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ELEMENTI DI SEMIOTICA - Stefano Gensini

Introduzione. In un mondo di segni?


Se cerchiamo il termine semiotica nel vocabolario vediamo che questa deriva dal
greco semeion, “segno”, e semeiotikòs, “relativo ai segni”. Facciamo alcuni esempi
due segni che utilizziamo quotidianamente:
• Le parole sono per noi segni di pensieri, idee, sentimenti e intenzioni.
• Gli animali domestici fanno uso di segni sia fra di loro che per comunicare con
gli uomini
• In strada i segnali di vario tipo guidano il nostro comportamento
In breve, in tutti questi casi abbiamo, consapevolmente o no, applicato un
atteggiamento liberalmente “semiotico”: abbiamo cioè attribuito sostanza e valore
di segno a esperienze le più diverse, lasciandone galleggiare il senso nella nostra
coscienza e nei comportamenti che ne dipendono.
Una ricerca in divenire
La semiotica aha una lunga storia che affonda le sue radici nell’antichità greca e in
particolare nel sapere medico. Ma la necessità di delineare i contorni di una vera e
propria disciplina arriva nella prima metà dell’Ottocento con il filosofo americano
Charles Sanders Peirce (1839-1914), e nel primo Novecento con il francese
Ferdinand de Saussure (1857-1913). Peirce vedeva nella semiotica una teoria
della coscienza umana, incentrata sulla capacità di interpretare l’esperienza e
ogni sua manifestazione empirica. Saussure, che preferiva parlare di “semiologia”,
pensava a una disciplina che identificasse un territorio comune a tutti i
fenomeni di comunicazione e dalla quale si potesse muovere per studiare ciò
che di specifico ciascuna modalità comunicativa reca con sé. Tuttavia solo agli inizi
degli anni Sessanta si è cominciata a rendere sistematica la ricerca semiotica. Ed è
in questi anni che abbiamo le prime “scuole” di orientamento semiotico: di Roland
Barthes, di Greimas o di Umberto Eco, sparse per tutta l’Europa. L’attrazione per la
semiotica aveva il bisogno di un territorio comune ove istanze nate da discipline
diverse potessero incontrarsi e, possibilmente, integrarsi. Più, dunque, come una
sorta di sguardo trasversale sulla comunicazione.
SEGNO E CODICE
Bisogna dunque fare ordine del perché situazioni come il rossore di un viso,
suscitato da imbarazzo, un segnale luminoso, il modo di vestirsi di un gruppo di
ragazzi possano avere qualcosa che le accumuna ma, ancora più in profondità,
qualcosa che le distingue nettamente. Per farlo dobbiamo partire dalla nozione di
segno che accompagna da sempre la discussione sui fenomeni presi in
considerazione.
Indici assumiamo la definizione data nel Medioevo e ancora presente i molti
manuali secondo la quale il segno sia “qualcosa che sta per qualcos’altro”: c’è
dunque una relazione di rinvio tra (A), un evento materialmente percepibile, e (B)
qualcos’altro percepibile dai sensi oppure solo afferrabile dalla mente. Chiamiamo
A -> espressione e B -> contenuto. Un segno è dunque per definizione un’entità a
due piani (biplanare) fatta di un’espressione e di un contenuto.
Una prima distinzione utile è quella fornita da un manuale dei Seicento la Logica di
Port-Royal che differenzia i segni naturali dai segni artificiali prodotti cioè
dall’intervento umano. Nel primo caso potremmo più appropriatamente parlare di
‘indici’. Dobbiamo subito chiarire però che fenomeni del genere non sono
significatici di per sé, “naturalmente”, ma solo quando qualcuno, capace di leggerli,
attribuisca loro un certo valore.
ES: se del fumo si sprigiona dall’arrosto che sta passando troppo tempo in forno,
non abbiamo a che fare con un evento di rilevanza semiotica finché qualcuno non se
ne accorge e modifica il proprio comportamento ad esempio dicendo “va a fuoco
qualcosa!”. Eventi come questo richiedono l’applicazione di competenze culturali
per assolvere la funzione comunicativa. Dunque non si tratta semplicemente di
accoppiare certi eventi (espressioni) a certi fatti (contenuti), non si dà un indice, e
dunque neanche un sintomo, senza un’attiva opera di interpretazione della sua
natura fisica in relazione alle circostanze date e all’esperienza culturale pregressa
del soggetto. Nella definizione di ‘indice’ dunque rientrano fenomeni come la
traccia lasciata da qualcuno sulla spiaggia, il ticchettio della pioggia sul vetro, un
rumore che annuncia la presenza di qualcosa come un corso d’acqua ecc.. ‘Indizio’ è
un termine più comprensivo che può essere applicato a ogni genere di
variazione dello stato fisico anche molto mediata culturalmente.
Corollario di quanto detto finora: quando analizziamo un evento in termini di indice
o di indizio, e dunque gli attribuiamo un significato, applichiamo una struttura
concettuale ‘inferenziale’ del tipo <<se…allora>>. Ogni volta che trattiamo qualcosa
come se fosse un segno, ha luogo una pratica interpretativa. L’idea di ‘rinvio’ da cui
siamo partiti va arricchita da tale punto di vista.
Segni propriamente detti siamo già dunque prevenuti a circoscrivere una
classe di eventi cui possiamo più giustificatamente attribuire la qualità di segno:
sono quelli prodotti da esseri viventi, umani o altre specie animali, con l’aggiunta di
tutti i sistemi inventati dall’uomo con la finalità specifica di assolvere una
funzione comunicativa. La nozione di ‘intenzionalità’ si utilizza per
caratterizzare i segni veri e propri realizzati cioè secondo le regole previste da un
‘codice’ in base a corrispondenze esplicabili tra espressioni e contenuti. Da tale
punto di vista le lingue, i dialetti, la scrittura, il calcolo, il linguaggio dei segni e
tutto ciò che ne deriva rientrano a pieno diritto nell’ambito di applicazione del
concetto di ‘segno’.
Intenzionalità? Possiamo dire, ad esempio, che l’intenzionalità con la quale l’uomo
dice qualcosa come Metti quel libro sul banco! Sia la stessa utilizzata dalle api per
raggiungere la fonte del nettare o la stessa di una scossa di terremoto che ci avverte
che sta per succedere qualcosa? Occorrerebbe concludere che tutti i soggetti
menzionati (uomo, api e sistemi di rilevazione) siano dotati di menti differenti fra di
loro solo per grado di complessità, non per natura. O, dunque, diamo a
‘intenzionalità’ un valore molto generico, oppure adottiamo una soluzione di
compromesso più prudente, e sosteniamo che sono da considerarsi sistemi di segni
solo quelli nei quali sono incorporate strategie di funzionamento semiotico.
L’intenzionalità, insomma, non sarebbe da riconoscere nei singoli eventi semiotici,
ma nelle modalità di costruzione della macchina interpretativa, artificiale o naturale
che sia.
Concetto di ‘natura’ -> le lingue sono sistemi naturali, in quanto dipendono da
una facoltà innata negli umani: quella di apprenderne una o più di una; e sono
insieme sistemi storico-culturali, in quanto vengono imparate con l’inserimento in
un qualche tessuto familiare, sociale e nazionale.
ES: le capacità delle formiche sono esclusivamente naturali in quanto (almeno per
ora) non risulta che siano modificabili tramite apprendimenti indotti dall’esterno
della specie; mentre le capacità semiotiche di una macchietta che eroga caffè e
cappuccini sono esclusivamente artificiali.
Problema del rinvio e dell’interpretazione: (esemplificato sul tipo di segni che sono
le parole di una lingua) ogni volta che ascoltiamo qualcuno parlare, il problema che
abbiamo è quello di mettere quel che capiamo dell’espressione con il contenuto che
il mittente ha voluto comunicarci. Ma la comprensione di un enunciato non avviene
in modo così lineare e meccanico: pensiamo, ad esempio, al vero e proprio lavoro di
districarci fra i modi di pronunciare diversi dai nostri, fra le tante peculiarità
derivanti dalle provenienze regionali e dialettali.
Che cos’è un codice? il concetto di segno è correlativo a quello di codice:
nel senso che un segno è un segno solo se corrisponde alle caratteristiche del codice
che lo genera.
ES: se poniamo davanti a un italiano che parla solo italiano la parola tedesca
schreiben (scrivere) egli non saprà dare una traduzione ma saprà dire con certezza
che non si tratta di una parola italiana; al contrario davanti alla parola ritoro che
non esiste nella lingua italiana, il soggetto non rimarrà stupito, ammetterà di non
conoscerne il significato ma accetterà inconsciamente che sia una parola italiana.
Questo perché da parlante nativo, sa, anche se non consapevolmente, che la
lingua italiana non ammette parole con agglomerati di consonanti come schr o che
finiscano per consonante, dunque alla lettura della parola ritoro non troverà nessun
fenomeno estraneo alla lingua. Il concetto di ‘codice’ trova applicazione in tutto i
sistemi di segni propriamente detti: il Braille si basa su due elementi strutturali:
puntini in rilievo e zone prive di puntini, combinati in modo che ciascuna casella
corrisponda a una lettera dell’alfabeto.
Possiamo dunque concludere che un codice è un insieme di istruzioni. Questo
sistema di istruzioni non si limita e fissare liste di corrispondenze fra elementi di
espressione e elementi di contenuto ma ci permette di fare almeno tutto ciò che
segue:
• Riconoscere un segno come segno di quel sistema semiotico;
• Produrre altri segni con le stesse caratteristiche morfologiche;
• Circoscrivere i segni estranei al proprio sistema;
• stabilire, nell’ambito dei segni previsti dal sistema, le corrispondenze fra elementi
espressivi e elementi di contenuto;
• Indicare le modalità di combinazione dei segni fra loro;
Vi è poi il problema di come un codice si adatta al contesto di comunicazione. Di
solito il sistema di istruzioni contiene regole specifiche anche su ciò.
‘codice’ e ‘sistema di segni’ sono utilizzati come sinonimi. Un codice verte su un
universo di contenuti specifico, non sempre traducibile in altri codici. I codici
artificiali, infatti, per quanto potenti sono sempre sottoinsiemi di una qualsiasi
lingua naturale, e le lingue sono sempre (almeno in teoria) largamente
intertraducibili; mentre da specie vivente a specie vivente si riscontrano barriere
naturali e non (del tutto) superabili.
I segni da Ippocrate a Saussure la riflessione sul segno attraversa tutta
la storia del pensiero occidentale e ha la sua culla nell’antica Grecia. Qui operano
delle vere e proprie officine semiotiche, calate nel seno stesso della società. La
nozione di ‘segno’ circola infatti in relazione ad “arti” quali la medicina o la
fisiognomica, il medico si occupa di attribuire un senso alle manifestazioni fisiche
(una malattia in base ai sintomi), l’esperto di fisiognomica interpreta le forme
corporee degli individui come manifestazioni della loro sostanza spirituale.
La durata di questa visione della realtà è stata millenaria basti pensare che di
fisiognomica se ne è parlato fino all’inizio di questo secolo, e che di divinazione
abbiamo ancora delle forme esistenti praticate da alcuni gruppi di popolazioni
(cartomanti, veggenti ecc). Il concetto di segni utilizzato dagli antichi non si risolve
in una trama meccanica di rinvii: il rinvio è istituito sulla base di una forma di
interpretazione, quel che abbiamo chiamato ‘inferenza’.
Ippocrate formula la sue diagnosi convinto che la natura abbia una struttura
costante, ma che il singolo individuo sia la risultanza di un’originale combinazione
di fattori, sicché l’analisi del sintomo va collocata in un quadro più ampio che tenga
conto di diversi fattori come quelli ambientali o dello stile di vita proprio
dell’individuo, per stabilire il rapporto più attendibile tra antecedenti e
conseguenze.
Galeno sviluppa e perfeziona il metodo del grande maestro formalizzando i
concetti di sintomo e sindrome, e previene così a collegare organicamente
diagnosi e prognosi.
Una considerazione va fatta sull’ampiezza che la nozione di segno assume in questa
fase storica. Se oggi possiamo essere insoddisfatti di una classificazione che riunisce
in un’unica classe sintomi e segni di altro tipo, va pur detto che veniva in questo
modo evitata una visione puramente linguistica del campo semiotico. Aristotele
nella Retorica fa ripetutamente riferimento a segni di natura diversa dalla parola.
In questo quadro ampio e mosso di ciò che può essere considerato segno si sviluppa
anche la distinzione fra attività semiotiche intenzionali e pratiche di
attribuzione di senso a fenomeni di per sé non comunicativi.
Agostino di Ippona ragiona sul potere comunicativo dei segni e sulle loro diverse
tipologie, ci aiuta a capire cosa sia un segno e come si distingua nell’ordine della
realtà. (testo sul libro)
Prima lezione -> segno è dunque ciò che viene utilizzato per significare. Non tutto è
segno, ma tutto in linea di principio può essere utilizzato come segno. Per Agostino,
le parole sono invece segni in senso stretto, nel senso che servono solo a significare.
Seconda lezione -> Agostino ci spiega che dunque un segno nasce dall’associazione
di un oggetto sensibile (suono, fumo) con un significato. In certi casi siamo noi ad
attribuire il significato ad un dato segno in base alla nostra esperienza. Dunque è
giusto dire che un segno è qualcosa che sta per qualcos’altro ma bisogna aggiungere
che questa definizione è tale a patto che si aggiunga che questo avviene “per
qualcuno in certe circostanze”, dunque attribuiamo un significato in relazione a un
sapere preesistente.
Mettendo al centro della propria ricerca il linguaggio verbale Agostino ammette
però che anche altre specie animali abbiano un linguaggio, sebbene di specie
differente. Inoltre, differenzia il linguaggio verbale da gli altri in quanto più potente
di essi. Questo concetto viene ripreso da logici del nostro secolo come Alfred Tarski
e Hjemslev.
Fra Agostino e Saussure c’è dunque una connessione, entrambi, con terminologie
figlie di epoche fra loro lontanissime, cercano di spiegare il meccanismo elementare
della comunicazione umana.
Secondo entrambi i pensatori il segno scambiato fra mittente e destinatario è
un’entità a due facce: una fisica ( apparato fonatorio o apparato uditivo ) e una
mentale. Agostino ritiene che la componente mentale della voce sia il solo
significato: il pensiero verrebbe, per così dire, “colato” dentro una forma fonica.
Saussure spiega che in realtà, prima di associarsi a un significato, la voce articolata
in parole viene analizzata dal cervello nella sua ‘immagine acustica’.
Sia dalla linguistica sia dalla logica viene un appello a riconoscere i dispositivi grazie
ai quali la parole funziona come mediazione sociale, come argine alle fluttuazioni
semantiche puramente individuali.
Tornando a Saussure possiamo concludere dunque che il segno linguistico si scinde
in effetti in due realtà: quella della comunicazione immediata, nella quale
osserviamo determinati segnali fisicamente riconoscibili; e quella psichica e
mentale, sottostante alle diverse realizzazioni individuali, nel quale il segno si
configura come un’entità bifacciale composta da un’immagine acustica
(significante) e un concetto (significato). È solo grazie alla mediazione del secondo
piano, quello mentale, che i segni si rendono comprensibili, il regno mentale e
quindi della lingue è il regno condiviso da i parlanti di una stessa comunità ( il
piano materiale, la parole è il regno individuale della comunicazione ). In ogni caso
la partita di un codice va letta come un processo. Alla fine di questo capitolo
possiamo notare l’utilizzo di due nuovi termini da parte di Saussure che sono
significante e significato in sostituzione di quelli più generici utilizzati fino ad
ora di espressione e contenuto.
2. L’OGGETTO DELLA SEMIOTICA
Una disciplina si definisce dal punto di vista scientifico quando ha chiaro qual è il
suo oggetto. Per ‘oggetto’ intendiamo una serie di fenomeni identificati da
carattere ritenuti comuni, e ritagliati in base a ciò in un ambito più vasto. La
semiotica è dunque la dottrina dei segni, tale definizione appare in un saggio di
John Locke che faceva della semiotica una delle tre branche della conoscenza
umana. Identificare l’oggetto della semiotica vuol dire stabilire che cosa si intende
esattamente per ‘segno’ ed elaborare un metodo di analisi adeguato a tale
obbiettivo.
Una semiotica globale? c’è però chi fa spaziare la nozione di segno su
un’area molto più estesa. In un libro molto importante risalente al 1938,
Lineamenti di una teoria dei segni, Charles Morris suggerisce che <<la semiotica
non si occupa dello studio di un particolare tipo di oggetti, ma di oggetti ordinari in
quanto partecipi della semiosi>>. Morris faceva riferimento alle teorie di Peirce e
costruiva così una semiotica vista prevalentemente dalla prospettiva dell’interprete.
Una strategia è proposta e sviluppata dal semiotico americano Thomas A.
Sebeok, biologo di formazione, in numerose pubblicazioni. Sebeok utilizza un
concetto allargato di ‘comunicazione’, del tutto svincolato dalla nozione di
‘intenzionalità’. Sono i messaggi che vengono trasmessi che ritardano gli <<effetti
disorganizzativi della seconda legge della termodinamica; vale a dire la
comunicazione tende a far diminuire localmente l’entropia>> ( Sebeok ).
Semiotica della cultura e significazione una prospettiva meno globale,
ma altrettanto valida, di quella di Sebeok è quella proposta da Umberto Eco.
L’idea centrale è che la cultura umana nel suo insieme sia studiabile come
fenomeno di comunicazione. Si tratta di asserire che la cultura possa essere studiata
come tale, ogni volta che si riveli l’esistenza di un processo fondante di
significazione. Eco spiega che ogni processo di comunicazione suppone un sistema
di significazione1 <<come propria condizione necessaria>>, mentre non è vero il
contrario. Da questa impostazione Eco deriva un’ampia ricognizione del ‘campo
semiotico’ aperto alla ricerca: un campo che prende in considerazione tutti i settori.
Eco propone una tipologia delle strategie che gli esseri umani mettono in opera per
produrre codici e così previene a soluzioni di grande interesse, soprattutto per quel
che riguarda la genesi delle forme artistiche.
Dunque, una semiotica imperialista? È lo stesso Eco a porre la domanda in alcune
sue opere. In effetti, più si allarga la nozione di semiotica più si perde di omogeneità
metodologica e più diventa difficile una fondazione tecnica della disciplina.
Affermare l’esistenza di regole, di costanti, in tutte le forme della vita culturale
rappresentava il culmine della scommessa delle scienze umane del dopoguerra.
Linguistica e semiotica il problema della delimitazione dell’oggetto della
disciplina aveva un aspetto tecnico che rimandava all’evoluzione stessa degli studi
di ispirazione semiotica e ne condizionava fortemente gli orizzonti. Questo
problema fa corpo con il ruolo svolto da Saussure, un linguista di mestiere,

