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Il Paradiso
Fino al momento in cui tutto ebbe inizio, una persona felice come me
neppure esisteva, ve lo assicuro.
Al centro di S svetta ancora la dimora dei miei avi, ma non è lì che sono
nato. La Restaurazione Meiji sopraggiunse durante la reggenza di mio
padre e, quando egli ottenne il titolo di visconte, in cima a un’altura da cui
si gode una magnifica vista del porto, fece edificare una grandiosa
residenza per la nostra famiglia. Oggi la dimora è amministrata da alcuni
lontani parenti ma, ogni volta che ripenso alla mia infanzia lì, si alza un
leggero alito di vento primaverile e vengo colto da una tremenda
nostalgia.
Mia madre morì subito dopo avermi dato alla luce e io fui affidato agli
insegnamenti di mio padre. Quando anche questi venne a mancare, mi
ritrovai orfano a soli diciassette anni e proprietario dell’immensa fortuna
di una famiglia benestante.
Di soldi ne possedevo a palate, i miei genitori erano morti e di fratelli
non ne avevo. Insomma, ero totalmente libero da legami ma non volevo
fare la fine di tutti i figli di ricchi miei pari, ovvero abbandonarmi a una
vita di dissolutezze. Sarà forse stato per i severi insegnamenti di mio
padre, ma a pensarci bene ero davvero un adolescente con la testa sulle
spalle.
Affidai la casa a un vecchio amico di famiglia in cui riponevo piena
fiducia e, dai venti ai ventotto anni, mi trasferii a Tokyo per la mia
formazione universitaria. Non scorderò mai la felicità di quel periodo.
Conobbi anche un ragazzo, bello e intelligente: io ero iscritto al
Dipartimento di Filosofia dell’università, mentre lui frequentava il corso
di pittura occidentale della Scuola d’Arte. Tuttavia, abitando vicini, il caso
volle che diventassimo amici. Eravamo tanto in confidenza da non riuscire
a stare separati l’uno dall’altro, quasi come due innamorati.
Si chiamava Kawamura Yoshio e aveva tre anni meno di me ma,
cresciuto in una famiglia umile, dimostrava con le persone una
dimestichezza ben superiore alla mia nonostante fossi io il “fratello
maggiore”. Anche nell’aspetto, lui era tanto bello che un confronto tra noi
non mi sembrava neppure pensabile…
Dopo il diploma, tornai a S e proposi a Kawamura di venire con me.
Aveva concluso la scuola ma vivere di arte non era affatto semplice e, visto
che il suo unico desiderio consisteva nel continuare a esercitarsi nella
pittura, non aveva necessità di rimanere a Tokyo. Al contrario, cosa
meglio dei panorami offerti dalle coste del Kyushu? Avrebbe avuto modo
di abbandonarsi sereno al flusso del pennello; fui io stesso a consigliarlo
amorevolmente in tal senso. Senza indugiare, acquistai per lui lo studio di
un pittore straniero che era passato da me a propormi dei quadri. Pagai
l’immobile di tasca mia, per offrire all’amico un posto in cui vivere.
La mia principale occupazione quotidiana era leggere nel mio studio
con affaccio sul porto di S, ma quando mi annoiavo invitavo Kawamura,
oppure lo passavo a trovare per fare quattro chiacchiere spensierate. Altre
volte, organizzavamo delle brevi escursioni nelle località più famose lì nei
pressi. Ero più che soddisfatto di quella vita e non desideravo altri tipi di
piacere.
Discutevamo spesso di donne. Eravamo amici stretti, la gente forse
pensava che fossimo addirittura misogini, ma Kawamura di sicuro non lo
era. Al contrario, si mostrava puntualmente un grande estimatore del
gentil sesso.
Quando parlava del mondo femminile, però, l’espressione del mio volto
mutava.
«Le donne valgono quanto un osso del costato di un uomo! Non
colgono il senso delle grandi filosofie e neppure la raffinatezza dell’arte,
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appartengono a una razza inferiore!». Era mia abitudine parlare a lungo
delle numerose invettive contro le donne da parte dei filosofi del passato.
Però… però… nulla è volubile quanto il cuore umano. Chi avrebbe mai
detto che un misogino, eccentrico come me, si sarebbe un giorno
innamorato?! Ebbene sì, sono stato anche innamorato! Me ne vergogno
quasi, ma quando la vidi per la prima volta, tutte le mie filosofie, la mia
stessa vita, ogni cosa si dissolse come nebbia al sole del mattino senza
lasciare traccia alcuna.
Il suo nome era Ruriko e proveniva da una umile famiglia di origini
cinesi; all’epoca del nostro incontro aveva diciotto anni e, come un fiore di
pruno scarlatto che inizia a sbocciare, era dotata di una bellezza
profumata. Stava facendo un viaggio per festeggiare il diploma alla scuola
femminile e, al seguito della madre, era appena giunta a S. Io stavo
passeggiando e me ne innamorai perdutamente al primo sguardo.
Superata la timidezza iniziale, chiesi al decano di Kitagawa di intercedere
affinché potessi avanzare una proposta di matrimonio. Dalle ricerche
emerse che sì, certo, conduceva una vita di stenti, ma la sua famiglia non
era di cattiva estrazione. Lei aveva modi educati ed era una ragazza
intelligente. Non sussisteva la minima ragione di vergognarsi nel farne una
viscontessa.
Tra i miei parenti qualcuno rumoreggiò ma, qualsiasi cosa venisse detta
o fatta, il sottoscritto andava su tutte le furie affermando che sarebbe
morto se non avesse potuto farla sua. E così, nonostante i bastian contrari,
si celebrarono le nozze. Finalmente, per la prima volta dalla nascita,
conobbi la vera natura femminile. E poi non si trattava di una qualsiasi,
bensì – proprio come recita il suo nome – di una donna dotata della
bellezza dei lapislazzuli6.
Ah, i ricordi! Tuttora fanno vacillare il mio petto incanutito. Per due
anni venni coccolato da calde nuvole color pesca dall’inebriante profumo.
Era come gongolare soffice nell’aere, tale la felicità provata in quei giorni
che a parole riesce difficile da esprimere.
Impossibilitato a prendere parte alla cerimonia nuziale perché in visita a
un anziano zio di Osaka, tre giorni dopo il matrimonio Kawamura venne a
trovarci dimostrando per l’evento una contentezza superiore a chiunque
altro.
«Amico, tu sì che puoi dirti felice! L’espressione “acqua cheta” ti calza
proprio a pennello! Fino a oggi hai fatto della misoginia un vessillo e
snobbato l’alta società di Tokyo e Osaka, ma alla fine hai preso in moglie
la donna più bella di tutto il Giappone! Chi se lo aspettava? Allora, pensi
ancora che le donne valgano quanto una costola maschile?».
Tutto eccitato, stringeva le mie mani.
«In realtà, ho cambiato opinione» risposi in preda all’imbarazzo.
«Come solevi affermare, le belle donne sono un meraviglioso frutto del
creato che nessuna delle arti riesce a eguagliare».
Pronunciate tali parole, però, d’improvviso mi sentii in colpa nei
confronti di Kawamura. Benché di sesso maschile, non era forse stato il
mio unico compagno di vita fino a quel momento? In effetti dalla
comparsa di Ruriko, il rapporto tra noi, quella limpida amicizia si era in
qualche modo diradata. Temevo di aver fatto qualcosa di sbagliato, forse
lo avevo messo in imbarazzo corteggiandola di fronte a lui. “Ah,
poverino! Lui ancora non sa quale piacere si provi a stare con una bella
donna! Bisogna assolutamente trovargli una graziosa compagna” pensai.
Mi sentivo un po’ depresso ma quando sollevai lo sguardo, come una
grande rosa sbocciata all’improvviso, giunse Ruriko. A quella vista, la
depressione che mi avvolgeva si dissipò in un istante. Finché di fronte a
me avessi avuto quel grazioso volto, avrei potuto fare a meno degli amici e
del denaro. La mia stessa vita avrebbe perso valore, ecco cosa significava
essere ebbri d’amore! Ero all’apice della felicità raggiungibile in questo
mondo e, con espressione inebetita, fissavo il volto di Ruriko. Più il mio
sguardo vi si soffermava, più io la amavo. Poteva davvero esistere una
creatura tanto graziosa? Quando c’era lei, il mondo intorno a noi appariva
più bello, allegro.
Su, prego, ridete pure di me. Nel periodo subito dopo le nozze, la mia
gioia più grande consisteva nell’immergere Ruriko nell’acqua calda e farle
il bagno. Al pari di un inserviente dei bagni pubblici, strofinavo con cura
la splendida pelle di mia moglie7. Leggermente arrossata per il calore
dell’acqua, velata da timide screziature simili alla buccia di una pesca
bianca e una leggera peluria impercettibile all’occhio. Ah, quella pelle!
Non aspettavo altro che ammirarla dopo un bagno caldo, era uno dei miei
piaceri più intensi. Anche il suo lavacro rappresentava per me qualcosa di
meraviglioso.
Incurante delle voci che circolavano tra la servitù mi comportavo alla
stregua di un maniaco sessuale, incapace di attendere che lei uscisse dal
bagno. Assecondando quel mio atteggiamento, anche Ruriko, quando era
sola con me, gettava via la maschera della moglie per bene. Fu così che
trovammo il nostro modo di stare insieme. In sostanza, come al circo gli
ammaestratori di orsi riescono a far compiere agli animali ciò che vogliono
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ammaestratori di orsi riescono a far compiere agli animali ciò che vogliono
attraverso un semplice sguardo, anche lei aveva imparato a manovrarmi a
proprio piacimento con una sola occhiata.
Nei momenti di intimità, ero in sostanza il suo schiavo fedele e renderla
felice costituiva ormai la mia unica preoccupazione.
«Oh!» esclamava quando arrivava una buona notizia. Poi aveva il vizio
di spalancare gli occhi come se sentisse il solletico, le labbra assumevano
una forma assolutamente adorabile e rideva dolcemente. Pur di ammirare
quel volto avrei sopportato ogni sacrificio, anche il più estremo. Forte del
suo amore per me avrei fatto qualunque cosa.
Fu così che la nostra casa in parte si vivacizzò. Per renderla felice, ogni
tanto venivano organizzati dei piccoli banchetti ai quali invitavamo alcuni
conoscenti. In quelle occasioni, mia moglie adorava sentirsi la bella regina
della serata. E io amavo ammirarla.
A quei ritrovi spesso partecipava anche Kawamura. Lui non veniva
considerato neanche un ospite, eravamo tanto intimi che poteva muoversi
libero per la casa. Addirittura, si comportava come se fosse lui il padrone.
Con Ruriko erano grandi amici e insieme trascorrevamo giornate allegre a
ridere sereni.
Come ci si aspetta da chi nella vita ha sempre dovuto lottare,
Kawamura eccelleva anche nell’arte del corteggiamento. Mi accorsi che,
dopo appena un incontro, tutti provavano nei suoi confronti
un’immediata simpatia. E Ruriko non faceva eccezione. Kawamura era
bravo a renderla felice, decisamente più di me. Quando ci trovavamo a
chiacchierare in tre, vi erano momenti in cui la conversazione tra loro
sembrava brillare in maniera particolare.
Tuttavia, traevo felicità anche da questo. La preoccupazione che
prendendo moglie il cuore del mio migliore amico si sarebbe allontanato
da me era solamente un timore immaginario e nel momento in cui ne ebbi
conferma provai sollievo.
Pensateci un attimo, era ipotizzabile felicità maggiore?
Possedevo un alto titolo nobiliare, una ricca magione, avevo per moglie
la donna più bella del Giappone – almeno tale appariva ai miei occhi – e
lei mi amava alla follia, il mio più caro amico mi era vicino e, inoltre, ero
ancora tanto giovane. Cosa se non quella corrispondeva alla suprema
felicità? Pensavo di trovarmi in Paradiso… venni addirittura colto dal
terribile pensiero che avessi troppe fortune e, al contrario, le stessi
sprecando.
Non ricordo quando accadde, forse a poco più di un anno dal
matrimonio. Io e Kawamura ce ne stavamo da soli come sempre a
pontificare in materia di donne e, siccome affermavo idee diametralmente
opposte rispetto al passato, sebbene con qualche indugio, egli si rivolse a
me con un’espressione grave e traendo un sospiro.
«Sei proprio un credulone, eh?».
Rimasi di sasso sentendo quelle parole.
«Perché dici così?».
«Perché non conosci neppure il significato della parola diffidenza».
Mi sembrò ancora più criptico.
«Diffidenza, ma di che parli? Quando si è contornati da persone che
non danno adito a strani sospetti, perché non fidarsi?».
«Be’, vedi, al mondo ci sono uomini che non si fidano delle proprie
mogli e, per gelosia, commettono atti dissennati».
«Cosa? Ma no, come potrei essere geloso di Ruriko che è innocua come
una bambina? Non avrebbe alcun senso!».
Sentita la mia apologia di Ruriko, senza altro aggiungere Kawamura
esplose in una sonora risata.
«Perdonami, hai ragione tu! Ruriko è come una margheritina di campo,
una ragazza innocente».
Poi, prese a canticchiare una poesia di Wordsworth, The Small
Celandine8. Era bravo a declamare le poesie inglesi.
Rimasi lì ad ascoltarlo. E quelle misteriose parole da lui pronunciate le
accantonai in un angolo della mente, senza immaginare che, prima o poi,
sarebbe arrivato l’infausto momento in cui avrebbero nuovamente fatto
capolino. Ma non essendo io una divinità, come avrei mai potuto
prevederlo?
Ebbene, da quel giorno trascorsero ben due anni, un lasso di tempo in
cui non si verificò alcun evento sospetto.
Ruriko si faceva ogni giorno più bella e i nostri cuori erano sempre più
vicini. Quello era davvero il Paradiso.
Capitolo 3
Un sinistro presagio
Miei cari, proprio come è capitato a me in quei due anni, quando ogni
cosa sembra proseguire per il verso giusto è il momento di prestare
maggiore attenzione. Il demone del destino lancia un’esca appetitosa per
mettere alla prova il cuore degli uomini e, appena vi trova uno spiraglio,
spalanca la sua bocca nera per divorare la preda. Ogni grande fortuna
nasconde l’ombra di un demone.
E io, di fortuna ne avevo avuta fin troppa. Dopo tutto, ero stato
educato come si conviene al rampollo di una famiglia altolocata e il
mondo reale costituiva per me una totale incognita.
Verso la fine del secondo anno di matrimonio mi ammalai di tifo e,
sopraggiunte delle complicazioni, per tutto il mese di marzo fui costretto
alla vita di ospedale. Tuttavia, non fu questa la causa scatenante del mio
declino. La malattia si protrasse per diverso tempo, ma col passare dei
giorni migliorai e guarii completamente. Inoltre, dovevo in parte
riconoscenza al morbo, poiché il mio fisico da sempre cagionevole
finalmente scoppiava di salute. I capelli caduti per il tifo erano ritornati
addirittura più neri di prima. Non solo, sembravo ringiovanito.
