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CAPITOLO 1: REALTÀ DELLE IMMAGINI .


1 Ocularcentrismo. Civiltà delle immagini: epoca inaugurata dall’invenzione della fotografia (1839) e del cinema MA si
poteva già far riferimento al barocco, al teatro gesuitico, alle opere architettoniche. È più corretto parlare quindi di
come l’esperienza si configura e di come viene trasmessa in diversi contesti culturali e comunicativi. Predominio della
comunicazione verbale: copresenza emittente destinatario, l’oralità resta al centro MA non c’è medium che non utilizzi
codici provenienti da altri media (immagini accompagnate da parole scritte e suoni).
L’audiovisuale entra negli studi antropologici: fino a Malinowski l’antropologo lavorava con la scrittura, sulla base di
altre narrazioni di missionari o mercanti che si trovavano presso gli indigeni, questi resoconti subivano poi un ulteriore
processo di interpretazione e riscrittura.
L’ocularcentrismo occidentale non vuol dire che il nostro è un mondo di immagini ma che usiamo metafore e modelli
che fanno riferimento all’esperienza visiva. Le prime rappresentazioni dell’indiano (xilografie del 16° secolo) lo
descrivevano come un incrocio fra animale e uomo europeo; il realismo della fotografia li sottrae da paesaggi esotici,
dallo stato di natura che li contrapponeva all’uomo artificiale occidentale.
La fotografia antropometrica diventa la fotografia scientifica per eccellenza perché utilizzando le griglie misuratrici dei
corpi umani risponderà alle regole del positivismo. L’orientamento al visualismo consiste nell’usare mappe, diagrammi
ed elenchi in modo tale che la capacità di visualizzare una cultura sia l’equivalente di comprenderla, evitando la
soggettività dell’esperienza e l’illusorietà dei sensi. La tendenza ocularcentrica è associata al positivismo -> primato della
scienza e necessità per la ricerca sociologica di usare metodi delle scienze naturali per descrive come accadono i
fenomeni, non perché: osservazione sul campo, in copresenza dei fatti, contatto tra osservatore e fenomeno,
contaminazione, quindi per garantire una distanza bisogna usare strumenti di osservazione (es macchina fotografica).
Si può applicare il principio di indeterminazione di Heisenberg al campo di fotografia e film: comportamento
dell’osservato è sempre modificato da quello dell’osservatore, è la registrazione dell’incontro tra 2 culture. All’epoca del
positivismo però non tutto poteva essere analizzato in laboratorio (es oggetti dell’antropologia distanti
geograficamente): la fotografia è una soluzione, poi il laboratorio viene trasferito sul campo. Fotografie e film fanno
nascere il desiderio di vedere di persona come vivevano i popoli esotici e primitivi: per fare ciò bisognava risiedere nel
villaggio e condividere la loro vita sociale, l’etnografo doveva osservare in prima persona.
La documentazione visiva delle culture viene poi abbandonata e ripresa dopo 3 decenni nell’antropologia americana
della scuola di cultura e personalità (Mead) interessata allo studio del comportamento visibile.
L’orientamento visualista sostiene il predominio dell’occhio e della percezione visiva come strumento e processo di
indagine e rappresentazione ma ha origini antiche (invenzione della stampa a caratteri mobili e della prospettiva), esso
non è universale (ci sono culture centrate su altri sensi e anche la nostra non è stata sempre così): quindi assolutizzare
l’apparato visivo e la visione ci porta ad essere sensorialmente etnocentrici.

2 Iconismo. L’Iconismo è una specificità semiotica del linguaggio delle immagini (Bettini). La questione del Realismo
correlata all’immagine, comporta l’introduzione di un elemento che suggerisce una specificità ulteriore: la Somiglianza,
l’Analogia e l’Iconismo. Abbiamo 2 elementi che riguardano la rappresentazione Scientifica, l’opposizione tra Realismo e
Idealismo. Realismo: riguarda una conoscenza proveniente dalle qualità essenziali dell’oggetto; Idealismo: riguarda una
conoscenza fondata sull’attività conoscitiva del soggetto. La Conoscenza Realistica è sempre caratterizzata da una forma
di comunicazione, da un discorso (verble, visivo, scritto etc.) e alla fine la rappresentazione risulta una costruzione
dell’oggetto, non una sua duplicazione. Nei linguaggi visivi, dove l’oggetto appare nella sua forma, il Realismo sembra un
carattere “naturale” della rappresentazione e la conoscenza sembra procedere dall’oggetto più che dal soggetto che
quindi si riduce a un semplice strumento. Bettini pone in rilievo il fatto che i codici realistici utilizzati dall’autore del film
possono essere diversi da quelli circolanti nella cultura della realtà filmata. Egli aggiunge che il film dovrebbe diventare
mimetico non tanto nei confronti di azioni e di agenti, quanto nei sistemi di organizzazione semantica (culturale,
ideologica) che li articolano in una specificazione parzialmente arbitraria. Il film o la fotografia diventano realistici solo
all’interno di un discorso realistico che li qualifica come tali. Il Realismo quindi non riguarda più i testi visivi e il rapporto
mimetico che essi instaurano con i referenti, ma riguarda sia la rappresentazione delle relazioni sociali in cui il referente
è inserito sia la relazione che i testi visivi hanno con le pratiche discorsive in cui sono inclusi. La teoria Pierciana del
Segno Iconico sostiene che la fotografia è un segno di tipo indicale in quanto il soggetto ripreso era lì davanti
all’obiettivo e l’immagine è una traccia della sua presenza e a seconda dei contesti d’uso la fotografia diventa di volta in
volta anche icona o simbolo. Pierce distingue 3 tipi di segni iconici: 1. Icona: ha un rapporto di somiglianza con il suo
referente (fotografia) 2. Indice: ha un rapporto di contiguità fisica con il suo referente (il fumo con il fuoco) 3. Simbolo:
ha un rapporto di convenzione con il suo referente ( tricolore con lo stato Italiano). La categoria di iconismo non serve a
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nulla! Confonde le idee perché non definisce un solo fenomeno e non definisce solo fenomeni semiotici. Però vediamo
che non è solo la nozione di segno iconico che entra in crisi, è la nozione di segno che risulta inadoperabile, quindi la
crisi dell’Iconismo è una delle conseguenze di un collasso più radicale. La nozione di segno non riesce dunque a spiegare
da sola la produzione del senso perché il senso si forma sulla base della relazione fra almeno una sequenza di segni e la
competenza del ricevente. La Somiglianza intesa come caratteristica specifica delle immagini isomorfe è il risultato di un
osservatore che grazie a una competenza acquisita interpreta le immagini. La somiglianza però non sorge
necessariamente dall’isomorfismo (Es. bambino che cavalca 1 manico di scopa, U.Eco). Eco osserva che il fatto che un
Segno Iconico sia un testo è provato dal fatto che il suo equivalente verbale non è una parola ma una descrizione, un
enunciato, quindi un intero discorso, un atto di riferimento, un atto locutivo. Fuori contesto le unità iconiche non hanno
statuto e quindi non appartengono a un codice; fuori contesto i Segni Iconici non sono affatto segni, non essendo né
codificati né assomigliando ad alcunché è difficile capire perché significano. Dunque un testo Iconico più che qualcosa
che dipende da un codice è qualcosa che istituisce un codice. Secondo questa affermazione ogni film istituisce il proprio
codice realistico e lo propone allo spettatore con una operazione persuasiva che si conclude con l’accettazione o meno
da parte dello spettatore della proposta dell’autore; si conclude cioè con un Patto comunicativo. Ciò che noi chiamiamo
contesto non è soltanto il sistema di relazioni nel quale l’immagine è inserita ma contiene anche le linee guida di un
patto comunicativo che regola o tenta di regolare l’interpretazione.

3 L’approccio semiotico. Anni 50/60: definizione dello specifico cinematografico, elementi che caratterizzano il film in
quanto linguaggio; anni 60: come funziona il linguaggio cinematografico; anni 70: cinema esaminato con gli strumenti
della semiotica strutturalista e fecero propri i concetti chiave della teoria dell’enunciazione di Benveniste -> un
enunciatore costruisce l’enunciato prefigurando un enunciatario che interagisca con le modalità enunciative presenti
nell’enunciato. Egli distingue anche storia e discorso: storia cancella le tracce del produttore della narrazione, gli
avvenimenti sembrano raccontarsi da soli; il discorso mostra i segni della presenza del narratore. Analizzare la
situazione di enunciazione significa puntare l’attenzione su diversi elementi storici, culturali, biografici, necessari per
comprendere una foto o un film. Il soggetto dell’enunciazione è rintracciabile attraverso la voce fuori campo o
movimenti della macchina. Secondo Metz l’enunciatore è colui che produce la funzione.
Voyeurismo dello spettatore: puro vedere; limite è che la teoria è applicabile solo dove l’enunciazione è costruita in
modo tale da cancellare le marche del soggetto dell’enunciazione, il voyeur osserva la scena direttamente senza la
mediazione dell’autore, come se fosse presente sul luogo degli eventi -> fittizia coincidenza tra il soggetto
dell’enunciazione e l’enunciatario (spettatore)(tipico del cinema classico e della storia di Benveniste, il film sembra
narrato dallo spettatore).
Alla base dell’enunciazione filmica ci sono 3 livelli di costruzione del discorso: livello profilmico (ciò che la macchina
filma), livello dell’inquadratura (in cui il livello profilmico viene messo in quadro da un particolare punto di vista), il
montaggio (che mette in sequenza le inquadrature costruendo sintagmi narrativi e significanti).
Il voyeurismo che si è sviluppato nei confronti del corpo esotico è connesso all’erotismo che la cultura occidentale ha
proiettato su esso: i corpi degli indigeni erano esposti in fiere e circhi molto più frequentati delle proiezioni dei film
(fascino); ingabbiate nelle griglie antropometriche, le donne diventavano docili oggetti da esibire e desiderare, così
come gli oggetti esotici esposti nei musei diventavano antropologici (Clifford) -> la fotografia etnografica inclusa in una
cartolina, da oggetto scientifico diventa un souvenir.
Dagli anni 60 si guarda al cinema come un sistema semiotico: il pioniere della semiologia del cinema etnografico è stato
Worth che pubblica Studying visual communication (1981) ed è stato anche uno dei fondatori dell’antropologia visuale
americana. Lui definisce la minima unità significativa del linguaggio cinematografico, individua 3 unità significative:
videma (inquadratura), cadema (sequenza di fotogrammi compresa fra uno start e uno stop della macchina) e l’edema
(parte del cadema utilizzata nel film).
Tomaselli suddivide i segni visuali in icona, indice e simbolo (=Peirce); film etnografico definito come strumento
attraverso cui i discorsi di una cultura (l’osservato) sono registrati, descritti e compresi da un’altra cultura (osservatore).
Faneroscopia: gli incontri con cui le persone rendono significativo il mondo; il phaneron preesiste al segno e ≠ dai
fenomeni non ha bisogno di essere verificato, è un fascio di segni in cui soggetto e oggetto tornano a riunirsi; in ogni
phaneron si possono individuare le 3 categorie di icona, indice e simbolo. Concetto ~ allo slot di Marshall: informazioni
non visibili ma necessarie a comprendere cosa e come accadono gli eventi.

4 Realismo. L’etnografia è un genere letterario: ha delle regole, ad oggi presenza osservativa partecipante dello studioso
sul terreno di ricerca -> la sua preoccupazione è di descrivere in profondità una cultura (anche se la quantità di dati di
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solito eccede quindi deve decidere cosa privilegiare e come organizzare i dati). Rapporto tra realtà e rappresentazione:
le risposte variano nel corso della disciplina (es anche la presenza sul terreno e l’osservazione partecipante non sono
caratteristiche generali ma regole sorte ad un certo punto), i film quindi vanno compresi all’interno del contesto storico
e scientifico in cui sono stati prodotti.
Il passaggio dall'autorità del documento e del laboratorio a quella dell'etnografo e dell'esperienza diretta non ha
segnato un immediato e definitivo abbandono dell'oggettivismo positivista; l’esperienza diventa teoria e conoscenza
solo nella comunicazione, nel racconto di quella esperienza a un altro: un film rivela sempre l’esperienza che l’etnografo
visuale ha vissuto con i soggetti filmati, la qualità delle relazioni, il livello di partecipazione e collaborazione.
L’epistemologia positivista credeva nella possibilità della scienza di riprodurre i fenomeni nei documenti e negli
esperimenti di laboratorio, senza subire alcuna modifica da parte dello scienziato, comunicazione senza esperienza
(paradosso), delegando agli strumenti di misurazione il contatto con l'oggetto o il fenomeno (garantire oggettività):
conoscere significava convertire qualità in quantità, in aspetti misurabili. Le scienze umane hanno sempre vissuto un
complesso di inferiorità rispetto a quelle naturali quindi volevano utilizzare strumenti di misurazione per tradurre
l’osservazione del comportamento umano in numeri e medie matematiche.
La terza dimensione (livello più profondo dell’interpretazione) è il senso, cioè il significato implicito raggiungibile
attraverso un lavoro di interpretazione: per gli strutturalfunzionalisti è la struttura sociale, per gli strutturalisti francesi è
la struttura inconscia.
Il documento è un dato estratto dalla realtà ed esclude dall’osservazione qualsiasi possibile interferenza oggettiva
(epistemologia della distanza). Film/fotografia di fine 1800 sono considerati un duplicato veritiero e attendibile MA
questo concetto non si impone immediatamente: prima della fotografia c’era il disegno -> secondo alcuni l’assenza di
dettagli dava più ampia libertà di interpretazione MA esso di solito era accompagnato da una didascalia che ne guidava
l’interpretazione. Inizialmente la foto era impressa sul legno, negli anni 20 le foto erano ancora ritoccato con il
disegno/pittura, poi essi occuperanno 2 ambiti differenti: disegno campo del simbolo e dell’allegria, la fotografia per
testimoniare, informare, provare. Al disegno scientifico era richiesta una precisione accuratissima che solo la fotografia
poteva garantire (quindi essa si sostituisce).
Se il disegno prima della foto era percepito come una rappresentazione veritiera della realtà vuol dire che la verità,
l’analogia iconica sono il risultato di una competenza visiva storicamente e culturalmente determinata; è inoltre
necessario comprendere l’intero contesto della comunicazione. Il significato del discorso è determinato anche dall’uso
che ne intende fare il fruitore, dall’esperienza e dalla cultura cui lui appartiene. La competenza visiva, essendo acquisita
all'interno di una specifica cultura, è condizionata dalle ideologie dominanti, dal senso comune, dall'esperienza
personale: il significato non è qualcosa che sta nascosto dentro il testo ma un nucleo di relazioni che lo spettatore
costruisce in base alla sua competenza, le sue attese e le relazioni che stabilisce fra film e realtà.
Secondo Loizos, nel film etnografico il termine realismo si declina in 4 principali varianti: esso suggerisce il desiderio di
mostrare il mondo sociale cosi com'è; implica un'apertura alla totalità dell'esperienza umana dove mendicanti
competono con borghesi e vescovi come soggetti ugualmente autentici; il realismo implica un mondo che ha uno
statuto epistemologico per principio definito, e che può essere descritto con una certa accuratezza, il suo mondo è
conoscibile e filmabile (non evanescente né un’illusione); il realismo documentario evita i generi di fiction.
Quindi non possiamo parlare di realismo ma di poetiche del realismo.