1 nel caso della significazione l’emittente non è presente se non come proiezione del destinatario
nell’affermazione di una <<scienza generale>> che prenderà il nome di
semiologia. Nelle sue lezioni ginevrine ( 1906-11 ), Saussure spiega che la
linguistica, da lui professata, sarebbe stata solo una parte di questa nuova
disciplina, che avrebbe trattato anche di altri sistemi di segni. Le leggi scoperte dalla
semiologia sarebbero state applicabili alla linguistica e verosimilmente <<ad altri
sistemi di segni>>. Il linguista svizzero fa riferimento solo ad alcuni dei fenomeni
che Morris e più tardi Eco avrebbero compreso nel campo semiotico: Saussure cita
in primo luogo linguaggi storico-culturali; cita inoltre fenomeni culturali nei quali è
espressa e fortemente codificata un’intenzione comunicativa. Questo orientamento
saussuriano ha avuto una singolare fortuna. vi è stato innanzitutto un dato
obiettivo, consistente nella straordinaria estensione degli studi linguistici; vi è stata
in secondo luogo una biforcazione della concezione saussuriana dei rapporti fra
linguistica e semiologia: una più ortodossa e l’altra verosimilmente eterodossa che
ha avuto tra i suoi maggiori esponenti una figura brillante come Roland Barthes.
Nel suo celebre saggio del 1964, Elementi di semiologia, Barthes sostiene che non
ha senso mettere sullo stesso piano il linguaggio verbale ed altre forme di
comunicazione, a suo avviso <<non è affatto certo che nella vita sociale del nostro
tempo esistano, al di furori del linguaggio umano, sistemi di segni di una certa
ampiezza>>. Il messaggio barthesiano era certamente intrigante, ancorché
fortemente equivoco: per un verso esso riconosceva la priorità semiologica del
linguaggio verbale, la sua capacità di tradurre ogni possibile messaggio; per un altro
esso finiva col ridurre al linguaggio verbale tutti gli altri linguaggi, negandone in
definitiva la specificità. Da questo punto di vista Barthes si esponeva alla critica del
versante semiotico di ispirazione peirceana e rendeva poco digeribile anche la prima
parte della sua proposta teorica.
Una semiotica “ristretta”? difronte a così diverse opzioni teoriche, le
scelte possibili sono ovviamente tutte aperte. Sembra ancora ragionevole
sottoscrivere il discorso teorico saussuriano, da integrare con tutto ciò che oggi
meglio sappiamo relativamente al ruolo svolto dai segni non solo nella prassi
comunicativa. Quella linea è stata esemplarmente chiarita in un volume di Luis
Prieto risalente al 1966, e più volte ripreso e discusso in anni recenti. Prieto
condivide con Eco l’idea che la significazione sia alla base della comunicazione, ne
riformula però il concetto. Vi sarebbe dunque una semiotica della significazione,
che ritaglierebbe il suo oggetto nel mondo degli indici ‘convenzionali:
comportamenti sociali, moda ecc.. Prieto aggiunge che tale processo, per acquisire
rilevanza semiologica, deve assumere un’effettiva stabilità sociale, sino a
configurarsi come uno scatto rispetto a una norma sottesa. Quando ciò accade,
scattano dispositivi di connotazione, vale a dire qualcosa che produce significazione
allo stato puro.
Connotazione: derivante dal latino cum + notare, indica quelle pratiche
semiotiche che selezionano determinati segni in base al fatto che, in un contesto
dato, essi fungano, nel loro insieme, da significanti ad altri segni. ESEMPIO -> se in
un contesto dato, nello specifico un contesto galante utilizzo destriero al posto di
automobile questo può proiettare sul denotato, magari una vecchia Cinquecento
bianca, inediti valori cavallereschi e cortesi.
La semiotica della comunicazione presuppone dunque quella della significazione
ma limita il suo raggio agli indici convenzionali che siano segnali, ovvero a quegli
indici che <<forniscono un’indicazione circa il rapporto sociale>>. A questa
categoria fanno riferimento gli esempi di Saussure. Non vi è tuttavia una barriera
fra i due tipi di semiotica, perché il procedimento significazione della stilizzazione/
connotazione si ripresenta all’interno di alcuni tipi particolari di linguaggio come
quello artistico.
Tullio de Mauro ( 1982 ) ha offerto un’ipotesi rigorosa di classificazione dei codici
semiologici, intesi nel senso di Saussure, a partire dal principio della centralità
del significato. Si delinea così una scala di crescente complessità che vede al
vertice il linguaggio verbale, con la sua forse unica capacità di saldare la regolarità
del codice con l’indeterminatezza della sfera semantica.
Occorre tuttavia considerare quanto segue:
1) la semiotica o semiologia ha innanzitutto l’obbligo di conseguire risultati sul
territorio che istituzionalmente le compete, bisogna dire che in tale ambito il
più è stato fatto;
2) Alla teoria della semiotica va recuperata fino in fondo una prospettiva di
raccordo e di comparazione fra studio dei linguaggi naturali umani e linguaggi
degli altri animali.
Le premesse gettate in questo campo nei primi anni Settanta sono stata a lungo
“congelate” dall’infisso potente delle idee di Chomsky riconosciuto come “padre”
del cognitivismo.
3) Gli ultimi anni hanno riportato in auge lo spessore filosofico e filosofico-
linguistico degli studi semiotici, che, come accadeva fa Sei e Settecento, hanno
ripreso il commercio con le dottrine della conoscenza.
In questo quadro, probabilmente perde la sua centralità anche la distinzione fra
semiotica della significazione e semiotica della comunicazione. Intanto, perché lo
spettro dell’oggetto della semiotica torna ad ampliarsi incorporando problematiche
percettive, cognitive, antropologico-evolutive ecc. Poi, perché emerge con crescente
evidenza la necessità di non introdurre lo studio del linguaggio a quello della
comunicazione. La comunicazione si staglia come una delle possibilità, ovviamente
importantissima, ma non unica, di un dispositivo, il linguaggio naturale che è
dispositivo ‘cognitivo’ ed ‘espressivo’. Se la specie umana, come ha scritto Deacon, è
per antonomasia ‘specie simbolica’, questo è perché il linguaggio è stato ed è per
l’uomo anzitutto veicolo di sviluppo cognitivo, chiave della propria identità e della
propria sopravvivenza.

LA COMUNICAZIONE E I SUOI EQUIVOCI


I chiarimenti finora dati in ordine alle nozioni di ‘segno’ e ‘codice’ ci permettono di
cominciare a capire come funziona concretamente un processo comunicativo. Ciò
ha sia un interesse teorico generale sia un interesse applicativo.
Un modello elementare secondo un punto di vista molto diffuso, un processo
di comunicazione avviene quando si ha un passaggio di un messaggio da un
mittente a un destinatario. Perché tale processo avvenga è necessario che le
componenti che formano il messaggio siano costruite secondo certe regole e
combinate secondo altre regole: mittente e destinatario devono condividere tali
regole per far si che la comunicazione avvenga. I messaggi codificati viaggiano su un
‘canale’ fisico ( esempio apparato fonico-uditivo ) il quale funge da supporto
materiale; infine il ‘contesto’ in cui a comunicazione si realizza gioca un ruolo più
o meno importante a seconda del tipo di codice. Questo modello di
rappresentazione della comunicazione fu introdotto alla fine degli anni Quaranta da
Claude Shannon il quale intendeva illustrare la struttura astratta della
comunicazione. Si trattava dunque di un modello idealizzato, non riferito alla
normale comunicazione quotidiana.
Successivamente questa teoria venne ripresa in un saggio del 1958, pubblicato nel
1960, del famoso linguista Roman Jakobson il quale osservò che in ciascun atto
comunicativo non sono solo compresenti i sei elementi indicati ( mittente,
destinatario, messaggio, codice, canale e contesto ), ma anche le funzioni che questi
svolgono. Ogni volta, in base a dove cade l’accento tra uno di questi sei elementi, la
funzione che prendono può assumere un rilievo più importante rispetto alle altre.
Lo schema che segue Jakobson è il seguente:
1) Se l’accento cade sul mittente la funzione è espressiva
2) Se l’accento cade sul messaggio la funzione è poetica
3) Se l’accento cade sul destinatario la funzione è conativa
4) Se l’accento cade sul codice la funzione è metalinguistica
5) Se l’accento cade sul canale la funzione è fàtica
6) Se l’accento cade sul contesto la funzione è referenziale
Queste funzioni sono il punto di partenza di molti di linguistica o semiotica
tradizionali.
Il modello del messaggio è costituito intorno a una metafora che è stata definita
“del condotto” o a una visione di tipo “postale” della comunicazione. Esso
rappresenta rispetto a Shannon, un’arbitraria generalizzazione, e rispetto a
Jakobson un ingiustificato irrigidimento. Preso alla lettera il modello del messaggio
ci induce a ritenere che i segni siano una specie di contenitore fisico nel quale si
mette un certo contenuto e lo si ‘invia’ come si invierebbe una lettera. La
comunicazione dunque viene qui rappresentata come un processo SI/NO, senza
ulteriori alternative. Sembrerebbe inoltre che la sostanza di cui i segni sono fatti sia
del tutto indifferente al contenuto del pensiero che essi veicolano ( es: il tipo di
busta è indifferente al contenuto della lettera ).
Questa rappresentazione funziona solo in relazione a tipi di comunicazione lineari
che non consentono interpretazioni. Ma nei codici più potenti la dinamica
comunicativa è enormemente più complessa: ad esempio nella comunicazione vis à
vis tra esseri umani ogni parola e ogni gesto tiene conto delle possibili reazioni
dell’interlocutore. Non è affatto detto, inoltre, che mittente e destinatario
condividano a pieno titolo il codice perché la comunicazione avvenga, infatti non è
possibile avere una comunicazione durante la quale mittente e destinatario
comprendano a pieno i codici ‘inviati’ da uno o dall’altro. Questo è dovuto alla
differenza di istruzione, di età, alla posizione geografica e così via. È normale
dunque lo squilibrio fra destinatario e mittente che non si capiscono mai in maniera
assoluta ma sempre in relazione a determinate circostanze.
Un grave difetto del modello da cui siamo partiti ( messaggio lineare ) è che non
riesce a dar conto del processo dell’interpretazione, vietato nei codici elementari,
ma assolutamente normale in codici comunicativi più complessi e in particolare nel
mondo del linguaggio verbale. È dunque impossibile che “ci si capisca del tutto” o
che “non ci si capisca per nulla”, detto brutalmente ci si capisce un po’: in relazione
a situazioni, interessi, attese, circostanze e così via.
Precisazioni sul mittente e sul destinatario abbiamo detto finora che il
rapporto fra i segni e i loro utenti è un rapporto di tipo interpretativo. Ma che
cosa significa esattamente? Abbiamo ‘interpretazione’ tutte le volte che il
comportamento di risposta a uno stimolo non è meccanicamente determinato, non
si riduce cioè a due possibili opzioni imposte dall’esterno, ma implica una qualche
scelta.
ESEMPIO -> se parcheggio l’auto in un parcheggio devo riuscire a trovare l’uscita
pedonale seguendo le indicazioni stradali che mi vengono fornite; questa procedura
non è meccanica perchè per compiere questa azione devo recuperare dal mio
bagaglio stratificato di cittadino del mondo un insieme di informazioni che mi
fanno presumere di stare facendo il percorso giusto.
Al contrario un esempio fatto con una macchina è quello che prende in
considerazione un ascensore ossia una macchina programmata per andare su e giù
e dotata di una fotocellula che lo rende sensibile alla presenza e al passaggio delle
persone. Una volta che la porta è aperta non si chiuderà finché i corpi sono dentro il
suo raggio ‘percettivo’, nel momento in cui però le porte si chiudono se un qualche
oggetto, come una busta della spesa, resta nel raggio di percezione delle fotocellule
allora le porte si riapriranno “convinte” che qualcuno debba scendere. Ma
l’ascensore non è in grado di pensare e di capire dal contesto perché il suo corpo
semantico è diviso in due azioni: passaggio corpi -> apri porta; corpi dentro ->
chiudi porta.
È merito dell’illustre Peirce aver insistito sul carattere permanentemente
interpretativo della semiosi umana: supponendo che il processo sia messo in moto
da un’esperienza empirico-percettoria, da un qualcosa nella realtà, la mente
dell’interprete reagisce producendo una lettura di tale esperienza attraverso un
gesto, consistente in una sua prima elaborazione conoscitiva e in una forma
sensibile che la rappresenta; ma tale lettura si riconcretizza immediatamente in una
riformulazione dell’esperienza attraverso un gesto, un comportamento, una parola
ecc… insomma attraverso un interpretante che, pur contenendo in sé qualcosa
dell’evento iniziale, se ne discosta inevitabilmente perché esso è espressione di una
soggettività. Nei termini di Peirce dunque un segno <<qualcosa che da un lato è
determinato da un Oggetto e dall’altro determina un’idea nella mente di una
persona […]. Un segno, quindi, ha una relazione triadica con il suo Oggetto e con il
suo Interpretante>>.
L’oggetto nella sua datità sensoriale agisce sulla nostra mente che se lo rappresenta
in termini di oggetto immediato, questo forma il contenuto del segno cui
corrisponde un supporto materiale. L’interpretante è il momento in cui dal
correlato esterno si passa all’elaborazione mentale autonoma del soggetto. La
traduzione da una lingua all’altra o la parafrasi di un testo letterario sono gli esempi
di cui parliamo. Secondo Peirce, dunque, la semiosi non può che essere ‘illimitata’,
consistendo nell’eterna ‘fuga degli interpretanti’.

