrazioni sacre e reali, ha posto l’accento sul fatto che
essi hanno il carattere di statuti sociali e che pertanto agiscono in qualità di modelli
comportamentali per gli individui.
2. concorde in vari punti con il primo, si è focalizzato sulle procedure intellettuali che si celano
dietro ai miti.

La visione funzionalista del mito come carta fondante delle realtà sociali e politiche ha ceduto il posto
d’onore a una serie di asserzioni altrettanto funzionaliste. E’ il caso della tesi di Levi-Strauss secondo
la quale i miti costituiscono “meccanismi per la soppressione del tempo” o le elaborazioni di Leach
basate sull’idea opposta che i miti mostrano le contraddizioni interne della società al punto da
renderle immuni a un’analisi critica.

Levi-Strauss indica che una delle principali caratteristiche dei miti è la loro atemporalità. In antitesi
con la storia, entrambi affermano che il mito ha a che fare con eventi reversibili, mentre la storia con
quelli irreversibili. Per Strauss la mitologia è stativa, ritroviamo gli stessi eventi mitici mescolati più e
più volte, essi agiscono in un sistema chiuso, in contrapposizione con la storia, che è un sistema
aperto. Per Eliade questa distinzione si esprime in un’immagine geometrica : il mito è ciclico mentre
la storia è lineare. Ma questo non va : da Vico a Spengler, molti critici occidentali hanno scoperto una
ciclicità sistemica nel passato.

Sia per Strauss che per Eliade, la distinzione tra mito e storia riproduce una più ampia distinzione
sociale tra primitivo e arcaico e società moderne da un lato, e industriali dall’altro. Come si è verificato
anche per Durkheim questa prospettiva eurocentrica ha limitato l’utilità della loro analisi

Qualunque sia la debolezza delle argomentazioni funzionaliste esse hanno avuto almeno il merito di
sottrarre le narrazioni classificate come miti al dominio dell’irrazionale e della superstizione. Eliade,
muovendosi nella visione essenzialmente malinowskaya, secondo la quale i miti forniscono modelli
per il comportamento umano, sostiene che presso le società primitive esiste un timore della storia
che induce la gente a sopportare la sofferenza fornendo giustificazioni che contestualizzano la causa
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di tale sofferenza in ambito sacro. In altri termini essa rende sopportabile la sofferenza sostenendo
che non è arbitraria. Questo è il principio della teodicea, espresso come un problema di ordine. In
questa visione la sofferenza ha un significato, accessibile attraverso archetipi che persistono
nonostante le corrosive influenze di tempo e dell’azione individuale.

TEMPO E TEMPORALITÀ
Nella sua comparazione J. M. Ossio nota che sia la Grecia antica (Esiodo: oro, argento, rame, eroi,
ferro) che l’India antica (ciclicamente) vedevano la storia come un susseguirsi di stadi in declino
periodico. Le culture precolombiane vedevano invece gli stadi (“soli”) come evolutivi verso un ultimo
stadio di piena umanità (teodicea), le transizioni erano però caratterizzate da un punto di rottura
traumatico – questo aspetto è paragonabile ai punti di rottura degli aztechi e dei maia dove si
avevano cataclismi provocati dall’intervento di elementi naturali che si provavano a prevenire con
grossi sacrifici umani. Nell’area andina vi era una visione simile a quella mesoamericana, ci si trovava
nell’ultimo di cinque “soli” di un processo evolutivo (inca come modello di piena socializzazione) ed i
punti di rottura erano trasformazioni del mondo cataclismiche. Una di queste fu il diluvio universale,
l’acqua pachacuti – i gruppi andini sopravvissuti, come gli inca, ricorsero ad una monarchia divina,
invece che ai sacrifici, per ripristinare e mantenere l’ordine. Il concetto di pachacuti era associato sia al
cataclisma periodico che al re divino inca capace di ripristinare l’ordine.

Sia l’aspetto escatologico di ordine che l’idea di re divino incarnato contribuirono a formare un quadro
cognitivo adatto all’incorporazione del cristianesimo nelle popolazioni indigene

Gli aspetti ciclici del tempo, l’enfasi sul ritorno dell’inca, danno validità alla tesi di miti come
meccanismi per la soppressione del tempo.

La cosmologia ruota spesso attorno al fulcro della mortalità, l’individuazione e la diversità la rendono
più viva. L’esistenza degli antenati morti è però una strada di accesso al potere; i mausolei edificati in
memoria ai leader passati per esempio hanno avuto un ruolo centrale nel consolidamento simbolico
del potere totalitario nel ventesimo secolo.

RITUALE E ORDINE COSMOLOGICO


I rituali possono essere ritenuti come un modo per opporsi alla degenerazione tramite la routine. La
ripetizione e la ridondanza, oltre che la semplificazione del linguaggio e un livello molto basso di
riferimento alle cose del mondo sociale reale, caratterizzano la maggior parte delle forme di quello
che potremmo ritenere un rituale. I rituali agiscono in senso cosmologico, allo scopo di ripristinare
l’ordine. I riti interessano perciò la sfera dell’immutabilità cosmologica : i cambiamenti che inglobano
sono la ricalibratura di un dettaglio locale in virtù del grandioso ordine delle cose. Questo li rende
veicolo ideale per la conoscenza mitologica.

Fornisce uno strumento per porre sotto certe forme di controllo collettivo il tentativo umano di
procrastinare la morte, per creare situazioni di eccezionalità nell’incessante monotonia dell’esistenza,
che servono agli interessi del potere; fornisce anche uno spazio in cui individualizzare la propria vita,
anche se presso molte società ciò si verifica solo nei termini stabiliti della religione o della gerarchia
laica. Il rituale si riferisce anche al tempo. Tutti i rituali si riferiscono a un passaggio. I rituali possono
mostrare le debolezze o le contraddizioni della società. Max Gluckman spesso scriveva come se
questa fosse la funzione teleologica del rituale : i rituali sono stati utili al mantenimento dello status
quo.

COGNIZIONE E COSMOLOGIA
La cosmologia e la storia possono essere lette, come consolidati modelli della struttura e
dell’agentività. La cosmologia fornisce una visione della corrente interpretazione della verità assoluta,
e viene rappresentata come statica. Quando essa include il tempo, può sviluppare una qualità ciclica
o teleologica, com’è accaduto nella storiografia occidenale, rispettivamente con Spengler e Marx; è
stata questa caratteristica che ha conferito a simili visioni della storia la loro attrattiva per i regimi
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autoritari. La cosmologia colloca il tempo al servizio della struttura sociale. Il linguaggio della
cosmologia offre materiale per la negoziazione del cambiamento sociale.

Dal momento in cui ci allontaniamo dalla cosmologia per avvicinarci alla storia, e dal rituale allo
spettacolo, dovremmo resistere alla tentazione di ritenere questi passaggi come fasi di mutamento
delle formazioni sociali premoderne e quelle moderne. Essi rappresentano un mutamento della
presenza della questione dell’agentività in relazione alle strutture consolidate della vita sociale,
strutture la cui effettiva esistenza è nondimeno subordinata a quelle azioni che conferiscono loro
significato e presenza. Quei processi che Weber ha definito disincanto sono reversibili, o possono
giacere nello sguardo nostalgico dell’osservatore piuttosto ch nell’esperienza delle comunità locali. La
modernità non è priva di cosmologia.

DONARE, SCAMBIARE, CUSTODIRE : COME SI CREANO LE SOCIETÀ -MAURICE


GODELIER
Godelier si propone di esplorare le distinzioni esistenti tra le cose che si vendono, quelle che si
donano, e quelle che non bisogna ne vendere ne donare, ma custodire per trasmetterle.
Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono (1921) aveva definito il dono come un atto che instaura un
rapporto tra donatore e donatario, donare è condividere volontariamente ciò che si ha o ciò che si è.
Questo gesto avvicina ed allontana poiché crea un debito/degli obblighi, instaura un’asimmetria tra
donatore e donatario. Il dono non può essere studiato in modo isolato ma fa parte di un insieme di
rapporti nella concatenazione degli obblighi di: donare, accettare il dono e donare a propria volta in
riposta.

Lévi-Strauss riconosce in Mauss il precursore dello strutturalismo poiché aveva posto il dono come
primo momento in una catena di azioni di cui andava analizzata la struttura globale. Mauss spiega i
primi due obblighi con ragioni sociologiche ma per il ricambiare adotta la spiegazione spirituale
maori; l’oggetto contiene lo spirito del donatore e dell’oggetto stesso, il dono non era
completamente alienabile, inalienabile e alienato. Mauss spiega questa dualità con le
rappresentazioni religiose della società, Lévi-Strauss con le strutture inconscie dello spirito – per
Godelier invece l’oggetto di dono è dotato dei principi di diritto di proprietà inalienabile e di diritto
all’uso inalienabile, il gioco tra questi due chiarirebbe la logica degli scambi kula.

Mauss non ha però studiato i doni tra individui ma ha privilegiato le “prestazioni totali” (doni che
impegnano gruppi o rappresentanti) – queste sono necessarie a produrre/riprodurre rapporti sociali. Il
termine totali indica sia il fatto che il dono includa più dimensioni (economica, politica, religiosa etc.)
che il fatto che provochi controdoni mobilitando tutta la società e favorendo la sua riproduzione.

Vi erano per lui due tipi di prestazione totale, agonistico e non-agonistico (agòn=lotta). Al termine di
doni reciproci (non-agonistici), ci si trova in una situazione “paritaria” (superiore e inferiore
contemporaneamente), i controdoni bilanciano ma non annullano i debiti – vi è alimentazione
continua degli obblighi che genera flussi di servizi, aiuto e solidarietà; ciò finisce con una
redistribuzione relativamente egalitaria.

Il potlach (Indiani nordoccidentali, tipo di pratica di dono-controdono agonistica) è una “guerra di


ricchezze” condotta per conquistare o conservare/legittimare titoli attraverso grossa accumulazione
di oggetti preziosi o beni di sussistenza che vengono distribuiti in festini e competizioni cerimoniali o
distrutti. I debiti possono qui essere annullati tramite controdoni più grossi dei doni originali.

Mauss non presta però attenzione agli oggetti che vengono conservati e ritenuti inalienabili (es.
kwakiutl), si crea una nuova categoria. Gli oggetti inseriti nella circolazione kula rimangono del primo
proprietario, può in teoria sempre reclamarli, viene alienato solo il diritto d’uso – questi oggetti quindi
non possono essere usati che per fare altri doni nel keda, il percorso del kula, diventano vaygu’a
(kitoum invece per qualsiasi scopo). Il processo del controdono non ha qui a che fare con miti religiosi
come pensava Mauss.

Gli oggetti sacri, inalienabili, si presentano spesso come doni che dei o spiriti avrebbero fatto agli
antenati; questi sono da custodire gelosamente (non vendere o donare), sono vissuti come elementi
essenziali dell’identità dei gruppi, sono oggetti di potere che possono beneficare o nuocere. Questi
oggetti sacri possono essere l’incarnazione del non rappresentabile, testimoni della legittimità
dell’ordine cosmico e sociale, reale presenza delle forze che ordinano il mondo.

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Si tratta di sintesi materiali delle relazioni immaginarie e simboliche che organizzano le società reali
– testimonianza estrema dell’opacità necessaria alla produzione/riproduzione delle società.

Neanche nel tardo capitalismo tutto è in vendita, la costituzione non è una tavola delle leggi divine
ma è comunque un bene custodito; il potere politico di ognuno, in democrazia, è un bene
inalienabile.

Gli uomini non solo vivono in società ma creano le società per vivere – per creare una società sono
necessari tre principi :

● donare certe cose (mantenere sempre qualcosa della persona che dona nell’oggetto donato)
- cose inalienabili: doni
● venderne (separare completamente cosa e persona)
- cose alienabili e alienate: merci
● custodirne (non separare cose e persone, nell’unione vi è identità storica da ritrasmettere
finché è possibile)
- cose inalienabili e inalienate

//Remotti: Il dono privilegia la relazione, il mercato il bene – ricchezza di relazioni vs ricchezza


economica

L'IDENTITÀ NELLA RELAZIONE -LILA ABU-LUGHOD


Abu-Lughod riferisce nel testo che questo mondo di persone con cui giunse a condividere la vita non
era come se lo aspettava. Sapendo che gli Awlad ‘Ali abitavano la fascia costiera lungo il bordo
settentrionale del deserto libico, l’autrice si era figurata delle tende. Scoprì invece che il mare aveva
poca parte nella vita dei beduini. I membri della comunità parlavano tutti con nostalgia del deserto
interno. I beduini pensavano al territorio in cui vivono principalmente nei termini di persone e gruppi
che lo abitano. Il loro è un mondo intensamente sociale, in cui le attività e le relazioni delle persone
affascinano.

Gli Alwad ‘Ali definiscono la loro identità come gruppo culturale sulla base di un modo di vita ma su
alcuni principi di organizzazione sociale: genealogia (patrilineare) e codice morale di onore e
modestia. Questi principi ideologici definiscono le identità degli individui e le qualità delle loro
relazioni con altri – essi sono riuniti nella nozione di “sangue”, dam.

“ASL”: IL SANGUE DELLE ORIGINI

Il sangue lega le persone al passato e allo stesso tempo le unisce nel presente. In quanto
collegamento con il passato attraverso la genealogia, il sangue è fondamentale per la definizione
dell’identità culturale. La nobiltà di origine o di ascendenza (ASL)è un motivo di grande
preoccupazione per gli Alwad ‘Ali → questi migrarono in Egitto dalla Libia.

Nonostante i molti cambiamenti avvenuti nella loro civiltà e nell’economia, l’obiettivo


dell’assimilazione non è stato raggiunto. Al contrario, gran parte dell’identità e del senso di sé beduini
di esprime nel distinguersi dai non beduini nel contrapporsi con loro.

Dal pdv dei beduini le differenze vanno al di la della lingua e del vestiario, si estendono fino ai
fondamenti dell’origine, definiti dalla genealogia, dall’organizzazione sociale, dai modi di interazione
interpersonale e da una sorta di natura morale.

Il sangue nel senso della genealogia, è la base dell’identità degli Alwad ‘Ali. Questi si riferiscono a se
stessi come arab. Come in molte culture la parola che utilizzano per autodefinirsi implica anche il
significato generale di gente. Ma il termine ha un significato più specifico di quando è utilizzato per
distinguere i beduini dai loro vicini egiziani. In questo contesto, rivendica origini nella Penisola Arabica
e legami genealogici con le tribù arabe pure che furono le prime seguaci del poeta Maometto. Il
termine suggerisce anche la loro affinità con tutti i musulmani di lingua araba del Medio Oriente e del
Nord Africa che essi presumono di essere, a causa della comune origine, uguali a loro.
Il sangue è ciò che autentica l’orgine e la genealogia e come tale è cruciale per l’identità dei beduini
e per la loro differenziazione dagli egiziani ritenuti privi di radici o nobili di origini.

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Si ritiene che nobili origini conferiscano qualità morali e carattere. I beduini attribuiscono valore a una
costellazione di qualità che potrebbero essere racchiuse nell’espressione compendiosa “codice
d’onore”.

Forse ancora più indicative di asl sono le qualità morali associate alle relazioni tra uomini e donne.
Una segregazione sessuale troppo blanda e l’intimità che mariti e mogli mostrano in pubblico sono
interpretate come segno della debolezza degli uomini e dell’immoralità delle loro donne.

“GARABA”: IL SANGUE DELLA PARENTELA


Il concetto di sangue è centrale per l’identità beduina anche in un secondo senso : attraverso il suo
primato ideologico nel presente, come mezzo per determinare la collocazione sociale e i vincoli
personali. Gli Alwad ‘Ali concepiscono se stessi soprattutto in termini di tribù che sono unità
ambiguamente segmentate definite dalla consanguineità o dai legami con un comune antenato
patrilineare.

