Sei sulla pagina 1di 13

1

CAPITOLO 1: PEDAGOGIA, SCIENZA PRIMA DELLA FORMAZIONE .


1 Alla ricerca di una identità: un dibattito in corso. Nel 78 in “Pedagogia e scienze dell’educazione” Visalberghi
sottolinea il nesso tra i 2 termini e ne legittima la natura scientifica: è una scienza connotata teoricamente ed
empiricamente (pedagogia dell’impegno, Bertin). 
Nel 99 Scurati dice che al centro della riflessione pedagogica viene posta l’educazione insieme ad un progetto di
persona multidimensionale e integrale: bisogna definire il mantello scientifico della pedagogia costituito sia da abiti
storici sia culturali. Lui sottolinea come l’educazione si presti a letture di senso comune perché è connaturata alla vita
stessa quindi connessa a tutti gli influssi esterni, le modificazioni dell’ideologia, costume, scelte politiche e culturali,
ma anche alle dimensioni biologiche, psicologiche, sociologiche ed etiche (≠ passato: funzione di derivazione e
supporto alle discipline di base). Questo sapere quindi è complesso perché parte dagli apporti delle varie discipline e
le conduce ad unitarietà e unità (natura interdisciplinare e plurale): c’è collaborazione dinamica tra le scienze rivolte a
risolvere il problema dell’educazione e dello sviluppo evolutivo. Secondo lui quindi la pedagogia identifica una via
nuova di lettura/interpretazione/azione in ambito educativo alla luce di fini e valori che orientano il sapere/agire
dell’educazione: questi valori determinano poi una certa idea di educazione, di persona e società -> bisogna ispirarsi
ai valori di impegno, solidarietà, responsabilità, condivisione, rispetto delle differenze come ricchezza che condurranno
a un’idea di educazione come emancipazione, liberazione, crescita e non dominio, manipolazione, prevaricazione. 
È un impegno teorico e prassico imprescindibile in una società che ci espone a indeterminatezza,
imprevedibilità, liquidità: questi possono tradursi in nuove possibilità di sviluppo o rischi di destabilizzazione; es paure
provenienti dai massicci spostamenti di persone sono amplificate dai circuiti mediatici e contengono tante altre
insicurezze soprattutto per i giovani: spettro della defuturizzazione, cultura dell’effimero -> vivere momento per
momento, qui ed ora senza progetti e sogni. Tra i giovani prevale un atteggiamento intimistico: forme di socialità
ristretta o community virtuali che portano ad una deriva dell’identità soprattutto nell’adolescenza (passaggio tra
infanzia ed età adulta in cui si ricerca l’identità e si è protesi verso l’altro) -> i social ampliano il mondo disponibile nella
dimensione virtuale a discapito di quella reale. L’esito di questa trasformazione è l’indebolimento delle relazioni
umane ma bisogna imparare a governare queste conseguenze negative, trasformare il rischio in opportunità di
sviluppo emancipativo personale e sociale, investendo nel potere della formazione.
La pedagogia deve quindi individuare, definire e proporre linee di riflessione teorica sulla struttura e sui compiti della
formazione per poi progettare, realizzare e valutare l’azione educativa avvalendosi del repertorio di modelli di ricerca
(corredo teorico). es il problematicismo pedagogico di Bertin è stato ripreso da Frabboni, Contini, Genovese, Baldacci:
il paradigma bertiniano costituisce premessa alla elaborazione dello statuto della pedagogia come scienza. Nel 1900,
nell’ambito della costruzione di una precisa identità epistemologica della pedagogia, Cives in “La mediazione
pedagogica” definisce la mediazione come distintiva perché la pedagogia è incontro tra persone, istituzioni, modelli
di sapere, incrocia teoria e prassi e collabora con altre scienze.

2 La complessità, categoria pedagogica. Il concetto di mediazione pedagogica viene ripreso da Cives in un numero di
“Studi sulla formazione” dedicato a Morin, in cui lui individua connessioni anche con la complessità che ha valenze
positive che coincidono con la messa in discussione di posizioni dogmatiche e unilaterali, a favore invece di
atteggiamenti di apertura mentale ed emotiva. Uno degli assiomi della complessità è l’impossibilità dell’onniscienza:
bisogna avere un sapere non settoriale né riduttivo ma riconoscere l’incompiutezza e l’incompletezza di ogni
conoscenza (educazione alla grande in una prospettiva planetaria). 
Frabboni e Franca Pinto Minerva tracciano una nuova epistemologia educativa con un impianto teoretico e prassico,
con uno statuto epistemologico autonomo ancorato alla storia e alla società. Esso deve preservare ed espandere le
molteplici sfere della vita personale assicurando vitalità e tensione esistenziale. Assumendo come punto di riferimento
il paradigma bertiniano, la pedagogia di Frabboni si oppone a logiche e pratiche di omologazione e di asservimento al
pensiero unico e unidimensionale, esercitando il dissenso rispetto a questi modelli di pensiero unico, discriminazione,
indottrinamento, massificazione. La pedagogia è quindi una scienza di nessi e contaminazioni che coniugano
paradigmi, linguaggi, metodologie di ricerca per questo è complessa, e la formazione deve governare la complessità
della contemporaneità.

3 Teoria e prassi del discorso pedagogico. Franca Pinto Minerva pone il paradigma della complessità a fondamento di
un nuovo modo di concepire il sapere pedagogico: nesso tra teoria e prassi (non c’è una scissione tra i 2 momenti né
un predominio della 1°). Contini critica il pensiero sbrigativo che concepisce la pratica come se non avesse bisogno
della teoria: nel campo dell’educazione si arriva così a basarsi sul sentito dire; in questo campo l’approccio disgiuntivo
tra teoria e prassi ha prodotto teorie ideologizzate che hanno piegato alla propria volontà la pratica educativa oppure
2

hanno svuotato la teoria di riferimento alla concretezza. I 2 momenti hanno natura co-evolutiva perché l’uno coinvolge
l’altro in un processo continuo, sono complementari. 
Per Cambi la pedagogia è un sapere di saperi, mai definitiva, è uno strumento e mai approdo anche se guarda sempre
ad un approdo. La pedagogia per lui è un sapere inquieto, funzionale all’inquietudine dei problemi posti al centro della
ricerca stessa: democrazia e cittadinanza, rapporto tra natura e tecnica, sostenibilità ambientale e sociale. Per questo
è necessario definire i contorni di una scienza specifica e distinta che riguarda le questioni educative: essa ha ridiscusso
il proprio paradigma teorico e procedurale e si è identificata come teoria/prassi dell’educazione. È soggetta ad una
continua autoriflessione che si è esplicitata attraverso diversi passaggi: dalla pedagogia di impostazione filosofica alle
scienze dell’educazione, dalla sua morte ad un recupero. Il termine pedagogia quindi raccoglie sia la dimensione
teorico filosofica sia la dimensione progettuale ed empirica, è una scienza dell’educazione autonoma e distinta dalle
altre ma connessa a loro.
Il rapporto tra teoria e prassi è dinamico e si inserisce nella circolarità virtuosa del triangolo teoria-prassi-teoria (si
ritorna alla teoria alimentata e arricchita dal confronto con la prassi). La teoria costituisce la condizione primaria della
pedagogia che dal progetto non può prescindere ma è una progettualità costantemente rivolta alla prassi: la prassi è
controllo analitico e metodologico ma anche intervento trasformativo. Il metodo di educazione indica l’oggetto e le
tecniche da utilizzare ma dietro a ogni metodo c’è uno spessore ontologico, antropologico ed epistemologico che vive
nella pratica (es avere una visione della realtà o rappresentazioni specifiche di uomo donna ecc). Quindi anche
comprensione, interpretazione e riprogettazione guidano la scelta del metodo sottoponendolo al vaglio critico della
ragione e verificandoli sempre in un contesto. Oggi la pedagogia ha saputo far valere la propria autonomia progettuale
ma è nutrita dal rapporto con le altre scienze dell’educazione rispetto alle quali è autonoma ma si fa contaminare. È
una scienza dialogica e in movimento rispetto alle altre scienze e si avvale di un approccio critico e problematico. È
uscita dall’inerzia epistemologica definendo la propria identità: da una parte ha saputo costruire il proprio specifico
punto di vista, dall’altra non si sottrae alle sfide del tempo presente (es incontro tra popoli, culture, etnie, sistemi di
sapere). La sua valenza trasformativa si proietta nella direzione del cambiamento emancipativo di uomini e donne
verso cui sono indirizzate teoria e prassi che incidono su fatti ed eventi educativi.

