Sei sulla pagina 1di 20

Michele Cometa- Cultura visuale

1. Vicende di una disciplina

La visual culture studia gli aspetti culturali di tutto ciò che ha a che fare con l’esperienza visuale:
dalla storia della percezione ai media, dalle immagini alle istituzioni che le veicolano. E ciò nel
contesto di una determinata epoca e cultura. Tuttavia il successo dei cultural studies internazionali
corrisponde alla necessità di concepire questi studi all’interno del cultural turn degli studi
umanistico.
Per turn si intende una crisi e una risemantizzazione delle nozioni che stanno alla base del
comportamento figurativo dell’homo sapiens (metamorfosi).
Nel 1997 Walker e Chaplin tentano 2 definizioni:
 La prima centrata sugli oggetti della disciplina, ovvero gli oggetti di studio della cultura visuale
(elenco eterogeneo straripante, impraticabile dal punto di vista metodologico istituzionale).
 La seconda sulle tradizioni di studio che vi confluiscono.

Mitchell, teoria dell’immagine (1994) contenete il saggio sul pictorial turn: esso non è una
rappresentazione basata sulla mimesi ma una riscoperta postlinguistica e postsemiotica
dell’immagine come interazione complessa tra visualità, apparato, istituzioni, discorsi corpo e
figuralità. È la consapevolezza del fatto che l’essere spettatore può essere una questione altrettanto
profonda delle varie forme di lettura, e che l’esperienza visiva potrebbe non essere completamente
interpretabile sul modello della testualità. La rappresentazione visiva è sempre stata presente a ogni
livello della cultura.
M. Suddivisione in linguistic turn e pictorial turn, nella consapevolezza dell’irriducibile coesistenza
e convergenza del verbale e del visivo in entrambi i sistemi comunicativi e semiotici.

Gottfried Boehm è il padre dell’iconic turn: la svolta iconica è una conseguenza della svolta
linguistica. Egli vuole propone di intendere il logos in senso lato, come atto generatore di senso,
interrogandosi su come le immagini generino senso all’interno di processi comunicativi socialmente
condivisi. Per M. si tratta di costruire una storia culturale delle immagini che evidenzi gli aspetti
sociali del visuale e che nel contempo consideri le immagini soggetti dell’iterazione sociale non
riducibili al linguaggio o al segno del discorso.

Pictorial turn: è un tropo, una figura del discorso che si ripete fin dall’antichità /Platone e Lacoonte.
Oggi assistiamo a un pictorial turn nella consapevolezza diffusa del significato invadente delle
immagini nella società in cui viviamo, si tratta dunque di un momento di addensamento culturale e
sociale che scaturisce da un nuovo rapporto tra l’uomo e l’immagine. Rapporto che per M. è
profondamente condizionato e trasformato dalle nuove tecnologie visuali. Le immagini producono
reazioni sempre più macroscopiche riattivando antiche paure o anche antiche estasi (caricature
pubblicate su Charlie Hebdo). Iconoclastia e iconofobia sono fenomeni che di norma segnano i
passaggi epocali che chiamiamo pictorial turn (guerra distruzione dei simboli avversi: distruzione
della statua di Lenin, bombardamento della statua di Buddha avvenuti in un contesto di una
metastatica produzione di immagini; immagini sulla shoah, abbattimento delle torri gemelle 11
settembre 200, Bizantini e il divieto del culto delle immagini, Covid19) (paura dei cloni, immortali
e geneticamente migliorati).

Regimi scopici: ci permettono di definire quell’oggetto nuovo che serve a caratterizzare un


approccio interdisciplinare all’esperienza del visuale. L’interdisciplinarietà non consiste nella
mescolanza di discipline quanto nella capacità di individuare oggetti di studio che prima non erano
mai stati identificati.
1
Jay nel saggio, Regimi scopici della modernità 1988, individua 3 epoche: il prospettivismo
cartesiano; il descrittivismo olandese (o baconiano); e la ragione barocca, libera dalle inquadrature
dei precedenti regimi e attraversata dal brivido dell’anamorfico e del mostruoso.

Il regime scopico indica un ordine visuale non-naturale che opera ad un livello preriflessivo per
determinare i protocolli dominanti del vedere dell’essere visti in una cultura specifica e in un’opera
specifica. Il termine regime implica qualcosa di vagamente coercitivo, che implica uno sguardo
disciplinato e un campo visivo organizzato (vd suddivisione precedente).

Segue un approccio alla nozione di regime scopico più sistematico partendo da due metapicture, da
immagini cioè che si candidano a diventare metafore di sé stesse, più esattamente strumento di
riflessione su se stesse. Una metapicture è un’immagine che parla anche a prescindere dal
linguaggio, un’immagine che parla di sé stessa e mette in crisi se stessa, svelandoci il suo segreto
paradossale.
Le metapicture si presentano ogniqualvolta un’immagine appare all’interno di un’altra (quando in
un film vediamo un dipinto sulla parete, non è necessario che il medium sia reduplicato. L’allegoria
platonica della caverna è un’elaborata metapicture filosofica, che offre un modello della natura della
conoscenza in quanto assemblaggio complesso di ombre, artefatti, illuminazione e corpi dotati di
percezione.

Esempi:

il disegnatore della donna coricata, Albrecht Durer 1525: essa presenta gli elementi strutturali che
concorrono alla costruzione di un regime scopico: l’immagine, lo sguardo e il dispositivo. Vediamo
un soggetto maschile che disegna, su un foglio squadrato, ciò che vede al di là del reticolato
prospettico: una donna parzialmente che si offre allo sguardo mentre poggia la testa su voluminosi
cuscini e trattiene le gambe e la veste in un gesto di probabile pudicizia. Donna come duplice
desiderio del desiderio: del disegno e del disegnatore.
In gioco sono appunto le pratiche del vedere/non vedere, i dispositivi della visione come il reticolo
prospettico e l’obelisco davanti agli occhi del disegnatore, che costringe ad una visione monoculare
ipotizzata dalla prospettiva, e le immagini che letteralmente nascono dalla mano destra che è
soprattutto un’estensione della sua mente.
Il disegno di Durer è una vera e propria messa in scena del regime scopico della prospettiva. Sullo
sfondo si aprono due finestre che danno adito al paesaggio (Leon Battista Alberti), parzialmente
occultate dalla figura della donna e da due oggetti.
Regime scopico: il sistema di relazioni tra chi esercita la visione e chi è oggetto della pulsione
scopica, nonché tra immagini, sguardi e dispositivi.
Abbiamo esplorato ciò che Walter Benjamin ha chiamato l’inconscio ottico svelato dalle nuove
tecnologie, registrando l’espansione, l’implementazione o la distorsione prodotta da questi
dispositivi prostetici che aumentano il potere naturale dell’occhio.

Autoritratto con moglie e modelle, studi di Vogue, Parigi 1981. Il fotografo Helmut Newton è
riuscito a ricreare in tutt’altro contesto e con altri media, un dispositivo altrettanto adatto a
metaforizzare la nozione di regime scopico, prendendo come modello in qualche modo las meninas
di Velasquez. Come in Durer si tratta di un’immagine nell’immagine, entrambe sottoposte al regime
della prospettiva centrale, ma gli sguardi e i dispositivi qui si sono moltiplicati (macchina
fotografica, foto appesa, la porta che incornicia l’esterno parigino).
Il bar alle Folies Berges, Manet 1881.
Ceci n’est pas un pipe, Magritte, creazione di un vero e proprio cortocircuito logico-visuale.

2
3 personaggi fondamentali:
 Aby Warburg, dopo di lui la nostra nozione di immagini e di discorso sulle immagini sono
definitivamente cambiate
 Freud, con lui lo sguardo, parte integrante del corpo è indissolubilmente legato al tema della
sessualità e dunque a tutta una serie di connotazioni sociali, biologiche, politiche ed
economiche
 Walter Benjamin, dopo di lui la nostra nozione di medium, dispositivo e ambiente hanno
permesso di riallineare il discorso sulle tecnologie della visione con quello delle
neuroscienze cognitive e dell’ecologia.

Barthes, il 3 senso chiamato senso ottuso riguarda l’indicibilità dell’immagine con l’insufficienza di
qualsiasi parafrasi puramente verbale, e in generale con ogni logica della significazione. In quanto
ottuso è un’oscillazione, un’emozione che mette in crisi le nostre categorie ermeneutiche. In questo
modo coglie i limiti di una teoria dell’immagine tradizionale (estetica, storia dell’arte, discipline
tradizionali) e lo fa ponendo una serie di domande cui la cultura visuale ha cercato di rispondere,
come ad esempio quella di interrogarsi sull’anacronia delle immagini e la loro capacità di
riemergere in contesti culturali e cronologici lontani; cosa significa insistere nel modo in cui le
immagini segmentano il reale anche in termini fuori dalle logiche occidentali. Aby Warburg aveva
cercato delle risposte puntando lo sguardo sulle dimensioni immemoriali dell’immagine e sulle sue
sopravvivenze nel quadro di un’antropologia fondamentale che riguardava tutto l’homo sapiens e
che non dipendeva più semplicemente dalla svolta linguistica delle epistemologie del 900.

La seconda componente del regime scopico è lo sguardo. La nostra genealogia ha inizio con Freud
che l’ha resa un argomento proprio della fenomenologia. Merleau-Ponty disse: l’enigma sta nel
fatto che il mio corpo è insieme visibile e vedente. Guarda ogni cosa ma può anche guardarsi e
riconoscere in quello che vede l’altra faccia della sua potenza visiva. Consapevole certamente della
lezione di Berger chiarisce già all’inizio che lo sguardo è prima di tutto un meccanismo relazionale
rispetto ai soggetti implicati ma anche rispetto agli oggetti su cui esso si posa.

Berger, questione di sguardi 1972 (2002) pp.10Vediamo solamente ciò che guardiamo. Guardare
è un atto di scelta. Noi non guardiamo mai una cosa soltanto, ciò che guardiamo è sempre il
rapporto che esiste tra noi e le cose, la nostra visione è costantemente attiva e costantemente mobile.
Poco dopo aver imparato a vedere, ci accorgiamo che possiamo essere visti. L’occhio altrui si
combina con il nostro per rendere pienamente credibile il nostro essere parte del mondo.
Berger legge la questione della reciprocità dell’atto del vedere ed essere visti in termini non
puramente teoretici. Sa, come aveva già spiegato Freud, che l’atto del vedere coinvolge gli altri
sensi e in particolare il tatto. Oggi la cultura visuale studia l’iterazione tra i sensi nel sensorium
ovvero il sistema dei sensi che i media attivano on modi complessi e interagenti.