L’organizzazione sociale tribale è un altro pdv su cui gli Alwad ‘Ali si differenziano fieramente dai loro
vicini egiziani, che sdegnano in quanto popolo, intendendo con ciò che gli egiziani non sono
organizzati in tribù, non conoscono le loro radici e si identificano con un’area geografica o con un
governo nazionale. L’importanza del sangue nell’identità sociale è evidente nell’identificazione dei
beduini con la famiglia, il lignaggio e la tribù.
Poiché gli Alwad ‘Ali applicano il termine di tribù a molti livelli d’organizzazione, le persone
appartengono simultaneamente a molte tribù contrassegnate da un nome. La tribù con la quale la
persona sceglie di identificarsi in un qualsiasi momento dipende in larga misura dalla sua relazione
con l’interlocutore, espressa attraverso un’affermazione retorica.
Per affermare unità e vicinanza con le persone sottolineerà il livello condiviso di affiliazione tribale
(comune antenato), dimostrando di essere un parente paterno della generazione appropriata.
I termini tribali in cui i beduini concepiscono i veicoli sociali danno un’impronta distintiva alla loro vita
sociale.

Il mondo sociale degli Alwad ‘Ali si divide tra parenti e stranieri/estranei, una distinzione che modella
sia il sentimento che il comportamento. L’ideologia beduina della parentela è basata su 2 posizioni
fondamentali :
1. tutti coloro che sono in relazione di sangue condividono una sostanza che li identifica, in
entrambi i sensi della parola : nel senso di dare a ciascuna persona un’identità sociale e quello
di spingere gli individui a identificarsi con chiunque altro condivida lo stesso sangue.

2. a causa di questa reciproca identificazione gli individui che condividono il sangue si sentono
vicini.

Il termine per parentela è garaba, che significa essere vicino. La visione che i beduini hanno delle
relazioni sociali è dominata da questa ideologia dei naturali, positivi e irrevocabili vincoli di sangue tra
consanguinei. I vincoli tribali, o relazioni tra parenti paterni, sono chiamati asabiyya che un uomo ha
definito come quei vincoli bastardi che non si può mai rompere.

I bambini assumono l’affiliazione tribale dal padre, anche se l’affiliazione della madre influenza il loro
status. In caso di divorzio la madre non ha alcun diritto a tenersi i bambini, sebbene possa portare
temporaneamente con se i bambini non svezzati e possa fondare un gruppo domestico distinto con i
figli maschi adulti.

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Una donna conserva la sua affiliazione tribale per tutta la vita e dovrebbe schierarsi con i propri
parenti paterni nel caso questi abbiano dispute con i parenti del marito. Non solo le donne derivano la
propria identità dalla linea paterna, ma conservano anche i legami con i parenti paterni dopo il
matrimonio, per ragioni sia affettive che strategiche, poiché una donna tagliata fuori dalla sua
famiglia natale è vulnerabile agli abusi del marito e della società.
Si pensa che questi legami di parentela, sebbene strategicamente utili, siano basati sul sentimento. Il
senso di vicinanza, identificazione, interesse comune e lealtà si esprime nel modo in cui le donne
parlano dei loro parenti paterni.

Il matrimonio presenta seri problemi di coerenza per un sistema ideologico che antepone
l’agnazione a qualsiasi altro criterio di affiliazione al gruppo. L’adesione degli Alwad ‘Ali a questo
sistema si esprime nel disprezzo per la propensione osservata tra gli egiziani a risiedere in unità
famigliari nucleari, un segno vergognoso della sopravvalutazione dei legami coniugali rispetto a quelli
agnatici.
Il modo per risolvere il problema del matrimonio è fonderlo con l’identità e la vicinanza del sangue
condiviso. Il matrimonio tra coniugi paralleli patrilaterali può essere preferito perché è il solo tipo
coerente con le idee beduine sull’importanza dell’agnazione. Questo tipo di matrimonio è l’ideale
culturale, sebbene sia solo uno dei molti tipi di matrimonio praticati. A causa della prevalenza di
legami di parentela multipli tra gli individui e poiché il termine cugino paterno si estende a tutti i
membri delle tribù, una serie di matrimoni possono essere interpretati come conformi a questo tipo
preferenziale e saranno giustificati nei termini di preferenza anche quando sono combinati per altre
ragioni.

Le donne vedono numerosi vantaggi in questa combinazione matrimoniale. Se sposano un parente


paterno si sentono più sicure e protette.

Nella società degli Alwad ‘Ali la consanguineità costituisce la sola base culturalmente approvata per
costituire relazioni sociali strette. L’agnazione, per quanto primaria, non è il solo fattore che informa
l’identità sociale e le relazioni sociali. Gli individui Alwad ‘Ali si uniscono sulla base di una varietà di altri
criteri, cercando di solito di esprimerli nell’idioma della parentela di sangue.

I LEGAMI MATERNI E LA VITA FAMILIARE


I 2 legami più importanti tra gli individui sono : parentela materna e coresidenza. All’apparenza
potrebbe sembrare che queste 2 basi per formare relazioni cadano fuori del principio dominante
dell’agnazione, in realtà i beduini non lo percepiscono in questo modo. Rispetto ai legami materni il
loro compito è reso più semplice dal fatto che la distinzione tra parenti materni e paterni non è
sempre netta. Il matrimonio tra cugini patrilaterali fonde i legami materni e paterni. Gli individui
hanno legami di grande affetto e un senso di vicinanza con i loro parenti materni, ma la discendenza
materna difficilmente definisce l’identità sociale, perché non può essere prolungata oltre una
generazione e non fornisce un forte senso di identificazione con gli altri.

I rapporti tra madre e figli nella società beduina, sono estremamente stretti e affettuosi lungo tutta la
vita. Basato su una iniziale dipendenza e su una successiva cura reciproca, il vincolo madre-figlio è
dato per scontato e rappresenta la sola eccezione indiscutibile e manifesta alla regola che stabilisce
l’equivalenza tra vicinanza e agnazione. Nella visione del figlio, i parenti materni non s confondono né
sono in competizione con i parenti paterni, sono semplicemente pensati come gli agnati della madre.

Altro tipo di relazione stretta nella società beduina è quella tra persone non imparentate che vivono
insieme o, la parentela che viene dal cuore. Per mezzo di un’inversione logica, gli Alwad ‘Ali
giustificano lo sviluppo di vincoli stretti tra individui che non sono parenti materni né provengono
dalla stessa tribù o che sebbene della stessa tribù siano genealogicamente lontani. Poiché i parenti
vicini nella genealogia idealmente vivono vicini gli uni agli altri, coresidenza e parentela paterna sono
fortemente associate. Il vincolo definito dal vivere insieme si chiama ishra → richiama i legami di tipo
parentale definiti da persistenti sentimenti di vicinanza. Il vincolo è simboleggiato dal concetto di
condivisione del cibo, che nella cultura beduina significa assenza di ostilità.

Con la sedentarizzazione, la varietà e la permanenza dei vicini sono cambiate : nei piccoli villaggi fissi i
vicini diventano quasi parenti : si visitano e si danno assistenza e aiuto reciprocamente. I vicini stanno
insieme politicamente nelle contese con altri gruppi.

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Perché vivere assieme crea legami così forti ? Poiché le relazioni che si sviluppano sono sorrette non
da responsabilità giuridiche, ma da un sentimento forte, l’autore sostiene che la chiave si trovi
nell’atteggiamento dei beduini nei confronti della familiarità.

IDENTIFICAZIONE E CONDIVISIONE

Avere in comune il sangue significa avere relazioni sociali strette solo perché il sangue è condiviso,
nella concezione degli Alwad ‘Ali, permette ai parenti paterni di identificarsi l’uno con l’altro.
Questa forte identificazione con i parenti paterni si manifesta in parecchi modi :
- in molti contesti gli individui agiscono come se ciò che riguarda tali parenti riguardasse anche
loro
- un insulto a una persona è interpretato come un insulto all’intero gruppo di parentela.
- gli atti vergognosi di un membro gettano il disonore sul resto della famiglia, proprio come
ognuno beneficia delle glorie di un agnate o di un antenato patrilineare importante.

Inoltre le persone sono percepite, almeno dagli estranei, come rappresentanti quasi interscambiabili
del loro gruppo di parentela.
La gente spesso descrive l’esistenza di legami interpersonali, non importa se basati sulla parentela
paterna o materna, o sulla vita comune, ma utilizzando l’espressione “noi andiamo da loro e loro
vengono da noi” → questo andirivieni è accompagnato dallo scambio di doni, denaro e servizi.
Condividere è il tema comune che passa attraverso questi modi di esprimere e mantenere legami.

AUTONOMIA E GERARCHIA
Gli Alwad ‘Ali attraverso vari mezzi ideologici, sono in grado di conciliare il loro valore fondamentale,
l’eguaglianza, con il sistema gerarchico in cui vivono.
Essi ritengono che le basi di uno status superiore, del controllo delle risorse e del controllo che le
persone possono esercitare sugli altri siano morali. Gli individui devono raggiungere una posizione
sociale mettendo in pratica gli ideali culturali richiesti dal codice d’onore, il cui valore supremo è
l’autonomia.
Autonomia o libertà → criterio in base al quale i misura lo status e si determina la gerarchia sociale.
Questo principio è chiaro nell’organizzazione politica beduina, il modello del lignaggio segmentario.
Sebbene gli antropologi siano in disaccordo su molti aspetti di questo sistema, c'è consenso sul fatto
che esso ha come sua caratteristica centrale la massimizzazione dell’autonomia delle unità.
La relazione tra autonomia e gerarchia si manifesta nel deserto occidentale, nella divisione tra sa ‘adi
veri e propri Alwad ‘Ali e i mrabtin. Le tribù sa’adi, tra cui gli Alwad ‘Ali, sono libere, gli mrabtin sono
invece “legati” ai sa’adi, in questo caso da obblighi di clientela – questa distinzione in termini di libertà
ha implicazioni morali.

Vi sono grosse diseguaglianze all’interno del lignaggio e della tribù, sono legate al controllo delle
risorse: gli anziani controllano le risorse possedute su base tribale e prendono le decisioni per i
giovani.; i patriarca controllano le risorse all’interno della casa, gli altri (figli e moglie) dipendono da lui
e non le controllano autonomamente. Anche tra fratelli vigono gerarchie di età e di sesso. Le donne
sono sempre considerate dipendenti anche fuori dal nucleo famigliare.

LA FAMIGLIA COME MODELLO DELLA GERARCHIA SOCIALE


Tra gli Alwad ‘Ali la fondamentale contraddizione tra gli ideali di indipendenza e autonomia e la realtà
delle posizioni diseguali è mediata da uno stratagemma concettuale : tutte le relazioni di
diseguaglianza sono concepite nel linguaggio delle relazioni di diseguaglianza che si stabiliscono
all’interno della famiglia.

Il linguaggio familiare minimizza il potenziale conflitto delle relazioni di diseguaglianza e suggerisce


qualcosa in più rispetto alla semplice dicotomia dominio/subordinazione. Esso sostituisce la
complementarità all’opposizione e introduce le potenti nozioni di unità e identità, enfatizzando i
legami tra i membri della famiglia : legami di amore e d’identità. Il linguaggio familiare indica che chi
ha il potere ha obblighi e responsabilità di protezione e cura del debole.

Nel caso della relazione tra sa ‘adi e mrabtin, il modello è quello della relazione di fratellanza. Ciascuna
tribù mrabtin era legata a una tribù o a un segmento sa ‘adi particolare in una relazione di
fratellanza : in cambio per aver pagato tributo al “fratello” sa ‘adi, al mrabtin era accodata la sua
protezione.

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La relazione familiare padre/figlio fornisce il modello per altre relazioni di diseguaglianza, compresa
quella tra anziani e giovani del lignaggio e quella tra padroni e clienti. Gli anziani del lignaggio sono
tutti riconosciuti da uno dei 2 termini per “fratello del padre” a meno che non siano della generazione
precedente, nel qual caso ci si riferisce a loro come a un “nonno”. La distinzione linguistica che talvolta
viene fatta nel caso degli anziani del lignaggio è tra il vero fratello del padre e altri parenti paterni.
Queste persone, come i padri, hanno la responsabilità di fornire ai loro discendenti l’accesso alle
risorse del lignaggio e ai mezzi per sposarsi.

La relazione patrono/cliente che assomiglia in molti modi alle relazioni famigliari, condivide elementi
sia delle relazioni padre/figlio, che di quelle fratello maggiore/fratello minore. Come nel caso di
padre/figlio, il patrono è responsabile dei suoi clienti, che a loro volta dipendono da lui per le necessità
fondamentali della vita e gli forniscono sia sostegno politico che lavoro. Come nel caso dei fratelli, i
clienti non possono succedere ai loro patroni.

Una spiccata qualità morale di obbligo e affetto reciproco caratterizza queste relazioni di
diseguaglianza, sia che siano all’interno della famiglia o che siano semplicemente concettualizzate
nel linguaggio famigliare. Ciò maschera il controllo arbitrario delle risorse che consente l’autonomia di
un gruppo e costringe l’altro alla dipendenza.

5- IDENTITA’/APPARTENENZE
Le identità e le appartenenze subiscono spesso processi di naturalizzazione di fronte ai quali
l'antropologia culturale rinnova continuamente la propria missione intellettuale → rivela il fondamento
culturale di ciò che viene presentato come naturale.
L’antropologia culturale tende a confrontarsi con temi che hanno evidenti riscontri nella vita di ogni
giorno e mira a proporre riflessioni che permettano di sfidare i pdv dominanti oppure di rovesciare
quegli assunti che il senso comune pone fuori discussione.
Categorie prese in considerazione in questo capitolo:
● Razza
● Etnia
● Sesso
● Genere

L’antropologia insiste da tempo nel sottolineare che le identità e le appartenenze, sono costruzioni
culturali modellate dalla storia e non “realtà” granitiche e oggettive. L’interesse antropologico è
motivato dalla preoccupazione che queste costruzioni culturali dal carattere mobile possano essere
ingabbiate in caselle rigide dai confini netti

Primo saggio
Le razze umane non esistono; il concetto di razza è totalmente privo di fondamento, così come le
classificazioni razziali che si sono manifestate nella storia culturale dell’umanità → il razzismo è
assolutamente inconsistente dal pdv scientifico.
I due autori ricostruiscono le tappe storiche attraverso cui il concetto di razza ha acquisito un’illusoria
consistenza nel pensiero scientifico occidentale e il lavoro che è stato necessario per giungere a
decostruire tale illusione.

Secondo saggio
Anche quando si parla di etnia si ha a che fare con l’illusione: si tratta di illusioni fortemente
realistiche e capaci di vincolare tutti coloro i quali le condividono.
Parlando di identità etniche come funzioni, non si vuole dire che esse siano false ma che sono
appunto il risultato di un processo di plasmazione culturale nel tempo → le identità etniche possono
mutare e i simboli dell’appartenenza cadono nell’oblio.

In altre parole, un elemento costitutivo dell’illusione dell’identità risiede nella convinzione che essa
sia una caratteristica essenziale dei membri di un gruppo e dunque che abbia una consistenza stabile
al di fuori della storia.

