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Titolo originale: Hakuhatsuki

Traduzione dal giapponese di Diego Cucinelli

In copertina: Utagawa Kuniyoshi, Sotoku invoking a Thunder Storm


Cover design: Ifix
Cover layout: Bruno Apostoli

I edizione: luglio 2020


© 2020 Lit Edizioni s.a.s.
eISBN: 9788892760202
Tutti i diritti riservati
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ristampa anno

7654321 2020 2021 2022 2023


Edogawa Ranpo

IL DEMONE DAI CAPELLI BIANCHI

A cura di Diego Cucinelli


Capitolo 1

Una strana premessa

In questo momento, di fronte a me, quel brav’uomo del professore del


carcere attende sornione l’inizio della mia lunga storia. Di fianco, invece,
un abile stenografo è intento a temperare la matita, pronto a scattare al
primo movimento delle mie labbra.
Su consiglio del professore, ogni giorno, poco alla volta, ho deciso di
raccontare le singolari vicende della mia vita. Lui fa stenografare le mie
parole, con l’idea un giorno di pubblicarne un libro. Anch’io lo voglio,
perché si tratta di un racconto tanto assurdo che nessuno, neppure in
sogno, potrebbe mai vivere similare esperienza. Tuttavia, limitarsi a
definirlo “assurdo” sarebbe riduttivo. Chi lo leggerà, infatti, potrà trarne
un valido esempio di premiazione del bene e punizione del male1.
Sebbene la mia vita nella sua prima metà sia trascorsa serena come la
primavera, all’improvviso – e di casi uguali non si trova traccia nella storia
– a seguito di terribili eventi, è stata troncata di netto. Sono divenuto
allora un demone dai capelli bianchi e, strisciando, sono risalito fin qui dal
fondo dell’Inferno, prigioniero di un’ossessione serpentina che per quanto
mi dimenassi non mi abbandonava. E poi, ho ucciso. Sì, sono uno spietato
assassino!
Naturalmente, la mano della giustizia mi ha afferrato e rinchiuso in
prigione. Il processo si sarebbe dovuto concludere con la mia condanna a
morte e, invece, ottenuta una riduzione di pena, la sentenza si è risolta con
i lavori forzati a vita. Sono scampato al patibolo ma, al suo posto, per
lunghi anni i miei buoni sentimenti hanno dilaniato pezzo per pezzo il mio
corpo. Non mi resta più molto da vivere, questo racconto va fatto adesso!
Comunque, prima di parlarvi di me, vanno messe in chiaro due o tre
cose. Forse risulterà un po’ noioso ma, vedete, trattandosi di elementi
strettamente legati al mio racconto, vi chiedo di essere pazienti e prestare
attenzione fino alla fine.
Innanzitutto, vorrei raccontarvi dei miei natali. Anche se alla luce delle
mie attuali condizioni non lo si direbbe, in realtà, provengo da una
famiglia di daimyō2. Non si tratta certo di una delle più note ma, sentendo
il nome, in molti se ne ricorderanno. La piccola casata feudale da cui
discendo estendeva la propria influenza su più di centomila unità nell’area
della città S, sulla costa occidentale del Kyushu. Il mio cognome, ecco…
rivelarlo in queste circostanze costituisce per me una terribile vergogna e
mi fa sentire in colpa nei confronti dei miei antenati. Tuttavia, ve lo dirò,
mi chiamo Ōmuta Toshikiyo. I titoli nobiliari non contano ormai nulla, ma
la mia è una famiglia di visconti. Eh già, fatevi pure tutti una bella risata,
sono un visconte assassino!
Non si ha certezza se, da un punto di vista antropologico, i miei avi
appartenessero alla stirpe di Yamato o, invece, a una inferiore. Dopo
profonde riflessioni, rimango attanagliato dal dubbio che nelle vene della
mia famiglia scorra sangue diverso da quello di voi giapponesi. Parlo così
in quanto, stando a ciò che ho visto e sentito, sia mio nonno sia mio padre
– e così io – erano uomini ostinati e rancorosi, capaci di andare in collera
per un nonnulla. Quando ogni cosa sembrava ormai acqua passata, quei