4 Pedagogia e pedagogie. La pedagogia, dopo essersi confrontata con le altre scienze, ha anche dovuto confrontarsi
con alcune articolazioni interne allo stesso sapere pedagogico, rivenienti anche dall’ampliarsi del suo campo di
indagine teorico e prassico. (elencare vari settori). Questa divisione interna deriva dal fatto che oggi la complessità
caratterizza gli scenari culturali, sociali, politici, economici (es attenzione anche all’età adulta e non solo all’infanzia, a
dimensioni specifiche dell’essere umano come il genere, all’identità etnica e culturale, alla scuola e ai processi di
scolarizzazione). 
Un’attenzione particolare viene data alla pedagogia sociale: essa si basa sul rapporto tra educazione e società, si
chiede in che modo attraverso l’educazione un soggetto entra a far parte della società (se l’educazione è indipendente
o meno dalla società, se il tipo di società influisce ecc); tutto si basa sulla natura sociale dell’educazione e sulla
caratterizzazione educativa del sociale. Campo privilegiato della pedagogia sociale è il territorio, antropologicamente,
urbanisticamente, culturalmente ed economicamente connotato, articolato in contesti circoscritti o ampliati; ci
possono essere situazioni di alienazione e prevaricazione sociale ma anche di integrazione e contaminazione per
questo il campo dell’educazione sociale è caratterizzato da permanenti processi di trasformazione, anche perché le
frontiere del presente sono fluide e instabili. 
La filosofia dell’educazione invece ha valenza fondativa e funzione regolativa rispetto alla pedagogia: ha una funzione
antidogmatica e critica riguardo le strutture di senso e significato del sapere pedagogico, modelli, paradigmi, ambiti di
riflessione. Essa è diventata baricentro dei discorsi della pedagogia ma è un’indagine di 2° livello: essa non dovrebbe
dimenticare di porre al centro della sua attenzione un 1° livello di analisi che abbia per oggetto i problemi
dell’esperienza educativa; la filosofia dell’educazione nasce non quando si supera l’immediatezza per assumere una
disposizione riflessiva ma quando tale disposizione diventa critica.

5 L’oggetto della pedagogia. Per connotare la pedagogia come scienza bisogna individuare il suo oggetto e la sua
metodologia. A partire dall’assunto della educabilità delle persone, l’oggetto della pedagogia è la formazione nella sua
dimensione processuale, con la sua natura teorico prassica. Orefice introduce il concetto di formatività come
ampliamento del concetto di educabilità, cioè formazione del soggetto e del contesto sociale e queste 2 sono
intrecciate. Questo intreccio riguarda tutti i soggetti e tutti i territori: anche se ogni società esprime propri modelli di
sapere e di conoscenza, si sta costruendo un villaggio globale costituito da società industrializzate e altre in via di
sviluppo. Bisognerebbe individuare un modello che punti alla formazione della specie: l’appartenenza alla medesima
specie umana costituisce la base di ogni teoria e pratica di formazione (il modello di riferimento non dev’essere una
3

specifica società) -> esso si basa sul medesimo diritto di tutti i cittadini alla formazione nel rispetto e nella
valorizzazione delle differenze (ma questo diritto non è garantito ovunque); formazione, educazione e istruzione sono
alla base di questo diritto. In tal senso la pedagogia è scienza del sapere e agire educativo, capace di elaborare modelli
teorici che sappiano misurarsi con i fatti educativi riprogettandoli in relazione a fini e valori riconducibili
all’emancipazione e all’autonomia. 
L’educazione (guidare, condurre attraverso, allevare e nutrire) fa riferimento alle dimensioni affettivo relazionale,
etico sociale e valoriale e quindi alle istituzioni non formali come la famiglia. L’istruzione (trasmettere) fa riferimento
ai processi di acquisizione e organizzazione delle conoscenze, saperi e competenze; l’attenzione è rivolta alla
dimensione cognitiva delle persone e alle istituzioni formali (scuola e università) che hanno come obiettivo
l’alfabetizzazione primaria e secondaria nell’intero corso dell’esistenza. La formazione (paideia greca, humanitas
latina, bildung tedesca) prima è stata ridotta a semplice formazione professionale, poi è tornata al centro del discorso
pedagogico come processo dinamico. Queste 3 compongono il costrutto della formazione per tutti e per tutta la vita
senza però rinchiudersi in un astratto e sterile pragmatismo. 
Dall’incrocio tra queste dimensioni sono emersi nuovi concetti, es Laporta riduce il concetto di educazione ad
apprendimento perché secondo lui il topos pedagogico della libertà dell’educando si risolve chiedendosi se l’individuo,
per realizzare apprendimento, debba trovarsi in condizione di libertà. Massa crede che il focus dell’educazione sia il
metodo, volto a formare le persone in relazione ai differenti sistemi sociali e culturali e ai percorsi di sviluppo; il
metodo non è solo una tecnica ma la rete che si costruisce tra tutte le variabili in gioco nell’azione educativa. Egli poi
integra il concetto di metodo in quello di dispositivo cioè non solo ciò che è visibile ma anche ciò che è latente. Il
metodo deve essere poi verificato nella pratica educativa.

CAPITOLO 2: POTERE O CRISI DELL’EDUCAZIONE? .


1 Luci e ombre del tempo presente. Oggi è cambiato il rapporto con il tempo e con lo spazio: il tempo appare sempre
più accelerato, tutto è emergenza, presente, passato e futuro appaiono scollegati fra loro; trionfa il pensiero sbrigativo
che propone soluzioni rapide e veloci, confortanti che ci evitano la fatica del riflettere. Anche il rapporto con lo spazio
è cambiato: da una parte il poter visitare luoghi lontanissimi apre molte possibilità di conoscenza e crescita, dall’altra
l’anomia di luoghi tutti uguali impedisce di crescere in luoghi unici. Lo stare in un luogo fisico e in più luoghi virtuali
contemporaneamente ci rende multitasking, consente di sviluppare creatività e resilienza ma può determinare
disorientamento, spaesamento, angoscia. Il tempo e la società richiedono prestazioni sempre al top, efficacia ed
efficienza, ma a parte l’illusoria gratificazione del momento viviamo stati di solitudine, relazioni superficiali e precarie
che puntano sull’apparire più che sull’essere. È rischioso l’annullamento della separazione tra spazi pubblici e privati,
la dimensione del privato quasi si annulla perché siamo sempre connessi con quella professionale.
Lo spazio virtuale inoltre spesso sostituisce quello fisico e lì prevale la voglia di esibirsi e non di comunicare; si creano
dinamiche relazionali fittizie caratterizzate da violenza verbale e incomunicabilità reciproca. Queste relazioni fanno
dipendere la propria credibilità sociale e il consenso dal numero di like ottenuti, ed essi calano quando vengono
condivisi determinati video o foto e ciò può portare anche a gesti estremi (non c’è più il diritto all’oblio), si arriva ad
una sovraesposizione mediatica del privato. L’apparire pone al centro la cura ossessiva del proprio corpo generando
fenomeni come i disturbi alimentari, si è ormai diffusa la mitizzazione di un corpo giovane e perfetto ma sono solo
modelli stereotipati e omologanti.
Gardner e Davis hanno studiato l’influenza che i media digitali hanno su identità, intimità e creatività: le app possono
circuitare la formazione dell’identità oppure permetterci di formarla in modo più libero e completo; per l’intimità,
possiamo avere relazioni più profonde e durature oppure chiuderci in un atteggiamento freddo e isolato; per
l’immaginazione, le app possono renderci pigri oppure offrirci nuovi modi di immaginare e creare. La soluzione è farne
un uso più attivo.

2 L’educazione al bivio. Ci si chiede se l’educazione sia in crisi e come possa superarla. Bruno Rossi riflette sul potere
dell’educazione affermando che in questo momento il concetto di autorità ha una interpretazione negativa, sinonimo
di coercizione, predominio e prevaricazione; così facendo si genera una maleintesa libertà che si traduce in
comportamenti a loro volta prevaricatori delle libertà e dei diritti degli altri (es bullismo): questo è peggiore quando
l’esercizio di un potere di autorità si configura all’interno di una relazione (es insegnanti e alunni) con ruoli
gerarchicamente differenziati. La relazione educatore educando è asimmetrica ma questa asimmetria va posta al
servizio di una relazione che deve poi gradualmente evolversi verso l’emancipazione; è un potere di servizio che deve
portare al raggiungimento di una propria autonomia personale, sociale e professionale (non ad asservimento e
conformazione).
4

L’antinomia libertà autorità ha dato luogo a rapporti di prevaricazione e di potere che sono stati oggetto di critiche es
della scuola di Francoforte. Il potere dell’educazione deve essere attento ad evitare i rischi dell’autoritarismo ma anche
del permissivismo: la asimmetria non deve escludere una circolarità ricorsiva ma deve essere dinamica.
Poste queste basi, bisogna capire quali obiettivi ha questo potere e quali connotati ha. L’autorità si deve esprimere nei
termini di autorevolezza non di autoritarismo: essa deriva dall’essere testimoni credibili dei valori e idee di cui si è
portatori, il cui fine è la libertà e autonomia emancipativa del soggetto in formazione. Secondo Bertolini l’educatore
deve dare testimonianza della sua esperienza e questa è la forma più completa del linguaggio pedagogico; deve
mettere in pratica quei valori, infatti la forza educativa dell’esempio sta nel suo essere pensiero debole: i contenuti
proprio per la loro autenticità mostrano la loro imperfezione.
Non bisogna esercitare onnipotenza educativa ma dialogo, confronto, mediazione, ascolto, rispetto delle idee altrui.
Secondo Gadamer l’autorità ha il suo fondamento in un atto di riconoscimento e di conoscenza: la ragione è
consapevole dei propri limiti quindi concede fiducia al miglior giudizio altrui. Secondo don Milani il potere
dell’educazione spesso si esplica attraverso il potere della parola.

