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FAMILIARITÀ ED ESTRANEITÀ
Nel 1879 Cushing intraprese una ricerca nel nuovo Messico tra gli Zuni (indiani pueblo) e soggiornò lì quasi 5 anni.
Apprese informazioni circa coltivazione e irrigazione, allevamento, arte della ceramica, danze cerimoniali. Pubblicò
diversi saggi a riguardo dai quali apprendiamo non solo come gli Zuni es cuocevano il pane poiché egli poneva in risalto
l’importanza dell’ospitalità presso la tribù, spiegava come i nonni inculcassero già nei bambini i valori della pazienza, del
rispetto e del duro lavoro e l’importanza della pratica uxorilocale.
Nel 2000 la Zaloom si recò a Londra e intraprese una ricerca sulle negoziazioni di contratti futures. Nel 1998 aveva già
trascorso 6 mesi a Chicago. Lei capì che a rendere ansiosi i capitalisti era l’imminente avvento dell’era elettronica (infatti
a Londra non c’erano più i commessi come a Chicago, ma si utilizzavano computer). La compravendita dei futures
rappresenta una finestra aperta sul mondo dei mercati, sulla moralità e sui concetti di razionalità. La negoziazione
elettronica prometteva di creare un mercato veramente libero basato sulla razionalità di transazioni elettroniche
incorporee, di uscire dalla cultura rendendo l’uomo libero da pregiudizi (MA non si possono scambiare futures in una
zona senza cultura).

Sahlins nel 1972 pubblica “L’originaria società opulenta” in cui esponeva in dettaglio le ipotesi alla base delle moderne
concezioni occidentali di razionalità e comportamento economico. L’articolo riguardava i cacciatori-raccoglitori delle
foreste del Congo e dell’Australia che conducevano uno stile di vita nomade con pochi beni personali e nessuna cultura
materiale elaborata. L’assunto dei libri di testo era che quelle persone vivessero in estrema miseria, lottando per la
sopravvivenza. In realtà quelle persone avrebbero potuto lavorare di più MA non volevano, non avevano alcun impulso
di tipo borghese: avevano valori diversi dai nostri -> la povertà è uno status sociale e in quanto tale è un’invenzione
della civiltà. L’esistenza nomade dei cacciatori-raccoglitori dipende da questi elementi: condividere le risorse e
scoraggiare lo status sociale e l’accumulazione. Inoltre Sahlins pubblicò questo articolo negli anni in cui la capacità di
condurre uno stile di vita nomade si era ridotta: l’espansione coloniale aveva spesso portato all’appropriazione o alla
ridistribuzione delle terre da cui dipendeva l’esistenza di gruppi nomadi.

L’antropologia ha circa 160 anni: il Royal Anthropological Institute di Gran Bretagna e Irlanda fu costruito nel 1848; nel
1851 Morgan pubblicò “La lega degli Irochesi”; in Francia, la 1° cattedra di antropologia fu istituita nel 1855 ma gli
antropologi rivendicano come antenati figure più antiche come Michel de Montaigne (1500) e Erodoto.
Nell’antropologia si distinguono 2 aspetti fondamentali: l’importanza del lavoro sul campo; il principio del relativismo
culturale.

L’aspetto principale del lavoro sul campo è l’osservazione partecipe: lo studioso dovrebbe vivere con gli abitanti del
luogo, mangiare con loro, impararne la lingua e prendere parte al maggior numero possibile delle loro attività: infatti ciò
che si deve valutare è come pensano, agiscono e vivono le persone che si stanno studiando. Però un antropologo non
dovrebbe mai diventare il nativo che studia: questo potrebbe privare lo studioso di quella distanza critica indispensabile
a un’analisi accurata (es come stava per accadere a Cushing).

Il relativismo culturale è la modalità che contrassegna l’antropologia: è la consapevolezza critica del fatto che i nostri
termini di analisi, comprensione e giudizio non sono universali e non possono essere dati per scontati. Essa non ci
impone di accettare tutto ciò che gli altri fanno e che normalmente troveremmo ingiusto o sbagliato né richiede di
censurare i dati statistici MA aiuta gli antropologi a proteggersi dal pericolo di presumere che il loro senso comune o
delle conoscenze siano realtà ovvie o universalmente applicabili.

L’antropologia è stata spesso definita l’ancella del colonialismo e per alcuni aspetti essa assunse forme neocoloniali e
neoimperialiste. Eppure, i legami che gli antropologi seppero creare con i popoli che studiavano riuscirono spesso a
mettere in ombra i programmi coloniali e ad operare contro di essi: molti antropologi sono difensori delle comunità che
studiano, promuovono i diritti del gruppo, criticano i progetti di governi e ONG che risultano deleteri o
controproducenti.

Tylor si recò in Messico e il suo lavoro dedicato ai viaggi in America Latina è intitolato “Primitive culture” (1871).
Malinowski è considerato il fondatore dell’antropologia sociale britannica: egli diede veste istituzionale al lavoro sul
campo accompagnato dall’osservazione partecipe. Nel 1922 pubblicò “Argonauti del Pacifico occidentale” basato sui
suoi 2 anni di attività sul campo nelle isole Trobriand. Negli anni 20 e 30 alla London School of Economics preparò e
influenzò quasi tutte le grandi figure della generazione successiva (es Pritchard). Negli USA Franz Boas realizzò alla
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Columbia University ciò che Malinowski aveva fatto in Gran Bretagna ma per un periodo bel più lungo (1896-
1942)(considerato il fondatore dell’antropologia culturale americana)(tra i suoi allievi es la Mead e la Benedict).
L’obiettivo di questi antropologi era un’etnografia di salvataggio: registrare i modi di vita di popoli in via di estinzione, a
causa sia della loro distruzione fisica sia della loro assimilazione negli ingranaggi della modernità.

CULTURA
La cultura è un modo di vedere le cose, un modo di pensare (è ciò che impedisce anche solo di pensare che i grilli
possano classificarsi come cibo). La cultura è un insieme di cose e possiede un aspetto materiale che prende corpo e
vita (Engelke vomita il grillo perché il suo corpo è acculturato e nella sua cultura non si mangiano i grilli).

Avere un punto di vista, in quest’ottica, non vuol dire solo avere una certa opinione, ma ha un valore più globale che si
riflette in ciò che accettiamo come buon senso o come l’ordine corretto delle cose (es non pensare ai grilli come
possibile alimento). La figura più importante in questo ambito è Franz Boas: egli fu influenzato dall’opera di Humboldt
(che considerava il linguaggio e la cultura come fenomeni legati). La tesi discussa da Boas nel 1881 era intitolata
“Contributi alla conoscenza del colore dell’acqua”; nel 1883 egli partì per la terra di Baffin dove manifestò un interesse
maggiore per il popolo degli Inuit che per le acque polari. Egli individua 2 elementi fondamentali: l’importanza di
lavorare sul campo perché cultura e luogo sono 2 facce della stessa moneta; il valore primario della percezione, della
visione. A proposito, Boas introduce il concetto di “occhiali culturali”: è attraverso queste lenti che diamo al mondo un
senso e un ordine. Nell’interpretazione di Boas, la cultura riguarda il significato: la percezione ha a che fare con
l’ordinamento del mondo in base a un certo insieme di termini bel localizzati.

La personalità più influente dopo Boas in questo ambito fu Geertz: egli si riferiva alla cultura come un testo che gli
antropologi leggono guardando sopra le spalle dei nativi. È soprattutto la percezione a rivestire importanza, poiché ciò
che facciamo con tali testi è interpretarli. Geertz definiva semiotico il suo approccio alla cultura, sostenendo che
l’antropologia è una scienza interpretativa in cerca di significato. Per Geertz (= per Boas) se si voleva capire che cosa
significava una cultura ci si doveva concentrare prima di tutto sul particolare, non sul generale.

Poiché gli antropologi sono innanzitutto degli osservatori, sarebbe impossibile non considerare l’aspetto materiale di
una cultura. Gli esseri umani utilizzano la cultura materiale e altre cose per dare un senso complessivo ed espressione a
ciò che essi sono. Il carattere materiale della cultura consegue dal concetto di “occhiali culturali” (es non sentiremmo
che una sedia antica su una bancarella in Quebec esprime un valore nazionale a meno di non essere dei nativi del luogo
con un punto di vista ben preciso). Esistono altri modi in cui la concretezza della cultura assume importanza e uno di essi
è applicato in archeologia. L’attenzione degli archeologi verso la cultura materiale è utile per tracciare lo sviluppo delle
società umane e questo va al di là del riportare semplicemente alla luce delle cose: il punto è che la cultura stessa risulta
impossibile senza questa infrastruttura materiale -> sono le cose che contribuiscono a creare le condizioni in cui si rende
possibile il significato; quelle cose sono parte del complesso di creazione semantica.

Nella 1° teoria antropologica basata sulla cultura materiale esiste un altro importante filo conduttore: l’evoluzionismo
sociale. Esso ha rappresentato il 1° importante approccio metodologico dell’antropologia, ispirato alla teoria di Darwin
sull’evoluzione per selezione naturale: come Darwin aveva applicato questo metodo alla biologia, altri avrebbero potuto
applicarlo alla vita sociale. I popoli potevano essere compresi in base ad un albero della vita darwiniano non solo in
termini di fisiologia e anatomia, ma anche attraverso i sistemi di parentela, le forme di organizzazione politica e le
conquiste tecnologiche. La cultura, come la biologia, era da intendersi come soggetta a leggi precise e classificabile in
base a un sistema universalmente applicabile. Morgan, Spencer e Tylor furono sostenitori dell’evoluzionismo sociale
all’interno dell’antropologia dagli anni 60 del XIX secolo fino ai primi decenni del XX. Fu soprattutto Tylor ad applicare
alla cultura la maggior parte degli elementi teorici evoluzionisti, usando il concetto di evoluzione per descrivere le fasi
della cultura, cioè tappe che potevano essere classificate e conosciute secondo misure materiali. Nelle opere di questi
scienziati sociali (≠ Darwin) l’evoluzione assume una connotazione teleologica: alcuni popoli sono descritti non solo
come culturalmente più evoluti MA come migliori. Boas criticò l’evoluzionismo sociale che dagli anni 20 era stato
relegato ai margini dell’antropologia accademica.

Il 3° filo conduttore della teoria culturologica riguarda comprendere se siamo creature della natura o dell’educazione.
La biologia e la natura hanno quasi sempre avuto un ruolo di 2° piano nelle concezioni antropologiche della cultura.
Eppure non tutte le teorie della cultura sono così culturali come altre. La tradizione boasiana appare la più autorevole
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all’estremità dello spettro della cultura. All’interno di questa tradizione, la Benedict ha offerto una famosa
interpretazione: lei attacca il razzismo -> Boas e i suoi studenti erano attivi nella lotta contro il razzismo. In America,
come altrove, la disciplina antropologica era spesso parte integrante del tentativo di legittimare le differenze razziali su
base scientifica.

Il meno culturale di tutti i teorici, Levi-Strauss, era come Boas antirazzista. Egli è considerato il padre dell’antropologia
strutturalista ed aveva nei confronti della cultura un atteggiamento paradossale: da un lato, provava un intenso
interesse per la cultura e per i dettagli enciclopedici; dall’altro, il suo autentico interesse era rivolto alla struttura
universale della mente umana. Per lui la giusta unità di analisi non era il punto di vista dell’indigeno MA lo schema
mentale dell’indigeno: tale schema mentale era costante e universale. L’obiettivo primario era la scoperta
dell’architettura mentale che univa tra loro tutti i popoli. È la mente, piuttosto che il corpo, ad interessare negli ultimi
decenni i sostenitori più naturalistici della teoria della cultura: questo confluisce nell’antropologia cognitiva (punto di
intersezione tra strutturalismo, psicologia, linguistica e filosofia). Gli antropologi cognitivi sostengono il valore della
cultura esattamente come i loro predecessori.