Inutile sottolineare che se parliamo di spazio, ambienti mettiamo in campo la nozione di dispositivo
inteso sia come mezzo tecnologico che consente esperienze sensoriali, sia come ambiente allargato
in cui letteralmente abitano le immagini, gli sguardi e i media. Non a caso il terzo elemento del
regime scopico è proprio il dispositivo. Anche in questo caso dopo Walter Benjamin che sta a capo
della genealogia possiamo far riferimento a Michel Foucault: il dispositivo in sé è la rete che si può
stabilire tra gli elementi materiali e immateriali. Tra questi elementi, discorsivi e non, c’è qualcosa
come un gioco: cambiamenti di posizione, modificazioni di funzioni che possono essere molto
diverse. Il dispositivo ha la funzione di rispondere a un’urgenza.

3
Il ponopticon di Bentham è la figura architettonica di questa composizione. Si tratta di una segreta
le cui 3 funzioni principali vengono rovesciate, rinchiudere, privare della luce e nascondere. Infatti,
non si mantiene che la prima e si sottraggono le altre 2, la visibilità si trasforma in un trappola bel
più feroce, proponendo assoggettamento e controllo attraverso la visualità.

A partire dagli anni 2000 si moltiplicano le applicazioni italiane dei metodi della cultura visuale in
ambito letterario. Gli studi dedicati ai dispositivi della visione in letteratura muovono da una
rinegoziazione dei confini tra letteratura e immagini, tra verbale e visuale, e hanno le loro radici
nell’ekphrasis, tipici della tradizione italiana.
Il recupero dell’ekphrasis ha mostrato sin da subito che persino nelle forme più classiche questo
genere metteva al centro l’interazione tra gli sguardi dell’enunciatario e dello spettatore, gli aspetti
performativi dell’enunciazione e la mediazione dei dispositivi.
La ricchezza della cultura visuale dipende proprio dalla capacità che ha di intrecciare materiali
provenienti da altre discipline, di proporsi come un supplemento pericoloso, un’escrescenza che
crea ponti con altri ambiti disciplinari, connettendo oggetti e metodi, soprattutto creandone di nuovi.
Altrettanto importante si è rivelata la letteratura filosofica della psicoanalisi (Freud, Lacan) che ha
preparato il terreno per una filosofia dello sguardo e per lo studio delle metamorfosi visuali della
stessa psicoanalisi inaugurato da Sarah Kofman.
Anche la storia dell’arte ha contribuito allo sviluppo dei paradigmi di base della cultura visuale
(cresciuto ai margini dell’iconografia e dell’iconologia). La filologia werburiana ha costituito la
spina dorsale della cultura visuale italiana.
Umberto Eco massimo esponente della semiotica italiana ed è considerato uno dei padri fondatori
della ricerca culturalistica. Così come Cesare Segre, ma la centralità della semiotica per la cultura
visuale si manifesta quando comincia a occuparsi dei fenomeni eminentemente visuali come la
moda e il lusso, o dei nuovi dispositivi visivi di massa.
Infine, vale menzionare il complesso panorama degli studi critici e storici sul cinema e sui film che
ha fornito alla cultura visuale 3 elementi di riflessione: lo sguardo, il rapporto tra spettacolarità e
spettatore e lo studio sul pre-cinema che si è rivelato la preparazione alla grande stagione
dell’archeologia dei media.

2. Ricordi d’infanzia
Quali profondi desideri sanno scatenare le immagini infantili.
 Per Warburg si tratterà delle immagini di un favoloso west vagheggiato attraverso le
illustrazioni dei libri sugli Apache e sull’epopea dei cowboy.
 Per Freud si tratterà dello sguardo fulminante che proveniva da un’unica immagine, quella di
Mosè che mostra le tavole della legge ed è pronto a distruggerle.
 Per Benjamin si tratterà di un dispositivo il Kaiserpanorana che costituisce l’archetipo di tutta la
sua riflessione sulle tecnologie della visione e sui media della modernità.
Tre esperienze della visione da cui scaturiscono percorsi intellettuali che segnano la cultura visuale
contemporanea.

WARBURG O DELL’IMMAGINE -in viaggio tra gli Apache

Tutta la sua tormentata esistenza fu attraversata dalle immagini, sia quando accomunava
gioiosamente raffigurazioni della storia dell’arte occidentale che quando ormai era prigioniero della
malattia psichica, dedicandosi all’Atlante Mnemosyne: un archivio della memoria delle immagini
occidentali, cui attese senza successo fino alla morte, in quanto non riuscì mai a concretizzarsi in
un’opera cartacea ma visse come dispositivo espositivo (pannelli) per parecchi anni.
Perché sono andato e ho indagato sugli antichi pueblos americani? Che cosa mai mi ha attratto?

4
 Così si interroga W. Sulle ragioni del suo viaggio nella terra degli indiani Hopi nel 1895-1896.
La risposta alla prima domanda risiede nell’appagamento di un desiderio infantile. Nel 1923,
quando scrive questa narrazione mista ad immagini è interessato a sottolineare il potere delle
immagini di alcuni romanzi illustrati sull’epopea degli indiani d’America e quelle altrettanto
drammatiche di una Via Crucis che esercitarono su di lui, calmandolo e consolandolo mentre
era costretto ad assistere la madre malata e temeva per la sua vita. Queste immagini hanno un
effetto terapeutico e lo ricorderà anni dopo in occasione della lezione che avrebbe dimostrato la
sua pur provvisoria guarigione. Dopo 2 anni di internamento alla clinica Bellevue in seguito a
una crisi psicotica che lo aveva quasi annientato si trova in una condizione simile. È reduce da
una drammatica esperienza e deve dimostrare al suo medico curante che è di nuovo in grado di
tenere una lezione e seguire un filo logico. Le immagini delle torture subite agiscono come un
vaccino che lo immunizza dalle sue sofferenze del momento. Già all’età di 9 anni aveva dovuto
comprendere che le immagini emergono durante una situazione fobica, ma ne costituiscono nel
contempo l’unico possibile rimedio. Non ci vorrà molto ad estendere questo paradigma a tutta la
produzione artistica dell’Homo sapiens.

“Divorai una gran quantità di questi libri che mi estraniarono dalla realtà sconvolgente che mi
faceva sentire inerme. Uno di questi si chiamava un viaggio nel West tradotto in inglese e con
illustrazioni grossolane. Grazie ad un realismo singolarmente eccitante questo romanzo
rappresentò per la mia immaginazione di 16 anni il quadro complessivo della ricchezza di vita
dei pionieri del West americano. In queste illustrazioni si trovavano cose strane, come immagini
perturbanti che avevo visto ancora prima che mi ammalassi di tifo nel 1870, immagini che
hanno avuto un ruolo demoniaco nei miei deliri febbrili”.

Ancora più importante è il tipo di immagini che il giovanissimo W. manipola. Si tratta di


illustrazioni di libri per ragazzi che egli combina con le immagini della via Crucis di Bad Ischl
(Austria), collegandolo con le torture degli indiani d’America. Questa esposizione per sua stessa
ammissione lo vaccinò dalla crudeltà attiva che evidentemente sentiva come un pericolo per la
propria psiche e che sarebbe riemersa brutalmente durante il ricovero a Bellevue.
Ciò che egli vede è la tortura che ne costituisce il basso continuo nel quadro di una sofferenza
più ampia che coinvolge lui e sua madre e nel contempo il significato terapeutico dell’essere
esposti a quelle immagini. A dire il vero le immagini brutali del libro erano molto poche, ma
estremamente inumana era l’indifferenza con cui l’illustratore descriveva i supplizi inferti agli
indiani.
Infine, non è un fatto trascurabile che il W. ormai maturo dà una spiegazione retrospettiva al suo
comportamento adolescente. Egli sa anche certe immagini si impiantano nel subcosciente e
rimangono disponibili fino a nuovo ordine che può essere richiamato dalla coscienza in
particolari momenti.
Di trattava di emanciparsi dalla storia dell’arte occidentale (disgusto per la storia dell’arte
estetizzante, la considerazione formale dava luogo a chiacchere sterili) e sulla base di un audace
comparativismo etnografico che metteva insieme indiani d’America e greci dell’era preclassica,
affrontando, su basi evoluzionistiche, il tema dei fondamenti biologici dell’arte. W. si muove
verso una biologia dell’arte capace di illuminare i nessi tra produzioni artistiche molto lontane
tra loro e fornire nel contempo una teoria della memoria (anche culturale) su cui fondare la
propria teoria dell’immagine. Egli lega il biomorfismo alle situazioni di pathos, cioè alla
dimensione fobica.

 Alla seconda domanda: che cosa mi ha attratto? La risposta è più complessa perché i motivi
coinvolgono tutto l’essere.
Egli dimostra che un’antropologia fondamentale dell’arte è possibile, il rituale del serpente, e
con grande lucidità riesce a fare i conti con un privatissimo desiderio infantile. Stupisce come W
5
riesca a mantenere un perfetto equilibrio tra studio antropologico e dato autobiografico, la
curiosità per il selvaggio west e la ricerca di una nuova teoria delle immagini.
Porre una distanza tra sé e il mondo è non solo lo strumento primario dell’adattamento e della
sopravvivenza ma sta alla base della creazione del segno, verbale e visuale, che è ciò che
caratterizza l’homo sapiens.