CAPITOLO 2: FOTOGRAFIA ED ETNOGRAFIA .


1 Fotografie in trasnito. Macchina fotografica ottica, 2 elementi per la sua messa a punto: camera oscura e capacità di
alcuni prodotti chimici di reagire alla luce. Le pellicole vengono impressionate dalla luce riflessa dagli oggetti la cui
immagine viene, attraverso un foro posto su un lato della scatola, proiettata sulla pellicola collocata all'interno: traccia
veritiera della realtà? Non proprio perché c’è un processo di manipolazione dei materiali (scelta di obiettivo, pellicola,
carta, dimensione). Nella produzione di una foto ci sono indice, icona e simbolo: al momento dell’impressione è indice,
al momento della stampa icona (somiglianza fra un rappresentazione e il suo referente), nella sua interpretazione è
simbolo.
La Heintze distingue tra contesto di produzione, uso e ricezione: contesto di produzione -> informazioni che riguardano
il fotografo e l'ambiente culturale, storico e politico che nel loro insieme hanno condizionato e indirizzato il modo in cui
la fotografia è stata prodotta, lei però non considera un altro fattore importante che è l’atto del fotografare che diventa
occasione di produzione di senso in quanto performance; un altro fattore è lo stato della tecnologia coeva alla
fotografia (es 19° secolo no foto in ambiente domestico).
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La Kolodny ha individuato 3 modalità di strutturazione dell'immagine in relazione alla realtà: il romanticismo, che
essenzializza e trasfigura la realtà nell'arte e nel mito; il realismo, che comunica fatti; e infine la modalità documentaria,
che descrive la realtà applicandovi un punto di vista (essi possono cambiare nel tempo su una stessa foto).
Contesto d’uso -> riguarda gli specifici frame nei quali la foto è inserita (es album, esposizione, vetrina di un museo
quindi dobbiamo considerare formato, scopo, contesto ecc)(la differenza tra contesto di produzione e d’uso è evidente
in foto prodotte in determinati contesti e pubblicate anni dopo).
Contesto di ricezione -> riguarda i fruitori e l’occasione in cui la foto viene osservata (in una mostra fotografica contesto
d’uso e ricezione coincidono ma le interpretazioni sono diverse, se la foto è in un libro essi sono diversi).
L’etnograficità non è una qualità ontologicamente posseduta dalla foto ma una caratteristica che essa assume in un
discorso (es una foto antropometrica fatta per scopi scrittrici può finire in un articolo erotico).
Le fotografie possono cambiare contesto anche nei fotomontaggi di famiglia o negli scambi: ciò avviene quando le
stampe fotografiche diventano riproducibili a basso costo; la grande esposizione (1851) è il punto di partenza di ciò.
Raccolta delle fotografie: canale individuale o istituzionale -> gli archivi istituzionali erano formati grazie a campagne
fotografiche e a donazioni individuali.

2 La fotografia nell’era del positivismo. Durante il positivismo la foto era indice, traccia veritiera della realtà. Darwin la
usa nello studio sull’espressione delle emozioni: alcune espressioni (es riso) sono presenti sia in uomini che animali; le
foto vengono quindi usate per confermare le teorie evoluzioniste e lui interviene su esse per enfatizzare gli elementi
pertinenti e rimuovere quei dettagli che avrebbero potuto distrarre l’osservatore. Per questi studi fisiognomici lui si rifà
a Duchenne: studi sulle malattie mentali, del sistema nervoso e muscolare. Fusione di elettricità, fotografia e fisiologia:
l’interesse per il corpo umano e la sua fisiologia non sarebbe stato possibile senza la fotografia, l’elettricità ha permesso
il perfezionamento delle macchina di proiezione cinematografica. La 2° sezione del libro di Duchenne si intitola “parte
estetica”: uso della luce per sopperire alla mancanza di profondità di campo e per meglio rendere la disposizione
muscolare nell’atto dell’espressione delle emozioni (diventa quasi un artista). Fotografia usata anche per
l’antropometria (ottenere info sulle caratteristiche fisiche e anatomiche dei soggetti ritratti e collocare individui in
determinate categorie razziali e stadi evolutivi) e fotografia etnologica (caratteristiche esotiche di popoli lontani).
Italia, 1897, disputa tra Giglioli e Mantegazza: il 1° usa il metodo fisiognomico e individua 5 tipi polinesi, il 2° usa il
metodo craniometrico e ne individua 3. Il 1° però non si era uniformato ai metodi raccomandati dalla scienza quindi non
si poteva ottenere una comparazione: il dato craniometrico si riferiva alle misure, quello visivo alle forme che rivelano
qualità; dalla misurazione si può ottenere una media matematica, con la fotografia ciò non è possibile. Metodo Galton:
costruire un ritratto sovrapponendo più foto scattate nello stesso modo.
Italia: fotografia integrata in tutti gli ambiti di ricerca. Mantegazza: ricerca sull’espressione del dolore. Sommier: in
Lapponia per documentare la vita di quel popolo. Fotografie etnografiche: strumento di ricerca e documento. 2 tipi di
foto: scientifica (antropometrica) e artistica (etnografica centrata sul rapporto fra uomo e ambiente).
La fotografia non è più solo un dato ma deve essere usata nelle esposizioni museali interagendo con gli oggetti per una
loro ricontestualizzazione, documentandone i procedimenti di fabbricazione e di uso. Essa diventa un oggetto da
conservare, catalogare e scambiare.

3 Malinowski e la fotografia. Fra le prime opere di etnografia che hanno incluso foto nel testo (senza relazione con il
testo scritto) abbiamo “Primitive art” di Boas (1927) ma anche i sociologi fecero uso delle foto tra fine 19°/inizio 20°. La
prima opera in assoluto però è quella di Malinowski (Trobriand, 1914-18): non taccuino di appunti visivi ma sistema di
organizzazione per immagini della sua ricerca etnografica; approccio nuovo all’antropologia: fotografia non più
strumento di riproduzione (positivismo) ma strumento di osservazione capace di applicare un punto di vista e di far
vedere la realtà.

4 Mead, Bateson e la fotografia. “Balinese character” di Mead e Bateson è la prima etnografia basata principalmente
sullo studio di fotografie realizzate nel corso di una ricerca sul campo (a Bali dal 1936 al 39); 25.000 fotografie,
pubblicate solo 759. Volevano spiegare il concetto di ethos (un sistema culturalmente standardizzato di organizzazione
degli istinti e delle emozioni degli individui) ma è una nozione sfuggente quindi hanno provato a farlo con le foto. La 1°
parte è un saggio, un commento etnografico sugli argomenti trattati con il materiale fotografico, la 2° parte contiene le
foto organizzate in tavole (contesto delle foto spiegato da didascalie dettagliate). Le immagini sono autonome, i testi
senza immagini non sarebbero significativi.
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Una delle principali modalità con cui sono realizzate è la stretta prossimità delle immagini che sono state registrate in
un tempo molto breve, sequenze di comportamento come se fossero prodotte in tempo reale.
Bateson critica l’uso della documentazione fotografica come illustrazione del testo scritto, le fotografie sono autonome
insieme alle didascalie che aggiungono significati emotivi e sensoriali (es dettagli assenti, dialoghi, suoni).

5 Le didascalie. Ad eccezione di “Balinese character”, nelle altre opere le didascalie si limitano a poche parole (max 1
rigo): idea che le immagini parlano da sole, che le didascalie sono tipo titoli di opere d’arte. Esse invece rendono chiaro il
significato e aiutano l’osservatore dell’immagine a scegliere il corretto livello di percezione evitando di cadere in
interpretazioni errate. La fotografia è polisemica e il suo significato è stabilito dalla cultura dell’osservatore: il rischio di
una cattiva comprensione può essere causata dall’etnocentrismo (monografia di Evans Pritchard sui Nuer: costruzione di
una stalla -> grazie alla didascalia sappiamo che non è completa e possiamo immaginare come sarà).
Secondo Scoditti è la fotografia stessa ad offrire il fianco all’etnocentrismo visivo: se con un dipinto possiamo intuire la
tecnica e il progetto di chi l’ha fatto (es canoa non in prospettiva ma tipo cubismo, angoli visti simultaneamente) con la
foto abbiamo un documento visivo che è valido solo per il mio modo di rappresentare le immagini.
La didascalia chiarisce anche significati simbolici.

6 Fotografie in esposizione. La fotografia non può fare a meno delle didascalie nel contesto delle esposizioni: notizie sul
fotografo, occasioni e temi della mostra + titoli alle foto ma sarebbero opportuni anche rinvii intertestuali (es contesti
storici in cui le foto sono state scattate, integrando altri documenti e oggetti, info sulla macchina fotografica e pellicole,
così es un’esposizione in una comunità diventerebbe anche occasione di approfondimento).
Es mostra Okiek curata dalla Kratz in Kenia e USA (1989-97) e poi confluita in un libro che è una riflessione sul lavoro:
ritratti di individui in sequenza (giovani, adulti, vecchi) -> le didascalie esprimono punti di vista diversi (descrivono le
persone ritratte e ciò che fanno e contengono anche commenti che i nativi facevano osservandole); sono a colori (senso
di contemporaneità).
Si parla quindi anche di intertestualità: ciascun atto di interpretazione di un testo è basato sull’interpretazione di altri
testi correlati.

7 Rapporti tra fotografia popolare e cultura visiva in India. La fotografia può assumere diverse forme e diversi
significati nei contesti locali in cui essa viene prodotta e consumata, collegandosi non soltanto alla cultura locale, ma
anche a valori, significati e contesti più ampi (es foto dei militari, rito di passaggio).
Pinney, studioso di fotografia indiana, sostiene che lo sfondo nella fotografia indiana prodotta nella città di Nagda non è
un semplice sostituto in assenza dei loro referenti ma uno spazio di esplorazione. Egli riprende anche l’idea di Bourdieau
secondo cui la fotografia tende a solennizzare ciò che fotografa e quel che mostra di un individuo non è la sua identità
personale ma il ruolo sociale; in realtà nelle foto indiane c’è anche un’intenzione parodica nei confronti dei ruoli sociali.
Secondo gli indiani la fotografia non è uno strumento per catturare l’anima e classificare ma un mezzo per
autorappresentarsi al di là delle convenzioni: gli elementi più importanti sono i gesti, il costume e la scenografia ma il
fotografo interviene sulla foto apportando modifiche che si muovono nel campo dell’interocularità: questo intreccio di
esperienze oculari sposta significati e simboli da un ambito all’altro; si deve aggiungere anche l’intertestualità (es
pubblicità e giornali). Per altri studiosi ciò prende il nome di intervisualità: Taylor studia il cinema popolare indiano ->
sui cartelloni gli sguardi sostituiscono il tatto o ciò che il corpo non può fare o mostrare; individua 2 tipi di sguardi: il 1°
tenuto fermo su un punto focale tipico della religione e della relazione sacra, il 2° per trasferire emozioni fra gli amanti.
Quindi la intertestualità visiva della fotografia popolare indiana si manifesta con l’intersecazione e la sovrapposizione di
diverse tecniche e visioni (- valore testimoniale, + potenzialità creative). I fotografi indiani producono stampe composite
e fotomontaggi.

8 Ex voto fotografici. Gli ex voto sono oggetti di diversa natura e forma inseriti in pratiche devozionali originate da una
richiesta di grazia a una divinità; a volte sono anche oggetti appartenuti al miracolato come gli ex voto fotografici: la
fotografia nella cultura visuale popolare contadina è parte di sé, come farsi rubare l’anima. Sono fotografie del devoto
ma inizialmente erano ex voto polimaterici (passaggio da ex voto pittorico e fotografico). Enzo Spera li studia: il testo
scritto ribadisce il contenuto o aggiunge info; il modello visivo è quello della pagina del rotocalco: questo genere di
composizione visiva si diffonde soprattutto negli anni dello sviluppo dell’alfabetizzazione. Bisogna anche analizzare
l’intero contesto di fruizione e circolazione: l’immagine è prodotta da un artigiano a seguito di una committenza
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individuale o di gruppo. Esso testimonia la potenza della divinità (ancora di più quando si guardano tutti insieme) e il
senso passa dalle mani dell’offerente agli occhi dei visitatori del santuario.

9 Sulla materialità delle immagini. Elizabeth Edwards studia la materialità dell’immagine: analisi della foto come
oggetto circolante in reti sociali. Fino a quel momento significato ricercato solo nel contenuto dell’immagine, ora
vengono viste come oggetti concreti di cui studiare circolazione, uso, produzione, interpretazione.
Banks, per ampliare l’orizzonte d’azione dell’antropologia visuale (concentrata sul film etnografico), le include dal 1998.
Francesco Faeta conduce degli studi: è la mobilità delle foto che fa si che esse siano oggetti di scambio che si spostano
(es cartoline di inizio 1900: immagini dell’Italia come paese di tradizione e progresso).
Lo statuto ibrido delle foto di essere immagini e allo stesso tempo oggetti si rileva anche negli album di famiglia ma esse
vengono anche fatte circolare e creano reti di scambio. È necessaria sempre una contestualizzazione: per conoscere
pienamente un oggetto bisogna considerarlo in un processo continuo di produzione, scambio, uso e attribuzione di
significato.
La prospettiva materiale propone di cercare il significato dell’immagine non solo nel suo contenuto ma anche nella sua
materialità (es grandi album: legare le persone; piccolo album: relazione privata con l’oggetto; purikura in Giappone ~
macchine delle fototessere).