Si pensi alla situazione di ascolto di una conferenza o di una trasmissione televisiva


su determinati fatti storici. Le parole del conferenziere sono serie di interpretanti
riferite a quei fatti. Chi ascolta in nessun caso produrrà nella sua mente o sul
quaderno di appunti interpretanti equivalenti a quelli del conferenziere. Se da
queste considerazioni torniamo allo schema di Jakobson, siamo autorizzati a
concludere che la supposta simmetria tra mittente e destinatario non ha alcuna
ragione di esistere. Peirce ci sollecita a valutare le ragioni epistemologiche delle
asimmetrie fra i due protagonisti dell’atto semiotico; ma ad esse se ne possono
facilmente aggiungere altre di ordine psicologico, socioculturale o linguistico. Ciò
che ci dice la nozione di codice studiata fin ora è dunque che il codice è un apparato
formale, una specie di filtro a due porte capace di codificare un messaggio in entrata
e di restituirlo smontato com’era all’inizio in uscita. Questa nozione è però ancora
troppo semplificato per funzionare davvero.
Codici, strutture e contesti chiediamoci dunque come funziona un codice.
Esso opera come una sorta di modello che soggiace ai vari atti comunicativi e ne
consente la gestione. Se, entrando in un albergo, mi viene data la chiave numero
805 saprò che la cifra a sinistra indica il piano e quella a destra il numero
progressivo delle stanze: dunque mi dirigerò all’ottavo piano stanza numero 5. Una
sorta di percorso analogico guida dunque le mie inferenze all’interno del codice.
Così intesa, la nozione di codice coincide per una buona parte, in riferimento ai
segni linguistici, con ciò che siamo soliti chiamare ‘grammatica’. Essa ha cioè a che
fare in modo privilegiato con le strategie di formazione e riconoscimento dei segni e
con i rapporti che intrattengono l’uno con l’altro. Si deve a Saussure il merito di
averne tratto conseguenze di carattere generale.
Nel Corso di linguistica generale (1916), si legge che, per ogni utente di un codice,
non si dà mai il caso che un senso sia comprensibile e utilizzabile come una sorta di
‘tessera’ autonoma, staccata da tutte le altre. Esattamente al contrario, capisco e
riesco ad utilizzare appropriatamente un segno se ne conosco la relazione con gli
altri segni resi disponibili dal codice. Il significato di un segno non viene appreso in
“positivo” ma in “negativo”, misurandone i rapporti e le differenze con quelli che
immediatamente lo circondano nella serie più vicina.
I segni di un codice, dunque, lungi dal poter funzionare isolatamente, “fanno
sistema” con tutti gli altri segni di quel codice. Il valore di ciascun segno è
oppositivo e differenziale. Non si definisce primariamente in base al rapporto che
esso intrattiene con gli oggetti del mondo, ma alle relazioni interne che contrae con
gli altri segni. È il codice nel suo insieme a “parlare del mondo”, a ‘riferirsi’ a esso,
non i segni individualmente considerati. Per esempio una spia accesa nella
macchina segnala l’avaria del motore solo perché si oppone allo stato di “spia
spenta” che segnala il normale funzionamento.
In linea di massima, tuttavia, la nozione di codice-sistema fa capire come la sintassi
dei segni cooperi in modo decisivo alla definizione del significato. Ogni codice
determina dunque una sorta di universo semantico all’interno del quale bisogna
entrare per riuscire davvero a “parlare delle cose” cui esso si riferisce.
Un grande filosofo e linguista dell’Ottocento, Wilhelm von Humboldt (1765-1835),
ragionando su questi temi, ha sostenuto che ogni lingua forma un cerchio intorno a
chi la parla: è cioè un vero e proprio filtro che condizione l’accesso alla realtà. Nel
secolo che qui si è appena concluso si è arrivati a sostenere che un codice è una vera
e propria ‘struttura’ il cui funzionamento dipende solo dalle relazioni interne dei
segni. Una lingua, un testo, un’opera d’arte, potrebbero allora essere considerati, al
limite, dei microcosmi autogenerati il cui dispositivo e i cui significati sono
irriducibili a quel che è “fuori”. È chiaro che vi è qualcosa di eccessivo in questo
modo di intendere i sistemi dei segni.
È altamente improbabile che uno qualsiasi dei sistemi che una specie adotta sia del
tutto impermeabile agli altri, intraducibile in un’altra lingua. Tuttavia nel suo
cristallino rigore, il concetto di ‘struttura’ contiene qualcosa di vero e come tale ha
esercitato un notevole fascino su linguisti, filosofi ecc.
Tornando adesso al modello elementare della comunicazione, possiamo meglio
capire senso e limiti del dire che un messaggio viene ‘codificato’ dall’utente e
‘decodificato’ dal ricevente/destinatario. Per il primo aspetto, “mettere in codice” un
messaggio fa pensare che vi sia un contenuto indifferente al codice nel quale lo si
versa, ma abbiamo appena visto che non è così; per il secondo aspetto, ogni codice
deve fare i conti con problemi di inadeguatezza al contesto.
Tranne che non si tratti di un calcolo, nel qual caso l’adattamento al contesto non è
rilevante, il codice deve fare i conti con le esigenze e i limiti cognitivi e
comportamentali dell’utente. Il codice dunque non esorcizza la materialità dei suoi
fruitori, deve venire a compromessi con essa. Il ricevente/destinatario “sa” che il
valore di un gesto o di una parola sta a mezza via fra quello che il mittente ha inteso
dire e quello che lui ne capirà.
Le articolazioni della semiotica fuori di situazioni comunicative così
meccaniche, il modello della comunicazione va arricchito e riformulato con tre
grandi concetti:
Il primo riguarda il ruolo dell’utente, cui occorre restituire una parte attiva:
negli scambi fra umani mittente e destinatario non si limitano praticamente mai ad
usare segni inerti, ma li investono a ogni passo di senso. La catena formata dagli
utenti è dunque un potentissimo generatore di senso capace di tirare i segni a
significare cose molto diverse.
Il secondo correttivo riguarda il contesto: relazioni di ruolo (familiari,
gerarchiche), fattori situazionali (una festa, seduti al ristorante), fattori ambientali
(piove, c’è il sole), possibili asimmetrie culturali, non sono meri fattori di disturbo
della comunicazione, ma variabili fisiologiche di essa. Il contesto forma il
riferimento oggettivo di un codice e coincide per buona parte col mondo di cose di
cui esso deve poter parlare.
Il terzo correttivo riguarda il concetto di codice: nel caso di sistemi di segni
complessi il codice ha una sua autonomia, una sua grammatica. Il codice offre
resistenza al nostro usarlo, ma al tempo stesso è fatto per essere usato.
Charles Morris nel suo libro Lineamenti di una teoria dei segni propose di
concepire la semiotica come una disciplina articolata in tre prospettive di studio
dello stesso oggetto, il segno.
Morris: <<il segno è costituito da tre (o quattro) fattori: ciò che agisce come segno,
ciò cui il segno si riferisce, e l’effetto su di un interprete […]. Queste tre componenti
della semiosi possono venir chiamate, rispettivamente, veicolo segnico,
designatum, interpretante; e l’interprete può essere aggiunto come quarto
fattore>>.
Nella terminologia attuale:
• Veicolo segnico: significante
• Designatum: significato
• Interprete: utente
• Interpretante: è qualsiasi possibile formulazione di un segno da parte
dell’interprete
A ciascuno di questi risvolti di studio corrisponde una possibile prospettiva di
studio.
Dunque, il segno non vive di sola sintassi, né del solo rapporto con il significato e
coi suoi utenti: la semiosi, dice Morris, ha carattere unitario: relazione dei segni fra
loro, significato e torsioni imposte dalle esigenze comunicative degli utenti possono
dunque essere visti come tre sistemi di forze la cui risultante è la funzione
concretamente svolta da un segno in un situazione reale.
È opportuno aggiungere che il concetto di ‘semantica’ utilizzato da Morris non
distingue a sufficienza fra la dimensione referenziale e quella squisitamente
intersegnica del significato, che fa dipendere il significato di ciascun segno dalla rete
di rapporti entro cui si situa.
Per concludere possiamo fare un esempio: in molte culture, anche in quella italiana,
è diffuso il gesto definito “mano a borsa” (il palmo verso l’alto e le dita che si
riuniscono all’estremità, formando una specie di contenitore). Un leggero
scuotimento della mano così disposta, avanti e indietro, significa più o meno
“incertezza/domanda”. osserviamo:
• Come questo segno si opponga sintatticamente a quello che si effettua con la
stessa configurazione della mano, alzata fino al capo del mittente, che viene
ripetutamente colpito dalle dita con significato di “sei impazzito?”
• Come lo stesso segno possa mutare ‘senso’ in relazione, ad esempio, a diverse
relazioni di ruolo degli utenti.
Come si nota è solo l’intreccio concreto del segno da una parte con la grammatica
del codice, dall’altra col contesto comunicativo e con la figura e il ruolo svolto dagli
utenti, che permette di attribuire un significato preciso al segno medesimo.