“la creazione consapevole di una distanza tra sé e il mondo esterno è ciò che possiamo senza
dubbio designare come un atto fondatore della civilizzazione umana. Se questo spazio
intermedio diviene substrato di una figurazione artistica, allora sono soddisfatte le premesse
grazie alle quali la coscienza di questa distanza può diventare una duratura funzione sociale che,
attraverso il ritmo dell’accordarsi con la materia e il ritrarsi nella sophrosyne, indica il ciclo tra
la cosmologia dell’immagine e quella dei segni, la cui adeguatezza o il cui fallimento cime
strumento di orientamento spirituale significano proprio il destino della cultura umana”.
Creare distanza è dunque un atto fondativo dal punto di vista antropologico “proprio per il fatto
che l’uomo costituisca il mondo che lo circonda ponendo segni, egli è in grado di distanziare il
suo io dal non io. Questo processo di presa di distanza, che lo separa dall’ambito della coscienza
di sé dal mondo esterno e assegna a ciascuno la propria legge immanente, è per W il principio
agente essenziale e la finalità sia della filogenesi che dell’ontogenesi.
Egli era ampiamente informato sulle strategie decorative e performative degli indiani Pueblo, e
queste stanno alla base dalla lezione sul rituale del serpente e costituiscono di fatto il basso
continuo della sua bioantropologia dell’immagine che riemerge con forza ancora nella tarda
introduzione all’Atlante Mnemosyne.
Il pensiero mitico si basa su un meccanismo psicologico che ha rappresentato il primo stadio
dell’evoluzione cognitiva dell’homo sapiens e ha un suo fondamento in un meccanismo psichico
che facilita la sopravvivenza e l’adattamento. Questo meccanismo cognitivo si chiama
personificazione, la capacità di attribuire una caratteristica personale ad accadimenti naturali.
Il pensiero mitico si caratterizza dal fatto che per ogni stimolo visivo o acustico viene proiettato
nella coscienza invece che la sua causa reale, una causa biomorfa la cui estensione reale
comprensibile permette una forma di difesa immaginaria. Esso è oggettiva se contenuto entro
certi limiti, e soggettiva se collega arbitratemene l’uomo con un altro essere immaginario,
accrescendole le forze rispetto al nemico. I moki della tribù del serpente a sonagli possono
toccare il rettile nella danza senza volerlo uccidere, perché si ritengono apparentati con esso.
Allo stesso tempo però credono di riconoscervi il portatore di fulmini che apporta la pioggia.
Il biomorfismo, l’attitudine ad attribuire i fenomeni naturali a entità vive, animate da una psiche
e da uno spirito, ha una funzione essenziale per la sopravvivenza: permette di scongiurare
l’incertezza rispetto alla causa e la conseguente ansia/angoscia che ne deriva e di attivare
un’adeguata difesa. La paura che altrimenti paralizzerebbe l’uomo impotente viene domata
attraverso una sostituzione biomorfa attivata dalla memoria. La memoria immagazzina figure
biomorfe che hanno costituito la prima reazione all’attacco fobico e W le chiamerà formule di
pathos. Queste immagini sostituiscono non solo gli esseri minacciosi che circondano l’uomo ma
anche le reazioni reali, per esempio il ricorso alle armi, attraverso azioni simboliche o l’uso di
simboli figurativi e linguistici. L’uomo è un essere manipolatore che in prima istanza estende le
proprie capacità cognitive per poi affidarsi anche alle estensioni simboliche che sono quelle del
linguaggio e della figuralità. Il rapporto tra sopravvivenza e animismo, le forme di estensione
della mente, dagli utensili ai segni, le relazioni tra le reazioni fobiche e la distanza che invece
l’uomo riesce a mettere tra sé stesso e il mondo attraverso simboli sono tutte capacità cognitive.

La lezione sul rituale del serpente che tenne nell’ospedale psichiatrico Bellevue di Kreuzlingen
(Svizzera) il 23 aprile 1923 fa parte di una strategia discorsiva a metà tra la conferenza scientifica e
il resoconto autobiografico. Ora ci concentreremo sul metodo e sulle tecniche espositive che W usa,

6
mostrando come si costituisce la biblioteca Warburghiana, la cui analisi occuperà la 3° parte del
libro, illustrando il modo in cui lavora con le immagini.
Il lavoro sugli indiani nasce come studio etnografico e ha una chiara impostazione iconotestuale
basata sul commento orale. La lezione sul rituale del serpente è lavoro scritto con la macchina
fotografica.
“il 21 aprile si è svolta la conferenza a lungo preparata sulle danze dei serpenti degli indiani Sinoux
con collegamenti all’utilizzo generale dei serpenti nella mistica cosmica. Il paziente aveva
provveduto all’allestimento delle immagini (iconotesto), e la conferenza si è risolta come una
chiacchierata in connessione con il materiale fotografico che ha sviluppato una quantità di nozioni,
ma in maniera piuttosto disorganizzata. Malgrado i piccoli contrattempi tecnici la padronanza
mentale del paziente è stata sorprendente”.
La lezione sul rituale del serpente si basava su di un triplice atto rammemorativo: innanzitutto del
viaggio e delle diapositive propriamente dette, poi delle 2 esibizioni avvenute ad Amburgo, e infine
delle sue tesi sulla sopravvivenza dell’antico. Vi è poi un 4 momento, ovvero il ricordo d’infanzia
relativo alla malattia della madre. Crisi che fu possibile superare solo facendo appello a energie
mnestiche mai del tutto sopite.
La proiezione delle immagini ha seguito logiche cinematografiche, concependo la ricerca
etnografica come flusso di immagini che migrano da un medium all’altro: paesaggi, figure di
serpente-fulmine realizzate da bambini, volti dei nativi. W è particolarmente affascinato dalla
funzione spettatoriale e certamente la considera parte integrante delle performance rituali degli
indiani e vi riconosce tutte le tecniche necessarie ad attrarre gli sguardi dei piccoli indiani.
La forma finita attraverso cui ci arriva la lezione sul rituale del serpente è il prodotto di una lunga
maturazione che ha finito per spostare il baricentro tematico della ricerca di W: inizialmente
concepita come una testimonianza autobiografica dei suoi primi approfondimenti etnografici e della
sua intenzione di emanciparsi da un discorso sull’arte estetizzante, la lezione del 23 si estende alle
sopravvivenze del serpente ben oltre il rituale indiano e coinvolge la Grecia primitiva e il
Rinascimento. Si tratta di una rifocalizzazione che ormai prelude al grande studio sulle
sopravvivenze dell’antico che lo impegnerà negli ultimi anni di vita e sarà il motore della grandiosa
impresa della biblioteca di Amburgo. Nota infatti come i riferimenti all’iconografia dei serpenti
risalivano ai culti dionisiaci del Lacoonte e all’arte rinascimentale, trasformando una passione
etnografica in una teoria generale dell’arte fondata su basi biologiche e cognitive. Tuttavia, è
affascinato dalla convivenza tra modernità e pensiero magico che per gli indiani è “un’esperienza
liberatoria” se non altro perché non li rende succubi di un razionalismo occidentale.

Nelle ceramiche W riconosce una tecnica di rappresentazione che lo condurrà all’idea che
un’immagine può essere una sorta di schema araldico in cui si scompongono e ricompongono,
seguendo una logica simbolica, forme rappresentate in natura: parti di un uccello o dello stesso
serpente che vengono assemblate per formare una “figura araldica”, avvicinando l’icona al segno
verbale e al geroglifico.

I rituali, in particolare le danze, permettono un accesso alla cultura degli indiani. Il simbolo che W
intende studiare è il SERPENTE, che seguendo una logica evoluzionistica sta alla base della
sopravvivenza degli indiani perché il loro pensiero magico lo considera un “Simbolo del fulmine” e
dunque della pioggia, indispensabile per quelle regioni. Grazie a tali rappresentazioni l’indiano
credente riesce a ottenere il beneficio temporale in virtù di pratiche magiche, la più sorprendente
delle quali è per noi quella in cui vengono maneggiati serpenti vivi. Il serpente è un perfetto
candidato per il simbolismo, è un animale che vive l’intero ciclo biologico annuale: dal più
profondo letargo alla vitalità più accesa, cambia pelle e subisce una metamorfosi, si mimetizza fino
all’invisibilità, rappresenta la massima capacità di movimento insieme alla minima superficie
vulnerabile; insomma è un simbolo perfetto dell’ambivalenza e dunque della condizione dell’uomo.
I Pueblo sono per W un esemplare caso di studio, perché rappresentano proprio quello stadio
7
intermedio tra una cultura della manipolazione, quella che caratterizza le origini, e la cultura del
pensiero astratto che caratterizza la modernità. È sintomatico che l’etnografo colga proprio nel
sentimento di straniamento che lo coglie al cospetto di questo stato ibrido, contaminato e in
transizione, quel brivido che apre alla vera conoscenza.

La danza dell’antilope
Gli indiani Pueblo entrano in relazione col mondo animale (totemismo) spinti da un timore
reverenziale perché credono di riconoscere nelle varie specie i tipici antenati delle loro tribù. La
danza permette di superare la naturale fobia per questo animale, infatti possono anche toccare il
rettile nella danza, senza volerlo uccidere perché si ritengono imparentati con lui. Da qui l’idea che
l’arte abbia una funzione catartica e che sappia disattivare persino le fobie più radicate.

W dimostra la sopravvivenza del simbolismo del serpente attraverso i millenni e attraverso i


continenti proveniente dai culti orgiastici di Dioniso, in cui le menadi manipolano i serpenti come
gli indiani, il Lacoonte, il culto di Asclepio il cui bastone terapeutico è avvolto da un serpente, un
calendario astrologico spagnolo, nella bibbia (il serpente è il simbolo del male).
I simboli sono tracce mnestiche che rimangono in uno stadio di tensione massima non polarizzata,
rispetto alla carica energetica attiva o passiva, all’artista che può reagire, imitare o ricordare. È solo
il contatto con la nuova epoca a produrre la polarizzazione. Questa può portare a un radicale
rovesciamento del significato che essi avevano nell’antichità.

In altre 2 foto invece, vediamo una bambina vestita con una bianca tunica occidentale, simbolo di
un evidente contaminazione tar indiani e americani, una sorta di attualizzazione dell’uscita dalla
caverna, un mito eminentemente visuale che racconta dell’emancipazione dalla schiavitù e dalle
immagini primitive. Nell’altra abbiamo un anonimo passante per San Francisco, un americano
tipico, un discendente degli indiani che ormai vive in una metropoli.