Limiti della cultura: 1 -> è importante non prendere troppo alla lettera la connessione tra cultura e luogo. L’etimologia
della parola cultura rimanda alla lavorazione della terra; avere un proprio punto di vista significava avere un proprio
luogo, una propria collocazione; e anche Malinowski e Boas aveva insistito sul fatto che, per capire una cultura, si
doveva essere in quel preciso luogo che la ospitava. Il problema è che non è sempre facile capire dove finisce quel
preciso luogo e dove ne inizia un altro. Le culture stabiliscono tra loro almeno un contatto, prendono in prestito l’una
dall’altra, si infiltrano l’una nell’altra. La cultura, pertanto, non è legata ad un luogo. 2 -> la cultura non è fissa nel
tempo: le culture cambiano, benché gli antropologi non sempre abbiano saputo prenderne atto (ciò trova espressione
nell’epoca coloniale: es nell’immagine delle tribù Ndembu offertaci dai Turner manca ogni analisi di macrolivello
riguardante aspetti politici o cambiamenti). 3 -> coerenza culturale: tutto il flusso, i mutamenti e la frammentazione del
colonialismo e della globalizzazione lasciano intendere che la cultura rappresenti un tutto perfettamente ordinato.
Spesso in passato gli antropologi hanno offerto nei loro scritti generalizzazioni indiscriminate di ciò che le persone
appartenenti a una data cultura credevano, sentivano o pensavano. Tali illazioni e attribuzioni finirono per diventare
sempre più difficili da giustificare, a causa dell’impatto del colonialismo e della globalizzazione, ma anche perché si
presumeva che la cultura fosse un fenomeno assoluto e olistico. Tutti e 3 i filoni si legano al nodo dell’essenzialismo:
esso tende ad auspicare una certa immobilità delle cose, evocando stereotipi e perfino espliciti pregiudizi.

Negli anni 80 alcuni antropologi iniziarono ad abbandonare e rinnegare il concetto di cultura, spesso proprio a causa dei
diversi rischi connessi all’interpretazione essenzialista del termine. Bourdieu definisce il termine habitus come una
tendenza che si traduce in un sistema di schemi percettivi, di pensiero, di azione e progettazione nel contesto di una
struttura, ma che non è mai del tutto determinato da quella struttura: noi siamo plasmati dal mondo in cui viviamo, ma
non siamo sempre legati a consuetudini e abitudini. Non tutti gli antropologi che iniziarono ad avvertire un più esplicito
interesse per il potere o a scrivere sull’habitus smisero del tutto di fare riferimento alla cultura. Appadurai mise in
guardia dalla rigidità e dall’obiettività del concetto di cultura; Abulughod mostrò interesse per il rapporto tra forme
culturali e potere.

In Gran Bretagna gli autori degli “studi culturali” si domandavano in che modo fattori come razza, classe sociale, genere,
sessualità e gioventù plasmassero la società contemporanea occidentale, contrapponendosi alle esigenze e aspettative
dei detentori del potere e dei responsabili dei programmi politici. Qui salì alla ribalta Radcliffe-Brown il cui oggetti di
primario interesse era la società. Egli mostrò un chiaro disprezzo per il concetto di cultura, da lui definito una “vaga
astrazione”.

CIVILTÀ
Nel pensiero antropologico, cultura e civiltà erano strettamente legate: una non poteva esistere senza l’altra e per Tylor
i termini erano sinonimi. Essere civilizzati significa essere moralmente integri e i vittoriano erano fortemente interessati
a tutto ciò.

Tylor, Morgan e altri lavoravano in un’epoca segnata da Darwin e usavano il linguaggio dell’evoluzione applicandola al
mondo sociale così come essa era intesa nel mondo naturale. Tylor collocava vegetali ed esseri umani nella stessa
cornice. Per Tylor ed altri fisica, chimica, biologia e antropologia erano un insieme omogeneo.
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Una caratteristica della civiltà è il suo carattere comparativo: essa acquista davvero un senso se si hanno altre
condizioni di vita e punti di vista a cui contrapporla. Nel XIX secolo, i 2 concetti più significativi erano la barbarie e la
selvatichezza (greci, barbaros; latini sylva): questi 2 termini plasmarono il 1° approccio evolutivo agli studi sociali.
L’antropologo differenziava tra uomo selvaggio, barbaro e civilizzato. Morgan voleva determinare in quale delle 7 fasi si
collocava una società: la vita selvaggia e la barbarie possedevano ognuna delle fasi inferiori, mediane e superiori (es
fuoco, arco e freccia, fondere il ferro); la civiltà al contrario appariva uniforme (iniziata con alfabeto fonetico e scrittura).
Anche se loro non denigravano i popoli più primitivi, non davano molto spazio al concetto del buon selvaggio
(Rousseau).

Al centro di tale approccio vi era il principio dell’unità psichica dell’umanità. Secondo Tylor e Morgan le capacità
mentali del selvaggio erano le stesse del gentiluomo civilizzato; l’umanità secondo loro era costituita da un’unica razza
e, al centro di essa, vi era una sola mente. Questo principio era significativo perché offriva agli evoluzionisti sociali una
costante: così diveniva possibile costruire una storia e una preistoria dell’umanità attraverso il metodo comparativo.
Esso facilitava un approccio che poteva trovare fondamento in un’analisi quantificabile e basata su singole parti. Questo
principio consentiva anche di osservare i popoli primitivi osservando i quali si è in grado di prendere atto del nostro
primitivo passato.

Sotto un altro aspetto, però, l’evoluzionismo sociale si rivelava profondamente astorico. Tale storicismo era alla base del
malcontento di Boas. Egli criticava l’esistenza di leggi che governavano lo sviluppo sociale e culturale dell’umanità. Il
problema era che così si ignorava che tratti culturali e modelli di socialità sono spesso presi in prestito e adattati. La sua
critica era anche rivolta al fatto che l’evoluzionismo sociale aveva generato un approccio deduttivo (generale-
particolare).

Il principio aveva anche carattere progressista: il solo fatto di asserire che per un uomo di un popolo primitivo e un
gentiluomo londinese valeva la stessa unità psichica significava sfidare una logica di razzismo. L’impianto logico dei
vittoriani era giustificato da differenze non qualitative ma quantitative, imperniato sulla temporalità piuttosto che sulla
biologia: gli altri non erano creature del tutto diverse, ma erano ciò che noi eravamo stati in precedenza, e un giorno
sarebbero potuti diventare come noi.

La missione civilizzatrice è un aspetto onnipresente nella storia dell’era coloniale: uno degli studi che meglio ne coglie le
dinamiche appartiene a John e Jean Comaroff. Essi documentano il modo in cui nel XIX secolo la retorica del
cristianesimo, commercio e civiltà modellò l’incontro coloniale e la rappresentazione occidentale dell’Africa come il
continente nero. Loro si concentrano sui missionari anziché su funzionari coloniali o mercanti. Un elemento importante
è rappresentato dal modo in cui l’opera di civilizzazione andava intesa e realizzata sia rispetto a Dio, sia al mercato sia a
norme etiche. Buona parte di ciò che fecero i missionari nell’Africa coloniale andava ben oltre l’opera di
evangelizzazione in sé. Essere civilizzati significa anche concretizzare una società educata e attenersi ai suoi costumi. I
missionari si fecero spesso paladini della scienza, cercando di eliminare dalla realtà indigena tutto ciò che veniva inteso
come irrazionalità e superstizione.

Ciò che i 2 studiosi palesano è anche la straordinaria forza assunta dalla grammatica della civiltà, definita da loro come
colonizzazione della coscienza:con essa si intendeva il fatto che i sudditi dell’impero sottoposti all’opera di
evangelizzazione erano chiamati a prendere parte a una lunga conversazione in cui dovevano accettare come termini di
discussione quelli stabiliti dagli europei e dagli americani. (es gli Ese Ejja hanno interiorizzato la grammatica della civiltà
né possono ritenersi selvaggi: possono anche desiderare di essere civilizzati MA non vorrebbero essere bianchi boliviani
né vivere nelle città).

Nel 1993 Huntington pubblicò un articolo in cui esponeva la sua visione della futura politica mondiale: conclusasi la
Guerra Fredda la geopolitica non sarebbe più stata definita dalla lotta ideologica tra socialismo e capitalismo. Egli
definisce la civiltà come il più vasto raggruppamento di uomini e il più ampio livello di identità culturale che l’uomo
possa raggiungere dopo quello che distingue gli esseri umani dalle altre specie. Per lui la cultura è annidata all’interno
della civiltà (interpretazione ~ Tylor). Egli non parla di razze primitive né di selvaggi o barbari e sostiene che le civiltà
differiscono l’una dall’altra sia per elementi oggettivi comuni (es lingua, storia, religione) sia per il progetto soggettivo di
autoidentificazione dei popoli. Tali differenze costituiscono una fonte di pericolo (es per lo scontro tra Occidente e
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Islam e infatti 5 anni dopo la pubblicazione dell’articolo ci furono gli attacchi in Africa orientale orditi da Osama bin
Laden).

Ancora una volta in un conflitto una delle parti affermava la propria superiorità morale sull’altra (= antropologi
vittoriani, ci si accosta all’altro come fossero bloccati nel passato). Dietro gli errori conseguiti da ciò (es che gli USA
avrebbero vinto contro Afghanistan, Iran ecc) vi era l’idea che il potere di una potente civiltà avrà sempre la meglio su
ciò che può fare una società o un nemico meno sviluppato: tale fenomeno viene definito negazione della
contemporaneità e consiste nel negare che stiamo vivendo nella stessa epoca di qualcun altro.

L’evoluzionismo sociale però presenta anche aspetti meno duri: la parola modernità infatti potrebbe anche richiamare
piani di sviluppo e di pace. Dopo la 2GM alcuni antropologi furono coinvolti nell’elaborazione ed attuazione di una teoria
della modernizzazione (es Geertz tentò su basi socio-scientifiche di capire in che modo le ex colonie avrebbero potuto e
dovuto modernizzarsi). La modernizzazione di vecchia scuola presumeva un effetto a cascata: era sufficiente cooperare
con l’elite post coloniale del luogo e con le nuove istituzioni statali e i benefici si sarebbero diffusi anche ai contadini sui
gradini inferiori della scala sociale. In realtà molti di questi programmi sono falliti.

Per comprendere fino a che punto si siano oggi radicati la grammatica della civiltà e l’evoluzionismo sociale possiamo
prendere in considerazione un esperimento triennale lanciato nel 2008 dal quotidiano “The Guardian”. Il progetto aveva
la propria sede a Katine, un villaggio dell’Uganda settentrionale. Una delle caratteristiche distintive era la sua apertura al
grande pubblico durante lo svolgimento del progetto perché curava sul web una vasta raccolta di articoli, video ecc ->
archivio di materiali che rivela la complessità dell’opera di sviluppo e mostra sia i successi sia i fallimenti. Il progetto può
aiutarci a capire perché lo sviluppo sia al tempo stesso difficile e necessario. Molte persone però pensavano che gli
africani dell’Uganda fossero davvero intrappolati nel XIV secolo (negazione della contemporaneità). Questo ci impedisce
di vedere che questi uomini trascorrono la loro esistenza in un mondo appartenente al XXI secolo, modellato da
dinamiche economiche e politiche, coloniali e posto coloniali.

La parola civiltà è usata oggi in modi che spesso suggeriscono una superiorità sotto quasi tutti gli aspetti: tecnologico,
morale ed etico. David Wengrow afferma che una civiltà non è definita dai suoi confini (es Mesopotamia ed Egitto sono
entità separate) e questa distinzione è segnata in parte da una storia di importanti interazioni e scambi attraverso la
regione. Una civiltà è tale in virtù della qualità dei suoi rapporti con l’esterno. Egli vuole anche distogliere l’attenzione
degli studi sulla civiltà dall’elemento monumentale e spettacolare (es piramidi) a quello meno appariscente e
quotidiano (es cucina).

Ciò che abbiamo visto negli ultimi 6000 e più anni di storia dell’umanità non è un’evoluzione sociale ma è cambiamento
(in alcuni casi, sviluppo). Definire tale cambiamento come evoluzione sociale però significa distorcere il meccanismo
della cultura.

VALORI
In termini di cultura, quando gli antropologi scrivono su un popolo tutto si riduce all’analisi dei valori: ospitalità,
successo o uguaglianza. In effetti, gli antropologi hanno spesso usato i valori per spiegare i tipi o i generi delle culture
studiate. Tendiamo a pensare ai valori come a elementi duraturi, fissi ed evidenti; in realtà possono risultare creativi e
flessibili. Nella maggior parte dei casi, però, i valori non sono l’obiettivo esplicito di una ricerca MA ci sono 2 eccezioni:
1° un corpus di opere sui popoli e le culture del Mediterraneo che esploravano i valori di onore e vergogna; 2° il
progetto dell’antropologo francese Louis Dumont.