BASI NATURALI DELLA SEMIOSI


Abbiamo definito la semiosi umana come la sintesi di ‘natura’ e ‘cultura’. Se il
secondo di questi termini, cultura, è stato fin dall’inizio al centro dell’attenzione di
chi ha pensato filosoficamente il linguaggio umano, il peso e il ruolo della
componente naturale sono stati riconosciuti con maggiore difficoltà. Oggi, grazie al
convergere di risultati scientifici maturati nell’ambito di discipline diverse, si
concorda ampiamente sul fatto che la semiosi dipende da una gamma di
presupposti naturali, inerenti al funzionamento del nostro corpo, che si sono
gradatamente evoluti.
Contro Decartes e i pensatori da lui ispirati (che considerano gli animali pure
macchine) si è fatta strada una concezione secondo la quale la semiosi si sarebbe
rivelata un eccezionale dispositivo vincente ai fini della selezione naturale. La specie
divenuta capace di usare i simboli si sarebbe dunque imposta, grazie al vantaggio
selettivo garantito da tale capacità, non solo sugli animali ma anche sulle specie
ominidi concorrenti.
Evoluzione della semiosi che cosa significa sostenere, in sostanza, che la
semiosi è una sintesi di natura e cultura? In sostanza, che gli esseri umani ereditano
geneticamente la capacità di utilizzare qualcosa di percepibile come ‘significante’ e
qualcosa di immateriale come ‘significato’, e imparano tramite l’educazione e
l’inserimento sociale a “riempire” tale capacità con concreti sistemi di segni. È
all’Homo sapiens sapiens che si attribuisce il possesso di lingue analoghe a quelle
che utilizziamo oggi. Questa potenzialità associativa che si realizza in abilità di tipo
percettivo e sensomotorio può essere chiamata “facoltà di linguaggio” (Saussure) o
“facoltà simbolica” (Cassirer). Ciò che finora abbiamo chiamato codici sono invece
la parte culturale del processo. Per esempio un bambino normodotato alla
nascita ha le stesse capacità semiotiche degli altri bambini, con il crescere imparerà
la lingua parlata dentro casa, dunque la lingua, per esempio, non dipende dal luogo
di nascita ma dalla cultura che ci circonda. Insieme alla capacità linguistica il
bambino svilupperà tutta una serie di componenti indispensabili per la
comunicazione, come i gesti associati a delle espressioni specifiche, maturerà regola
di applicazione e comportamento linguistico, svilupperà senza sforzo un sistema di
comportamenti non verbali come le espressioni del volto. La natura dunque mette a
disposizione alla nostra specie un vero e proprio ‘sistema operativo’ capace di
supportare programmi semiotici diversi. Tuttavia la potenzialità di sviluppare codici
semiotici nell’essere umano è “a tempo”: se l’insegnamento spontaneo di un codice
non inizia immediatamente la capacità di apprendimento si spegne. La facoltà di
linguaggio è dunque qualcosa che abbiamo nel nostro patrimonio genetico, per la
quale siamo geneticamente programmati, ma non è sempre stata lì. È divenuta
parte del nostro patrimonio genetico a seguito di un lungo processo evolutivo che ha
portato progressivamente tutte le parti del cervello ad attrezzare le strutture
necessarie e ad adattare in modo corrispondente le altre parti del corpo con quelle
interessate del cervello. Sembra sempre più probabile che l’acquisizione della
postura eretta abbia proceduto di pari passo con la prima elaborazione del cervello
della facoltà di linguaggio. La stessa ‘lateralizzazione’ cioè il processo che conduce il
cervello a sviluppare una delle due parti per compiere le azioni in maniera migliore
(destri o mancini) sembra essere stata guidata da questo intreccio di esigenze
semiotiche. Il risultato evolutivo di questo processo è che oggi l’emisfero sinistro
presiede, all’incirca nel 90% dei casi, si a alle funzioni linguistiche sia a quelle
comunicativo-gestuali.
La specie più vicina alla nostra è quella dell’Homo Neanderthalensis e l’Homo
sapiens che convissero fino al definitivo prevalere dell’uomo moderno. L’uomo
moderno, dal quale discendiamo direttamente, possedeva dunque il linguaggio
verbale. La datazione dell’acquisizione di tale capacità è circa tra i 150.000 e i
50.000 anni fa. Si trattava sicuramente si un linguaggio più ‘multimediale’ del
nostro, ma era tuttavia già un linguaggio fortemente simbolico, in grado di
utilizzare i segni come forme astratte e come dispositivo di una sua potenziale
elaborazione cognitiva. Quando circa 25.000 anni fa, fanno la loro comparsa le
elaborazioni “pittoriche” delle caverne di Altamira e Lascaux, si è iniziato a pensare
al sorgere di una prima conoscenza artistica dell’umanità.
Basi anatomiche: l’apparato di fonazione nell’acquisizione del linguaggio
verbale ebbe un ruolo fondamentale la formazione dell’apparato di fonazione.
Questo oggi consente all’essere umano di produrre gesti espressivi di grandissima
raffinatezza. Gli scimpanzé, ad esempio, non possono fare nulla di tutto ciò,
nonostante ci siano stati numerosi studi ed esperimenti sui primati più vicini
anatomicamente all’uomo, si è visto che però questa specie non è in grado di fare
ciò che fa l’essere umano, nonostante l’apparato fonatorio di un neonato sia più
simile a quello di uno scimpanzé che di un uomo adulta; ma l’appartato fonatorio
del bambino si sviluppa nel tempo e ci vogliono all’incirca sei-sette anni per
completare lo sviluppo.
In sostanza, l’apparato fonatorio che abbiamo ereditato dai nostri più antichi
progenitori si è lentamente adattato a funzionare, anche, come apparato fonatorio.
La formazione di questo nuovo apparato ha comportato il riadattamento di vecchie
strutture fisiche per le nuove esigenze verbali e dunque una sorta di
ristrutturazione anatomica. Negli antichissimi ominidi la laringe (parte
terminale della trachea che include le corde vocali) si trovava, rispetto a noi, più in
alto nel canale respiratorio, essa poteva alzarsi fino a formare un tutt’uno con la
cavità nasale e lasciare spazio per il cibo. Nei neonati questa cosa ancora succede,
ecco perchè possono succhiare il latte e respirare contemporaneamente. Ma proprio
questa posizione della laringe, anche se perfettamente funzionante, non permetteva
l’emergere della parola.
Nell’uomo moderno la laringe si è sensibilmente abbassata, e corrispondentemente
alla lingua è arretrata di un tratto rispetto alla cavità orale. Questo fa si che quando
il cibo passa attraverso la faringe ed entra nell’esofago la laringe deve chiudersi
ermeticamente, ed evitare che esso entri nella trachea e ci soffochi. Questo
meccanismo avviene in maniera naturale. Il rischio di soffocamento che comporta il
cambiamento di posto della laringe è compensato però da altri numerosi vantaggi:
grazie al suo abbassamento la laringe ha reso più lungo e flessibile il canale
articolatorio che conduce alla cavità orale e attraverso la quale passa l’aria
modificata via via dai movimenti del velo palatino, della lingua e delle labbra. Ad
ogni movimento il canale si allunga o si accorcia e modella diversamente il suo
assetto, dando forma all’aria pompata dai polmoni che fa vibrare le corde vocali.
Nel quadro di un processo di comprensione che va di solito ben al di là della
decodifica del segnale fonico, il nostro cervello ha la capacità di elaborare i segnali
uditivi trasmessigli dall’orecchio e contemporaneamente di selezionare i valori
semantici corrispondenti. Il processo avviene ad una velocità altissima. È stato
infatti dimostrato che proprio a causa dell’alta velocità dell’elaborazione dei dati
non si dà mai il caso che il singolo fonema si articolato separatamente da quelli che
immediatamente lo precedono o lo seguono.
La complessità del meccanismo è evidente: essa spiega perché il distacco dell’essere
umano dalla scimmia non si risolve nella differenza anatomica; occorre un cervello
capace di coordinare le manovre articolatorie di cui si è parlato fin ora, elaborare in
parallelo significati corrispondenti.
Al lavoro compiuto degli apparati di percezione si aggiungono tutte le variabili
esterne al segnale che caratterizzano ogni processo di comprensione fra
normodotati. Il valore finale da attribuire al segnale è dunque la risultante della
complicatissima “sponda” svolta dal ricevente fra tutte queste variabili: un processo
che sollecita altamente le risorse neurali, obbligandole a lavorare e a stabilire
connessioni. Ed è proprio tale circostanza che ci fa capire che ci fa capire il ruolo
giocato dalla fonazione nella lentissima evoluzione che trasformò gli ominidi in una
vera e propria ‘specie simbolica’.
Cervello e linguaggio il nocciolo della capacità semiotica si trova dunque
nell’organizzazione cerebrale che governa in entrata e in uscita le informazioni
provenienti da/dirette agli apparati vari (uditivo-fonatorio ecc). Più esattamente la
semiosi umana dipende dallo sviluppo della parte più recente del cervello, la
corteccia, uno stato di cellule nervose pieghettato in modo enormemente
complesso, dallo spessore di circa 3 mm, che presiede a tutte le funzioni cognitive
superiori.
Il cervello è suddiviso in due emisferi e la corteccia di ciascun emisfero è divisa in
aree, lobi: frontale, parietale, occipitale e temporale, ciascuna maggiormente
implicata in questa o in quella funzione. L’unità di base della corteccia è il
neurone, la cellula nervosa, la cui parte centrale è costituita da un asse allungato
(assone), avvolto da una specie di guaina mielinica che conduce l’informazione. Alle
due estremità dell’assone si situano in entrata e in uscita due sistemi di contatti con
gli altri neuroni: in entrata abbiamo i dendriti in uscita i bottoni sinaptici, che
instaurano ‘sinapsi’ cioè collegamenti con altri neuroni in numero altissimo; si può
arrivare infatti fino alla stratosferica cifra di 10 (alla quindicesima) sinapsi. Questo
dato offre un’idea della capacità di elaborazione di informazione propria del nostro
cervello. Una parte di queste sinapsi è determinata dalla nascita, mentre un’altra
parte si determina con la crescita attraverso l’esperienza compiuta dalla persona. Il
procedimento è di tipo derwiniano avviene cioè per selezione dei gruppi di sinapsi
che meglio reggono alla domanda posta dall’adattamento.
Capire in che modo il linguaggio dipenda dal funzionamento del cervello è uno dei
temi centrali della ricerca contemporanea. Una tesi classica è quella cosiddetta
“localizzazionista”, che cioè cerca di individuare aree specifiche deputate
all’elaborazione dell’informazione linguistica. Questa strada è stata percorsa a metà
dell’Ottocento a partire dal francese Pierre-Paul Broca (1834-1880), che nel
1861 ritenne di aver localizzato l’area addetta alla produzione del linguaggio tramite
lesioni ritrovate nei cervelli di persone che in vita erano affette da afasia motoria.
Anche il tedesco Karl Wernicke (1848-1905) nel 1874, con metodi analoghi,
applicati a casi di afasia sensoria, ritenne di aver identificato l’area preposta alla
comprensione. Sulla scia di queste idee l’emisfero sinistro è stato complessivamente
ritenuto responsabile della capacità linguistica.
Naturalmente, l’evoluzione degli studi negli anni ha via via arricchito e stravolto lo
scenario localizzazionista. Una prima strada è stata quella di indagare il cosiddetto
processo di encefalizzazione ovvero la discontinuità che lo sviluppo del cervello
umano fa registrare nei confronti delle altre specie animali. Una seconda strada,
sempre di tipo comparativo, ha portato a studiare la deviazione quantitativa che le
singole aree del cervello umano fanno registrare rispetto alle misure ipotizzabili per
una scimmia che avesse un cervello di pari volume. È così risultato che la maggiore
asimmetria si colloca nella cosiddetta corteccia prefrontale, ossia un’area che
non sembra essere direttamente responsabile di specifiche abilità sensorie o
motorie. Ricerche di questo genere fanno ritenere che la tesi di localizzazione vada a
vantaggio della tesi di plasticità: è cioè probabile che molte funzioni cognitive, fra
cui il linguaggio, si avvalgano della collaborazione di varie e distinte parti della
corteccia. Anche la versione più recente della teoria localizzazionista, quella
modulare, dello psicologo americano Jerry Fodor sembra scossa dai risultati
della ricerca empirica. È possibile infatti, ci dice, che vi siano parti della competenza
linguistica dipendenti da ‘moduli’ innati operanti in automatico senza accesso
informazioni processate a livello superiore. Non esisterebbe, dunque, un ‘organo di
linguaggio’, ma piuttosto il linguaggio proietterebbe le sue funzioni su strutture
corticali preesistenti, maturate in fasi diverse dell’evoluzione. Il punto debole delle
tesi fodoriane è che innalzarono steccato fra il linguaggio e il mondo circostante.
Un’altra autorevole corrente di pensiero cerca invece di capire come concretamente
il rapporto tra natura e cultura si applichi al linguaggio e come quest’ultimo abbia
svolto e svolga tuttora un ruolo fondamentale nel modellamento della vita
cerebrale. L’idea centrale è che il linguaggio consenta al cervello di “scaricare” al suo
esterno una quota di informazione interponendosi come alcunché di oggettivo fra
l’individuo e gli oggetti del mondo. In altri termini: le parole, una volta giunte ad
espressione, rendono definito e osservabile il contenuto di coscienza che in esse si è
materializzato. I simbolo da una parte rende obbiettivo il pensiero e dall’altra lo
rende comunicabile verificandolo. I simboli in tal modo retroagiscono
sull’organizzazione neurone di cui sono il frutto, producendo una sorta di ‘sponda’
che media il percorso computazionale; quest’ultimo avviene dunque il relazione con
l’ambiente circostante e non isolato da esso. Il processo che chiamiamo pensiero di
vale largamente di simboli per andare a effetto. I simboli danno stabilità al pensiero
gli consentono dunque di arrampicarsi sui simboli stessi e di compiere ulteriori
passi. Un grande psicologo della Russia sovietica, Lev S. Vygotskij osservò che il
linguaggio cosiddetto “egocentrico” dei bambini intorno ai tre/quattro anni li
accompagna nel comportamento e li guida e media socialmente.
Questa teoria riassunta era stata formulata nel suo nucleo già da alcuni illustri
pensatori dell’epoca illuminista come Cadillac e lo stesso Leopardi.
Il filosofo Daniel Dennett propone di considerare gli umani non solo come
creature che assorbono mediante i sensi informazioni dall’ambiente circostante e le
rielaborano per vivere; ma anche e soprattutto come creature che scaricano negli
strumenti, come le parole, l’esperienza maturata durante il percorso di vita.
Merlin Donald generalizza questa impostazione al problema della memoria.
Applica alla memoria umana una metafora informatica dicendo che il cervello
umano h aut database di memoria limitato e dunque strumenti come la scrittura e
la lettura ci obbligano a dotarci di un sistema esterno di immagazzinamento
dell’informazione. La scrittura rende collettivo il sapere e ne abilita una continua
socializzazione questo fa sì che l’individuo sia disponibile ad un patrimonio di
conoscenza che diversamente sarebbe impensabile avere. Quello che Donald dice
della scrittura vale anzitutto per il linguaggio parlato, è con le parole che prendiamo
posto all’interno di una comunità e di una certa visione del mondo.
Formativi del linguaggio il linguaggio è dunque un che di naturale che
l’essere umano matura e sviluppo nel corso del tempo. Il processo di adattamento
culturale è il nocciolo del funzionamento del linguaggio ed è il terreno sul quale
natura e apprendimento si congiungono.
Il concetto di ‘formatività’ si riferisce al fatto che il linguaggio sia il dispositivo che
innesca il pensiero, questo concetto è stato variamente sostenuto nel corso del
tempo. Secondo Leibniz il segno abilita la formazione del ragionamento, perchè
consente alle persone di svolgere processi di pensiero in modo ‘cieco’ o ‘simbolico’.
Un secondo nome è quello di Wilhelm von Humboldt che, nella sua opera Sulla
diversità delle lingue (1836), formula per primo con chiarezza il principio di
formatività, e ne fa discendere quello della specificità storico-culturale delle
lingue. Homboldt ci parla di articolazione del suono e articolazione del pensiero che
sono, secondo lui, due facce di uno stesso processo intrinsecamente ‘creativo’. In
questo processo è decisivo il ‘ritorno’ uditivo del linguaggio: a partire dal momento
in cui la parola da noi pronunciata ci ritorna tramite l’orecchio, facendo di noi, che
l’abbiamo pronunciata, i suoi primi ascoltatori; fino a quella continua verifica sul
campo determinata dall’interazione con l’interlocutore, il linguaggio si colloca a
mezza via fra noi e il mondo.
dunque, il principio di formatività distrugge non solo l’idea del carattere
prelinguistico dei significati, ma anche quello della loro universalità.
Il terzo nome da fare è quello di Ferdinand de Saussure che sviluppa il concetto
di formatività in quello di ‘arbitrarietà radicale’. Questa nozione ha a che fare
con il modo in cui le lingue segmentano, su due piani del loro funzionamento
semiotico, il materiale fonico e il materiale concettuale. Su entrambi i piani vengono
così proiettati dei limiti che determinano arbitrariamente l’identità e lo spazio
reciproco dei suoni linguistici e dei significati. Saussure suggerisce che il nocciolo di
una lingua verbale stia nella ‘forma’ (nel sistema di distinzioni) che essa impone a
una data sostanza o materia. Si tratta quindi di un formare arbitrario, dipendente
da ragioni storico-culturali, che si esercita autonomamente su tutti e due i piani del
segno. Così intesa, l’arbitrarietà saussuriana si offre come un dispositivo
concettuale e potente per spiegare la diversità delle lingue.
Arbitrarietà radicale, corporeità, categorizzazione
Il dibattito intorno alla teoria dell’arbitrarietà radicale si è molto discusso. I due
punti di vista che formano il dibattito riguardante l’argomento sono: da un lato
questa teoria è stata utilizzata dai fautori del cosiddetto ‘relativismo linguistico’.
Secondo il loro punto di vista il linguaggio opererebbe come pure forza creatrice
senza subire nessun condizionamento dall’ambiente esterno. Dall’altra parte si
contrappone una lettura ‘antiarbitrarista’ che mette a fuoco sul ruolo giocato da
condizionamenti e processi prelinguistici nel modo in cui vengono elaborate le
categorie del linguaggio.
In uno studio divenuto celebre è stato dimostrato che il modo di categorizzare i
colori non sono arbitrari, perché tutte le distinzioni nelle diverse lingue vengono da
distinzioni primarie e universali. Le distinzioni primarie sono i ‘colori focali’.
Una posizione equilibrata deve sviluppare fino in fondo l’idea che i linguaggi umani
sono entità storico-naturali.
Sembra sensato proporre che l’attività formatrice, arbitrariamente schematizzante
del linguaggio, si situi entro una serie di vincoli i quali dettano i limiti dello spazio
in cui quell’attività può liberamente esprimersi.
Facciamo degli esempi: due studiosi americani, George Lakoff e Mark Johnson
hanno fatto notare che in inglese e in molte altre lingue esistono metafore radicate
profondamente nei nostri schemi di percezione della realtà. Ad esempio, nella frase
Il sorriso le illuminò il volto, vengono accostati il sorriso umano e la luce, ovvero
due realtà che non hanno, di per sé, nulla a che fare l’una con l’altra, ma la cui
predicazione reciproca produce un ‘senso’ preciso di grande efficacia.
Nei nostri schemi percettivi, radicatisi in noi da milioni di anni, si troverebbe
dunque un ‘concetto metaforico’ capace di proiettarsi sul linguaggio e di proporsi
come generatore di tante, potenzialmente infinite, metafore come quella appena
vista. Il linguaggio è fitto di procedimenti di questo genere. Le metafore
linguistiche, così varie e creative, non sono dunque solo un ornamento della parola,
ma un vero e proprio dispositivo per la conoscenza.
A proposito di significati un terzo esempio ha a che fare con
l’applicazione alle categorie linguistiche della nozione di ‘prototipo’, introdotta
negli anni Sessanta dalla psicologa statunitense Eleonor Rosch, per spiegare in che
modo categorizziamo gli oggetti. Secondo la teoria tradizionale un concetto si
definirebbe tramite la presenza o assenza di un tratto definitorio. In realtà si è
appurato che in moltissimi settori dell’esperienza cognitiva umana, il criterio in
questione non è binario ma di tipo graduale (più/meno). ‘Prototipico’ è il membro
percepito come “più centrale” della categoria, sul cui modello si orientano i giudizi
di appartenenza. Anche la categoria di prototipo appare importante ai fini
linguistici. È stato osservato che l’appartenenza di un’entità a un certo significato
linguistico dipende più da un criterio di “somiglianza di famiglia” che da una secca
alternativa binaria.
È interessante che grazie alla definizione di fuzziness o indeterminatezza dei
confini, i significati linguistici ci si rivelino come entità insieme stabili e mobili,
collegate tutte fra loro nel sistema dell’esperienza culturale di una società, in un
tempo storico dato. Ciò che tiene insieme il sistema è un campo di forze stratificato
e complesso, caratterizzato tuttavia più dalla plasticità e dalle intersezioni che dagli
elementi di rigidità. Per descrivere tale sistema si è soliti utilizzare il concetto di
‘enciclopedia’, contrapponendolo a quello di ‘dizionario’ in cui le entità cognitive in
gioco sarebbero collegate tra loro da schemi deduttivi di derivazione e sarebbe
impossibile passare da una catena deduttiva all’altra.