La vera conclusione della lezione W la occulta tra le note preparatorie. Si tratta di un lungo
commento alla foto dello Zio Sam e che culmina nella creazione di una figura di pensiero che lo
avrebbe accompagnato per tutta la vita e costituisce il lascito più genuino e fecondo della sua
antropologia filosofica e della sua teoria dell’immagine: l’idea di Denkraum, una variante dell’idea
di distanza che rappresenta il presupposto ineludibile affinché l’uomo sviluppi una cultura e si
protegga dall’immediatezza del reale. (il pensiero mitico e simbolico, nel loro sforzo di
spiritualizzare il rapporto tra l’uomo e il mondo circostante, creano uno spazio per la preghiera o
per il pensiero, che il contatto elettrico istantaneo uccide.
Anche il pericolosissimo serpente poteva essere dominato attraverso un’azione simbolica che crea
distanza e neutralizza gli istinti che pretenderebbero una risposta immediata e irriflessa. E questa
azione simbolica, costruendo antropomorficamente o biomorficamente il mondo, lo rende familiare,
controllabile e dissolve l’ansia del non conosciuto e dell’incerto.

Ci stiamo rapidamente avvicinando alla fase finale dell’estensione dell’uomo: quella in cui
attraverso la simulazione tecnologica, il processo creativo di conoscenza verrà collettivamente
esteso all’intera società umana, proprio come, tramite i vari media abbiamo esteso i nostri sensi e i
nostri nervi.

FREUD O DELLO SGURADO


Anche il rapporto di Freud con le immagini ha radici lontane, come Warburg anche Freud dovette
fin dall’infanzia con le immagini e in particolare con una: IL MOSÈ BIBLICO.
La cultura visuale di F viene nutrita da un profluvio di immagini provenienti dalla Bibbia, ovvero
un’opera che avrebbe dovuto stimolare più l’interpretazione testuale che quella iconica. Si tratta
della bibbia illustrata dal tedesco Ludwig Philippson, la quale, sin dall’età di 7 anni, è all’origine di
8
tutti i desideri di F alimentando la sua pulsione scopica. La prima immagine del libro, la più
importante sta nel frontespizio: è un’incisione che raffigura Mosè mentre espone le tavole della
Legge che ha appena ricevuto sul Sinai. Questa bibbia è un regalo che il padre Jacob fece al figlio di
7 anni e adesso per il 35esimo compleanno gli veniva restituito con una nuova rilegatura, con
l’auspicio che potesse guidarlo verso la sua piena maturità.
Freud messo in crisi dall’eresia junghiana (suo discepolo) nel 1913 vorrà identificarsi con quel
Mosè che trattiene l’ira come sembra confermare il gruppo marmoreo di San Pietro in Vincoli.
Ancora una volta ci troviamo dinnanzi all’appagamento di un desiderio infantile che si nutre di
immagini comprensibili solo nel contesto di un’analisi della sua personale cultura visuale che,
anche nel caso di Freud, è davvero sterminata e che egli stesso mette in scena in alcune celebri foto
realizzate nella sua casa sulla Berggasse. Nello studio e nell’appartamento Freud moltiplica
all’infinito le sue immagini fino a costruire il museo della sua iconoteca mentale.

Nel Mosè di Michelangelo 1914, ciò che noi scorgiamo in lui non è l’avvio ad un’azione violenta,
bensì il residuo di un movimento trascorso. In un eccesso d’ora egli voleva, dimenticando le tavole,
balzare in piedi e vendicarsi; ma la tentazione è stata superata e egli continuerà a star seduto
frenando la collera, in un atteggiamento di dolore misto a disprezzo. Non getterà via le tavole a
infrangersi contro i sassi perché proprio per causa loro ha dominato la sua ira, per salvarle ha
frenato la sua passione.

Il saggio su Mosè scritto a caldo, dopo il tradimento del suo discepolo preferito, va dunque
interpretato alla luce di tutta la parola di vita di Freud, dall’infanzia alla maturità. Esso appare
anonimo sulla rivista della psicanalisi imago corredato da 4 disegni e da una fotografia del Mosè.
Non è un caso che F ritorni a Mosè proprio nella sua ultima opera, quasi a voler stringere intorno a
una sola icona tutti i significati della propria vita.
Freud fu certamente un compulsivo collezionista di immagini, ma la sua vera esperienza visuale si
compie al cospetto della scultura, non a caso insiste sul confronto diretto con la statua durante i suoi
soggiorni romani (1901, 1912, 1913). L’incontro con la statua viene raccontato come un’esperienza
dello sguardo: sguardo reciproco di Mosè sull’idolatra Freud e di F che prova a sfidarlo.
Molti critici hanno notato che questo saggio non è un’esemplificazione diretta della teoria
freudiana, per quanto l’autore nasconda in una nota (attribuita alla rivista ma in realtà scritta da lui
stesso) che il noto autore è vicino agli ambienti psicanalitici e il modo in cui è argomentato presenta
una certa analogia con la metodica psicanalitica. Ma in questa sede proviamo a stare al gioco di
Freud e a trattarlo quindi come un trattato storico-artistico. F dimostra di conoscere e saper valutare
le opere critiche dedicate a Mosè da Michelangelo e offre a sua volta una dettagliata interpretazione
della statua. Quel che racconta qui è il metodo che applica nell’analisi, dimostrandosi un innovatore
non solo nel campo dell’analisi della psiche, ma anche nel modo di fare un’esperienza visuale al
cospetto di uno dei grandi capolavori dell’arte. Fondamentale è lo sguardo che si posa sulla statua,
l’attenzione per il dettaglio. Al centro del saggio vi è il particolare del braccio di Mosè che stringe
le Tavole della Legge che, secondo l’interpretazione degli storici dell’arte, stavano appunto
sfuggendogli per via del suo scatto d’ira alla vista del tradimento di Aronne. Si tratta di un dettaglio
inquadrato nella fotografia e che evidentemente è la base visuale da cui muove la descrizione di
Freud. Dal dettaglio però muove al contesto, considerando la scultura come parte di un tutto, il
monumento funebre di Giulio II. Ed è proprio il contesto a suggerirgli che l’interpretazione del
gesto di Mosè come un effetto dell’ira è del tutto inadeguata. La spiegazione di questa immobilità la
trova nel carattere di Mosè, esempio di un “condottiero dell’umanità” che sa contenere l’ira nei
confronti di un popolo che fa fatica a seguire i suoi precetti. F identifica se stesso con il
“legislatore” di una nuova religione che sa dominare se stesso nonostante si senta tradito dai suoi
seguaci.
F sa che i veri significati delle opere d’arte stanno riposti in particolari quasi impercettibili, e ciò è
strettamente imparentato con la psicoanalisi, anche questa è avvezza a penetrare cose segrete e
9
nascoste in base a elementi inavvertiti dalla nostra osservazione. Nel caso della statua di Mosè il
dettaglio è la mano destra che stringe la barba mentre il braccio dx trattiene le due tavole della
Legge. Freud cerca di comprendere questo movimento attraverso un meccanismo cinematografico o
fumettistico. Egli pubblica infatti 4 disegni in cui cerca di visualizzare il movimento che ha portato
Mosè nella posizione rappresentata da Michelangelo (p.105). A questo punto viene da pensare che
anche le tavole siano pervenute a questa posizione in conseguenza di un movimento precedente, che
quest’ultimo sia dipeso dallo spostamento che abbiamo attribuito alla mano destra e che la
posizione assunta dalle tavole abbia poi a sua volta costretto la mano a compiere il successivo moto
a ritroso.
F è consapevole che una descrizione attendibile del funzionamento della psiche si potrà avere solo
incrociando queste metafore ottiche con altre metafore che provengono dalla matematica e dalla
parola. La macchina fotografia ha creato uno strumento che fissa le impressioni fuggevoli della
vista, anche se quell’unico punto di vista di quel singolo momento non verrà mai scelto abbastanza
fecondo. Ciò dimostra come la fotografia abbia fornito al padre della psicoanalisi il modello per la
scomposizione dell’immagine.

Per spiegare l’evoluzione della cultura visuale di Freud, la formazione del suo occhio e il suo gusto
per le nuove tecnologie, oltre che per l’arte propriamente detta, è necessario fare un passo indietro e
tornare agli anni dell’apprendistato come neurologo. Qui è possibile distinguere due fasi che
segnano i 2 poli opposti della cultura visuale:
 Apprendistato come anatomopatologo, dedito all’osservazione attraverso il microscopio dei
tessuti nervosi
 La consapevolezza che la vita psichica e il suo funzionamento non potevano essere visti né
facilmente rappresentati figurativamente. Per questo F va costantemente alla ricerca di
tecnologie della visione, che potessero almeno avvicinarsi a una restituzione del funzionamento
della vita psichica.
Il passo successivo lo compie abbandonando il disegno realistico e sviluppando una diagrammatica
sempre più raffinata fino all’astratto.
 Nel 1885 l’apprendistato visuale di F si completa e intensifica, grazie a Charcot il medico della
Salpetriere, che stava rivoluzionando attraverso l’ipnosi lo studio e la cura dell’isteria, venendo
in contatto con un’iconoteca innovativa come la casa di Charcot.
Da pochi anni era apparsa l’iconografia fotografica della Salpetriere ideata da Charcot. Si tratta di
un ricchissimo album fotografico che documenta tutte le varie fasi dell’attacco isterico. Egli si
avvarrà di queste immagini per sostenere arditi paragoni tra e pose isteriche e i grandi quadri della
tradizione occidentale che ritraggono estasi di santi, martiri e indemoniate. E F rimase
estremamente affascinato da queste immagini che riguardavano la patologia come arte.
Tutta la pratica terapeutica di C si basava su una vera e propria messinscena teatrale di cui le
isteriche sottoposte a ipnosi erano più o meno consapevoli protagoniste. Infatti F possedeva due
litografie di Una lezione di clinica a Salpetriere, una nel suo appartamento di Vienna e l’altra a
Londra. Il quadro si configura come una metapicture del trattamento ipnotico: a dx abbiamo un arco
isterico, una torsione di una donna sorretta da die infermieri e dal medico; mentre sullo sfondo le
sue finestre, che lasciavano intravedere i dormitori delle infermiere, rimandano al setting
tradizionale di uno studio pittorico come nell’incisione di Durer; gli spettatori sono studenti e
colleghi di C. la performance isterica veniva introdotta da un gong o dall’oscillazione di un pendolo
e C durante la lezione commentava le posture della donna quasi come facesse un’ekphrasis di un
quadro.