Alla fine degli anni 50 alcuni antropologi notarono che le persone che essi studiavano (del Mediterraneo) sembravano
organizzare la propria vita attorni ai valori di onore e vergogna. Soprattutto gli uomini, sembrano quasi esclusivamente
preoccupati di promuovere e proteggere il loro onore (individuale, della famiglia, del gruppo); in molti casi, i problemi
sono innescati da minacce subite o trasgressioni compiute dalle donne. Loro scoprirono anche delle comunità in cui la
vita sociale sembrava ruotare attorno a una serie di atteggiamenti e norme contraddittorie (es ospitali ma sospettosi;
devoti e fedeli MA virili e maschilisti). Alla fine degli anni 80 i rischi politici ed etici di false rappresentazioni
contribuirono a far sì che gli studi abbandonassero il tema dell’onore e della vergogna. Esso però serve come una
dimostrazione del modo in cui bilanciare affermazioni generali con risultati particolari e come essere sinceri e precisi nei
confronti delle persone oggetto di studio.
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Il vero momento fondamentale per questi studi si ebbe nel 1959 quando un gruppo di antropologi si riunì in Austria per
discutere di ciò che avrebbe potuto unire i loro progetti apparentemente così disparati. L’organizzatore Peristiany era
convinto dell’esistenza di un filo conduttore: l’assillo dell’onore e della vergogna era immancabilmente in cima ai
pensieri della gente. Questi valori erano elementi costitutivi del modo di pensare mediterraneo. Pitt-Rivers fa l’esempio
di gangster e aristocratici, entrambi al di là della legge: i 1° al di sopra, i 2° al di fuori. Il potere relativo dello Stato è stato
spesso considerato un fattore chiave della forza acquisita da una cultura dell’onore: più forte è lo Stato, minore è
l’importanza acquisita dall’onore come valore fondamentale. Tra i paesi del Mediterraneo c’era la tendenza ad avere
degli Stati deboli. L’autorità lì risiedeva soprattutto nella forza dell’unità familiare: le esibizioni di potere avvenivano
nelle singole persone e attraverso di esse. Egli inoltre intendeva sottolineare il legame esistente tra l’onore e il corpo
fisico: è tale legame a fare della violenza un mezzo così importante di riparazione o vendetta per chi si è sentito
disonorato.

Onore e vergogna però talvolta hanno anche dinamiche contraddittorie, es i modo in cui un certo valore può portare a
richieste paradossali o addirittura travalicare nel suo esatto contrario (es una donna passa davanti ad un uomo
ignorandolo e lui si sente disonorato MA al tempo stesso forte perché sa che, se non fosse sposato, potrebbe fare in
modo che quella donna lo desideri). Le culture dell’onore spesso tollerano alti livelli di vanteria: è un modo di affermare
e difendere la propria reputazione. A questo punto la linea tra onore e vergogna diventa davvero molto sottile. Pitt-
Rivers inoltre ci dimostra che i valori che più contano risutano stabili ma al tempo stesso flessibili.

Jane Schndeider si chiede perché si riscontri una continuità di questi valori nell’area del Mediterraneo e risponde
prendendo in causa l’ecologia. Le culture dell’onore tendono a svilupparsi tra i pastori che nel corso del tempo si sono
sentiti minacciati dall’influenza degli agricoltori e hanno quindi affrontato vari tipi di insicurezza rispetto all’accesso alle
risorse e che vivevano in luoghi e tempi in cui risultava assente o debole un’autorità politica centrale. Il pastore conduce
una vita dura che richiede spostamenti (che possono anche non essere sicuri), che incoraggia una organizzazione sociale
flessibile: l’unità base è il nucleo familiare che può espandersi o contrarsi a seconda delle risorse disponibili.
Un’esistenza transumante o nomade inoltre richiede anche una buona dose di autonomia politica ed economica. Nel
Mediterraneo le comunità agricole erano organizzate come quelle dei pastori (ipotesi che esse fossero inizialmente
formate da pastori). Il problema era che questo modo di vita mal si adattava alla realtà degli uliveti soprattutto per la
consuetudine dell’eredità divisibile: dividere terreni agricoli creando dispute tra fratelli circa i confini dei terreni,
l’accesso ai pozzi ecc. Eppure queste comunità non vanno in pezzi perché le società di questo genere possiedono codici
di onore e vergogna molto forti in grado di regolare le tensioni e i rischi di scisma e dissoluzione.

Lei si chiede perché i valori cardine siano proprio onore e vergogna e Herzfeld ci offre una risposta. Nell’area del
Mediterraneo non esiste nulla che possa definirsi una cultura dell’onore e della vergogna, a meno che non si prenda
l’onore come un termine quasi vuoto di significato. Egli compie quindi un passo ulteriore rispetto a Pitt-Rivers: dove
però quest’ultimo aveva considerato virtuoso il fatto di riconoscere l’ambiguità e la fluidità dell’onore e della vergogna
come idee, Herzfeld vi scorgeva un vizio, quello della generalizzazione (es 2 comunità della Grecia, Pefki e Glendi -> in
entrambe la filotimia rivestiva un’importanza determinante MA le loro leggi e le loro culture erano differenti. Gli abitanti
di Pefki erano cittadini sobri e rispettosi della legge, quelli di Glendi avevano invece fatto una virtù delle loro azioni
illegali).

Negli studi sull’area del Mediterraneo degli anni 80 si passa dallo sforzo di pensare ad un’area culturale definita da un
certo insieme di valori, ad un’analisi volta a dimostrare l’espressione di valori diversi anche all’interno di una
determinata tradizione o gruppo linguistico. In questo momento si presta maggiore attenzione anche alle
caratteristiche di genere delle analisi e dell’etnografia (es negli studi precedenti si diceva che fossero i maschi a
detenere e accumulare onore; ora Abu-Lughod dice che l’onore è un elemento centrale anche per le donne).
L’approccio alla cultura dell’onore si perse alla fine degli anni 80 per via degli stereotipi problematici che esso generava
e anche a causa di un cambiamento più generale nelle ambizioni e nei programmi di molti antropologi.

Però questo approccio viene poi ripreso in un saggio sulla politica domestica in Giordania: negli anni 90 Shyrock che la
politica domestica definiva la sensibilità morale della gente con cui entrava in contatto. Lì è attuata una forte politica
familiare, evidente perché le relazioni sociali e politiche vengono inquadrate in termini di famiglia. Il problema però non
è la politica familiare o un codice d’onore, MA l’incapacità di valutarne correttamente la logica, la forza e la pertinenza
come qualunque altra cosa che non rispetti gli standard euro americani.
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La terza causa che portò ad un riaccostamento alla cultura dell’onore è che nessun esempio di questa letteratura ha mai
beneficiato di una struttura sistematica. Nessuno di questi antropologi ha mai teorizzato i valori di per sé, nessuno degli
autori del saggio sul Mediterraneo ci ricorda ciò che un attento esame dei valori può dirci sulla natura di una cultura o di
una società: per Pitt-Rivers i valori avevano un ruolo funzionale nel mantenimento di una cultura; per Schneider i valori
son un indice di tutti i vari fattori ecologici, economici e politici che influenzano il corso della vita di un gruppo sociale.
Questo lavoro sul Mediterraneo quindi non ci fornisce ancora una teoria dei valori.

Nello periodo dei lavori sul Mediterraneo era in corso un tentativo più sistematico di teorizzare i valori guidato da Louis
Dumont. Egli è noto soprattutto per un libro pubblicato nel 1966 sul sistema delle caste in India che lui definisce come
un sistema di idee e valori. In molte lingue la parola casta significa razza: esistono migliaia di caste e non è possibile
spostarsi da una all’altra; esse sono solitamente legate ad un’occupazione o ad un’abilità tradizionali. Dumont rivolse il
proprio interesse ai valori del sistema (era uno strutturalista). Il suo interesse si rivolgeva alle caste in quanto insieme di
valori che sono un atteggiamento della mente, un’ideologia e delle idee. Tali valori hanno una valenza sociale e la
società è presente nella mente di ogni uomo. La gerarchia è uno dei valori di tale sistema, così come la purezza.
L’interesse di Dumont per la gerarchia si manifestava a 2 livelli e ad attirare la sua attenzione era il livello più alto, cioè
quello della vita di tutti i giorni. Per lui la gerarchia non dovrebbe essere confusa con la stratificazione sociale: infatti a
livello strutturale ogni sistema di valori è gerarchico. La gerarchia è il principio in base al quale agli elementi di un tutto
viene assegnato un posto in rapporto a quel tutto.

Il suo programma era in realtà quello di confrontare i valori occidentali con quelli non occidentali. Nella sua trattazione
sui valori occidentali, egli considera l’individualismo il valore cardine dell’Occidente. Esso è parte di una gerarchia
essendogli attribuito più valore che a qualsiasi altra cosa nella gerarchia delle idee. In Occidente la libertà è prerequisito
essenziale per l’individualità (per questo gli occidentali trovano ingiusto il sistema delle caste: esso non consente scelte
libere, mobilità sociale né l’autorealizzazione dell’individuo). In America si dice che la libertà è ciò per cui dovremmo
morire: l’imperativo categorico della libertà però appare segnato da 2 conseguenze paradossali -> esso significa che
dobbiamo essere liberi il che non è una scelta libera; e significa che siamo tutti uguali.

Dumont afferma che tutte le società possiedono dei valori dominanti che avvolgono quelli minori o inferiori (gerarchia
di valori). Egli afferma che in India il valore fondamentale è l’olismo: ciò che conta non è mai una singola parte MA il
tutto composto di parti complementari. Egli si riferisce spesso ai sistemi di valori in termini di livelli: in un sistema come
quello delle caste, ciò significa che in determinati contesti le relazioni sociali si possono invertire o modificare (es i
bramini sono più importanti del re a livello religioso ma in termini di potere politico loro sono sottomessi al re; saranno
però sempre considerati superiori in virtù della loro purezza spirituale -> il valore della purezza avvolge quindi i valori
della forza politica o del successo economico).

Un’altra differenza tra mondo occidentale ed orientale, secondo Dumont, riguarda l’essere moderni o meno: ad
esempio il percorso dell’individualismo occidentale emerge dalla storia europea, soprattutto attraverso le sue correnti
religiose (cristiane) ed economiche (capitaliste).

VALORE
Nel 1983 nel villaggio di Mashai in Lesotho morì il 40% del bestiame a causa della siccità quindi agli abitanti fu
consigliato di vendere le proprie mandrie ma addirittura le vendite di bestiame subirono un calo perché lì il bestiame è
la cosa più importante (non volevano venderlo quindi). Ferguson stava concludendo ricerche sul campo lì e introdusse
l’espressione “mistica del bestiame”: essa a che fare sia con il modo in cui il bestiame influisce sui rapporti sociali e
familiari sia con il bestiame in sé. I bovini sono preziosi perché: 1 per gli uomini di una certa età che lavoravano come
emigranti nelle miniere sudafricane la proprietà del bestiame a casa fungeva da memento della loro autorità; 2 il
bestiame era fondamentale per la creazione e il mantenimento di relazioni sociali (es ricchezza della sposa per cui la
famiglia dello sposo cedeva parte del bestiame alla famiglia della donna); 3 il bestiame rappresentava una sorta di fondo
pensionistico; 4 anche se il bestiame faceva parte della ricchezza complessiva della famiglia, erano gli uomini ad avere
l’ultima parola in merito all’uso e al destino degli animali.

La mistica del bestiame è di genere e favorisce soprattutto gli interessi degli uomini; essa inoltre risulta parte integrante
del moderno mondo dell’economia del lavoro salariato, organizzato attorno a merci scambiate a livello globale. La
mistica del bestiame ci consente di apprezzare la stretta connessione tra i valori ed il valore (in senso economico). Certe
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cose non possono essere ridotte a merci da comprare e vendere. Nel caso del bestiame in Lesotho, il fatto di scambiare i
propri animali per denaro è ciò che manderebbe in rovina il tessuto delle relazioni sociali: la ricchezza sociale fornita dal
bestiame è molto più preziosa della ricchezza economica che una vendita potrebbe produrre.