Durante la malattia, Ruriko non mancò di porgermi ogni giorno visita
in ospedale. Anche Kawamura non fu da meno, veniva molto spesso a
trovarmi. Ah, quanto gli ero riconoscente! Forti del loro amore per me,
non si curavano dei rischi comportati dal morbo che mi affliggeva ed
entrambi si impegnavano in tutti i modi per lenire le mie sofferenze. In
quella occasione diedero prova di essere persone degne della massima
riconoscenza… ripensandoci ora, ero proprio un credulone!
Orbene, è giunto il momento di narrarvi un episodio alquanto
imbarazzante, un fatto risalente a circa due mesi dopo il mio ritorno a casa
dall’ospedale. Da una decina di giorni Ruriko era di cattivo umore e così,
non appena intravidi in lei uno spiraglio di miglioramento, una sera mi
affacciai nella sua stanza. Era ormai tanto che non lo facevo ma,
nonostante ciò, contro ogni previsione lei si irrigidì e mi respinse.
«Ma che hai? Sono forse io che ti ripugno?».
Provai per scherzo a fare la voce grossa. Ma lei, con aria sconsolata,
rispose: «C’è una cosa che finora ti ho tenuto nascosta… Adesso però non
posso più mantenere il segreto e sono costretta ad abbandonare questa
casa».
Le sue parole mi lasciarono a dir poco basito.
Ero sul punto di piangere, le chiesi più volte il motivo di quella
esternazione e, dopo mille insistenze, infine me lo rivelò.
Preso atto della cosa, però, rimasi più che altro sbalordito di come le
donne, anche per delle inezie, riescano a sollevare un gran trambusto! E
in quel caso, davvero di una inezia si trattava! Da qualche giorno, infatti,
pare le fossero spuntati degli ostinati foruncoli che non accennavano a
guarire.
«Dai, fammi vedere. Sarà una cosa da nulla!».
In quel momento, lei mi ispirò una forte carica di tenerezza. Se le
bastava una quisquilia del genere per cadere preda dell’imbarazzo, allora
significava che aveva una paura mortale di perdere il mio amore. A tale
pensiero, mi commossi profondamente.
Dopo tanti tormenti, si era finalmente confidata e mi aveva mostrato le
escrescenze. A quella vista rimasi basito: aveva il petto disseminato di
grossi foruncoli rossi.
«Cosa sono? Se vuoi che li lecchi, non c’è problema» le feci ridendo,
ma non appena tentai di scrutarli meglio lei si ricoprì in tutta fretta e il suo
volto si rabbuiò.
“Ma che stolto!”. Era ovvio. Ruriko aveva sempre fatto della propria
pelle perfetta un vanto e, se quella bellezza che la distingueva dalle altre
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donne veniva esposta a un rischio, lei si abbandonava all’imbarazzo e alla
tristezza.
Provai compassione e le consigliai di farsi vedere da un medico. L’idea
però non le andava proprio giù e, puntando i piedi, si intestardì a curarsi
da sola con medicamenti acquistati in farmacia. Era conscia del rischio
che correva ma, per lei, la questione non si limitava all’imbarazzo di
mostrare ad altri la sua pelle butterata. Se infatti si fosse trattato di un
esantema maligno, temeva che sarebbero circolati spiacevoli pettegolezzi
sul nostro casato.
Nonostante i rimedi usati i foruncoli si dimostrarono resistenti e, invece
di guarire, si estesero su tutto il corpo. Ormai non vi era modo di
nasconderli, poiché avevano aggredito anche il suo splendido viso.
Dal canto suo, Ruriko non si lasciava neppure intravedere. Come avesse
una profonda ferita, applicava sul volto più strati di garza fissandola con
un cerotto e, non contenta di ciò, si infilava nel futon con la trapunta tirata
fin sopra la testa. Quando mi affacciavo in camera sua mostrava solo la
punta del naso, l’unica parte non compromessa dai foruncoli. Che pena
vederla in tali condizioni!
Non sapendo bene che posizione prendere rispetto a quella moglie
capricciosa, convocai Kawamura per chiedergli consiglio. Anche lui in un
primo momento si prese beffe di quel delicato cuore di ragazza, ma poi…
«Ma no, è logico invece. Per una bella donna l’aspetto è di
fondamentale importanza, ma noi uomini stentiamo a comprenderlo».
Mentre parlava, quel volto di una bellezza rara si tingeva del colore
della compassione. Poi fece una proposta.
«Che ne dici, invece, di farle trascorrere un periodo presso una stazione
termale? In un luogo lontano da qui, forse si farà anche visitare da un
medico!».
Pensando che fosse una buona idea, la accolsi senza esitazione. A circa
due ore di treno e risciò dalla nostra ridente S, nei pressi della mesta
stazione termale Y sorgeva una residenza di mia proprietà. La sistemai a
dovere e ne feci l’abitazione temporanea di Ruriko.
Mi offrii di trasferirmi lì anche io per assisterla nella malattia, ma la
convivenza la avrebbe obbligata a mostrarmi il viso ogni giorno e così lei
si oppose con tutte le proprie forze. Rassegnato, decisi allora di affidarla a
un’anziana di fiducia che lei stessa aveva fatto venire dalla casa paterna
dopo il matrimonio.
Da non crederci! Quei foruncoli impiegarono ben sei mesi a guarire.
Ruriko, una persona così amante della compagnia, per tutto quel tempo
rifiutò ogni visita ed ebbe come unico interlocutore una vecchia. Diede
davvero prova di grande tenacia.
Dal canto mio, in quei lunghi mesi, incapace di sopportare il dolore di
vivere separato da mia moglie, talvolta mi recavo a farle visita. Tuttavia, lei
si chiudeva in una stanza serrando i fusuma9 e mi parlava solo attraverso
tale schermatura. L’imbarazzo che le creavano le pustole sul viso era forte
e le impediva di mostrarsi senza veli.
L’unico elemento positivo fu che lei, sotto falso nome, avesse finalmente
accettato di farsi visitare da un medico del posto. Mi precipitai quindi a
incontrare il dottor Sumida, così si chiamava, per sapere cosa ne pensasse
e lui mi rispose che, seppure non si trattava di una malattia grave, erano
comunque foruncoli piuttosto persistenti la cui cura poteva richiedere
tempi lunghi.
Secondo lui, ben più delle medicine, la terapia di maggiore efficacia
consisteva nei bagni di acqua termale. Signori, mi raccomando, tenete
bene a mente questo nome, il dottor Sumida.
La separazione forzata da Ruriko mi gettò nello sconforto e allora, con
la speranza di alleggerire il mio fardello, iniziai a frequentare
assiduamente l’ambulatorio del dottor Sumida, l’unico ammesso a
incontrarla ogni giorno. Così, per via indiretta, mi tenevo aggiornato sul
suo stato di salute: era sufficiente sapere che man mano le sue condizioni
miglioravano per trarre un profondo sospiro di sollievo, tale era la mia
fragilità in quei giorni.
Anche i foruncoli più resistenti, però, prima o poi guariscono… e così
fu. Tuttavia, dato che lei si vergognava delle lievi tracce residue
dell’esantema, non volle far ritorno a casa finché non fossero
perfettamente sparite. Quindi, fino al suo rientro, trascorsero sei lunghi
mesi, al termine dei quali per fortuna guarì. Tornò da me bella
esattamente come prima! Non sto neppure a descrivervi l’emozione nel
ritrovarmi con lei dopo quel tempo, come se avessi riconquistato un
tesoro dato per perso. Infine il tesoro era tornato da me ancora più bello,
desiderabile e sfavillante di quanto già fosse.
Miei cari, finora vi ho tediato parlando di tifo e foruncoli, ma credete
davvero sia tutto qui? Dal momento del mio ricovero fino alla completa
guarigione di Ruriko, a pensarci bene, intercorse un anno intero. Non
avete neppure idea di quali funesti eventi siano accaduti tra le ombre in
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quel lasso di tempo e cosa abbiano significato per me. Forse, attraverso le
mie parole, i più acuti fra voi già lo avranno subodorato!
Magari nessuno sarà disposto a credermi, ma io non avevo il benché
minimo sospetto… ero perso d’amore per Ruriko. Quando si trattava di
lei, non capivo più nulla e accettavo ogni cosa senza dubitare.
Tuttavia, i pesanti patimenti provati per le lunghe malattie erano stati
solo il lugubre preludio dell’imminente tragedia, l’inizio del mio
miserabile destino. Una volta guariti gli strani foruncoli, non vi fu neppure
il tempo di trarre un respiro che sopraggiunse qualcosa di portata ben
maggiore. Sofferenze indicibili sconosciute al mondo erano lì ad
attendermi in agguato.
Capitolo 4
Il mondo oscuro
Miei cari, la natura umana è terrificante. Una volta appreso che ero
rinchiuso in una bara, reboante, sgorgò in me una forza mostruosa che
confluì nei miei arti. In punto di morte, è noto, si può attingere a un
vigore che si manifesta solo in quel momento. Se non avessi infranto la
bara, la mia seconda vita non sarebbe durata neppure un’ora o trenta
minuti. Anzi, forse neppure dieci minuti! L’ossigeno era ormai molto
poco: sarei morto di asfissia come un pesce fuor d’acqua, annaspando con
la bocca.
Il sarcofago era robusto e io mi dimenavo come una bestia feroce.
Tuttavia, i miei sforzi non furono sufficienti per spezzare le assi di legno.
Non c’era quasi più aria. Oltre ai problemi respiratori, era come se le
orbite stessero per schizzarmi fuori dagli occhi e il sangue dovesse uscire a
fiumi dal naso e dalla bocca. Tale era la sofferenza da me provata!
Ero del tutto fuori di me. O quelle assi o il mio corpo, uno dei due
sarebbe andato in mille pezzi. Ma piuttosto che perire tra i patimenti per
mancanza d’aria, pensai che sarebbe stato meglio nell’altro modo e così
presi a dibattermi come un ossesso.
Ma poi, un miracolo! Colsi distintamente il rumore secco del legno che
si rompe. Da uno spiffero sottile come una lama penetrò un flebile soffio
d’aria che sfiorò fredda il mio viso. Com’era buona!
Signori miei, avete presente quanto sia magnifico il suo sapore? Provate
a fare un’esperienza come la mia e lo comprenderete bene.
Naso e bocca spalancati, respirai avido fino a che i polmoni furono sazi.
Incamerando l’aria, il cuore e la mente si riaccesero. Ero finalmente
tornato in vita.
Posi le mani nel punto in cui le assi si erano incrinate e, imprimendo
forza, le spaccai del tutto. Fu facile, forzai il coperchio della bara fino a
farlo aprire.
Senza esitare, mi proiettai fuori dal feretro ma avvertii uno strano
rumore, come di terriccio smosso, dopodiché mi piovvero sulla testa degli
oggetti duri. Pensai fossero dei sassolini o della sabbia che avevo scosso
uscendo dalla bara e lì per lì non sospettai nulla. In seguito, però,
compresi il profondo legame tra quelle cose che cadendo avevano
prodotto un suono tanto fragoroso e la mia vita. Se non fosse stato per
loro, infatti, forse non mi sarei macchiato di crimini tanto gravi e tutto si
sarebbe risolto in maniera pacifica.
Una volta fuori dalla bara, fui assalito da alcuni dubbi. Prima cosa, era
strano che fossi riuscito a evadere: se mi avessero sepolto, infrangendo la
bara il terreno sarebbe franato investendomi. Era assurdo, significava
allora che la bara non era stata sepolta in un cimitero bensì abbandonata
chissà dove. Però, in fin dei conti, che importava? Intanto ero salvo e
libero di tornare a casa.
Ma cos’era quella oscurità tanto densa che l’aria stessa sembrava tinta di
nero?
Un attimo, un attimo… pensando che il tatto mi avrebbe aiutato a
comprendere l’ambiente circostante, alla cieca e con le braccia protese in
avanti, iniziai a procedere a tentoni.
Incontrai un muro piuttosto malmesso, che ricordava una parete di
pietra. Costeggiandolo, andai a sbattere contro una gelida lastra di
metallo. Tastandola, immaginai che fosse una porta, una porta enorme e
pesante.
Era davvero strano. Dove mi trovavo?
Ma certo, che sciocco! La tomba della mia famiglia non era scavata
nella terra bensì nella pietra secondo i dettami occidentali, tanto è vero
che i locali la chiamano “Tomba dei Signori”. I miei antenati avevano
perforato il ventre di un piccolo rilievo montuoso e, posta pietra su pietra,
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consolidato il tutto con lo stucco: in sostanza, avevano ricavato una cripta
in cui conservare i feretri dei familiari.
Compresa la situazione, venni sorpreso dal terrore e rabbrividii. Se le
cose stavano in quel modo, allora non avevo speranza. Non avrei più
rivisto la luce del sole.
Un conto era sfondare una bara di legno, ma per uscire da quella cripta
ricavata dentro la terra e rinforzata in cemento non sarebbe bastata la
forza di un uomo, ma neppure di due! Mai e poi mai avrei perforato una
di quelle pareti. L’unico accesso era bloccato da una robusta porta in ferro
tenuta saldamente chiusa da un altrettanto pesante lucchetto.
Però, un attimo. C’era la possibilità che si fossero scordati di mettere il
lucchetto.
Mi scagliai con tutto il corpo contro la porta ma il risultato fu solo un
reboante bong che riecheggiò nella spelonca, senza che la porta facesse
alcun clack! Ahimè, il lucchetto era piazzato… ormai non avevo speranze.
A meno che nella famiglia non fosse morto qualcuno, per cinque, dieci
o anche venti anni quella porta non si sarebbe aperta.
Ah! Divinità celesti, perché vi comportavate in quel modo? Perché mi
avevate riportato in vita, solo per il gusto di uccidermi una seconda volta?
Volevate che assaggiassi di nuovo il terribile sapore della morte?
E poi non sarebbe stata una morte rapida come cadere in una scarpata,
bensì sarei morto di fame! Piano piano, minuto dopo minuto, la vita
sarebbe fluita via da me. Che fine atroce!
In vita, mi ero forse macchiato di atti deplorevoli? Avevo voluto bene al
mio amico. Avevo amato mia moglie. Mai avevo arrecato danno a persona
alcuna, neppure alla più meschina. E… e… allora perché dovevo subire
tale supplizio infernale?
Non potevo accettarlo. La mia prima morte non era stata spiacevole o
dolorosa e non aveva arrecato danno a nessuno. Riguardo ciò, nessuna
rimostranza. Tuttavia trovarmi non una, bensì due volte ad affrontare la
morte, la più grande delle sofferenze umane, questo non potevo
accettarlo. Ero allo stremo delle forze ma sarei uscito dalla cripta a ogni
costo.