3 La cura, categoria pedagogica. La capacità di donare è il tratto costitutivo dell’essere umano e conferma l’unicità
delle persone senza esaurirle in un arido individualismo, oggi diffuso, scorporato da legami sociali o in forme ristette
di socialità in gruppi tenuti coesi da interessi micro. Oggi si parla di ripiegamento diffuso e autoreferenziale, della
realizzazione attraverso il consumo perché siamo nella società del consumo, dell’inganno, dell’insoddisfazione e
dell’infelicità. Il dono quindi è una manifestazione di prossimità che esalta le differenze in un rapporto di reciprocità
che è comunque libero e disinteressato. Il dono è esso stesso cura perché ha con essa tratti in comune: dimensione
universale, si concretizza nel dare e ricevere, sono atti relazionali, c’è assunzione di responsabilità nei confronti di
qualcuno.
Parliamo di una pratica di cura quando si trasforma un’intenzione in un’azione. La natura ontologica della cura non è
disgiunta dall’azione e contiene in sé la relazione tra chi ha cura e la riceve. È essenziale la condizione di dipendenza.
Mortari ci parla di sentirsi responsabili, tensione donativa, avere riguardo per l’altro. In ogni caso la relazione non è
mai unidirezionale. Noddings invece parla delle caratteristiche dell’attenzione (es disponibilità ad ascoltare e
simpatizzare), quindi la cura non è mera attitudine sentimentale.

4 Le virtù donative della cura. Questa qualità donativa si esplica ad esempio nella cura materna: questa è sempre
stata considerata una virtù minore, nascosta negli spazi domestici, nella dimensione del privato (idea di privazione); la
Arendt sottolinea che questo era qualcosa che andava nascosto alla vista cioè gli aspetti corporei e affettivi della vita
umana. Oggi invece la cura è vista come sapere intriso di esperienza che deve contaminare la realtà extradomestica e
deve diventare una virtù pubblica perché è necessaria. Il dono oggi è tornato al centro dell’educare: donare è un
momento chiave dell’atto di educare.
Se ogni atto educativo si esprime sempre in termini relazionali, allora ciò implica un dono reciprocamente scambievole
tra educatore ed educando: uno dona la propria esperienza e sapienza ricevendo in cambio rispetto, riconoscenza o
info sulle tecnologie digitali. Il paradigma del dono rafforza la natura relazionale e teleologica dell’evento formativo
finalizzato a far crescere l’autonomia e l’identità del soggetto in educazione (prestare attenzione, dare ascolto,
dedicare tempo, lasciare spazio alle emozioni).
C’è però sempre il rischio di edulcorare le categorie del sono sottovalutandone la fatica: Palmieri ricorda che la cura
può essere autentica oppure no quando ci sostituiamo agli altri impedendo loro di sperimentare successi e fallimenti,
lasciandoli incapaci; l’educatore deve essere invece garante di uno spazio di sperimentazione, elaborazione, fatica e
libertà. Ciò conferma la fondamentalità del lavoro di cura degli educatori che devono mettersi in gioco consapevoli
che non ci sono soluzioni taumaturgiche ma bisogna sperimentare seppur in un mondo sempre esposto al fallimento.
Uno dei luoghi in cui si svolge la cura è la famiglia: attraverso l’accudimento materiale accompagnato dalla relazione
fisica soprattutto con la madre attraverso cui il neonato entra in contatto col mondo. Questo è un compito concepito
come naturale e perciò sottovalutato ma è fondamentale per l’autonomizzazione del bambino; l’accudimento non è
mai fine a se stesso ma porta ad una crescita fisica e integrata con gli altri e con tempi, luoghi e contesti.

CAPITOLO 3: L’EDUCAZIONE TRA MENTE E AFFETTI NEI DIVERSI CONTESTI DI VITA .


1 Educare la mente. Secondo Margiotta il conoscere non è immediato ma è il frutto di un’indagine compiuta in
relazione alla situazione quindi è in continua evoluzione perché le situazioni cambiano. Baldacci parla di mente
proteiforme: forma mentis plurale, morfologicamente dinamica e capace di autotrasformazione. (Proteo divinità
marina) quindi si ricollega alla società liquida di Bauman e ai rischi di una mente liquida, che si adatta senza reagire;
dovremmo invece avere una mente flessibile e non statica MA che si trasforma solo all’occorrenza.
5

Oggi è necessaria una mente plastica e dinamica (tipica della giovinezza ma che dovremmo mantenere anche nella
vecchiaia) per fronteggiare i mutamenti di una società complessa. L’intelligenza secondo questa concezione non è
ereditaria né innata ma ce ne sono di diverse tipologie. Secondo Olson ha natura pragmatica perché la società utilizza
più media quindi essa viene usata in forma reticolare. Karmillof-Smith parla di mente modulare che si rifà a profili
derivanti dall’esperienza specifica dei diversi soggetti. Baldacci parla dei diversi livelli logici di apprendimento: tipo 1
modificazione del comportamento dopo l’apprendimento; tipo 2 cambiamento del tipo 1; tipo 3 cambiamento del tipo
2, rapido e flessibile. Tutti sono indispensabili perché dobbiamo imparare ma anche poter cambiare idea. È necessaria
una mente fluida che cambi idea ma che abbia un’idea propria. Franca Pinto Minerva parla di mente nomade e
migrante.

2 Il nesso ragione/emozione. Quindi in una mente plastica anche le emozioni hanno un ruolo perché si ha una
concezione più ampia di intelligenza che non si limita alla dimensione cognitiva: la vita viene vissuta e interpretata
emotivamente senza più separazione tra ragione ed emozione, mente e corpo. Questo è il frutto di indagini scientifiche
(es intelligenza emotiva di Goleman, intelligenze multiple di Gardner) e nel 1900 ci sono stati studi sulle neuroscienze
che hanno rivalutato le emozioni come forme di intelligenza emotiva e come attività cognitiva. Le emozioni
determinano i processi stessi di pensiero: il tessuto affettivo emotivo della mente è condizione per lo sviluppo del
pensiero creativo.
Mente e affetti si incarnano poi nelle relazioni quindi in contesti specifici: esse non sono viste come contrapposizione
e conflitto ma come condivisione e comprensione, così non si hanno emozioni superficiali ma si ha cura dell’altro.
Emozione: moto dell’animo positivo o negativo; affetto: relazioni interpersonali contraddistinte da cura e
disponibilità; sentimento: stato emotivo stabile, duraturo e consapevole. La complessità del vivere contemporaneo è
connessa con la possibilità di espandere la natura relazionale evitando chiusure individualistiche che fanno da ostacolo
al mutamento.
Al nichilismo distruttivo va contrapposto l’altruismo, non in una concezione banale ma deve diventare un abito
mentale culturale, cognitivo ed emotivo, e consapevole. Questa categoria si associa a quella di bene comune, concetto
di cui parla già Aristotele: ha una connotazione positiva, es per Kant il fine ultimo di ogni azione morale è il bene. È un
modo di sentire la comune appartenenza al genere umano e alla terra nella consapevolezza che non è possibile
fronteggiare crisi e transizioni della contemporaneità attraverso logiche individualistiche: non si può tutelare solo il
proprio interesse, il bene comune è uno spazio di partecipazione e condivisione. Esso favorisce il benessere e il
progresso di tutti: i beni comuni sono elementi materiali o immateriali, il bene comune coincide con la humanitas ->
oggi la nostra umanità è in bilico a causa delle condizioni di chi vive ingiustizie sociali di cui però non riusciamo a
cogliere la reale drammaticità. È necessaria quindi una rilettura connessa al principio di giustizia, solidarietà e fraternità
tramite percorsi di formazione che valorizzino l’impegno etico.