Secondo F la fotografia permetteva di cogliere quello che l’occhio non vede, l’inconscio ottico e in
questo senso le tecnologie della visone saranno sempre da lui considerate come un ausilio
all’analisi. La riflessione freudiana riguarda soprattutto i meccanismi dello sguardo, ogni immagine

10
agisce sul nostro sguardo e attraverso di esso sulla nostra psiche. Le immagini per Freud ci ri-
guardano e ogni volta che esercitiamo questo dialogo bidirezionale qualcosa accade nella nostra
sfera cosciente e nel nostro inconscio.

BENJAMIN O DEL DISPOSITIVO

Anche la cultura visuale di Walter Benjamin ha influenzato lo studio 900esco dei rapporti tra
tecnologie e riproducibilità delle immagini, rifondando epistemologicamente la teoria della
percezione, trovando la sua origine nell’appagamento del desiderio infantile.

Il Kaiserpanorama era stato una delle attrazioni più spettacolari di Berlino. Per pochi centesimi si
potevano vedere, attraverso un binocolo montato su una struttura cilindrica in legno, le immagini
stereoscopiche che Fuhrmann importava da tutto il mondo. Ogni 2 minuti le immagini ruotavano e
lo spostamento era annunciato da un campanellino. Lo spettatore rimaneva all’esterno del
dispositivo, era costretto ad una sostanziale immobilità per via della sedia, ed era immerso in una
sala semibuia abitata da usceri-maschere che ricordavano quelli del cinematografo. L’isolamento
dello spettatore faceva sì che esso venisse come risucchiato dall’effetto allucinatorio della
stereoscopia retroilluminata da una lampadina, e il ritmo imposto dalla macchina e la durata dello
spettacolo,20-30 min, creavano certamente un effetto di assuefazione.
Sebbene l’interesse per il Kaiserpanorama venisse surclassato dalle sale cinematografiche, B poté
ancora godere di quell’atmosfera che lui stesso descriveva come retaggio di un’epoca passata. In
esso fece un’esperienza che può essere descritta attraverso le tre componenti del regime scopico:
 Fu certamente un’esperienza delle immagini: repertorio esotico e il fotogiornalismo ante
litteram (di guerra),
 Segnò l’ennesima variante di una manipolazione e implementazione dello sguardo convogliato
nelle lenti binoculari mettendo in crisi la percezione,
 Anche come dispositivo costituisce una rivoluzione, innanzitutto perché si tratta di un apparato
che non si riduceva al cilindro di legno perforato dalle lenti e circondato dalle sedie, ma la
nozione di dispositivo venne estesa a un complesso apparato.
I cicli di diapositive cambiavano di settimana in settimana, offrendo uno spettacolo sempre nuovo.
Erano capaci di trasportare lo spettatore in paradisi dell’esotismo e negli inferni delle guerre.
Il kaiserpanorama non va considerato come un semplice medium, ma come un complesso apparato
che opera in uno spazio che a sua volta è solo una parte di uno spazio più ampio: il passage. Si tratta
infatti di una delle attrazioni che il passage berlinese custodisce, e che si estende alla strada e alla
città ormai vissuti come un unico dispositivo scopico.
Non stupisce che per B si tratti di un’esperienza multimediale che va al di là della visione,
insistendo ad esempio sulla dimensione sonora. Probabilmente il campanello faceva sussultare lo
spettatore incantato dall’immagine e nello stesso tempo costituiva l’orizzonte d’attesa di una
transizione verso il nuovo.
Il Kaiserpanorama segna solo il primo atto di un’archeologia dei media che intende ricostruire la
relazione tra desiderio e il suo soddisfacimento tecnologico. Ogni grande conquista tecnologica per
B è preparata da impercettibili modificazioni della percezione che allenano l’occhio e la mente e li
predispongono a intercettare quello che era già davanti ai nostri occhi. Insomma è la cellula
originaria di una riflessione sui media che accompagnerà tutto il 900 e che ha consentito alla cultura
visuale contemporanea di riscoprire una serie di tecnologie della visione.
Anche nel caso di B ci troviamo davanti all’appagamento di un desiderio infantile che si concretizza
in una passione filosofica per lo sviluppo delle tecnologie.

11
Un’altra tecnologia della visione che determina le esperienze visuali della modernità è la
FANTASMAGORIA. Gli spettacoli di f. erano un’ulteriore prova del fatto che i dispositivi della
visione dovevano essere compresi come apparati complessi. Anche la fantasmagoria mette in
relazione un dispositivo ottico (il fantascopio) con due spazi (uno davanti allo schermo riservato al
pubblico e uno dietro lo schermo riservato al lanternista per le retroproiezioni) e fa appello a
molteplici esperienze sensoriali (l’udito, il tatto, l’odorato). Anche Goethe era ossessionato da
questa tecnologia della visione e dell’illusione.
Il fantascopio era una visione aumentata della lanterna che creava effetti di messa a fuoco,
ingrandimento e dissolvenza delle immagini, facendo apparire un’immagine dal nulla grazie
all’espediente della retrospezione.

Nell’Europa del classicismo e del romanticismo si diffonde l’uso metaforico della parola
fantasmagoria/fantasmagorico. Il termine aiutava a connotare quella transizione tra il virtuale e il
reale, permetteva di combinare l’uso emblematico dell’immaginario con un aspetto soddisfacente
dal punto di vista visuale e poneva in una cornice razionale ciò che tradizionalmente era attribuito
alle visioni fantastiche.
Marx, in un celebre passo del capitale, dice che il carattere fantasmagorico della merce sta nel fatto
che essa occulta, sotto le sembianze di una bella e desiderabile apparenza, le reali condizioni della
sua produzione, e fa apparire come un rapporto tra cose che naturalmente esistono in natura, quello
che è in realtà il prodotto dello sfruttamento delle persone nell’economia capitalista.
Un filo rosso collega le speculazioni dei romantici a Marx e Benjamin. Quest’ultimo considererà la
f come una metafora assoluta della modernità, capace di spiegare insieme gli inganni della merce,
l’evoluzione delle tecnologie e le trasformazioni della percezione nell’era del primo capitalismo
(comportamenti sociali).

Benjamin utilizza la fantasmagoria come chiave di lettura del modo della merce ma si fa anche
aiutare dallo spettacolo per comprendere il nesso merce-società.
Alle caricature a ai disegni di Gandville va un duplice merito: l’aver trasferito il carattere di merce
all’universo intero, e aver evidenziato con le sue illustrazioni i luoghi in cui la merce subiva questa
profonda trasformazione ontologica: i grandi magazzini, le esposizioni universali e i passage.
Tuttavia, B considera anche la valenza antropologica della merce, ovvero il fatto che il rapporto tra
merce e mondo moderno è solo una variazione di un comportamento nei confronti degli oggetti: il
feticismo.
Il feticcio, come spiegherà Freud, è nella sfera sessuale il sostituto di qualcosa ma soprattutto è il
motore di un meccanismo di sostituzione poiché induce il feticista a soddisfare la propria pulsione
sessuale non in modo naturale ma concentrandola su un oggetto.
D’altra parte, B crea un articolato campo semantico per segnalare il nesso tra morte, merce, moda e
feticismo. La casa museo di Adolphe Wiertz a Bruxelles era diventato il luogo di esposizioni e
performance che avevano scandalizzato l’Europa intera, anticipando sul piano della cultura visuale i
poeti maledetti francesi (immagini sessuali che invitano a esplorare il lato oscuro della visualità e
della sessualità).
B inoltre intercetta il regime scopico per eccellenza della modernità: la vetrina (metapicture). Essa
ha un effetto doppiamente fantasmagorico: è luogo di esposizione della merce ma al contempo offre
un’illusione di una perfetta trasparenza, rendendo permeabile il confine tra esterno e interno. In
questo senso i grandi magazzini sembrano aver introiettato le caratteristiche della vetrina.
Il regime della vetrina costituisce il presupposto sociologico del passage e si comprende come
dispositivo solo se si tiene conto del soggetto nuovo della modernità: la folla.
B aveva compreso che l’esperienza delle esposizioni universali e dei grandi magazzini era
eminentemente un’esperienza dello sguardo. Le logiche del grande magazzino finiranno poi per

12
contaminare quelle del museo, che sempre più si trasforma in un’esposizione di merci, così come il
teatro e il cinema.

La merce insomma diventa una parte integrante della spettacolarizzazione della società nel suo
complesso. Si tratta dell’inizio di un’intricata storia che porterà la cultura visuale contemporanea a
occuparsi di ambienti complessi come gli schipping mall e gli screenscape contemporanei, fino alle
finestre digitali dei sistemi operativi dei computer. Siamo già nel cuore della riflessione sui
dispositivi che B consegna alla cultura visuale contemporanea.

3. Iconoteche

Intro

Il discorso sulle immagini si costituisce attraverso iconoteche reali e virtuali. L’incompiuto atlante
delle immagini di Warburg, la collezione di antichità di Freud sono esempi di iconoteche reali che i
loro possessori costruirono durante la loro esistenza. Anche Benjamin fu un costruttore di atlandi
ma la guerra e la persecuzione nazista gli impedirono di salvare le sue collezioni. La struttura
dell’atlante è molto simile ad un ipertesto, perché le immagini e i tasti creano una rete infinita di
rimandi verbo-visuali. Le loro iconoteche hanno rappresentato un’assoluta novità nel 900, e il
principio dell’atlante ne è stato il precursore, infatti la disposizione e collezione di immagini e testi
su di un unico supporto mediale (libro, tela nera, collage) ha illustri predecessori. La storia moderna
è ricorsa a questo dispositivo di assemblaggio delle immagini proprio nei pictorial turn, ovvero
quando lo statuto delle immagini entrava in crisi.
Queste esperienze sono legate dall’Hyperimage, ovvero dall’iterazione di immagini multiple
disposte l’una accanto all’altra nello stesso ambito spaziale. Esse permettono una visione
comparativista che sta alla base della storia dell’arte e della cultura visuale moderna.