10 Fotografare. Problemi riguardanti il metodo della rappresentazione fotografica: i Collier suddividono la ricerca
etnografica in 3 fasi -> una 1° fase in cui l'etnografo si guarda intorno, acquisendo quelle informazioni fondamentali sul
contesto che gli consentiranno di passare alla seconda fase della sua ricerca, quando, individuato l'obiettivo, porrà
domande agli informatori attraverso test, questionari e interviste più strutturate. In questa fase potranno intervenire
studiosi provenienti da altri ambiti disciplinari che contribuiranno a descrivere nella sua interezza il fenomeno studiato.
Infine si procederà a una sintesi astrattiva dei risultati ottenuti nei momenti precedenti. La fotocamera funge da
memoria per il ricercatore, non richiede una conoscenza dettagliata per registrare materiali, è uno strumento di
mediazione (es nativi dicono dove mettere la fotocamera per fare foto migliori), è uno spazio di interazione con gli
informatori e amplia il quadro di conoscenze, ci restituisce immagini del territorio attraverso punti di vista ampi che
coprono porzioni di paesaggio rilevanti fino alla realizzazione di fotografie aeree (molte info sulle interazioni tra uomo e
ambiente).
Criticati per la loro prospettiva oggettivista da Sarah Pink: il tentativo di rappresentare una totalità finisce per essere una
verità parziale, una finzione come le altre, e la fotografia non restituisce immediatamente un resoconto oggettivo della
realtà, e la collaborazione degli informatori non è auspicabile ai fini della definizione del significato.
Per i Collier la collaborazione con i nativi era necessaria ai fini del controllo e della garanzia di autenticità, per verificare
l’oggettività della rappresentazione visiva prodotta dall’etnografo: loro però non collaborano consapevolmente. Ad oggi
la collaborazione è parte essenziale della ricerca etnografica che si concentra anche sullo studio della relazione fra
etnografo e nativi. Pink distingue quindi ricerca aperta (collaborazione consapevole) e chiusa.
La presenza della macchina fotografica dirige la relazione in una direzione precisa e anche il tipo di macchina influisce e
segna l’identità (se sono turista, cameraman ecc). Foto e videocassette diventano beni di scambio tra ricercatori e
informatori. Gli studiosi quindi dovrebbero essere consapevoli delle implicazioni prodotte dall’uso dell’apparecchiatura.
Bisogna riconoscere lo statuto ibrido della fotografia: al margine fra documento indicale e l’espressione creativa
dell’autore, ciò si riconnette al concetto di inconscio ottico di Benjamin -> capacità della fotografia di offrirci qualcosa al
di là dell’immediato dato visibile. Ciò non toglie che la fotografia sia innanzitutto un costrutto autoriale (non solo
ineffabile)(cit Faeta).
Secondo lui fotografia poco testimonia del reale ma molto del suo autore e della situazione che ha creato. Bisogna
inoltre riconoscere che la fotografia agisce come una sorta di setaccio della realtà rendendola disponibile
all’osservazione ed opera attraverso un procedimento di essenzializzazione della forma, ma oltre a rivelare nasconde
anche (es occulta gli intervalli tra un’immagine e l’altra).
Il vedere è un’operazione costruttiva e non naturale, ce lo suggerisce il fatto che non tutti vedono le stesse cose ma
all’interno della stessa cultura si vede in modo culturalmente condivisibile con la collettività. La fotografia è somigliante
alla realtà ma per molti aspetti ne resta lontana. Tutto ciò si esprime attraverso 3 moduli:
Istantanea: prodotta senza la partecipazione consapevole dei soggetti fotografati né attenzione registica del fotografo;
è sintetica, rinvia all’autore, è utile nell’etnografia solo se si confronta con altri tipi di documenti visivi. In essa si può
valutare il grado di auto messa in scena (nozione di Claudine de France): i diversi modi in cui il processo osservato si
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presenta al cineasta nello spazio e nel tempo. In questo concetto è compreso quello di profilmie (Souriau): tutto ciò che
è specificamente destinato all’uso filmico, il materiale della scena antecedente all’atto di filmare.
Ritratto: luogo iconico dell’incontro, la relazione tra chi fotografa e chi è fotografato è posta su un piano di fiducia o
collaborazione.
Sequenza fotografica: ci consente di descrivere un evento nel suo svolgersi nel tempo, isola degli istanti che comparati
fra loro mostrano il non fotografico che li separa. La sequenza può modellarsi su 3 tipologie: fissa (il fotografo non si
muove, unico punto di vista), libera (si muove e segue lo svolgimento dell’azione), mobile (il fotografo programma i
punti di vista da cui fotografare).

11 La photo elicitation. Uso delle fotografie come stimolo alla memoria e alla narrazione in generale. I Collier la
definiscono foto intervista: fotografie come strumenti con cui ottenere conoscenza oltre quella fornita dall’analisi
diretta delle immagini. Nell’intervista bisogna trovare qualcuno che risponda alle domande, farsi invitare a casa
dell’informatore e ritornare per interviste successive; nella photo elicitation i ruoli si ribaltano: è l’informatore l’esperto,
i fatti sono nelle immagini, gli informatori non devono sentire che stanno diffondendo delle confidenze (Sarah Pink
critica questa prospettiva oggettivista); Harper critica perché secondo lui la presenza e l’esperienza del ricercatore sono
un elemento imprescindibile e creativo della ricerca. L’ideale suggerisce collaborazione; secondo lui la p.e. non serve per
trovare conferma alle ipotesi ma per ridefinire la relazione con l’informatore e riaprire il dialogo.
Patrizia Faccioli (sociologia) si occupa delle implicazioni relazionali: le immagini non sempre hanno per il ricercatore lo
stesso significato che hanno per il soggetto; l’intervistato è incoraggiato a spiegare meglio il suo mondo di significati,
mentre il ricercatore vede le cose dal punto di vista del soggetto; il focus della comunicazione è l’immagine che produce
interazione.
Harper suddivide gli studi con photo elicitation in 4 ambiti di applicazione:
Organizzazione sociale/classe sociale/famiglia: studi sulle foto di famiglia ed educazione del popolo, es foto che
documentano la vita sociale, anche prodotte dagli stessi soggetti della ricerca.
Etnografia storica e comunità: studi di Suchar e Rotenberg sulla gentrification -> insediamento in un quartiere popolato
da bassi strati sociali da parte di nuovi residenti appartenenti alla classe media; i residenti urbani trasformano i quartieri
cittadini basandosi su strategie che provengono dalle loro identità e luoghi di origine. In questo campo secondo Harper
bisogna avvalersi di foto d’epoca perché l’osservazione delle immagini deve riportare i soggetti alle loro esperienze più
antiche per ricostruire una memoria della comunità, fotografie come punto di partenza per valutare il mutamento
storico e tecnologico.
Identità: esaminare l’identità sociale di fanciulli, drogato, emigrati di diversi gruppi etnici e autobiografie visuali (es
studio di Harper su costruzione e decostruzione dell’identità che un artigiano compie osservando foto che lo ritraggono
mentre lavora). Foto realizzate dal ricercatore o dai soggetti durante o prima della ricerca.
Cultura/studi culturali: antidoto alla critica di generali amo che colpisce i cultural studies (es studi sulla pubblicità in cui
l’interpretazione associata alle immagini si contestualizza nel vissuto di specifiche persone).
Photo elicitation utilizzata soprattutto nel campo della ricerca sociologica.

CAPITOLO 3: I SOGGETTI DEL FILM .


1 La scoperta dello spettatore. L’interesse per lo spettatore nasce negli anni 70 quando al modello strutturalista (Levi
Strauss, Barthes, Eco) si aggiungono altri approcci al film, come quello psicanalitico. Gli strutturalisti vedono il testo
come una forma autonoma rispondente a regole indipendentemente dall’autore, mentre con la psicanalisi il testo è
visto come il luogo in cui avvengono delle pratiche di costruzione del significato, lo spettatore viene posto al centro,
diventa oggetto del testo e suo complice.
Analizzando gli effetti del cinema sullo spettatore si evidenzia la dimensione metapsicologica del cinema, cioè le
modalità di attivazione e regolamentazione del desiderio dello spettatore. Con il post strutturalismo (Derrida, Foucault)
c’è uno spostamento di interesse dal significato al significante e una critica dei concetti di segno stabile, soggetto
unitario, identità e verità.
Lo spettatore ora ha un ruolo chiave nella produzione del senso: è il testo che costruisce il suo fruitore ideale o il
fruitore che costruisce il testo nel corso della sua attività interpretativa? Hietala per rispondere individua 2 paradigmi
teorici: testuale e contestuale.
Francia, anni 70: Baudry e Oudart individuano nella camera oscura e nella prospettiva rinascimentale le invenzioni che
istituivano il soggetto come focus dell’esperienza visiva, mutamenti che segnano la cultura del rinascimento, dell’arte
come attività umana e non come celebrazione della magnificenza divina (medioevo).
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Baudry analizza il processo di produzione dell’immagine filmica e vede l’apparecchiatura cinematografica uni strumento
significante e non neutro (es dimensioni, proporzione). Nella visione prospettica il punto di vista da cui osservare la
scena è uno, visione monoculare della camera oscura MA il cinema, con la sua successione di immagini, è fuori da
questa visione monofocale: moltiplicazione dei punti di vista, ma la discontinuità è cancellata dal meccanismo di
proiezione, illusione di continuità e movimento. Secondo lui inoltre il cinema diventa strumento dell’ideologia
dominante, e crea una fantasmatizzazione del soggetto cioè la sua cancellazione dalla scena della visione al fine di far
apparire la visione come naturale. Per lui quindi lo spettatore come soggetto della visione è costruito dal testo visivo che
illusoriamente lo colloca come produttore del testo occultando il processo di produzione e l’ideologia dell’apparato
ottico di ripresa.
Secondo Oudart nella pittura occidentale e nel cinema sono ignorati: la figurazione (l’effetto di realtà), la
rappresentazione che la costituisce come finzione includendovi lo spettatore (effetto di reale). Lo spettatore è inscritto
nel testo visivo sotto la forma di un’assenza (es quadro di Velasquez in cui i soggetti guardano degli assenti immaginari
cioè l’immagine nello specchio). Egli ribadisce la funzione del cinema come incarnazione dell’ideologia borghese.
Secondo Hietala il modello Baudry-Oudart è un adattamento per il cinema delle teorie neo marxiste di Althusser.
Metz arriva alle = conclusioni di loro 2 e fa riferimento alla distinzione storia/discorso di Benveniste (vedi): Metz
sostiene che il cinema tradizionale cancella le tracce del soggetto dell'enunciazione visiva per lasciare uno spazio che lo
spettatore occupa percependosi illusoriamente come il soggetto dell'enunciazione. Il paradigma testuale presenta 2
caratteristiche: attribuisce all'apparato ottico del cinema un significato ideologico di base dal quale non ci si può
distaccare; attraverso meccanismi narrativi, gli effetti di reale e gli effetti di realtà istituisce l'osservatore come soggetto
per cui la visione è costruita. La teoria di Baudry sugli effetti ideologici dell'apparato di base (per la quale nessun cinema
è possibile al di fuori dell'idealismo e dell'ideologia borghese) è contraddetta dagli stessi post-strutturalisti, quando
acclamano Eisenstein e il cinema russo degli anni 20 e 30 come esempi di cinema anti-ideologico.
Fra gli anni 70 e 80 c’è un approccio diverso all'analisi della ricezione del film: da un lato si sposta l'attenzione
sull'orizzonte di attesa del lettore come elemento fondamentale nell'interpretazione dei testi e sulla lettura come
pratica creativa, dall'altro i teorici dell'ermeneutica (es Gadamer) riconoscono che il fruitore, si avvicina al testo
portandosi dietro la sua cultura quindi prima della comprensione del testo c'è una pre-comprensione -> circolo
ermeneutico consistente nello stratificarsi della conoscenza a ogni successiva interpretazione dei testi.
Hall studia la ricezione televisiva: afferma che gruppi sociali diversi danno un significato diverso ai programmi tv,
sebbene il testo veicoli un significato dominante (possono accettato, rigettarlo, aggiungere connotazioni). Ciò che il film
costruisce è solo la posizione dello spettatore che lo spettatore reale non è obbligato a occupare. Secondo Hall la
questione del significato non è posta in termini di comprensione ma di approvazione o disapprovazione dei contenuti
ideologici proposti. Un testo può essere compreso da molte posizioni di lettura e lo spettatore può costruire il senso di
un film nonostante non abbia voluto occupare la posizione ideologica costruita dal film.
L’antropologia visuale ha cominciato a interrogarsi sulla ricezione del film a metà degli anni 90 ma ci sono contributi
precedenti: studi di Worth e Gross, di Martinez, volume di Crawford e Turton.
Worth e Gross: modello basato su opposizioni -> nonsegni eventi/segni eventi; suddivisione dei segni eventi in naturali e
simbolici; opposizione tra attribuzione e inferenza comunicativa intesa come 2 tipi di interpretazione. Questo modello si
basa sull’assunzione che il reale è trasparente e può essere direttamente conosciuto. Lo spettatore può decodificare il
film correttamente e questa decodifica è veritiera solo quando i significati inferiti dallo spettatore corrispondono a quelli
intenzionalmente trasmessi dall’autore (modello comunicativo informazionale).
Martinez rigetta il modello testo centrato e autore centrato e pone il focus nell’attività dello spettatore.
1992 nel volume Film ad etnography di Crawford e Turton c’è il saggio di Banks che propone un modello della
comunicazione filmica molto vicino a quello informazionale. È organizzato su 3 livelli: intenzione, evento, reazione e
spiega come avviene l’attribuzione di etnograficità a un film documentario.
Bisogna distinguere film come oggetto e come concetto: come oggetto cioè supporto su cui trasferire la realtà filmata e
considerare la ripresa cinematografica come documentazione, nel secondo c’è un ulteriore livello cioè quello
dell’inquadratura cinematografica che si inserisce fra l’inquadratura trasparente della realtà e l’osservatore, livello in
cui i processi tecnologici del film rivelano se stessi. Il 1° approccio è limitato, il 2° può svilupparsi in molte direzioni.
Dal punto di vista dell’evento ripreso il film può essere sempre etnografico perché qualsiasi evento può essere oggetto
di indagine antropologica (anche se ci sono argomenti che vengono trattati più spesso es culture non occidentali).
Infine la reazione è il modo in cui lo spettatore risponde al film (criteri: quali film vengono recensiti, quali partecipano ai
festival o sono nelle videoteche etnografiche). Ci sono però dei problemi: es fattori che mettono in 2° piano le specificità
del film (budget e favoritismi); inoltre se un film si autodefinisce etnografico la sua etnograficità è accettata a priori. Si
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tende quindi a collocare l’etnograficità di un film allo stadio dell’intenzione e non a quello dell’evento o della reazione
ma essa si decide in tutti e 3.
I film hanno una storia di vita fatta dalle diverse interpretazioni accumulate nel tempo (es Les maitres fous di Rouch:
considerato razzista ma poi visto reazione al potere coloniale). Secondo Martinez lo spostamento dalle teoria testo
centrate alla teoria della ricezione e alle teoria del testo ha affidato al lettore un ruolo fondamentale nella produzione
del significato. Secondo Iser il testo è una struttura schematica che va completata dal lettore, la narrazione incorpora
dei vuoti affinché egli non possa mai verificare la correttezza della sua interpretazione né le intenzioni dell’autore.
Martinez individua qui un punto debole perché la lettura è vista come attività individuale e non vengono considerati
contesto storico e sociale in cui avviene la lettura, le intenzioni dell’autore, contesto storico culturale in cui l’opera è
stata prodotta.
Lui contrappone a questa teoria quelle di Lacan secondo cui il soggetto umano è costituito dall’intersecazione di 2 ordini
complementari: immaginario e simbolico. Nella fase dello specchio il bambino (7/8 mesi) capisce che non è un tutt’uno
con la madre, scopre l’alterità, ~ storia del colonialismo occidentale. Questa teoria della mancanza porta con sé anche il
concetto di sutura cioè il vuoto lasciato dal testo affinché possa essere colmato come se fosse un desiderio del fruitore,
in realtà è lo stesso testo che sutura le aperture offerte: il testo è tanto più ideologico quanto più fa apparire naturali e
ovvio le suture di risposta alle aperture. (Attività di produzione di senso da parte dello spettatore come riempimento o
sutura di spazi lasciati vuoti dal testo = in Iser, Lacan, Oudart). I
Il filmmaker etnografico dovrebbe piegare la propria lingua per riuscire a far comprendere il linguaggio dell’altro: infatti
lo spettatore dovrebbe comprendere la cultura filmata dal punto di vista dei nativi o dalla molteplicità dei punti di vista
circolanti.
Martinez inoltre oppone a Iser anche il concetto di comunità interpretativa di Fish: al centro c’è l’idea che il lettore
abbia tutto il potere sul testo, lettore esegue una scrittura del testo; secondo Martinez sarebbe meglio parlare di
riscrittura del testo: la comunità interpretativa legge il testo secondo il proprio orizzonte d’attesa. Esso non è una strutte
fissa ma dinamica, calce di essere modificata dall’incontro con nuovi testi che ampliano la nostra competenza. Il film va
osservato e compreso in relazione all’orizzonte di attesa del suo pubblico nel momento in cui è stato prodotto.
Secondo Martinez il motivo per cui l’antropologia visuale ha per tempo trascurato la questione dello spettatore è stato:
alcune teorie hanno posto nel testo il luogo del significato, eccessiva fiducia nella veridicità e oggettività del documento
etnografico, film etnografico non proiettati ai soggetti ripresi sottraendo a questi la possibilità di valutare la correttezza
delle rappresentazioni.