3 Mente e affetti a scuola. Coltivare sia ragione che emozione è l’obiettivo di molti studi teorici: prima i programmi si
concentravano o solo sul cuore (55) o solo sulla mente (95) e a questo sottostavano diversi modelli e idee di scuola e
di formazione, ma così facendo non si valorizzava l’intreccio tra le 2 -> tra i primi modelli che lo fanno c’è quello
dell’intelligenza emotiva di Goleman. La scuola è un sistema relazionale in cui si esprimono anche emozioni e
sentimenti quindi bisogna promuovere la formazione emotivo-affettivo-sentimentale e bisogna essere consapevoli
che le emozioni non sono un ostacolo alla conoscenza, anzi favoriscono il pensiero riflessivo, critico e creativo. L’OMS
già nel 94 aveva dichiarato la dimensioni emotivo affettive come skills indispensabili per mettersi in relazione con gli
altri ed affrontare i problemi. La scuola quindi è palestra di saperi e di emozioni ed ha l’obiettivo di rendere consapevoli
delle proprie emozioni e della loro interferenza rispetto ai processi cognitivi. È necessario quindi un apprendimento
multidimensionale che eviti parcellizzazione dei metodi, dei saperi e delle discipline che così non comunicano tra loro.
Morin ha evocato una riforma dell’insegnamento che eviti la divisione dei saperi che devono essere collegati gli uni
agli altri, e che sottolinei la fondamentalità dell’attitudine a contestualizzare. La mente deve saper comprendere la
complessità polimorfa di saperi, contesti, persone, culture.
Dall’incontro tra saperi ed emozioni del soggetto in formazione e che forma nasce la relazione educativa: è
problematica ma capace di generare autonomia di pensiero e di azione in entrambi; essa si genera a scuola ed è l’esito
dei processi di alfabetizzazione strumentale e culturale, dei rapporti formali ed espliciti, del tessuto microsociale
(questo è deducibile dal fatto che spesso si ricorda il nome del prof o le relazioni con prof e compagni). Questo richiede
un’idea di scuola che abbia l’obiettivo della formazione di cittadini che sappiano governare i processi di
trasformazione; nel corso del tempo si sono succeduti vari governi che hanno alternato conformismo istituzionale a
rinascita culturale e questo evidenzia la natura politica dell’educazione: la scuola subisce i valori della società ma può
anche cambiarli.
6

La scuola quindi non dovrebbe essere strumento di conformizzazione e di omologazione ma dovrebbe salvaguardare
il diritto dei singoli e la cura della propria identità di cittadini e di persona. Quindi possiamo parlare di scuola,
educazione e società democratica quando il modello scolastico riesce ad autonomizzarsi rispetti ai valori diffusi dai
canali di comunicazione. Ciò si ricollega al concetto di scuola laboratorio di Dewey contrapposto a quello di scuola
bottega che è schiacciato su ragioni utilitaristiche e legato alle domande di mercato: esso quindi si struttura all’incrocio
tra sviluppo individuale e sociale ed è legato alla realizzazione sociale e all’umanizzazione.
Oggi la scuola continua a vivere una contraddittorietà: ne “L’ora di lezione” Recalcati afferma che il prestigio simbolico
della scuola si è indebolito, essa ha perso di credibilità ma ha avuto un aumento di responsabilità e di compiti
attribuitile da un’altra istituzione in crisi che è la famiglia. Oggi c’è complicità tra genitori e figli e così viene screditato
il docente che però viene caricato di aspettative difficili perché ha perso anche di autorevolezza: oggi non c’è più
quell’alleanza tra scuola famiglia ed extra scuola che c’era negli anni 70/80 ma dovrebbe esserci di nuovo ponendo al
centro la formazione delle generazioni loro affidate.
Gli obiettivi della scuola sono: natura istituzionale (formazione trasversale), natura educativa (intreccio mente cuore),
natura sociale (scuola inclusiva), natura pedagogica (evitare dispersione materiale e intellettuale), natura didattica
(autonomia formativa), natura professionale (valorizzazione ruolo dei docenti). Le caratteristiche di una scuola
inclusiva sono l’esito di conquiste democratiche che puntano all’uguaglianza delle opportunità, ad una scuola di massa
che liberi le menti e le porti all’emancipazione. Balducci afferma che però la scuola di fatto produce resistenza al
cambiamento perché si limita a perpetuare idee e valori ritenuti innati e quindi intoccabili (es etnocentrismo che porta
al razzismo, competizione, neutralità della scienza) e oggi questo pensiero è ancora attuale. Il principale agente di
cambiamento dovrebbe essere il docente che nel tempo è stato sia vestale della classe media sia protagonista di
riforme: è necessario che gli insegnanti siano competenti, che abbiano conoscenze e competenze articolate, culturali,
didattiche, relazionali ed organizzative, ed è una figura che merita maggiore rispetto e considerazione. Deve essere un
docente in movimento perché soggetto a modificazioni professionali ma anche ispirato al cambiamento di sé, degli
alunni e del contesto; deve avere competenze didattiche e disciplinari ma anche cliniche ed emotive: Massa parla di
clinica della formazione cioè alla base della formazione bisogna scoprire il registro dei modelli di comprensione, delle
dinamiche affettive; ogni professionista porta sempre con sé la propria storia formativa che lo condiziona, e dimensioni
implicite ed esplicite di alunni e prof si intrecciano.

4 Mente e affetti a casa. Dagli anni 70 la famiglia ha vissuto molte trasformazioni (legge sul divorzio, sulle unioni civili
ecc) sia nelle relazioni di coppia che in quelle con i figli (donna che lavora, affido in caso di divorzio ecc). La famiglia
rimane però luogo di elezione di affetti e sentimenti pur vivendo molti problemi perché subisce valori e costumi
dominanti. Se in passato l’asimmetria tra adulti e bambini era evidenziata dalla negazione dell’infanzia, poi si è passati
alla scoperta del fanciullo e oggi siamo tornati in un mondo di adulti: l’infanzia deve soggiacere alle regole del mondo
adulto e ai suoi comportamenti di prevaricazione (es tutto e subito, rifiuto delle regole) che spesso vengono emulati e
impediscono di gestire i conflitti e di saper negoziare, di crescere sul piano emozionale ed affettivo. Questo sottolinea
l’incapacità delle famiglie che puntano soprattutto ad un rinforzo nel successo pubblico della propria immagine: i figli
sono visti come beni di consumo e come soddisfacimento del bisogno di essere genitori, ma è un impegno per sempre
e questo concetto è difficile in un tempo di consumo effimero e provvisorio; è una scelta costosa (procreazione
artificiale, adozione), impegnativa che spesso degenera in scelte egoistiche e illecite (commercializzazione dell’adozione
e dell’affido, commercio di bambini) quindi si passa da una decisione altruista a una mercificazione dell’infanzia (vendita
di bambini, utero in affitto) .
La famiglia ha un ruolo privilegiato perché al suo interno ci sono differenze plurali (genere, ruolo, età) che rinsaldano i
legami grazie all’appartenenza a una storia comune: la coppia genitoriale quindi è fondamentale per tenere saldi i legami
familiari. È importante quindi non solo la storia personale ma anche quella della propria famiglia nella sua dimensione
longitudinale: i legami del nucleo familiare rimangono imprescindibili per la strutturazione dell’io e per determinare lo
sviluppo cognitivo ed emotivo. È nel contesto familiare che si possono attivare quelle occasioni di trasformazione delle
relazioni intergenere e intergenerazionali: oggi infatti esistono famiglie tradizionali e nuove, rapporti di dialogo e di
prevaricazione, relazioni simmetriche e asimmetriche, e la famiglia è allo stesso tempo un fatto pubblico e privato.
Il destino del nucleo però dipende dalla solidità della coppia e dal fatto che i partner a loro volta si portano dietro una
determinata storia (e idea) della famiglia che li condiziona. La responsabilità genitoriale è sempre in bilico tra
autoritarismo e lassismo, simmetria e asimmetria ma dovrebbe fondarsi sull’etica della condivisione. Si parla anche di
una ridefinizione del ruolo paterno che oggi ha nuovi diritti e doveri e queste trasformazioni testimoniano la situazione
di crisi della coppia genitoriale. Però è difficile ripensare questo ruolo diverso dall’autorità assoluta e indiscussa che lo
ha sempre caratterizzato. Il padre dovrebbe ridefinire il proprio ruolo assolvendo alle funzioni educative riconosciute
7