PROPRIETA’ SEMIOTICHE FONDAMENTALI


Il rapporto significante-significato la semiosi naturale si caratterizza
mediante la presenza o assenza di una gamma di proprietà fondamentali. Tali
proprietà ricorrono anche in numerosi sistemi di segni artificiali, costruiti dagli
uomini, che si arricchiscono e sofisticano sempre più con lo sviluppo
dell’organizzazione sociale, delle esigenze produttive e così via. Idealmente, le
proprietà di cui parliamo si dispongono come tante distinte entrate di una matrice
atta a generare una classe particolarmente rilevante di codici.
Arbitrarietà verticale questa proprietà considera il rapporto intersegnico
fra significante e significato come ‘non motivato’ da un punto di vista sia logico sia
naturale. Ritroviamo l’arbitrarietà verticale in numerosi codici: nei calcoli, nel
linguaggio binario, in numerose segnaletiche, nei prefissi telefonici e naturalmente
nel linguaggio verbale. In quest’ultimo caso la non motivatezza logico-naturale è
talmente diffusa ed evidente che fin dall’antichità molti pensatori hanno visto in
essa un carattere distintivo.
Significato e significante vengono determinati da un tipo diverso di arbitrarietà,
quella radicale, che consiste nella formazione, su tempi storici lunghissimi, delle
classi, rispettivamente, fonico-acustiche e concettuali di /sedia/ e “sedia”. vi sono
dunque un significato “sedia”, un significato “chair” e così via , figli del sistema
linguistico cui appartengono, della propria cultura, e non esattamente
sovrapponibili.
In generale, l’efficacia semiotica dell’arbitrarietà verticale è collegata alla
simbolicità. Per cervelli dalla portata cognitiva limitata, come sono i cervelli umani,
con le loro potenzialità di memoria e di calcolo, sarebbe problematico dover
memorizzare significanti diversi, legati da un’interna logica o da principi di
“rispecchiamento” naturale a tanti, diversi significati.
dunque, nella storia ormai ben più che bimillenaria della riflessione sullinguaggio,
l’arbitrarietà verticale è stata continuamente rievocata da filosofi, scienziati,
glottologi. Essa non è dunque una scoperta di Saussure.
Convenzionalità questa seconda proprietà, spesso confusa con la
precedente, è in realtà un altro fenomeno. Intendiamo con ‘convenzionalità’
l’attribuzione volontaria, socialmente stipulata di un certo significante a un certo
significato o viceversa. Anche la ricerca scientifica dipende in larga misura dalle
possibilità di convenire sull’uso dei termini. L’esigenza di una convenzione
metalinguistica si affaccia in ogni periodo di innovazione scientifica o filosofica.
Così una parola come mente ha oggi molteplici significati tecnici, n filosofia, in
scienza, in semiotica e così via. Ma mente resta ancora una parola della lingua
comune dai significati sfumati e variabili e soggetta a usi alla buona e privi di rigore
scientifico. Il meccanismo della convenzionalità si applica in toto ai linguaggi di
calcolo e a ogni tipo di lingua formalizzata; si applica anche a settori del sapere
meno rigidamente organizzati, nelle segnaletiche ecc.
Anche le arti letterarie, visive o plastiche contengono elementi indubbi di
convenzionalità. Basta pensare al sistema di norme che regolano i cosiddetti ‘generi
letterari’ e che ci permettono di riconoscere un’opera piuttosto che un’altra. Il
meccanismo delle convenzioni si estende in modo assai stratificato all’interno dei
generi e dei relativi sottogeneri, consentendone una rapidissima identificazione. La
conoscenza di convenzioni di questo tipo fa parte della complessa ‘enciclopedia’
l’esperienza e il sapere di ciascuno di noi. Indipendentemente dal fatto che il segno
abbia caratteri di arbitrarietà, esso può essere stato stipulato convenzionalmente si
pensi alle due figure stilizzate dell’uomo e della donna presenti nelle toilette, per
poter fruire dell’informazione che tali segnali danno occorre essere culturalmente
consapevoli della convenzione che li regge.
Esistono codici non arbitrari ma (tendenzialmente) iconici che sono convenzionali,
ed esistono codici arbitrari che non sono convenzionali (linguaggi delle specie
animali).
In una lingua storico-naturale, la convenzionalità ha ovviamente un posto rilevante,
perché numerosi e importanti sono i settori della vita sociale in cui si avverte
l’esigenza di stipule metalinguistiche.
Tuttavia il ‘cuore’ della lingua proprio perché esposto alla continua torsione della
pratica comunicativa, non può essere soggetto a convenzione. Né tale parte della
lingua può in alcun modo essere stato generata convenzionalmente. Dobbiamo
dunque ammettere che, in particolare nelle lingue, si ha a che fare con stati
mutevoli di equilibrio fra parti convenzionate di uso parti liberamente fluttuanti.
Iconicità questa proprietà è una delle più controverse dell’attuale lessico
semiotico, essa ha alle sue spalle un’importante traduzione filosofica: in Cratilo del
grande filosofo greco Platone, egli sostiene che il linguaggio è “imitazione
dell’assenza”. Nel seicento idee del genere furono applicate alla ricerca linguistica
promuovendo un nuovo modo di fare ‘etimologia’ inteso all’identificazione della
presunta lingua originaria del genere umano.
Molti secoli dopo l’idea che i segni “catturino” in modo non arbitrario i caratteri
della realtà assume un ruolo centrale nella teoria di Peirce, che avanza in proposito
due distinte posizioni:
1) sostiene che vi sono tipi diversi di segni: ipoicone, indici e simboli
2) Peirce fa capire che ogni segno in effetti è un po’ icona, un po’ indice e un po’
simbolo, propendendo, a seconda dei casi, verso l’una o l’altra di queste
possibili polarità.
infine, secondo Peirce, l’iconicità non si risolve in un dato visivo.
Sebeok, seguace dichiarato di Peirce, spiega per tanto che ‘icona’ può essere anche
un dipinto, una formula algebrica ecc.
Le metafore, infine, potrebbero essere dette iconiche in quanto sono materiate di
immagini che sembrano volere e riuscire a vincere l’opacità delle parole. Sorgono
però una serie di problemi: anzitutto, se l’iconictà vuole alludere a un rapporto non
arbitrario fra significante e significato, converrà non delimitare la sua definizione
alla similarità e distinguere piuttosto fra iconicità come motivatezza ‘naturale’ e
‘logica’. In secondo luogo, sembra difficile opporre drasticamente iconicità e
arbitrarietà. Superato l’equivoco della similarità, ci si rende conto che in effetti i
codici lasciano oscillare i loro segni fra un polo di massima arbitrarietà e uno di
massima iconicità, senza mai appiattirsi su uno dei due.
In terzo luogo la nozione di iconicità viene guardata con diffidenza dei linguisti. Già
Saussure aveva invitato a non dare troppo peso ai fenomeni di onomatopea,
osservando anzitutto che essi non sono in alcun modo universali. Lo studio
etimologico riserva infinite sorprese. La ricerca dell’elemento iconico si è pertanto
spostata di livello, andando ad isolare gli aspetti per cui le lingue, piuttosto che
ricalcare analogicamente il reale, stabiliscono momenti di analogia o isomorfismo.
Per intendersi: sappiamo che la maggior parte delle parole di una lingua sono sono
arbitrarie; se però tutte le parole di una lingua fossero arbitrarie, prive di una
qualsiasi motivatezza nel rapporto significante/significato, sarebbe impossibile
memorizzarle.
Un esempio di ‘naturalezza della lingua’ così intesa largamente accettato è la
formazione del plurale nei casi in cui l’elemento più semanticamente marcato è
derivative da quello meno marcato con l’aggiunta di un elemento.
Probabilmente oggi la strada più interessante è quella già accennata che induce ad
indagare i meccanismi evolutivi entro cui la semiosi si è strutturata. In questo
quadro assume un ruolo fondamentale la percezione, terreno di mediazione nel
nostro accesso alla realtà, una forma basica di conoscenza che prepara la strada alla
simbolizzazione.
Come ha osservato Deacon, il primo passo del conoscere qualcosa è quello di ri-
conoscerlo. È su questo presupposto che probabilmente si basa il nostro aggancio
alla realtà, quello che ci consente di staccarci da essa indicandola o giungendo a
sussumerla sotto schemi astratti. Così intesa, la nozione di iconicità andrebbe
discussa in stretto nesso col problema della percezione, ovvero del dispositivo,
basato sui sensi, che guida il nostro rapporto di specie con l’ambiente, proiettando
sulle infinite informazioni da questo desumibili, la rete di pertinenze selezionate
con l’evoluzione.