2 I 3 soggetti della rappresentazione visuale. Nella costruzione del significato di un film etnografico intervengono 3
soggetti: autore, soggetti ripresi, spettatore. Nel tempo ciascuno dei soggetti è stato la figura principale della
rappresentazione: nel periodo dell’oggettivismo positivista l’autorità della rappresentazione era affidata al documento
quindi ai soggetti ripresi (misurazione e classificazione), poi è passata nelle mani dell’ etnografo che adottava il metodo
dell’osservazione partecipante (esperienza e narrazione), poi riconosciuto il potere manipolatorio e interpretativo del
fruitore, l’autorità sui significati del testo si è spostata sul destinatario (interpretazione).(es lavoro di Jorma Puranen,
Imaginary homecoming: ritestualizzazione di foto d’archivio, rifotografare le immagini).
Nulla che appartenga al testo in sé ci assicura che il film che stiamo vedendo riguardi fatti e persone reali; è il patto
implicito tra l'autore e lo spettatore che determina l'appartenenza del film al genere documentario: presentare una
serie di film all'interno di una rassegna di film etnografico significa promettere che quello abbia determinate
caratteristiche.
Ogni rappresentazione etnografica comporta l’inscrizione nel testo di 3 tipi di relazioni: tra chi film e chi è filmato, tra
chi filma e lo spettatore, tra chi è filmato e lo spettatore. Quest’ultima è implicita in fase di ripresa (macchina da presa
simulacro dello spettatore).
L’antropologia polivocale ha come obiettivo far sì che il lettore si ritenga uno dei protagonisti della scena, capace di
costruirsi da solo la navigazione e il testo stesso.
Claudine de France distinte fra messa in scena e auto messa in scena: 1 tutte le operazioni messe in atto dal realizzatore
di foto/film per ottenere una rappresentazione dei soggetti (es inquadratura, sfondo ecc); 2 operazioni che i soggetti
filmati compiono per rappresentarsi adeguatamente davanti all’obiettivo. Questi non sono concetti separati: sia
antropologi che informatori perseguono i propri scopi durante la ricerca (es informatori vogliono far predominare la
propria versione della memoria collettiva, indurre modifiche dei regolamenti delle amministrazioni locali, ottenere
finanziamenti per lo sviluppo dell’economia).
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Quindi c’è sempre una negoziazione tra i 2 soggetti (osservatore e osservato) e i filmmakers etnografici devono essere
consapevoli della natura negoziata di ogni documento prodotto sul campo (es distinzione tra research fotage,
registrazioni realizzate come documentazione quindi non strutturate, e riprese progettate per realizzare un film
etnografico quindi strutturate. Ennesima contrapposizione tra arte e scienza ormai superata, ma in realtà bisognerebbe
parlare più che altro di una diversa funzione comunicativa che quel materiale intende svolgere).

3 Il realismo etnografico come contratto fra i soggetti della comunicazione. Secondo Bettetini nel discorso realistico il
referente non è quello rappresentato nell’immagine ma quello costruito dalla pratica discorsiva della società, cioè
secondo lui il realismo del discorso etnografico si costruisce sulla base di una tradizione di scrittura e della relazione con
la realtà sociale che lo stesso discorso costruisce autonomamente nel suo farsi. Da un lato, quindi, abbiamo le regole di
genere cui l'autore più o meno si adegua, dall'altro la libertà di esprimere creativamente un rapporto fra la realtà
etnografica e il modo in cui è filmata.
Regole del genere etnografico: l’antropologo deve essere stato sul terreno di ricerca e lì ha realizzato il film; i soggetti
hanno esperienza diretta e biografica dei fatti rappresentati; i fatti rappresentati sono interpretati anche attraverso la
voce dei nativi che contribuiscono attivamente alla rappresentazione audiovisiva (non regole naturali ma convenzioni
storiche).
Attese dello spettatore secondo Salzman: 1° tipo di spettatore contenuto centrato, vuole una piena ed equilibrata
etnografia, chiede un film gestito e organizzato più consapevolmente, più ricco di info e dettagli sul contesto MA così
sarebbe meno adeguato di una etnografia scritta, sarebbe un film totalmente oggettivista e privo di riferimenti al
metodo e al punto di vista dal quale la realtà è illuminata; 2° tipo di spettatore attento agli aspetti formali del testo,
affezionato alla svolta epistemologica, guardano il film aspettandosi un linguaggio più cinematografico e più significati
impliciti che dichiarazioni dirette, un film del genere non rispetterebbe la poli identità dei soggetti filmati; 3° tipo
comprende che il film etnografico non può fare il lavoro dell’etnografia scritta né sostituirla ma dà un volto umano
all’etnografia. La difficoltà del film è soddisfare tutti e 3 i tipi.
Lo studio di Salzman è pragmatico, focalizzato sulla dimensione sociale del film; Casetti afferma che il senso del film
deve essere analizzato in base all’ambiente sociale in cui appare, al momento e luogo in cui è prodotto, all’azione di chi
lo porta avanti e lo fruisce, cioè al suo contesto.
Secondo lui ci sono 2 indirizzi di studio: dal testo al contesto (il discorso delinea l'intorno in cui è situato) e quello dal
contesto al testo (convinto che le circostanze nelle quali appare un discorso ne influenzino direttamente la forma e lo
statuto): prevale la 1° tipologia. Quindi il film costruisce un certo tipo di spettatore ideale ma può anche cercare di far
aderire lo spettatore reale a quello ideale.
Odin vede la costruzione del senso come un processo di negoziazione determinato dal contesto in cui il film viene fruito:
il film non possiede di per sé un senso ma sono il ricettore e l’emittente a darglielo. Secondo Salzman e Sarah Pink è il
contesto d’uso del film che ne stabilisce il livello di interesse etnografico.
Secondo Ruby la differenza tra finzione e non finzione riguarda il contesto: queste possono anche condividere tecniche,
codici e convenzioni. Poiché non si può sfuggire al bisogno di verosimiglianza, il filmmaker etnografico deve accettare il
bisogno di realismo del pubblico cercando di utilizzarlo a proprio vantaggio. La soluzione è creare un trompe l’oeil: esso
viene apprezzato come abilità dell'artista a creare un'illusione così intensa da procurare le stesse sensazioni che si
proverebbero dinanzi alla scena reale, ed è apprezzato proprio in quanto finzione e abilità tecnica dell'autore. Lo
spettatore deve diventare consapevole che sta guardando un film anche se si tratta di fatti realmente accaduti, e allo
stesso tempo non deve rinunciare al piacere dell'illusione e della verosimiglianza.

4 La complicità di stile e il cinema intertestuale. MacDougall, complicità di stile: critica l’universalità del significato del
film e della sua comprensione totale, osservando che le convenzioni dominanti per alcune società, applicate a una
società con uno stile culturale diverso, possono rivelarsi inadeguate. Ciò non riguarda solo lo scarto culturale tra
filmmaker e soggetto o fra soggetto e spettatori, ma è incorporato nello stesso sistema di rappresentazione. Anche
quando i film etnografici non seguono le regole della drammaturgia classica aristoteliana (unità di tempo, spazio,
persona) usano comunque certe convenzioni che da essa derivano, e rispecchiano le attese dello spettatore occidentale
euro americano. (es nella società aborigena il conflitto non viene rappresentato perché ritenuto pericoloso e non
terapeutico, la tecnica prediletta è l’indecisione e non la spiegazione).
Il film deve tener conto di queste interazioni fra culture diverse, tra quella dei nativi e del filmmaker, ma anche fra
quella dei nativi e il pubblico a cui il film sarà proiettato. Bisogna guardare in 2 direzioni e non in 1, affinché si produca
un cinema intertestuale.
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Le proposte di Ruby e MacDougall (trompe l’orlo e cinema ipertestuale) sembrano essere parzialmente in conflitto:
mentre per il primo il film deve diventar complice dello spettatore occidentale per comunicargli informazioni che
altrimenti non comprenderebbe tanto facilmente, per MacDougall esso deve rispettare lo stile culturale di chi sta di
fronte all'obiettivo; ma se poi il film de ve essere intertestuale, cioè raccogliere punti di vista differenti, sembra venire a
cadere l’idea della complicità di stile: con lo stile di quale punto di vista dovrebbe essere complice il film?
Si va sempre più verso un’etnografia ipermediale perché i media sono più adatti a contenere punti di vista diversi e
materiali documentari audiovisivi eterogenei e provenienti da fonti diverse.
La difficoltà è conciliare la ricerca di modalità visive vicine a soggetti ripresi con la necessità di rendere visibile il lavoro
semiotico dell'autore e rendendo il testo godibile per gli spettatori occidentali.

CAPITOLO 4: OSSERVARE E DOCUMENTARE .


1 Prima di Nanook. Il film etnografico nasce nel 1898 con la spedizione allo stretto di Torres coordinata da Haddon e
con la partenza di Spencer per l’Australia: entrambi portano con sé una macchina da presa. Le prime esperienze erano
state quelle di Regnault e Comte che con il fucile cronofotografico nel 1895 (esposizione etnografica dell’Africa
occidentale) avevano realizzato sequenze cronofotografiche per rappresentare i modi di vita delle varie etnie. Questi
sono i primi esempi di film etnografici e a Regnault va riconosciuto anche il merito di aver compreso l’importanza della
documentazione fotografica all’interno dei musei etnografici. Alcuni li classificano come voyeuristici ma in realtà sono
documenti inequivocabili sulla permanenza di un antropologo e incrementano la sua autorità etnografica. Sono riprese
di breve durata ~ ai life groups.
Nascono probabilmente nel 1893: manichini organizzati in scene di vita quotidiana e cerimoniale; termine utilizzato
forse per la 1° volta da Boas MA presenti già a Londra nel 1842. I fondatori del genere sono stati Boas e Akeley:
quest’ultimo incorpora imbalsamazione e ricostruzione dell’ambiente naturale; inventa una macchina da presa
maneggevole e adattabile nelle condizioni più avverse (utilizzata poi da Flaherty per Nanook). Forse i 2 svilupparono
questo metodo indipendentemente l’uno dall’altro ma ci sono comunque delle analogie. Lo spettatore dei life groups è
~ allo spettatore del film etnografico MA nel film manca il senso di azione (es scegliere quale gruppo esaminare, da
quale angolazione e quanto a lungo; ~ spettatori di film muti: interpretare sguardi. Ci sono state quindi mutuazioni da
un linguaggio visivo all’altro.
Fra i lavori pionieristici vanno ricordati anche Snake dance of the ninth day di McCormick (fra gli indiani Hopi per
raccogliere materiali per la realizzazione di life groups) e gli studi di Goddard sugli indiani Hapache. Goddard credeva che
nello strumento cinematografico ci fosse la possibilità di rivedere un documento più volte permettendo la scoperta di
dettagli che altrimenti sarebbero sfuggiti (anticipa la Mead).
Tra la fine del 19° e l’inizio del 20° si passa da uno stile osservativo a uno partecipativo. Prima di Nanook of the north le
macchine da presa non potevano fare panoramiche: scattavano fotografie in rapidissima sequenza tutte nella stessa
direzione; nel 1916 Akeley inventa la testata giroscopica per ovviare a ciò.
Nanook viene criticato per il tipo di sguardo sull’altro e il metodo. Rony lo considera un caso di tassidermia etnografica
(imbalsamazione) ma questa analisi è centrata sul film come testo e non considera il contesto e il processo della
produzione, il pubblico, le intenzioni dei realizzatori. Le intenzioni di Flaherty sono esplicite, lui è metodologicamente
esplicito: usa un approccio collaborativo (spiega agli Inuit il suo progetta, cosa è un film, ascolta i loro suggerimenti),
utilizza la ricostruzione (autenticità rappresentata, es ricostruzione dell’igloo per avere più luce per le riprese) e non
tenne mai nascosto questo lavoro di ricostruzione.
L'urgenza di fissare sui film la natura di culture che stanno scomparendo è stata perseguita anche da antropologi
(etnografia di salvataggio); Flaherty stava svolgendo quest'opera per ragioni personali ma = risultato: lui non stava
registrando un modo di vivere attuale, ma uno filtrato attraverso le memorie di Nanook e della sua gente; il film riflette
la loro immagine della vita tradizionale. Il tentativo di rappresentare l’altro fissandolo in un tempo astorico è definito
presente etnografico. Lui viene criticato per avere ricostruito la cultura degli inuit MA è ciò che gli antropologi avevano
sempre fatto.
Tutti i film di Flaherty sono statici e si distinguono per la trama o la struttura ma non per il movimento. Lui costruisce
una serie di fotografie in cui le persone e gli oggetti sono collocati all'interno di un paesaggio e le relazioni all'interno
dell'inquadratura sono poste in primo piano su quelle che si estendono oltre. Rifiutando la tecnica del montaggio mette
in pratica l'unità spaziale di un evento e mostra tutte le cose da dire senza spezzettare il mondo in piccoli frammenti. Un
altro concetto chiave è quello di apreconcettualità: atteggiamento non prevaricatore, sforzo di non pre interpretare ciò
che si osserva -> quando non si hanno preconcetti si comincia a ricercare.
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Ci si chiede se tutto ciò lo avvicini alla poetica del film come esperienza o all’epistemologia positivista del tempo (presa
di distanza dall’oggetto, sospensione del giudizio, coinvolgimento emotivo).
Anche l’approccio di Malinowski fu costruito sulla distinzione fra esplorazione e rivelazione: = Flaherty, rimozione della
propria cultura e dei propri pregiudizi per percepire il punto di vista dell’altro da uno stato di innocenza. Entrambi i loro
lavoro sono illusori, aperti solo apparentemente, ma, di fatto, sono chiusi; i loro segreti sono accessibili solo a coloro che
desiderano incontrare il mondo descritto nel testo; presentano il paradosso di presentare le idee come se emergessero
dalla vita stessa; celebrano la totalità e integrità della vita nativa esistente all’interno di uno spazio artificialmente
demarcato; rifiutano il montaggio. È stata anche individuata una analogia con la pittura: sono costruiti attorno alla
trama e all’esperienza e non al movimento, c’è il tentativo di fissare l’idea di aura che circonda l’opera d’arte
artigianale.
Dai testi di Malinowski notiamo inoltre che lui ci coinvolge nella sua esperienza, ci fa diventare protagonisti,
consentendoci di vedere la realtà con i suoi stessi occhi, incorpora il nostro sguardo nel suo quindi il testo non appare
come resoconto riferito né di 2° mano.