Uno dei casi più famosi di apparente ostentazione costituisce il nucleo del lavoro svolto da Malinowski nelle isole
Trobriand. Esso riguarda lo scambio di collane di conchiglie rosse e braccialetti di conchiglie bianche. Il kula è una forma
di scambio il cui obiettivo principale è di scambiare articoli che non hanno un’utilità pratica, hanno una qualità scadente
e non vengono mai indossati. Le collane e i braccialetti circolano lungo l’anello in direzioni opposte: le 1° si muovono in
senso orario, i 2° in senso antiorario. Lo scambio è avvolto in una atmosfera cerimoniale e formale con la regola che esso
non deve avvenire contemporaneamente: l’oggetto quindi non è scambiato ma donato -> un ricevente non metterà mai
in discussione l’equivalenza di valore di ciò che ottiene in cambio; inoltre ad effettuare lo scambio sono solo gli uomini.
Questi oggetti quindi possiedono molto valore sentimentale MA nessun valore d’uso/di scambio.

Malinowski afferma che lo scambio del kula era effettuato per soddisfare un desiderio profondo di possesso (possedere
è donare). Tale scambio ciclico stabilisce importanti legami sociali tra uomini di isole e comunità diverse: un braccialetto
kula non è un oggetto pratico ma al momento buono anche i legami sociali e la reputazione possono rivelarsi utili.

Ci si chiede se gli esseri umani siano davvero altruisti o facciano tutto per interesse personale: questa domanda acquista
rilevanza nel mondo contemporaneo, in cui il mercato regna sovrano. L’economista Friedman afferma che l’interesse
personale è ciò che muove il mondo: per un sostenitore del libero mercato come lui, la questione dell’interesse
personale contrapposto all’altruismo ha come risposta il fatto che essi sono in realtà a stessa cosa. Marcel Mauss
pubblicò il saggio “The gift”: attingendo ad una serie di studi etnografici (tra cui quelli di Malinowski) egli concludeva che
la formulazione stessa del problema (l’interesse personale contrapposto all’altruismo) era sbagliata. Il punto non è come
le persone calcolino realmente i processi di scambio e le relazioni sociali che essi creano; la tesi centrale è che nessun
regalo è gratis, ma ci aspettiamo sempre un qualche ritorno che è obbligatorio. Tutti gli scambi possiedono in sé
qualcosa di interessato e disinteressato: ciò che Mauss vuole enucleare dalla categoria de dono è un modello di
economia e società basato sul riconoscimento di legami che generano un impegno. Nella sua essenza, egli afferma, lo
scambio dovrebbe sempre riguardare la solidarietà, il legame tra esseri umani. Egli analizza il termine maori “hau”
(spirito del dono): i Maori vedono in qualsiasi oggetti donato qualcosa della persona che dona -> regalare qualcosa a
qualcuno equivale a regalare qualcosa di se stessi, per questo motivo ci sentiamo obbligati a ricambiare un dono. “Il
saggio sul dono” racchiude una critica al meccanismo del moderno sistema capitalista MA l’autore non ritiene che la
causa sia persa perché non tutto è ancora esclusivamente classificato in termini di acquisto e vendita.

Esiste un interesse antropologico di lunga data nei confronti del denaro: una delle osservazioni è quanto esso possa
alterare le relazioni sociali. In molti casi la ragione è che il denaro rappresenta un mezzo impersonale di scambi e
transazioni: i soldi sono privi di spirito, di hau. Altre caratteristiche del denaro hanno la loro importanza rispetto a come
esso riesce a strutturare gli scambi e le relazioni sociali. Il denaro ha un valore nominale (“prezzo”) che è
universalmente applicabile MA può mettere a rischio la sopravvivenza di una determinata cultura perché questo mezzo
di scambio e unità di valore minaccia di cancellare ciò che è distintivo di un particolare stile di vita.

Altri studi riguardano il suo valore simbolico e le sue associazioni culturali. Le monete hanno un recto e un verso: il recto
(testa) reca la testa di qualcuno; l’effigie è un simbolo del valore della moneta e contrassegna l’autorità che l’ha emessa.
Il recto della moneta ha però sempre meno importanza perché si dimentica spesso il lato delle cose connesso alle
relazioni sociali. Sul piano simbolico, inoltre, quelle personalità non rappresentano solo la grandezza della nazione, ma
soprattutto il fatto che banconote e monete possiedono un dato valore unicamente perché tutti confidano che quella
autorità promette di pagare a vista il portatore: il denaro quindi è un indice dei rapporti umani costruiti sulla fiducia.

Altre forme del moderno commercio di beni inoltre tentano di rimuovere la persona (es scambi di futures alla Borsa di
Chicago e Londra: computer): oggi in effetti alcuni investitori usano il commercio algoritmico e tali cambiamenti
rispondono ad una logica secondo cui per avere successo negli affari bisogna avere gelida determinazione e sangue
freddo. Il personale e l’impersonale però sono difficili da separare nella pratica e il denaro aggrava questo tentativo di
separare la vita sociale in 2 sfere distinte.
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Alcuni uomini dello Zimbabwe hanno affermato di non essere ancora sposati perché la propria famiglia non disponeva
delle risorse per far fronte ai costi della ricchezza della sposa. Nel corso degli anni 90 si è verificata una crescita delle
aspettative: il bestiame non bastava più (denaro contante, telefoni, auto ecc) -> tutto ciò poteva creare irritazione e
disapprovazione. Il lobola però non veniva mai pagato per intero: una famiglia poteva anche fissare un prezzo ma non si
aspettava che venisse interamente pagato, anzi neppure lo avrebbe voluto -> se il prezzo veniva assolutamente
rispettato, la cosa era considerata segno di ostilità o disprezzo. Questo perché nell’Africa sub sahariana i debiti possono
avere una valenza sociale positiva. È una sfida alla mistica del bestiame: il particolare valore del bestiame viene eclissato
dall’ascesa di una cultura dei beni materiali e dalla monetizzazione della vita: es la Jeske, antropologa che studia gli
Zulu, spiega che le automobili stanno iniziando a creare una loro mistica MA segnala la resilienza del bestiame in alcuni
ambiti -> le automobili non rivestono un’importanza di primo piano negli eventi esistenziali più significativi come il
matrimonio perché le macchine sono beni legati al denaro, non a processi sociali riconosciuti a cui partecipano le
famiglie e la comunità.

Si pensava che l’abolizione del regie di apartheid avrebbe aperto nuove opportunità economiche per i sudafricani MA
non è emersa alcuna significativa classe sociale: quanti hanno dato la scalata al successo, inoltre, hanno accumulato
spesso debiti considerevoli con banche e micro finanziatori e anche la ricchezza della sposa ha risentito di tali
dinamiche. La James afferma che in termini di ricchezza della sposa le difficili condizioni economiche e il declino
dell’economia del dono hanno creato incertezza riguardo alla scalata sociale in diversi professionisti e aspiranti borghesi.
Le famiglie spesso insistono ancora che la ricchezza della sposa venga pagata come parte di un accordo matrimoniale, il
che per i giovani uomini significa contrarre prestiti per onorare l’impegno MA questa difficoltà riguarda anche alcune
donne che non vogliono sposarsi con un uomo già indebitato.

Secondo Graeber il debito si è rivelato utile per illustrare il nesso tra i nostri affari economici e la vita morale. Egli
pubblica “Debito: i primi 5000 anni” in cui evidenzia che il fatto di considerare ogni scambio in termini di reciprocità
equivale ad avere una visione impoverita delle relazioni sociali umane. Ciò accade quando la reciprocità è totale e
conclusiva. In molti casi tuttavia uno scambio così completo e definitivo non è né garantito né desiderato: esistono
innumerevoli tipi di scambio in cui ciò che desideriamo è creare o incoraggiare una relazione e una connessione sociale
(es questi spiega perché i debiti legati alla ricchezza della sposa non vengano mai interamente riscattati e perché
vengano spesso tradotti in termini di bestiame e non di denaro contante: i contanti risolvono il debito senza alcuna
ambiguità, sono troppo precisi e impersonali).

SANGUE
Per il progetto antropologico il concetto di sangue da un lato fornisce un insieme di denominatori comuni, forse anche
universali, rammentandoci per sempre di che cosa è costituito l’essere umano; dall’altro questi stessi elementi in
comune possono indurci in un rischioso autocompiacimento. Nel 1871 Morgan pubblicò “Sistemi di consanguineità e
affinità della famiglia umana” (testo fondamentale degli studi sulla parentela con un’impostazione di evoluzionismo
sociale): esso forniva un modello per capire la consanguineità come sistema di idee. Nel suo approccio alla parentela, il
sangue occupa il 1° posto ed egli definisce la famiglia come una comunità basata sul sangue.

Negli anni 60 Schneider (critico di Morgan) pubblicò “Consanguineità americana: un resoconto culturale” in cui tentò d
smontare le tesi di Morgan. Gli americani considerano i rapporti di sangue fondamentali e duraturi (nonni, zii e cugini) e
pongono in evidenza anche il legame tra sangue e geni (“ce l’ha nel sangue”). In America i rapporti di parentela non
sono limitati ai rapporti di sangue ma si creano anche attraverso il matrimonio, però i vincoli nati da un’unione
matrimoniale appaiono soggettivi e dissolubili, mentre i rapporti di sangue non lo sono. Il sangue è la forma primaria di
identità ed è in base ad esso che ogni altro rapporto rientra in una determinata categoria. Oggi però esistono metodi
come la fecondazione in vitro, la maternità surrogata e il matrimonio tra individui dello stesso sesso che sono esempi di
come le distinzioni tra natura e cultura siano in eterno mutamento.

Nell’esposizione di Schneider risulta assente l’argomento razziale: dalla sua analisi traspare la difficoltà di fornire un
resoconto culturale separato da situazioni e rapporti sociali e dalle vite dei singoli individui; la fonte principale dei dati
era infatti costituita da interviste a persone della classe media bianca ma tra le sue altre fonti erano inclusi anche
materiali su afroamericani e altri gruppi minoritari. La Stack parla di una comunità di afroamericani chiamata the Flats:
nella sua analisi lei mostra che i legami di sangue che Schneider vede come fondamentali non vengono considerati tali
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dai Flats; al tempo stesso le famiglie dei Flats sanno che il loro sistema di relazioni non è riconosciuto dallo Stato che
aderisce al modello di Schneider.

La razza è un’assurdità scientifica MA se accettiamo alcune distinzioni (es razza bianca, cinese ecc) esse sono
certamente culturali. Alcuni Stati americani hanno usato il criterio di “una sola goccia di sangue” (se hai anche 1 sola
goccia di sangue africano allora sei nero) come base di una legislazione volta a sostenere una certa idea di purezza
razziale. Però, ad esempio, il Racial Integrity Act dello Stato del Virginia fu dichiarato incostituzionale nel 1967. Dalla
metà del XX secolo, molte nazioni di nativi americani hanno incorporato le leggi sul sangue indiano nelle rispettive
costituzioni tribali (es tribù Washoe del Nevada e del Canada: l’appartenenza alla tribù era legata ad avere ameno ¼ di
sangue Washoe). Tali leggi rappresentano un’arma a doppio taglio: da un lato esse aiutano a garantire l’accesso alle
risorse e ai riconoscimenti federali; dall’altro il loro particolare modello per sancire un rapporto di sangue è
completamente estraneo alle tradizioni Washoe per le quali il sangue conta meno di determinati rapporti e ruoli sociali.

Invece prima della metà del XIX secolo il sangue aveva poco a che fare con l’idea di parentela o identità: la famiglia
nucleare non costituiva necessariamente un elemento di forza. I Washoe vivevano in gruppi e attribuivano la stessa
importanza a genitori e zii chiamando anche i cugini fratelli/sorelle; anche l’adozione era una pratica comune e
ridimensionava ulteriormente l’importanza del sangue in sé.

Esistono però anche casi in cui la realtà biologica della parentela assume un ruolo secondario: es per gli Inupiaq
dell’Alaska il legame esistente tra genitori, figli e fratelli non è necessariamente solido né crea un forte senso di obblighi
o rapporti reciproci assoluti; l’autonomia è un valore fondamentale (es idea del parto e dell’adozione) -> le varie forme
di solidarietà di gruppo quindi mantengono la loro importanza non solo all’interno della famiglia ma anche ad esempio
tra gli equipaggi delle baleniere.

Il sangue però non è l’unica sostanza corporea che conta, ma anche il latte materno. Nella tradizione islamica la
parentela di latte crea tra le persone un legame riconosciuto giuridicamente che sottintende affetto, cura e sostegno
reciproco. Tuttavia, un rapporto di latte comporta anche un divieto matrimoniale: un uomo e una donna che sono stati
allattati al seno della stessa donna non possono sposarsi tra loro benché non condividano lo stesso sangue.