due mettevano a segno una spietata vendetta. Niente da dire, persone
dall’animo davvero crudele. «Occhio per occhio, dente per dente!»
bisbigliava il loro cuore vendicativo come un serpente.
Tuttavia, essendo vissuti prima della Restaurazione Meiji, questa
caratteristica non ha costituito in alcun modo un problema per loro, in
quanto al tempo era pratica comune farsi giustizia da soli. Per me invece,
un uomo dell’era Meiji, ha rappresentato una tremenda disgrazia poiché al
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un uomo dell era Meiji, ha rappresentato una tremenda disgra ia poiché al
di là di appellarsi al potere indiretto della Legge, ogni vendetta privata
non veniva più tollerata3.
Disgrazia o no, tengo a sottolineare la mia appartenenza a tale stirpe di
uomini rancorosi e serpentini, vi chiedo di tenerlo sempre a mente.
In seconda battuta, vorrei altresì che aveste ben presente la particolare
struttura della mia tomba di famiglia. La pratica più comune tra la gente
del luogo è seppellire i morti sottoterra, ma il mio nobile casato – sia nella
ritualità funebre sia nella forma scelta per il luogo destinato a ospitare le
salme dei defunti – si distingue completamente. Riflettendoci, è possibile
che secoli fa i miei antenati si siano ispirati alla struttura dei cimiteri
occidentali appresa dagli europei giunti a S da Spagna e Olanda. Ecco,
credo sia questa la spiegazione più probabile…
La tomba, una stanza di circa venti tatami4 ottenuta scavando l’interno
di una montagna nei pressi della città, è realizzata in mattoni di pietra
ricoperti da uno strato di stucco e le bare dei miei avi giacciono in
bell’ordine. L’entrata è protetta da una spessa porta in ferro dotata di un
pesante lucchetto e al di là di occasioni particolari quali i funerali, quindi
forse solo una volta ogni dieci o venti anni, di norma non viene aperta.
Con ogni probabilità, il sepolcro è stato pensato così per garantire una
migliore conservazione delle salme affinché il legame tra le generazioni
della famiglia si perpetui nel tempo.
I locali la chiamano “Tomba dei Signori” ed è un luogo piuttosto noto.
Ho ancora un’altra cosa da dirvi prima di iniziare il mio racconto.
Forse, trattandosi di un fatto risalente ad almeno vent’anni fa, per larga
parte lo avrete dimenticato ma, nello stesso periodo in cui è iniziata la
terribile trasformazione che ha sconvolto la mia vita, giravano voci circa
una nutrita banda di pirati cinesi insediati tra le isole e le coste del Mar
Giallo. Anche i giornali di Tokyo ne parlarono! Tra voi, quelli dotati di
memoria migliore di sicuro li ricorderanno. Il loro capo si chiamava
Shuryōkei, un omone imponente e tetro con una barba alla Kan’u5. Una
volta, addirittura, ci ho scambiato qualche parola. Eh sì, lo ho conosciuto
per davvero. Era un pirata misterioso, al comando di un grande veliero e
con decine di uomini al seguito; in pochi anni, prendendosi ben bene
beffe delle autorità giapponesi e cinesi, ha accumulato ricchezze immense.
Inoltre, Shuryōkei occupa un ruolo determinante nel mio racconto: potrei
quasi dire che, senza di lui, nulla sarebbe forse mai accaduto.
“Ma come?! Pirati, al giorno d’oggi?!” starete di sicuro pensando.
Alcuni di voi non credono alla loro esistenza e quindi tengo a precisarlo: i
pirati ci sono eccome. Secondo alcune voci, uno o due anni fa dei
giapponesi hanno depredato una nave russa nei mari settentrionali e in
seguito sono stati arrestati. Shuryokei, all’epoca, era un pirata non meno
famoso di quei giapponesi. I tesori da lui accumulati erano immensi e
facevano gola addirittura ai ricchi signori cinesi.
Be’, la premessa è stata lunga e forse vi ho annoiato. Tuttavia d’ora in
avanti, a ritmo serrato, mi concentrerò sul mio agghiacciante racconto.
Capitolo 2