L’atlante di McLuhan è il tentativo di offrire sponde di resistenza contro lo strapotere della


pubblicità e dei giornali attraverso un close reading di ciò che la comunicazione di massa nasconde
tra le impaginazioni, fotografie e testi pubblicitari (il concetto di feticcio). O vari concetti introdotti
dunque si pongono come obiettivo quello di far riflettere, non sono conclusioni da ritenersi
definitive. Si riprende l’intuizione benjaminiana dell’uso della donna come oggetto della pulsione
scopica maschile.

Scopriremo che le iconoteche di questi 3 studiosi hanno consentito loro di immaginare nuove forme
di espressione che di fatto hanno condizionato tutto il 900. Anche quando si è trattato di forme
incompiute come nel caso di Waburg e Benjamin, i quali ci hanno affidato testi frammentari ma
pieni di energie, o come nel caso di Freud che ci ha prospettato lucide tematizzazioni
dell’interminabilità dell’analisi.

Un atlante per le immagini (Warburg)

Le sue istruzioni per la costruzione e per l’uso di un’iconoteca personale e idiosincratica come
l’atlante Mnemosyne hanno influenzato la cultura visuale 900esca. Il suo modello di iconoteca è
destinato allo studio delle sopravvivenze dell’antico nel contemporaneo.
A W si deve la realizzazione della sala di lettura ellittica, la cui forma voleva essere un’allegoria del
cosmo e del corpo. La forma ellittica infatti ha avuto per lui una funzione ansiolitica e ben si
prestava dunque a una funzione pedagogica, coadiuvando un significato culturale a quello
terapeutico. L’ellisse rappresenta il perfetto compromesso tra la dispersione frenetica della ricerca
dei materiali e la necessità di trovare un centro simbolico.
13
L’atlante Mnemosyne non è una mera giustapposizione di immagini tratte da tradizioni
iconografiche diverse, come era già evidente nel lavoro sul rituale del serpente. Le tecniche
espositive di w si vanno raffinando col passare del tempo e l’autore, i suoi collage risentono sempre
più dell’infinita disponibilità delle riproduzioni; oggi è stato implementato con sperimentazioni
digitali di ogni tipo, attraverso procedimenti che ricordano quelli cinematografici.

W lavorò all’atlante negli ultimi 5 anni della sua vita rielaborando costantemente la disposizione di
circa 2000 immagini raccolte. Egli opera delle vere e propre mise en abyme appendendo nei
pannelli fotografie di interi pannelli già realizzati. Si tratta di un’iconoteca che comprendeva tutto lo
spazio attorno a lui r che si sviluppava su media differenti: libri, mobili, appunti in schedari,
fotografie.
È stato opportunamente notato che l’iconoteca warburghiana è in sé una forma per prendere
distanza dalle 2forumel di pathos” attraverso la materializzazione mediale di un’iconologia degli
spazi intermedi. L’atlante introduce nel sapere una dimensione sensibile, tangibile che permette di
sfuggire alla testolatria occidentale. È una forma che consente di pensare il molteplice, l’ibrido, e di
immaginare nuovi nessi tra immagini/oggetti.

Se l’immagine costituisce un discorso, esso è per definizione aperto, interminabile (analisi di


Freud). E forse non è un caso che i più importanti atlanti del 900 sono opere incompiute.
Esso è l’archetipo del pensiero combinatorio. È un dispositivo archeologico perché scardina le facili
cronologie della storiografia e scommette sull’immemoriale: sulla trasmissione delle formule di
pathos, ovvero i gesti che l’esperienza panica incide nella nostra memoria culturale e individuale.
L’atlante studia le affinità elettive tra le forme e non smette mai di immaginare una forma originaria
per quanto irraggiungibile essa possa rivelarsi.

Come lavora l’atlante mnemosyne? E come lavora oggi con le tecnologie digitali?
Il Lacoonte è un’opera che ha infiammato per secolo l’immaginario occidentale da quando fu
ritrovata in una villa del Colle Oppio e subito riconosciuta da Michelangelo come una dei
capolavori dell’antichità descritti da Plinio. Essa appare qui affiancata da due immagini che
potremmo definire irriverenti: una caricatura e una pubblicità di una birra tedesca. Ma è evidente
che l’atlante vive proprio di connessioni inedite che si istaurano tra l’alto e il basso, tra media e
contesti culturali diversi. L’immagine antica sopravvive nel moderno ed è strutturata in formule di
pathos che richiamano gesti antichi e ormai fissati nella memoria culturale individuale.

Un altro esempio è quello riguardante la donna-oggetto. Nella prima immagine vediamo una donna
saggia che deve imparare a tacere e che porta abiti castigati e religiosi, proseguendo vediamo
l’autoritratto di un’artista in voga negli anni 20 (emblema della bellezza femminile) e infine, una
pin-up girl (post-porn).

Nel caso del Lacoonte il morso così tanto temuto nella tradizione classica diviene desiderabile, nel
caso dell’incisione tedesca il tema della continenza forzata viene ribaltato in quello della seduzione
sessuale.

La nascita del Battista 1485-90, il Ghirlandaio. Qui la fanciulla che porta il canestro di frutta in testa
irrompendo nella stanza colpisce W. la sua veste ventilata, l’esuberanza dei movimenti non solo lo
attraggono per evidente contrasto con la staticità nordica degli altri personaggi, ma gli ricordano la
sensualità di una ninfa che sin dalla Grecia ha abitato i desideri e le raffigurazioni di innumerevoli
scrittori e artisti. La presenza di una ninfa pagana in un affresco di chiara ispirazione cristiana lo
convince ulteriormente della correttezza della sua intuizione.
La ninfa riprende la figura postclassica della vergine-ninfa cacciatrice, ed è chiaramente un
fantasma del desiderio maschile (non nasconde le sue valenze feticiste, collegandola a
14
Giuditta/Salomè tagliatrici di teste e menadi squartatrici). Lo spunto nasce da una lettera che
l’amico Jolles nel dicembre 1900 manda a W.

Uno dei pochi testi rimasti è quello sul dipinto di Manet, la colazione sull’erba 1863. Esso è stato
donato da W alla sua assistente nello stesso anno della lezione e presenta il seguente sottotitolo: la
funzione prefigurante delle divinità pagane elementari per l’evoluzione del sentimento moderno
della natura (nesso tra antico e moderno).
Manet veniva considerato da W una classica figura di transizione attraverso cui era possibile
avvertire tutte le tensioni di un’epoca. Oggi diremmo che Manet fu uno dei protagonisti di un
pictorial turn, che mise in crisi non solo generi e forme, ma anche i modi della percezione e
dispositivi mediali nella Parigi di Baeudelaire.
W per cogliere questa tensione irrisolta, non mancò di cercare nella sequenza delle immagini una
sorta di terapia per sé stesso. Manet gli servì per prendere distanza da se stesso, proprio perché nella
sua opera riconosceva quella polarità che l’aveva ossessionato per tutta la vita (le antichità
olimpiche e demoniche nelle loro funzioni differenziate).

Il lavoro è per altro un perfetto esempio di trasmigrazione e trasformazione di simboli attraverso


media diversi: da un sarcofago romano col Giudizio di Paride, al quadro celeberrimo di
marcantonio Raimondi, attraverso una serie di mediazioni e ramificazioni in altri media (incisioni,
disegni, illustrazioni di cataloghi). W stesso è convinto di aver individuato nel sarcofago di villa
medici l’anello mancante tra i sarcofagi di età romana, Raffaello e Manet, visti come un’unica
variante moderna di un’immagine antica. Egli si accorse che nel sarcofago romano le 3
seminidivinità fluviali guardano disperate alla scena degli dei che si allontanano, insieme a Venere
irritata dal giudizio di Paride. la scoperta di w sta nell’aver notato che la ninfa in primo piano
nell’incisione di Marcantonio non guarda più gli dei allontanarsi, ma si rivolge piuttosto allo
spettatore.

È il segno che qualcosa è cambiato nel significato profondo dell’immagine, essa testimonia un
processo di iniziazione e secolarizzazione che si trasmette a Manet. Ma quest’ultimo fa un ulteriore
passo in avanti perché anche le 2 divinità maschili sono ormai attratte solo da uno spettacolo
quotidiano, mentre le divinità fluviali sono ricondotte a incarnazioni di una depressiva malinconia.
Questo segnerebbe l’emancipazione dai rituali pagani e dunque una presa di distanza dalle paure e
dalle ansie di un mondo governato dagli dei. Insomma, il dipinto di Monet è la storia di una duplice
liberazione: dall’angoscia degli dei e dall’angoscia dell’abbandono, affermando semmai una nuova
fiducia nella razionalità umana che si esprime attraverso una dottrina delle cause dei fenomeni
fondamentali della natura. Questa storia accompagnerà tutto il 900, attraverso le innumerevoli
riscritture di Picasso, le avanguardie e il linguaggio pubblicitario.

Archeologia dello sguardo (Freud)

Nell’esperienza psicanalitica è centrale la dimensione visiva, cominciando dall’inconscio per finire


con la fenomenologia delle perversioni. Gli studi sul feticismo infatti sono comprensibili solo
attraverso uno sguardo sessuato, ovvero attraverso il nesso che si instaura tra sessualità e visione.

Il sistema espositivo della propria iconoteca è un elemento decisivo nella costruzione delle strategie
argomentative della cultura visuale. A differenza dell’atlante di W, che manteneva una sua
consistenza multimediale basata su numerose immagini, la natura della collezione freudiana è per
sua natura tridimensionale, e fortemente rappresentata dalla scultura. Egli sembrava non curarsi
dell’autenticità dei pezzi che collezionava, perché la sua significazione in un sistema di immagini
era mentale prima ancora che materiale. La sua collezione di antichità sta alla base della sua cultura

15
visuale e della sua applicazione che di questa ne fece nella sua teoria psicanalitica. (Un’esperienza
molto importante fu la visita della casa-studio di Charcot).
Infatti, F non solo viveva in un’iconoteca reale, assemblata con fatica e dedizione e prodotto di una
duplice passione infantile per l’archeologia, utilizzava questo museo materiale per alimentare un
museo immaginario che stava alla base del dialogo con i pazienti. Centrale è la convinzione che la
psiche si nutra di immagini e che ogni trattamento terapeutico si realizzi attraverso le immagini che
le parole sanno evocare e gli occhi sanno vedere, magari in una nuova prospettiva (pensare
attraverso le immagini).
Egli a dire il vero costruisce 2 iconoteche:
 Una nel suo appartamento privato nella Bergasse. In esso raccoglie il lontano e il passato.
Mette in scena i suoi desideri più intimi (i suoi viaggi in Italia, foto di famiglia). Viene da
pensare che nessuna di queste fotografie sia frutto del caso, ma rappresenti un dispositivo
per fissare le tappe fondamentali della sua evoluzione intellettuale.
 Nello studio invece realizza una vera fantasmagoria, in cui le figure archeologiche
rimandano all’inconscio, e ai mondi dell’antichità che costruiscono un passaggio dell’anima.
(Mosè con le tavole della legge, Edipo, il quadro con le lezioni di Charcot al Salpetriere).
Nello studio le immagini sembrano emergere dall’inconscio, sono più immagini oniriche e
mitologiche, pronte ad essere riattivate dal tocco dell’analista, al contrario l’appartamento è
la scena del desiderio (Italia, arte e cultura 1895-96).