Terzo saggio
L’antropologia ha contribuito a elaborare e diffondere con successo la distinzione tra il sesso come
dato biologico autoevidente e il genere come costruzione culturale complessa e negoziabile.
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Idea centrale del saggio è la nozione di sistemi di prestigio che poggiano a loro volta su sistemi di
divisione del lavoro sociale che attribuiscono ruoli differenti e gerarchizzati alle donne e agli uomini.
Inoltre, la divisione del lavoro sociale in base al sesso è organizzata gerarchicamente a favore del polo
maschile e questo è frutto di specifiche forme di organizzazione socioculturale; questa gerarchia
produce il genere.

LA RAZZA: UN ERRORE SCIENTIFICO E UN ABOMINIO SOCIALE - GIANFRANCO


BIONDI, OLGA RICKARDS
La nascita della Biologia moderna è fissata al 18° secolo quando Carlo Linneo ha definito le modalità
per classificare gli esseri viventi e su quella base ha fondato la Tassonomia, cioè la disciplina che
definisce i rapporti di parentela tra le diverse entità.
Linneo, creazionista, ha vissuto in un’epoca in cui era molto diffusa la credenza che per l’essere
umano si dovesse definire un regno tassonomico diverso da quelli animale, vegetale e minerale; noi
infatti, saremmo stati creati da una divinità a sua immagine e somiglianza, mentre tutto il resto
sarebbe stato solo creato. E, se ancora oggi, la gerarchia vaticana parla di “creato”, non è certo difficile
immaginare quanto possa essere stato arduo per Linneo metterci nello stesso ordine tassonomico
delle scimmie, dei primati con il nome di Homo Sapiens.

L’evidenza sperimentale (somiglianza tra noi e primati) ha permesso a Linneo di superare il


pregiudizio ideologico e di interpretare compiutamente il ruolo di scienziato: affermare che il
concetto tassonomico di razza non può essere applicato alla nostra specie → in noi, la razza è stata
falsificata, le razze umane non esistono e l’uso del termine è scientificamente errato.
La razza in Biologia è la categoria tassonomica sottospecifica e come le altre deve identificare il
rapporto di parentela che unisce gli individui: la maggior parte delle specie viventi può essere
suddivisa all’interno in razze ma non la nostra.

1775: Johann Friedrich Blumenbach dice che le varietà o razze della nostra specie sono un dato di
natura e come tale, non può essere sottoposto a verifica sperimentale; secondo lui, l’umanità doveva
essere classificata in un’unica specie suddivisa in 5 razze → dato evidente per lui.

Il termine razza è stato coniato nel 1500 ma è entrato nella letteratura scientifica solo nel 1700.
La suddivisione dell’umanità in razze rispondeva alla necessità di mettere ordine nella variabilità
morfologica osservata nella nostra specie → fino alla metà del 1900, la variabilità biologica poteva
essere analizzata solo a partire dalla morfologia, la quale consente di invidiare la connessione che
esiste tra le popolazioni e l’ambiente in cui vivono.
Eccoci al punto: la Tassonomia serve a descrivere la sequenza parentale antenato-discendente, la
Razziologia, costruita su base morfologica, ha fallito questo compito nell’uomo. Diversamente,
l’Ecologia rende conto dell'indissolubile legame tra vita e luogo dove essa sia è sviluppata.
La Razziologia non ci ha fornito il quadro della parentela tra le popolazioni umane ma quello di
condivisione ambientale → spiegazione al fatto che le razze umane non esistono.
La vita esiste solo perché l’evoluzione ha operato scelte all’interno della variabilità.

La falsificazione scientifica della razza è stata possibile solo dal 1950 in poi e cioè dopo che la
Genetica si è affermata come disciplina biologica.
Esempio esplicativo: colorito cutaneo → fino al 1975 quel tratto veniva rilevato mediante una serie di
tesserine di ceramica di diverso colore e poichè tra un tassello e l’altro vi era un vuoto, era possibile
ordinare le popolazioni in gruppi discreti. La Spettrofotometria ha dimostrato invece che la
distribuzione del colore della pelle nei popoli ha un andamento a campana e le code delle campane
di popolazioni diverse si sovrappongono → è impossibile separare in modo netto i gruppi umani, essi
non sono unità discrete.

I condizionamenti culturali non possono essere addotti a giustificazione del paradigma razziale; il
positivista Lombroso è il caso più eclatante di come un tentativo progressista (spogliare essere
umano da creazionismo) si sia ridotto in un grande errore → comportamento individui collegato alla
morfologia dei loro cervelli e ciò mirava ad esaltare la nostra unica essenza materiale.

Ancora nel 1800, l’Antropologia ha ritenuto di fare un salto di qualità scientifica nella Razziologia
introducendo l’analisi matematica dei caratteri → nuova disciplina: l’Antropometria. Al tempo si
riteneva che i tratti morfologici fossero stabili nel corso delle generazioni e quindi descrivibili una volta
per tutte attraverso indici matematici. Un esperimento in USA ha spazzato via ogni illusione sulla

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stabilità morfologica: esame della costituzione fisica di immigrati da diverse parti del mondo ha
consentito di dimostrare che il nuovo ambiente condizionava lo sviluppo dei più giovani e quindi la
generazione dei figli dei migranti era diversa da quella d’origine → le fattezze morfologiche non sono
immutabili nel corso della vita.
L’impossibilità di avere un metodo per mettere ordine alla variabilità ha prodotto le classificazioni
razziali.

1684, prima classificazione razziale e fino al 1900 moltissime altre classificazioni; poi finalmente
l’ebbrezza classificatoria è sfumata e l’imponente edificio privo di fondamenta ha iniziato a sgretolarsi
sotto la spinta delle conoscenze genetiche.

L’elevata variabilità morfologica ha indotto gli antropologi ad affrontare un ulteriore problema: origine
dei gruppi → ipotesi della genesi multipla della popolazioni, detta origine poligenica vs ipotesi
monogenica. MA esiste un intervallo di variazione dei caratteri all’interno della specie e senza queste
differenze, non ci sarebbe la vita (variazioni genetiche o demografiche) → non solo la razza ma anche il
poligenismo è stato falsificato: la nostra origine è unitaria.

Anni 1960: Genetica e Biologia molecolare si sono sviluppate come scienze autonome e esse hanno
determinato la nascita dell’Antropologia molecolare → analisi del paradigma razziale per verificarne
la consistenza scientifica. Cavalli-Sforza e Edwards hanno costruito un albero filogenetico dei
rapporti parentali tra le popolazioni del mondo utilizzando i tratti genetici → popoli Africa e Europa si
ponevano insieme da una parte e popoli Asia e Australia dall’altra → è apparso chiaro subito che tale
esperimento rappresentava un passo significativo verso la decostruzione scientifica del concetto di
razza.
Il secondo passo fu quello fatto dal Lewontin nel 1972, il quale ha dimostrato che il 90% della
variabilità genetica differenzia tra loro individui della stessa popolazione e che solo il 10% rende le
popolazioni diverse dalle altre.

Stretta parentela popoli Africa e Europa → per spiegarlo, dobbiamo introdurre il dibattito
antropologico sul quale si è innescato l’esperimento; l’origine della nostra specie era descritta
mediante due modelli morfologici:
❖ Modello multiregionale: prevedeva che alcune popolazioni della nostra specie madre Homo
Ergaster, che viveva in Africa, fossero uscite da lì attorno a 2 milioni di anni fa e che poi si
fossero evolute indipendentemente in ciascuno dei continenti del Vecchio Mondo in diverse
specie intermedie fino a dare origine in tutti alla medesima specie: la nostra.
L’errore qui sta nell’idea che evoluzioni indipendenti potessero aver prodotto la medesima
specie.

❖ Modello “Fuori dall’Africa”: le popolazioni di Homo Ergaster sono uscite dall’Africa 2 milioni di
anni fa per occupare le terre dell’Est e del Nord → diversamente dal primo, questo prevedeva
che la nostra nascita fosse avvenuta una sola volta e ancora in Africa, pochissime centinaia di
migliaia di anni fa. La brevità della nostra vita rendeva inammissibile che ci fosse stato tempo
di dividerci in razze.

1980: esperimento che ha falsificato il multi regionalismo e validato il modello fuori dall’Africa →
analisi delle variabilità presente in quel DNA che si eredita per via materna (mtDNA) in un gruppo di
individui rappresentativi delle popolazioni di tutti i continenti e le differenze trovate sono state
utilizzate per comporre un albero filogenetico. L’albero mostra 2 gruppi o cluster:
➢ Formato esclusivamente da mtDNA di soggetti di origine africana → evoluzione o nascita
dell’Homo sapiens in Africa e da lì in poi i vari gruppi erano emigrati.
➢ Diviso in sottogruppi. in ognuno dei quali compariva il mtDNA di alcuni africani insieme a
quello di persone di una specifica area geografica.

→ evento nostra venuta: Africa, 200.000 anni fa, troppo breve per creare razze.
Parentela africani e europei? I gruppi di Homo sapiens che hanno colonizzato l’Europa sono emigrati
dall’Africa → per un tempo lungo gli africani e noi siamo stati un’unica popolazione.
Homo sapiens: storia di migrazioni, contaminazioni genetiche → non esiste la purezza della razza.

Il razzismo esula dall’analisi delle scienze sperimentali, la sua natura non ha radice in esse quanto
piuttosto nell’atteggiamento psicologico di rifiuto nei confronti dell’altro.

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1800-1900: la Razziologia purtroppo è stata usata non solo per ordinare scientificamente la variabilità
osservata nell’umanità ma subdolamente per definire una gerarchia di tipo intellettivo e morale
all’interno della quale, distinguere i popoli.

Durante il periodo coloniale, il fascismo ha affrontato in termini razzisti anche il problema


comportamentale che si stava sviluppando nei territori oltremare: meticciato.
Le direttive del regime contrastavano gli accoppiamenti tra colonizzatori e popolazione locale →
credenza che le coppie miste sarebbero state sterili e i figli pervertiti dal pdv psicologico e morale.

Solo alla fine della WW2 è iniziato un movimento per contrastare il razzismo. L’uomo non può essere
suddiviso in categorie discrete perché non esistono e non sono mai esistite popolazioni
geneticamente omogenee e pure.

L’ETNIA E LE MINORANZE ETNICHE - ANNE CHRISTINE TAYLOR, PATRICK


WILLIAMS, JEAN PAUL RAZON
IL CONCETTO DI ETNIA
Il termine “etnia” designa un insieme linguistico, culturale e territoriale di una certa grandezza ≠ tribù.
Si riferisce all’unità di base degli studi antropologici ed è quindi costantemente chiamata in causa
rimanendo però insufficentemente teorizzata.
L’idea di etnicità alimenta una rigogliosa letteratura che ci restituisce la portata reale della sfida
politica che essa è nel frattempo diventata.
Il termine deriva dal greco ethnos e resta per molto tempo ecclesiastico → popoli pagani in
opposizione ai cristiani e poi si inizia ad utilizzare per definire una “nazione” al ribasso, non “civilizzata”;
risponde alle esigenze di inquadramento amministrativo ed intellettuale della colonizzazione.

Visione sostantivista: fa di ogni etnia un’entità discreta dotata di una cultura, lingua, psicologia
specifiche → dominerà a lungo l’antropologia.
La revisione critica che comincia negli anni 60, riprendendo l’approccio dinamista e interazionale che
si ispira ai lavori di Goffman e Barth, si impegna a dimostrare come l’etnia sia soprattutto una
categoria di ascrizione la cui continuità dipende dal mantenimento di una frontiera, di una
codificazione continuamente rinnovata delle differenze dei gruppi vicini.

Le prospettive storiche permettono di spostarsi dai processi di autodefinizione, “etnogenesi”, ai


meccanismi di “etnificazione” cronologicamente e logicamente precedenti. Le etnie tradizionali sono
creazioni coloniali imposte tramite traduzioni arbitrarie degli stereotipi diffusi nelle popolazioni vicine.
Da allora ci si è accorti che la cristallizzazione di “etnie” rinvia sempre a processi di dominazione
politica, economica o ideologica.
Una serie di fattori (emigrazione urbana, fallimento, lotte di classe, rivendicazioni delle ideologie
nazionaliste) ha fatto diventare l’etnicità un valore positivo di identità. I movimenti etnicisti hanno
spesso adottato la visione sostantivista del fatto etnico.
L’etnia è un significante fluttuante, non è nulla in sé se non ciò che se ne fa. Il concetto può applicarsi
a contenuti sociali molto eterogenei (non necessariamente ancorati a quelli coloniali.

ETNIE MINORITARIE: PROBLEMI ANTROPOLOGICI


I concetti di “etnia” e di “minoranza” evocano quelli di gruppo e di relazione.
Un gruppo può essere definito secondo criteri obiettivi interni (origine, cultura, religione, parentela) o
esterni (percorso storico, condizione sociale) e criteri soggettivi interni (sentimento di appartenenza,
solidarietà) o esterni (controllo imposto).
Il gruppo minoritario non poggia la sua esistenza sull’opposizione a gruppi equivalenti ma sul suo
rapporto con la società globale, che non si dichiara di natura etnica.

L’esame critico sulla nozione di etnia porta a dubitare della sua esistenza in quanto entità definita, si
tratta solo di una categoria di analisi di una realtà sociale in movimento. Il ricorso alla nozione di
“etnia minoritaria” non ha maggiore consistenza, la realtà sociale che disegna è prodotto di un
rapporto di forze ed il termine specifica il gruppo piuttosto che la relazione di cui il gruppo è un
termine: ponendo l’accento sui criteri interni di definizione si tralascia il riferimento al processo storico
che ha prodotto la situazione minoritaria.

La designazione è un enunciato di assegnazione e di esclusione. Questa doppia determinazione


funziona se applicata a coloro che si trovano ai margini o nello strato basso della società ma non

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funziona se applicata a persone delle stesse origini che si distribuiscono tra strati diversi. Le
rivendicazioni in termini di identità etnica tentano di instaurare una collettività privilegiando il
registro culturale per adombrare le disparità esistenti.
Per studiare la situazione di una minoranza bisognerebbe studiare le relazioni tra dinamiche interne
dei gruppi e le costrizioni provenienti dalla società globale. Piuttosto che fare una tipologia delle
etnie minoritarie bisognerebbe quindi stabilire la genealogia delle entità considerate mettendo così
in causa il ruolo giocato dai gruppi maggioritari.

ETNIE MINORITARIE: PROBLEMI GIURIDICI E POLITICI


Le “etnie minoritarie” esistono solo in rapporto ad altri gruppi a cui sono associate all’interno di uno
Stato. I loro interessi sono subordinati agli scopi egemonici degli Stati-nazione, vi è dominazione
culturale, economica e politica che implica controllo dei territori e delle risorse dei gruppi minoritari e
persino lo spostamento dei membri.
Le discriminazioni subite sono diverse, da gruppi specifici o da regolamenti nazionali che urtano
contro le loro tradizioni e contro le loro possibilità economico-sociali; spoliazioni territoriali, minaccia
alla loro esistenza ecc. A loro volta le rivendicazioni delle etnie minoritarie variano in base agli oltraggi
subiti, vanno dal tentativo di ottenere garanzie giuridiche a richieste radicali di autonomia ed
indipendenza e dalle richieste legislative alla lotta armata.
Oltre alle organizzazioni indigene che rappresentano gli interessi delle etnie minoritarie all’interno
delle istituzioni politiche va sottolineata l’importanza delle organizzazioni non-governative
internazionali; alcune autoctone e altre che garantiscono la rappresentanza di questi popoli presso le
istituzioni le cui decisioni possono determinare il loro avvenire.