In Libano però c’è stato un cambiamento di collocazione e valore della parentela di latte ma ciò non ha portato alla sua
scomparsa: essa ha ricevuto nuova linfa con l’avvento delle tecniche di riproduzione assistita: es per quanto riguarda la
maternità surrogata, ci si è chiesti se la madre surrogata possa rivendicare la maternità e che cosa accadrebbe in tal
caso -> alcuni studiosi affermano di si, altri invece credono che il principio alla base della parentela di latte si estenda
anche a questa nuova possibilità di gestazione surrogata.

Nonostante la loro indubbia importanza, il genere di legami creati dalla suzione risulta spesso secondario rispetto ai
rapporti di sangue (es per la tradizione islamica i parenti di latte non figurano nell’asse ereditario). Si ritorna quindi al
legame tra il biologico e il corporeo da un lato e il sociale e culturale dall’altro. La Carsten ha condotto studi sulla
Malesia e lì ha analizzato vari aspetti delle culture di parentela in cui il sangue riveste una parte importante: lei infatti
afferma che “il sangue non mente”. Questa espressione vuol dire che il vero temperamento di una persona alla fine si
rivela sempre, MA non è questo ciò che lei intende. Come Schneider e Strathern, anche lei mette in dubbio la datità
della parentela: per lei è necessario evidenziare una sottile sfumatura del fatto che non tutti i simboli sono arbitrari, cioè
che le proprietà materiali di un determinato simbolo possono rivestire una loro importanza rispetto al significato del
simbolo stesso.

De Saussure pone l’attenzione sulla lingua come sistema di segni facendo riferimento all’arbitrarietà e alla
convenzionalità dei segni. Le cose sono più complesse però nel caso di termini come “famiglia” o “religione” (perché
non tutte le culture hanno una stessa concezione di ciò). Peirce dimostra invece interesse per le proprietà materiali e le
qualità delle forme semiotiche: il fatto non è che le proprietà materiali determinino il significato di alcuni segni, ma che
possono modellare o dirigere determinati significati e associazioni di idee.

Il sangue, in sostanza, riveste un ruolo centrale in molti ambiti :


GENERE: il sangue non è sempre di genere ma, se lo è, di solito è del genere femminile a causa delle sue associazioni di
idee con il parto e le mestruazioni (es isolamento delle donne mestruate in alcune culture) ;
RELIGIONE: nel cristianesimo il sangue di Cristo è centrale -> ritroviamo il suo consumo simbolico accompagnato in
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alcuni momenti della transustanziazione. In entrambi i casi (crocifissione e comunione) si tratta di atti di purificazione e
redenzione: il sangue purifica piuttosto che contaminare. È inoltre comune a tutti il mondo che le forme più significative
di sacrificio abbiano come loro momento fondamentale lo spargimento di sangue ;
POLITICA: un altro tipo di sacrificio estremo è la morte di un soldato per il proprio Paese, ma accade anche che alcuni
Stati conducano campagne per donazioni di sangue più o meno obbligatorie tra soldati, polizia e personale ospedaliero
;
ECONOMIA: una banca o un’azienda possono aver bisogno di liquidità e questa metafora è tratta dal sangue perché il
denaro è la linfa vitale del sistema economico. A volte, le aziende hanno bisogno di trasfusioni di denaro contante e si
può anche parlare di cuore dell’economia. Il legame tra sangue e denaro però non è sempre buono -> i soldi sporchi di
sangue ad esempio sono generati da uno scambio illecito.

IDENTITÀ
Gli studi di antropologia si sono dedicati all’identità a partire dagli anni 80 perché da quel momento ovunque nel mondo
le persone si sono ritrovate a riflettere in termini di identità. L’identità è uno strumento decisivo per definire il proprio
io, per la mobilitazione e l’azione politica, per l’autorità di governo e per la riflessione filosofica. L’Oxford English
Dictionary la definisce come “qualità o condizione per cui si è sostanzialmente uguali” ma nel nostro vocabolario il
termine è utilizzato anche per indicare un elemento relativo all’io o ad un gruppo. L’Oxford English Dictionary sottolinea
inoltre che tale elemento deve risultare continuo nel tempo. Questo 2° aspetto è stato sottolineato anche dallo
psicologo Erikson (che ha anche coniato l’espressione “crisi di identità”). Al suo interesse per i giovani faceva da sfondo
l’epoca che vedeva l’ascesa del movimento per i diritti civili, del femminismo ecc (1968). L’identità è qualcosa che
riteniamo spesso dimori nelle profondità del nostro io, anche se le circostanze o le forze della storia cercano di
reprimerlo o annullarlo. La politica dell’identità divenne inoltre centrale per il movimento anticoloniale (con Frantz
Fannon).

Negli anni 30 Erikson lavorò ad uno studio sull’educazione e la psicologia infantile nella riserva degli Oglala Sioux. Il libro
“Infanzia e società” (1950) contiene molti riferimenti al problema dell’identità MA un articolo da lui pubblicato nel 1939
nessuna delle sue analisi faceva un riferimento esplicito al problema dell’identità. Ciò che era cambiato è la misura in cui
abbiamo cominciato a pensare a noi stessi come ad individui con dei diritti. Il moderno linguaggio dei diritti appartiene
alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ratificata dalle Nazioni Unite nel 1948: essa propone una visione specifica
dell’umanità la cui unità fondamentale è rappresentata dal singolo individuo. Al suo interno l’individuo a cui si fa
riferimento è la singola persona.

Negli anni 70 però divenne chiaro che i diritti del gruppo erano un’esigenza altrettanto pressante quanto i diritti umani
individuali -> un grave difetto della Dichiarazione è che lascia intendere che le persone possono esistere al di fuori di un
contesto culturale. Altro importante cambiamento avvenuto a metà del XX secolo è la coscienza di sé e del gruppo
diventa sempre più inquadrata in rapporto alla globalizzazione: ci si chiese se essa stia costringendo la differenza a
lasciare il posto all’uniformità totale. Una delle reazione a ciò è stata quella di affermare una forte identità culturale (es
in Belize all’inizio degli anni 90 arrivò la tv satellitare -> maggiore indipendenza dalla ex padrona GB; e ci fu anche un
aumento di popolarità delle tradizioni musicali del Paese).

Tutte le identità cambiano nel tempo, in parte per fattori storici e sociali. Gli eventi contano sempre nell’equazione
dell’identità e lo stesso vale per le circostanze, il punto di vista e la collocazione geografica: l’identità è relativa e tarata
sull’altro da noi. È anche necessario confrontarsi con la crescita dei social media online. Gli studi condotti dagli
antropologi sulla vita sociale e i mondi virtuali online dimostrano che nel cyberspazio e sugli altri media diamo libero
sfogo alla creazione di nuove identità: l’avatar rappresenta chi sentiamo di essere davvero dentro di noi.

Benché sia stato ampiamente riconosciuto che le identità possono cambiare ed essere situazionali, vi è una tendenza
persistente a pensare all’identità come a qualcosa di fisso, duraturo ed immutabile. Da un lato, la ricerca antropologica
può essere usata per dimostrare che, biologicamente parlando, la razza è un mito; dall’altro, tratta dosi appunto di un
mito, essa racchiude in sé numerosi e importanti significati culturali -> la razza potrà anche essere un mito ma
rappresenta comunque una potente categoria culturale. Negli anni 90 gli antropologi fisici e i genetisti dimostrarono che
in termini biologici esiste solo un’unica razza umana. la Benedict presente l’esempio di una ipotetica adozione
interrazziale: un bambino orientale adottato da una famiglia occidentale fa suoi tutti gli elementi di costume della
società in cui vive e il costume del gruppo cui appartengono i suoi veri genitori non ha nessuna influenza sul suo
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comportamento. MA i tratti culturali di quel bambino giocheranno un ruolo di 1° piano nel determinarne l’identità
perché molti degli occidentali che lo attornieranno penseranno che il sangue giochi la sua parte, costringendolo a
ragionare in rapporto ad una precisa identità razziale (es di Baker, docente di antropologia adottato: fin dalla tenera età
aveva cominciato a pensare in termini di razza e al fatto di doversi comportare come un nero).

L’attuale marasma di identità è ben rappresentato dal caso degli indiani Mashpee. Mashpee è una cittadina nel
Massachussets e nel 1976 i delegati della tribù si rivolsero al distretto federale reclamando i diritti su circa ¾ della terra
s cui sorgeva l’agglomerato urbano. Nei primi anni 80 i diritti culturali erano emersi accanto ai diritti urbani come una
questione di primaria importanza e molti degli sforzi in tal senso ebbero successo (es in Australia, Brasil, Guatemala).
Nel caso degli indiani Mashpee ci si chiedeva se loro potessero essere riconosciuti come un gruppo indigeno e se
possedessero una loro identità culturale. A Mashpee era stato riconosciuto lo status di città indiana nel 1869; il
riconoscimento dei Mashpee come gruppo indigeno era avvenuto in forma non ufficiale, rafforzato però dal fatto che
fino agli anni 60 la politica municipale era stata dominata da famiglie indiane, cosa che aveva permesso loro di godere di
sovranità e autodeterminazione. Negli anni 60 tuttavia questa città divenne una meta sempre più ambita dai turisti,
l’equilibrio demografico iniziò a spostarsi e gli indiani persero sia il controllo politico sia la loro maggioranza numerica.

Nel 1974 fu creata una petizione per il riconoscimento ufficiale del gruppo indigeno. A garantire un senso di identità di
gruppo era stato il controllo politico a lungo esercitato dai Mashpee: la maggior parte della popolazione riconosceva e
accettava tale controllo; al di là di questo tuttavia non vi erano molti aspetti distintivi di un’effettiva cultura tribale
Mashpee (le tradizioni culturali erano rare e disomogenee; le strutture politiche non avevano carattere tribale; il
governo era esercitato in accordo con le regole della cittadina; la lingua indigena era morta; non c’erano tradizioni di
culti indigeni). Per i richiedenti, la propria identità indiana non aveva avuto cesure ed era stata realmente conservata
seppure priva di molti segni esteriori. MA gli avvocati dello Stato sostennero che non esisteva nessuna particolare
identità indigena: i Mashpee non sembravano indiani e non si comportavano come tali.

L’identità come la razza è al tempo stesso un’illusione totale ed una realtà materiale, ed è qualcosa che trattiamo al
tempo stesso come natura ed artificio. Noi supponiamo che essa si trovi nel profondo di un essere umano, ma
dovremmo anche riconoscerla come un elemento esibito.

Gli abitanti di Malpee però non si diedero per vinti e nel 2007 ottennero il riconoscimento federale come tribù. Gli
avvocati sostenevano che, contrariamente all’opinione espressa a quel tempo, un distinto carattere culturale non era un
criterio indispensabile per riconoscere una comunità ben distinta dalle altre. Secondo la delibera conclusiva quelle prove
erano astratte e non realistiche: astratte perché i regolamenti non impongono che un richiedente conservi una precisa
distinzione culturale; non realistiche perché non è chiaro che cosa si richieda ad una cultura di non mutare
assolutamente. Infatti nel 2001 un’antropologa pubblicò un articolo in cui affermava che era ormai una conoscenza
comprovata che la cultura è sempre mutevole e fluida e anche la nostra interpretazione dei diritti è soggetta a
mutamenti, modifiche ed ampliamenti.

La lingua e la cultura sono spesso considerate come 2 facce della stessa medaglia: come il sangue, si pensa che la lingua
racchiuda l’essenza della persona e rappresenti l’elemento costitutivo dell’identità. In antropologia linguistica si
distingue la differenza tra lo studio di langue e parole (de Saussure): essa si concentra sull’uso della lingua (parole) e
uno degli interessi della ricerca è rivolto al valore culturale attribuito a una lingua da coloro che la parlano. Uno dei
campi più fecondi della ricerca sull’uso della lingua è stato quello dell’ideologia del linguaggio. Possediamo tutti
un’ideologia del linguaggio, tutti avanziamo delle ipotesi o ci atteniamo a determinate convinzioni, riguardo alla
struttura, al significato e all’uso del linguaggio. Le nostre ideologie linguistiche ci dicono qualcosa su come interpretiamo
il richiamo che hanno per noi l’ordine delle cose e la natura dell’autorità, i valori e la nostra idea di realtà (es crediamo
che le definizioni sul dizionario ci diano il vero significato delle parole, pensando che la verità abbia il benestare di fonti
testuali prodotte da esperti; ci rifacciamo all’origine etimologica di un termine credendo che una qualche parte del suo
significato reale sia anche collegata al suo uso originario).