Ma la cultura visuale di Freud va ben oltre le collezioni d’antichità ed è alimentata anche da


immagini nascoste, ne segnaliamo una: il delirio e i sogni della Gradiva di Wilhelm Jensen. Un
calco del bassorilievo della Gradiva che F teneva i piedi del lettino. L’immagine nascosta era un
quadro di un pittore belga Felicien Rops, le tentazioni di Sant’Antonio, e si tratta di un’opera tra
pornografia e blasfemia, in quanto tenta di stigmatizzare gli eccessi lussuriosi e l’ipocrisia del clero
(p200). Essa mostra un nudo femminile crocifisso che scalza il Cristo, mentre un monaco arretra
scandalizzato dalla visione demoniaca mentre sta sfogliando un album con scene pornografiche. Per
Freud quest’immagine spiega il meccanismo della rimozione. Il protagonista della novella di Jensen
ha rimosso il proprio desiderio per l’amica d’infanzia ma questo si ripresenta sotto forma di fantasia
durante il soggiorno a Pompei dopo tanto tempo. Lei riappare sotto le sembianze della Gradiva nel
bassorilievo del museo di Roma. Questo aveva permesso al protagonista di rimuovere il suo amore
infantile indirizzando la propria pulsione sessuale su un oggetto di marmo e vedere la Gradiva
aveva fatto riemergere quel rimosso.

L’acquisizione fondamentale di Freud sta nell’aver riconosciuto nel piacere di guardare e di esibire
una zona erogena al pari del “toccamento”. Infatti, F nota che nel balbino vi sono pulsioni legate al
guardare e all’essere guardato.
Il feticismo è un’esperienza precipua dello sguardo sessuato, infatti il feticcio è un sostituto per
l’oggetto sessuale, ma può avere anche una connotazione immateriale (sfavillio del naso). Tutta
l’argomentazione freudiana è al maschile e l’idea del feticismo femminile non è neppure sfiorata e
questo ebbe conseguenze decisive per la cultura visuale moderna, almeno a partire dal saggio di
laura Mulvey sul feticismo nel cinema narrativo hollywoodiano. La donna fin dalla prima infanzia è
stata convinta a osservarsi di continuo, infatti non riesce a evitare di visualizzarsi in qualsiasi atto,
di conseguenza si trasforma in un oggetto della visione: in veduta. Così prende forma la denuncia
femminista contro l’ordine sociale fallocentrico che s’incarna nel cinema. In un mondo ordinato
dalla disparità sessuale il piacere di guardare è stato scisso in attivo/maschile passivo/femminile, per
cui lo sguardo maschile determinante proietta la propria fantasia sulla figura femminile, che è
definita di conseguenza. Tuttavia, la donna evoca il fantasma della castrazione, in quanto essa è la
prova che castrazione è possibile, ecco perché il cinema narrativo tende a compensare questa paura
trasformando la donna in feticcio.

16
Proseguendo Mulvey lascia ulteriormente spiazzate le critiche femminili. Il cinema quindi è
destinato ad uno spettatore maschile, ma rispolverando la teoria freudiana in cui esiste una fase
fallica in ogni donna, l’identificazione del personaggio principale maschile si qualifica come una
regressione a una fase pre-edipica e come una forma di transessualità.

Per Mary Ann Doane, la vera novità del cinema per le donne sta nell’annullamento della distanza
tra lo spettatore e ciò che accade sullo schermo, cambia lo sguardo (la donna è allo stesso tempo
oggetto e soggetto del desiderio) e ciò rende impossibile alla donna lo sviluppo di un’attitudine
feticista, semmai vi può essere una tendenza al travestimento (qualcosa che non può essere
compreso con le categorie patriarcali).

L’uso che Freud fa delle immagini, a cominciare dagli oggetti che componevano la sua collezione
archeologica, ha costretto gli interpreti a rivedere la sua posizione nella cultura visuale.
Analizzeremo 3 immagini estrapolate da 3 saggi dai quali emergono alcuni principi metodologici:

 Il delirio e i sogni della Gradiva di Jensen, pur essendo un’interpretazione psicanalitica di un


testo letterario, offre innumerevoli spunti sul piano della teoria delle immagini mentali e
materiali.
Il bassorilievo della Gradiva, si trova a Pompei, una città sepolta, metafora assoluta dello scavo
psicanalitico. La figura sembra richiamare la ninfa wagburghiana caratterizzata dalla veste ventilata
e designata come oggetto del desiderio maschile. Nel caso sopra citato della rimozione, per Freud si
tratta di un’erotomania feticista, in quanto si tratta di un innamoramento per un’immagine di pietra.
Ma più in generale i fenomeni di cui Freud si è occupato (come l’isteria) sono il prodotto della
repressione dei sentimenti erotici. Il bassorilievo è dunque l’immagine che mette in moto il delirio e
allo stesso tempo il meccanismo psicologico che porterà alla guarigione, tutto nasce e guarisce
grazie ad un’esperienza visiva.

 Parallelo mitologico con una rappresentazione ossessiva plastica, una divagazione


archeologica sulla figura mitologica di Baubo
Nel secondo caso, un paziente aveva sviluppato una rappresentazione verbale ossessiva che lo
costringeva ad associare la parola padre-culo alla figura di suo padre. In realtà il rebus verbale
risaliva ad una variante maliziosa della parola patriarca in lingua tedesca, r vedeva la
rappresentazione come la parte inferiore di un corpo, nuda, provvista di braccia e gambe, ma senza
la testa e la parte superiore. I genitali non erano indicati e i tratti del volto erano dipinti sul ventre.
Freud ricorda un’antica immagine greca che posizionava il volto sul ventre della figura di Baubo.
Secondo la leggenda greca, mentre Demetra andava in cerca della figlia rapita (Persefone), era
giunta ad Eleusi ed era stata ospitata da Disaule e dalla moglie Baubo. A causa della sua profonda
afflizione non aveva né bevuto né mangiato, al che Baubo per sollevarle il morale la fece ridere
alzando improvvisamente la veste e scoprendo il copro nudo. Sono state ritrovate anche delle
terracotte rappresentanti Baubo. Freud è implicatamene convinto che esiste evidentemente una
storia delle immagini che attraversa le culture, infatti crede che la psiche umana cerchi le immagini
per rappresentarsi concetti che non seguono le normali vie della razionalità e corrispondono invece
a istanze profonde della sua costituzione biologica.

In Un ricordo d’infanzia si Leonardo da Vinci, interpreta un ricordo infantile dell’artista come una
fantasia omossessuale passiva, ovvero il fatto di essere allattato da un nibbio. Nella scrittura
geroglifica degli Egizi, la madre viene indicata con la figura dell’avvoltoio, inolytre gli egizi
veneravano una divinità materna raffigurata con una testa di avvoltoio, o con più teste tra cui
almeno una di avvoltoio, il nome di questa dea era Mut.
17
Possiamo immaginarci la genesi di questa fantasia nel seguente modo: quando una volta, in un
Padre della Chiesa on in un libro di scienze naturali, egli lesse che gli avvoltoi erano tutti femmine e
sapevano riprodursi senza il concorso del maschio, emerse in lui un ricordo che si trasformò in
quella fantasia, la quale però intendeva significare che anche lui era stato un figlio di avvoltoio, e
che quindi aveva avuto una madre ma non un padre. Inoltre, un’eco di godimento provato dal seno
materno, metafora della fellatio.

 Scudo con a testa di Medusa (Caravaggio) deli Uffizi. Essa costituisce la sintesi più alta
della sua teoria sullo sguardo ormai emancipata dalla teoria delle perversioni.
Si stabilisce una connessione tra la decapitazione-evirazione. Il terrore della Medusa è quindi
l’evirazione legata alla vista di qualcosa, e che capita quando un bambino vede il genitale femminile
della madre. I capelli sotto forma di serpenti, servono per mitigare l’orrore, poiché sostituiscono il
pene, ma la moltiplicazione dei simboli rimanda all’evirazione. La vista della testa di Medusa, per
l’orrore che suscita, irrigidisce lo spettatore e lo muta in pietra. Ma irrigidimento vuol dire erezione,
ovvero qualcosa che consola lo spettatore. Inoltre il simbolo è originariamente posto sulla veste di
Atena, la dea vergine. La vista dei genitali è nota come azione apotropaica: suscita orrore in noi ma
anche nel nemico.
Anche il dispositivo circolare ricorda un occhio e quindi il medium appare raddoppiato. Tutti i miti
che gravitano intorno a Medusa descrivono tragedie dello sguardo: le Gaie facevano da guardia al
Giardino delle Esperidi, ma poiché avevano un occhio solo se lo scambiavano a fine turno
rimanendo per un attimo cieche entrambe. Perseo approfittò del momento per strappare l’occhio e
ottenere informazioni per la strada che conduceva alle Gorgoni. Tra esse solo una era mortale,
Medusa. L’eroe dovette tenere il capo volto indietro per non vedere la sua faccia simile ad una
maschera e con una spada divina le tagliò la testa.
Non stupisce quindi che Caravaggio ponesse al centro della sua interpretazione lo sguardo stupito e
pietrificato della gorgone, che il pittore dipinge con ambigui tratti maschili.
L’oggetto quindi si trasforma in soggetto che ci guarda, agendo su di noi come se avessero una
propria agentività.