LA POTENZIALITA’ DEL CODICE


Articolatezza e combinatorietà la proprietà dell’articolatezza riguarda il
fatto che la parte significante del segno può risultare dalla combinazione di
segmenti più piccoli. La parola stessa ‘articolatezza’, deriva dal linguaggio dei
medici e anatomisti, che con essa alludevano alle singole strutture od organi di cui è
fatto il corpo umano. La particolarità di certi linguaggi di essere articolati non sfuggì
ancora una volta agli antichi (Aristotele).
Il calcolo aritmetico è un ottimo esempio di codice articolato con combinazione: con
un alfabeto-base di pochissimi segni, esattamente nove più lo zero, e alcune regole
di combinazione si possono generare tutti i numeri positivi e negativi, anche quelli
finora mai scritti.
Altro esempio: l’abbaiare di un cane può combinasi con l’inarcarsi della parte
posteriore del corpo, o al sollevamento della coda o delle orecchie come richieste di
attenzione o cose simili.
Doppia articolazione veniamo alle lingue: come si è visto diversamente da
quello che pensavano Aristotele e, molti secoli dopo, Wilhelm von Humboldt,
l’articolatezza non è una caratteristica esclusiva della parola umana. Ogni lingua
umana ha, intanto, il tipo di articolazione finora discusso: le parole sono analizzabili
in unità minime, prive di significato, chiamate ‘fonemi’. Grazie dunque ai fenomeni
di cui dispone, una lingua p in grado, attraverso le regole di combinazione proprie
del codice, di generare tutte le parole del vocabolario di quella lingua. Diversamente
da altri codici c’è però nelle lingue verbali anche un altro tipo di articolazione:
quella in ‘monemi’ ovvero in unità normalmente più piccole delle parole che sono
tuttavia ancora dotate di senso.
Nello stesso codice ci troviamo dunque davanti a due distinti procedimenti
combinatori, seguendo quanto dice Martinet, che per primo ha studiato il
problema, diremo dunque che quella dei monemi è la ‘prima articolazione’ del
linguaggio verbale e quella dei fonemi è la ‘seconda articolazione’. In una lingua i
monemi sono di due tipi: quelli lessicali (tipo: occup, cavall), i quali formano però
un insieme aperto, e quelli grammaticali (preposizioni, desinenze, articoli) i quali
formano invece una classe chiusa. I fonemi formano anch’essi una classe chiusa.
Nelle lingue verbali la doppia articolazione svolge una funzione decisiva, giacché
consente una straordinaria flessibilità nell’arricchimento del lessico e nella
formazione di unità superiori alla parola.
La doppia articolazione non è infine un’esclusiva della nostra specie, se è vero che si
è dato il caso di scimpanzé che hanno imparato ad usare i segni dotati di tale
caratteristica (la femmina Washoe, educata al linguaggio americano dei segni dai
coniugi Gardner).
Creatività in termini semiotici la ‘creatività’ non ha a che vedere con un atto
privo di regola e improntato a genio o irrazionalità. Un codice è creativo se ha la
capacità di modificare la sue caratteristiche iniziali. Ai nostri fini sarà sufficiente
distinguere tre tipi di creatività: regolare, non regolare, di regole.
Creatività regolare: la creatività regolare, o ‘generativa’, è la proprietà per cui un
codice può arricchire in modo illimitato il suo inventario di segni applicando senza
modificarle le regole di formazione-combinazione di cui dispone. Anche altri codici
però condividono questa capacità.
Esempio: in una segnaletica come la nostra si può benissimo introdurre un nuovo
segnale di pericolo sfruttando la regola che utilizza i segnali circolari per la categoria
dei divieti e triangolari per quella di pericolo.
Una lingua verbale fa un larghissimo uso della creatività regolare, al punto che il
linguista nord americano Noam Chomsky ha ravvisato in tale carattere la sua
invocata ‘specie-specificità’.
Si pensi al meccanismo dell’analogia, tipico dell’apprendimento di una lingua da
parte dei bambini: quando un bambino di tre anni dice aprito invece che aperto,
non sta effettivamente sbagliato, al contrario sa già perfettamente che i verbi i -ire
hanno il participio passato in -ito, ma non possono essere ancora a conoscenza delle
eccezioni dettate dalla lingua.
Quanto alla questione della specie-specificità, valga un interessante controesempio
offerto dai recenti studi zoosemiotici: esiste un uccellino il chick-a-dee, il cui canto
dispone di quattro elementi basici (A, B, C e D) che possono essere combinati più
volte ma solo secondo un certo tipo di sequenza.
Creatività non regolare: la creatività regolare mentre imparenta le lingue ai
calcoli, non ne esaurisce le proprietà innovative. La creatività non regolare implica
la possibilità che un codice accettai suo interno, senza smettere di funzionare, segni
costruiti involuzione contingente delle sue proprietà combinatorie.
I linguaggio naturali sono elastici e tolleranti, vi sono diversi esempi di specie
animali che hanno, in situazioni specifiche, modificato le regole d’uso dei propri
segnali, senza che ciò implicasse una ristrutturazione permanente del codice.
Nel linguaggio verbale la creatività non regolare è invece realmente dietro l’angolo.
Essa non impedisce di solito la comprensione (ese: se uso i tempi verbali sbagliati in
una frase questo non limita la mia capacità di comprensione); non blocca dunque il
codice , ed è restaurabile (es: quando correggiamo uno straniero da una cattiva
coniugazione di un verbo); infine, è talvolta potenzialmente innovativa.
Creatività di regole: su questa ha insistito Ludwig Wittgenstein. Essa consiste
nella possibilità di riformare interi pezzi del codice, aggiungendo o togliendo regole,
senza che questo cessi di funzionare. Da tale proprietà, ovviamente, sono esclusi i
calcoli di ogni genere, segnaletiche e generi chiusi di qualsiasi tipo.
La creatività di regole ha trovato ampia applicazione, invece, nelle lingue segnate
dei sordomuti, che negli ultimi anni hanno conosciuto una fase di eccezionale
impulso. E amplissima applicazione di tale proprietà vi è naturalmente nelle lingue
verbali, delle quali ‘l’universale’ di funzionamento più evidente (cioè la caratteristica
funzionale che si riscontra in tutte le lingue note) è certo la perenne ‘mutabilità’.
esempio: l’italiano è una lingua assunta dal latino, a un certo punto è insorta la
coscienza dell’avvenuto distacco fra il modo di parlare e la lingua della tradizione: il
latino, lingua di cultura di eccellenza, e unica scritta dell’Occidente, era ormai solo
un prodotto libresco incomprensibile alla quasi totalità della gente. La
trasformazione di cui parliamo intaccò tutti i livelli della lingua, basti pensare alla
perdita del senso della quantità sillabica. Dinamiche del genere si sono verificate in
tutte le lingue note, e sono una dimostrazione chiara dell’enorme plasticità del
codice verbale, che accompagna fedelmente la comunità linguistica in ogni attimo
della sua vita, intrecciando in modo sorprendente ‘conservatività’ (i parlanti che
si capiscono) e ‘mutabilità’ (perchè la vita sociale implica continue innovazioni).
Secondo esempio: alludiamo al comportamento connettivo del che,
tradizionalmente utilizzato nell’italiano scritto come pronome relativo per
introdurre una proposizione dichiarativa.
Consideriamo le seguenti frasi:
a) domani è il giorno che ho lezione;
b) Ti presento Mario, il ragazzo che studiamo insieme;
c) Prendimi la valigia che ci ho messo i libri;
d) Natale: si celebra la nascita di Gesù, che gli uomini hanno la gioia nel cuore;
Tutte e quattro le frasi contengono infrazioni alle norme grammaticali. Tuttavia da
alcuni studi su studenti universitari si è constatato che: (a) non è percepita come
errore e viene liberamente usata anche nello scritto; (b) è percepita come
colloquiale, utilizzabile nel parlato con riserve, (c) è respinta come sgrammaticata;
(d) è sentita come “poetica”.
Si parla a tale proposito di che polivalente, nel senso che il connettivo sta
mostrando la capacità di svolgere funzioni sintattico-semantiche (a) temporali, (b)
di mezzo o strumento, (c) locative, (d) consecutivo-casuali.
In sintesi, questa evoluzione del che si situa entro le potenzialità del sistema della
lingua italiana cioè dell’insieme di possibilità funzionali ed espressive proprie di tale
codice; mentre è solo in parte stato “assorbito” dalla ‘norma’ cioè dalla coscienza
critica della società, sulla quale agiscono la pressione scolastica, la tradizione ecc.
Metalinguisticità come dice il termine (derivante dal greco “oltre”), un
codice possiede la proprietà della metalinguisticità se può usare i suoi segni per
parlare di sé stesso. Le lingue fanno continuo appello a tale proprietà. Lo fanno per
disciplinare l’uso delle parole, “piene” o “vuote” che siano, in vista di usi tecnici o
formali. Ma le lingue parlando di sé anche e soprattutto nella vita quotidiana. Di
più, la metalinguisticità ‘riflessiva’ consente di manipolare in modo pressoché
limitato la sfera semantica, patteggiando, dilatando o restringendo il valore dei
termini in relazione alle condizioni d’uso nel concreto dello scambio comunicativo.
Da questo punto di vista la metalinguisticità fa tutt’uno con un’altra proprietà
principale del linguaggio verbale ovvero la sua ‘indeterminatezza semantica’.
Anche questa non è una proprietà specifica dell’essere umano. Ci si potrebbe
chiedere se le intelligenze artificiali non condividano anch’esse la metalinguisticità.
In fondo cosa fa un correttore automatico, inserito in un normale programma di
scrittura, se non porci continue domande? Tuttavia bisogna tener conto del fatto
che il programma stia solo analizzando la forma grafica delle parole, verificandone
l’esattezza o l’inesattezza in base alle regole di combinazione che gli sono state
fornite. In breve, l’attività metalinguistica messa in essere dal computer è in
sostanza un procedimento di riconoscimento sintattico, squisitamente formale, che
nulla ha a che vedere con un’effettiva comprensione di parole o frasi.
È interessante sapere che diverse specie animali sanno usare i loro segnali
metalinguisticamente. Un esempio è quello dello scimpanzé Sarah (resa celebre
negli anni Settanta dagli esperimenti di insegnamento del linguaggio dai coniugi
Premack), alla quale erano stati forniti oggetti di plastica simbolicamente
equivalenti a nomi di cose, verbi, relazioni sintattiche metalinguistiche. Tramite
questi Sarah riuscì più riprese a giudicare dell’adeguatezza di parole che le venivano
sottoposte in funzione agli oggetti, mostrando così la capacità di usare i suoi segni
per riferirsi non direttamente alle cose, ma ai segni che dovevano designarle.
Semanticità la proprietà che indichiamo con questo termine è in un
certo modo universale, perché presente in ogni codice propriamente detto.
Il ruolo dell’astrazione ‘significare’ qualcosa, in linea di massima,
vuol dire elaborare mentalmente una classe astratta i cui membri sono i possibili
‘sensi’ realizzati in circostanze semiotiche concrete.
Un significato è dunque per eccellenza un simbolo ovvero una rappresentazione
mentale che prescinde dalla presenza fisica degli oggetti cui rimanda e si rende
disponibile ad elaborazioni ulteriori, anch’esse simboliche. In breve, anche quella
particolare funzione della semanticità che chiamiamo ‘riferimento’, ovvero la
funzione di riferirsi ad oggetti del mondo non linguistico, è fondata da
un’astrazione, dall’adozione di un sistema più o meno sfumato di pertinenze.
Api e altri animali intesi così, i linguaggi di molte specie animali non
umane risultano sofisticatamente capaci di significazione. Un esempio è quello del
linguaggio e dei codici con i quali comunicano le api. Queste comunicano alle
proprie compagne rimaste nell’alveare la posizione del cibo, a che distanza è, e
perfino la quantità disponibile nell’ambiente. Ciò accade mediante una danza che va
a formare una sorta di otto o infinito che consente alle compagne di effettuare una
triangolazione fra la posizione dall’alveare, quella del sole e quella della fonte di
cibo. Un altro esempio è quello dei cercopitechi che hanno dei diversi suoni per
riconoscere che tipo di pericolo sta arrivando (se dal cielo, dalla terra o dall’acqua).
I calcoli… rispetto a tali linguaggi i calcoli hanno qualcosa di meno e
qualcosa di più: qualcosa in più nella misura in cui, facendo perno sulla creatività
regolare, possono generare segni sempre più lunghi e quindi aumentare
illimitatamente le quantità che formano i sensi dei loro significanti. I significati di
un segno numerico sono pure quantità: non ci dicono mai se si tratta di pere, mele o
astronavi. È possibile che proprio a causa di questa ipersimbolicità, la capacità di
calcolare sia strettamente legata alla lingua che fin dall’inizio l’ha fatta maturare
(esempio se eseguiamo un conto in inglese avremmo il bisogno di ‘tradurlo’ in
italiano per avere una maggiore sicurezza). I numeri e le loro regole di
combinazione, in effetti, non sono che un particolare tipo di parole, specializzate
per realizzare un sottoinsieme delle operazioni di classificazione rese possibili dalla
facoltà linguistica.
…e le lingue ben diverso che nelle specie animali non umane è il
funzionamento del significato nelle lingue. Una traduzione teorica molto autorevole
ha pertanto sancito la capacità delle lingue di “dire tutto”. Ma come si fa a dire, si
obietta, che le parole possano realizzare equivalenti totali di un movimento
musicale, o di un dipinto o di un sorriso ambiguo? De Mauro ha suggerito una
formula in negativo: non si possono indicare i limiti di ciò che una lingua può dire.
Così non solo testi complessi come grandi liriche o romanzi, ma anche frasi semplici
usate nel quotidiano possono, in funzione di occasioni comunicative specifiche,
riempirsi di sensi originali e innovativi.
La ‘metafora’ (capacità di istituire nessi predicativi fra entità separare sul piano
ontologico, non accumunate da alcuna similarità reale) è forse il più tipico
dispositivo linguistico che illustra questa capacità. Essa ci permette infatti di
incrociare i piani concettuali tramite i quali abbiamo accesso all’esperienza,
proiettando dall’uno all’altro, sensi e connotazioni.
Possiamo dunque ammettere che, diversamente dai linguaggi artificiali, dai calcoli,
ma anche dai linguaggi degli altri animali, le lingue dispongono di significati
‘indeterminati’, ovvero di concetti rappresentabili come classi aperte, delle quali
non si può interamente prevedere la possibilità di saturazione.
Le parole sono certamente soggette a convenzioni d’uso, ed è possibile, con
accorgimenti linguistici, restringerne e sofisticarne a piacere il valore. Al tempo
stesso però le parole consentono di mentire, di essere ambigui, di giocare su
allusioni, su piani diversi di interpretazione (ironia). Celeberrima è, per restare in
tema, la metafora della lingua come “partita a scacchi”, utilizzata da Saussure per
spiegare la sua concezione del sistema, in cui il valore di ogni elemento linguistico è
determinato da quello degli elementi compresenti in ogni istante del gioco.
La ‘semantica’ è la prospettiva semiotica che guarda da un punto di vista sia teorico
sia comparativo alla complessità e all’intreccio di questi fenomeni, con la possibilità
di calarsi volta per volta all’interno del funzionamento di concreti linguaggi e di
elaborare categorie specifiche di analisi per ciascuno di essi.
Le lingue segnate e la gestualità le lingue dei segni e della gestualità dei
sordomuti stanno diventando un oggetto di studio sempre più sotto i riflettori,
questo perché sono in grado di accogliere nei loro significanti moltissime delle
dimensioni semantiche proprie del linguaggio verbale. Basti pensare al grande
numero di situazioni e di esigenze espressive che possiamo fronteggiare con gesti
comunissimi (la mano a sacco, la mano ad anello per dire ‘ok’ ecc). Si può pensare
che per codici considerati ‘monoplanari’ (ovvero a una sola faccia, quella del
significante) come la musica, o della pittura, sia possibile elaborare una semantica.
Le ricerche che oggi ci illustrano il carattere unitario e plastico del cervello umano,
nel quale è assai problematico localizzare moduli dedicati in modo esclusivo a
singole abilità o forme espressive, potranno probabilmente dare luce, in un vicino
futuro, anche a interrogativi come quelli cui qui si è accennato.