Alcuni antropologi sostengono che nell’Occidente contemporaneo si riscontrino 2 tipi principali di ideologia: quella
dell’autenticità e quella dell’anonimato. Esse condividono una base comune costituita dal naturalismo sociolinguistico:
ciò significa che l’ideologia in questione è considerata naturale, è un dato di fatto e il potere riconosciuto all’autenticità
o all’anonimato di una lingua non proviene dal risultato di decisioni umane. L’ideologia dell’autenticità si basa
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sull’essenzialismo e sembra indicare che la nostra lingua esprime qualcosa in grado di integrare ciò che siamo,
individualmente e corporativamente. Nella cultura popolare esistono in tal senso alcune immagini stereotipate: es il
francese è composto da parole dolci. Spesso tuttavia lo slancio con cui si tende ad enfatizzare l’autenticità deriva dal
fatto di essere in una posizione di minoranza. La classe sociale può essere a sua volta un fattore determinante che trova
un riflesso in un particolare accento e pronuncia. In tutti questi casi, il registro linguistico indica un’identità locale
comunitaria radicata in un luogo. Un’autenticità del genere non si può apprendere. L’ideologia dell’anonimato invece è
ciò che sta dietro alla legittimità delle lingue dominanti. L’inglese, come lingua dominante, vanta la più ampia
diffusione. In molti contesti non è previsto che esso appartenga ad un luogo preciso ma che piuttosto trascenda il luogo,
diventando la lingua di ogni luogo e di nessun luogo: i madrelingua inglesi hanno dovuto cedere su alcune delle più forti
rivendicazioni di autenticità proprio a causa di ciò. Qualsiasi lingua dominante funziona all’interno di un’arena politica
che comprende diversi gruppi o comunità. Le ideologie di autenticità ed anonimato si applicano spesso ad una stessa
lingua.

All’inizio del XXI secolo ha cominciato ad esercitare una certa forza di attrazione un approccio all’identità di tipo più
performativo, non solo nei mondi virtuali ma anche nei movimenti nazionalisti europei. Questi ultimi non sempre si
sono conquistati una buona fama: la maggior parte di essi appartiene a schieramenti di destra (xenofobia ecc).

Nel 1978 la Spagna adottò una nuova Costituzione e la Catalogna divenne una delle comunità autonome. Nel corso del
tempo il valore assoluto riconosciuto alle radici autoctone ha ceduto il passo ad un senso molto più flessibile di
appartenenza ed identità, in cui l’autenticità non era solo data per natura ma poteva anche essere creata. La Woolard
iniziò a studiare la politica dell’identità catalana nel 1979. Come lingua, il catalano vanta uno zoccolo duro, ampio e
stabile di individui madrelingua: dato che l’economia catalana è piuttosto forte, la lingua e l’identità della Catalogna
godono di un certo prestigio. Però i madrelingua catalani sono una minoranza in Spagna, all’interno della stessa
comunità autonoma i ¾ della popolazione è formato da immigrati. Dai primi giorni dell’autonomia il nuovo governo
inaugurò una serie di politiche linguistiche atte a sostenere un chiaro senso di identità nazionale (es attraverso il
sistema scolastico). La Woolard svolge nelle scuole gran parte del suo lavoro sul campo, in un istituto superiore
caratterizzato dalla commistione di ragazzi provenienti da famiglie di lingua catalana e lingua castigliana. I ragazza che
avevano come lingua materna il catalano o il castigliano erano quasi sempre ben distinti gli uni dagli altri, e i 2° non
erano considerati del posto. I ragazzi di lingua castigliana erano più rozzi, più sgarbati e meno raffinati dei catalani.
Inoltre i 2° parlando il catalano avvertivano un senso di imbarazzo e vergogna. Lei ritorna qui nel 2007 e nota che anche
a distanza di anni il senso di esclusione che loro avevano provato restava significativo e reale. Ripeté la stessa ricerca
nella stessa scuola MA ormai i ragazzi non pensavano più al mezzo linguistico come ad un elemento costitutivo
dell’identità: catalano e castigliano avevano perso il loro ruolo iconico e ormai tutto ruotava attorno allo stile. Come
lingua, il catalano era diventato più anonimo, qualcosa a cui chiunque poteva accedere. Dal 2010 i catalani hanno
iniziato a manifestare per ottenere l’indipendenza dal resto della Spagna e ciò è stato attuato non solo dai figli della
terra catalana, ma anche da catalani di lingua castigliana.

AUTORITÀ
Nel 1971 la Weiner si recò nelle isole Trobriand e si rese conto che lo studio di Malinowski aveva escluso aspetti e
momenti importanti della vita nelle Trobriand, compresi molti di quelli riguardanti le donne. Si potrebbe pensare che il
caso delle Trobriand confermi uno stereotipo comune sui ruoli sessuali e di genere (uomini: produzione, sfera pubblica,
cultura; donne: riproduzione, sfera privata, natura). Anche le donne però producono: es stoffa fatta con fibre di banano,
fondamentale per il mantenimento di una discendenza matrilineare; loro distribuiscono la stoffa dopo un lutto per
estinguere i debiti accumulati dal defunto con la società nel corso della sua vita. Ciò che emerge dagli scritti di
Malinowski è una forma di autorità etnografica.

La Weiner afferma che la stoffa funge spesso da simbolo dell’autorità e del potere politico. Però l’autorità e la capacità
di azione di cui godono le donne attraverso la produzione della stoffa sono limitate rispetto a quelle degli uomini (es
onore e vergogna sono correlati al genere: gli uomini si fanno onore, le donne lo perdono; la mistica del bestiame serve
per affermare la propria autorità all’interno della famiglia e della comunità; nella ricchezza della sposa le donne sono
viste come beni da comprare e vendere; anche nei sistemi di discendenza matrilineare il potere viene semplicemente
affidato a uomini diversi: non ai mariti ma ai fratelli; il sangue è simbolo di contaminazione femminile). Ma non
possiamo naturalizzare i rapporti tra i generi, non possiamo dire che gli uomini si trovano sempre in cima alla piramide
sociale. Ad esempio, la ricchezza della sposa precedentemente era denominata bride price (prezzo della sposa) ma
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Evans-Pritchard aveva suggerito di eliminare quel termine per eliminare da quella pratica un’idea di subordinazione
delle donne, di status sociale di second’ordine o di mercificazione. Il fatto di concentrare l’attenzione sulla sposa è
fuorviante perché, nella maggior parte dei casi, la ricchezza della sposa non passa alla sposa ma ai suoi genitori: la
disuguaglianza quindi è legata alle fasce d’età, non al genere -> sono quasi sempre i più anziani a dettare legge; la
ricchezza della sposa è inoltre per le donne una fonte di autoaffermazione.

Es: a partire dagli anni 80 la Cina ha tentato di riallineare la propria economia lungo linee legate alle leggi di mercato e
ciò ha risentito delle dinamiche della globalizzazione. Una delle iniziative politiche riguardava l’abolizione della ricchezza
della sposa (avvenuta negli anni 50): essa era una pratica tradizionale e arretrata che ostacolava la modernizzazione
socialista. Il Partito Comunista voleva riorientare i legami sociali, allontanarli dalla famiglia allargata e indirizzarli verso
un’ideale famiglia nucleare, in cui lo Stato avrebbe potuto svolgere un ruolo più significativo. Un altro fattore era legato
all’amore filiale (che imponeva obbedienza ai propri genitori): l’obiettivo era sostituirlo con il nazionalismo filiale, cioè
pensare alla nazione in termini di consanguineità. La ricchezza della sposa però non scomparve dalla Cina: furono
escogitate nuove forme di transazioni matrimoniali e negli anni 70 le famiglie iniziarono a trasferire la ricchezza della
sposa alla sposa stessa; questa pratica è divenuta per le giovani donne un veicolo per affermare ed esercitare una reale
autorità. L’amore filiale invece è controbilanciato dall’idea di affetto genitoriale, per cui i genitori sono disposti a cedere
a desideri e richieste dei propri figli.

Molte altre forme di rituali divennero bersaglio del Partito Comunista cinese, in parte perché lesive della piena
obbedienza allo Stato, in parte perché la loro carica emotiva vanificava l’ideale del contadino razionale e socialista. Ad
esempio, le nenie rituali risentirono di notevoli pressioni: esse erano eseguite durante i funerali e nei periodi di lutto; si
tratta di forme di espressione poetica attentamente calibrate e ben consolidate dalla tradizione. Le lamentazioni sono
un mezzo per elaborare il dolore, non solo per le prefiche, ma anche per le altre persone in lutto. La lamentazione
possiede solo in parte un proprio valore terapeutico e consolatorio. I lamenti infatti sono anche un mezzo per dare voce
ai dubbi della collettività in merito alla più ampia situazione sociale o politica. Le lamentazioni collettive rientrano in un
più vasto complesso di momenti rituali che veicolano il rispetto verso gli antenati e riconoscono l’ordine cosmico delle
cose. I lamenti rendono buona una morte appena avvenuta (il desiderio di rendere buona la morte è comune: es negli
USA si investiva denaro per recuperare i resti dei militari uccisi in Vietnam -> il corretto trattamento delle spoglie è
essenziale).

I lamenti rituali avevano un significato che andava al di là della singola persona defunta: nelle lamentazioni
l’individualità del morto era minimizzata. Mueggler negli anni 90 condusse un lavoro sul campo in Cina prestando
attenzione alle nenie; nel 2011 si rese però conto che queste pratiche erano cambiate: ora emergeva l’individualità, i
lamenti si concentravano sulla persona defunta, sulla sua personalità, su ricordi specifici legati al passato ed eventi che
hanno influito sulla sua vita -> erano ormai l’esibizione di una sincera emozione.

Il rituale comporta spesso un elemento di spettacolo o di esibizione: al di là delle differenze, tutti sono contrassegnati in
un modo che li distingue dal corso ordinario della vita; essi sono spesso contrassegnati anche da ciò che le persone
indossano. C’è una tesi secondo cui il rituale trasmette l’essenza dell’autorità e mantiene le persone al loro posto:
quando si partecipa ad un rituale, si può spesso avvertire su di sé tutto il peso della tradizione, il sentirsi parte di
qualcosa di più grande. Il rituale usa un copione predefinito: esso, oltre ad una serie di azioni di routine, svolge un’altra
importante funzione -> esso colloca l’autorità della stessa azione rituale al di là dell’officiante. In un rituale non è
previsto che si escogiti nulla di nuovo mentre si procede nella sua celebrazione (infatti quando si chiede perché si stanno
ripetendo alcuni gesti non si sa rispondere). Bloch definisce ciò deferenza rituale. L’autorità di quelle parole si colloca al
di là di ogni singolo essere umano, il che le conferisce una qualità senza tempo o trascendentale, acquista
autorevolezza. Anche la ripetizione può svolgere questa funzione: le parole risultano svincolate dalle intenzioni e
opinioni del singolo essere umano; ciò vale anche per le azioni rituali -> si ritiene che il valore del rituale dipenda proprio
dalla corretta esecuzione di tali gesti, e la ripetizione ha la funzione di de enfatizzare la presenza della persona o delle
persone che li eseguono, suggerendo un più vasto ordine gerarchico del cosmo. Esiste inoltre un forte legame tra
autorità e stabilità: lo scopo di molti rituali è quello di mantenere lo status quo (es la morte genera una lacerazione nella
comunità e il funerale rammenda quella lacerazione). Una cosa sempre identica ripetuta più volte trasmette un senso di
inalterabile continuità.
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I riti di passaggio generano una trasformazione nello status delle persone: i rituali pertanto non sono solo usati per
mantenere lo status quo o asserire la continuità di un certo ordine sociale, ma anche per cambiare la posizione sociale o
il comportamento di singoli individui o gruppi di persone. All’interno di alcuni tipi di rituali l’autorità viene esibita
attraverso un uso particolare del linguaggio: in alcuni rituali, le parole possono avere il potere di realizzare ciò che
dicono (es matrimonio). Questi atti linguistici sono dotati di forza illocutiva (cit Austin)(es cerimonia di insediamento di
Obama: il presidente della Corte Suprema scambiò senza accorgersene l’ordine delle 2 frasi e il giuramento venne
nuovamente pronunciato MA questa volta non in pompa magna; il presidente però aveva la sua toga il che significava
che era pienamente investito del potere e dell’autorità di eseguire quell’atto).