UNA SPIEGAZIONE DEI SIGNIFICATI SESSUALI - SHERRY BETH OTNER, HARRIET


WHITEHEAD
E’ ormai riconosciuto che i “ruoli sessuali” variano da cultura a cultura → il grado e la qualità
dell’asimmetria sociale tra i sessi sono estremamente variabili da cultura a cultura. Ciò che non è
riconosciuto è il pregiudizio che si ritiene di sapere cosa siano gli uomini e cosa le donne, cioè che il
maschio e la femmina sono prevalentemente oggetti naturali piuttosto che costruzioni
prevalentemente culturali.
Ciò che il genere è, ciò che gli uomini e le donne sono, quali tipi di relazioni si instaurano tra loro:
tutto ciò non riflette semplicemente dei dati biologici ma sono soprattutto prodotti dei processi
sociali e culturali.

Margaret Mead ha sostenuto queste idee più di 40 anni fa e ancora fino a non molto tempo fa, pochi
si erano preoccupati di identificare in modo sistematico i processi culturali e sociali ai quali inferire le
nozioni culturalmente mutevoli di sesso e genere.
Gli antropologi hanno consentito che il pregiudizio naturalistico dominasse l’ambito del sesso e del
genere → questo testo raccoglie la sfida di correggere questo squilibrio concentrandosi sul genere e la
sessualità in quanto costruzioni culturali.
Il genere, la sessualità e la riproduzione sono considerati simboli e come tutti i simboli, vengono
investiti di significati dalla società in questione.

CARATTERISTICHE GENERALI DELLE IDEOLOGIE DI GENERE


Sebbene le ideologie di genere siano molto diverse, determinati temi generali riguardanti la natura
degli uomini, delle donne, del sesso e della riproduzione si presentano in un’ampia varietà di casi.
Si deve osservare che non tutte le culture elaborano nozioni di virilità e di muliebrità in termini di
dualismo simmetrico. In molti casi le differenze tra uomini e donne sono proprio concettualizzate in
termini di insiemi di opposizioni binarie metaforicamente associate.

● Natura (F) / cultura (M)


● Domestico (F) / pubblico (M)
● Interesse personale (F) / bene sociale (M)
● Termini relazionali (F) / status (M)

Analisi delle culture polinesiane condotte da Ortner e Shore → le categorie di parentela femminile,
moglie o sorella, includono una distinzione anche tra donne sessuate (mogli) e donne non sessuate
(sorelle).
Si scoprono, inoltre, molti casi in cui esiste una chiara separazione concettuale tra un “mondo degli
uomini”, cioè definire gli uomini in termini di occupazione di certi ruoli o status esclusivamente

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maschili e un “mondo dei rapporti eterosessuali" cioè definire le donne in termini di rapporti con gli
uomini.

C’è un’altra caratteristica generale dell’organizzazione delle idee di genere: comunemente gli stessi
assi che dividono e distinguono il maschio dalla femmina, intersecano anche le categorie di genere,
determinando al loro interno distinzione e gradazioni.
Strathern rileva tra la popolazione di Mount Hagen una serie di opposizioni che distinguono il
maschio dalla femmina in distinzioni parallele tra investitori-consumatori, prestigioso-spazzatura,
successo-insuccesso (maschile ovviamente il primo e il migliore).
Analogamente, Shore dimostra che la questione del controllo sul comportamento sessuale che nelle
Samoa divide uomini da donne genera anche delle gerarchie interne sia maschili che femminili.

I CONTESTI SOCIALI DELLA CULTURA DI GENERE


L’obiettivo di questo testo è sollevare degli interrogativi sui principi della creazione e trasformazione
delle ideologie di genere.

PARENTELA E MATRIMONIO
Le donne si trovano sempre nella sezione sulla parentela e il matrimonio: essi sono stati strutturati
secondo il genere. Essi trattano sempre di genere, poichè richiedono due varietà di persone, cioè
maschio e femmina.
Le isole Trobriand, per esempio, benché società matrilineari non trascurano i fatti della paternità
fisica. Così pure la funzione parentale universale e altamente visibile delle donne, la capacità di
procreare è sottovalutata in modo sorprendente nelle definizioni di donna in una vasta gamma di
società con diverse organizzazioni parentali.
Per quanto l’organizzazione formale della parentela possa essere importante per la messa in forma
dei concetti di genere e per il modo in cui vengono formulate le relazioni tra i sessi, essa esercita la
sua influenza soltanto in modo indiretto e mediato.

LE STRUTTURE DI PRESTIGIO
All’interno di ciascuna società, il prestigio o valore sociale, assume qualità e quantità diverse. Le
strutture di prestigio sono l’insieme delle posizioni o dei livelli di prestigio che risultano da un
particolare programma di valutazione sociale.
La tesi degli autori è che l’organizzazione sociale del prestigio è la sfera culturale sociale che influisce
più direttamente sulle nozioni culturali di genere e sessualità; questa tesi ha diversi aspetti correlati:
a. I sistemi di genere sono in se stessi delle strutture di prestigio → in tutte le società
conosciute, gli uomini e le donne costituiscono due termini di un insieme di valori valutati in
modo differenziale, poichè gli uomini sono visti come superiori.
Molte caratteristiche delle ideologie di genere in senso transculturale cominciano così ad
avere senso; si nota che i concetti usati per distinguere gli uomini dalle donne in termini di
valore sociale sono spesso gli stessi che si usano per distinguere altri tipi sociali valutati in
modo differenziale e sono identici anche ai concetti usati per classificare individui dello stesso
genere.
Il punto però secondo cui il genere è una struttura di prestigio ha delle implicazioni più vaste
di quelle appena osservate → esso porta ad indagare sulla relazione tra il genere e altri sistemi
di prestigio.

b. Le strutture di prestigio tendono verso la reciproca coerenza simbolica → due o più


dimensioni del prestigio possono apparire concettualmente fuse in un unico sistema (es molte
società della Nuova Guinea lo status di genere è perfettamente in armonia con lo status di età
grazie all’enfasi simbolica dello sperma e del sangue mestruale).

Dall’altro lato esistono chiaramente dei sistemi in cui è evidente un riconoscimento dei differenti assi
del prestigio ma su cui, tuttavia, è stata impostata una sorta di unità per un deliberato sforzo di
razionalizzazione.

Possiamo notare che le categorie fondamentali del maschile in generale non provengono
semplicemente dalla sfera pubblica in generale ma specificamente da quelle delle relazioni di
prestigio → es essere guerriero vuol dire essere collocato in un punto determinato di uno schema
gerarchico del prestigio culturalmente organizzato.
La tendenza a definire le donne in termini relazionali, a sua volta, deve essere considerata un riflesso
della loro esclusione dal mondo del prestigio maschile.
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L’esistenza di strutture di prestigio ha delle conseguenze circa le nozioni culturali dei sessi: la nozione
culturale di genere e di sessualità varierà da cultura a cultura secondo il modo in cui le donne e
tutto ciò che ci sta attorno, sono organizzate all’interno della struttura che sostiene il più ampio
sistema di prestigio maschile.

Raymond Kelly, per esempio, analizza le credenza sulla contaminazione femminile in parti diverse
della Nuova Guinea. Vi sono esempi di società in cui alcune fonti di prestigio maschile sono
indipendenti dalle relazioni con le donne; nella maggioranza però il prestigio maschile è
profondamente implicato nella relazione tra i sessi. È relativamente diffusa la credenza che, quando il
prestigio maschile è collegato alla relazione con le donne, possa esservi “contaminazione femminile”.

PARENTELA E MATRIMONIO DAL PDV DEL PRESTIGIO


La distinzione tra donne in quanto mogli, madri o sorelle è cruciale per le definizioni culturali di
femminilità mentre analoghe distinzioni per gli uomini non lo sono per la mascolinità. In vari sistemi
culturali uno dei ruoli relazionali femminili (madre o sorella o moglie) tende a dominare la categoria
del femminile e a influire sui significati di tutti i loro altri ruoli (es. America dominata da “madre”); con
effetti culturali su come vengono considerate tutte le donne. Questo dominio dipende dalla struttura
del sistema di prestigio; ciò mette in rilievo certi legami tra i sessi in misura della loro centralità nella
creazione o mantenimento di status.
Nella maggior parte delle società il legame tra sessi più cruciale per la posizione sociale è il
matrimonio, esso ha una straordinaria versatilità sia funzionale che simbolica. Alcuni motivi per la sua
importanza riguardano: moglie come risorsa produttiva (es. per beni da scambio → prestigio); offerta
di ospitalità alla donna = generosità, onore; produzione di figli che sono anch’essi risorse produttive o
anche continuità della discendenza → onore individuale o di gruppo (lignaggio). Questa istituzione ha
le maggiori implicazioni per il prestigio maschile e per le nozioni culturali di genere, sesso e
riproduzione.
La Polinesia fa da esempio dove il legame più significativo è di consanguineità piuttosto che
matrimoniale e le donne vengono considerate in primo luogo “sorelle”.
Nelle culture cattoliche o protestanti (es USA 20° sec) la “madre” domina la categoria del femminile, il
legame familiare di base è quindi quello madre-figlio. Le mogli sono qui considerate (e utilizzate) in
primo luogo come madri ma imperfette rispetto ad esse.
Benché gli effetti varieranno in base alla cultura specifica, la tendenza vuole che le culture in cui il
ruolo che più interessa il prestigio è quello della moglie – che è partner sessuale – la donna sarà vista
con meno rispetto. Quelle dove prevale una concezione basata sulla consanguineità (es. sorella)
tenderanno invece ad essere più rispettose ed egualitarie. I sistemi basati sulla madre variano molto
in base a ciò che si intende per madre.

DOV’E IL SESSO?
Che cosa dire del sesso in tutte queste culture? Purtroppo la sfera erotica svanisce di fronte alla sfera
economica, le questioni riguardanti la passione sfumano in questioni relative al ranfo. La sfera erotica
è profondamente implicata in quella sociale.
Uno sguardo sulle caratteristiche che vengono considerate eroticamente eccitanti rivela che la
sessualità è socialmente modellata e subordinata e che le forme di società sono esse stesse erotizzate.

6- MOBILITA’/MIGRAZIONI
Lo sguardo comparativo dell’antropologia ha messo in luce molteplici forme di mobilità territoriale a
specifiche condizioni storiche ed ecologiche non esclusivamente riducibili alla figura del migrante
che vi è nelle cronache attuali.
Celebri studi sono stati dedicati a popolazioni il cui modo di vita si è strettamente legato alla pratica
della pastorizia nomade o a comunità itineranti di cacciatori-raccoglitori.
Questa attenzione disciplinare permette di relativizzare un ordine sedentario reso oggigiorno
universale dalla generalizzazione dello Stato-nazione come unità politica standard del sistema
internazionale, i cui confini e spazi chiusi in luogo di forme territoriali aperte, definiscono l’identità
delle persone.
Come sottolinea Sayad lo Stato pensa se stesso attraverso l’immigrazion e il suo controllo, in cui i
confini sono strumento di costruzione dell’ordine.l

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Testo di Ong, divenire cittadini dei rifugiati cambogiani giunti alla fine degli anni 60 in USA ed
evidenzia come la categoria stessa di rifugiato sia una categoria variabile ridefinita da interessi
contingenti del sistema degli Stati.

Gli studi antropologici sulla migrazione permettono di riflettere sulle migrazioni di oggi: movimenti
da campagna a città, da Asia a USA…

Iona e Philip Mayer (1962) presentano una riflessione sulle ricerche che hanno fondato lo studio
antropologico sulle migrazioni. Propongono, riguardo il problema sia empirico che teorico di come
congiungere il contesto di origine e quello di destinazione in una “struttura sociale unitaria”, di
focalizzarsi sugli emigranti stessi, le loro scelte e i loro percorsi costruendo un’analisi di rete. Il
paradigma centrale per lo studio delle mobilità contemporanee è quello del transnazionalismo
(1922): il campo sociale di riferimento dei migranti è unico per quanto distribuito in territori diversi
vanno comprese le forme di circolarità, comunicazione e scambio tra paesi.
Lo schema esplicito dei Mayer di analisi di un campo sociale (status, posizioni, aspettative) è implicito
nell’analisi di Ong sulle relazioni tra genitori e figli.

L’EMIGRAZIONE E LO STUDIO DEGLI AFRICANI IN CITTA - PHILIP E IONA MAYER


Si può dire che lo studio della popolazione delle città africane sollevi alcune particolari questioni
teoriche in quelle numerose aree dell’Africa nelle quali l’emigrazione di lavoro è prevalente → la
popolazione urbana africana consiste di africani che trascorrono gran parte della loro vita in città,
alternando periodi passati nell’hinterland rurale e che continuano a considerare la campagna da cui
provengono come la loro vera casa.
Si può distinguere:
❖ Sistemi sociali urbani: natura durevole;
❖ Emigranti: natura temporanea e mobile.

“Un minatore africano è un minatore” (Gluckman)→ le sue attività sul luogo di lavoro e le relazioni che
in questo campo egli stabilisce, devono essere considerate in rapporto ad un contesto industriale,
non ad un contesto tribale.
Si è riconosciuta la validità di una concezione delle tribù come categorie di interazione entro
l’ambiente cittadino ma si è perlopiù evitato di spiegare i fenomeni localizzati in città con riferimento
ai sistemi tribali che sono localizzati al di fuori delle città.

Sembra anche evidente che in ogni regione di emigrazione di lavoro, ci sia motivo di studiare la stessa
emigrazione come un elemento supplementare per lo studio delle città e dei sistemi urbani. Lo
studio delle strutture durevoli sembra perciò richiedere l’analisi di questo fattore supplementare. Il
fenomeno sociale dell’emigrazione diffusa deve avere delle implicazioni teoriche: ridefinizione di
concetti come personalità sociale, ruolo, status, campo sociale in modo da porsi in grado di
rispondere a una situazione in cui Ego abitualmente va e viene tra la società urbana e quella tribale.

Non è ragionevolmente possibile sperare di studiare un campo che comprenda le città più
l’hinterland rurale, con la sua circolazione personale, come una “struttura sociale” → necessità metodo
alternativo: iniziare dallo studio degli emigranti stessi, tracciandone reti di relazioni dal pdv
personale o egocentrato; nel fare ciò, non assumeremmo come postulato nessuna unità strutturale
del campo migratorio → esso è un campo abitualmente attraversato da persone che emigrano. Gli
individui che svolgono un ruolo nella città A, svolgono anche ruoli nelle società tribali B,C,D → ob:
osservare reti di relazioni sociali.

Il luogo in cui è più facile e più pratico iniziare lo studio degli emigranti o emigrazione è la città: non
bisogna confondere l’obiettivo dello studio dell’emigrazione con quello dei sistemi sociali localizzati in
una città; l’obiettivo è fare attenzione ai legami extraurbani degli emigranti che risiedono in città →
vincoli che durante il periodo di permanenza in città continuano a collegare Ego a specifici sistemi
tribali fuori dalla città e gli permettono di prendere il suo posto in una specifica comunità tribale
(hinterland).

METODI DI ALTERNANZA E CAMBIAMENTO


Modelli esistenti per lo studio degli africani nelle città:
➔ Modello di alternanza: doppi ruoli dell’emigrante = Ego si trova in città ora e svolge ruoli nella
società urbana; l’anno prossimo tornerà in campagna e svolgerà ruoli nella società tribale e
così via.
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➔ Modello del cambiamento unidirezionale: l’emigrante può gradualmente abbandonare
insieme sia i ruoli che le norme tribali.

Naturalmente qui è implicata anche una differenza tra i due modelli → uno si fonda sulla cultura e
l’altro sulle relazioni sociali:
➢ Cambiamento: concetto di cultura in mutamento → da una condizione culturale ad un’altra,
lungo un binario unidirezionale che partiva dalla condizione tribale come punto zero e finiva
con la completa detribalizzazione;
➢ Alternanza: alternanza tra campi sociali: l’uno, ogni volta che l’emigrante è in città, e l’altro
ogni volta che l’emigrante è nell’hinterland.