2 Franz Boas e il film etnografico. Boas fu il 1° ad utilizzare la macchina da presa per raccogliere dati sul comportamento
in modo da analizzarli alla moviola. Novità: ripresi nel loro ambiente naturale MA al di fuori del loro contesto
comunicativo. 1930, studiare il movimento e il ritmo nelle danze Kwakiutl. Utilizza una macchina da presa e un
registratore audiofonico cercando di allineare in sincrono riprese e audio (ma impossibile). Fuori dal contesto
comunicativo perché quei riti avvenivano nelle ore notturne, al buio di fronte a un pubblico, quindi fu costretto a
ricostruirle di giorno. Lui sosteneva una teoria della cultura che gli permetteva di eliminare elementi del
comportamento dal loro normale contesto per poterli registrare e analizzare.

3 Margaret Mead e Gregory Bateson. La Mead ha avuto un ruolo fondamentale nell’affermazione dell’antropologia
visuale come sottodisciplina dell’antropologia culturale: la data che ne segna la nascita è il 1973, Chicago, Conferenza
internazionale di antropologia visuale.
La Mead e Bateson a Bali (1936-39) realizzano decine di migliaia di foto e utilizzano migliaia di metri di pellicola
cinematografica: questo utilizzo si integrava nell’approccio comportamentista della Mead, massima esponente della
scuola di cultura e personalità -> = Boas, lei riteneva che fosse la cultura a determinare il comportamento sociale, non la
natura biologica degli esseri umani. In questa occasione foto e film non vennero utilizzati come prodotti autonomi della
ricerca (infatti furono montati molti anni dopo). Balinese character è comunque il 1° tentativo di integrare testo e
fotografia ma questa ha ancora un ruolo illustrativo, conferma le tesi espresse attraverso la scrittura.
Il loro lavoro rientra nel modello positivista della fotografia come dato oggettivo capace di mostrare in modo
trasparente la realtà: i migliori risultati sono stati ottenuti con foto scattate senza preparazione, e sono state usate come
documento da studiare in seguito (per rivelare dettagli) e per la comparazione. La fiducia della Mead nell’etnografia
visuale è legata: al realismo degli strumenti di registrazione che possono catturare l’ethos di una cultura (impossibile
con il linguaggio scritto); la possibilità di fissare forme culturali per tenderle disponibili ad analisi successive.
La Benedict e la Mead comparano le culture per dimostrare come la diversità del comportamento umano dipendesse
dal contesto culturale in cui l’individuo era cresciuto e si era formato.
L’oggettività nelle immagini dei 2 studiosi è necessaria, così queste possono essere usate come testimonianze
inoppugnabili. Loro non usano fotografia e film a fini documentari, vogliono registrare il comportamento balinese, ciò
che accadeva normalmente e spontaneamente senza rispettare regole prestabilite.
Inoltre nel film c’è il commento parlato della Mead che però non aggiunge nulla a ciò che le immagini già mostrano:
vogliono guidare lo spettatore verso un significato unico riducendo la polisemia, bisognerebbe invece guardare le
immagini eliminando quel commento.

4 Il cinema diretto. Anni 50, innovazioni tecnologiche che fungono da base per sviluppi metodologici: le
apparecchiature diventano più leggere e maneggevoli aprendo la strada a nuovi stili di ripresa; la principale innovazione
è il registratore audiofonico Nagra (1953, dal 56 si potrà sincronizzare a una macchina da presa).
Nasce così il cinema diretto: pretende di cogliere una realtà autonoma e autosignificante, senza mediazioni di senso; c’è
un perfezionamento in senso oggettivista, si vuole catturare la realtà e fissarne l’essenza nel documento, aggiungendo
un senso di presenza e simulando l’assenza del filmmaker.
Negli USA questa metodologia è introdotta da Drew e Leacock in Primary (1960): vissero a stretto contatto 5 giorni con
Robert Kennedy e Humphrey. Vantaggi: la macchina da presa poteva avvicinarsi liberamente alla realtà senza
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modificarla né intralciarla, e diventava una protesi del corpo dei filmmakers. Critiche: fissare solo degli istanti privilegiati
e quindi tradire la realtà ricercata, creare un duplicato delle apparenze.
Il 2° tipo di cinema diretto si sviluppa in una direzione opposta: la macchina da presa è ancora una protesi ma il
filmmaker non si nasconde, non finge di non esserci, ma la realtà si configura in funzione della sua presenza.

5 Il film uniconcettuale. In Germania nel 1956 viene fondato l’istituto per il film scientifico; obiettivo: creazione di un
grande catalogo di film realizzati con regole precise affinché fossero simili nella forma per poter essere comparati. Il film
doveva essere uniconcettuale: focalizzato su una sola unità tematica in cui l’azione fosse predominante. Regole: come
se la macchina da presa non fosse lì, evitare immagini traballanti, evitare jump cuts, mantenere l’integrità di spazio e
tempo. L’informazione verbale consisteva in libretti di 8/12 pagine per facilitare la comprensione. Dagli anni 70 il film da
muto diventa sonoro, vengono aggiunti dei commenti che però non sostituiscono i libretti.

6 Il documentarismo informato. Piault: il documentarismo è un tentativo per trasmettere dati appoggiandosi a una
concezione del reale come direttamente catturabile dall'immagine (trasferimento, da 3 dimensioni a 2); si fonda su 2 a
priori: c'è un oggetto e c'è un buon modo di guardare e di comprendere quest'oggetto. Il documentarismo informato,
invece, colloca i dati riguardanti i modi che gli uomini hanno di costruire e vivere le loro società nella prospettiva di uno
sguardo particolare e in quella di relazioni suggerite dagli stessi dati.
Dalla parte documentarista abbiamo i film che, utilizzando dati della realtà sociale e politica, fanno della descrizione in
immagini un'evidenza e subordinano il lavoro di informazione a un'estetica della messa in immagine; idea di poter
duplicare la realtà nel documento (es film di Carné).
La misere du borinage di Storck e Ivens è un esempio di documentarismo informato: decostruire le rappresentazioni
dominanti e avvicinarsi il più possibile a una realtà altra; partecipazione sensibile, condivisione delle condizioni di
esistenza e dello scambio; lavoro che autentifica l’immagine e permette l’espressione di un punto di vista autoctono.
Il documentarismo informato comunica diversi punti di vista sulla realtà filmata, un punto di vista autoriale preciso al di
là delle apparenze, il punto di vista di un gruppo ma evita l’ingenuo oggettivismo positivista secondo cui la macchina da
presa è capace di riprodurre la realtà quale essa è.

7 MacDougall e il cinema di osservazione. Nel 1975 MacDougall pubblica un saggio in cui critica la tendenza a evitare il
contatto fra soggetti filmati e filmmaker; secondo lui le immagini sono portatrici di un significato stabilito in precedenza
e giustapposte su uno sfondo. ≠ film di finzione in cui non c’è intervento dell’autore, la macchina da presa registra senza
prendere parte, qui è diverso: nelle scene corali è più facile che il filmmaker rimanga inosservato, ma in quelle con pochi
soggetti non può evitare il contatto quindi deve far diventare familiare la sua presenza e quella dell’attrezzatura (anche
grazie a dimensioni ridotte).
In To live with Herds lui (= Flaherty) fa sì che i soggetti non sappiano mai se sta riprendendo; quando inizia a utilizzare
macchine mobili loro si mettono in posa (lui capisce che spesso sono più naturali quando riprende e non quando
vengono osservati). Il fine del cinema di osservazione è di riprendere quegli avvenimenti che sarebbero accaduti anche
se il regista non fosse stato presente.
Lo sforzo del regista di estraniarsi dalla scena porta ad un atteggiamento passivo (e sbagliato), così lo spettatore
osserverà la realtà dagli occhi del filmmaker avendo l’illusione del contatto diretto e la coscienza di un limite
invalicabile.
Secondo lui bisogna andare al di là della mera osservazione: l’ascetismo metodologico nasce dalla non influenza sulla
cultura studiata, riduce l’osservazione del filmmaker a ciò che i soggetti del film mostrano, impedendo però la
comprensione di ciò che è implicito; il regista rifiuta l’apertura che richiede ai soggetti e così si riaffermano le origini
coloniali dell’antropologia quando occidentali e popolo esotici erano considerati mondi separati senza possibilità di
comunicare fra loro.
La presenza della macchina da presa è un evento così straordinario che è inutile tentare isolamento e invisibilità; non
bisogna vederlo come registrazione dei modi di vita di una popolazione ma come registrazione dell’incontro tra 2
culture.
Secondo lui bisogna andare oltre il cinema di osservazione e praticare un cinema di partecipazione (anticipato da
Flaherty, praticato consapevolmente negli anni 50 da Rouch): i soggetti filmati sono entità consapevoli della natura
rappresentativa del film, possono anche recitare una parte ma tutto ciò porterà a raccogliere maggiori info e
chiarimenti.
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Lui stesso è poco coinvolto nella relazione con i soggetti, utilizza un interprete per dialogare con loro e lunghe riprese
come spazio di autorappresentazione; sicuramente interagisce con loro ma non c’è collaborazione né partecipazione ->
non cinema di partecipazione ma cinema di interazione.

8 La poetica della contemplazione nel cinema di MacDougall. Molti film di MacDougall (es A wife among wives e
Tempus de baristas) sono stati realizzati senza conoscere la lingua dei soggetti: questo dà possibilità di
autorappresentarsi, di dialogare e il filmmaker rimane un osservatore/registratore. La posizione non dialogica di
MacDougall è evidente: la macchina da presa punta il suo obiettivo verso la situazione e attende che qualcosa accada,
l’autore finge di non esserci e sta a guardare; la macchina da presa non asseconda l’occhio attraverso cui lo
spettatore seguirà il racconto, lui sarà come dietro a una finestra. I soggetti parlando rivolgendosi all’interprete, il
filmmaker rimane in una zona d’ombra: non può comprendere ma contemplare (da templum latino, luogo in cui si
interpretava il volo degli uccelli): l’attenzione è circoscritta nel rettangolo in cui i soggetti filmati restano chiusi e questo
serve ad aspettare che il senso emerga naturalmente, che qualcosa accada, che il significato di manifesti da sé.
Questa è soprattutto una necessità perché senza conoscere la lingua non si può interagire e fa sì che la gestione
dell’inquadratura sia lasciata nelle mani dei soggetti filmati (autorappresentazione) e che l’interpretazione dello
spettatore sia libera e non mediata dal filmmaker.
Lo spettatore può ascoltare ciò che i nativi dicono grazie ai sottotitoli ma è comunque evidente l’atteggiamento
contemplativo del filmmaker (cinema di contemplazione).
In To live with herds ci sono scene lunghe e dense in cui il significato emerge nel corso delle relazioni, il filmmaker
osserva lo sviluppo di queste relazioni all’interno della loro durata temporale: il suo compito non è creare nuovo
significato ma inquadrare la cristallizzazione della realtà; la giustapposizione di queste scene si basa sul principio del
montaggio: il significato non è contenuto oggettivamente nelle immagini in sé ma deriva proprio dalla giustapposizione.
Sensorialismo: l’illusione per lo spettatore di essere dentro la scena, di poter toccare, odorare e gustare, di essere
presente con tutto il corpo. Experiential studies (o antropologia della coscienza) in cui giocano un ruolo fondamentale
anche i media visivi dato che il flusso di coscienza può essere rappresentato solo con immagini e suoni.
Al di là dei sensi, il punto fondamentale resta la centralità del dialogo, luogo in cui si costruisce la relazione
intersoggettiva e si può creare un ponte di comunicazione verso l’altro (altrimenti torneremmo alle origini quando i
soggetti si riprendevano da lontano zoomando, ma l’etnografia si basa proprio sul metodo dialogico oltre che
sull’osservazione partecipante). Così possiamo considerare criticamente il metodo di MacDougall (non sapeva cosa
dicessero): questo scarto per lo spettatore non è evidente; l’autore durante le riprese fissa gli aspetti comportamentali
delle emozioni e partecipa alla sensorialità dell’ambiente MA se non ci fossero poi anche i dialoghi non sarebbe possibile
una contestualizzazione. I pezzi di realtà vengono filmati e poi ricuciti nel montaggio e ciò è fondamentalmente perché
in assenza del dialogo consapevole si possono raggiungere solo risultati parziali.