SISTEMA DI SCRITTURA E TESTUALITA’


È opportuno ora fissare l’attenzione su una proprietà che è del tutto specifica della
semiosi umana: quella di potersi fissare mediante supporti di tipo grafico-visivo. Di
conseguenza il concetto di scrittura può abbracciare molte forme di espressione e
servirsi sia di mezzi scrittori sia di supporti completamente diversi.
La definizione data si contrappone ad un’altra tradizionale e, tutt’oggi, molto
diffusa, secondo cui la scrittura sarebbe semplicemente un sistema per tradurre in
simboli grafici la parola parlata.
La funzione semiotica della scrittura le prime testimonianza di
scrittura note partono dalla Mesopotamia nel IV millennio a.C e arrivano fino
all’Egitto. La scrittura in effetti, dal punto di vista evolutivo, è un’invenzione
relativamente recente, che però ha determinato profondi cambiamenti
nell’organizzazione della coscienza e della semiosi. Prima dell’avvento della
scrittura il linguaggio umano era fermo nel suo contesto immediato ed era esclusivo
delle persone presenti che interagivano tra loro, per questo si arricchiva, molto più
di quanto faccia ora, di gesti e comportamenti paralinguistici. La determinatezza
della parola era ciò che la rendeva mezzo privilegiato di incontro e aggregazione
sociale.
La scrittura offre agli esseri umani risorse semiotiche nuove. intanto, diviene
possibile trasmettere il pensiero a distanza, limite invalicabile per la parola parlata;
diviene possibile, nel momento in cui viene adibito a testo, rivedere e correggere un
pensiero, un’informazione. In breve, la scrittura offre un supporto esterno alla
memoria, consentendone un’indefinita estensione. Questo porta però a un
raffreddamento della comunicazione perché la parola scritta non è in grado di
aggiungere gesti, intonazioni, adattamenti al contesto e soprattutto molto spesso il
mittente non è presente al momento della lettura del destinatario e quindi può
essere frainteso non essendo in grado, in quel momento, di presenziare e spiegare
cosa volesse intendere.
Platone nel Fedro narra di una divinità egiziana, Theuth, che offre in dono al re,
Thamus, l’arte dello scrivere, questo dono viene rifiutato bruscamente. Platone vede
dunque la scrittura come una forma degradata di semiosi, come una sorta di
abdicazione alle forze naturali della memoria. È il punto di vista di una mentalità
arcaica.
In termini cognitivi moderni, naturalmente, le preoccupazioni di Thamus devono
essere rovesciate: la scrittura, più che impoverire la parola, instaura una forma
originale di semiosi che occorre considerare nella sua specificità.
tuttavia, di massima, la scrittura introduce nel discorso una ‘formalità’ molto
maggiore rispetto al parlato. Infatti essendo che la maggior parte delle volte il
parlante, in questo caso lo scrivente, non è presente nel momento della lettura e
comprensione e dunque nello scritto non ci si può permettere di omettere nessun
riferimento che nel parlato andrebbe a finire nelle “cose non dette” che però anche
se omesse possono essere di facile comprendonio. Non a caso, scrittura e
grammaticalizzazione, vanno di pari passo nel corso della storia.
La possibilità di raggiungere migliaia di persone con lo stesso testo identico esente
da errori di ripetute copie a mano induce naturalmente ad un atteggiamento di
selezione: divine sensato e tecnicamente vantaggioso fissare delle convenzioni
ortografiche, la cui generalizzazione non solo facilita la lettura e la comprensione,
ma spinge in modo decisivo la standardizzazione della lingua.
Gli effetti indotti dalla scrittura e dalla stampa hanno toccato dimensioni della
coscienza ancora più sottili.
Esempi:
1) Lo scorrere del tempo: per gli uomini del medioevo era indeterminato e lo
percepivano come un fluido continuo, è solo con l’avvento dei calendari e degli
orologi che gli uomini hanno iniziato ad avere una percezione artificiale del
tempo.
2) Il rapporto con la religione: la fissazione del testo separa oggetto e soggetto
della conoscenza e favorisce l’introspezione, il dialogo fra lettore e testo.
3) Il calcolo: si è passato dall’uso delle dita per fare i calcoli come supporti esterni
alla memoria all’elaborazione di sistemi di calcolo capaci di elaborare quantità
infinitesimali.
La mente umana, allora, collettivamente intesa, andrebbe considerata come un
sistema di conoscenza decretata, che alloca nell’ambiente risorse enormi, allo scopo
di valersene secondo le circostanze.
È proprio la scrittura, dunque, a potenziare le facoltà conoscitive umane oltre i loro
limiti naturali, e ad aprire le vie di una “vera sapienza”.
Tipi di scrittura nell’arco della sua storia millenaria la scrittura ha assunto
moltissime forme diverse, inizialmente solo di aiuto alla memoria, poi contabili e
finanziarie e successivamente religiose, politiche ecc.
Per cercare di riassumere i ‘tipi’ di scrittura possiamo iniziare con il distinguere le
forme di scrittura orientate ad esprimere direttamente aspetti del mondo mediante
strategie ‘ideografiche’; e forme di scrittura che esprimono il pensiero facendo
riferimento a una lingua.
Dobbiamo comprendere le singole strategie scrittorie nella loro particolarità tecnica
e nella diversità dei modi con cui viene adempiuta la funzione semiotica di fissare
graficamente l’informazione.
Ogni scrittura attestata, fin dai primordi di tale pratica, si presenta come un
fenomeno culturale complesso. Inoltre, anche il mondo di oggi, così progredito e
sofisticato, fa talvolta uso di forme di scrittura che potremmo superficialmente
ritenere un’esclusiva dagli antichi. Un caso significativo è quello dei ‘pittogrammi’.
Essi fissano graficamente un’immagine somigliante a quella di oggetti o dati del
mondo reale, che formano così il significato referenziale del segno. I geroglifici si
servono largamente di segni che rappresentano oggetti del mondo reale, ovvero di
pittogrammi. Utilizzano però anche segni a carattere fonetico e altri con funzione
determinativa, che mettono in gioco il medium linguistico. Questa combinazione
consente ai geroglifici di comunicare nozioni anche molto complesse.
In lingue come l’egiziano o il cinese si pone il problema degli omofoni cioè delle
parole che, pur avendo un suono simile, hanno un significato del tutto diverso. Il
parlato può risolvere il problema mediante mezzi paralinguisitici come i gesti o
l’intonazione della voce, ma nella trascrizione grafica, mancando l’evidenza del
contesto e il supporto della voce è necessario adottare un altro sistema. In questi
casi gli scrittori egizi o cinesi ricorrevano a segni “misti”, fornendo il principio del
rebus con il supporto di un elemento determinativo. Si formavano così vere e
proprie serie di elementi determinativi la cui funzione era specificatamente quella
di risolvere i casi di omofonia. Rispetto a questi criteri di scrittura, il principio
dell’alfabeta introduce una sostanziale innovazione. Esso raggruppa in classi i suoni
simili che si ritrovano in parole diverse, e fissa per ciascuna classe un simbolo
espressivo. Questo criterio h comunque il vantaggio di rendere molto economico il
sistema di fissazione delle informazioni. l’area geografica in cui questo sistema
emerse per la prima volta fu l’Asia anteriore, grossomodo verso la fine del II
millennio avanti Cristo, e furono probabilmente i fenici a giocare un ruolo decisivo
nella sua invenzione. La scrittura alfabetica si rivela come il mezzo di fissazione
grafica dell’informazione più adatto a sistemi sociali in cui il dinamismo degli
scambi e dei commerci era divenuto rilevante.
Il principio semiotico che regge la scrittura alfabetica nelle sue diverse varietà è
dunque quello della secondarietà della scrittura rispetto alla parola parlata. La
scrittura esiste in funzione dell’oralità perché la trascrive. Al ‘grafema’ corrisponde
ciò che fino ad ora abbiamo chiamato fonema. I sistemi grafico-alfabetici però
rappresentano sempre approssimativamente questo principio di corrispondenza
scritta con il suono emesso nel parlato, questo perché devono fare i conti con diversi
impedimenti tra i quali le differenze di accento o di dialetto delle diverse regioni.
Per esempio in italiano abbiamo due gradi di apertura della pronuncia della e e
della o, che hanno un valore distintivo, ma non sono manifestati a livello grafico; e
questo succede anche nelle altre lingue come inglese e francese. Per i motivi elencati
lo studio dei sistemi grafico-alfabetici può rivelare aspetti interessanti della storia
dei sistemi linguistici corrispondenti. Ad esempio se si leggono i testi italiani dei
primi secoli, vale a dire una fase storica in cui non esisteva ancora una norma
ortografica unitaria, si può vedere in controluce, nelle oscillazioni della grafia,
caratteristiche delle pronunce che essa si sforzava di imitare.
Sarà dunque la stampa ad esercitare una decisiva potatura di queste oscillazioni. La
possibilità di riprodurre su larga scala il testo, librandolo dalla mano e dall’arbitrio
dei copisti, favorì l’accettazione di una norma grafica unitaria, che divenne subito
norma tipografica; tutto ciò si scontrò con un processo parallelo ossia quello della
‘grammaticalizzazione’ delle lingue nazionali.
I sistemi grafici, soprattutto nell’epoca precedente all’adozione della stampa, si
accompagnano di stili di scrittura di altissima specializzazione, che possono essere
oggetto di appositi studi. Nascono così stili grafici specializzati per ambienti
professionali e sociali, con proprie norme estetiche, propri sistemi, abbreviazioni e
propri canoni formali. Un esempio è la scrittura ‘gotica’ che si afferma largamente
nell’uso universitario. Ovviamente, affermarsi la stampa, la forma della scrittura
perde peso, e sopravvive nel periodo successivo quasi solo come forma di calligrafia,
come ideale di “bello scrivere”.
Testo e iperteso: una scrittura/lettura “aperta”?
Un importante cambiamento nei modi di scrittura del testo, intervenuto negli ultimi
anni grazie all’avvento e alla diffusione del computer sono i cosiddetti ‘ipertesti’,
resi noti a milioni di utenti dalla navigazione in internet e dall’uso di CD-ROM.
Secondo la definizione di George P. Landow, teorico statunitense dell’ipertesto,
quest’ultimo <<è un testo composto da blocchi di parole (o immagini) collegate
elettronicamente secondo percorsi multipli, catene o percorsi (trails) in una
testualità aperta e sempre incompiuta descritta dai termini ‘collegamento’ (link),
0nodo0 (node), ‘rete’ (network) e ‘percorso’ (path). In altri termini, il messaggio
che offre un testo non si presenta più nella forma lineare tradizionale, ma in una
forma pluriplanare, dove (quasi) da ciascun punto si può risalire o discendere a
informazioni, commenti, integrazioni, approfondimenti ecc.
Il testo è pertanto organizzato come un sistema di conoscenze che è possibile
percorrere tutto o in parte, secondo il o i percorsi suggeriti dall’autore o secondo
altri. Da questo punto di vista l’ipertesto simula in modo migliore il funzionamento
non ‘dizionariale’, non chiuso, del sapere, e rappresenta un’apertura completa verso
l’enciclopedia, fitta di relazioni e di intersezioni non del tutto calcolabili, in cui esso
consiste. Questa enciclopedia è fatta dunque di conoscenze non solo verbali, ma che
sei esprimono tramite linguaggi diversi come numeri, immagini, si dovrà dunque
parlare di ‘ipermedia’: dato un qualsiasi argomento o tema di interesse, le
conoscenze che possono essere organizzate intorno ad esso sono certamente
mediate da una varietà di media espressivi, e in ultima analisi di codici differenti fra
loro. Già nel Seicento i grandi pensatori enciclopedici come John Wilkins e Leibniz
si erano posti il problema di come accedere in modo efficiente all’immenso
materiale conoscitivo disponibile e di come, possibilmente, trarre da esso nozioni
ulteriori.
Il nocciolo del problema però sta nella gestione di quel sistema della ‘memoria
esterna’ nella quale si scarica gran parte delle facoltà conoscitive umane,
potenziando in modo inaudito le forze della mente e la capacità di elaborazione
individuale.
Si è diffuso nel tempo una sorta di mito degli ipertesti che, si dice, annuncerebbero
un profondo rivolgimento nei modi umani di accostarsi alla realtà e di penetrarla
tramite schemi conoscitivi. La versione pessimista di questo mito sostiene che una
superficiale “cultura dell’immagine” sta sostituendosi a quella analitica e critica
legato all’uso e al primato del linguaggio verbale; la versione ottimista ipotizza
invece che gli ipertesti inducano una libertà nell’approccio al dato conoscitivo che si
esalterebbe nella possibilità di utilizzare percorsi diversi ed alternativi a quelli
previsti dall’autore, nel carattere mai completamente chiuso e prevedibile dei
collegamenti istituti con altri blocchi di formazione.
La rete di collegamenti che un ipertesto rende disponibile in linea di principio
equivale a quella che il lettore esperto attiva ogni volta che si accosta ad un testo
organizzato linearmente. Il lettore esperto è quello che sa autonomamente cogliere
lo spazio per links siffatti, e sa reperire da solo le fonti necessarie a soddisfare le sue
curiosità, le sue domande o deduzioni in corrispondenza del testo che sta leggendo.
Se così stanno le cose non si vede il motivo per il quale gli ipertesti ‘rivoluzionino’ la
capacità umana, semmai si può dire che questi facilitino la strada a chi non ha
ancora una capacità del genere, mettendo a disposizione una gamma di infiniti
collegamenti.

LINGUAGGIO E MENTE NELLA PROSPETTIVA SEMIOTICA. A MO’ DI


CONCLUSIONE
Tiriamo ora le somme delle argomentazioni dei capitoli precedenti centrando
l’attenzione su alcuni temi generali che contraddistinguono l’approccio
comparatistico che abbiamo seguito: che cosa assimila e che cosa divide i
linguaggi naturali, e più esattamente dove risiede il limite che distingue
la semiosi umana da quella delle altre specie animali?