Preso dalla follia, provai a urlare a gran voce. Continuai a lungo. Ma
poi, come un bambino, sbottai a piangere tra mille lamenti. Lacrime salate
mi scorrevano sul viso e poi si insinuavano dentro la bocca.
Le grida e i lamenti rimbalzavano fragorosi sulle pareti di roccia e
venivano restituiti al mio orecchio amplificati di due o tre volte,
divenendo così un agghiacciante frastuono. La tomba si trovava al centro
di un piccolo rilievo situato in una triste area periferica. I viottoli della
zona, al di fuori dei funerali della mia famiglia, non venivano praticati da
anima viva. Per quanto gridassi, nessuno sarebbe intervenuto a salvarmi. E
qualora avessero percepito le mie grida, si sarebbero impauriti e dati alla
fuga!
Realizzato che ogni mio sforzo sarebbe stato vano, presi a correre come
un forsennato nell’oscurità in cui non si distinguevano i colori,
inciampando tra le bare e sbattendo sulle pareti di pietra. Pur conscio che
non vi fosse spiraglio alcuno nelle pareti, lo continuavo a cercare
disperatamente.
Nella corsa, persi l’orientamento. Dov’era l’uscita? E la bara che poco
prima avevo infranto? Per quanto mi affannassi a cercare, non riuscivo a
trovarla a tastoni nel buio. Ero stato abbandonato, completamente solo in
un luogo oscuro simile all’aldilà.
Perso nel buio senza fine che avvolgeva ogni cosa, il mio corpo si
abbandonò alla disperazione.
Mai come in quel momento sperimentai fino in fondo il terrore delle
tenebre, in cui suoni e colori non sono contemplati.
Affannandomi a cercare di uscire da quella prigione non vi avevo
riflettuto, ma quando realizzai che era impossibile evadere, la paura del
buio mi pervase. Sebbene fosse un cimitero, a riposare lì erano gli
scheletri dei miei avi e non li temevo. Tuttavia, il fatto di non vedere nulla
e non percepire suoni mi provocò uno sconfinato terrore che mi
avviluppava ogni momento di più.
Ah, quanto mi mancava la luce, mi sarei accontentato anche solo di una
lucciola. Non distinguevo nulla, era insopportabile. Se il mio destino era
morire, ebbene, almeno volevo farlo alla luce del sole! Morendo avvolto
dalle tenebre, non avrei trovato la via verso il Paradiso e avrei continuato a
vagare fino a sprofondare negli inferi. Ah, orribile fato!
Ero irrequieto, ma per quanto mi dimenassi l’oscurità non si diradava.
Non c’era modo di uscire da quel regno di morte.
Capitolo 6
Un immenso tesoro
“Luce, luce, luce!”. Non facevo altro che pensare a quella parola quando
all’improvviso, come un segno del cielo, ebbi un’illuminazione.
Mi tornarono alla mente alcuni ricordi di gioventù, di quando avevo
diciassette anni. Ero venuto alla tomba di famiglia per scortare il feretro di
mio padre. In quell’occasione, se non andavo errato, il monaco lesse dei
sutra dentro la cripta. Ma come gli fu possibile in assenza di luce? Ma
certo, certo! Davanti al feretro era stato posto un peculiare candelabro di
foggia straniera: non era un oggetto del tempio bensì proveniva da casa
mia. Tuttavia, se non lo avevo mai notato nel ripostiglio di casa significava
che forse lo conservavano all’interno della cripta. Sì, era per forza così.
Prima di tutto dovevo capirne l’ubicazione e poi, con un pizzico di
fortuna, forse avrei trovato anche dei mozziconi di candela rimasti
dall’ultima volta che era stato usato.
Quella vaga speranza fece vibrare il mio corpo, non era più tempo di
correre qua e là alla rinfusa! A tastoni sul muro, con grande attenzione,
provai a fare il giro completo dell’ambiente.
In preda all’eccitazione, come se avessi pescato il biglietto vincente
della lotteria, procedevo lento, un passo alla volta. Poi, dopo aver fatto
circa mezzo giro, la mia mano cozzò contro un’asta di freddo metallo.
Provate a immaginare la contentezza. Lo avevo trovato, il candelabro
c’era davvero. Per di più, aveva ben tre mozziconi di candela conficcati
nelle braccia.
Trasognato, feci istintivamente per infilarmi una mano in tasca, ci
tenevo sempre dei fiammiferi… però, maledizione! O potenti divinità,
perché ero tanto sfortunato?
Nello stato confusionale in cui versavo, non avevo fatto caso a un
dettaglio e mi ero rallegrato troppo presto. Che stupido! Non era usanza
porre un defunto nella bara con 12 indosso abiti occidentali, infatti al
momento indossavo un kyokatabira e le sue maniche non ospitavano
certo i miei fiammiferi. Non trovate che sia un destino atroce ritrovarsi al
buio perché, pure avendo le candele, si è sprovvisti di fiammiferi?
Furente, afferrai il candeliere e lo scagliai con forza a terra. Ma l’attimo
dopo, oltre a quello del candeliere, percepii un flebile rumore sordo. Che
sarà stato? Forse un oggetto poggiato sul candeliere? E cos’altro può
trovarsi su un candeliere se non… dei fiammiferi! Ero certo che fosse così,
si lascia sempre la scatola dei fiammiferi sul candeliere dopo averli usati.
Perlustrai carponi il pavimento di pietra: non era facile cercare al buio
un oggetto tanto piccolo ma, d’altronde, l’altra prospettiva era terrificante.
Alla fine la trovai. Anzi, diciamo che localizzai la scatola a tentoni. Erano
finalmente nelle mie mani, i fiammiferi!
Con le dita tremanti, ne sfregai uno e la polvere pirica sprigionò una
fiammella violenta che infastidì i miei occhi. Dopo aver rialzato e
sistemato il candeliere, accesi le tre candele e l’interno della spelonca si
rischiarò come fosse l’alba. Per me, ormai abituato all’oscurità, quella luce
era addirittura abbagliante.
Avvalendomi del candelabro ispezionai l’ambiente. Uno accanto
all’altro lungo il muro erano allineati una decina di feretri, quelli dei miei
antenati.
Tuttavia, ciò di cui vi voglio parlare non sono le bare, niente di così
triste.
Spesso si sente dire che la felicità chiami altra felicità. E infatti, dopo
avere trovato il candeliere, mi capitò una seconda botta di fortuna che fu
cento, mille volte, ma cosa dico, un milione di volte più gradita della
prima.
l d ll d l h l b d
prima.
La luce delle candele rischiarò la bara da cui ero poco prima evaso. La
osservai. Di fianco ne notai un’altra, grande e sprovvista di coperchio.
“Ma vuoi vedere che qualcun altro, come me, è stato tumulato vivo qui?”
pensai e, insospettito, diedi un’occhiata. L’interno della bara era zeppo di
cose, ma non si trattava di cadaveri, bensì di qualcosa che brillava
intensamente. Parte del contenuto si era riversato anche sul pavimento e
sembrava una rilucente sabbia dorata.
«Ah!» esclamai e mi precipitai a controllare. Sollevai un po’ di quella
sabbia dorata. Poi estrassi dal sarcofago alcuni oggetti rilucenti… monete,
erano monete! Giapponesi, cinesi, da paesi sconosciuti, ve ne erano di
grandi e piccole. Monete d’oro e d’argento, anelli, bracciali, raffinati
oggetti di vario tipo! Aprendo poi un sacchetto di pelle di cervo, trovai
un’infinità di pietre preziose. Era un tesoro che doveva valere diverse
migliaia di yen. O forse molto di più.
Avevo le vertigini, provocate dalla contentezza ma anche dalla paura.
Perché mai una tale fortuna era sepolta lì? Turbato dalla lugubre cripta,
avevo forse le traveggole? Forse stavo sognando, oppure ero impazzito!
Dapprima provai a darmi un buffetto sulla guancia e poi mi colpii
ripetutamente la testa. No, non ero fuori di me. Assurdo. La bara da cui
ero scappato, quelle dei miei antenati, la parete di pietra: ogni cosa
appariva distinta ai miei occhi. Ebbene, non era possibile che solo quel
sarcofago carico di tesori fosse un’illusione. No, non stavo prendendo un
abbaglio.
Poco prima, quando avevo sfondato la bara, avevo avvertito il rumore
di un oggetto pesante rovinare a terra. Poi una pioggia di oggetti duri mi
era ricaduta sul capo. Ecco, saranno arrivati da lì, lo scrigno del tesoro
doveva essere posizionato lassù. Sulla parte alta della parete vi era una
sorta di scaffale e uno dei sostegni che lo reggevano era riverso a terra.
Ora capivo. Era crollato a causa mia, per l’impeto con cui avevo
sfondato il sarcofago. Lo scaffale si era sbilanciato, la cassa poggiata lì
sopra era caduta e il coperchio si era aperto nell’impatto col suolo.
Nessun sogno poteva essere tanto coerente, era fuori discussione.
Quindi, era tutto realmente accaduto. Eppure, perché mai una tale
fortuna era nascosta in una cripta sepolcrale? Non aveva senso. Mentre
scrutavano qua e là la superficie del forziere, i miei occhi furono attratti da
un dettaglio.
Su un lato vi era disegnato un piccolo teschio rosso di circa tre
centimetri, come una sorta di marchio.
Il teschio rosso, il teschio rosso… Ne avevo già sentito parlare. Chissà
di che si trattava… Ah, ecco! Il marchio dei pirati! Alcune decine di anni
prima, facendosi beffe delle autorità, nel Mar della Cina imperversava il re
dei pirati, il cinese Shuryōkei. Ricordavo benissimo di averne sentito
parlare e letto sui giornali.
Incredibile! La tomba della mia famiglia era il forziere dei tesori del
famoso pirata Shuryōkei. A volte accadono eventi impensabili. Anche se
forse, riflettendo, non sono poi tanto assurdi…
Dato che lo avrebbero potuto arrestare in qualsiasi momento,
Shuryōkei doveva aver avvertito la necessità di un antro segreto. Una volta
trascorsa la pena, sarebbe rientrato in possesso dei suoi tesori e vissuto
nella ricchezza fino alla morte. Del resto, rispetto al suo paese, la Cina, le
coste del Giappone si prospettavano più sicure. Una cripta è frequentata
al massimo una volta ogni dieci o vent’anni e, trattandosi di un lugubre
cimitero, a nessuno sarebbe venuto in mente di perlustrarlo. Usare come
rifugio una cripta sepolcrale: una trovata degna di un pirata!
Ebbene, non ero vittima di un’allucinazione. Certo, mi avevano sepolto
vivo, ma in compenso ero entrato in possesso di una inestimabile fortuna.
Mi accovacciai accanto alla bara e presi a giocare come un bambino con
le monete d’oro. Erano state stipate in una sacchetta che si era squarciata
e in parte il contenuto era fuoriuscito. Meticoloso, una dopo l’altra le
riposi nella sacchetta. Poi, come un bambino, le tirai nuovamente fuori
contando «una, due…» e le impilai sul pavimento. In tutto, ne contai
cinquantotto. Oltre a quelle, sul fondo della bara, rinvenni ammucchiate
come cartastraccia innumerevoli banconote provenienti da Cina,
Giappone e altri paesi. Incredibile!
Per la gioia, le volli contare: solo di valuta giapponese, ammontavano a
ben trentamila yen. Sommando poi il valore di quelle cinesi, delle monete
d’oro e d’argento e delle pietre preziose, quella fortuna superava il milione
di yen!
Capitolo 7
Il demone affamato13
Però, per quanto il legittimo proprietario fosse un pirata, quel tesoro era
roba altrui. Io, il visconte Ōmuta, non potevo certo impadronirmi della
refurtiva di un brigante. L’unica cosa da fare era avvertire la polizia. Avrei
certo attirato su di me le ire di Shuryokei, ma una tale fortuna non poteva
assolutamente giacere lì. Bene, avevo preso la mia decisione.
Compiaciuto, con l’intenzione di presentarmi alle autorità, feci per
alzarmi e andarmene. Ma poi, all’improvviso tornai in me.
Che stupido! Ma che avevo in testa? Altro che andare alla polizia, non
potevo muovere neppure un passo fuori dalla cripta. Se non fossi stato
tanto lontano dal centro abitato, avrei gridato: “Vi darò tutti i soldi che
volete, ma vi prego aiutatemi!”. Di sicuro sarebbero accorsi da ogni dove!
Altrimenti, se almeno ci fosse stato un carceriere, gli avrei detto:
“Possiedo più di un milione di yen! Sarà tuo, ma tirami fuori da qui!”, e
in quattro e quattr’otto mi avrebbe liberato. E invece realizzai che i beni
in mio possesso in quel luogo valevano quanto volgari sassi. Più che un
milione di yen, avrei preferito un tozzo di pane o un bicchiere d’acqua!
Che posto miserabile: ero torturato dai morsi della fame e avevo la gola
tanto secca che mi faceva male. Durò ben poco la gioia per la scoperta di
un tesoro come quelli dei sogni e delle fiabe, poiché fu subito rimpiazzata
dalla disperazione per aver compreso che in quel momento era privo di
ogni valore.
Quanto era crudele il destino con me! Prima mi aveva fatto disperare,
poi rallegrare a dismisura e infine mi aveva gettato in un inferno ancora
peggiore. Di volta in volta, la mia sofferenza, la paura e la disperazione
raddoppiavano, anzi, triplicavano…
Appoggiato alla bara da un milione di yen, disperato, rimasi immobile
per lungo tempo. Vedendomi, la gente mi avrebbe scambiato per una
statua raffigurante la Disperazione. Abbandonato allo sconforto, non
avevo più forza per pensare e muovermi.
Preso alla sprovvista, iniziai a frignare come una femminuccia. Dai miei
occhi vuoti e inespressivi sgorgavano copiose lacrime, era un fiume
inarrestabile.
Ruriko! Ruriko! Chissà cosa stava facendo in quel momento. Forse le
lacrime stavano solcando anche le sue dolci gote, rattristata per la
dipartita dell’amato consorte. Mi sembrava quasi di scorgerlo, quel dolce
volto in lacrime.
«Ruriko, Ruriko! Non piangere, ti prego. Per quanto ti affligga, io non
farò ritorno. Da ora in avanti, in mezzo ai vivi, ti attendono giorni fausti.
Non hai alcun motivo di piangere. Su, asciugati le lacrime e sorridi.
Mostrami il tuo bel volto sorridente».
Ah, Ruriko aveva sorriso! Quel suo bel sorriso. Cento, ma che dico,
mille volte avrei posato le mie labbra su quella fronte, sulle sue gote, sulle
labbra, sul seno.
Ma in quel momento non mi era possibile e mai più lo sarebbe stato!