I rituali possono essere spesso una fonte di creatività o di rinnovamento: nello Yunnan non si riuscì ad estinguere il
desiderio popolare di quella particolare celebrazione di una buona morte. Potremmo considerare tale fedeltà una prova
del potere che il rituale esercita su di noi, sottraendoci la capacità di agire, scegliere e deliberare MA a distanza di anni
quei rituali erano cambiati: loro non piangevano la morte di una madre in particolare ma il lamento funebre era rivolto
alla maternità stessa.

Se consideriamo il carattere formale e strutturato del rituale, possiamo intuire molte cose sui meccanismi dell’autorità
in generale: in alcuni casi, l’autorità di un rituale è simile a qualcosa di trascendentale, in altri sembra avere un carattere
terreno. Non esiste un modo per capire perché alcuni rituali suscitano interesse: non si tratta semplicemente di potere -
> l’autorità non è mai solo una questione di forza o potere. Ci si chiede come venga autorizzata l’autorità.

Agrama ha condotto uno studio antropologico in Egitto analizzando gli atteggiamenti diversi della gente nei confronti di
2 importanti istituzioni: i tribunali con giurisdizione sullo stato della persona e il Consiglio per la fatwa -> il 1° affronta
questioni familiari; il 2° problemi simili ma con una serie di altre questioni. Entrambi sono organi statali e sono entrambi
governati dalla sharia islamica: essa si fa carico della questione etica ed è il sentiero che il musulmano devoto è
chiamato a seguire. La differenza è che i tribunali rientrano nel sistema giuridico formale ed emettono sentenze
vincolanti, mentre il Consiglio ha un carattere unicamente consultivo. La fatwa rappresenta l’opinione o il consiglio di
una figura dotta, ha carattere privato e riguarda la vita e la situazione della persona in questione; essa però godeva di
maggiore popolarità dei tribunali e, benché i pareri e i consigli espressi con una fatwa non fossero vincolanti, le persone
tendevano a seguirli molto più di quanto non facessero nel caso delle sentenze emesse dai tribunali. Uno degli aspetti
più importanti delle scoperte di La fatwa parla di etica e rifletter sull’autorità pensando all’etica può essere d’aiuto per
capire come mai le persone agiscano in un certo modo.

Lo Stato ha sempre avuto una parte centrale nell’interpretazione antropologica dei concetti di organizzazione politica e
autorità. Gli antropologi dividevano spesso le società in 2 categorie: con e senza Stato. Anche l’assenza di Stato può
presentare delle differenze: in alcune società l’autorità politica si basa su rapporti d consanguineità; in altre la struttura
delle relazioni di parentela e l’organizzazione politica sono fuse tra loro. La 2° condizione dell’assenza di Stato: è in
culture simili che si trova ciò che si avvicina di più all’egualitarismo. Es i Chewong sono un gruppo aborigeno della
penisola malese e negli anni 70 la Howell trascorse 20 mesi con loro: avevano avuto rari contatti con il resto del mondo.
Il loro modo di vivere è come un diverso modo di essere perché sono assenti gerarchia, Stato e autorità: i rapporti sociali
sono egualitari e l’autonomia è apprezzata; evitano ogni competizione; quando si tratta di sesso e ruoli di genere, ci
sono alcune differenze ma esse non sono mai stabilite gerarchicamente (es la mitologia e la cosmologia mettono in
rilievo l’uguaglianza tra i sessi). La gerarchia e l’autorità qui sono elementi imponderabili: ci sono dei limiti a ciò che le
nostre categorie possono fornirci nella nostra comprensione degli altri.

RAGIONE
Il punto di vista dell’indigeno è ciò su cui l’antropologia effettua le sue ricerche ma lo fa anche su come pensano gli
indigeni: questi 2 elementi non si autoescludono. Per Malinowski l’accento sul pensiero e la mente era forse la cosa più
importante: avere un punto di vista equivale ad avere un’opinione; lo stesso vale per Boas e il concetto di occhiali
culturali: la percezione aveva la sua importanza, ma la mente e le capacità intellettuali rappresentavano un interesse
complementare. Questa attenzione al pensiero è alla base di quello che si avvicina ad una dottrina antropologica: l’unità
psichica dell’umanità. Quando si parla di ragione c’è sempre un legame con la realtà, che è legata a linguaggio e
pensiero. Es 2 fusti di benzina, 1 vuoto e 1 pieno: si ritiene che solo quello pieno sia pericoloso ma non è così -> è il
linguaggio a trarci in inganno perché offre un’indicazione errata e fornisce un falso senso di sicurezza.
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Whorf spiegava che linguaggio, pensiero e realtà sono strettamente intrecciati e che la struttura della lingua che
parliamo plasma i diversi modi in cui percepiamo e agiamo nel mondo. Al di là della discrepanza tra i segni linguistici e gli
stati oggettivi, il linguaggio modella la nostra stessa esperienza della realtà, la nostra comprensione dello spazio e del
tempo. Per dimostrare la sua tesi, egli confrontò le espressioni di spazio e tempo della lingua Hopi con quelle delle
lingue Sae (europee): le lingue Sae oggettivizzano quasi tutto (es in inglese possiamo dire 10 sedie e 10 giorni) quindi qui
si rileva una struttura linguistica che predispone chi parla una determinata lingua ad oggettivare esperienze soggettive,
come quelle del tempo. Nella lingua Hopi manca del tutto una tale predisposizione: la connessione tra tempo, eventi e
persone è più relazionale e soggettiva. In ogni struttura linguistica esiste un modo di percepire la realtà che influenza il
comportamento e i modelli di pensiero. Chi parla una lingua del gruppo Sae usa spesso i gesti delle mani e i movimenti
del corpo, soprattutto quando parla di argomenti più astratti: ciò è dovuto alla forte enfasi posta sulla oggettivazione,
come se i gesti contribuissero a concretizzare le idee; gli Hopi al contrario gesticolano pochissimo. Per quanto riguarda
le categorizzazioni spaziali, es in Australia lo spazio è definito in base ai punto cardinali, invece in Inghilterra tutto
dipende dalla posizione del soggetto.

Gli Hopi hanno inoltre una tendenza al comportamento propedeutico ed effettuano elaborati preparativi prima di
intraprendere attività importanti (es preghiere o consuetudini): per questo popolo il pensiero è una specie di forza che
agisce nel mondo e lascia ovunque tracce del suo effetto. Ciò può collegarsi all’interpretazione dello scambio in quelle
che Mauss definisce società arcaiche: es nell’anello del Kula si crede che gli oggetti possiedano una capacità di azione e
una propria personalità. Se vogliamo capire in che modo ragionano le persone, può essere utile considerare il principio
della relatività linguistica.

Un altro aspetto dell’attenzione al linguaggio, al pensiero e alla realtà è legato a questioni di significato e comprensione.
Gli antropologi si soffermano spesso su dichiarazioni incontrovertibili ed intriganti (es noi siamo pappagalli rossi): loro
non si chiedono mai se quanto stanno ascoltando sia vero; che sia reale o meno, esso riesce a plasmare il modo in cui la
popolazione presa in esame interpreta il mondo e agisce al suo interno. La popolazione presso cui le espressioni verbali
sono state più studiate è quella dei Bororo (vivono in Brasile e Bolivia). Von den Steinen riferì che loro dicevano di
essere pappagalli rossi: la convinzione era che quando popoli come i Bororo dicevano cose del genere (cioè popoli
considerati primitivi) intendevano attribuire alla frase un significato letterale: nel mondo vittoriano, la capacità di usare
il pensiero e il linguaggio figurato era considerata un altro indicatore dello sviluppo evolutivo. Tylor trattò in gran parte il
problema rifacendosi a quella che lui considerava l’incapacità dei selvaggi di cogliere connessioni soggettive, cioè
connessioni simboliche tra un segno e il suo referente (es tra i popoli primitivi la differenza tra un uomo e il suo ritratto
non viene riconosciuta).

Come Tylor, Levi-Bruhl sosteneva che i popoli primitivi non erano in grado di afferrare il pensiero e il linguaggio figurato
MA (≠ Tylor) egli trattava il problema nei termini del loro stesso modo di essere, cioè negava il principio dell’unità
psichica: per lui i Bororo non si collocavano semplicemente su un gradino più basso della scala dell’evoluzione sociale,
ma erano esseri completamente diversi. Quando affermavano di essere pappagalli, secondo lui, non si stavano solo
dando un nome ma essi voglio far comprendere un’identità essenziale: egli spiega questa identificazione con la legge di
partecipazione -> nelle mentalità primitive gli oggetti e gli esseri possono essere contemporaneamente se stessi ed altro
da se stessi. Egli stava affermando qualcosa di ben più significativo riguardo al funzionamento della mente e insisteva su
una sorta di differenza che nemmeno gli evoluzionisti sociali avevano distinto.

Uno dei critici di Levi-Bruhl fu Evans-Pritchard: egli svolse il suo lavoro sul campo in Sudan e studiò gli Azande. Loro
credono che disavventure e sventure siano il risultato di stregoneria, mentre gli oracoli e la magia aiutano a proteggere
o mitigare gli effetti dell’incantesimo maligno. La stregoneria è una delle pratiche tradizionali che si è adattata alle
condizioni di modernità. Per gli Azande la preoccupazione per le streghe in sé è scarsa: sanno che la stregoneria è un
tratto che viene trasmesso di padre in figlio e di madre in figlia. La stregoneria, pertanto, esiste nel discorso e nei suoi
effetti: è un idioma, un modo di parlare e ragionare sugli eventi nel mondo, in 1° luogo su quelli sfortunati. Gli Azande
conoscono l’azione delle scienze fisiche, biologiche e chimiche MA operano una distinzione tra come succede qualcosa e
perché succede: la stregoneria funge da collante tra come e perché (es crolla un granaio: sanno che ciò è stato causa
dell’umidità ma si chiedono perché proprio quel granaio su quella data persona). E-P ricorda che la stregoneria non
esiste ma che, se la credenza degli Azande è presa per quello che è, essa risulta perfettamente ragionevole: il suo scopo
è quello di regolamentare i rapporti tra le persone, cioè rafforzare i loro valori culturali e questa credenza in realtà
somiglia molto a come gli occidentali parlano di fortuna e sfortuna -> cioè noi non siamo così civilizzati e loro non sono
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così primitivi. L’attribuzione di una disgrazia alla stregoneria non esclude le sue cause reali, ma essa vi si sovrappone e
conferisce agi avvenimenti sociali il loro valore morale.

Negli anni 70 Crocker compì uno studio presso i Bororo: notò che solo i maschi affermavano di essere pappagalli rossi e
lo facevano solo in determinate situazioni. I pappagalli rossi sono associati agli spiriti: entrambi sono colorati e tali
volatili nidificano in luoghi pressoché inaccessibili; da ciò consegue che le loro penne sono accessori importanti nelle
cerimonie rituali. I pappagalli però sono anche gli unici animali domestici dei Bororo: per loro provano affetto, gli danno
nomi e celebrano funerali. Tutti i pappagalli domestici sono di proprietà delle donne come in un certo senso gli uomini
(la società dei Bororo è matrilineare e matrilocale). Una delle possibilità di fuga degli uomini si realizza attraverso il
sistema rituale, in cui svolge un ruolo significativo mediante la messa in scena degli spiriti quindi c’è questa associazione
metaforica tra loro e i pappagalli. Con questa metafora loro volevano esprimere l’ironia della loro condizione di maschi.
Prestare attenzione alle espressioni figurate di una data comunità è un buon modo per apprendere i valori di detta
comunità ma anche come i suoi membri mettano in ordine nella conoscenza e operino distinzioni categoriali. (es in
Papua Nuova Guinea i missionari non parleranno di agnello di Dio ma di maiale arrosto di Dio perché lì non sanno cosa
sia un agnello: nella predicazione è indispensabile dare un senso a ciò che non si conosce, in questo caso le qualità di
Gesù, riferendosi a ciò che si conosce, qualità dei maiali).