9 Il cinema d’osservazione come etnografia pratica. Cinema d’osservazione: spettatore deve partecipare agli eventi
filmati come se fosse presente e interpretarli senza suggerimenti dell’autore. Ciononostante è ≠ dall’oggettivismo:
l’oggetto del film è più complesso -> relazioni fra esseri umani con le loro sensazioni, sentimenti e punti di vista sulla
realtà, che il filmmaker si sforza di riprendere come se la sua presenza non fosse determinante. Quindi è difficile dare
una definizione (filmare senza coinvolgimento con i soggetti ma anche l’opposto, cioè meno commenti e meno
interviste).
Grazie all’osservazione dei dettagli delle interazioni e degli eventi sociali è possibile giungere a delle intuizioni sulle
motivazioni dei soggetti e anche sulle realtà sociali e culturali; è importante l’intenzione di essere partecipativi.
Questo cinema quindi ha analogie con l’osservazione partecipante: assenza di giudizi morali sulle persone osservate,
interesse per le vite quotidiane di persone ordinarie, indifferenza per il bello stile della descrizione etnografica. MA film
etnografico e etnografia sono diversi: il film può essere visto come una etnografia pratica, come strumento per
produrre conoscenza antropologica e per rappresentare tale conoscenza. Essi comporta 2 processi: il filmmaker che
segue le azioni dei soggetti, lo spettatore che gli dà un significato (quindi i commenti sono inopportuni). Il filmmaker
partecipa alla vita dei soggetti filmati ma anche loro possono partecipare alla realizzazione del film collaborando.
Il film deve provare a risolvere dei problemi affinché le informazioni che fornisce siano corrette: le relazioni fra gli eventi
presentati nel film, fra gli eventi e il contesto culturale generale, fra gli eventi e quelle esperienze dei soggetti filmati che
il film non mostra; la contestualizzazione del processo stesso di filmmaking, le relazioni con le circostanze politiche; il
contesto d’uso del film (vengono aggiunti commenti per dare più notizie). Henley distingue tra espedienti vicini
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(commenti dei soggetti mentre guardano le riprese) e lontani (commenti fuori campo) dall’esperienza dei soggetti
filmati.

CAPITOLO 5: INTERAGIRE E COLLABORARE .


Le pratiche dell’osservazione cinefotografica corrispondono all’emergere della scuola di cultura e personalità (Mead e
Benedict), il cinema contemplativo di MacDougall è un tentativo di trasferire sullo schermo il metodo e le teorie
dell’antropologia sociale britannica. Rouch invece è il prosecutore del collaborativismo inaugurato da Flaherty: compie
studi in Africa -> esplorazione dell’altro per trovare e condividere un sé comune, ma realizza film con gli africani anche
per capire come percepivano l’Occidente.

1 L’Africa di Rouch. Il 1° merito di Rouch è di aver diretto il suo sguardo verso quelle situazioni in cui le culture native
africane mutavano attraverso il contatto con la cultura dei colonizzatori occidentali, fotografando proprio la fase del
passaggio in cui le trasformazioni non avevano ancora assunto una forma definitiva: mentre ancora venivano diffuse
immagini esotiche, folklorizzanti e arcaizzanti dell’Africa, Rouch e Balandier aprivano gli occhi sui paesaggi della
contemporaneità. Nonostante il cambiamento fosse spesso imposto, non era necessariamente vissuto in modo passivo.
Lui si accorse che gli africani reagivano al cambiamento trasformando gli elementi provenienti dall’esterno in modi
totalmente diversi dagli europei.
Sia Rouch che i MacDougall si sono impegnati in un progetto ocularcentrico in cui la visione è fonte di conoscenza del
mondo: i MacDougall però avevano un programma esplicito, controllato, argomentato, mentre quello di Rouch era
fondato sull’intuizione. Loro realizzano i film circa 10 anni dopo (Rouch negli anni 50) in un periodo segnato dal
consolidarsi dei nazionalismi africani; non si interessano all’Africa urbana ma a paesaggi di gente che viveva di pastorizia,
ai margini delle definizioni di progresso, in comunità chiuse (campo dell’antropologia sociale).

2 La Francia di Rouch. La poetica di Rouch viene descritta come una forma di antropologia surrealista e sensorialmente
piacevole, ma la sua carriera non può essere radicata né nella tradizione dell’antropologia né del cinema. Vive in un
periodo storico culturale dominato dalle avanguardie artistiche storiche e in particolare dal surrealismo. Viene
influenzato dal cinema di Flaherty (occhio innocente e visionario).

3 La camera partecipante. Il suo cinema è il massimo esempio di cinema partecipante in cui la presenza del filmmaker è
enfatizzata e utilizzata come uno strumento di produzione della realtà. Davanti alla macchina da presa le persone
recitano e si sentono a disagio, e ciò è la manifestazione di questa parte di se stessi che va considerata come una
rivelazione profonda, è una parte finzionale di noi stessi ma per lui è la parte più reale. Viene così esplicitata la verità del
cinema stesso che crea una nuova realtà: quindi questo film etnografico non descrive la realtà ma costruisce una
situazione in cui emergono significati etnografici la cui validità è garantita dalla partecipazione del filmmaker alla cultura
altra e della collaborazione dei nativi alla produzione di una rappresentazione alla quale loro contribuiscono
autenticamente (più o meno consapevolmente). Gli esiti del film quindi non sono totalmente prevedibili.
Lui decostruisce alcuni presupposti dell’etnografia visualista: la ricerca come opera di salvataggio di una cultura a rischio
di estinzione; l’idea di rappresentare l’alterità come mondo oggettivo grazie all’allontanamento temporale dell’altro da
sé. Essendo un dinamista lui è interessato ai giovani, all'irrequietezza che portano le crisi e le trasformazioni in atto, ai
modi in cui costumi e saperi antichi passano per lasciare spazio alla modernità e/o sono rifunzionalizzati; riconosce la
coevità tra i soggetti della ricerca (nativo e etnografo).

4 Rouch, Flaherty, Vertov. Rouch vede Flaherty come colui che ha dato origine all’equivalente cinematografico
dell’osservazione partecipante (lui proietterà il film davanti a Nanook e agli inuit per creare un rapporto, e Rouch farà lo
stesso). Lo critica però perché mette Nanook in grado di fare un film, gli inuit non lo fanno: lo aveva fatto perché cercava
gente che rappresentasse se stessa nel momento in cui lui era pronto per filmare. Da lui eredita il metodo.
Da Vertov eredita il concetto di realismo: il cinema non è diverso dalla realtà vissuta, c’è una rottura con quel realismo
che si limitava all’osservazione isolata -> ora c’è una esplicita nozione di montaggio, il lavoro del filmmaker è esplicito
sullo schermo, e c’è l’idea che la verità di un film è sempre costruita. Da lui eredita anche l’idea della macchina da presa
come prolungamento del corpo. Secondo lui il realismo non sta nell’isomorfismo tra realtà e immagine ma nel fatto che
il corpo-apparato cinematografico partecipava alla vita delle cose, quindi si produce l’illusione di una realtà oggettiva
(cine verità o kinopravda), Vertov quindi lo conduce alla realizzazione di film di cinema verité (la tecnica che
maggiormente userà).
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5 Cine transe. Durante le riprese, l’immagine del filmmaker cambia agli occhi dei soggetti: parla solo per dare ordini, li
guarda attraverso l’attrezzatura, li ascolta con la mediazione del microfono, si lancia quindi in un rituale che definiamo
cinetranse -> la trans di chi sta filmando la vera trance dell’altro (in base alla reazione del pubblico capisco se ho fallito o
meno)(ispirazione dal Manifesto del surrealismo di Breton). Tutti i film di Rouch sono una scoperta dell’altro, una
esplorazione della differenza ma non possiamo poi tornare sul campo per verificare le nostre teorie con chi ci ha fornito i
dati quindi è auspicabile un’antropologia condivisa.

6 Antropologia condivisa. È legata al controdono audiovisivo (concetto di Mauss): il film viene mostrato ai soggetti così
le immagini vengono restituite a coloro senza i quali non sarebbe stato possibile realizzarle (ciò non è possibile con
l’antropologia scrittuale, culture prevalentemente orali quindi nessun controllo). Questo fa sì che i nativi controllino la
rappresentazione e gli studiosi abbiano nuovi suggerimenti. (es Battaille sur le grand fleuve: canto tradizionale durante
una scena di caccia MA errato, silenzio durante la caccia per non spaventare le prede). Un altro aspetto consiste
nell’avvalersi dei nativi come collaboratori tecnici.
Considerando il film come esperienza, Piault introduce i concetti di prossimità e continuità: percepire il senso della
differenza, modificare e decentrare l’analisi (es Jaguar: commenti dei soggetti improvvisati durante la proiezione,
aggiunta di significati).

7 Realtà, finzione, etnofinzione. Il cinema di Rouch si pone al di là del rapporto con una realtà già data: la realtà è
prodotta dal filmmaker, la macchina da presa non rivela significati che la realtà detiene in sé ma crea la realtà ->
l’etnografia filmica diventa etnofinzione. In alcuni suoi film i protagonisti recitano se stessi: la finzione non è in
contrasto con la realtà ma riesce a far emergere aspetti della realtà. In una frame di finzione vengono rappresentati
bisogni, aspirazioni, difficoltà, sentimenti ed emozioni reali. Realtà e finzione si intrecciano continuamente. Ma ci si
chiede se sia possibile una autentica collaborazione fra soggetti fra cui intercorre una relazione asimmetrica (un bianco
di un paese colonizzatore e dei neri colonizzati).

8 Rouch e MacDougall. Romanticismo di Rouch VS razionalismo di MacDougall: quest’ultimo ricerca chiarezza,


illuminazione della vita sociale dei soggetti filmati, ogni film cerca di superare i limiti imposti dal precedente; nei film del
1° alla comprensione dell’altro si giunge attraverso il coinvolgimento emotivo, la rottura della divisione fra mente e
corpo, mentre il 2° costruisce uno spazio in cui esercitare il pensiero piuttosto che l’emozione, la ragione critica
piuttosto che l’empatia. Tono di voce partecipato/controllato; partecipazione/osservazione; precisione del
montaggio/improvvisazione estetica.

9 Collaborazione. Il concetto di collaborazione nasce con Flaherty e con Nanook ma le modalità e il senso della
collaborazione sono cambiati nel tempo: per Flaherty essa si collega a ricostruzione e memoria, per Rouch a riflessività e
dialogo. Per Flaherty ha il significato precipuo di osservazione partecipante ma lui vuole dare un’impostazione ≠ dai
travelogues (riprese filmiche commentate a voce dall’esploratore): l’autore fissa sempre il suo soggetto con uno sguardo
rivolto verso il basso senza mai voltarsi verso l’altro; gli inuit invece si erano presi cura di Flaherty quindi il film era il
risultato di questi rapporti umani. All’epoca però il concetto di collaborazione non era maturo e i vantaggi erano tutti
per l’antropologo; oggi essa ha una connotazione diversa e possiamo distinguere diversi gradi di collaborazione (il
cineasta chiede al soggetto di ripetere un’azione per riprenderla o film utilizzato dai soggetti per raggiungere specifici
obiettivi). Una certa collaborazione è sempre implicata nell’osservazione partecipante e la scelta degli informatori è
cruciale per la coerenza della rappresentazione: in alcuni casi si dà maggiore rilievo a informatori che nella realtà
svolgono ruoli minori perché sono più collaborativi.
Il saggio di MacDougall Al di là del cinema di osservazione è il 1° intervento a favore della collaborazione, spesso ridotta
ad interazione fra nativi e antropologi affinché questi possano acquisire dati più forti per le proprie tesi: cinema di
interazione più che di partecipazione, che con MacDougall diventa contemplazione; cinema osservativo fa ricerca sulle
persone trattandole come oggetti, quello collaborativo implica lavorare con gli informatori e rappresentare il loro punto
di vista; il 1° dipende dall’accessibilità alle info, il 2° coglie molti aspetti che non sono visibili o che hanno significati
diversi per persone diverse.
Secondo Ruby affinché una produzione sia veramente collaborativa le parti in causa devono essere paritarie nelle loro
competenze o aver compiuto una equa divisione dei compiti; il coinvolgimento deve avvenire in tutti i momenti
determinanti e deve essere conosciuta la dinamica di collaborazione.
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Quando il contesto che studiamo è caratterizzato da rapporti di subordinazione fra strati sociali, violenza, assenza di
diritti umani si parla di antropologia militante.
Un ulteriore declinazione del concetto di collaborazione è l’antropologia visuale applicata: non è semplicemente
l'aggiunta del video o della fotografia all'antropologia applicata, ma lo sviluppo di una specifica metodologia visuale che
per sua natura è collaborativa; collaborazione, non solo con gli informatori, ma anche con i clienti, i ricercatori
provenienti da altre discipline e altre parti interessate. Questo comporta la possibilità di sviluppare nuovi modi per
rappresentare il lavoro a differenti tipi di pubblico.

10 La ricostruzione fra oggettivismo e collaborazione. La pratica della ricostruzione finalizzata alla documentazione
cinefotografica è nata con il film etnografico (es igloo in Nanook, Bateson e Mead a Bali, dove gran parte del
cerimoniale fu spostato fuori tempio per ragioni di illuminazione). Ma queste ricostruzioni non devono essere
considerate come meno valide della vita quotidiana normale, bisognerebbe però comprendere le motivazioni che
stanno alla base della ricostruzione.
De Martino ammette la ricostruzione: essendo i fatti folklorici ripetitivi, l’analisi poteva essere effettuata anche sulla
base di una ricostruzione. Carpitella (etnomusicologo) la ammette nel campo della formalizzazione del pianto e del
compianto: un pianto libero, spontaneo, senza rito, schianterebbe l’anima e, da un punto di vista etico, avrebbe offeso
le persone che stavano vivendo quel dramma. Lui, fra gli anni 70 e 80, studia anche dei video realizzato on studio per
studiare le tecniche di esecuzione fuori dal suo contesto tradizionale. Le ricostruzioni però non devono essere viste
come copie fedeli della realtà (≠ oggettivismo e positivismo).
La ricostruzione può diventare occasione per rappresentare filmicamente la struttura di un evento passato, ma anche
per incorporare nella performance i significati che a essa danno tutti coloro che ri-vivono l'evento in questa auto-messa
in scena progettata.