nell’ambito della propria comunità familiare: il genitore dovrebbe riflettere sul proprio ruolo pur essendo consapevole
di eventuali insuccessi e paure, osservando la famiglia dall’interno e agendo concretamente.
5 Mente e affetti sul luogo di lavoro. Lo spazio del lavoro è oggi preponderante rispetto agli altri tempi di vita,
coinvolge l’intero gruppo familiare e le dinamiche relazionali. Bisognerebbe quindi farne un’occasione di felicità e
legittimare il peso e il ruolo che le emozioni hanno rispetto al buon lavoro. Secondo Gardner il buon lavoro dovrebbe
essere coinvolgente sul piano personale ed eticamente fondato, nella consapevolezza dell’intreccio tra responsabilità
personale e dell’azienda. Bisognerebbe saper coniugare competenze tecnico professionali con il coinvolgimento
personale e l’impegno etico: così facendo il lavoratore sarebbe in grado di autoregolare la propria vita professionale e
facilitare il processo di adattamento ai cambiamenti. Il lavoro è visto quindi come uno spazio generativo di esperienze
tramite cui poter realizzare sogni e desideri ed esaltare i propri talenti; la humanitas dovrebbe orientare l’innovazione
tecnologica e il mercato del lavoro. Bruno Rossi afferma che nel lavoro intervengono corpo e mente e che il lavoratore
non è separabile dal proprio vissuto extralavorativo ma che anzi è connesso alla propria soggettività: per questo
bisognerebbe investire nella vita emozionale dei lavoratori altrimenti emozioni negative potrebbero essere un
ostacolo per il successo.
La qualità del lavoro è determinata quindi da queste dimensioni meno visibili che costituiscono il capitale intangibile:
conoscenze, idee, emozioni, affetti, flessibilità, creatività, senso di appartenenza al gruppo. Dovrebbe quindi esserci
un investimento emozionale e motivazionale oltre che tecnico professionale perché siamo un intreccio di homo
sapiens, homo demens, homo ludens. Il contesto lavorativo è condizionato e contaminato da questi elementi. Una
leadership efficace dovrebbe fondarsi su professionalità impregnata di emozioni e sentimenti oltre a competenze
tecnico professionali, dovrebbe avere come obiettivo la promozione di una cultura del lavoro felice rendendo i soggetti
più consapevoli. Nel 99 l’OIL dà la definizione di lavoro dignitoso: integra i diritti fondamentali con il diritto a poter
manifestare le proprie preoccupazioni e partecipare alle decisioni relative alla propria vita e a quella della propria
famiglia; attraverso l’educazione bisognerebbe agire per garantirlo a tutti. Questo concetto coincide anche con
l’obiettivo 8 dell’agenda 2030 che punta anche ad una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile e vede il
lavoro come luogo formativo che dovrebbe puntare sulla gestione delle risorse umane e dovrebbe essere orientato al
benessere organizzativo. Oggi le condizioni di benessere organizzativo sono eterogenee: ci sono condizioni disumane
di lavoro ma anche esempi di grande significatività etica e di successo economico. Un esempio è quello di Brunello
Cucinelli (ramo tessile in Umbria): la sua azienda ha come punto di riferimento il bene comune, l’uomo è al centro del
processo produttivo e lui fa profitti ma con etica. Questo si basa sul paradigma di impresa sociale anticipata da Olivetti
che ha ideato un modello di capitalismo eticamente orientato, attento al benessere dei lavoratori dentro e fuori
l’azienda (improntato ai principi di giustizia, tolleranza, valori spirituali, arte, cultura). La complessità del sistema
economico deriva dalla globalizzazione ma bisognerebbe tornare ad una valorizzazione della dimensione etica per
ridare dignità al lavoro: concetto di lavoro per tutti coniugato con spirito di iniziativa e valorizzazione della creatività.
Concetto di capacitazione umana (Sen e Nussbaum): ci sono beni fondamentali che permettono di verificare il livello
reale di sviluppo di una società (es poter usare i propri sensi, provare sentimenti ed esprimerli, poter vivere con e per
gli altri, essere trattati con dignità e rispetto al di là delle differenze, poter ridere e giocare).

CAPITOLO 4: PEDAGOGIA E CORSO DELLA VITA .


1 Dalla linearità alla ricorsività dei tempi di vita. Oggi la pedagogia ha superato i confini allargando la funzione
dell’educare a strumento di trasformazione quantitativa e qualitativa del soggetto in educazione, si è passati da
modelli stadiali di sviluppo a modelli ricorsivi (= culture orientali), quindi da una concezione di età evolutiva a quella di
sviluppo umano: si parla di pedagogia del corso della vita perché è necessario formarsi per l’intero corso e non ci sono
momenti in cui l’educazione è più o meno necessaria. Parliamo di educazione lifelong, lifedeep e lifewide: per la
lifelong, bisogna valorizzare l’intera esperienza ed esistenza del soggetto quindi anche la profondità delle forme e dei
modi di relazionarsi con se stessi e con gli altri; bisogna recuperare il concetto di apprendimento ed educazione
permanenti e nella molteplicità dei luoghi di vita.
L’educazione è intergenerazionale e intragenerazionale quindi questo modello dovrebbe far riconoscere l’alterità
senza viverla in forma oppositiva ma senza nemmeno annullarla, considerandola come un’occasione di riscoperta e
prestito; questo modello però non deve andare incontro ad un congelamento perché non bisogna fermare il tempo
ma imparare a gestire le transizioni. Esse sono caratteristiche della vita contemporanea, sono una vera e propria sfida
perché coinvolgono più dimensioni della persona implicando anche legami e relazioni. Anche quando sono dirette
verso un progresso sono comunque un evento traumatico. La formazione deve rendere leggibili le transizioni per far
sì che possano essere governate senza soccombere all’angoscia esistenziale. Questi eventi transitori sono tipici
soprattutto della vita degli adulti quindi la formazione dovrebbe avere la funziona di accompagnamento alla
8

transizione che non è mai abituale; dovrebbe avere una funziona di guida e supporto e consentire alla persona in
transizione di apprendere forme e padroneggiare strumenti da utilizzare nella gestione di eventi transitori. La
formazione dovrebbe anche creare habitus mentali ed emotivi per gestire le transizioni, reagendo senza subirle ma
imparando a governarle. L’educazione lifewide si riferisce alla formazione nella pluralità dei contesti di tipo formale,
informale e non formale (modello di Frabboni ancora oggi inattuato perché non c’è dialogo tra le istituzioni).
L’educazione quindi è un processo da pensare in funzione di quello che ci connota come esseri umani, cioè la comune
umanità.
Si parla quindi di educazione permanente in molti studi già del 1900. Il testo della commissione europea del 2000
traccia i capisaldi di un’educazione capace di formare un cittadino attivo e un professionista competente per il buon
governo della società (obiettivo non raggiunto). L’educazione quindi non è funzionale all’occupabilità o all’occupazione
ma all’emancipazione personale, sociale e professionale, e deve essere capace di contestualizzare il diritto dovere alla
formazione di fronte ai cambiamenti. Baldacci crede che essa debba mediare tra la formazione del produttore e quella
del cittadino in modo che queste si fecondino reciprocamente nella prospettiva di una crescita continua e sempre più
profonda dell’umanità stessa dell’uomo.
L’educazione permanente quindi è un processo naturale e sociale che si costruisce per l’intero corso della vita
(lifelong) nei differenti contesti (lifewide) promuovendo un apprendimento profondo (lifedeep). È importante quindi
che si sia riconosciuta la capacità della persona di apprendere e formarsi per l’intero corso della vita.

2 Dall’infanzia alla vecchiaia. L’infanzia è vista come l’età del non ancora, la vecchiaia come l’età del non più: periferie
viste come luoghi dell’assenza di quelle caratteristiche tipiche dell’età adulta come maturità, stabilità, equilibrio.
C’è stato nel 1900 un cammino di riconoscimento dell’infanzia, c’è stata la sua scoperta ed emancipazione (es al centro
del nucleo familiare e di molti studi e modelli). Questo secolo ha esaltato l’infanzia e l’ha resa oggetto di interventi
mirati per investire sulla sua educazione per costruire persone adulte equilibrate e capaci di governare la società. Sono
state anche promulgate molte carte internazionali e documenti. Maria Montessori credeva che l’infanzia fosse
fondamentale perché il bambino è padre dell’uomo: i bambini dovrebbero essere salvaguardati da forme di violenza
esplicita (schiavitù, violenza, uccisione fisica) ma anche implicita: nelle società opulente, l’infanzia viene
strumentalizzata, commercializzata, adultizzata e per questo sta scomparendo, è intesa ad uso e consumo degli adulti
che invece dovrebbero custodirla, proteggerla, curarla. Becchi si chiede se il bambino sia felice ma per poter rispondere
bisognerebbe capire chi è davvero il bambino ascoltandolo e proteggendolo da violenze, manipolazioni, riduzioni,
alienazioni. Queste violenze riguardano soprattutto le bambine, corpi senza teste: nonostante gli esiti positivi delle
lotte delle donne per ottenere diritti, il risultato è sempre in bilico.
La vecchiaia è caratterizzata da stereotipi e pregiudizi ed è per questo emarginata: col tempo ha perso il suo ruolo di
fonte di sapienza e saggezza e viene descritta solo tramite immagini di decadenza fisica e mentale; questo è dovuto
alla perdita di ruolo sociale e professionale (pensionamento) che porta alla perdita di significato dei loro pensieri e
azioni. L’adulto intende l’anziano come un soggetto altro da emarginare. In realtà questi pregiudizi sono sbagliati
perché questa è un’età differenziata al suo interno: es per le differenti possibilità di usufruire di tempi e spazi di vita
per contrastare i processi di destrutturazione fisica e mentale. Bisogna ripensare al welfare sociale che li comprenda
nell’organizzazione di tempi e spazi di vita. Bisognerebbe vivere la vecchiaia come una nuova possibilità esistenziale
partendo proprio dalle perdite fisiche e mentali e riprogettandola in base a quelle: gli anziani così sarebbero soggetti
attivi e responsabili della propria vita. Dovrebbero coltivare interessi, recuperare relazioni perché così facendo le
perdite neuronali possono essere compensate. Dovrebbero avere una disposizione d’animo che gli consenta di vivere
serenamente questi cambiamenti.