Copiose le lacrime da me versate e, per quanto piangessi, sembravano non
avere mai fine.
«È solo una parete di roccia! Solo una porta di ferro! Fuori da qui un
tiepido vento sta spirando tra le case. Fuori da qui, il sole splende e la
luna riluce» mi disperavo. Toccata con mano la mia impotenza di fronte a
quell’unico insormontabile sbarramento, mi depressi pensando alla
fragilità dell’essere umano.
A un certo punto, mi tornò in mente un romanzo da poco letto, Il conte
di Montecristo di Dumas. Il protagonista, Dantès, trascorse lunghi anni
segregato in una cella sotterranea.
Provai a paragonare me e Dantès, chiedendomi chi dei due fosse più
infelice. Nel suo caso vi era un terribile carceriere a sorvegliare la cella ma,
in fin dei conti, non era meglio averne uno? Probabilmente, mi avrebbe
ascoltato e liberato. Io invece non avevo nessuno cui porgere le mie
suppliche.
In mancanza di un carceriere, nessuno mi avrebbe portato i tre pasti
quotidiani. Se non altro, tra le sue preoccupazioni Dantès non aveva
quella di morire di fame e, in forza di ciò, riuscì con pazienza a perforare
il muro di intonaco ed evadere. Dal canto mio, qualora anche in dieci o
venti giorni fossi riuscito a perforare la parete, durante quel tempo
nessuno mi avrebbe nutrito.
Ah, che sventura! Mi ritrovavo addirittura a invidiare Dantès,
protagonista di una storia tanto agghiacciante. Ma non poteva finire in
quel modo.
Allora, decisi di mettere a frutto l’esperienza di Dantès: posizionai le
candele a terra e, usando il candeliere di ferro come arma, provai a colpire
la parete di roccia. Madido di sudore, piangendo e gemendo, brandivo il
candeliere. Un colpo e poi una pausa, di nuovo un colpo e poi una pausa:
continuai la mia lotta con il muro per almeno un’ora.
Ah, me misero! Non avevo considerato che nel frattempo le candele si
sarebbero consumate. Ero riuscito a perforare di cinque o sei centimetri
l’intonaco, ma tutto intorno a me era di nuovo calato un buio fitto.
Non potevo proseguire la mia opera nelle tenebre. Dantès, se non altro,
aveva la luce della finestra a illuminargli la prigione. Ma io, privo di luce e
cibo, ero impossibilitato a portare avanti il lavoro. Per di più, non si
trattava di una parete sottile, bensì di uno spesso muro di più di trenta
centimetri.
Crollai al suolo, incapace ormai anche di piangere. Avevo esaurito i
liquidi del corpo in quell’ora di duro lavoro. A quel punto, la sorgente
stessa da cui sgorgano le lacrime si era esaurita.
Per alcune ore rimasi immobile, come morto. In quel frangente, sognai.
In sogno vidi una montagna di appetitosi manjū14 caldi e fumanti. C’era
anche Ruriko, mi veniva incontro sorridente. Mi apparve poi un ricco
stagno traboccante di acqua: la fame di cibo e quella di affetto mi
tormentavano scambievolmente. Dopo poco, i languori allo stomaco si
tramutarono in vero e proprio dolore. Erano fitte lancinanti, come se mi
strappassero le viscere dalla pancia.
Con voce roca urlai a squarciagola contorcendomi per il dolore:
«Voglio morire, voglio morire!». Non riuscivo più a sopportare
quell’indicibile agonia, ben peggiore della morte.
A quel punto non restava altro che suicidarsi.
In realtà, cercai di elaborare una strategia: in mancanza di un’arma
bianca, mi sarei sfondato il petto con il candelabro. Ma vedete, per quanto
uno ci provi, ritenete possibile togliersi la vita con un candelabro? Di
sicuro fa male, ma è ben diverso da una pistola o un coltello. Che storia
penosa, non trovate?
Abbandonai l’idea del suicidio ma in compenso ebbi una pensata ben
più agghiacciante.
Ah, sarei tentato di tacervelo anche perché me ne vergognerò fino alla
morte. Ma, in fin dei conti, non avrebbe alcun senso mentire durante una
confessione. Quindi, non vi farò mistero neppure di ciò.
Sapete, con il candelabro in mano iniziai a strisciare lentamente
nell’oscurità.
Dopo poco cozzai contro una delle bare dei miei antenati, quella
posizionata più avanti. Era proprio lì che volevo arrivare. Brandii
fulmineo il candeliere e colpii dall’alto il coperchio della bara. Un colpo,
due colpi… con un suono secco, il coperchio di legno della bara andò in
pezzi. Miei cari, avevo del tutto perso il senno. Ero regredito a uno stato
primordiale, quello di una bestia. Distrutte le bare, cosa avrei fatto dei
cadaveri?
Capitolo 8
La bestia carnivora
«Quel sorriso è come una droga. Anche mia moglie aveva un sorriso
simile!».
Il negoziante diceva cose sempre più strane.
«A vostra moglie cosa è capitato?».
Sotto la soffusa luce emessa dal lume, il suo viso percorso da mille
ombre si contrasse e rispose con tono cupo: «A mia moglie? L’ho uccisa
con queste mani!».
Fui percorso da un brivido, alla vista dell’espressione del mio
interlocutore non riuscivo a proferire parola.
«Haha!» rise rilassato. «Ma no, non dovete preoccuparvi! È vero, sono
un assassino, ma ho già scontato il mio debito con la Legge. Ho commesso
un reato in passato, ma non sono un uomo malvagio. Mi sono solo
vendicato della donna che mi ha fatto ingurgitare acqua bollente».
«Una vendetta?» feci sovrappensiero scrutando il volto di quel vecchio
avvizzito.
«Haha! Su, prendetela a ridere anche voi. Ero giovane allora, si tratta di
fatti accaduti almeno vent’anni fa. Fosse oggi, non mi comporterei più in
quel modo. All’epoca, anche nel mio petto ormai incanutito fluiva sangue
giovane e vigoroso. Sono fatti di cui provo vergogna e ben noti a tutti. Io
stesso non faccio nulla per nasconderli. Li confesserò anche a voi, quindi
vi prego di ascoltarmi».
Alla fine, sebbene fossi entrato nel negozio per tutt’altro motivo, mi
ritrovai ad ascoltare il terribile racconto dell’anziano negoziante. In
seguito, seppi che l’uomo raccontava quei fatti a chiunque gli capitasse a
tiro ed era considerato un tipo bizzarro dalla gente del circondario.
Per sommi capi, l’anziano raccontò che vent’anni prima, quando era
ancora trentenne, si era reso conto che la sua bella moglie aveva un
amante e che in sua assenza gli adulteri si incontravano furtivamente.
Allora un giorno aveva finto di partire per un viaggio ma era rincasato
proprio mentre i due stavano copulando e, con un coltello che portava
con sé, aveva sferrato un colpo mortale all’uomo.
«Mia moglie, che aveva assistito alla scena, lanciò un grido sovrumano e
si scagliò contro di me. Dapprima pensai che volesse ingaggiare una
colluttazione, ma in realtà non fu così. Quella carogna provò a fare la
civetta pregandomi di risparmiarle la vita. Quel suo volto da cagna!
Anche ora mi sembra di vedere l’espressione che aveva! Le pupille fuori
dalle orbite per la paura, il viso pallido e sfigurato. Ma lei si sforzava
comunque di sorridermi. Sorrideva con malizia, per cercare di sedurmi. E
più si sforzava di sorridere, più il volto le veniva solcato da lacrime amare.
Le sue mani fredde lambirono il mio collo. “In realtà sei tu quello che
amo! Dimentica tutto, dimentica! Perdonami!” strillava con voce acuta.
Ma perché avrei dovuto cedere al suo gioco? La respinsi e poi la minacciai
con il coltello intriso del caldo sangue del suo amante! Glielo puntai
davanti al viso dicendole: “Ecco, questo rimane del tuo compagno di
sesso, ora te lo infilo diritto nel petto affinché non si separi mai da te”, e la
pugnalai al cuore!». Il negoziante sbottò in una risata secca e sommessa.
«Dopo ciò mi costituii e, scontata la pena, finalmente due anni fa sono
uscito di galera. Anche a nasconderlo, il segno del crimine prima o poi
diviene di pubblico dominio. E nel momento in cui gli altri se ne
accorgono, chi ti salutava inizia a rivolgere il viso dall’altro lato quando ti
incrocia. Anche i parenti smettono di venirti a trovare. Di amici non ne
ho, così come una moglie o figli. Sono uno per cui la vita non ha più un
senso. Ci sono anche volte in cui penso che sarebbe meglio farla finita ma,
incapace di togliermi la vita, continuo a trascorrere i miei giorni da
infelice. Caro signore, le donne sono dei diavoli! Anche il visconte, se
l f d ll l bb b bl
avesse continuato a vivere al fianco di quella lì, avrebbe probabilmente
fatto la mia stessa fine, ecco ciò che ahimè penso in cuor mio…».
Ascoltato il terribile racconto, provai una sensazione di disgusto che mi
impedì di proferire verbo. Forse mi ero rivolto alla persona sbagliata, ma
paragonando una squallida adultera alla mia innocente Ruriko quel
vecchiaccio aveva oltrepassato ogni limite dell’affronto.
«Ma vedete, anche se vostra moglie era una tale donnaccia, ciò non vi
dà il diritto di calunniare la signora Ōmuta. Stando a quel che sento in
giro, è donna di incommensurabile virtù!».
Alle mie parole il negoziante scosse il capo.
«La verità e le dicerie solitamente sono molto diverse tra loro. L’altro
giorno, mentre camminavo per le vie della città, mi sono imbattuto nel
corteo funebre del visconte e, per un qualche motivo, la carrozza che
trasportava la signora Ōmuta mi ha urtato all’altezza dei fianchi, tanto
forte da farmi cadere per terra. Certo, da parte mia me ne stavo a
gironzolare intorno al corteo, ma non so se la si possa definire una colpa.
Del resto, non credete che alla vista di un anziano accasciato al suolo
avrebbe dovuto almeno porgermi una parola di scuse? Il cocchiere mi ha
rivolto uno sguardo di commiserazione e credo abbia anche provato a
fermare la carrozza, ma la signora, col suo bel sorriso, glielo ha impedito
facendogli proseguire la corsa. Inoltre, mentre sedeva comoda nella
carrozza, sorridendo dolcemente mi osservava dolorante a terra, come
fosse uno spettacolo divertente. Ah, quel sorriso! Mi ha lasciato senza
fiato. Era identico a quello di mia moglie. Per un attimo, ho pensato
addirittura di trovarmi di fronte al suo fantasma».
Mentre parlava, il suo corpo tremava visibilmente per la paura.
Non ne potevo più di ascoltare le storie farfugliate da quel triste
vecchio pazzo e mi gettai fuori dal negozio. Tuttavia, c’era un pensiero che
non mi abbandonava.
Fino a quel momento, tutti avevano sempre tessuto le lodi di Ruriko e
pensavo che in lei non vi fosse un singolo aspetto negativo. Onestamente,
ero sbalordito dal constatare che tra il volgo vi fosse chi ne infangava il
nome.
Ma di che parlava? Una cosa del genere non stava in piedi! Quello era
solo un pazzo, un povero pazzo! Una come Ruriko non avrebbe mai
compiuto un gesto deplorevole quale offrire il proprio cuore a un altro
uomo. Eppure, anche ridendoci sopra, mi rimase un tarlo nella testa.
Che tristezza! La storia del vecchio non aveva davvero senso. In ogni
caso, volevo tornarmene subito a casa. E una volta lì, alla vista del sorriso
di Ruriko, tutti i pensieri sarebbero svaniti in un attimo. Ecco, era meglio
sbrigarsi a rincasare.
Ormai mi ero scordato della fame e di ogni altra cosa e di gran carriera
mi affrettavo verso la residenza degli Ōmuta. I miei piedi intorpiditi erano
impazienti, se avessi avuto le ali avrei spiccato il volo. Purtroppo, da
quelle parti di risciò non se ne vedevano e io camminavo trascinando il
mio corpo stanco che poteva cedere da un momento all’altro, sospinto
solo dalla voglia di rivedere lei.
Capitolo 11
Doppio omicidio
Le magnifiche bestie
Il pirata Shuryōkei
Un’eredità particolare
I cinque diamanti
Siccome faceva molto caldo, uscii presto la mattina e presi il primo treno
diretto alle terme Y. Da quel momento in poi avrebbe avuto inizio un
nuovo e assurdo risvolto del racconto. Forse le divinità che mi avevano
tramutato in un vecchio orripilante nei cinque giorni passati nella cripta
iniziavano a provare compassione per me e in quella occasione,
inaspettatamente, contribuirono affinché il mio piano di vendetta
procedesse a passi da gigante. Le divinità si schierarono con me
alimentando il mio rancore: seguendo un disegno divino, avevo il compito
di punire i colpevoli.
Il colpo di fortuna fu incontrare una persona inaspettata sul treno per le
terme Y. Era la signora Toyo, l’anziana che assisteva Ruriko durante il suo
soggiorno: era da sola e sedeva nel mio stesso scompartimento. Ero
abbastanza sicuro del fatto che non mi avrebbe riconosciuto e non dovevo
lasciarmi sfuggire l’occasione. Toyo proveniva dalla stessa città di Ruriko e
l’aveva accompagnata in qualità di cameriera personale di massima
fiducia. Dal mio ritorno a S non ebbi modo di incontrare mia moglie ma,
alla vista di Toyo, fu come se il profumo e l’immagine di Ruriko si
manifestassero sfiorandomi la pelle, facendomi provare un forte senso di
tristezza che mi lasciò ammutolito.
Tuttavia, a dispetto di ciò, mi chiesi cosa facesse Toyo sul treno. A ogni
fermata controllavo i suoi movimenti pensando che prima o poi sarebbe
scesa, ma contro ogni previsione rimase a bordo fino al capolinea, ossia le
terme Y.
Con il cuore palpitante, seguii le sue successive mosse standole alle
calcagna, anche se immaginavo bene dove si stesse dirigendo, ossia alla
residenza di montagna degli Ōmuta. E infatti fu proprio così.
Si fece lasciare da una macchina poco prima della casa e risalì a piedi lo
stretto viottolo. A sinistra vi era la valle attraversata dal fiume, mentre a
destra si estendeva una verde foresta. Alla fine del sentiero di montagna
sorgeva la casa, ormai in stato di abbandono e circondata da un oscuro
bosco che ispirava tristezza. L’edificio era lì, cupo e cadente.
Non vi era alcuna particolare recinzione, lei spinse il portone di legno e
quello si aprì come sempre. Così, giostrandosi tra sterpi e rovi, Toyo
attraversò il giardino della casa.