Viveiros de Castro compì ricerche sul campo tra gli Arawetè, un gruppo amazzonico: l’autore ci chiede di resistere
all’impulso di rendere gli amerindi comprensibili in termini occidentali -> il compito dello studioso non si esaurisce nel
capire come pensano gli indigeni ma di pensare come gli indigeni abbandonando il nostro modo normale di ragionare.
Considerando i vari miti amerindi, si comprende che uomini e animali condividevano una condizione originaria: ciò non
avviene né nella tradizione cristiano-giudaica (dove gli uomini dominano sugli animali e possiedono una natura ben
distinta) né nella scienza dell’evoluzione in base alla selezione naturale; nelle cosmologie amerindiane invece la
condizione originaria è l’umanità, qualcosa che tutte le creature viventi condividono. Ciò che differenzia gli esseri umani
quindi non è il loro sviluppo di una cultura ma piuttosto lo sviluppo della natura. In molti miti degli amerindi troviamo
animali che perdono la loro umanità (≠ miti occidentali: gli umani trascendono la loro animalità). Una caratteristica delle
cosmologie amerindiane è l’enfasi sul prospettivismo: si ritiene cioè che molte specie animali mantengano una loro
capacità di azione e la consapevolezza di sé; essi hanno dei loro punti di vista (di cui anche gli uomini devono tenere
conto quando agiscono) -> gli amerindi hanno una visione del mondo più relazionale ed interconnessa.

Viveiros de Castro afferma che le parole dei Bororo devono essere interpretate come una figura retorica: la chiave è
capire che quando gli amerindi parlano di se stessi come pappagalli rossi non dovremmo pensare ai pappagalli come
animali del mondo: il termine corrisponde più a qualità di azione che ad un nome comune. Per comprendere ciò di cui si
sta parlando quindi bisogna pensare in modo diverso: non possiamo considerare come ovvie le nostre categorie e ambiti
di conoscenza.

Nel 1992 la Petryna iniziò una ricerca antropologica sul disastro di Cernobyl: iniziò le sue ricerche sul campo subito dopo
il crollo dell’Unione Sovietica. L’Ucraina era da poco indipendente: fino al crollo del sistema sovietico era stato
mantenuto un rigoroso riserbo al fine di limitare qualsiasi ammissione degli effetti avuti dal disastro di Cernobyl; nella
nuova Ucraina indipendente tale riserbo venne cancellato -> il 5% della popolazione presentò domande di indennizzo e
richieste di forme speciali di sostegno da parte dello Stato. Tali mutamenti quindi possono avvenire anche a livello della
società: in Ucraina tutto ciò equivalse ad una totale riconfigurazione di ciò che significava appartenere ad una nazione.
Le richieste rivolte allo Stato arrivarono ad essere definite in termini di sofferenza: la studiosa definisce questo
fenomeno cittadinanza biologica.

NATURA
Said è stato uno studioso della musica classica occidentale ed ha sviluppato lo stile della lettura contrappuntistica che si
basa sulla relazione e connessione tra diverse linee melodiche: esse sono ben distinte tra loro e possono essere suonate
separatamente ma prese insieme possono diventare qualcosa di più della somma delle loro parti. Per lui, la migliore
critica letteraria deve produrre qualcosa di simile. Cultura e natura possono essere viste come linee melodiche
dell’antropologia.

Gli antropologi hanno fornito molte definizioni di cultura ma nessuna di natura: questo però non è sintomo di un
disprezzo antropologico. Infatti ad esempio Boas mostrò interesse verso l’ambiente della terra di Baffin e il campo della
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fisica; Malinowski sviluppò la teoria del funzionalismo secondo cui sotto tutte le elaborazioni culturali di ogni dato
popolo vi è un corpo umano spinto da bisogni e desideri; per Levi Strauss la diversità delle culture non costituisce di per
sé l’interesse principale dell’antropologia: ciò che conta davvero sta dietro a tale diversità -> questa forma di struttura
interna è una questione di natura, un fatto della mente. Ù

Levi Strauss non condusse quasi nessun lavoro sul campo ma sviluppò lo strutturalismo in antropologia,
un’impostazione metodologica adattata da de Saussure e Jackobson: egli nutriva una forte ammirazione per la
linguistica e sosteneva che l’antropologia aveva bisogno di modellarsi in modo analogo. La linguistica strutturale si
concentra sull’infrastruttura inconscia del linguaggio, qualcosa di cui il parlante stesso potrebbe non avere idea; colloca
il significato non nelle parole stesse ma nei rapporti tra parole; tali rapporti si collocano all’interno di un sistema
ordinato e strutturato; cerca di estrapolare delle leggi generali. L’antropologia strutturale fornisce informazioni
enciclopediche ed è incentrata sui miti per capire come questi, scomposti nelle loro parti costituenti, ci dicano qualcosa
sia sul sistema della cultura da cui sono tratti sia sul funzionamento della mente. Secondo lo strutturalismo, che si tratti
di un essere umano primitivo o civilizzato, a livello di struttura mentale o di capacità cognitiva non esiste alcuna
differenza; ciò che l’antropologia deve fare è vagliare tute le diversità tra le culture al fine di scoprire gli elementi
universali della condizione umana. Per la maggior parte degli antropologi, una questione ancor più seria riguarda la
misura in cui lo strutturalismo sembra erodere la possibilità che l’azione dell’uomo realizzi un cambiamento all’interno
di un sistema dato quindi è necessario rimaneggiare lo strutturalismo affinché tenga conto della storia e dell’azione
umana.

Alla maggioranza delle persone i confini tra natura e cultura appaiono confusi. La Strathern studia i gruppi sociali della
Melanesia ed afferma che loro non pensano come gli occidentali: le classificazioni avvengono in termini di selvatico e
domestico e non di natura e cultura perché loro vivono a stretto contatto con la natura. Perfino all’interno delle
tradizioni di pensiero occidentali, in realtà, la divisione tra natura e cultura appartiene a tempi recenti: tra 18° e 19°
secolo si sviluppa una concezione della natura in cui tutti gli esseri viventi sono connessi tra loro, ma all’interno della
quale si crea al tempo stesso una sorta di anelli isolante attorno al genere umano -> ciò è possibile grazie alle capacità
uniche dell’umanità, le capacità di possedere e creare una cultura. Questo comporta l’addomesticamento della natura,
che viene così a rappresentare un regno autonomo. Essa, in tal senso, è da intendersi sia come termine moderno sia
come una condizione della modernità.

Più importante di tutto questo era la convinzione che l’uomo moderno fosse in grado di mantenere distinti i 2 ambiti (≠
pensiero primitivo: confondeva e mescolava le cose perché non era in grado di gestirne la separazione): il trionfo della
modernità sta nell’aver riconosciuto il vero ordine delle cose. Però non è così: l’uomo moderno non ha saputo
dimostrarsi all’altezza di ciò che propugnava. Latour individua i vari modi in cui a partire dal 17° secolo l’esistenza umana
cominciò ad essere definita dalla rottura con il passato da parte dell’uomo: nella storia di tale rottura nasce la scienza,
l’approccio razionale e ragionevole al rapporto tra natura e cultura. Però non siamo mai riusciti davvero a tenere
distinte e pure la natura e la cultura, né abbiamo mai ceduto completamente al fascino delle rassicurazioni della scienza.

Margaret Lock mostrò interesse per la donazione degli organi: in Canada e Stati Uniti in stato di morte cerebrale al
paziente possono essere espiantati gli organi sani; in Giappone mostrano resistenza alla donazione degli organi. Nel
nord America si considera l’espianto degli organi come l’ultimo dono, il dono della vita e ciò è reso possibile dal
passaggio della morte come materia religiosa a materia della medicina. In questo caso assume particolare importanza la
personalità individuale: nel nord America l’individualismo è un valore supremo per cui, se un essere umano non è in
grado di pensare, non è cosciente né controlla il proprio corpo, quell’essere umano non è più una persona a tutti gli
effetti. In Giappone invece la morte è un processo: la maggior parte dei giapponesi non privilegia la facoltà cognitiva
come sede della personalità, ma il corpo svolge esattamente la stessa funzione; legata a ciò c’è l’idea che l’individuo non
è autonomo ma appartiene ad un tutto più vasto che è la famiglia; inoltre qui la morte non ha subito un pieno processo
di medicalizzazione.

L’antropologia è una scienza però è una scienza sociale, non naturale e ciò le conferisce un minore valore sociale e,
poiché il suo argomento di studio è legato alla cultura e alla società, è vista come una disciplina soggettiva ed
interpretativa (≠ scienze naturali: oggettive). Nel 1991 Emily Martin pubblicò un articolo sulla riproduzione umana,
analizzando i vari aspetti in cui i testi di biologia degli USA applicavano i ruoli e gli stereotipi di genere culturalmente
dominanti ai ruoli riproduttivi dell’ovulo e degli spermatozoi. Tale caso chiarisce fino a che punto il pensiero culturale
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possa plasmare la nostra conoscenza della natura. Quasi tutti i libri di testo presentavano il contributo maschile alla
riproduzione in una luce positiva e quello femminile in una luce negativa: il processo di produzione delle cellule uovo era
descritto come uno spreco (ma ciò in realtà vale anche per gli spermatozoi). Un altro aspetto di queste descrizioni che
risentono di pregiudizi di genere riguarda la passività dell’ovulo e l’attività dello spermatozoo. Il fatto che simili
stereotipi appaiano in forma scritta a livello di cellule rappresenta una mossa per farli sembrare così naturali da non
poter subire alterazioni.

L’intero impianto logico di quanto descrive lei è stato recentemente trasferito ai geni: la genetica è divenuta un aspetto
centrale del progetto antropologico -> se capiamo i geni capiamo l’uomo; dalla natura trae origine la cultura. Nel 2005
Susan McKinnon condusse un’analisi verso la genetica come chiave per accedere ad ogni conoscenza: definisce questo
approccio genetica neoliberista. Gli psicologi evolutivi si muovono liberamente tra il presente e la preistoria
(descrivendo ugualmente gli uomini dell’una e dell’altra epoca): ciò che conta davvero è l’individuo, mentre la società e
la storia risultano elementi secondari. La libertà e la possibilità di scelta sono viste positivamente, il controllo e la
regolamentazione in modo negativo. L’interesse personale e la volontà di massimizzare i profitti o i privilegi della
posizione sociale sono virtù che guidano ogni nostro processo decisionale.

È necessario prendere sul serio il naturalismo e in 2 aree di ricerca ciò sta avvenendo con risultati produttivi. Uno di tali
ambiti riguarda la combinazione dei tradizionali metodi di lavoro sul campo con esperimenti di psicologia cognitiva. Rita
Astuti ha studiato i Vezo (costa del Madagascar) intraprendendo un progetto comparativo con 2 psicologi cognitivi
chiamati ad analizzare le rappresentazioni concettuali dei campi della biologia e della sociologia popolare. I 3 studiosi
volevano comprendere meglio l’interpretazione quotidiana e la razionalizzazione di processi come l’ereditarietà
biologica. Tra i Vezo è diffuso un approccio fortemente performativo all’identità e ai vincoli di parentela: chi e cosa
siamo è legato a cosa facciamo e quali relazioni sociali siamo in grado di sviluppare (es la maggior parte delle attività dei
Vezo ruota attorno a famiglia, pesca e mare; loro edono che se una donna incinta intrattiene una buona amicizia
durante la gravidanza, il bambino somiglierà a quella persona). I Vezo sanno che certi fatti della biologia influiscono in
termini di ereditarietà intergenerazionale e riconoscono che la genetica e gli aspetti fondamentali di ciò che siamo non
sono costrutti sociali né dipendono da atti performativi MA optano per la negazione di tale consapevolezza perché essa
urta contro il valore fondamentale della vita della comunità cioè avere il maggior numero possibile di parentele. Ciò
indica che potrebbe esserci qualcosa di ben saldo dentro di noi che ci permette di riconoscere i fatti della vita ma che è
subdeterminato e dipendente dalle elaborazioni culturali.

Antropologia dell’etica: Keane mette in discussione la capacità di tale impostazione socioculturale e si chiede se i nostri
valori morali e il nostro ragionamento etico siano innati. Ad esempio i bambini non hanno bisogno di imparare ad
essere empatici e sviluppano la propensione a cooperare e condividere. Al tempo stesso, ciò non rende tali azioni etiche
in se stesse. Gli aspetti preculturali della cognizione e del ragionamento sono componenti necessarie ma non sufficienti
per una vita etica ma, per essere etici, questi impulsi e intuizioni richiedono degli input sociali (es educazione familiare,
istruzione ecc).

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