Linguaggi naturali fra continuità e discontinuità nella sua essenza il


problema della continuità/discontinuità della semiosi fu posto da Charles Darwin
nel suo saggio The Descent of Man (1871). Secondo lo scienziato vi sarebbe fra gli
umani e gli altri esseri animali una differenza solo graduale consistente nella
maggiore o minore padronanza e conoscenza delle capacità cognitive. Potremmo
dunque dire che la semiosi è una proprietà condivisa da gran parte (se non tutto) il
mondo animale. Da una parte ciò sdrammatizza la questione dell’inimitabilità del
linguaggio verbale, ma dall’altra sorge l’esigenza di indicare gli aspetti comuni ad
ogni forma di semiosi animale e di enucleare, specie per specie, tutti i tratti che
fanno la differenza.
Fissiamo alcuni punti sui quali l’accorso sembri essere ormai ampio e consolidato:
1) ogni tipo di semiosi dipende dal tipo di analisi dell’ambiente che le specie
possono realizzare grazie alla particolarità del proprio sistema percettivo.
Questo aspetto è sviluppato da un etologo estone Jacob von Uexkull secondo
il quale ogni specie “vede” il mondo in modo diverso. Dunque ogni ambiente cui
ogni specie è adatta è un “ambiente soggettivo” accordato con quello che le
capacità di ogni specie possono fare e sostenere. Questo teoria ha trovato
conferma negli studi di uno psicologo come James J. Gibson, secondo il
quale un organismo che percepisce è un sistema autorisonante, è cioè un
dispositivo fisico, maturato sui lunghi tempi dell’evoluzione, fatto per
“risuonare” in accordo con l’informazione disponibile nell’ambiente.
2) Tutti i sistemi percettivi, a prescindere dalle loro proprietà individuali, debbono
abilitare gli esseri viventi ad almeno un’operazione, basilare ai fini della
sopravvivenza. Questa operazione è quella di stabilire identità e differenze:
applicando il criterio della pertinenza che, sulla base della presenza/assenza di
almeno un tratto, consente di dividere l’universo in due classi complementari, i
viventi riescono a distinguere ciò che è utile per la sopravvivenza e ciò che non
lo è. La selezione di tali tratti non è universale ma specifica per ogni specie, sulla
base delle caratteristiche del sistema percettivo ritagliate sulla prerogative
specifiche del proprio corpo.
3) Vincoli del sistema percettivo e forme di categorizzazione (arbitrarie) collegate a
questo stringono in modo peculiare ciascuna specie. Si suole esprimere questo
ultimo concetto con la nozione di ‘riferimento’ o ‘aggancio’ al mondo: ogni
linguaggio "si riferisce al mondo”, “parla di un mondo”. Cioè, grazie ai suoi
segni, ogni individuo di ogni specie è in grado di individuare nel suo mondo gli
oggetti utili e di condividerli con altri specifici.
Sappiamo che gli umani nascono con una ‘facoltà di linguaggio’ che, per funzionare,
deve essere attivata dall’apprendimento di una qualche lingua storico-culturale,
pena la sua atrofizzazione. Prendiamo il caso degli uccelli. Si è visto che in diverse
specie di uccelli esiste un dispositivo simile a quello umano, i pappagalli, alcune
sottospecie di tucano, sono capaci di apprendere modi di canto e sistemi di
richiamo, e vi sono uccelli capaci di rielaborare veri e propri “dialetti”.
Rimandando alle pubblicazioni specializzate per una trattazione adeguata di questo
tema, ci limitiamo a segnare qualche procedura argomentativi utilizzata dagli
esperti in questo genere di ricerca. Una possibile strategia (Mainardi) è quella di
indagare la capacità di servirsi di utensili, tale capacità rappresenta la facoltà di
riconoscere un oggetto, staccato dalla sua immediatezza d’uso, e collegare il suo uso.
Su questo assume un’immediata importanza lo studio di Goodall sugli scimpanzé in
grado di utilizzare sassi o pezzi di legno come strumenti di difesa. Ancor più famoso
è il caso dei macachi dell’isola di Koshima, in Giappone, che hanno autonomamente
imparato a pulire in acqua le patate dolci di cui si nutrono.
Un’altra possibile strategia (Cimatti) è quella di verificare se le ben note funzioni del
linguaggio discusse da Jakobson siano esclusive dell’uomo o si ritrovino in altre
specie. Tale strategia dà risultati sorprendenti. La funzione ‘referenziale’ appare
comune, ad esempio, alle api bottinatrici, con la loro straordinaria capacità di
comunicare alle compagne il punto esatto nel quale si trova il cibo; come si può dire
dei segnali di allarme che molte specie usano per cominciare la presenza di
potenziali predatori. La funzione ‘conativa’ si ritrova nella complessa tipologia dei
close calls, i segnali utilizzati all’interno di un gruppo per ribadire l’unità o per
differenziare i ruoli gerarchici.
Un particolare rilievo hanno i casi definiti di menzogna o ‘inganno semiotico’ già
menzionati nei circopitechi.
Il tentativo di individuare la proprietà semiotica specificatamente umana non ha
dato risultati soddisfacenti e ha fornito esiti diversi. Sembra dunque ragionevole
concludere che, almeno per quanto riguarda la distribuzione delle proprietà
semiotiche, il linguaggio umano si differenzi da quelli da quelli degli altri animali
non per la presenza di una caratteristica specifica, bensì per la compresenza e la
finissima integrazione di proprietà che altre specie rivelano solo separatamente.
Il DNA umano corrisponde al 97% con quello degli scimpanzé, ma recenti studi
hanno dimostrato una differenza sostanziale nell’uso del cervello umano rispetto a
quello dello scimpanzé: confrontando l’apprendimento degli scimpanzé con quelli
dei bambini entro i 3-4 anni di vita, un solo caso ha superato un test che viene
fallito dai bambini di questa età. La stessa Washoe non è riuscita ad imparare ad
usare più di 130-140 segni del linguaggio dei sordomuti americani. Viceversa un
bambino impara parole nuove ogni giorno. La strada più produttiva fino ad ora
sembra quella che indaga le peculiari proprietà adattive del cervello umano, che
spiegano con l’intreccio di dato naturale e dato culturale quella fioritura della
semiosi che ha dato vita a migliaia di lingue, a variegati sistemi di scrittura, ai più
raffinati sistemi di calcolo, alle arti verbali, visive e plastiche.
Decentrare la mente? se il linguaggio, inteso come capacità si
associare significati e singificanti, non è un’esclusiva degli umani, ma si ritrova in
molte specie diverse, che dobbiamo dire della ‘mente’, ovvero della proprietà che
un’imponente tradizione di pensiero, sia filosofico che religioso, ritiene distintiva
dell’uomo? La domanda si impone su due versanti: quello del confronto fra esseri
umani ed animali, e quello del confronto tra esseri umani e ‘macchine intelligenti’.
La semiotica non può esimersi dal prendere posizione su tali temi. Un’ipotesi
potrebbe essere: dato che la semiosi è così largamente diffusa nel mondo animale,
altrettanto diffusa deve essere una qualche capacità di pensiero che possiamo
identificare come ‘mente’.
In realtà, lo stato del dibattito teorico non autorizza una conclusione “liberale”. Si
tratta infatti, in primo luogo, di mettersi d’accordo su che cosa debba essere inteso
con ‘mente’; in secondo luogo, di tenere ben distinti il caso delle ‘menti
naturali’ (umane o animali) e delle ‘menti artificiali’ (delle macchine).
Nella seconda metà del Novecento ha avuto largo credito la teoria secondo la quale
avere una mente significa elaborare ‘rappresentazioni’ del mondo nella forma di
‘simboli’ retti da certe regole di combinazione. Sarebbe dunque un programma di
calcolo di informazioni, dunque un software che supporta diversi hardware. Alan
Turing ha formulato una scienza dei computer secondo la quale se si danno
situazioni in cui le macchine compiono operazioni equivalenti a quelle compiute
dagli esseri (umani) “intelligenti”, si può senz’altro dire che tali macchine sono in
grado di pensare. Il nocciolo del pensare sarebbe dunque nella funzione
concretamente svolta e non nella base biologica. La corrente del cognitivismo fa
riferimento a tali presupposti. La teoria cognitivista, in linguistica, ha trovato il suo
capofila in Chomsky, al quale si deve una concezione altamente svalutata delle
ricerche sui linguaggi degli animali non umani. L’analogia linguaggio-mente-
computer si risolve dunque nel ribadire l’unicità dell’Homo sapiens in quanto
essere pensante e parlante e nell’istituire un rapporto privilegiato fra le capacità
computazionali del computer e quelle della mente umana.
Una prima obiezione è stata formulata da John Searle che nel suo celebre
esperimento della ‘camera cinese’ osserva che un computer potrebbe rispondere
correttamente a delle domande formulate in cinese elaborando risposte in base ai
dati in suo possesso. Ma le cose non stanno esattamente così. Anche se fornisce
risposte corrette il computer elabora sintatticamente dei simboli senza capirne il
significato. Una seconda obiezione prende di petto le concezioni cosiddette
‘riduzioniste’ che finiscono col ridurre la mente ad una mera espressione dei
processi elettrici e chimici che hanno luogo nel cervello. La mente umana però
sembra essere qualcosa di più della somma delle sue infrastrutture fisiche:
emozioni, credenze, desideri emergono da tali infrastrutture e rimangono
autonome.
Queste due obiezioni hanno importanti conseguenze per il nostro problema. Da una
parte l’eventualità che il computer possa essere considerata una mente a tutti gli
effetti viene ridimensionata, distinguendo così fra le capacità semiotiche e di calcolo
di una macchina e le sue effettive proprietà mentali; dall’altra, viene messa al centro
della discussione la particolarità della mente naturale, biologica, caratterizzata
proprio da quella plasticità nei rispetti del contesto che il cognitivismo considera
inessenziale.
L’idea portante del cognitivismo è che la mente sia un dispositivo centrale che
governa il cervello, elaborando i dati che questo fa affluire tramite il sistema
percettivo. Studi recenti rivelano per che queste, anziché dipendere da un unico
centro di controllo, consistono in effetti di una trama ricchissima di sottoinsieme
autonomamente funzionanti e fra loro interattivi. Su questo modello
‘connessionista’ si è messa a lavoro la tecnologica robotica cercando di simulare la
mente naturale. Sono state così costruite macchine capaci di apprendere
dall’ambiente in cui si trovano. Ulteriori simulazioni della vita neurale,
implementate in programmi di computer, hanno realizzato forme di ‘vita artificiale’.
Un primo punto di arrivo di queste ricerche può essere così formulato: la mente
(biologica) va ridefinita come ‘sistema complesso’. Con tale termine ci si riferisce ad
un sistema fisico il quale è composto da un gran numero di elementi che
interagiscono in modo non lineare; ha comportamenti di insieme non del tutto
prevedibili sulla base degli elementi componenti reagisce in modo differenziato alle
perturbazioni esterne; cambia nel tempo in modi graduali e non prevedibili. A un
sistema del genere compete ovviamente la complessità del linguaggio verbale. Ma
un discorso almeno in parte analogo sembra potersi fare anche per quegli animali
non umani che esibiscono comportamenti almeno parzialmente imprevedibili in
base al loro corredo biologico, quali l’apprendimento di uso di strumenti,
adattamento all’ambiente ecc.
In particolare i comportamenti di gioco e quelli di “inganno” comunicativo
sembrano candidati interessanti per rivelare una complessità semiotico-cognitiva
adeguata alla presenza di una mente.
Questo schema accoglierebbe dunque un’idea centrale del corredo semiotico: che
una forma di attività mentale vi sia là dove appaiono sia pur deboli di
comportamento interpretativo, diverso, dunque, dalla mera risposta ad uno
stimolo. Un’ipotesi del genere mentre “decentra” la mente umana, è tuttavia
restrittiva in paragone alla nozione “liberale” di linguaggio utilizzata in
zoosemiotica. Questa impostazione fa leva su una nozione biologica, naturale di
mente. Ciò implica un ridimensionamento, non un annullamento, della nozione di
mente ‘artificiale’. Le menti umane sono capaci di intenzionalità originaria o
primaria, mentre le menti artificiali, dei computer, hanno solo un’intenzionalità
derivata, perché istituita artificialmente dall’uomo
Dal linguaggio-strumento al linguaggio-cognizione
Una delle teorie più autorevoli delle proposte per naturalizzare il concetto di mente
è quella suggerita da Daniel Dennet, dei cosiddetti ‘atteggiamenti intenzionali’.
Tutte le capacità degli esseri viventi sono intenzionali: le radici degli alberi cercano
l’acqua per il nutrimento, il cane abbaia perché ha fame o vuole uscire e così via.
Tuttavia, l’evoluzione delle conoscenze ci fa sapere che quanto può apparirci come
una mente non è in effetti che il risultato di un processo adattivo, legato alla
selezione naturale.
Vi è chi estende la teoria della naturalizzazione al punto da ricondurre l’intera
capacità linguistica nella sfera dell’innato. Dennet osserva che tra tutte le creature
viventi gli esseri umani sono i soli a fare un uso tanto sistematico, esteso e
complesso di “utensili” linguistici che consentono loro di “scaricare” nel mondo
interi blocchi di informazioni, conoscenze, esperienze rendendoli così disponibili
per potenziare in modo illimitato le capacità cognitive. Il terreno del linguaggio è
dunque il terreno della cultura, che fissa e sedimenta gli apprendimenti. Bisogna
tuttavia ricordare che al linguaggio verbale, alla cultura si arriva, ancora una volta,
per vie naturali a seguito di un lunghissimo percorso evolutivo che ha visto cervello
e parola svilupparsi di conserva, interagendo in modo complesso. È legittimo a
questo punto chiedersi se la metafora del linguaggio come ‘strumento’ sia proprio
la più adatta per cogliere la portata di questa peculiarità evolutiva. La semiotica può
ragionevolmente suggerire di no: il linguaggio non è solo strumento, è qualcosa di
più; il linguaggio è qualcosa che media le attività cerebrali, e aiuta in modo
sostanziale la cognizione.
Oralità e scrittura, ma anche gestualità, permeano in modo permanente non solo la
comunicazione del pensiero, ma il suo stesso formarsi. Il pensiero, l’attività
mentale, non vengono cioè “colati” nei segni linguistici, ma in larga misura
giungono a determinazione solo attraverso di essi, proprio perché i segni con le loro
caratteristiche modulano il pensiero, lo obbligano a prendere una forma, ad
organizzarsi. certamente, infine, è grazie soprattutto al linguaggio che la nostra a
trascendere l’immediatezza prende la forma di un’estesa flessione su noi stessi, sul
nostro modo di pensare e capire le cose, in breve la forma di autocoscienza.

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