Contemporaneamente i lavori di Epstein e Mitchell hanno introdotto un modello di alternanza in


qualche modo differente, che unisce i concetti di relazioni sociali e di cultura → esso postula il
coinvolgimento in città in diversi insiemi di relazioni che di per sé determinano differenti modelli di
comportamento → selezione situazionale: l’individuo seleziona modelli di comportamento
appropriati all’insieme delle relazioni in cui la situazione lo pone in un dato momento.
Quest’ultimo modello è il più utile ma non ci permette ancora di capire il processo di urbanizzazione
(cambiamento equilibri tra legami intra urbani e extraurbani) degli emigranti. La completa
urbanizzazione implica rimozione dei legami extraurbani, mancanza di soggezione all’attrazione
dell’hinterland rurale - trasformazione in proletariato (o borghesia) puramente urbano (fenomeno
maggioritario nelle città importanti in Sud Africa). Qualsiasi studio sugli emigranti in città deve
determinare quanto e se l’attrazione dell’hinterland si indebolisca. Quando ciò accade la personalità
sociale dell’emigrante cambia, i modelli di alternanza non tengono conto dello spostamento del
centro di gravità delle relazioni. Se l’urbanizzazione è completa il suo ruolo di emigrante si esaurisce.
Per valutare l’indebolimento dei legami extraurbani non ci si può concentrare solo su quelli urbani, sul
coinvolgimento attivo in città. All’interno della città possono essere attivi in contemporanea ruoli
urbani e ruoli rurali (es. guadagnare per famiglia in hinterland; amici compaesani in città).

DUE SITUAZIONI LOCALI COMPARATE: EAST LONDON E LA COPPERBELT


Se si esaminano i legami extraurbani dei residenti in città e li si valuta in relazione a quelli intraurbani,
sembra certo che i quadri che ne risulteranno per città africane moderne diverse varieranno
notevolmente, non solo negli squilibri tra legami extraurbani e intra, ma anche nella natura e nella
qualità stessa dei legami. Mitchell dice “l’insieme complessivo degli imperativi esterni è
probabilmente unico per ogni città” → è quindi utile comparare East London con il tipo di città della
Copperbelt studiato da Mitchell e Gluckman.

LEGAMI INTRAURBANI
Gli studi della Copperbelt si sono occupati di una fase di sviluppo in cui l’interazione tra gli interessi
comuni dei lavoratori o interessi settoriali, è sociologicamente rilevante: “i sindacati trascendono le
tribù”: in città, i lavoratori attribuiscono ancora primaria importanza alle loro rispettive identità tribali,
ma anche il lavoro industriale li coinvolge e alla fine essi diventano consci della irrilevanza delle
categorie tribali → sul lavoro si possono vedere questi africani residenti in città che formano
associazioni tipicamente urbane = legami intraurbani di massa.

Nulla di tutto ciò si verifica a East London → non esistono sindacati o associazioni di massa di o per
africani, non vi è competizione tra differenti gruppi tribali per accrescere l’importanza di identità o di
legami tribali entro l’ambiente urbano. 96% popolazione africana di East London proviene da un
singolo gruppo tribale, parlano la stessa lingua.

L’assenza di associazioni urbane di massa è un diretto risultato della politica governativa → è vietato;
tutto ciò è in contrasto con l’incoraggiamento ufficiale dato al sindacalismo africano della Copperbelt.
Il governo sudafricano proibisce anche la partecipazione degli africani ai sindacati bianchi o asiatici.

Ovviamente, in circostanze simili, l’incapacità di sviluppare un nuovo insieme di relazioni in città non
significa necessariamente una corrispondente apatia → l’esperienza sul campo a East London
suggerisce il contrario: vi è una grande riserva di malcontento pronta a essere incanalata da qualsiasi
associazione rappresentativa.

I LEGAMI EXTRAURBANI

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Il tipico lavoratore di East London è uno xhosa nato e cresciuto in un ambiente rurale, che sta in città
→ East London è il luogo in cui è possibile ricavare un importante guadagno regolare, senza il quale la
maggior parte delle famiglie non sarebbe in grado di sbarcare il lunario.
Oggigiorno i regolamenti di controllo sull’affluenza degli emigranti incoraggiano la tendenza a stare a
lungo in città → un emigrante che ritorna prima del dovuto in campagna, è possibile che possa
perdere il suo permesso di rimanere nell’area urbana ma dall’altro lato East London è così vicina
all’hinterland che la maggior parte dei migranti riescono a fare frequenti scappate a casa.

Questa situazione locale rende possibile costruire una scala di misura significativa della forza di
attrazione esercitata dall’hinterland e fare confronti tra emigranti diversi o stati diversi.
La maggior parte degli emigranti, quando iniziano la loro attività di lavoro a East London, sono
soggetti ad una attrazione molto forte perché lasciano a casa i parenti più stretti → parentela rurale, la
quale però non è sempre costante. Gli emigranti che rimangono in modo permanente soggetti
all’attrazione sono quelli che fanno di tutto per fare visite a casa anche per associarsi con compagni
esuli dallo stesso luogo di nascita.

EMIGRANTI E AFRICANI URBANI


E’ implicita un’antitesi tra due tipi di persone che vivono fianco a fianco in città: l’emigrante e
l’africano urbano. La loro importanza come gruppi di riferimento è ridotta al minimo sul lavoro e
quando si spostano nella parte bianca della città raggiungono il massimo quando si trovano
interamente tra compagni africani.

La stessa cosa si applica a un’altra categorizzazione che gli emigranti xhosa dall’hinterland portano
con sé a East London → la campagna xhosa è divisa tra “Red” e “School”, cioè tra xhosa tribali
tradizionalisti e i prodotti della missione e della scuola.
Questa regione del sud Africa costituisce una delle più antiche aree di colonizzazione bianca a sud del
Sahara ma gli xhosa non si sottomisero subito o facilmente al dominio bianco.
Gli xhosa Red sono i discendenti e gli eredi culturali di questi resistenti nazionalisti: la parte che ha
guardato con sospetto i bianchi; gli xhosa School sono invece coloro che hanno ricevuto
l’insegnamento delle missioni e della scuola lungo lo stesso periodo di 5 generazione, è un popolo
contadino cristianizzato che ha interiorizzato molti dei valori della civilizzazione.

All’interno di ogni villaggio rurali, gli elementi Red e School stanno ognuno per conto proprio →
opposizione totale dei due gruppi anche dal pdv morale. Quindi vi sono 3 gruppi:
- Veri abitanti della città;
- Emigranti Red;
- Emigranti School.

DA RIFUGIATI A CITTADINI - AIHWA ONG


DINAMICHE DELLO STATO E AMBIGUITA’ DEI RIFUGIATI
Il rifugiato è stata una delle figure più scottanti della fine del 20° secolo, ma nonostante i reportage
giornalistici, vi è stata posta poca attenzione allo studio delle loro esperienze di dislocamento,
regolamentazione e inserimento all’estero ma si presta molta più attenzione alla minaccia che essi
sembrano costituire per lo Stato-nazione.
Anche gli antropologi hanno adottato un modello di opposizione tra rifugiato e stato, considerando
la condizione di rifugiato come una condizione sociale che è opposta alla nozione di cittadino radicato
e che rappresenta quindi una sfida alla sovranità dello stato.
I rifugiati vengono considerati moralmente impuri ma in realtà la stessa immagine di nazione tende a
escludere ideologicamente i rifugiati.

Il modello che polarizza rifugiati e stati come entità omogenee nell’ambito delle relazioni
internazionali, non tiene conto di come i vari stati e i loro abitanti possano essere pro o contro
l’afflusso dei rifugiati.
Infatti, i singoli stati non reagiscono ai flussi di rifugiati in modo standard; quindi, invece di
considerare i rifugiati e cittadini come contrapposti, questo studio analizza il modo in cui il rifugiato e
il cittadino costituiscono l’effetto politico di processi istituzionali profondamente impregnati di valori
socioculturali.

La maggior parte di persone tende a far coincidere la cittadinanza con il possesso di un insieme di
diritti; questa nozione di cittadinanza come nazionalità è fondamentale e distingue i cittadini dagli

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stranieri che vivono senza permesso. La storia della cittadinanza americana come nazionalità si è
formata attraverso una serie di inclusioni ed esclusioni basate sulla xenofobia, razzismo ecc..
Al momento della fondazione, il paese escluse gli schiavi africani, nativi americani → oggi: milioni di
residenti legali stranieri.

Politiche e tecniche di governo che danno forma all’accoglienza dei rifugiati: diversi organismi
statali o privati concorrono nel facilitare questa transizione con lo scopo di trasformare i soggetti
rifugiati in cittadini normalizzati.
Anni 80: cambogiani arrivarono negli USA, la loro condizione di rifugiati non venne mai meno
purtroppo.
Stato americano: molteplicità di reti attraverso cui diverse autorità, enti no profit traducono gli
obiettivi democratici in relazione alle popolazioni target.

Corrigan e Sayer: universalizzazione delle norme di cittadinanza, carente perché si concentra solo sul
settore statale. L’imperativo morale di offrire asilo ai rifugiati va dal 1945, in cui l’America ha costretto il
Congresso ad abbandonare le politiche isolazionistiche e a compensare il vergognoso abbandono in
cui erano stati lasciati i rifugiati ebrei.
Nel 1965, quando venne chiaro che i rifugiati dai paesi comunisti, erano nuovi immigrati, i rifugiati
furono formalmente riconosciuti come categoria speciale di immigrati. Lo status di rifugiato viene
conferito solo quando le richieste di ingresso vengono presentate al di fuori degli USA:

Le Amministrazioni successive hanno cercato di trasformare chiunque arrivasse dai regimi comunisti
in un combattente per la libertà → aumento quote fissate per gli immigrati da Asia e Africa. Nel
momento in cui i rifugiati decidevano di diventare residenti permanenti, perdevano la loro aura di
combattenti per la libertà.
Entrò inoltre in uso l’espressione rifugiato economico per descrivere le persone che non scappavano
dalle persecuzioni politiche in patria, ma semplicemente da condizioni economiche avverse.
Le aspettative di tipo razziale ereditate dal passato hanno fatto sì che sia i nuovi arrivati che gli
“accoglitori” ragionassero in base a potenziale di mercato, intelligenza, salute mentale e valore morale
degli immigrati. Le norme in base a cui pensiamo e trattiamo i rifugiati del sud est asiatico sono state
formate da quelle adottate dagli organismi statali che li hanno gestiti in passato.

SALVARE I FIGLI
Man mano che la maggior parte delle famiglie cambogiane-americane povere si adattava alle
esigenze di vita dell’America urbana, il conflitto tra genitori e figli diventava una questione
importante: i conflitti con i figli derivano di solito dalla perdita di autorità morale dei genitori e dai
tentativi dei figli stessi si sviluppare una propria identità.
Queste forze esterne finirono per indebolire autorità e risorse economiche dei genitori. Questi
tendenzialmente non erano autosufficienti, non potevano lavorare e vivevano grazie ai sussidi. I
maltrattamenti sulle mogli o sui figli venivano percepiti dagli operatori dei servizi come conseguenze
della cultura cambogiana. Lo scontro tra culture e generazioni si manifestava anche negli oggetti e
nell’arredamento delle case. I genitori non erano in grado di aiutare i figli a risolvere i loro problemi
quotidiani, non potevano far loro da modelli di comportamento.
L’alienazione era fomentata anche dal contrasto tra i genitori e ciò che i figli imparavano a scuola
riguardo il comportamento da ceto medio americano. Erano in crisi il rispetto e la gratitudine che i
genitori si aspettavano dai figli. Tra le divergenze principali vi erano consumismo e sesso, ambiti
intrecciati ed essenziali per guadagnarsi il rispetto nella società americana (soldi e status)

RAGAZZE A RISCHIO
Altro problema: perdita del controllo sulla sessualità delle figlie; mentre la promiscuità dei ragazzi era
segno di virilità, le ragazze dovevano conservare la loro purezza sessuale.
Anche il controllo sulle figlie era fonte di scontro con gli operatori sociali, rappresentanti di una
cultura dove il corteggiamento competitivo era la norma.
In questo ambiente inoltre circolavano pettegolezzi sulla poca virtù delle donne cambogiane che
rendevano i genitori particolarmente vigili. La cultura finì per essere oggettivata come un elemento
utilizzabile per dimostrare che i gruppi immigrati andavano giudicati in maniera molto diversa da altri
gruppi già integrati.

7- GLOBALIZZAZIONE
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Dal suo affermarsi nel discorso pubblico e scientifico all’inizio degli anni 90’, il termine
globalizzazione ha alimentato 2 generi di rilievi :
- coloro che ne sottolineavano le novità e col termine intendeva marcare una frattura storica
occorsa in quel periodo
- chi sosteneva le continuità, in forma di una nuova accellerazione o nuova fase, con il processo
storico di espansione del capitalismo su scala globale.

Il dibattito sulla globalizzazione e in particolare sulla dimensione culturale di questo processo, abbia
occupato anche per l’antropologia un posto centrale nelle preoccupazioni disciplinari degli ultimi
anni, e attorno ad esso si siano confrontati autori tra i più conosciuti nel dibattito contemporaneo da
Appadurai a Augé.
In questo dibattito sono riecheggiati 3 assi di analisi, ripresi nella discussione sviluppata da Amselle:

1. tema delle trasformazioni : una disciplina che si è specificamente occupata delle società extra
occidentali, e per lungo tempo si è definita secondo questa linea di demarcazione, non poteva
che riflettere ampiamente sui cambiamenti sviluppatisi a partire dal ridisegno delle forme di
interrogazione di ogni società locale entro un contesto più ampio prodottosi con i fenomeni
legati alla globalizzazione.
Temi più rilevanti : studi sulle migrazioni contemporanee, e le varie forme di mobilità e gli studi
sulle nuove forme di immaginazione globale, le relazioni transnazionali e il traffico di flussi resi
possibili dalle nuove tecnologie del trasporto e della comunicazione

2. tema degli oggetti di studio : accelerazione dei fenomeni di globalizzazione ha reso più
difficilmente definibili i tradizionali oggetti di studio degli antropologi. Vi è a questo proposito
un problema di scala, volto a definire i mutui rapporti tra piani locali e piani globali e al tempo
stesso il problema di ridefinizione dei concetti stessi.

3. tema della metodologia : la ricerca sul campo in contesti specifici e circoscritti viene sfidata
dalle accelerazioni globali e dalla mobilità. La riflessione si sposta quindi a pratiche di ricerca
multi-situata, ricerche “in movimento” e all’analisi di reti sociali su spazi ampi. Le realtà
studiate dagli antropologi sono forse sempre state “globali”, lo sguardo miope ha favorito
l’analisi di culture isolate. Amselle mette in guardia su come l’enfasi sul termine
globalizzazione possa oscurare i rapporti di potere e gerarchia che essa stessa va a definire.

Sidney Mintz, che al pari di un gruppo eterogeneo di autori quali : Wolf, Sahlins; ha inteso
avvicinando antropologia e storia, produrre etnografie del sistema mondo, attraverso la storia dello
zucchero mostra come la storia UE e la storia coloniale si propaga verso periferie da sviluppare.

Amselle mette in guardia su come l’enfasi sul termine globalizzazione possa oscurare i rapporti di
potere e gerarchia che la stessa andrebbe a definire e sottolinea come i cambiamenti di cui questa è
portatrice non rappresentino tanto una sfida dal pdv delle novità o dell’innovazione quanto sul piano
epistemologia, in relazione alle categorie attraverso cui l’antropologia guarda al mondo.
Le realtà studiate dagli antropologi sono sempre state globali, ma questa constatazione è stata per
lungo tempo ostacolata da uno sguardo miope che ha favorito l’analisi di culture isolate tra di loro
nello spazio e ricondotte a un tempo del passato. In un mondo che è sempre stato costituito da
connessioni, l’opposizione tra globale e locale, o tra particolare e universale, perde di significato.