Io la guardavo da lontano e, presa un’altra strada, girai intorno
all’edificio. Poi, nascosto dietro un grande albero del bosco che si
ricongiungeva al giardino, spiai le sue mosse.
Quel bosco, anche di giorno, era piuttosto ombroso e, oltre al frinire
delle cicale che ogni tanto si udiva, vi regnava un silenzio di tomba. Una
donna anziana camminava zitta zitta nel giardino di una casa abbandonata
in mezzo alla macchia. Assalito da un forte senso di paura, nascosto
all’ombra del grande albero, tremavo come una foglia.
Tra gli sterpi del giardino sorgeva un acero: quando Toyo vi giunse, si
accovacciò alle sue radici e, mani giunte, iniziò a pregare.
Provai a sbirciare meglio, eppure non aveva l’aria di un luogo di culto.
Pensai addirittura che la vecchia si fosse messa a pregare lo spirito
dell’acero, oppure che avesse qualche rotella fuori posto.
Ma no, no. Non poteva essere. Sulle sue gote scorrevano delle lacrime.
Forse le era capitato qualche triste evento. Tuttavia, ogni elemento della
situazione faceva pensare che Toyo stesse pregando su una tomba. Sì, non
avevo dubbi, alla base dell’acero vi era nascosto un agghiacciante mistero.
Che occasione incredibile! Dovevo a tutti i costi ottenere una
confessione da Toyo, non ero sicuro che mi sarebbe ricapitata una simile
fortuna. Incurante del rischio, decisi di giocarmi il tutto per tutto e optai
per una mossa piuttosto azzardata. Prima di tutto, sfruttando la penombra
d lb d f b d l d d ll
p p , p
del bosco, dovevo arrivare fino ai rovi più robusti del giardino della casa.
Sì, sarei riuscito nel mio intento.
Quel giorno indossavo un completo bianco di lino, scarpe bianche e un
cappello stile panama. Calcai bene il copricapo, mi coprii il volto dal naso
in giù con un fazzoletto e tolsi i pesanti occhiali scuri. Ora tutto il mio
corpo era bianco. Solo gli occhi erano scoperti e rilucevano sotto la tesa
del cappello.
Così conciato, mi avvicinai in punta di piedi alle spalle di Toyo. E poi,
con la mia vera voce, quella del visconte, tuonai: «Tu sei Toyo, non è
vero?».
Non poteva aver dimenticato la mia voce. E ne ebbi prova quando alle
mie parole lei, inizialmente inginocchiata nella direzione opposta, si voltò
di scatto verso di me. Tuttavia, in quel momento il suo volto non mi
sembrò attraversato dal terrore. Di contro, io avevo il cuore in gola.
Quando Toyo si voltò, ad attenderla trovò lo sguardo del visconte che la
squadrava con astio. Il cappello e il fazzoletto nascondevano la mia
chioma bianca e la barba, celando così i dettagli del camuffamento in
Satomi Shigeyuki. In compenso, lasciavano intravedere gli occhi che
rivelavano limpidi lo stato del mio animo. Non ebbi dubbio che lei,
osservandoli, avesse subito riconosciuto in me il visconte.
Alla loro vista, la vecchia lanciò un grido e provò a scappare. In quel
bosco oscuro separato dal centro abitato, aveva all’improvviso incontrato
un defunto vestito di bianco. Avrà di sicuro pensato a un fantasma.
«Toyo, fermati! Non sono una presenza infausta! Sono io!».
Provai nuovamente a parlarle, ma era raggomitolata su se stessa per la
paura e non risultava semplice avvicinarla.
«Chi siete? Scoprite il vostro volto!».
La sua voce era tremula.
«Anche così, tu già hai capito chi sono, vero? Guarda i miei occhi!
Ascolta la mia voce!».
Iniziai mano a mano ad avvicinarmi a lei.
«No, non lo so! Non so chi siate! Come potrei mai saperlo?».
Sembrava preda di un incubo e della disperazione.
«Tu dici così, ma non puoi ignorare il fatto che io ora sia qui, in piedi
vicino a te. Io sono il tuo padrone, il visconte Ōmuta! Ora, rivelami ciò
che sai. Perché sei qui? Che sei venuta a fare?».
Lei impallidì come un cadavere, era rigida come un sasso e non
respirava.
«Non me lo vuoi dire, vero? Molto bene, allora stai ferma lì e
osservami. Hai capito? Guarda bene quello che faccio».
Mi recai di corsa nel capanno degli attrezzi della casa e ne uscii
portando con me una pala. Poi, senza prestare orecchio agli strilli della
vecchia, iniziai a scavare alla base dell’acero. La terra era morbida e veniva
via facilmente, e in poco tempo scavai una buca abbastanza profonda fino
a quando, sul fondo, non si intravidero delle assi di legno chiaro.
«Vi prego, smettetela! Non fatelo, vi prego…». Toyo lanciava grida
miste a pianto e provò a fermare il mio braccio afferrandolo.
«Allora, ti sei forse decisa a parlare?».
«Va bene, ho capito, vi dirò tutto quanto…».
Toyo, iniziò a piangere pesanti lacrime.
«Allora, dimmi, che cosa è contenuto nella scatola di legno chiaro?».
«Be’, vedete… io non c’entro nulla. Io sono solo rimasta lì a
guardare…».
«Chiacchiere inutili, che vuoi che me ne importi? Ti ho chiesto che cosa
è contenuto nella scatola».
«Be’, ecco…».
«Allora, non puoi dirmelo forse? Facciamo così. Te lo dirò io! Quella
piccola scatola interrata contiene il corpo di un bambino appena nato.
Inoltre, l’infante è stato ucciso dai genitori. Loro lo hanno sepolto qui. La
madre è Ruriko, mentre il padre è Kawamura! Tutto corretto fin qui,
giusto? Per liberarsi del figlio illecito, Ruriko si è finta malata e ritirata in
questa casa per evitare sguardi inopportuni. Il bambino è stato concepito
nei tre mesi in cui io ero ricoverato in ospedale. Per quanto siano menti
criminali, neppure loro si sono spinti al punto di fingere che il bambino
fosse mio. La faccenda delle pustole era tutta un’invenzione. Un mero
trucco per ingannare un marito premuroso e dedito come me. Ehi tu,
Toyo, trovi che nel mio racconto vi siano degli errori? In tal caso, parla
pure. Oppure tiriamo fuori la scatola dalla terra e controlliamo cosa
contiene».
A quel punto Toyo, messa alle strette, si accasciò sulle ginocchia e prese
a piangere. Mentre piangeva, tra un singhiozzo e l’altro, disse: «Ah, che
orrore! Che io stia forse vivendo un incubo? Oppure sono già finita
direttamente all’Inferno? O mio signore, vi pensavo morto e invece siete
ancora vivo. Per di più, siete anche a conoscenza di un segreto sepolto
nella terra che mai nessuno avrebbe dovuto conoscere. Ah, è giunta la
celeste punizione! E cosa è mai questa se non la punizione divina? Allora,
è giusto che io parli!
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g p
Anche solo affidarla a qualcuno dopo averla messa al mondo sarebbe
già bastato come crimine, ma loro hanno addirittura ucciso e seppellito in
quel luogo angusto la piccola Yaya. Voi, signore, neppure l’avete mai
conosciuta…
Io ho provato a dirlo sia alla signora Ruriko sia al signor Kawamura di
affidare Yaya a qualcuno della mia città, ci ho davvero provato in tutti i
modi! Ma quei due avevano paura di essere prima o poi scoperti. Mi
hanno risposto che la cosa migliore era sopprimerla e non hanno dato
ascolto alle mie parole. E, alla fine, si sono macchiati di un terribile
crimine.
Non me ne posso certo dimenticare, è stato in questo stesso giorno tre
mesi fa. Oggi sarebbero tre mesi esatti dalla sua nascita. Nessuno prega
per la piccola Yaya che se ne sta sola soletta in questo luogo di mestizia!
Però, per me lei è importante e sono venuta qui in segreto a pregare per
lei.
O mio signore, anzi no, voi non siete il mio signore, ma solo qualcuno
che gli somiglia moltissimo. Perdonate questa povera vecchia. Già un
mese fa sono stata allontanata dalla signora Ruriko. Siccome non so stare
zitta, a quei due io non piaccio. Mi hanno detto di tornarmene dalle mie
parti e dato i soldi per il viaggio. Io però provo pena per la piccola Yaya e,
a furia di allungare la mia permanenza di giorno in giorno, alla fine mi
sono trattenuta. Ma siccome non posso permettermi di vivere in una
pensione, oggi sono venuta a salutarla per l’ultima volta».
Finito di parlare, Toyo si accasciò a terra in lacrime.
Ah, ecco! Le cose stavano quindi così. Anche visti da Toyo, la donna di
fiducia di Ruriko, loro due erano delle menti malvagie. Ma perché il cielo
consentiva certe cose? Tuttavia, a breve la divinità che albergava nel mio
cuore avrebbe impartito loro la peggiore delle punizioni.
Poi cercai in qualche modo di consolare Toyo, che in fondo era pentita
per l’accaduto. Estrassi il portafogli e le donai dei soldi sufficienti per
ritornare nella sua città e pagarsi le prime spese. Infine, le raccomandai di
lasciare S il prima possibile.
A quanto pare, Toyo non credeva che io fossi il visconte. Be’, in fin dei
conti lui è morto e, se pure fosse stato ancora in vita, non avrebbe avuto
bisogno di celare il proprio volto. La donna probabilmente, forse anche
per l’oscurità del bosco, avrà pensato all’incontro con una creatura
soprannaturale, forse lo spirito vendicatore del visconte. In fin dei conti,
non era una cosa tanto assurda. Dal canto mio, ai fini del piano era anche
meglio che fosse andata in quel modo.
Bene, finalmente ero venuto a conoscenza del segreto celato dagli
adulteri. La bambina sepolta nella terra, che arma incredibile sarebbe
diventata nelle mie mani. Usandola a mio piacimento, avrei inflitto a quei
due la giusta punizione.
Fu tre o quattro giorni dopo quell’episodio che inviai Shimura a Osaka
a procurarsi la lanterna magica e il feto nel vaso.
Capitolo 18
I due topi
Finalmente il piano era in atto, una vendetta degna del mio casato. Ah,
che bella, magnifica sensazione! Il momento in cui le mie preoccupazioni
sarebbero svanite si stava avvicinando. Ripensai al proverbio “quando un
amore è grande, lo sarà cento volte maggiore l’odio che ne consegue”: nel
mio caso calzava a pennello. Rispetto al sommo amore provato verso
Ruriko e Kawamura e alla fiducia che avevo riposto in loro, l’odio
conseguente al tradimento era almeno cento volte maggiore. Anzi, mille…
diecimila volte!
Ero come un gatto che aveva stretto due topi in un vicolo senza via di
scampo. Un gatto anziano e dal pelo argenteo. Haha! Miei cari signori,
avete presente il crudele gioco con cui il felino uccide i topi? Ebbene, in
quel momento io mi sentivo proprio come un gatto!
Che fine avrei loro riservato? Il mio piano prevedeva ogni cosa, fin nei
dettagli. Tuttavia, più il gioco durava più si faceva interessante. Il mio
rancore, infatti, non era cosa da poco.
Quindi decisi di procedere per gradi, un passo alla volta, senza
perdermi nulla del divertimento. Intanto le prime tre mosse da fare erano
ben chiare: innanzitutto, approfondire i rapporti con Kawamura e fare sì
che lui si fidasse di me; poi, dovevo alimentare la sua passione per Ruriko,
ossia portarlo a un livello di innamoramento anche superiore a quello da
me un tempo raggiunto; infine, era necessario carpire il cuore di Ruriko,
farla mia e, alla prima occasione utile, comunicarlo a Kawamura. Volevo
confinarlo in un abisso di disperazione.
Naturalmente ciò non costituiva l’obiettivo finale del mio piano bensì
un preludio. Tuttavia, in questo modo avevo intenzione di infliggere a
Kawamura il medesimo dolore da me provato, o addirittura uno
superiore.
Dalla terribile scoperta alle terme Y trascorse una settimana in cui non
si registrarono accadimenti degni di nota. In quel frangente Kawamura mi
porse più volte visita e la confidenza tra noi si approfondì, proprio come
previsto dal piano. Tuttavia, a ogni nostro incontro lui aveva un messaggio
di Ruriko da trasmettermi o, quando la sua lingua era più sciolta, tesseva
le lodi di quest’ultima e della sua infinita bellezza.
«La signora è stata molto contenta del vostro regalo! Verrà presto a
ringraziarvi di persona, intanto vi manda i suoi più cari saluti. Inoltre, vi
invita a porgerle visita in qualsiasi momento. Ecco, alla fine il messaggio è
sempre lo stesso. Che ne pensate? Perché una volta non venite alla
residenza dei visconti?».
Replicai con un cenno del volto alle parole di Kawamura e gli risposi
con tono sbrigativo: «Ma certo, sarò felice di porgerle visita prima o poi.
Avevo un solido legame con Toshikiyo ma sa, con sua moglie non ho mai
avuto contatti. E poi, vedete, io ho una certa età e sono un uomo
riservato. In parte, ho vergogna di mostrarmi alla signora. Se davvero lei è
così bella, poi, il problema è ancora più serio. Tuttavia, le buone maniere
mi impongono di porgerle almeno una volta visita e quindi presto o tardi
lo farò!».
Al che, lui replicò infervorato: «Ciò mi duole molto, ma una volta che
poserete i vostri occhi su Ruriko, anziano o no, vi pentirete di non averla
incontrata prima. Inoltre, se indugiate troppo nell’andare a trovarla, prima
o poi sarà lei a farvi una sorpresa».
«Ah, ma è davvero così bella?».
Cercavo di strappargli più informazioni possibile. Dal canto suo,
Kawamura sembrava ben felice delle domande e rispondeva con dovizia.
«Il povero Toshikiyo si vantava spesso del fatto che Ruriko fosse la più
bella donna del Giappone. E sinceramente, lo penso anche io. Da quando
sono al mondo non ne ho mai vista una di eguale bellezza. Inutile
l l b l d l l d d l l l f l
g
elogiarne ancora la beltà del viso, il modo di parlare, la voce, le forme e la
bravura nell’intrattenere gli ospiti, di difetti non ne ha neppure uno. Così
come recita il suo nome, possiede la bellezza di un lapislazzulo».
Maledetto, era proprio cotto di Ruriko! Anche il fatto che mi adulasse
si addiceva a una canaglia come lui, uno che al primo innamoramento
cancellava ogni cosa dalla mente. Ma in realtà, era proprio ciò che
desideravo.
«Allora bisogna stare attenti! Non trovate sia opportuno stare in
guardia al cospetto di una vedova tanto abile e dedita a intrattenere
rapporti sociali? Credo sia necessario…».