3 Attraverso l’età adulta. La prospettiva di un apprendimento estesa a tutti e per tutta la vita ha portato soprattutto
gli adulti a misurarsi con una crisi e a porsi domande (es che responsabilità hanno gli adulti che si educano e devono
educare). La globalizzazione e la tecnologicizzazione hanno portato dei cambiamenti importanti: se da un lato c’è
maggiore spazio e peso per le persone e le loro idee, dall’altro questo ha accentuato forme di competizione e conflitto.
Ci sono quindi 2 prospettive per affrontare questo cambiamento: 1 maggiore qualificazione del capitale umano non
solo per il possesso di un titolo di studio, ma anche per la padronanza di competenze trasversali a più ambiti; 2 forme
di capitalismo cognitivo che portano alla strumentalizzazione del costrutto del lifelong learning, c’è un sistema
neoliberista che amplia le conoscenze ma appiattisce le menti su modelli standardizzati e omologanti: l’uomo quindi
diviene un mezzo per lo sviluppo economico e l’accumulazione di ricchezza.
L’apprendimento adulto ha delle caratteristiche, es esalta l’importanza dell’esperienza e c’è la prevalenza di una
formazione autodiretta fondata sulla necessità di far leva sul concetto di sé. Nella biografia professionale infatti sono
comprese anche tutte le esperienze che vanno poi ad incidere sulle scelte future. Dewey riconosce il nesso tra
9

conoscenza ed esperienza: è la capacità di apprendere dall’esperienza che forma e fonda il pensiero (experiential
learning); il pensiero trae origine dalla problematicità: quando siamo in difficoltà, sulla scorta dell’esperienza
formuliamo delle ipotesi che poi possono essere validate o rigettate. Però non tutte le esperienze generano
apprendimento se non accompagnate dal pensiero critico sull’esperienza stessa che ci porta poi ad elaborare ipotesi
che devono essere validate nella pratica.
Schon teorizza il pensiero riflessivo riferito ai contesti professionali e alle competenze che i professionisti devono
avere: si parla di riflessione durante o dopo l’azione -> nella 1° il sapere viene riorganizzato durante l’azione stessa, si
analizzando soluzioni scegliendo quella che sembra più opportuna in quel momento; nella 2° si sospende l’azione per
comprenderla e interpretarla (attività metariflessiva). Bisognerebbe inoltre interpretare l’esperienza in funzione
trasformativa, non applicando schemi interpretativi precedenti ma mettendoli in discussione e trasformali in base ai
nuovi contesti d’uso.
Parlano di experiential learning anche Kolb e Knowles che elabora una teoria andragogica: ci sono elementi che
contraddistinguono l’età adulta e incidono su come l’adulto impara (età, caratteristiche personali, esperienze, contesti
di vita, forme di autoapprendimento). Holton e Swanson partono da questo modello e individuano i principi
fondamentali: il bisogno di sapere del discente; l'apprendimento autodiretto; l'esperienza pregressa del discente; la
disposizione ad apprendere; l'orientamento verso l'apprendimento e il problem solving; la motivazione ad apprendere.
Bisognerebbe riconoscere quindi l’importanza non solo di competenze tecnico professionali ma anche trasversali,
cognitive, riflessive.
Liendman in “The meaning of adult education” (26) fornisce un modello di educazione degli adulti e un ripensamento
di tutto il sistema educativo: l’educazione è un’impresa gioiosa, non un’attività da subire. Egli traccia così la
dimensione ludiforme dell’esistenza: la formazione e il lavoro non sono attività necessitanti ma gioco; se l’intera vita
è apprendimento, l’educazione deve essere permanente. Egli ha anche fiducia nell’intelligenza e dà quindi importanza
all’educazione dell’intelligenza che è coscienza in azione; essa però si esercita sul nuovo quindi bisogna avere il
coraggio di rimettere in discussione le proprie abitudini: a questo serve l’educazione; bisogna inoltre dare importanza
alla creatività perché tutto questo può avvenire solo in ambienti di apprendimento stimolanti e dinamici. L’educazione
è investimento sull’intelligenza in tutte le sue libere espressioni.
Lo scopo dell’educazione degli adulti è dare significato alle categorie dell’esperienza non alle classificazioni della
conoscenza: non è preparazione alla vita ma è vita. La sua idea quindi si contrappone a quella di altri studiosi che
vedono l’educazione come la via per lo sviluppo ed emancipazione delle persone; per Freire invece l’educazione è una
pratica di libertà per far uscire dalla condizione di oppressione sia oppressi sia oppressori.
L’adulto quindi deve avere un’identità fluida, con carattere attivo e autotrasformativo. Secondo Erikson l’aspetto
caratteristico della condizione adulta è la generatività: procreare non solo persone ma anche idee e progetti che a
loro volta sono generativi. C’è quindi il superamento dell’idea di stabilità e definitività dell’età adulta e invece c’è la
valorizzazione dell’incompiutezza dello sviluppo umano. Bisognerebbe quindi reinterpretare in chiave positiva la crisi
per farne un’occasione di riprogettazione della condizione esistenziale di uomini e donne, ora spogliata dall’idea di
onnipotenza e autoritarismo ma non da quella di autorevolezza.

CAPITOLO 5: PEDAGOGIE DELLA CONTEMPORANEITÀ .


1 Pedagogia delle relazioni interculturali. Oggi prevale la logica dell’io, l’individualismo che danno una illusoria e
momentanea gratificazione ma ci portano alla solitudine e all’abbandono; viviamo in un universo contraddistinto da
logiche di odio e dialogo rancoroso e questo ci impedisce di costruire spazi di possibilità ulteriore e progetti di vita
futura. Tutto ciò è causato dal crollo della fiducia legato a: crisi del lavoro, del modello di crescita, dei processi di
solidarietà sociale, ed essa è stata sostituita da diffidenza e sospetto verso l’alterità soprattutto se l’altro è diverso da
noi (non solo stranieri, ma anche donne, meridionali, generazioni diverse). Le nostre paure quindi si amplificano in
situazioni di incertezza e di crisi fino a trasformarsi in atteggiamenti razzisti che ci privano della nostra naturale
umanità, tenerezza e compassione.
Bauman ha descritto la nostra società: precarietà delle relazioni sociali, perdita dei legami comunitari, precarizzazione
delle prospettive di vita, ricerca di sicurezze effimere -> società liquida caratterizzata da precarietà, solitudine e
angoscia esistenziale. Secondo lui il veleno della paura aggrava la condizione di insicurezza alimentando il mercato
della paura: chiediamo sicurezza materiale e vogliamo prodotti che ci tutelino dall’intruso sia negli spazi personali che
comunitari. Augé afferma che la comunicazione mediale peggiora tutto questo e crea una matassa delle paure (es
telegiornali). La nuova conditio humana è quindi la dimensione del rischio che ci porta a desiderare sicurezza e
controllo. Si creano isole di similitudine in un mare di differenze e Bauman definisce questo mixofobia: separare in
uno stesso contesto gruppi diverso dal nostro -> è un paradosso perché nell’era della globalizzazione aumentano
ostilità e chiusure. Per comprendere perché giustifichiamo questi respingimenti Bauman crede che noi consideriamo
10