11 Media indigeni. In una prima fase i soggetti ripresi, escludendo il caso di Nanook, non potevano nemmeno prendere
visione dei film nei quali gli occidentali li avevano rappresentati; successivamente essi hanno conquistato ruoli
importanti nella produzione del film, fino a diventare (anni 60) veri e propri autori di film etnografici impegnati a
rappresentare la propria cultura. Lo strumento di partenza fu il bio-documentario, un film realizzato da una persona per
rappresentare cosa essa sente di sé e del suo mondo: a causa del particolare modo in cui è realizzato, spesso esprime
sentimenti e rivela valori, atteggiamenti e interessi che si collocano al di là del controllo consapevole dell’autore.
Possiamo distinguere 2 tipi di approccio al film: le relazioni che esso attiva nel corso della produzione; un’attenzione
comparativa ai temi, i partecipanti, le situazioni. Il film da bio-documentario diventa socio-documentario, e la vidistica si
trasforma in socio-vidistica. La socio-vidistica suggerisce che la produzione, l’uso e l’interpretazione di immagini siano
studiati come un processo sociale che si sviluppa entro contesti sociali.
Negli anni 80 con la diffusione delle tecnologie leggere per la videoregistrazione si sono verificati i primi importanti casi
di Indigenous video. La rappresentazione di questi film non è mimetica, ma creativa e persuasiva; e l’atto di produrre
rappresentazioni è esso stesso impregnato del potere di creare e persuadere. Il video ha fornito una consapevolezza del
cambiamento indispensabile per creare nuovi modi per controllare le complesse relazioni tra le diverse etnie. La
capacità dei media di trascendere confini di tempo, di spazio e anche di linguaggio è stata usata per mediare fratture
sociali storicamente prodotte e per aiutare a costruire identità che legano passato e presente in modi adeguati alle
condizioni contemporanee. Il concetto di mediazione è implicato nell’atto stesso del videoregistrare. La presenza stessa
con la videocamera in spalla è sempre necessaria tanto per affermare il proprio status di mediatore leader, quanto per
reificare l’evento stesso che si riprende: la rappresentazione ha una funzione performativa. La diffusione dei media
presso quei popoli che erano stati oggetto di filmmaking etnografico modifica l’idea che abbiamo del film etnografico. Il
film etnografico deve quindi riuscire a raccogliere le diverse posizioni che emergono quando la cultura è rappresentata
sullo schermo; questi diversi punti di vista creano un effetto Parallasse.

12 Video locali. Con la diffusione delle tecnologie leggere c’è stata una crescita del fenomeno
dell’autorappresentazione culturale anche di piccoli centri dipendenti dalle risorse naturali, come mezzo di
rappresentazione, trasmissione e diffusione della cultura locale.
Parmeggiani studia documentari prodotti nella provincia di Udine fra 1970-95 da minoranze etniche e linguistiche,
sopratutto dopo il terremoto del 76 quando arrivarono finanziamenti usati anche per queste produzioni di video.
Vengono definiti video locali: la modalità principale è la ricostruzione di attività lavorative del passato; la produzione è
stimolata dall’interesse televisivo per il turismo culturale basato sul folklore e le attrazioni enogastronomiche locali. È
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anche una forma di modernizzazione delle forme della memoria: modo efficace per conservare la memoria MA anche
per cancellarne le forme tradizionali.
Concetto di pensiero enattivo (MacDougall): la memoria è enattiva perché coinvolge il corpo nella sua totalità; i film
sono visivi, uditivi, verbali, narrativi e enattivi, e i film di memoria evocano gli stimoli principali dell’esperienza fisica per
questo sono considerati la tecnologia migliore per conservare la memoria. Sono usati per costruire una memoria di
famiglia, di comunità, per costruire un’appartenenza alla località, per riaffermare una identità personale e
generazionale.
Il concetto di enazione viene spiegato anche da Varela MA per lui la percezione non è ricostruzione della realtà esterna:
il riferimento per comprendere la percezione è la struttura sensomotoria dell’agente cognitivo che determina come il
percettore può agire ed essere modulato dagli eventi ambientali; la realtà non viene dedotta come un dato, organismo e
ambiente sono legati.
Secondo MacDougall la memoria rappresentata trova il suo corrispondente filmico nelle immagini del comportamento
fisico e soprattutto abitudinario perché essa è un’estensione di una precedente esperienza e la ripetizione fa sì che
quelle azioni appaiano poi spontanee e naturali.
La proliferazione dei documentari autobiografici è dovuta a: crisi dello struttural funzionalismo (al centro la società,
individuo come un suo prodotto); individui come portatori di cultura capaci di modificarla (non solo portatori di essa);
natura dialogica dell’etnografia; consapevolezza che gli informatori possono essere co autori; narrazioni autobiografiche
come fonti per la ricerca etnografica.

CAPITOLO 6: POETICHE DEL FILM ETNOGRAFICO .


1 Teorie del realismo cinematografico: Kracauer e Bazin. L’antropologia è passata da modelli bidimensionali
(mappatura delle culture) a modelli tridimensionali (cercare le strutture profonde della realtà): ciò ha corrispondenza
con le 2 fondamentali teorie del cinema -> realismo fisico di Kracauer e realismo ontologico di Bazin.
Per Kracauer il film e la fotografia riproducono la realtà fisica davvero esistente, questo è il loro compito; l’autore deve
porre in 2° piano la sua creatività. Secondo Bazin il cinema prima di rappresentare la realtà vi partecipa riproponendone
lo spessore e la consistenza; questo si tradurrà nel cinema veritè, cinema di osservazione, uso delle tecnologie leggere
che consentiranno la distanza tra chi filma e chi è filmato. Quindi per Bazin la base realistica del cinema è la
partecipazione, per Kracauer la capacità di documentazione.
Kracauer vede nella macchina da presa uno strumento rivelatore, un prolungamento dell’occhio che mostra la verità
nascosta dei fenomeni; per Bazin la realtà è afferrabile attraverso la partecipazione e la profondità di campo quindi
presuppone un atteggiamento più attivo e un contributo positivo dello spettatore. Ci sono in lui 2 linee di sviluppo: 1
capacità dell’immagine di riprodurre la presenza (oggettivista); 2 ambiguità della realtà, polisemia dell’immagine,
spettatore come costruttore del testo.
Piano sequenza e profondità di campo sono presenti non solo nel documentario ma anche nel film di finzione per
costruire l’ambiguità della realtà.
In queste teorie ci sono 3 paradigmi teorici (Casetti): teorie ontologiche che si sono sviluppate attorno alla domanda
“che cos’è il cinema?”, ricerca della sua essenza; teorie metodologiche che analizzano il cinema da un particolare punto
di vista, capire i modi in cui è impostata e condotta la ricerca; teorie di campo, individuare le questioni che attraversano
il cinema e cogliere l’esemplarità di alcuni suoi snodi.

2 Il documentario: in cerca di una definizione. Distinzione tra film di finzione e documentario: presenza o assenza di
una realtà a cui il testo fa riferimento MA anche gli autori dei documentari manipolano la realtà. La differenza potrebbe
dipendere dalla struttura: fictionalizzare -> cancellare tutti i riferimenti all’operazione significante; documentalizzare ->
sottolineare gli stessi riferimenti. Ma è anche necessario che un film proclami la sua intenzionalità di essere
documentario (MA in epoca positivista il film doveva riprendere la realtà così com’era), utilizzando quindi marche
enunciative.
Anche lo spettatore però deve accettarlo come tale, la definizione di un film come documentario dipende anche dal
posizionamento del lettore: tramite alcune marche enunciative l’autore può orientare il lettore. 2 tipologie: testuali che
appartengono al testo audiovisivo, aspetti visivi e sonori del film (es ambiente esotico, materiali di repertorio);
extratestuali cioè il contesto di proiezione (es manifestazione), trailer, copertina, recensioni.
Quindi il genere cui un film viene ascritto discende dal patto comunicativo che l’autore propone allo spettatore, e i
significati di “documentario” e “etnografico” sono storicizzati cioè dipendono dal contesto culturale, storico, sociale.
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Teoria: insieme di assunti che serve da riferimento ad un gruppo di studiosi per comprendere e spiegare in cosa consiste
un fenomeno, quadro in cui ciascuna poetica ha una sua collocazione. Poetica: regole a cui il film dovrebbe attenersi per
poter essere ritenuto etnografico.

3 Poetiche oggettivanti. Nel caso del film etnografico, le teorie ontologiche corrispondono all’ingenuità positivista e alla
distinzione tra arte e scienza: il positivismo credeva di poter trasferire fedelmente nel documento prodotto la verità del
fenomeno; è il metodo scientifico che garantisce l’oggettività del documento prodotto, mentre l’arte è creazione
soggettiva.
Poetiche oggettivanti: cinema e fotografia offrono all’oggetto un supporto su cui esso può manifestarsi; il punto di vista
è occultato e la presenza dell’autore viene rimossa. Secondo Croce, se il cinema e la fotografia sono strumenti scientifici,
non sono arte.
Secondo Heider il film etnografico deve attenersi a un modello olistico, evitando primi piani e dettagli; secondo
Goldschmidt bisogna sottrarre la presenza del filmmaker che potrebbe modificare la realtà da riprendere; Leroi-
Gourhan propone la differenza tra film esotico e film d’ambiente in cui quest’ultimo se realizzato dai nativi è
un’etnografia spontanea; Griaule distingue fra documentari etnografici rivolti ad un pubblico di massa (qualità estetiche)
e quelli per la didattica universitaria (no).
C’è un approccio descrittivo alla realtà tipico della prima antropologia evoluzionista: soggetti poco mobili, riprese stabili
per lungo tempo, cultura materiale (es Nanook MA film di Bateson e Mead è al confine tra poetiche oggettivanti e
soggettivate perché c’è un conflitto tra il livello visivo e sonoro del film che ci propongono 2 film non necessariamente
uguali).

4 Poetiche soggettivate. La prospettiva metodologica riguarda le poetiche soggettivate: usare un criterio fondato sul
luogo dell’istanza autoriale del film e sulla relazione tra chi filma e chi è filmato, è un processo in cui il soggetto si
definisce e si afferma come tale. Queste si affermano nel momento storico in cui la disciplina si è professionalizzata
rivendicando un suo metodo (osservazione partecipante). Si va oltre la registrazione e la documentazione: un film per
essere etnografico non può solo mostrare ma deve anche interpretare la realtà applicando un determinato punto di
vista -> il soggetto che filma entra in gioco perché portatore di un punto di vista; l’autore si nasconde alle spalle dello
spettatore come se fosse lo spettatore in prima persona a vivere i fatti filmati (illusione di un’identità tra autore e
spettatore), spostamento del focus dall’oggetto documentato al soggetto che osserva e filma.
Il rapporto tra antropologia e cinema si fa più stretto: il metodo richiesto è quello dell’osservazione partecipante
(introdotta da Malinowski, anche la nozione di punto di vista e permanenza sul campo).
Rollwagen individua 2 prospettive di approccio al film etnografico: film come strumento oggettivo di registrazione dei
dati; qualsiasi realtà esiste solo attraverso la mediazione di un singolo osservatore -> la natura del contesto cognitivo
usato dall’osservatore è centrale. La 1° produce uno spostamento di attenzione sulla tecnica cinematografica a
svantaggio della teoria antropologica: bisognerebbe usare il termine antropological filmmaking e non ethnographic
filming of reality perché non si tratta di registrazione della realtà così com’è ma di comprensione dell’antropologia
trattando il soggetto in modo scientifico, capire come la percezione della realtà debba essere interpretata anche in base
al contesto di riferimento.
Rollwagen critica il cinema di osservazione (filmmaker come testimone di eventi) e le teorie che vedono la struttura
degli eventi come interpretata dagli stessi partecipanti, cioè critica i film privi di un consapevole metodo antropologico.
Secondo lui alla base di uno stile cinematografico documentario c’è sempre un’idea di antropologia e una teoria della
cultura (e viceversa).
Secondo lui ci sono 2 modi di raccogliere dati etnografici: descrivere il sistema culturale che si sta studiando come i
nativi lo comprendono; analizzare il sistema culturale usando gli strumenti più adeguati e sofisticati che l’antropologia
può offrire (approccio emico ed etico). I giudizi etici non possono essere falsificati dagli attori sociali ma dagli
antropologi: i filmmakers usano il punto di vista emico osservando un sistema emico (dei soggetti) da un altro sistema
emico (il proprio) finendo per essere etnocentrici; in realtà dovrebbero saper distinguere fra i 2 sistemi emici coinvolti
per trattarli in modo relativistico. Le 2 prospettive sono complementari quindi si arriverà ad un approccio emico/etico:
incrociare il punto di vista indigeno con quei significati che emergono dalla comparazione del caso filmato con altri casi
etnografici.
Secondo Rollwagen l’antropologia non è una raccolta di dati ma l’interpretazione del comportamento umano nel
contesto disciplinare dell’antropologia: così il filmmaking antropologico non è la registrazione di ciò che si dice o si fa ma
l’interpretazione di quelle registrazioni all’interno del contesto.
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Così si oltrepassa l’opposizione fra antropologia scritta e film antropologico (≠ MacDougall): Rollwagen sostiene che la
differenza non va posta fra i 2 mezzi ma fra l’uso o meno del metodo antropologico. Secondo Tomaselli ci sono dei
principi che renderebbero il film antropologicamente utile: oliamo, pazienza, cine trance.
Ruby sottolinea l’importanza di porre alla base del film etnografico una precisa teoria antropologica della cultura: solo
se riteniamo che il film abbia le stesse funzioni e capacità esplicative dell’antropologia scritta riusciamo a superare la
distinzione positivista fra scienza e arte. Film come prodotto di uno studio antropologico che ha lo scopo di promuovere
la comprensione scientifica della culture dell’umanità.
Secondo Ruby per essere considerata scientifica un’etnografia deve contenere un’esplicita descrizione della
metodologia usata per raccogliere, analizzare e organizzare i dati. La riflessività è quindi la necessità di mostrare la
presenza dell’autore sul campo e il suo metodo. Inoltre non possiamo definire un film etnografico solo sulla base del suo
stile ma, secondo Ruby, esso dovrebbe presentare implicitamente o esplicitamente una teoria della cultura e utilizzare il
linguaggio condiviso dagli antropologi.
Per quanto riguarda la teoria antropologia su cui deve fondarsi, è essenziale un atteggiamento materialista: cultura
eseguita attraverso simboli visibili incorpati nel comportamento -> una cultura diventa agita nella vita sociale dei suoi
membri, il filmmaker etnografico deve scoprire le sceneggiature e discernere quali sono le più utili, e rivelare gli aspetti
della cultura che sta studiando. Quindi alla base del film etnografico c’è la rappresentazione di performance:
rappresentare eventi strutturati come performance e rituali perché in essi la cultura si rende visibile; i rituali forniscono
agli individui strumenti per superare le crisi; senza questa apertura verso la quotidianità il film etnografico si limiterebbe
a filmare rituali ripetitivi.
Secondo Ruby i film si distinguono in 2 categorie: centrati sull’esperienza dell’antropologo sul campo; centrati sulla vita
delle persone studiate. Il filmmaker dovrebbe trovare un modo di raccontare le storie che si scoprono sul campo e
chiarirci perché sono importanti.
C’è un legame fra antropologia e film etnografico: l’antropologia è un sistema di idee, il film è un mezzo per comunicare
la conoscenza creata con quel sistema, è un veicolo per comunicare quella conoscenza. Così però si riduce il film a mero
strumento e si ripropone la divisone tra arte e scienza MA secondo Ruby ciò si può evitare perché il film etnografico
dovrebbe prendere in prestito dal film di finzione e d’arte e non essere una pedissequa adesione alle norme del
documentario.
Riflessività: chiedere che gli antropologi rigelino i loro metodi e se stessi come strumenti di produzione di dati. Il film
etnografico quindi è il risultato a lungo termine di un progetto di ricerca intensiva riguardante le manifestazioni visibili
della cultura in eventi performativi trasformati in sceneggiatura filmabili; il film è una narrazione in cui l’antropologo
racconta la storia della sua esperienza e di ciò che ha osservato.
MacDougall, De France e Marshall sono esponenti delle poetiche soggettivate e hanno sempre cercato un legame fra
cinema e etnografia.
Per far ascrivere un film al genere antropologico ci sono delle marche enunciative: far sentire di tanto in tanto la voce
dell’antropologo che svela allo spettatore i misteri della società filmata.
Allo sviluppo di queste poetiche hanno contribuito Flaherty e Vertov: Ruby riduce tutto il cinema etnografico a queste 2
concezioni; in realtà esso non può essere ridotto all’opposizione fra la visione autore centrata (V) e quella nativa
centrata (F). Le poetiche enattive sono un’alternativa al modello soggettivato.
Nanook è un film di confine: Flaherty ci presenta la visione del mondo del protagonista (qualità narrativa del film,
modello oggettivante) MA tende a presentare la visione del mondo di Nanook come naturalmente emergente dalla sua
stessa vita (invece è modellata dal filmmaker).