«Ma no! Non vi preoccupate. In ogni caso, per quel che posso, ci sono
sempre io accanto a lei, il migliore amico del suo defunto marito. Ne
controllo ogni singolo movimento. E poi, una brava moglie come lei, non
cade in facili tentazioni».
«Be’, con un protettore tanto fidato come voi a fianco, in effetti è
inutile preoccuparsi. Del resto, voi siete per lei ben più di un protettore, si
potrebbe quasi dire un marito! Haha, ma no, perdonatemi, cosa dico
mai…».
Nonostante fosse solo un banale scherzo, Kawamura colse l’occasione
per infervorarsi ancora di più. Che bastardo!
«Haha! Ma cosa dite… però, e non lo dico in un senso ambiguo, sono
davvero innamorato di Ruriko! O, meglio, provo verso di lei un profondo
rispetto. Per proteggerla, così come nei tempi antichi i cavalieri, darei la
vita».
Nei giorni successivi, vista l’intimità raggiunta, le visite di Kawamura si
fecero più frequenti e anche la sua lingua si sciolse. Preso coraggio, si
lanciò man mano in discorsi molto privati.
«In realtà, sto pensando di chiedere la mano di una donna».
«Fate bene! E credo anche di capire a chi vi riferiate! Sono
assolutamente dalla vostra parte. Intendo appoggiare il vostro rapporto e,
per quanto possibile, vorrei contribuire alle spese per i festeggiamenti».
Alle mie parole, Kawamura perse il suo aspetto compito e ansimò di
gioia.
«Non so come ringraziarvi! Con voi come alleato, avrò la forza di cento
uomini dalla mia».
Mi afferrò la mano e la strinse compulsivamente, non stava più nella
pelle dalla felicità. Facendosi scudo di me, un ricco possidente
imparentato con gli Ōmuta, aveva occasione di tramutare i suoi desideri in
realtà.
Capitolo 19
Ora vi racconterò quanto accadde nella settimana che seguì la mia visita
alle terme Y. Dal momento che nonostante i numerosi inviti io non mi
presentavo da lei, spazientita, Ruriko venne a trovarmi una sera al mio
hotel con al soldo Kawamura.
Vedendo il suo volto da cagna infame, fui percorso da brividi d’ira. Ma
per colpire nel segno un’adultera tale, il segreto era mantenere i nervi saldi
e farla spazientire (del resto, di chi era la colpa se il giovane rampollo di
un casato di daimyō si era ridotto a vedere le cose in quel modo?). Come
immaginavo, lei perse la pazienza e, incapace di attendere ulteriormente,
si infilò da sola nella mia rete.
Li attendevo nella sala degli ospiti splendidamente addobbata. Mandò
avanti Kawamura, che indossava un abito su misura appena confezionato.
Solo dopo anche lei, la mia adorata moglie, fece il suo ingresso silenziosa.
Una volta che Kawamura la introdusse, lei mi porse una profonda
riverenza.
Il kimono che indossava lo conoscevo bene e ne apprezzavo il decoro.
Era carica di brillanti sul capo e sulle dita, sulle gote aveva un trucco
leggero e sulle labbra del rossetto rosso. Che donna demoniaca! Aveva
assassinato il marito e ucciso la sua bambina appena nata: era di inaudita
malvagità. E quell’aspetto innocente? E quel visino? Altro che bella, lei
era sordida.
Per un attimo rabbrividii. Sarebbe davvero riuscito il mio odio ad avere
la meglio su quella fanciulla dal volto tanto amabile? Anche il cuore più
duro avrebbe vacillato di fronte a lei, una donna velenosa, e si sarebbe
sciolto come una caramella. “Non puoi farti vincere da un tale kitsune25.
Fatti forza! Non sei forse tu il prescelto dalla divinità della Vendetta?”,
ecco cosa mi ripetevo nella mente.
Armato di coraggio, ricambiai il saluto con il tono di voce che mi ero
allenato a produrre.
Ruriko, del resto, non ebbe il minimo sospetto che io fossi il suo
defunto marito. La barba e i capelli bianchi celavano i miei lineamenti ma,
soprattutto, avevo quei pesanti occhiali scuri a schermarmi gli occhi.
Neppure Ruriko aveva modo di discernere la verità.
Con calma, prendemmo posto sul sofà e sulle poltrone e, sorseggiando
del buon tè, portammo avanti lunghi e variegati discorsi.
Ruriko mi raccontò che i membri della famiglia Ōmuta si erano
presentati alla residenza e avevano organizzato una riunione per spartirsi
l’eredità. A seguito di ciò, a lei venivano unicamente riconosciuti il diritto
di vivere nella dépendance e un piccolo sussidio e siccome io ero
imparentato con i visconti, mi chiese di intervenire per darle man forte.
Come poteva rivelare a uno sconosciuto cose tanto private? Non sapeva
proprio cosa fosse il ritegno. Ma evidentemente, il mio prezioso regalo
aveva sortito l’effetto sperato.
Tuttavia, non mi convinceva che una donna avida quale Ruriko, per
quanto innamorata di un altro, avesse combinato un pasticcio e dato un
calcio alle fortune degli Ōmuta. Perché prima di farmi fuori non si era
preoccupata di mettere al mondo un erede? Di sicuro, una come lei aveva
calcolato anche quello.
In realtà, una bambina era nata, la figlia avuta in segreto con
Kawamura! Quei demoni l’avevano concepita durante il mio ricovero in
ospedale, ma poi neppure loro se l’erano sentita di fingere che fosse mia.
Allora ricorrendo all’assurdo escamotage delle pustole Ruriko aveva
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Allora, ricorrendo all assurdo escamotage delle pustole, Ruriko aveva
evitato il mio vigile sguardo e messo al mondo la bambina nella casa alle
terme Y. Subito dopo, avevano soppresso l’infante. Nonostante vi fossero
altre possibilità, gli adulteri avevano optato per ucciderla: privi di qualsiasi
affetto verso la propria creatura, si erano preoccupati solo di coprire i loro
crimini.
Benché venuta al mondo per un tragico errore, la bambina avrebbe
avuto la possibilità di diventare l’erede di una famiglia di visconti: ma
oltre all’eredità, era stata addirittura privata della vita. La punizione per i
misfatti di quei due, attraverso la mia terribile vendetta, sarebbe calata di
lì a poco.
Quindi, perché si era spinta a uccidermi ignorando le questioni relative
alla successione? Per chiarirmi quel dubbio atroce avrei dovuto attendere
ancora. Sebbene possedesse una mente diabolica, Ruriko era felice della
morte del visconte anche se le aveva apportato un grave danno facendole
perdere i diritti sull’eredità. Era molto scontenta di non poter mettere le
mani su quella fortuna e su tutto il resto.
Tuttavia, dal mio canto, ciò rappresentava un bene poiché i due adulteri
vivevano in uno stato di angoscia: e poi, il fatto che Ruriko non avesse più
diritti sul patrimonio degli Ōmuta costituì un’ulteriore chiave per il
successo del piano. Questo per l’ovvia ragione che, se lei avesse ereditato i
beni, il mio tentativo di sedurla con il denaro avrebbe avuto meno
mordente e non sarebbe forse caduta nella rete.
A parte ciò, dopo un po’ che chiacchieravamo si fecero quasi le otto di
sera: l’orario prestabilito si avvicinava. Con chi lo avessi stabilito, ebbene,
ora ve lo spiegherò.
Mi alzai facendo finta di andare in bagno e mi recai nella stanza
adiacente. Naturalmente, avevo riservato anche quella. Poi, chiusi la porta
e spiai dal buco della serratura e, pensando “ci siamo quasi, ci siamo
quasi”, attesi gli sviluppi della situazione.
Dopo un po’, forse incapace di starle lontano anche per un breve lasso
di tempo, Kawamura prese posto sul sofà accanto a Ruriko e le strinse la
mano.
«Dai, lasciami. Potrebbe tornare il signor Satomi da un momento
all’altro» gli disse Ruriko a voce bassa ma con aria non del tutto
infastidita.
«E che te ne importa? Tanto ormai lui ha già capito tutto! Dice anche
che siamo una bella coppia!» ribatté lui stringendole la mano e con
un’espressione sfrontata che non si addiceva al suo viso delicato. Stava
cominciando a ingelosirsi.
«Ma di che parli?».
Ruriko fece la finta tonta, al che Kawamura rivolse il volto verso la
porta da cui li spiavo.
«Lui è un gentiluomo e tu sei una donna avida… eh già, tu che in
passato ti innamorasti del visconte, adesso potresti benissimo innamorarti
del signor Satomi, che per giunta è molto più ricco di lui… anche se è un
vecchio, costituisce per me un rischio! Una donna vanitosa come te, ora
starà di sicuro tribolando».
Ma che parole terribili! E quello era tra i migliori gentiluomini della
società di S? Non mi sembrava un modo di esprimersi coerente con tale
immagine.
«Ma cosa dici! E poi lui è un misogino, non è vero? Smettila di dubitare
ingiustamente di me».
Abbozzò il gesto di un buffetto e poi sfoggiò uno dei suoi ammalianti
sorrisi.
All’improvviso, però, l’interno della stanza si fece buio.
«Che succede?» fece Ruriko con un grido smorzato.
«Sembra sia andata via la luce…» rispose Kawamura.
Hehe, ma quale black-out! Era opera del mio fedele segretario speciale
Shimura: introdottosi furtivamente nella cabina elettrica dell’hotel, aveva
spento l’interruttore come concordato. Avevamo provocato un black-out
solo all’Hotel S, ecco cosa intendevo poco fa con “orario prestabilito”.
Di gran fretta, mi avvicinai al piccolo dispositivo che avevo predisposto
in un angolo della sala. Dopo poco, dalla stanza accanto, percepii il grido
di una donna. Era Ruriko!
E come mai gridava?
Be’, una ragione la aveva, nella stanza avvolta dal buio era apparsa
all’improvviso una creatura soprannaturale! Nell’oscurità, leggere, si
delinearono man mano due entità dai contorni confusi che, subito dopo,
mutarono in qualcosa di ben più spaventoso. In quel momento nella
stanza degli ospiti galleggiavano due occhi giganti, ciascuno della
grandezza di circa mezzo tatami, che puntavano gli adulteri incutendo
loro terrore.
Ruriko e Kawamura avranno di sicuro pensato a un’allucinazione.
Eppure, era strano che non svanisse. Inoltre, per loro non era la prima
volta che vedevano quegli occhi. Più li osservavano, più avevano
l’impressione che somigliassero a quelli di una persona un tempo vissuta.
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l impressione che somigliassero a quelli di una persona un tempo vissuta.
In effetti, sembravano proprio gli occhi del defunto visconte! Erano cento
volte più grandi del normale e fluttuavano nell’oscurità di fronte agli
adulteri squadrandoli con stizza.
Anche una serpe come Ruriko, realizzata la situazione, per la paura non
riuscì a trattenere un grido e si strinse a Kawamura. Questi, dal canto suo,
era sul punto di mettersi a urlare da un secondo all’altro e, con lo sguardo
puntato sugli occhi giganti, colava sudore freddo dalle ascelle e dalla
fronte.
Io, quantomeno, mi immaginai una scena del genere poiché non vi
potei assistere in prima persona. Certo i miei occhi, mille volte più grandi
del normale, erano lì di fronte a loro ma si trattava di una proiezione. Io
fisicamente mi trovavo nella stanza attigua dove avevo predisposto la
lanterna magica: mi ero sfilato gli occhiali e avevo infilato il viso
nell’apparecchio in cui era piazzata una lampadina da mille watt collegata
al filo elettrico esterno. Avevo esposto gli occhi alla luce cercando di
resistere senza mai sbattere le palpebre e così avevo creato l’effetto dei
giganteschi occhi fantasma, che in realtà erano una proiezione sul muro a
opera della lanterna magica.
Conoscendo il trucco non ci si sorprende ma, all’epoca, quasi nessuno
aveva sentito parlare di questo oggetto. I due adulteri pensarono fosse
opera di un defunto o un’allucinazione causata da un disturbo mentale e,
non sapendo cosa fare, divennero prede della paura. Il piano riuscì quindi
oltre ogni aspettativa!
Al grido di Ruriko di colpo la luce tornò, quasi a far pensare che le due
cose fossero collegate tra loro. In realtà, Shimura riattivò l’interruttore
della cabina elettrica dopo un tempo prestabilito.
Tornata la luce, aprii la porta con noncuranza e rientrai nella sala.
«Allora, è successo qualcosa?».
Nonostante fosse tutto calcolato, l’incredibile risultato ottenuto mi
spinse a porre loro quella domanda.
Sia Ruriko sia Kawamura, con l’espressione di chi aveva appena visto
un fantasma, si guardavano intorno con occhi assenti e impauriti. Avevano
i volti imperlati di sudore, le labbra secche e, a giudicarli dal colorito, loro
stessi sembravano fantasmi.
«No… no. Non è successo nulla. All’improvviso è mancata la corrente e
ci siamo solo un po’ spaventati» fece Kawamura imbarazzato e poi si
passò la lingua sulle labbra.
Haha! Gioia e tripudio! Con delle semplici mosse, avevo ottenuto un
tale successo! E allora, quando avrei giocato le altre mie carte, cosa
sarebbe accaduto? Avevo ottime aspettative! Bene, era di nuovo tempo di
mettersi all’opera.
Capitolo 20
Era giunto il momento di aprire il sipario sulla prima parte del piano, e
così un giorno scrissi il seguente biglietto per invitare tre persone al mio
hotel.
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Kawamura, dal canto suo, sbiancò mentre scrutava in modo particolare
un oggetto del toko no ma29. Aveva le sue ragioni per farlo, poiché si
trattava di una scatola in legno di paulonia nuova di zecca che contrastava
con l’aria vetusta della stanza.
Anche il dottor Sumida si accorse del dettaglio e chiese: «Di che si
tratta? Non mi pare sia una scatola per gli oggetti per la cerimonia del tè e
neppure per le bambole. Ha l’aria di essere un oggetto con un preciso
significato».
«Un “preciso significato”? Eh sì, è un oggetto che nasconde un terribile
significato» risposi con fare vago.
«Il tutto assomiglia sempre di più a una storia di fantasmi! Vi prego,
mostrateci la scatola!».
Nonostante le sue parole ostentassero spavalderia, la schiena del
medico era percorsa dai brividi.
«Va bene, ma dovete attendere ancora un po’. Vi è un racconto legato
all’oggetto. E, vedete, si tratta proprio di una storia di fantasmi. Sono
eventi tanto terribili che riesce difficile crederli reali. Ecco, osservate quel
tatami. Vedete la macchia scura? Cos’è secondo voi?» proseguii nel
racconto con un fare da declamatore.