questi migranti solo economici non considerando il fatto che scappano da condizioni di fame, miseria, mancanza di
futuro. La questione dell’alterità ha attraversato tutta la storia umana e ci sono sempre state 2 modalità per
affrontarla: antropofagia, vengono mangiati loro o le loro idee, devono cambiare; antropoemica, vengono vomitati
cioè cacciati via.
C’è un’altra via che è quella del dialogo per conoscersi, confrontarsi e superare quella paura: gli stranieri si presentano
come walking distopias cioè come profezie negative che vogliamo bloccare. Bauman (con un’espressione di Gadamer)
parla di fusione degli orizzonti: se siamo coinvolti con altri nelle stesse esperienze, il nostro orizzonte si estenderà.
Questo non deve avvenire tramite tecniche populiste o demagogiche, e non dobbiamo pensare di vivere con e
nonostante le differenze, ma dobbiamo fondare la pace sulla valorizzazione e sull’incontro di differenze; non dobbiamo
affidarci ad uomini forti ma essere protagonisti di incontri quotidiani. Il rischio è legato anche ad una percezione falsata
della dimensione del problema (solo 10%) e ad una rappresentazione sbagliata di loro (non tutti sui gommoni, alcuni
vivono qui e lavorano).
Dovremmo scardinare questi meccanismi indotti, ascoltare le paure, evitare le chiusure e il meccanismo del capro
espiatorio. Questa in realtà è una questione complessa perché è un fenomeno antico e moderno, ed è circolare (l’Italia
è paese di emigrazione ed immigrazione), quindi imponendo questi blocchi avremmo un’arma a doppio taglio perché
anche gli altri paesi potrebbero attuarli. Allevi propone di riaprire i canali di immigrazione regolari per non alimentare
quelli irregolari. La prospettiva pedagogica vuole investire nella formazione per generare nuove logiche e nuove
culture; per Morin è necessaria una riforma delle menti per esercitare i diritti di cittadinanza globale. La scuola deve
praticare un’azione concreta e diffusa, per costruire quel pensiero migrante disponibile ad accogliere e valorizzare la
differenza piuttosto che censurarla, rimuoverla o combatterla; la scuola insieme ad altre istituzioni deve creare una
cultura della pace e del dialogo interculturale.
Gli esponenti delle principali religioni si sono incontrati alla conferenza interreligiosa internazionale tenutasi ad Abu-
Dhabi nel 2019 e hanno deciso di utilizzare la religione come arma di pace e non di guerra. Vaccarelli invece distingue
etnocentrismo e razzismo nonostante abbiano le stesse logiche: il 1° è un attitudine universalmente osservabile
(sempre. ovunque), il 2° si basa su conoscenze pseudoscientifiche e sul concetto biologico di razza, prima prevaleva il
razzismo biologico ora quello culturale. Sicuramente esso è causato dalla paura: diffusione della criminalità, timore
della perdita di certezze per gli autoctoni (es lavoro), perdita della propria identità culturale. Bisognerebbe quindi
puntare alla decostruzione.

2 Pedagogia delle relazioni intergenere. Alcune categorie (cura, ascolto, empatia) in occidente sono state tacciate di
essere caratteristiche di persone inferiori cioè del genere femminile che per questo ha dovuto subire segregazioni,
mutilazioni, persecuzioni e ha per secoli combattuto. Questo cammino è caratterizzato da un lato da
autoconsapevolezza, dall’altro da resistenza conservatrice: bisognerebbe invece esaltare le diversità e valorizzarle per
intendere in modo nuovo la vita e il mondo. Questi tentativi sono tutt’oggi in corso e i risultati non sono del tutto
positivi perché ci sono ancora molti femminicidi che indicano che l’uomo non vuole abbandonare il proprio dominio
materiale e simbolico. Non bisogna però dimenticare le conquiste delle donne nel 1900 soprattutto nel campo
dell’istruzione e del lavoro che le hanno portate ad assumere più consapevolmente il loro ruolo. Thebaud dice che
anche nella storia i protagonisti sono sempre stati gli uomini ma anche le donne sono attori a pieno titolo:
bisognerebbe tener conto dell’insieme delle relazioni umane fino alle loro interazioni. Secondo lui etnocentrismo,
razzismo, sessismo e classiamo, unendosi, trasformano le differenze in divisioni, le diversità in disuguaglianze.
Nel 1900 anche la scrittura femminile ha descritto questo cammino di emancipazione e la scrittura autobiografica ha
assunto un ruolo educativo. Simone de Beauvoir in “Les belles immages” descrive la protagonista che assume
responsabilità educativa rispetto a sua figlia che non dovrà limitarsi ad essere come lei una bella immagine, ma dovrà
avere una sua storia, vita, sorte. Virginia Woolf dà corpo a sensazioni, emozioni, idee suggerendo riflessioni, e
attribuendo significati inediti anche ad eventi negativi che vengono così trasformati in qualcosa di prezioso e
insostituibile: esprimendole a parole rende quelle cose reali e gli toglie il potere di far del male. Secondo lei
l’educazione dovrebbe sottolineare e accentuare le differenze, e non le somiglianze. Il romanzo di formazione invece
ci fa conoscere realtà esistenziali e modelli culturali diversi: es Fatema Mernissi in “La terrazza probita” descrive la sua
infanzia vissuta tra le pareti dell’harem, protettive ma preclusive di altri mondi. La differenza sessuale quindi deve
diventare occasione di scoperta e riconoscimento di un peculiare punto di vista definito per sé e non in relazione ad
altri.
Questa mentalità viene trasmessa però in famiglia: si parla di pedagogia dello specchio (Becchi) cioè di perpetuazione
di un modello di subalternità tramite l’imitazione di comportamenti e parole delle donne più grandi per garantire
l’immutabilità del ruolo e la staticità delle formae mentis (modello ostile allo sviluppo della divergenza). Questo
modello viene diffuso indipendentemente dalla classe sociale: un'infanzia privatizzata, quella aristocratico-borghese,
11

protetta e assistita ma al contempo sorvegliata e plasmata a misura di adulto; un'infanzia sociale, quelle delle classi
subalterne, anch'esse immerse nel mondo adulto ma nelle forme dello sfruttamento del lavoro. Oggi questa situazione
è un po’ cambiata ma permane nell’infanzia migrante che condivide con gli adulti la condizione di emarginazione. Ci
sono state delle conquiste ma abbiamo ancora donne esposte ed esibite come specchietto per la pubblicità, e la
diffusione di stereotipi si è allargata grazie ai canali della comunicazione usati anche dai più piccoli.

3 Pedagogia della sostenibilità. Il tema della sostenibilità è al centro di un dibattito che coinvolge da una parte
l’ambito scientifico per la gestione e uso delle risorse del pianeta, dall’altra ciascun abitante che deve essere
consapevole delle conseguenze tragiche che derivano da cambiamenti climatici, scioglimento dei ghiacciai,
inquinamento e malattie: sono soprattutto le giovani generazioni (es Greta Thunberg) a rappresentare una inversione
di tendenza. Già nel 87 la commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo con il Rapporto Bruntdland ha definito
sviluppo sostenibile come uno che soddisfa i bisogni presenti senza compromettere quelli futuri; deve esserci quindi
un nesso tra umanità, terra, generazioni diverse e mondi vitali diversi. Bisognerebbe avere un approccio olistico ed
ecosistemico per la difesa di tutti i sistemi viventi e dell’intero creato. L’insieme delle azioni umane influenza
l’ecosistema: se esse sono guidate da dominio e prevaricazione oppure da cura anche l’intero pianeta lo sarà. Ci sono
2 atteggiamenti: sensibilità ambientale che si riversa anche in comportamenti quotidiani; indifferenza, incuria e
distruzione che avranno conseguenze irreversibili.
L’emergenza ambientale è connessa a quella umanitaria: ci sono molti uomini che rischiano la vita per cercare
condizioni di vita migliori ma noi li trattiamo con indifferenza perché ciò non ci riguarda direttamente e perché
consideriamo il diverso come una minaccia e non una risorsa. Morin afferma che questo atteggiamento di conquista
e dominio ci ha privati di saggezza e solidarietà e ci sta portando verso atteggiamenti individualistici; secondo lui
l’educazione dovrebbe anche formare un’identità terrestre per mostrare come tutti gli umani vivano una stessa
comunità di destino. Bisognerebbe quindi impegnarsi in nome di una fratellanza cosmica per tenere insieme aspetti e
componenti della realtà diversi, e ristabilire l’alleanza tra umanità e natura. Dovremmo inoltre tener conto che ogni
nostra azione ha ricadute sull’intero ecosistema, e che il concetto di sostenibilità si contrappone a quelli di
sopraffazione, ingiustizia e disparità.
Per creare la cultura della sostenibilità bisogna quindi investire nel potere trasformativo del sapere e della conoscenza
garantita a tutti e per tutta la vita attraverso la formazione. Sostenibilità e solidarietà sono alla base dei 17 obiettivi
dell’agenda 2030 (fine alla povertà, alla fame, condizioni di salute migliori, educazione di qualità, uguaglianza di
genere, condizioni igieniche migliori, energia pulita, crescita economica, infrastrutture, eliminare disuguaglianze tra i
paesi, città sicure, modelli di consumo e produzione sostenibili, stop cambiamento climatico, cura di oceani e mari, e
di ecosistemi terrestri, società pacifiche, collaborazioni globali). Quindi sostenibilità ambientale e sociale sono
connesse e questa epoca caratterizzata da aggressività è legata a città chiuse che non offrono spazi per fare un uso
produttivo delle diversità. Bisognerebbe invece costruire reti sociali, politiche e culturali che rendano abitabili i territori
ed accolgano il disagio esistenziale per superare i muri dell’incomunicabilità e della diffidenza: questo deve essere
fatto da chi ha ruoli educativi, non realizzato in solitudine ma grazie ad una rete sociale (altrimenti si verificano episodi
violenti contro genitori e prof). Per realizzare questo progetto educativo ci si deve chiedere quale umanità vogliamo
formare e con quali virtù; nella realizzazione si confrontano approcci differenti che devono incontrarsi per riscoprire
la comune umanità.
L’educazione deve creare spazi di dialogo e interferenze tra storicità e possibilità (chi siamo e chi vogliono diventare);
l’educazione è intesa come coltivazione e cura soprattutto da chi volontariamente sostiene i soggetti in formazione,
ma questa cura deve essere rivolta a tutte le specie viventi (già nella Genesi). Si parla quindi di pedagogia ecologica:
non approccio epistemico ma relazionale sistemico; non procedure quantitative ma qualitative; non visione
deterministica ma evolutiva; valorizzare un rapporto empatico con l’oggetto di indagine.