5 Poetiche enattive. Il tentativo di superare il focus sull’oggetto delle poetiche oggettivanti e sul soggetto osservatore
delle poetiche soggettivate, è quello della partecipazione come esperienza, come campo di esplorazione del sé e
dell’altro. Il 1° a fare ciò è stato Rouch (anni 50): l’autore realizzare film per se stesso e per i soggetti, ha l’idea di
un’antropologia condivisa, il film va proiettato come controdono audiovisivo, e il concetto di cine transe presuppone
l’abbandono dei propri modelli culturali, delle teorie antropologiche e del cinema per riscoprire la barbarie
dell’invenzione. Secondo lui teoria e pratica, realtà e finzione agiscono allo stesso tempo, e la macchina da presa
produce gli eventi oltre che trasformarli: l’assenza di metodo è il suo metodo.
In Nanook c’è un metodo collaborativo MA non può essere incluso in quella prospettiva esplorativa e riflessiva dove la
collaborazione e il dialogo sono elementi fondamentali: l’autore non aveva imparato a rivelare, si dovrebbe infatti
passare dall’esplorazione, all’osservazione e esibizione della realtà, alla rivelazione; per Flaherty la collaborazione era un
modo per estrarre dai soggetti l’umanità e la loro diversità/specificità culturale; nella prospettiva oggettivante, lui usa la
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ricostruzione -> secondo il positivismo, il documento riproduce la realtà, quindi se la ricostruzione registra fedelmente la
realtà anch’essa lo fa.
Secondo Rouch la macchina da presa non è uno strumento di registrazione degli eventi ma un catalizzatore di eventi, li
produce perché l’interazione dell’etnografo produce sempre trasformazioni nella cultura e nei soggetti, passaggio ad un
modello enattivo. Ciò comporta il superamento del dualismo soggetto oggetto e presuppone che i 2 siano inseparabili:
non è più un soggetto esterno ma diventa un soggetto interno a un metasistema che lo comprende insieme all’oggetto e
questo coinvolgimento induce in lui un insieme di reazioni fisiche e mentali; visione e movimento si implicano
vicendevolmente e ciò crea il mondo circostante.
≠ da poetiche soggettivate in cui per riconoscere etnograficità a un film doveva essere realizzato per la comunità degli
antropologi, Rouch lo realizza per se stesso e per i soggetti; inoltre raramente si torna indietro nel villaggio dagli
informatori e ciò implicitamente ci fa capire che il film usa un linguaggio naturale che può essere letto da tutti e
diventare materiale utile per l’etnografia.
Ruby non può essere considerato esponente delle poetiche enattive perché secondo lui la consapevolezza della teoria
antropologica precede la realizzazione del film, mentre per Rouch ciò avviene simultaneamente durante le riprese.
Empirismo radicale: nei film di Rouch la realtà si frantuma in mille pezzi prodotti dalle soggettività in gioco nel film (≠
ricerca di ordine tipica del discorso scientifico); lo stile semplice riduce l’ambigua e contraddittoria natura
dell’esperienza nel mondo (no metafore). L’empirismo radicale è un tentativo di descrivere il tangibile e evocare
l’intangibile, ed è ~ a correnti filosofiche che criticano la distinzione fra mente e corpo e l’innalzamento del pensiero a
strumento capace di raggiungere l’oggettività al di là degli umori e della soggettività del corpo.
Secondo Dewey l’esperienza è un campo in cui pensieri, azioni, emozioni, sentimenti solo elementi inseparabili e
dunque l’estetica (sensorialità) è intrinseca a qualsiasi tipo di esperienza, e di conseguenza non può esserci differenza
tra film e scienza, arte e conoscenza.
Nei film di Rouch la conoscenza dell’altro è inseparabile dall’esperienza che il filmmaker fa dell’esperienza stessa dei
soggetti ripresi nel corso di un’esperienza. Il filmmaker non è documentatore di fatti ma mediatore implicato negli
effetti della sua impresa. ≠ cinema di osservazione: separazione fra soggetto e oggetto; è solo per comodità che diciamo
che nel cinema di Rouch l’esperienza precede la teoria, ma in realtà la teoria è comunque all’opera, l’esperienza è
comunque frutto di una teoria consapevole o no.
Stoller sottolinea il ruolo dei sensi nella vita sociale e culturale criticando la riduzione del corpo a testo da leggere;
difende l’antropologia sensuale: studiosi intenti a descrivere la vita sociale a partire dall’orientamento percettivo
dell’altro, essi ritornano sul campo.
Rouch privilegiava l’esperienza, usava la macchina da presa per descrivere sensorialmente, infatti spesso le immagini
dei suoi film evocano odori, superfici degli oggetti ecc; la sensualità visiva e acustica dà un senso di presenza
etnografica.
Non ci sono confini tra i documentari e i film di finzione: il cinema è già una transizione dal mondo reale a quello
immaginario e l’etnografia è punto di incrocio da un universo concettuale a un altro.
Mentre le poetiche oggettivanti e soggettivate sono centrate sull’oggetto e sul soggetto, quelle enattive fanno della
relazione soggetto oggetto il focus della rappresentazione: il film è il luogo dove questo incontro avviene e si sviluppa, è
occasione di un’esperienza e di conoscenza del sé e dell’altro; esse rifiutano dualismo soggetto oggetto, la realtà
profilmica non sta fuori o davanti all’obiettivo ma si produce mentre agiamo con la macchina da presa, è qualcosa in cui
siamo coinvolti con il corpo e i sensi. Non possiamo distinguere fra attori e persone reali, tra finzione e realtà: il film è
un’esperienza autentica.
Maya Deren cerca di oltrepassare l’osservazione a distanza e di rappresentare dall’interno il mondo interiore dei
partecipanti ai riti di possessione: attraverso il film vuole dare forma artistica alle danze cerimoniali vudù e si pone il
problema della visualizzazione dell’invisibile. Non registra passivamente un’exstasi da sollecitare nello spettatore ma la
vive in prima persone, esce da sé: fallimento, il prezzo che paga è quello di non aver montato il film e non averlo fatto
circolare (montato dal suo 3° marito dopo la sua morte col nome di Divine horseman).
4 ore di riprese nel dicembre 1947, Haitian film footage: non occulta il punto di vista dell’autrice ma si esplicita tramite
un uso evidente della macchina a mano e degli sguardi in macchina; lei partecipa alle danze quasi ballando lei stessa, si
mescola al gruppo, immersione ≠ stile distaccato di Mead e Bateson. Tuttavia queste riprese non riusciranno a
comunicare quel mondo interiore della transe che può essere compreso solo attraverso la diretta partecipazione al rito.
Trinh minh-ha rifiuta l’idea del progetto cinematografico come fase precedente le riprese: nel campo dell’empirismo
radicale e delle poetiche enattive, il film è una maniera per pensare, incontrare e esperire la realtà, non un’idea
preconcepita. L’autentica realtà da riprendere è ciò che accade nel momento in cui la macchina da presa inizia a girare e
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la 1° volta risulta sempre la migliore: quando si ripetono i gesti si diventa sicuri di se stessi e ciò dà plasticità al gesto, ma
viene invece apprezzata l’esitazione. Questa è definita mezza cecità, uno sguardo che va verso le cose lasciandole non
progettate, senza il desidero di catturarle. Il momento della spontaneità però ha i suoi limiti: si può essere abbastanza
stereotipati pur essendo spontanei.
La realizzazione di ogni film trasforma il modo in cui io vedo me stessa e il mondo che mi circonda, perché quando avvio
il processo di realizzazione del film o una escursione nel campo dell'arte, intraprendo anche
un viaggio la cui meta finale mi è sconosciuta (ostacoli, incidenti, scoperte inattese).
Secondo Rouch la macchina da presa è un prolungamento del corpo del filmmaker MA mente in lui c’è una fusione con
l’alterità che il cineasta incorpora per comprenderla in assoluta empatia, in Minh-ha il concetto di esplorazione si
rapporta al limite e incertezza adottando uno sguardo puro che scopre la realtà. Con la cecità rinuncia al controllo
attraverso l’osservazione ma questo è anche un tentativo di ridurre il potere dell’occhio per favorire una percezione
della realtà attraverso gli altri sensi.
Visualità aptica: ≠ visualità ottica che vede le cose da una distanza sufficiente per percepirle come distinte nella
profondità dello spazio e si fonda sulla separazione tra soggetto e oggetto; questa invece si muove sulla superficie
dell’oggetto ma non si focalizza. I film interculturali tentano di stimolare nello spettatore una visualità aptica. Per fare
ciò devono sospendere le convenzioni (es presunzione che il cinema possa rappresentare la realtà). Il cinema
interculturale proviene da diverse tradizioni culturali che si combinano con le pratiche cinematografiche occidentali
contemporanee; queste opere evocano memorie sia individuali che culturali attraverso un richiamo alla conoscenza non
visiva e a esperienze sensoriali.
Prospettiva oggettivante: un film etnografico è tale quando fornisce info scientifiche su una società o cultura nella sua
globalità; poetiche soggettivate: è tale quando descrive aspetti di una cultura da una precisa ed esplicita prospettiva
antropologica; poetiche enattive: rappresentano l’esperienza dei soggetti e dei filmmaker. Nelle poetiche oggettivanti
non è importante la formazione del filmmaker, in quelle soggettivate il filmmaker è allo stesso tempo anche
antropologo, in quelle enattive è meno importante perché non è necessaria nessuna particolare teoria antropologica
che preceda l’atto del filmare. Distinzione tra poetiche enattive e soggettivate: tipo di rapporto tra antropologia e
etnografia -> in Rouch e Minh-ha esso è sfumato nella pratica della ricerca sul campo come attività già in sé
interpretativa, non più un mero momento di raccolte di info che poi a tavolino vanno analizzate, il metodo è nella
pratica di ricerca, nel dialogo nell’interazione con l’altro. L'antropologia postmoderna sta sempre sul confine, sul limite,
perché è consapevole che questo confine fra sé e l'altro, si sposta con il muoversi del corpo dell'antropologo, della sua
identità.
I 3 tipi di poetica però prevedono degli sconfinamenti. Ad esempio la de France con il termine esplorazione fa
riferimento anche all’osservazione differita che dà la possibilità di entrare nel ritmo dell’evento, di prendere confidenza
con i partecipanti; nelle riprese usa la tecnica degli schizzi (riprese dello stesso evento da più punti di vista diversi) e
prevede anche successive visioni delle immagini registrate a volte anche visionate sul monitor con i soggetti che così
diventano consapevoli della propria gestualità. ≠ dalla antropologia condivisa di Rouch, qui c’è una rappresentazione
panottica dell’evento. È un cinema di osservazione in cui l’esplorazione rappresenta una fase successiva riguardante
l’analisi delle immagini (≠ Rouch e Minh-ha: esplorazione ha luogo già durante le riprese).

6 Verso una poetica dell’ipermedialità. La realtà non è più assoluta ma è ciò che accade nel momento in cui il regista
comincia a filmare, ciò che Fabietti chiama serendipity, un'antropologia del fiuto e del caso. Questi 3 tipi di poetica
nella pratica si contaminano e sarebbe sbagliato collocarli in una specie di percorso evolutivo in cui ciascuno di essi
perfeziona il precedente, se è vero che in realtà ogni modello risponde a obiettivi specifici dettati da esigenze storiche.
Un 4° possibile modello che potrebbe nascere dalla necessità di dover sostenere una densità culturale che oggi si
riconosce alle società e dalla voglia di inserire nel film tutte le informazioni possibili senza appesantirlo è quello che si
potrebbe chiamare “poetica dell'ipermedialità”. Oggi infatti tutte le informazioni sui protagonisti del film, sul contesto
in cui il film è stato prodotto, sui primi contatti con i soggetti filmati vengono scartate per una questione di durata del
film che sarebbe altrimenti eccessiva. Secondo alcuni autori combinare più tecnologie potrebbe essere un modo per
ovviare a problemi di questo genere: quando si parla di ipermedialità si intende infatti la necessità di utilizzare più
supporti per presentare i documenti. Il fruitore, a seconda dei suoi interessi, potrà scegliere il percorso di navigazione
all'interno del “testo”, non ci saranno infatti inizi o finali già prestabiliti, tutto sarà “aperto”. Ovviamente l'ipermedialità
non è uno sviluppo del film; sarebbe però interessante far dialogare i 2 media tenendo sempre conto che anche in
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questo caso quella che si presenta non sarà mai una copia integrale della realtà bensì un'interpretazione della realtà
stessa.

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