«È vero, si intravede appena, ma sembra il segno lasciato da qualche
liquido colato lì sopra. Se fosse una macchia di sangue, allora ci
troveremmo proprio all’interno di una storia di fantasmi!». Il dottor
Sumida ormai si rispondeva da solo. Gli altri due invece combattevano
strenuamente con l’ansia e non avevano la forza di pronunciare neppure
una parola.
«Eppure, pare proprio una macchia di sangue!» feci io secco.
«Sangue, ecco, è davvero sangue…». Il dottor Sumida, nonostante fosse
un medico, rimase sbigottito come avrebbe fatto un banale commerciante.
«Finiti i lavori di restauro della casa, ho chiesto a Shimura di
provvedere a sistemare il giardino. Lui ha molti talenti e se la cava bene
anche con il giardinaggio. Ha smosso la terra per piantare un nuovo acero
e, scavando alla base del vecchio albero, ha fatto una sorprendente
scoperta. Eccolo lì, sto parlando dell’acero laggiù!».
Aprii gli shoji e mostrai loro il giardino. Nel centro, svettava un acero.
Era l’albero alla cui base io stesso avevo scavato e avuto la peculiare
conversazione con Toyo, l’anziana servitrice.
«E, secondo voi, cosa ci ha trovato? Signori, vi prego di non
spaventarvi. Dentro una scatola sepolta sotto l’acero era conservato il
cadavere di una neonata. Qualcuno evidentemente si è introdotto in
questa proprietà quando non c’era nessuno e deve aver lasciato lì la
bambina morta. Forse si trattava di una figlia illegittima che non si poteva
lasciare in vita. Magari i suoi genitori l’hanno uccisa subito dopo averla
messo al mondo. Quindi, se le cose stanno così, la macchia scura sul
tatami, be’, qualche sospetto sulla sua natura mi sovviene… e a voi?».
Nessuno rispose. Nella penombra della stanza, i volti dei tre
impallidirono e sembrarono diventare loro stessi dei fantasmi. Ruriko e
Kawamura avevano raggiunto l’apice del terrore, ma ascoltato il racconto
anche il medico aveva sicuramente ricollegato ogni cosa.
Naturalmente, nessuno poteva immaginare che io avessi accennato a
quella storia con un preciso scopo. Avranno pensato che avevo forse
scoperto tutto per una coincidenza. E, per me, era la cosa migliore! Se
avessero saputo la verità gli adulteri sarebbero sicuramente morti sul
colpo per lo sgomento.
«E del corpo della bambina che ne è stato? Vi siete rivolto alle
autorità?».
Alla fine il silenzio fu rotto dalla domanda carica di ansia del dottor
Sumida.
«No, se lo avessi fatto, sarebbe stata solo una sciocca ripicca verso la
madre della bambina, un gesto inutile. Forse la donna, compreso il
proprio atto, in futuro starà bene attenta a non mettere al mondo altri figli
illegittimi».
Ma Ruriko, lei non aveva alcun motivo di stare tranquilla! In realtà, non
mi ero rivolto alle autorità solo perché la vendetta che potevo prendermi
attraverso la Legge era nulla a confronto con il piano architettato dal mio
cuore colmo di tristezza e dolore.
«Ma la bambina? Che fine ha fatto?».
Per la prima volta Kawamura spiccicò parola, non riusciva più a
contenersi. La sua voce era spezzata dai brividi che lo percorrevano.
«Eh, sapete, capitano tante cose assurde! Sa, la bambina è rimasta
esattamente com’era alla sua nascita, non si è decomposta neanche un po’.
È morta, ma le sue condizioni sono le medesime del momento in cui è
nata, come se dormisse dentro la scatola. È l’ossessione a fare ciò…
l’ossessione di una piccola creatura che vuole vivere a ogni costo…
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l’ossessione di un marito ingannato da una coppia di adulteri. Che
orrore!».
«Ma della bambina poi che ne è stato?».
Kawamura replicò la medesima domanda, rivolgendo le sue parole al
cielo.
«Ecco, osservatela, è qui…».
Mi avvicinai lesto al toko no ma, scoperchiai la scatola e ne estrassi un
grande vaso di vetro che posai di fronte ai miei ospiti.
In quell’istante si udì un grottesco gemito e Ruriko, divenuta bianca
come un foglio di carta e con gli occhi sbarrati, svenne tra le braccia di
Kawamura. Anche una infida come lei, di fronte a un orrore del genere
aveva perso le forze ed era caduta priva di sensi.
Dal vaso di vetro, con gli arti raggomitolati, il volto solcato da rughe e
la pelle dalla colorazione grigiastra, un’infante ci fissava con i suoi occhi
bianchi.
Capitolo 22
Il Buddha dorato
Un amore misterioso
I tredici uomini
La sera del vostro rientro, fratello mio, intendo organizzare per voi un
banchetto e molte personalità di spicco di S, tra cui il signor T e il
signor K, già hanno espresso in merito parere favorevole.
Pertanto, verrò a prendervi con una macchina direttamente in stazione
per condurvi al luogo del ricevimento.
Il fatto che voi abbiate radunato in mio onore gli uomini più in vista di
S è per me un estremo onore e, come mi chiedete, vi attenderò alla
stazione ferroviaria.
Un vecchio dai capelli bianchi stava per prendere moglie! Avevano tutti
gli occhi di fuori dalla sorpresa. Poi, un applauso assordante.
«Allora, diteci di chi si tratta. Chi è la fortunata? Vi prego, non fateci
attendere ancora!».
Tutti esultavano e blateravano le stesse cose. Ma del resto, era così che
doveva andare. Io che passavo per misogino, di punto in bianco avevo
fatto un annuncio che nessuno si aspettava.
Prima di rivelare il nome della mia fidanzata, osservai bene il volto di
Kawamura. Lui, sconcertato, strabuzzava gli occhi e per lo stupore
appariva pallido in volto.
«La mia fidanzata non è una vergine! Ma è ben più pura di qualsiasi
vergine e possiede alti valori morali. E poi, più di ogni altra vergine, è
bella. Ma, detto ciò, forse già vi sarete fatti un’idea di chi sia. Nella nostra
S, oltre alla mia promessa, di donne tali non ve ne è neppure una».
Parlai con passione. Di quei gentiluomini dell’alta società, neppure uno
proferì parola. Sgomenti, continuavano a fissare il mio viso.
«Sì signori, è proprio come pensate. Si tratta della giovane vedova del
visconte Ōmuta Toshikiyo. Dal mio ritorno in città, ho intrattenuto
rapporti con la signora Ruriko e, in tal modo, i suoi sentimenti puri hanno
cambiato questo mio cuore in origine misogino. Ottenuto il consenso
degli Ōmuta, il ventuno di questo mese abbiamo deciso di celebrare le
nozze. Da parte mia, ho già iniziato a occuparmi dei preparativi».
Non avevo neppure finito di parlare che scrosciò una pioggia di
applausi e addirittura un coretto che faceva «evviva il vecchio Satomi!».
Tutti volevano stringermi la mano e le loro braccia si accalcavano verso di
me.
Eppure, io li ignorai e continuai a fissare il volto di Kawamura. Non
potevo fare a meno di osservarne l’espressione.
Il suo viso sbiancò per lo sgomento e il terrore, ma poi si fece subito
rosso come il fuoco per la rabbia. Infine, la sofferenza lo portò man mano
a divenire violaceo.
I suoi occhi brillavano di una strana luce e puntavano il mio volto. Io,
invece, al contrario della sua espressione eloquente, avevo un leggero
sorriso stampato sul viso e lo squadravo.
A un certo punto, le persone che fino a poco prima chiosavano allegre,
forse resesi conto della situazione, fecero calare nuovamente il silenzio in
sala e si concentrarono su me e Kawamura che ci scrutavamo con stizza.
«Signor Satomi, ciò che avete appena detto immagino sia solo uno
scherzo, giusto?».
«Quale scherzo?» risi divertito. «Haha! Ma cosa dite? Vi pare che
faccia scherzi del genere?».
«Ma allora…». Triste, Kawamura iniziò visibilmente a tremare.
«Allora cosa?» ripetei con indifferenza le sue parole continuando a
sorridere.
Kawamura non rispose e, serrando le labbra, si alzò di scatto dalla
sedia. Per qualche istante si guardò intorno trasognato, ma poi afferrò il
bicchiere da vino di fronte a sé e, all’improvviso, come un pazzo, me lo
lanciò contro.
Con un movimento del collo evitai l’oggetto, che si infranse contro il
muro alle mie spalle con un crash!
«Voi, maledetto!».
Emise un grido bestiale e, fissandomi con gli occhi iniettati di sangue,
montò sul tavolo e si scagliò contro di me.
f
g
«Ma cosa fate? Siete impazzito?».
I due gentiluomini accanto a lui lo afferrarono per le gambe e lo
tirarono giù dal tavolo. Tutti si alzarono in piedi e iniziarono a squadrare il
riottoso.
Circondato da sguardi ostili, Kawamura si sentì in imbarazzo e non
diede più in escandescenze. Ma il suo cuore continuava ad ardere di
rabbia e con il volto violaceo mi fissava impietrito.
«Ah miei cari, sono dolente che vi siate presi uno spavento!» dissi
ridendo e senza scompormi troppo.
«Evidentemente il nostro Kawamura ha preso un abbaglio. Non
potrebbe essere altrimenti! Non aveva motivo di aggredirmi, visto che
sono il protagonista della serata. Che succede, Kawamura? Ripagate
l’affetto con gesti ostili? Oppure, avete rimostranze da farmi? In tal caso,
sarò felice di ascoltarvi. Ma, comunque, non occorre trascendere…».
Kawamura rimase fermo in piedi, di sasso, e non replicò in alcun modo.
Durante quel silenzio anomalo continuammo a lanciarci a vicenda sguardi
di stizza. Dopo un po’, si voltò di scatto e, facendo rumore con la sedia, si
diresse verso la porta con atteggiamento minaccioso. Intendeva lasciare il
banchetto senza neppure salutare.
«Kawamura! Se avete bisogno di me mi potrete trovare nella mia casa
alle terme Y. Stasera mi fermerò lì» gli dissi mentre se ne andava.
Lui di sicuro aveva sentito le mie parole ma, senza neppure voltarsi, in
gran silenzio, sparì oltre la soglia.
Andato via Kawamura, tra gli ospiti della serata calò il silenzio. Venuto
meno uno dei festeggiati, ormai il banchetto non aveva più senso di essere.
Con indifferenza, provai ad aggiustare le cose distribuendo saluti in
giro e poi mi accomiatai. Gli altri allora, vista la situazione, senza dire
nulla, si salutarono in modo sbrigativo e tornarono alle loro case.
Capitolo 27
La trappola
La stanza dell’esecuzione
La strana promessa
Il collasso
Verso la tana
Alla fine, il preludio del piano di vendetta si era concluso con successo.
Ruriko ancora non sospettava nulla e inoltre aveva già sperimentato una
paura tale da svenire. Era la seconda volta che perdeva i sensi. Nonostante
avesse vissuto tale condizione ben due volte, non era riuscita ancora a
capire chi fossi io in realtà: ciò voleva dire che anche una donna demone
come lei di tanto in tanto cadeva in fallo. In ogni caso, il fatto che un
uomo sepolto in una cripta fosse tornato in vita con le sembianze di un
anziano dai capelli bianchi, be’, una tale agghiacciante realtà superava di
gran lunga la capacità immaginativa umana. Quindi, non si poteva dire
che fosse del tutto colpa sua.
Neanche a dirlo, anche il ricevimento di quella sera fu l’evento più
sfarzoso mai tenutosi a S e andò avanti senza intoppi. Io e Ruriko eravamo
esausti e, dalla sala per ricevimenti dell’hotel, facemmo ritorno alla mia
nuova casa.
L’aroma di alcolici aromatici, fragorose parole di felicitazioni, nastri
colorati messi a mo’ di tela di ragno, il frastuono penetrante della musica e
tutto quanto il resto non ci abbandonava ancora. Era come se fossimo
avvolti da una nuvola viola e volassimo in un cielo primaverile. Anzi, era
più che altro Ruriko ad avere un aspetto tale.
Una volta a casa, ci buttammo sul sofà vestiti così come eravamo e
prendemmo un tè. Poi, l’orologio a cucù segnò la mezzanotte.
«Non hai sonno?».
«È strano, non ho per niente sonno…» rispose Ruriko sorridendo con il
volto arrossato e rilucente.
«Bene, allora usciamo! Stasera ho delle cose da mostrarti».
«Dove andiamo? Cosa vuoi farmi vedere?».
«Ma come, te ne sei già dimenticata? Ti avevo promesso che una volta
sposati ti avrei mostrato ogni cosa. Le mie fortune, le mie pietre
preziose…».
«Ah, è vero! Sì, le voglio vedere! Dove sono? Dove le conservi?».
Eh sì, lei si era sposata con me, un vecchio decrepito, solo per avidità!
Era ovvio che volesse vedere il suo bottino.
«Ho il mio nascondiglio segreto. È un posto un po’ triste, hai coraggio
sufficiente per venire con me?».
«Certo, insieme a te andrei ovunque».
«Benissimo! Allora muoviamoci subito. In realtà, preferisco non
andarci di giorno per il rischio di essere notato da qualcuno. Per questo,
mi reco lì solo nottetempo».
Detto ciò, come due amanti in fuga, mano per la mano, uscimmo di
nascosto dalla porta posteriore.
«Si trova lontano?» fece Ruriko mentre ci affrettavamo a lasciarci alle
spalle la città, le cui luci erano ormai spente.
«No, non molto. Solo cinque o seicento metri. Ci possiamo arrivare a
piedi».
«Quindi è fuori dalla città! Dove siamo diretti?».
La mia casa era alle porte di S e, allontanandosi un po’ a piedi, ci si
ritrovava in una pianura desolata. Sul suo versante opposto, si ergeva un
piccolo rilievo montuoso illuminato dalla luce delle stelle.
«Stai zitta e seguimi. Non hai nulla da temere».
«Ma cosa hai in mano?».
«Delle candele e una chiave».
«Come delle candele? E perché le porti con te? Ne avremo bisogno?».
«Eh già, nel mio nascondiglio non c’è la corrente elettrica».
Mentre parlavo stringevo forte la mano di Ruriko e camminavo a passo
sostenuto. Il sentiero lungo la pianura era illuminato dalle stelle e in breve
arrivammo alla meta.
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«Io ho paura! Torniamo domani! Per favore!».
Ruriko era terrorizzata ed esitava ad avanzare mentre io, senza dire una
parola, la trascinavo lungo il sentiero di montagna. Per fortuna non gridò
e alla fine mi seguì spontaneamente.
«Ecco, siamo arrivati al mio nascondiglio».
Davanti a noi sorgeva una pesante porta di ferro nera. Era l’ingresso per
l’interno della montagna.
«Ma, caro, questa è una tomba! È la cripta degli Ōmuta!».