4 Pedagogia dei media. La rivoluzione della conoscenza introdotta con le tecnologie digitali pone domande
all’educazione e alla pedagogia: la pervasività della comunicazione mediale amplifica le possibilità di circolazione delle
informazioni ma in parte le ha corrotte perché ha portato alla spettacolarizzazione dei sentimenti, assuefazione e
insensibilità. Lo spettatore mediale è consumatore e quelle scene hanno valore estetico prima che etico, non suscitano
orrore ma curiosità (es luoghi dei delitti); lo stesso accade nei talk show e nei reality: tutto ciò deforma il rapporto con
la realtà e la capacità di far fronte alla solitudine vivendo la vita degli altri. La solitudine così diventa ancora più dolorosa
e si accentua l’incomunicabilità, si parla di solitudine del cittadino globale (Bauman): la comunicazione virtuale
sostituisce quella faccia a faccia, aumenta la paura e la diffidenza perché ci si può nascondere dietro false identità. Il
potere seduttivo di alcuni modelli di vita ci porta a volerli imitare: questo successo però è effimero e illusorio, e questi
12

atteggiamenti se spinti fino all’estremo portano a perdita di dignità e identità pur di avere visibilità. È quindi necessaria
una pedagogia del pudore, una rieducazione dello sguardo e una dieta mediale.
Lo stesso vale per la violenza verbale che, autorizzata dall’uso che se ne fa nei salotti televisivi e nelle sedi istituzionali,
si diffonde e si traduce in comportamenti di aggressività e vessazione soprattutto nei confronti dei più deboli. Questa
violenza è messa a tacere dalla violenza dei discorsi d’odio fatti contro qualunque tipo di differenza: il rischio è che si
crei l’abitudine all’odio, l’assuefazione. Bisogna contrastare la deriva dei discorsi d’odio: alcune organizzazioni
internazionali si stanno impegnando e ci sono iniziative come il movimento “no hate Europa” (campagna contro
l’istigazione all’odio online), ed è anche stata proposta l’istituzione di una commissione sullo hate speech.
La comunicazione va quindi analizzata sia nelle sue potenzialità che nei suoi rischi: essa sicuramente soddisfa il bisogno
di comunicazione allargata ma può isolare ed emarginare. Visibile e invisibile, reale e fittizio si mescolano: possiamo
creare identità false dietro cui nasconderci ma allo stesso tempo non ci sono spazi di riservatezza (no oblio) e questo
può arrivare a ledere le libertà altrui portando ad atti estremi (suicidi). I social ci permettono di esprimerci con una
libertà e ampiezza inimmaginabili ma questo presupporrebbe una consapevolezza civica, intellettuale ed etica che
solo un’educazione intenzionalmente orientata a questo potrebbe garantire, quindi in ambito formativo ci si deve
impegnare in questo senso. La moltiplicazione delle informazioni non si accompagna necessariamente ad un ampliarsi
delle capacità di interpretazione e comprensione, per fare ciò bisognerebbe sottoporle al pensiero critico: spesso i
media impediscono la formazione di questo pensiero critico, riflessivo e creativo; bisognerebbe analizzare le cose dal
proprio punto di vista, il punto di vista dell’autore e del destinatario dovrebbero entrare in risonanza.
I media hanno anche un ruolo sul piano cognitivo: hanno modificato le formae mentis dei soggetti definiti perciò nativi
digitali (Prensky) e si sono rese indispensabili in ogni contesto -> prima ancora che nei contesti formali, in quelli
domestici e di svago. Le funzionalità touch e mobile consentono un uso immediato, semplice e a largo raggio grazie
alla diffusione delle app che spesso fungono da baby sitter e grazie alla loro potenza seduttiva intrattengono i bambini
per ore. I genitori sono sempre in bilico tra permissivismo e ostracismo imputando pregi e difetti sempre allo
strumento e mai all’uso che se ne fa: sono necessari interventi educativi intenzionali che affrontino il problema con
un approccio critico e problematico per educare alla cittadinanza globale, e che portino all’assunzione di responsabilità
di genitori ed educatori.
I contesti formali sono le sedi specializzate per l’organizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento e quindi
hanno un approccio più pensato: devono saper inserire i nuovi media nella organizzazione dei processi apprenditivi e
dei percorsi formativi non come elementi aggiuntivi ma integrandoli, nella consapevolezza che qualunque elemento
non genera automaticamente innovazione se non è finalizzato a un obiettivo formativo e se non viene integrato con
le altre variabili che compongono il sistema della formazione. Esempi: tecniche narrative nuove con il digital
storytelling (intreccio di linguaggi diversi che aggrega generazioni differenti), edutainment, gamification, moocs (corsi
di formazione a distanza aperti e gratis), in Italia eduopen (insegnamenti universitari a distanza).

CAPITOLO 6: L’EDUCAZIONE COME SPERANZA PER COSTRUIRE IL FUTURO .


1 L’educazione contro le vecchie e le nuove povertà. Oltre le forme di sviluppo e progresso, permangono vecchie
forme di povertà e se ne creano nuove: soprattutto quella materiale ma anche quella immateriale (morale). La povertà
materiale si è allargata anche a fasce di popolazione che prima non avevano problemi: es la crisi del 2008 ha creato in
Italia la categoria degli esodati (i disoccupati con un’età di 50/60 che non riescono a trovare lavoro) e ha aumentato
l’inoccupazione giovanile. Il malessere del singolo diventa quello delle coppie e delle famiglie: coppie che non riescono
a diventare famiglia perché prove di prospettive future, famiglie che devono mantenere figli adulti che non hanno
indipendenza materiale e sociale, che devono inseguire sogni di corto respiro indotti anche dai messaggi mediali che
spingono al consumo qui e ora. I soggetti più penalizzati sono le donne (soprattutto nel centro sud), anziani e bambini
perché c’è assenza di progetti. Si diffondono così non luoghi (es centri commerciali, cit Augè) che sostituiscono il
desiderio di prospettive di futuro con l’appagamento effimero nel presente.
La povertà diventa così la giustificazione alla chiusura individualistica ed egoistica che porta all’aumento della
diffidenza e della ostilità nei confronti dei nuovi poveri, visti appunto come distopie che camminano. Così sono in
declino quelle prospettive di speranza e di progresso nate dopo il crollo del muro di Berlino.

2 Testimonianze. L’importanza dell’educazione per l’emancipazione di singoli e comunità viene testimoniata


soprattutto dai più giovani. Iqbal Masih, bambino pakistano sfruttato sul lavoro, testimonia la violenza, la negazione
di diritti elementari raccontando in giro per il mondo la sua storia ma a 12 anni viene ucciso con una fucilata. Malala
Yousafzai a 14 viene ferita al collo e alla testa: lei difendeva i diritti delle bambine contro la violenza dei talebani, nel
suo blog raccontava la sua vita da scolara denunciando che i talebani volevano chiudere le scuole femminili; lei
continua a parlare in pubblico e grazie ad una donazione compra un autobus, ma nel 2012 viene ferita gravemente;
13

continua a dire che le armi più potenti sono libri e penne e che l’istruzione deve essere garantita a tutti: le nazioni
unite istituiscono la giornata di Malala e nel 2014 lei riceve il Nobel per la pace.
Esempio di un bambino 14enne originario del Mali il cui corpo è stato recuperato nel Mediterraneo a seguito del
naufragio dell’aprile 2015, con una pagella cucita nella giacca (storia raccontata dalla Cattaneo in “Naufraghi senza
volto”): era ritenuta il miglior lasciapassare per una nuova esistenza, importanza attribuita all’istruzione in quelle parti
del mondo dove non è ancora un diritto garantito.
Greta Thunberg è un’adolescente svedese che compie battaglie non violente per la difesa del pianeta e contro il
cambiamento climatico: il suo movimento di protesta l’ha portata ad attuare iniziative concrete come il Friday for
future, e l’ha portata in molte sedi autorevoli dove ha più volte sottolineato come si stia rubando il futuro alle giovani
generazioni, attuali e future (legato a interessi monetari delle grandi potenze mondiali).

Potrebbero piacerti anche