Appadurai nel testo Modernità in polvere, rileva una frattura nel tenore generale delle relazioni tra le
società dovuta ai fenomeni di comunicazione e di migrazione di massa.

STORIA DELLO ZUCCHERO -SIDNEY WILFRED MINTZ


Maggior parte della gente nella regione caribica discende dalla popolazione aborigena amerinda e di
coloro che vennero nei Caraibi dall’UE, Africa e Asia, vive in zone rurali e si dedica all’agricoltura.
50
Fare ricerche tra loro significa interessarsi a quanto essi producono e lavorare tra loro.
La regione caribica è stata dal 1492 impigliata nella matassa del controllo imperiale filata ad
Amsterdam, Londra, Parigi, Madrid. Per l’autore colui che lavorava nei settori rurali di queste piccole
società è inevitabilmente propenso a vedere queste reti di controllo e di dipendenza dal pdv dei
Caraibi. Questa prospettiva dell’interno ha gli stessi vantaggi di quella UE tipica degli osservatori della
passata generazione, secondo i quali il mondo non UE, esterno e dipendente era in modi diversi
lontano e poco conosciuto e veniva considerato come un’estensione perfetta dell’UE stessa.

Facendo ricerca nei Caraibi ci si chiede in quale modo il mondo esterno e quello UE siano diventati
interconnessi o addirittura congiunti.
I Caraibi esportati sono stati per molto tempo e lo sono ancora prodotti tropicali : spezie, basi per
bevande e soprattutto zucchero e rum.
Il bene richiesto maggiormente da tutto il mondo ai Caraibi per le esportazioni è lo zucchero →
prodotto che ancora oggi, sembra mantenere una posizione di dominio nel settore commerciale.
Sebbene l’importanza dello zucchero in UE non sia stata legata solamente ai Caraibi e il consumo sia
cresciuto costantemente in tutto il mondo, indipendentemente da dove esso venisse prodotto, i
Caraibi hanno sempre avuto una parte importante nell’economia mondiale di questo prodotto.

Per tutto il tempo che rimase, sostiene l’autore di avere la sensazione di essere su un’isola che
galleggiava su un mare di canne. A quei tempi la maggior parte del lavoro veniva svolto senza
macchine. Naturalmente lo zucchero non era prodotto per i Portoricani, essi consumavano solo una
frazione del prodotto finito. Portorico aveva prodotto canna da zucchero per 4 secoli, sempre per
consumatori residenti altrove.
Nessuno si domandava del processo di raffinazione dello zucchero, o dove fossero i consumatori. Ciò
di cui la popolazione locale era consapevole era il fatto che esisteva un mercato dello zucchero ed
erano interessati ai prezzi dello zucchero sul mercato. Coloro che erano abbastanza vecchi da
ricordare la famosa “danza dei Milioni” del 1919-20, quando il prezzo dello zucchero salì
vertiginosamente, per precipitare subito dopo quasi a livello zero, erano coscienti di come le loro sorti
fossero poste nelle mani degli altri, stranieri e potenti.

L’autore esprime che iniziò a domandarsi che cosa la “domanda” realmente fosse, fino a che punto
potesse essere considerata come naturale e che cosa si intendesse con parole come gusto e
preferenza, solo quando iniziò a conoscere meglio la storica caribica e le relazioni tra produttori nelle
colonie e banchieri, imprenditori e gruppi diversi di consumatori nella metropoli.
La sua ricerca sul campo a Portorico fu svolta in un villaggio di tagliatori di canna. Gli abitanti di Barrio
Jauca non erano agricoltori per i quali la produzione di beni agricoli costituiva un fatto commerciale,
ne erano contadini tradizionali, ma erano braccianti agricoli che non possedevano ne terra ne altre
proprietà produttive. Erano dei lavoratori salariati che vivevano come operai e lavoravano in una
fabbrica costituita sul campo.

Lo zucchero è simbolo di un processo storico vecchio almeno quanto i primi tentativi dell’Europa di
espandersi in cerca di nuovi mondi. Rimane poco chiaro come e perché lo zucchero abbia raggiunto
una posizione di tale importanza presso le popolazioni europee. Esso legò l’Europa a diverse regioni
coloniali dal 15o secolo in poi ed il passare dei secoli non fece che sottolineare la sua importanza
anche mentre le politiche cambiavano. È importante capire quali elementi siano alla base della sua
domanda: come e perché essa aumenti e quando ciò avvenga.

Prendiamo in considerazione la Gran Bretagna tra il 1650 (zucchero iniziò ad essere prodotto
comune) e il 1900 (stabilito come parte costante della dieta di ogni famiglia operaia). È possibile
mostrare come certi gruppi di persone che inizialmente non conoscevano la sostanza ne siano
diventati consumatori giornalieri in poco tempo.

Vanno colte le differenze tra i tentativi di piantagione sperimentati dagli Spagnoli a fine 16 ° secolo e i
risultati ottenuti dagli Inglesi nel corso del 17° e 18° secolo. Queste riguardano sia le dimensioni delle
piantagioni che il mercato. L’Inghilterra si concentrò sui suoi mercati interni, la domanda dello
zucchero conobbe una costante crescita (accompagnata da variazione degli importi dalle colonie)
che si accompagnò alla diminuzione del prezzo unitario e all’aumento della produttività degli operai

51
in patria. Fino al 18o secolo però lo zucchero rimase destinato ad una minoranza privilegiata, usato
come sostanza medicinale, spezia o elemento decorativo. Un nuovo gusto per esso venne però a
manifestarsi appena i mezzi per soddisfarlo furono disponibili. Dalla metà del 18o secolo le classi più
basse ne avevano accesso e la sua produzione venne considerata via via più importante dalle classi
dirigenti inglesi. Con l’aumento dei consumi i centri di produzione si assestarono in posizioni sempre
più vicine al mercato inglese.
La prospettiva mercantilista (export > import; non comprare beni finiti altrove, non vendere prodotti
tropicali altrove etc) che stava alla base della logica del commercio saccarifero venne sostituita da
quella del libero scambio; in definitiva a metà 19o secolo. Il periodo mercantilista vide la graduale
decadenza della classe dei piantatori e la crescita più o meno stabile degli industriali capitalisti e dei
loro interessi in madrepatria. Lo zucchero diventò la prima merce esotica prodotta in vasta scala per
le necessità del proletariato.
Alcune esigenze per la produzione dello zucchero (taglio, macinatura, bollitura, cristallizzazione
immediati e sincroni) necessitano che le piantagioni non consistano solamente in lavoro agricolo ma
che si abbia una sintesi tra campo e fabbrica. Erano infatti presenti una serie di caratteristiche
(specializzazione, divisione manodopera in turni e squadre, puntualità, disciplina) più tipiche
dell’industria che dell’agricoltura. Il 17° secolo è considerato parte dell’era preindustriale ma nelle
piantagioni abbiamo un grosso esempio di industria nelle colonie prima che nella madrepatria. Gli
studiosi interessati alla storia dell’industria occidentale iniziarono con artigiani e operai europei e con
lo sviluppo di botteghe – conseguentemente le piantagioni vennero considerate sottoprodotto dello
sviluppo industriale piuttosto che elemento integrante del processo di sviluppo della bottega in
fabbrica. Queste considerazioni mettono in questione la comune asserzione che l’Europa ha
“sviluppato” il mondo coloniale dopo la madrepatria.

Lo zucchero fu una delle armi favorite dei “negozianti” per allevare un popolo di compratori. Benché
schiavi e proletari hanno due storie diverse, soprattutto nel periodo di circa 380 anni che ci interessa,
le loro funzioni economiche nel mercato mondiale si sovrapponevano ed erano interdipendenti.
Entrambe producevano e consumavano poco del loro prodotto, facevano parte di un sistema unico.
Aumento forte del consumo dello zucchero tra 18° e 19° secolo. La tratta degli schiavi destinati alle
colonie britanniche terminò nel 1807. La schiavitù venne abolita tra 1834 e 1838. In entrambe le
questioni il futuro delle colonie dello zucchero figurava come problema importante. Il protezionismo
dello zucchero iniziò a ceder passo al libero scambio. L’industria della canna caraibica era stata
assorbita dal capitalismo europeo d’oltremare in espansione. Lo zucchero fu una delle forze
demografiche più possenti mai apparse nel corso della storia, oltre ai milioni di schiavi trapiantati al
nuovo mondo vi furono grosse migrazioni nel 19o secolo dovute all’importazione di mano d’opera
proletaria (che rimase sempre “di colore”). Lo zucchero continuò a fluire nelle metropoli mentre i
prodotti con cui veniva scambiato fluivano in direzione contraria verso le zone “arretrate”.
L’affermazione secondo cui la dipendenza economica delle zone “arretrate” dal primo mondo le
avrebbe sviluppate è vulnerabile. La maggior parte di esse si sono riuscite ad industrializzare solo
minimamente e continuano ad importare la maggioranza dei loro beni e spesso devono addirittura
aumentare le importazioni di cibo.

LA GLOBALIZZAZIONE E IL FUTURO DELLA DIFFERENZA CULTURALE -AMSELLE


L’OMOGENEIZZAZIONE DEL MONDO ATTUALE
La visione secondo cui il nostro pianeta sarebbe in via di omogeneizzazione sia economica che
culturale ci viene direttamente dai ricercatori americani che ritengono che il nostro mondo sia
sottoposto a un processo di globalizzazione.
La problematica della globalizzazione, che riprende in un certo modo quella marxista e
luxemburghiana del mercato mondiale e dell’imperialismo, a differenza di quest’ultima dottrina, ha la
facoltà di far scomparire la questione sociale, quella della lotta delle classi, nonché la questione
territoriale, per sostituirle con quelle delle guerre identitarie.
Per certi teorici americani, la globalizzazione economica, si tradurrebbe al contrario in un fiorire di
guerre identitarie di natura culturale e religiosa → questo è il senso dell’opera citata da Barber
sull’analisi della jihad come risposta alle imposizioni di modi di produzione e di consumo universali,
ma è anche la direzione presa da Huntington che prevede che i conflitti del XXI sec opporranno quelli
che chiama l’occidente e il resto, cioé la civiltà occidentale e la linea islamico-confuciana.
52
In entrambi i casi il ruolo decisivo dell’islam nella percezione che i politologi amerciani come Barber e
Huntington sviluppano a proposito dell’architettura del mondo contemporaneo.
Nel cupo quadro che tracciano del futuro del nostro pianeta, tralasciano i conflitti etnici e religiosi che
affliggono altre regioni del mondo, in particolare l’Africa. I conflitti del XXI sec sono concepiti
soprattutto in termini di crociate. Questi studiosi della globalizzazione si situano perfettamente nel
quadro della congiuntura apertasi alla fine della guerra fredda, simboleggiata dalla caduta del muro
di Berlino e che per alcuni sfocerebbe in un’autentica fine della storia → questa visione escatologica si
inscrive in uno spazio di riflessione dove non esistono più alternative al sistema economico esistente e
dove solamente gli effetti culturali, etnici o religiosi dell’uniformazione della produzione e del
consumo possono costituire oggetto di discussione.
Tutti concordano nel riconoscere l’evidenza della globalizzazione, ma ci sono voci discordanti sugli
effetti dell’omogeneizzazione del mondo. Alcuni come Barber vedono il futuro sotto forma di una
crescente frequenza di “scontri di culture”, altri mettono l’accento su una mescolanza crescente
delle culture o su una creolizzazione del mondo.

James Clifford sviluppa l’idea secondo la quale le diverse culture del pianeta sarebbero soggette a un
fenomeno di mobilità generalizzata, dando alle società contemporanee contorni essenzialmente
diasporici. Un’idea simile si trova in Hannerz e Glissant, i quali insistono sull’esistenza di un fenomeno
di creolizzazione del mondo. Quest’idea, mutuata dalla filosofia, dalla linguistica e dalla storia
naturale, mette sullo stesso piano i fenomeni di ibridazione del linguaggio e di incrocio culturale.
In Glissant, l’idea di creolizzazione del mondo, o più esattamente quella dell’esistenza di una società o
culture creole, è strettamente legata a preoccupazioni di ordine identitario. Per lui le culture creole o
composte sono legate a un quadro geografico preciso, quello delle Antille, regione del mondo dove la
polarizzazione può definirsi soltanto in relazione alla piantagione schiavista. In questo senso per lui
l’identità antillana prefigura la via intrapresa dalla totalità delle culture del pianeta e annuncia quindi
la creolizzazione del mondo.
A questo tipo di cultura, Glissant oppone le culture ataviche, cioé quelle che si sviluppano nel quadro
di una nazione statocentrica come la Francia o quelle che si definiscono in riferimento a un antenato
comune o mitico come molte società primitive.
Questa dicotomia, presenta l’inconveniente di razzializzare le altre società, in particolare quelle
africane. Definire le società primitive o esotiche in termini di atavismo, impedisce di riconoscere
fenomeni di mescolanza e di creolizzazione.
E’ partendo dall’esistenza di identità culturali distinte dette culture che si giunge alla concezione di
un mondo post coloniale o posteriore alla guerra fredda visto come entità ibrida. Per sfuggire all’idea
di mescolanza per omogeneizzazione bisogna invece postulare che ogni società è meticcia e che
quindi il meticciato è il prodotto di entità già mescolate, che rinviano all’infinito l’idea di purezza
originaria.

Globalizzazione = genera o accoglie una produzione differenziata delle culture.

I FALLIMENTI DELLA GLOBALIZZAZIONE


Questa genesi culturale si manifesta nell’obiettivo dei prodotti commercializzati dalle multinazionali.
Contrariamente all’idea di Barber sulla mcdonaldizzazione del mondo, questa azienda, non vende
ovunque gli stessi prodotti, ma modifica la sua offerta proponendo piatti adatti alla tradizione di ogni
paese.
Inoltre uno stesso prodotto, può divenire oggetto di una ricezione differente secondo il paese o lo
strato sociale in cui viene consumato.
Spesso attraverso il consumo di prodotti importati o l’importazione di idee straniere che si manifesta
più intensamente l'identità culturale/nazionale, cosicché l’aumento di scambi di ogni sorta su scala
mondiale, lungi dal provocare una omogeneizzazione totale delle diverse culture appare, come una
condizione della loro esistenza.
La teoria della globalizzazione, essendo di natura economica, elimina un po’ troppo rapidamente il
dominio di competenza sia degli stati nazionali sia degli organismi internazionali.

Nelle politiche liberali viene intimato allo stato di disimpegnarsi dalla vita economica e di delegare
una parte del suo potere alla società civile. Lasciando alle associazioni volontarie il compito di
sostituirlo, esso favorisce il sorgere del comunitarismo piuttosto che il consolidamento delle identità.

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Se esiste un legame tra liberismo e multiculturalismo, la globalizzazione economica del pianeta
dovrebbe tradursi, nel fiorire di tutta una gamma di identità siano esse di ordine etnico, culturale,
genere o esprimano la rivendicazione di qualsiasi differenza.

Il passaggio da una tematica di diritti individuali, in seno agli organismi internazionali, a quella del
riconoscimento dei diritti collettivi, in particolare dei popoli autoctoni, spinge gli attori sociali che si
sentono deprivati o esclusi a dare alle loro rivendicazione una forma collettiva e incoraggia l’emergere
di gruppi etnici.