Nel giro di 2 anni grazie a Foucault (sguardo intrepretato socialmente e politicamente) e Lacan
(reciprocità degli sguardi, sguardo-immagine schermo-soggetto della rappresentazione) la nozione
di sguardo diventa centrale nell’episteme contemporanea, inaugurando molte delle strade che poi la
cultura visuale percorrerà. Oggi l’attenzione è sposta sugli sguardi non-umani ovvero tecnologici.

Il Panottico (Benjamin) - montaggi fototestuali

Il lavoro sui passage parigini che certamente avrebbe potuto rappresentare un dispositivo complesso
di presentazione della propria iconoteca mentale rimase, per ovvi motivi, un’opera cieca ma
possiamo immaginare come avrebbe potuto essere. Esisteva un album nel quale incollava le stampe
che faceva realizzare dalla biblioteca nazionale di Parigi. Egli comprende che la forma della
collezione dei frammenti sarà la strategia specifica di un’analisi della modernità che non si lascia
più comprendere in forme tradizionali di scrittura ma inizia a speculare su un montaggio letterario
(immagine + didascalia), assemblando materiali testuali e iconografici da affidare a future
impaginazioni.

I pochi testi illustrati che ebbe la ventura di pubblicare erano saggi per bambini, in particolare
ricordiamo:
 Un articolo, Giocattoli russi, ci dimostra come avesse riflettuto sul tema delle didascalie, che
erano appuntate sul retro delle fotografie e che instaurano nessi inauditi con questioni che
riguardano la vita delle immagini tout court.

18
 Un altro articolo emblematico è Breve storia della fotografia. Il rapporto tra testo e foto è
fluido, alcune sono citate nel testo, altre sono nascoste. Esse apparvero in punti del tutto
casuali, infatti il rapporto tra testo e immagine appare volutamente libero.

Ma perché il breve saggio sulla fotografia va considerato un incunabolo della cultura visuale?
Benjamin nota che l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella
scintilla magari minima di caso, di hic et nunc, con cui la realtà ha folgorato il carattere
dell’immagine. Questo è un primissimo riferimento all’inconscio ottico, a ciò che pur non
vedendosi nelle foto appare e si manifesta. Se si combinano queste riflessioni sull’essenza della
fotografia con il principio-atlante si comprende perché Benjamin è affascinato più che dalle
fotografie, dagli album che le assemblano. Egli non è interessato alla fotografia in quanto arte ma
all’arte in quanto fotografia, che riesce a penetrare affondo riscoprendo territori inesplorati.
La macchina fotografica diventa sempre più piccola e sempre più capace di afferrare immagini
fuggevoli e segrete, il cui effetto di shock blocca nell’osservatore il meccanismo dell’associazione,
a questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nell’ambito della
lateralizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a
rimanere approssimativa, che la sottrae all’usura della moda e le conferisce un valore d’uso
rivoluzionario.

Il lavoro sui passage doveva mostrare le origini della modernità attraverso il prisma di un’unica
città e in definitiva di un unico dispositivo. Ma i passage sono solo un momento della sua analisi
visuale del 19 sec, poiché tutte le parti in cui si sarebbe dovuto dividere il lavoro partono da
un’esperienza visuale. Negli appunti infatti vediamo come altri dispositivi entrano in scena: musei,
specchi, ferrovie, l’architettura moderna. I passage sono nel progetto di B, il dispositivo
sovraordinato, urbano, che contiene al suo interno tutta una serie di tecnologie della visione, di
media, di apparati ottici, che variano all’infinito la sua esperienza con il Kaiserpanorama berlinese
(esperienza infantile). Il lavoro sui p. è prima di tutto una storia delle tecnologie della visione che
hanno attraversato il 19 sec e che a Parigi trovano un punto di convergenza per poi diffondersi in
tutta Europa, con una particolare attenzione agli effetti che questi dispositivi hanno sulla
percezione. Sarebbe stata un’iconoteca dei dispositivi, un’estesa raccolta dei media della visione
(incisioni, illustrazioni di giornali, quadri, dispositivi ottici come la lanterna magica, i caleidoscopi
fino ai panorami e diorami /-rama).

Ci soffermiamo sui 2 dispositivi centrali per l’analisi di B: il panorama (1700) e il diorama (1822).
Il panorama era una rotonda di legno che custodiva al suo interno un dipinto circolare, più tardi
retroilluminato, sul quale ci si poteva affacciare da una piattaforma circolare posta al centro. Le
prime testimonianze parlano di un dipinto a 360° che rappresenta un paesaggio o una città,
paragonabili ad una veduta dall’alto. Alcune leggi geometriche per le realizzazioni dei panorami
presentano un’anamorfosi, ovvero una distorsione della prospettiva. Questa esperienza richiama
quella del cinema: libertà dello spazio, costrizione di uno spazio chiuso.
Con il panorama comincia una storia delle tecnologie della visione che si fondono sull’immersione
totale dello spettatore nel medium, anche se alternano mobilizzazione di quest’ultimo e
mobilizzazione dell’immagine spettacolo (diorama). La fotografia e i diorami segnano una
rivoluzione dei regimi scopici della modernità. La tecnologia del diorama era infatti basata sulla
possibilità di creare grandi immagini dipinte su carta ad acquarello che venivano retro illuminate da
lampade ad olio. A differenza del panorama la cui immagine era sostanzialmente stabile, il diorama
poteva offrire l’alternanza del giorno della notte e dunque dare un effetto cinematica, luci e ombre
diventano le protagoniste dello spettacolo (i diorami subentrano alla lanterna magica).

Il lavoro sui passage offre prima di tutto una sorta di archeologia dei media, focalizzato sui
panorami sui diorami, ma che coinvolge molti altri dispositivi e apparati più o meno complessi. È
19
un’archeologia perché Benjamin è perfettamente consapevole che sta studiando un fenomeno al
momento del suo declino. Quando cioè la visione panoramatica è stata di fatto superata da quella
cinematografica. Questo gli consente però di creare una morfologia che gli permette attraverso lo
studio delle forme, in questo caso degli aspetti tecnici dei vari dispositivi, di cogliere non solo ciò
che proviene dal passato, ma soprattutto ciò che può essere recuperato dal presente. Benjamin
dunque inserisce panorami e diorami in una secolare transizione che porta dalla pittura al cinema,
facendo notare le genealogie ma anche soprattutto le sopravvivenze, questa volta dei dispositivi più
che delle immagini come era stato il caso di Warburg.
Significativa però è la scelta dei due è dead media come il panorama e il diorama. Benjamin infatti
sembra comprendere subito che l’esperienza mediale è sempre e comunque un’esperienza
multimediale anzi multisensoriale. Il panorama il diorama si presentano fin dalle origini come
esperienze multimediali in cui era coinvolto tutto il sensorium: la vista, l’udito, l’odorato e in ultima
istanza e tutto il corpo. Da questo punto di vista si tratta di spettacoli la cui energia avvertibile
ancora nel presente. E non solo perché si basano su una virtualizzazione, non solo perché seguono
ormai gli schemi della spettacolarità di massa, ma perché si impongono come ambienti in cui è
possibile abitare, muoversi e vivere. Per comprendere fino in fondo all’esperienza del panorama e
del diorama è necessaria una rivoluzione della nozione di media. Non si tratta più di dispositivi
ottici di strumenti di tecnologia, si tratta di pensare media come ciò che caratterizza gli ambienti in
cui l’uomo sapiens impara vivere e sopravvivere, trasformandoli.

Sullo sfondo della riflessione sui panorami il saggio di B: L’opera d’arte nell’epoca della
riproducibilità tecnica, assume un altro spessore. Infatti, è molto più che una riflessione sulla
riproducibilità o sul cinema, è una riflessione sulla storicità della percezione e sui media come
ambienti che modificano il sensorioum. Nel saggio si delinea questo ampiamento sostanziale che
trasforma la teoria dei media e dei supporti mediali in una teoria ecologica, facendo maggior
attenzione all’ambiente.
Quando B parla di un equilibrio tra l’uomo e l’apparecchiatura esprime la sua convinzione che i
mezzi tecnici fanno parte dell’ambiente in cui l’uomo vive, non sono semplici strumenti, ma
soggetti con cui si deve fare i conti nel difficile percorso di adattamento teorizzato dagli
evoluzionisti. La cinepresa è in questo senso un dispositivo che modifica radicalmente le abitudini
percettive dell’uomo moderno, facendogli vedere dettagli nascosti all’interno delle scene. Non a
caso parla di inconscio ottico introducendo un paragone con la psicanalisi: ciò che differenzia
l’uomo dall’animale (costretto in un modo-prigione) è la capacità di creare un ambiente che è fatto
di cose percepibili ma anche non percepibili e inconsce.
Per B il medium della percezione è l’ambiente, l’atmosfera, il milieu in cui ha luogo la percezione
sensibile; ma questo è solo un aspetto, perché la condizione atmosferica del medium ha un effetto
sul sensorium umano, diventa la condizione attraverso cui gli strumenti tecnici si innestano nello
spazio ma anche nel corpo degli individui.
Si parla infine di seconda tecnica, intendendo ciò che l’uomo ha messo in campo nella sua
evoluzione, ed è una forma di liberazione delle potenzialità umane. Essa è qualcosa in più rispetto al
semplice dominio tecnico attraverso strumenti specifici, ma richiama una rete di relazioni, anche
immateriali, che gli esseri umani istaurano attraverso la cultura. Le tecnologie di cui l’uomo si è
dotato durante la sua evoluzione vanno intese come un’estensione ed esternalizzazione del corpo, in
un certo senso la biologia dell’uomo si caratterizza per la capacità di estendere al di là del proprio
corpo, della propria mente tutta una serie di abilità, mentali e fisiche, necessarie per adattarsi
all’ambiente e per la sopravvivenza. Tra queste estensioni vi sono certamente le tecnologie, ma
anche il linguaggio e in definitiva la cultura che, dal punto di vista della nostra trattazione, è una
nicchia ecologica in cui abitano i dispositivi, un ambiente. La svolta biculturale della cultura visuale
è il futuro.

20

Potrebbero piacerti anche