Finalmente se ne era accorta! E mentre parlava con tono alterato
cercava di liberarsi dalla stretta del mio braccio.
«Esatto, non è forse un magnifico forziere? Un ladro non penserebbe
mai che la mia fortuna sia nascosta qui. Non devi avere paura, l’interno è
molto confortevole. Io ci vengo spesso e la considero casa mia».
E, in effetti, quella era proprio casa mia. Era la sala parto in cui ero
venuto al mondo come demone dai capelli bianchi.
Mentre stringevo forte il suo braccio, Ruriko si era fatta piccola piccola
e tremava. Sentii chiaramente che le sue dita erano diventate fredde.
Eppure, non gridò mai, non aveva neppure la forza di scappare. Forse
aveva paura che se ci avesse provato, io sarei mutato in un terribile
demone e l’avrei presa a morsi. Nel buio, cercai la toppa della serratura e
aprii la porta arrugginita. Kiiiii, da quel buco nero spirò un vento gelido
che ci investì raggelandoci, sembrava il lamento di un morto. Era il vento
dell’aldilà.
Mentre ci addentravamo nella spelonca, Ruriko a un certo punto cercò
di svicolarsi ma io, privo di remora alcuna, trascinai quella debole donna
verso l’interno della cripta. Poi, richiusi la porta in ferro dietro di noi.
Ci ritrovammo al buio totale, per alcuni secondi non vedemmo nulla e
rimanemmo in piedi, zitti. In quel silenzio di morte, l’unica cosa che si
udiva era il poderoso ansimare di Ruriko.
«Ruriko, hai paura?» le sussurrai.
Ma lei sorprendentemente mi rispose con tono sicuro: «Eh, un po’ sì.
Ma tu mi stai tenendo la mano e io mi sento tranquilla. E poi tra poco
potrò vedere i tuoi tesori!».
«Sì, tra poco te li mostrerò, chissà come rimarrai sorpresa?».
«Non vedo l’ora! In questo luogo desolato e agghiacciante, mi sembra
quasi impossibile che si nasconda un tesoro!».
«Aspetta, ora accendo le candele!».
Strofinai un fiammifero e accesi le candele che avevo portato con me.
Poi, le sistemai sul candelabro antico in stile occidentale.
Capitolo 33
Le tre bare
Priva di sensi e con ancora indosso l’abito nuziale, adagiai Ruriko sopra la
bara contenente i gioielli e, mentre le sfioravo leggero il petto, attesi fino a
che non riprese coscienza. Del resto, se l’avessi lasciata morire in quel
modo, non avrei portato a compimento il mio obiettivo.
Armatomi di pazienza attesi e, dopo un po’, i suoi occhi si schiusero.
Guardava fisso verso di me ma, ormai, non aveva visibilmente più forza né
per gridare né per tentare una fuga.
Allora, con calma, passai circa un’ora a elencarle tutti i suoi misfatti, la
accusai di essere anaffettiva, parlai di come ero tornato in vita, delle
sofferenze vissute nei cinque giorni di reclusione nella tomba, di come mi
fossi trasformato in un demone vendicatore e della mia strategia per
avvicinare lei e il suo lurido amante. Sì, le raccontai tutto nei dettagli. In
particolare, calcai la mano sulla parte riguardante l’omicidio di
Kawamura, su quanto lui avesse sofferto, facendo così sussultare Ruriko.
Durante la seconda metà del racconto, disperata, non smise mai di
piangere. E sulle dolci gote impallidite per lo sgomento scorrevano
copiose lacrime.
Finito di raccontarle tutto, continuò a piangere per un po’ ma, dopo
poco, scrollò via le lacrime con la punta delle dita, si accomodò sopra un
feretro e, con il volto ancora gonfio di pianto, si rivolse a me.
«È un racconto davvero orribile! Io non so davvero come scusarmi.
Tuttavia, sei caduto in errore. Non dico certo che la mia relazione con
Kawamura fosse un’invenzione ma di sicuro non sono stata io a ucciderti,
non riuscirei mai a fare una cosa del genere. L’architetto della tua morte è
solo lui! Io non ero al corrente di nulla».
«Tu, però, non ti sei certo rattristata per la mia misteriosa dipartita. Le
parole di felicitazione che vi siete scambiati le ho sentite bene!».
«Ma io mi sono solo lasciata tentare da lui! Mi ha ingannata. Ogni
giorno, non facevo che pensare a te, marito mio. A pensarci bene, il mio
cuore ti è sempre rimasto legato. A prova di ciò, quando ti sei presentato
sotto mentite spoglie, non ho forse accettato la tua proposta di
matrimonio? Ho lasciato Kawamura per abbandonarmi al tuo abbraccio o
sbaglio? Perché altrimenti una giovane donna come me sceglierebbe di
amare un uomo anziano con i capelli bianchi? È un terribile destino a
legarci. Una parte del mio cuore ti aveva riconosciuto fin dal primo
momento. Solo perché si trattava di te, ho deciso di legarmi a un uomo
così avanti con l’età.
Tu non puoi neanche comprendere la mia reale felicità. Ho ritrovato il
marito creduto morto e per di più – senza neppure saperlo – lo ho
addirittura risposato. A noi una volta sola non è bastata, ci siamo sposati
addirittura una seconda! Chi è più felice di noi?
Caro, prova a ripensare come ero un tempo. Anche oggi, dentro di me
batte lo stesso cuore puro di allora. La mia pelle è bella. E poi, a te piace
tanto farmi il bagno. Ah, quante volte me lo hai fatto fare! Ami giocare
con il mio corpo come se fosse un giocattolo di tua esclusiva proprietà.
Marito mio, fai di me la tua schiava! Farò tutto ciò che mi ordinerai.
Ma ti prego, abbi pietà! Ti scongiuro, torna ad amarmi come un tempo.
Ascoltami, per favore. Per favore…».
Gonfio di pianto, il suo volto appariva ancora più bello che mai e,
sfoggiando un sorriso infingardo denso di malia, tentava di sedurmi con le
parole. Ma non solo, non esitò neppure a usare il suo splendido corpo
nella speranza di riconquistare il mio cuore.
Lì, ci trovavamo in una cripta desolata e lontani da tutto. C’eravamo
solo noi due, uno di fronte all’altra. Volendo, avrebbe potuto tentare di
tutto.
h f d d ll k
Che comportamento sfacciato! Adesso, a un passo dalla morte, Ruriko
aveva smesso di curarsi del pudore e della reputazione. Si strappò
l’immacolato abito nuziale di dosso e, lì di fronte a me, diede pieno
sfoggio della sua candida pelle.
Un candido fiore di pesco era sbocciato in mezzo all’oscurità. E poi,
pian piano aveva preso a muoversi sinuoso emettendo il proprio fascino
sensuale.
Iniziai a sudare freddo e a battere i denti in risposta a quella bellezza
mozzafiato.
«È tutto inutile! Per quanto tu possa impegnarti, ormai nel mio cuore
non vi è più alcun sentimento umano. Non sono più umano, ma solo un
demone risalito dal fondo dell’Inferno, nessuna distrazione mondana è
ormai di mio interesse. Tutto ciò che bramo è la vendetta! E per quanto tu
possa implorarmi, niente puoi fare per sovvertire questo stato di cose. Ho
un piano da concludere e nessuno mi può fermare».
Pronunciai quelle parole rimanendo immobile, senza muovere neppure
un muscolo del volto.
«Ebbene, cosa vuoi da me?».
«Che tu patisca le stesse mie pene. Occhio per occhio, dente per dente!
Questa è la mia sentenza!».
«Quindi…».
«Esatto, ti tumulerò viva qui. Quella bara è colma dei tuoi tanto amati
gioielli, una immensa fortuna vi è racchiusa. Tu e quel tesoro non
assaporerete mai più la brezza del mondo esterno. Il dolore da me vissuto,
per mano mia, adesso diverrà tuo! Vedi, nell’altra bara, giace il tuo
amante. E con lui, la vostra neonata. Ma di loro, a te sicuramente importa
ben poco. Adesso, come una vera famiglia, potrete riposare tutti e tre
nella stessa tomba».
«Ah, maledetto! Tu sei il vero assassino! Un mostro senza pietà!».
Inaspettatamente, dalla bocca di Ruriko fuoriuscirono parole empie.
«Via, levati di lì! Voglio uscire! E lo farò, anche a costo di ucciderti!
Vigliacco, mostro!».
Mentre vomitava insulti, Ruriko prese la rincorsa e si gettò a capofitto
su di me. Le sue unghie affilate penetrarono nella mia carne. Come riuscì
una ragazza tanto fragile a trovare quella forza? Anche oggi continuo a
chiedermelo. Si aggrappò a me con tutta l’energia che aveva, fino a farmi
rovinare per terra. Poi, con uno scatto, mi scavalcò nel tentativo di
guadagnare l’uscita.
Afferrai con forza le sue caviglie.
Aggrovigliati sul pavimento, iniziò la nostra oscena lotta. Un uomo
anziano in frac e una bellissima ragazza seminuda che si accapigliavano.
Ruriko emetteva suoni simili a una bestia, mi mordeva, graffiava con le
unghie, aveva la carica impazzita di un animale che fronteggia la morte.
Due masse di colori diversi, una nera e una bianca, si rotolavano sul
pavimento della grotta come esseri soprannaturali.
Tuttavia, per quanto lo scontro fosse acceso, lei non aveva alcuna
possibilità di tenermi testa. Spossata, era ormai divenuta una massa di
carne bianca inerme.
Provai a guardarla meglio, col dubbio che fosse morta, eppure era viva.
Anche il suo respiro, per quanto debole, era ancora presente.
«Bene, è giunto il momento di separarci. Rimarrai chiusa qui per
l’eternità. Così proverai le stesse sofferenze da me patite, avrai tutto il
tempo per gustarne il sapore!».
Le lanciai quelle parole mentre mi affrettavo verso l’uscita della cripta.
Chiusi la pesante porta di ferro e girai la chiave nella serratura. Il
passaggio che utilizzai io tempo addietro per fuggire, quello nascosto nel
fondo della bara, lo avevo bloccato con un masso. Ruriko non aveva più
alcun modo per uscire.
La mia vendetta era finalmente compiuta. Tutto ciò che dovevo fare da
lì in poi era fuggire in qualche lontana località. I soldi per la mia vecchiaia
li avevo già messi da parte.
Alzai lo sguardo al cielo, era cosparso da una miriade di stelle. Un
venticello scuro sfiorò leggero le mie gote calde per poi dileguarsi
nell’aria.
A un certo punto, come apparsa dal nulla, giunse al mio orecchio una
dolce ninna nanna. Fui percorso da un brivido, ma rimasi lì ad ascoltare.
Quel canto proveniva da dentro la caverna.
“Che strano! Ruriko, tumulata viva, non dovrebbe starsene a
canticchiare” pensai e, incuriosito, estrassi nuovamente la chiave, feci
scattare il lucchetto e aprii la porta quel tanto che bastava per sbirciare
all’interno. La scena che mi si parò di fronte era raccapricciante.
Seminuda, Ruriko stringeva fra le braccia il cadavere in putrefazione
della figlia e, con un sorriso tremulo, la cullava, le faceva fare il vola vola e
muovere passi qua e là.
Si riempiva la mano destra di gioielli e li faceva ricadere a pioggia sui
capelli arruffati e sul petto della neonata. Era come una bambina che
giocava con la sabbia.
l d h l h b ll d
«Piccola mia, guarda che meraviglia! Che belli! La mamma adesso è
una regina. Tutte queste gemme sono sue! Guarda che belle!».
Continuava a delirare mentre, incessante, cantava la sua ninna nanna.
Era una voce tanto bella da lasciare a bocca aperta e intonava un canto
così soave…
Rimasi lì ammaliato per un lungo, lungo tempo, rapito da quella
grottesca immagine.
Il mio agghiacciante racconto si conclude qui.
Del resto, le vicende riguardanti l’arresto e la mia prigionia le conoscete
anche meglio di me…
Ho subito il male e con il male ho risposto. La vendetta ha per me
rappresentato un piacere. Del male patito per mano di Ruriko e
Kawamura, adesso ho pareggiato il conto, in tutto e per tutto. Però
rimaneva il male commesso da me: anche quel conto andava saldato.
Comunque, ci hanno già pensato i poliziotti: mi hanno arrestato proprio
mentre stavo per fuggire lontano e da quel momento ho trascorso diversi
anni in prigione.
Oggi come oggi, ecco ciò che penso delle azioni da me commesse.
Ho goduto eccessivamente della vendetta. Sono io, il malvagio. Sia
Ruriko sia Kawamura non meritavano un destino tanto orribile. A dire la
verità, provo pena per loro. E anche io, agendo così, ho solo sprecato
tante forze inutilmente.
Lunghi anni di prigionia mi hanno trasformato in un uomo mite, miei
cari signori.
Postfazione
Il demone dai capelli bianchi
(1932) di Edogawa Ranpo: una vendetta iniziata in
Inghilterra e terminata in Giappone
Postfazione
1. Per altri dettagli in lingua inglese si rimanda a Jacobowitz (2008), pp.
157-171.
2. Trattandosi di un’opera considerata “minore”, i principali studi
specifici in merito appartengono a tempi piuttosto recenti. Oltre al saggio
di uchi, si segnalano le osservazioni contenute in Fujii (2004), in
particolare le pp. 80-110, e lo studio comparato tra la riscrittura di Ruikō
e quella di Ranpo contenuto in Hori (2008). Per un saggio in lingua
italiana si rimanda a Cucinelli (2019a).
3. Uno tra questi è La torre dei fantasmi (Yureito, 1900), l’adattamento
di Ruikō di A Woman in Grey (1898) di Alice Muriel Williamson (1869-
1933), di cui Ranpo realizza una riscrittura omonima nel 1937.
4. Viene pubblicato tra il 1901 e il 1902 con il titolo Il re della spelonca
(Gankutsuo).
5. Nel 1912, la casa cinematografica Nikkatsu produce un film muto dal
titolo Il demone dai capelli bianchi (Hakuhatsuki). A più di cinquant’anni
di distanza, nel 1978, invece, la serie tv Domenica di terrore (Nichiyo
kyofu) ne propone una versione dalle caratteristiche uniche, in cui il
protagonista non si ridesta da uno stato di morte apparente bensì riappare
sotto forma di spirito vendicatore.
6. Per approfondimenti a riguardo si rimanda a Cucinelli (2019b).
7. I “racconti giudiziari” rappresentano un filone letterario che tratta di
crimini e tribunali, ma la soluzione del caso e i ruoli dei protagonisti sono
esplicitati già nell’incipit. Per un approfondimento si rimanda a Orsi
(1976) e Saitō (2012).
8. Per una traduzione in lingua italiana dell’opera si veda Ranpo (1994).
Bibliografia
Postfazione
di Diego Cucinelli
Note
Bibliografia