Contrariamente all’idea di Barber secondo cui la mcdonaldizzazione genererebbe in modo


meccanico reazioni antiegemoniche o antisistema, la globalizzazione permette alle diverse culture di
esprimersi per mezzo dello stato. Ma il linguaggio internazionale del consumo costituisce anche un
vincolo maggiore per i diversi sistemi culturali : rappresenta in effetti il medium attraverso il quale essi
sono costretti ad esprimersi.

LA GLOBALIZZAZIONE E LA RICERCA SUL CAMPO


La teoria della globalizzazione viene oggi utilizzata da alcuni antropologi come Clifford, per trattare
la questione che sta al cuore dell’antropologia → lavoro sul campo. Piuttosto che concepire la ricerca
sul campo come l’esercizio di un bianco di sesso maschile su un terreno esotico, converrebbe
secondo alcuni di questi considerarla come una ricerca in rete che adotta i carattere essenzialmente
diasporici delle culture contemporanee. Sparirebbe in questo modo la distinzione tra il qui e l’altrove
che è alla base della dominazione che l’antropologia occidentale eserciterebbe sull’insieme delle altre
culture del pianeta. Per questi antropologi americani, i responsabili di tale situazione non sono le
barriere geografiche. Essi intendono anche far cadere le barriere sociali, etniche e culturali al fine di
incoraggiare l’accesso alla pratica dell’antropologia di tutte le minoranze che finora sono state tenute
fuori.

Questo progetto che mira a dare la parola a chi era prima oggetto di ricerca, si basa sul culturalismo,
che è uno dei fondamenti dell’antropologia americana. Questa antropologia però presenta 2 grossi
inconvenienti che sono :

1. questa visione multiculturalista dell’antropologia ha il torto di dimenticare che questa


disciplina ha come fondamento ultimo la Filosofia dei Lumi del XVIII sec, cioé una concezione
universalistica del sapere umano, e ne consegue l’utilizzo di categorie rigorosamente identiche
di un corpus di conoscenze comune. L’idea di un pluralismo antropologico (postmoderno) è
contraddittoria rispetto alla prospettiva comparatistica scientifica.bisogna postulare invece
che ogni società sia meticciata, prodotto di entità già mescolate che rinviano all’infinito ad un
idea di purezza originaria. Gli antropologi autoctoni ne sono consapevoli e non rivendicano
infatti uno sguardo diverso nelle proprie ricerche ma piuttosto riescono a catturare il
comportamento diverso che i conterranei hanno nei loro confronti; utilizzano gli stessi
schemi di pensiero. La multiculturalizzazione postmoderna della disciplina implicherebbe la
sua dissoluzione.

2. inoltre l’altro rimprovero, riguarda la contraddizione che sta al centro del loro ragionamento.
E’ possibile conciliare l’idea della decostruzione dell’antropologia basata sulla ricerca sul
campo come meccanismo di dominazione dell’occidente sul resto del pianeta, con la
riproduzione della distinzione tra società primitive e moderne implicitamente supposta dalla
teoria della globalizzazione ?

Se, come affermano gli antropologi postmoderni, la nostra epoca è radicalmente differente da tutte le
precedenti, è proprio perché è esistita una fase della storia dell’umanità in cui le società vivevano
chiuse su se stesse ed erano passibili dal metodo intensivo e localizzato : funzionalistico di
Malinowski. Dall’epoca in cui Malinowski conduceva le sue ricerche, era impossibile descrivere
trobriandesi senza ricollocarli nel quadro del contatto culturale e della presenza coloniale.

Per gli antropologi della globalizzazione, è come se la storia iniziasse solo con la colonizzazione,
rinviando la storia precoloniale alla pura contingenza dell'avvenimento.

L’APERTURA DELLE SOCIETA ESOTICHE

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I teorici della globalizzazione, che si ispirano alla teoria dell’economia-mondo, distinguono in modo
radicale la nostra epoca da tutte quelle precedenti, essi ammettono che anche le epoche passate
abbiano conosciuto fenomeni di interazione culturale tra società differenti.
Contrariamente al postulato implicito dei sostenitori della globalizzazione, che consente di riprodurre
la distinzione tra società primitive e quelle moderne, sosteniamo che non siano mai esistite società
chiuse.

Postulando che esistano società radicalmente altre, qualificate come primitive e vicine alle società
animali, l’antropologia è giunta a imporre l’idea del campo come luogo chiuso, come recinto di ricerca
ben delimitato.

La difficoltà di superare il metodo malinowskiano è dovuta in parte al fatto che i suoi discepoli hanno
attribuito alle caratteristiche dell’oggetto studiato le scelte di quest’ultimo. Per gli antropologi
africanisti formati da Malinowski, e per Nadel, il metodo funzionale corrispondeva al carattere insulare
dei trobriandesi e non a qualsiasi forzatura antropologica.
20 anni dopo Malinowski, Nadel si trova di fronte allo studio antropologico di una società complessa,
comprendente una pluralità di lingue ed etnie, le quali sono unite dalla religione.
La società che stava studiando che erano i nupe, avrebbe dovuto spingerlo ad abbandonare il
funzionalismo a favore di un altro metodo, ma i suoi legami sia istituzionali, con Malinowski, lo hanno
condotto a mettere in evidenza da un lato l’embricazione del regno nupe in insiemi più vasti e
dall’altro ad identificare il concetto di cultura tribale e di area culturale.

IL RITORNO DEL DIFFUSIONISMO


Mentre si può affermare che le idee malinowskiane sulla microinchiesta sul campo e
sull’osservazione partecipante abbiano acquisito diritto di cittadina, si assiste al ritorno se non del
diffusionismo, almeno dell’interesse che ci sarebbe a rivalutare questa dottrina.
Per certi antropologi, il mael strom della globalizzazione porta a interrogarsi sulle conseguenze della
vittoria del metodo malinowskiano sull'etnografia itinerante e sul deficit teorico che ne risulta.
Si tratta dell’approccio storico condannato dal maestro in quanto rientrante nel caso
dell’evoluzionismo, nella pura congettura, oppure giudicato impraticabile nell’analisi dei miti, da lui
definiti come carte finalizzate a legittimare l’ordine sociale.

Gli interrogativi sulla possibile fine dell’antropologia si trovano nei lavori di Clifford, Gupta e Ferguson
si basano sul doppio postulato di un mondo primitivo in via di scomparizione o totalmente scomparso
e quello di una contemporaneità globalizzante che costringerebbe l’antropologia a dividere il suo
dominio con altri specialisti del sociale.

Squalificare l’antropologia in nome della contemporaneità delle società esotiche, cioé della
scomparsa della loro tradizionalità, ratifica una concezione passatista della disciplina, quella che fa di
esse società del rifiuto. Il rinnovato interesse per il diffusionismo, che corrisponde all’idea del villaggio
globale, non è che un paravento dell’antropologia, destinato a eliminare la questione della situazione
delle società primitive prima del contatto UE.

La globalizzazione precoloniale assume la forma della lancinante questione che tormenta


l’antropologia africanista, e indirettamente l’antropologia in generale e che concerne non tanto sulla
storicità dell’Africa antica, quanto la sua capacità di apertura verso l’esterno. Da questo odv, il
carattere euristico dell’antropologia africanista è dovuto in gran parte al fatto che, dopo gli inizi
dell’esplorazione del continente, la riflessione sulle società africane è potuta venire solo in termini di
reti.
In questa prospettiva, sarebbe sempre presente, in contrasto con la prospettiva africanista, un
diffusionismo latente che assume una forma disincarnata in Griaule e nei suoi discepoli, ma che
possiede viceversa un radicamento storico con Delafosse e Goody.

Nuova non è tanto la globalizzazione o la storicità delle società primitive quanto piuttosto l’apertura
metodologica che da una decina di anni, ritrova un nuovo vigore sotto l’impatto congiunto dello
sviluppo della storia dell’antropologia e del postmodernismo.

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LA RILETTURA DELL’ANTROPOLOGIA BASATA SULLA RICERCA SUL CAMPO
Tutte le società hanno sempre comunicato, anche nel loro rifiuto di comunicare. Solo la creazione di
un luogo chiuso antropologico ha causato l’occultazione delle relazioni laterali delle società esotiche,
cosicché il compito principale che incombe sugli antropologi desiderosi di valutare l’impatto della
globalizzazione sulle società che studiano, consiste nel ricollocare queste ultime nel loro ambiente.

La società trobriandese, che più di tutte incarna il modello della società primitiva, è proprio quella
nella quale il commercio svolge un ruolo maggiore. Benché Malinowski affermi che il sistema di
scambi cerimoniali avvenga a circuito chiuso, altre informazioni mostrano che le reti di transazioni si
estendono fino agli alto piani della Nuova Guinea. La lettura da infatti la sensazione di trovarsi di
fronte a un sistema internazionale aperto.
In seno al reticolo di unità sociali, il kula appare come un agente politico che serve a ordinare una
serie di ranghi e di status. Malinowski aveva posto l’accento del kula sulla magia e la psicologia a
scapito della politica. Malinowski è giunto a caratterizzare il kula come un sistema di scambi
essenzialmente cerimoniali, e a squalificare la prospettiva del suo maestro Seligman che vedeva in
quegli scambi solo dei rapporti commerciali.

Allo stesso tempo, rinunciando all’etnografia itinerante a favore dell’osservazione sedentaria, si è


privato dei mezzi necessari per stabilire una geopolitica del kula.
Con il libro di Uberoi, che costituisce una rilettura dei materiali di Malinowski, si passa da una ricerca
magistrale che deve molto a Frazer a un’antropologia politica che s’ispira direttamente dei lavori di
Pritchard, Fortes e di Gluckman.
Il lavoro di Uberoi mostra come la rete internazionale del kula, che stende le sue ramificazioni fino in
Nuova guinea, sia una condizione indispensabile al mantenimento delle unità sociali trobriandesi.
Inoltre ci dice che questa società è di tipo segmentario, all’interno della quale le differenze di rango e
di status non hanno dato luogo alla nascita di una vera chefferie.
Grazie a questa reinterpretazione dei dati il sistema kula, può essere paragonato alle catene
commerciali e alle reti di soci di scambio che servivano alla società del bacino congolese per
importare prodotti e per dirigere gli schiavi verso il Golfo di Guinea.
Argonauts of Western Pacific è la 1°opera a dimostrare l’importanza dell’aspetto cerimoniale negli
scambi a lunga distanza, aspetto che sarà ripreso dall’antropologia di altre aree culturali e dalla storia.

Il sistema kula costituisce un fenomeno di globalizzazione primaria/parziale che testimonia il


carattere errato del concetto di autosussistenza applicato nelle società primitive.
Con Malinowski l’economia primitiva si apre e ingloba spazi considerevoli rimanendo comunque
rinchiusa in un cerchio. Con Uberoi, il kula diventa lo strumento di un sistema politico di grande
estensione nel quale i ranghi e gli status trobriandesi non sono altro che l’effetto della connessione di
quell’isola con la totalità della rete, mentre con Weiner il ruolo delle donne viene messo al primo
piano della riproduzione delle unità sociali trobriandesi.

Malinowski : il rifiuto della storia riguarda direttamente l’evoluzionismo e il diffusionismo e non quella
che oggi chiameremmo microstoria.

DISTENSIONE E IRRIGIDIMENTO DELLE IDENTITÀ


La mescolanza delle società, delle civiltà è una costante della storia universale e non piò spiegare il
carattere diasporico o itinerante delle culture contemporanee. Ma il paradosso della mondializzazione
attuale è che, lungi dal renderle identità fluide, essa le ricolloca e le irrigidisce al punto di far loro
assumere la forma di fondamentalismi etnici, nazionali e religiosi.
Allora, l’esistenza di zone tampone tra gli stati permettevano ai proscritti di un regno di rifugiarsi alla
periferia di tali trasformazioni politiche e di riorganizzarsi in piccole bande segmentarie suscettibili, in
periodi successivi, di lanciarsi nuovamente in una fase di ricostruzione statale. I dissidenti potevano
perciò rifarsi un’identità al riparo dai potenti da cui erano fuggiti.

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Ai giorni nostri questo fenomeno è ancora possibile. L’insieme del processo di ricomposizione politica
in corso nell’Africa centrale, testimonia la porosità delle frontiere di quel continente e manifesta una
certa continuità con il periodo precoloniale.

Se la modernità come sostiene la Arendt, si caratterizza soprattutto per l’esistenza di spazi statali
omogenei, strettamente delimitati e ostili, i quali generano in modo meccanico dei rifugiati, resta il
fatto che in Africa le popolazioni scacciate non sono condannate a restare eternamente fuori dal loro
paese.
Si è costretti a constatare, particolarmente in Europa occidentale, che è sempre più difficile negoziare
una qualunque identità a causa della trappola che blocca gli individui costringendoli a collocarsi nelle
categorie definite tanto dai fondamentalismi etnici o religiosi quanto dagli stati e dalle organizzazioni
internazionali.

La messa in atto di politiche di liberalizzazione su scala mondiale non si traduce affatto, come ci si
sarebbe potuti aspettare in un trionfo dell’individualismo, ma al contrario della proliferazione di
identità collettive.
Lo stato sociale incoraggia una serie di strutture la cui missione consiste nel gestire il sociale al suo
posto e che si appoggiano spesso a forme comunitarie.

Si assiste allora alla ritribalizzazione delle società contemporanee ?


La risposta è positiva, se si considera che questo fenomeno è in relazione con la globalizzazione e la
riduzione concomitante della sfera dell’intervento statale e non con una qualsiasi essenza della
società che ritornerrebbero allo stato naturale.

L’antropologia è sempre all’ascolto della modernità, della surmodernità o della globalizzazione e in


un certo senso tutti i fenomeni che studia sono gli anelli della stessa catena. Da questo pdv non esiste
nemmeno una rottura tra l’oggetto passato dell’antropologia e quello attuale.
La globalizzazione è sempre stato il vero oggetto dell’antropologia. Solamente la concezione di
Malinowski del campo come luogo chiuso ha portato certi antropologi a immaginare che l’oggetto
dell’antropologia fosse cambiato, cioé che fosse destinato a sparire del quadro della globalizzazione.
Più esattamente, piuttosto che la globalizzazione, è lo sguardo o meglio l’interrogazione sullo
sguardo del ricercatore sul suo terreno che sarebbe fondamentalmente nuovo.
La storicizzazione e la politicizzazione delle prime società esotiche studiate dagli antropologi
permettono di rinunciare all’illusione secondo la quale la situazione attuale di globalizzazione sarebbe
del tutto inedita. L’antropologia della globalizzazione fornisce in effetti una soluzione errata a una
questione mal posta, riproducendo i difetti delle nozioni di acculturazione e di situazione coloniale.
Ingigantendo i fenomeni attuali di trasformazione, essa rinvia implicitamente la nozione stessa di
società primitiva a un’età d’oro mai esistita.

8-DIVERSITA E RELATIVISMO
Origine accademica riconosciuta della disciplina → 2°metà del XIX secolo e riconducibile a studiosi
come Edward B.Tylor dall’origine di una certa sensibilità antropologica che permette di risalire fino
alla figura di Erodoto.

Tylor : andrebbe ricordato non solo per aver introdotto una definizione di cultura in senso
antropologico, ma anche per aver espresso la convinzione che la nascente antropologia potesse
fornire un contributo riformista all’umanità su un piano sociopolitico e culturale.

Erodoto : convinto che occorra dar conto, attraverso il viaggio e l’osservazione diretta , di ciò che oggi
definiremmo diversità culturale, giungendo ad un atteggiamento relativistico, secondo il quale le
manifestazioni culturali hanno validità e significato solo all’interno del contesto.
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“In che modo l’esito relativistico di una riflessione sulla diversità culturale può connettersi con lo
spirito riformatore auspicato da Tylor?” → per rispondere a questo : testo di Piasere che si apre con un
riconoscimento della figura del grande Protagora e si chiude con l’auspicio che l’Antropologia
culturale, il linguaggio scientifico sulla diversità culturale, possa contribuire affinché si diventi
protagonisti nella costruzione della società multiculturale a noi contemporanea.
Gli antropologi non studiano le identità, ma le relazioni, se è vero che queste sono immerse in contesti
culturalmente densi, è altrettanto vero che esse devono essere indagate anche tenendo conto dei
rapporti reali di potere. Le differenze culturali sono soggette a gerarchizzazioni ed è opportuno
tenerne conto cogliendo la molteplicità delle posizioni che caratterizzano un mondo abitato da
umani e non umani.
Se il relativismo viene pensato attraverso questa centralità della relazione e questa molteplicità delle
posizioni, allora è possibile cogliere tutta la forza riformista di un atteggiamento capace di valorizzare
la “verità della relatività” piuttosto che la “relatività del vero”.

LA NUOVA TURII -LEONARDO PIASERE


“PROTAGORISTI”
Condanna di Protagora, nel 411 a.C, avvenne durante la reazione postdemocratica di Atene che porta
al potere gli oligarchici.
Anni prima Protagora era stato amico e consulente di Pericle, che gli aveva affidato la stesura della
costituzione di Turii, una città che doveva riunire coloni provenienti da tante parti della Grecia.
Era una colonia panellenica, cioé pluriculturale, ed è quindi significativo che Pericle, uno dei padri
della democrazia occidentale, chiami proprio Protagora a redigere le fondamenta giuridiche.
Protagora propugnava una legislazione per Turii che oggi chiameremmo interculturale, che tenesse
in considerazione le leggi delle diverse città di provenienza dei nuovi coloni e alcune della Magna
Grecia.
In filosofia Protagora pare proponesse un relativismo percettivo, ma nella quotidianità praticava un
relativismo militante, cioè pragmatico e non ingenuo. Era un relativismo che considerava la
partecipazione politica dei singoli alla democrazia come un modo per raggiungere le virtù, era un
relativismo che per Turii, per la prima volta nella storia occidentale, prevedeva la scuola per tutti i figli
dei cittadini a spese della città : scuola pubblica.
Di fronte a chi preconizzerà che sono i filosofi coloro che devono guidare lo stato, e di fronte a chi
sancirà che esistono uomini per natura, uno come Protagora che predica che ogni uomo è misura di
tutte le cose e ha in sé la virtù politica e che per questo è degno d’ascolto, e che la stessa virtù politica
non deve essere appannaggio di pochi ma è insegnabile e quindi acquisibile, doveva sembrare un
pedagogo ben pericoloso.

L’accusa di incoerenza di una teoria relativista da parte di coloro che non lo sono è del tutto
incoerente, una teoria relativista sarebbe coerente solo se tutti gli uomini lo fossero.
Perché il problema dell’incoerenza del relativismo è lo stesso dell’incoerenza della democrazia : è
giusto ammettere alle elezioni un partito che predica la cancellazione della democrazia e l’avvento
del totalitarismo ?
● Se non lo si ammette, non si è democratici
● Se lo si ammette si rischia di perdere la democrazia, a opera di un partito antidemocratico
ammesso in nome della democrazia

Il relativismo diventa capro espiatorio di una lotta contro le nuove forme di democrazia da instaurare
nel nuovo villaggio globale, lotta a cui partecipano tutti i grandi poteri planetari oggi esistenti, in
campo religioso, in campo polito e in quello scientifico.
La lotta al relativismo serve a bloccare, la riflessione sul relativismo stesso, proprio ora che la richiesta
di relativismo aumenta per l’aumento della contrazione spaziotemporale dei rapporti umani.
Nei pamphlet in difesa del relativismo in generale e quelli scritti da antropologi in particolare, gli
autori rischiano di cadere nella trappola di restare invischiati in una lotta di trincea tesa a salvare
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quanto l’antropologia ha acquisito, senza però proporre nuove riflessioni su come sfruttare le ricche
incoerenze del relativismo, cioé su come avanzare sulla via della democrazia globale.
E’ stato difficile costruire le democrazie monoculturali, ma ora la nuova sfida è costruire democrazie
cosmopolite, cioé costruite anche sulla presa in considerazione dell’esistenza della lotta per le
identità.

A coloro che sostengono che il relativismo morale predica l’assenza di valori, risponde con le parole di
Kluckhohn, uno dei costruttori del concetto di relativismo culturale.

I DIRITTI DELL’UOMO E I DIRITTI DEI POPOLI


Il relativismo culturale nasce nell’antropologia moderna con Boas ed è divulgato nella sua scuola.
Kluckhohn usa l’espressione di relatività culturale, più che relativismo culturale, probabilmente
costruita analogicamente sulle teoria della relatività einsteiniana, sottolineando anche con il
riferimento al metodo comparativo, l’aspetto posizionale che la permea.
Il relativismo culturale balza sulla scena durante il dibattito che ha circondato la redazione della
Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, nel 1947 quando l’American Anthropological
Association pubblica, lo Statement on Human Rights.
Nel dibattito che seguì alla pubblicazione risorsero tutte le obiezioni già evidenziate da Platone e
Aristotele. Vi era l’appello degli antropologi americani a non tener conto solo dell’uomo como
individuo, ma anche dell’uomo in quanto membro di un gruppo sociale.
Nato come strumento di critica all’etnocentrismo occidentale, il relativismo culturale poteva
diventare un’ideologia in sintonia per il mantenimento dei rapporti di dominanza/sottomissione di
vario tipo.

La storia ha mostrato che una dichiarazione dei diritti dell’Uomo, per quanto universale, non può
trascendere dalla tensione insita nel fatto che un individuo vive sempre in un gruppo sociale.
La Arendt terminò il manoscritto Le origini del totalitarismo nel 1949, dopo meno di un anno
dall’adozione da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite della Dichiarazione Universale.
La Arendt diceva che l’Uomo astratto dei diritti umani è ciò che resta dell’Uomo occidentale una volta
denazionalizzato e gettato nella frustrazione.
Gli antropologi del 47 sottolineavano l’etnocentrismo e dicevano che l’Uomo dei diritti umani in realtà
era un uomo occidentale imposto a tutti gli altri.

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Poco dopo cominciarono a fiorire carte e dichiarazioni (prevalentemente non- occidentali) che
cercavano di smussare l’Uomo astratto inserendolo in contesti concreti. Queste tendono a
sottolineare l’importanza della preservazione delle identità, culture e valori tradizionali locali.
Tutto questo raggiunse il suo apice il 2/11/2001, quando a Parigi la Conferenza Generale dell’UNESCO
proclama la Dichiarazione universale sulla diversità culturale, la quale stabilisce che la diversità
culturale è il patrimonio comune dell’umanità e che il pluralismo culturale ne è la sua espressione
politica. La difesa della diversità diventa allora un imperativo etico, e ogni persona ha diritto a
un’educazione e a una formazione di qualità che rispettino pienamente la sua identità culturale.

Se l’antropologia culturale vuole essere il linguaggio scientifico della diversità culturale, allora gli
antropologi dovrebbero avere un dovere particolare a impegnarsi in questo cammino di
chiarificazione.

DIFFERENZA E GERARCHIA
Cirese ci ricorda che un’antropologia che studia le differenze senza tenere conto dei rapporti reali di
potere in cui sono immerse le differenze sarebbe un’antropologia che si autoamputa.
La Dichiarazione di Parigi proclama la tutela della diversità culturale, postula una diversità neutra,
tipica da Dichiarazione Universale. Ma l’affermazione di una differenza natura è impossibile da
realizzazione in un mondo sociale che spontaneamente gerarchizza la differenza scrive la Taobboni in
uno studio generale sull’ambivalenza del rapporto tra differenza e uguaglianza.
Sostiene che pensare la differenza senza connotarla in termini gerarchici è impossibile o non
pertinente, e se la questione della differenza è così esplosiva è perché essa si accompagna
costantemente a un’affermazione gerarchica, dal momento in cui gli uomini non possono pensare la
differenza senza associarle un giudizio di superiorità o inferiorità.
Se la differenza gerarchizza, se anche la presa in considerazione positiva delle differenze è
inseparabile da un sentimento di gerarchia, come sottolinea Dubet, la Tabboni si chiede come fare
per riconoscere la differenza neutra e metterla in relazione con il diritto di uguaglianza ?
I 2 approcci prevalenti sono :
● politica redistributiva → hanno come scopo l’abolizione delle diseguaglianze che sono la base
delle differenze
● politica del riconoscimento → scopo sottolineare e assicurare la loro sopravvivenza che sarebbe
eliminata da politiche di ridistribuzione veramente efficaci.
Questi 2 approcci seppur contraddittori, sono efficaci ai gruppi svantaggiati per rendere meno gravi le
situazioni peggiori di ingiustizia.
La Tabboni postula quindi che non vi è una soluzione al problema e che bisogna accettare la normale
ambivalenza tra uguaglianza e differenza.

PROSPETTIVISMO
Eduardo Viveiros de Castro → studi su multinaturalismo amerindiano. In molte culture
amazzoniche gli uomini e gli animali sono pensati condividere una stessa essenza umana rivestita da
corpi diversi. Gli esseri non umani, nonostante la loro apparenza, sono quindi persone, per cui quelli
che per noi sarebbero dei rapporti inter-specifici, tra specie, sono di fatto relazioni sociali.
Inoltre la traduzione della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo nelle cosmologie
amazzoniche suona come una Dichiarazione universale dei diritti degli esseri viventi, visto che tutti
hanno un’essenza umana.

In questa cosmologia diventano fondamentali gli sciamani, coloro che riuscendo ad attraversare i
confini ontologici, riescono a vedere i non umani come essi stessi si vedono, e grazie ai quali
sappiamo tutte queste cose, che possono essere portate come esempio di una cosmologia del
tutto relativista. In questo modo è stata interpretata da molti antropologi, ma de Castro non è
d’accordo. Il relativismo è quella teoria che sostiene la molteplicità di rappresentazioni circa un unico
mondo, ma non è questo quello che avviene in Amazzonia → quello li non è relativismo perché non
siamo in presenza di una molteplicità di rappresentazioni, ma di una molteplicità di mondi concepiti
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a partire da un pdv, cioé da un corpo : prospettivismo amerindiano. Il prospettivismo universalizza la
relatività posizionale.
de Castro costruisce il prospettivismo per inversione rispetto al relativismo, il primo sarebbe
caratteristico del multinaturalismo amerindiano, mentre il secondo del multiculturalismo occidentale,
il quale comporta una molteplicità di rappresentazioni soggettive parziali, e arriva a dire che il
prospettivismo non è un relativismo ma un relazionalismo.

Prospettivismo = forma di relativismo che si pome come “verità della relatività”, piuttosto che come
“relatività del vero”.
Abbiamo un’analogia con la teoria della relatività di Einstein, la quale, marcava la posizionalità della
relazione di 2 osservatori entrambi in moto l’uno rispetto all’altro. Ed è forse in analogia con essa che
gli antropologi americani hanno coniato l’espressione di relatività culturale, senza considerare 2
caratteristiche :
1. natura relazionale
2. problema della continuità
Nella concezione tyloriana di cultura che essi usavano, le culture erano viste come tante scatole con
confini posti che le separavano in modo netto le une dalle altre. Questa visione discontinuista
rispecchiava la visione a vestito d’Arlecchino che gli atlanti politici danno dei continenti, allo stesso
modo potevano essere pensate le culture del mondo.
A questa visione discontinuista della differenza culturale oggi si sta sostituendo una visione
continuista in cui le culture sono semmai pensate come sfumanti le une sulle altre, senza confini
precisi.
Il relativismo classico quello centrato solo sil soggetto, marcava la discontinuità e figurava i rapporti
tra le culture come dei ponti tra 2 entità separate : è da qui che nascono espressioni come
intercultura. Il prospettivismo è costitutivo di un approccio invece continuista.

De Castro ha mostrato come le ontologie nelle cosmologie amerindiane non si fondino sull’idea di
una essena, ma siamo pura relazionalità.
Kilani ha sottolineato da tempo che l’alterità, cioé, alla fine, l’ontologia culturale non rappresenta
un’essenza, una qualità intrinseca, posseduta da questa o quella popolazione.
Qualcosa di simile dice Hannerz, quando nota che, se negli USA ci sono 20.000 professioni ufficiali,
allora significa che ci sono 20.000 modi differenti di essere un non-specialista di una data professione
e che quindi ci sono 20.000 modi differenti di vedere.
Il prospettivismo non è solo amazzonico. Il concetto di relatività culturale, relazionale e prospettico,
che implica la costruzione di una storia delle alterità, può esserci utile per affrontare il
multiculturalismo della nuova Turii che si sta costruendo.

PROSPETTIVISMO A SCUOLA
Il dibattito sul pluralismo educativo nelle società multiculturali è sotto le luci, e nella letteratura
internazionale si coniuga con le sfaccettate posizioni sul multiculturalismo in generale. Il tentativo è
quello di far convivere più culture in una scuola nata per la perpetuazione di una cultura.
Il tentativo più avanzato è quello dell’interculturalismo pedagogico, che dice di proporre un
approccio dialogico contro la visione fissata delle culture, ma il suo approccio è a sua volta altrettanto
fissista, perché il dialogo che propone non arriva mai a ridiscutere 2 fenomeni fondamentali :
1. guscio dove dovrebbe svolgersi il dialogo = la scuola
2. principio di libertà di scelta culturale.

La forma-scuola dicono Vincent, Lahire e Thin, come la conosciamo è una costruzione sociale
apparsa in UE tra XVI e XVII secolo. Si configura come una forma inedita di relazione sociale tra un
maestro e uno scolaro → relazione che chiamiamo pedagogica.
E’ inedita perché :
- è distinta da altre relazioni sociali
- si autonomizza sempre di più. Questa autonomizzazione verso le altre relazioni spossessa i
gruppi sociali delle loro competenze e prerogative e questo ha suscitato una resistenza
popolare antiscolastica.

Il processo di autonomizzazione della relazione si accompagna a un processo parallelo di distinzione


spaziale con la nascita di un luogo ad hoc : scuola, che a sua volta crea un tempo ad hoc : il tempo di
scuola.

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Vi si impara l’obbedienza anche attraverso il disciplinamento dei saperi. La relazione pedagogica non
è più una relazione da persona a persona, ma una sottomissione del maestro e degli scolari a delle
regole impersonali.

Se la scuola riflette le tensioni della società che l’ha prodotta, quale educazione scolastica può
sopportare la nuova società multiculturale ? Quale potrebbe essere la proposta di un pluralismo
pedagogico prospettivistico ?
Oggi quasi nessuno stato è interamente omogeneo. I circa 200 paesi del mondo hanno al loro interno
qualcosa come 5.000 gruppi etnici. Gli stati devono trovare i modi per dare vita all’unità nazionale in
mezzo a questa diversità, perché non esiste contraddizione tra diversità e unità nazionale.
Le politiche multiculturali sono quelle che riconoscono ufficialmente le differenze culturali.
La forma-scuola, può divenire fondamentale per la costruzione dei nuovi Stati multiculturali e per la
costruzione della nuova democrazia multiculturale.
La nuova democrazia è quella forma politica che non teme e al limite favorisce la libertà individuale
tra espressioni culturali diverse, tra gruppi differenti, è quella forma di democrazia in cui una persona
può scegliere quale cosmologia abbracciare, perché l’identità ha in sé anche l’elemento di scelta.

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