Il Paradiso

Fino al momento in cui tutto ebbe inizio, una persona felice come me
neppure esisteva, ve lo assicuro.
Al centro di S svetta ancora la dimora dei miei avi, ma non è lì che sono
nato. La Restaurazione Meiji sopraggiunse durante la reggenza di mio
padre e, quando egli ottenne il titolo di visconte, in cima a un’altura da cui
si gode una magnifica vista del porto, fece edificare una grandiosa
residenza per la nostra famiglia. Oggi la dimora è amministrata da alcuni
lontani parenti ma, ogni volta che ripenso alla mia infanzia lì, si alza un
leggero alito di vento primaverile e vengo colto da una tremenda
nostalgia.
Mia madre morì subito dopo avermi dato alla luce e io fui affidato agli
insegnamenti di mio padre. Quando anche questi venne a mancare, mi
ritrovai orfano a soli diciassette anni e proprietario dell’immensa fortuna
di una famiglia benestante.
Di soldi ne possedevo a palate, i miei genitori erano morti e di fratelli
non ne avevo. Insomma, ero totalmente libero da legami ma non volevo
fare la fine di tutti i figli di ricchi miei pari, ovvero abbandonarmi a una
vita di dissolutezze. Sarà forse stato per i severi insegnamenti di mio
padre, ma a pensarci bene ero davvero un adolescente con la testa sulle
spalle.
Affidai la casa a un vecchio amico di famiglia in cui riponevo piena
fiducia e, dai venti ai ventotto anni, mi trasferii a Tokyo per la mia
formazione universitaria. Non scorderò mai la felicità di quel periodo.
Conobbi anche un ragazzo, bello e intelligente: io ero iscritto al
Dipartimento di Filosofia dell’università, mentre lui frequentava il corso
di pittura occidentale della Scuola d’Arte. Tuttavia, abitando vicini, il caso
volle che diventassimo amici. Eravamo tanto in confidenza da non riuscire
a stare separati l’uno dall’altro, quasi come due innamorati.
Si chiamava Kawamura Yoshio e aveva tre anni meno di me ma,
cresciuto in una famiglia umile, dimostrava con le persone una
dimestichezza ben superiore alla mia nonostante fossi io il “fratello
maggiore”. Anche nell’aspetto, lui era tanto bello che un confronto tra noi
non mi sembrava neppure pensabile…
Dopo il diploma, tornai a S e proposi a Kawamura di venire con me.
Aveva concluso la scuola ma vivere di arte non era affatto semplice e, visto
che il suo unico desiderio consisteva nel continuare a esercitarsi nella
pittura, non aveva necessità di rimanere a Tokyo. Al contrario, cosa
meglio dei panorami offerti dalle coste del Kyushu? Avrebbe avuto modo
di abbandonarsi sereno al flusso del pennello; fui io stesso a consigliarlo
amorevolmente in tal senso. Senza indugiare, acquistai per lui lo studio di
un pittore straniero che era passato da me a propormi dei quadri. Pagai
l’immobile di tasca mia, per offrire all’amico un posto in cui vivere.
La mia principale occupazione quotidiana era leggere nel mio studio
con affaccio sul porto di S, ma quando mi annoiavo invitavo Kawamura,
oppure lo passavo a trovare per fare quattro chiacchiere spensierate. Altre
volte, organizzavamo delle brevi escursioni nelle località più famose lì nei
pressi. Ero più che soddisfatto di quella vita e non desideravo altri tipi di
piacere.
Discutevamo spesso di donne. Eravamo amici stretti, la gente forse
pensava che fossimo addirittura misogini, ma Kawamura di sicuro non lo
era. Al contrario, si mostrava puntualmente un grande estimatore del
gentil sesso.
Quando parlava del mondo femminile, però, l’espressione del mio volto
mutava.
«Le donne valgono quanto un osso del costato di un uomo! Non
colgono il senso delle grandi filosofie e neppure la raffinatezza dell’arte,
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appartengono a una razza inferiore!». Era mia abitudine parlare a lungo
delle numerose invettive contro le donne da parte dei filosofi del passato.
Però… però… nulla è volubile quanto il cuore umano. Chi avrebbe mai
detto che un misogino, eccentrico come me, si sarebbe un giorno
innamorato?! Ebbene sì, sono stato anche innamorato! Me ne vergogno
quasi, ma quando la vidi per la prima volta, tutte le mie filosofie, la mia
stessa vita, ogni cosa si dissolse come nebbia al sole del mattino senza
lasciare traccia alcuna.
Il suo nome era Ruriko e proveniva da una umile famiglia di origini
cinesi; all’epoca del nostro incontro aveva diciotto anni e, come un fiore di
pruno scarlatto che inizia a sbocciare, era dotata di una bellezza
profumata. Stava facendo un viaggio per festeggiare il diploma alla scuola
femminile e, al seguito della madre, era appena giunta a S. Io stavo
passeggiando e me ne innamorai perdutamente al primo sguardo.
Superata la timidezza iniziale, chiesi al decano di Kitagawa di intercedere
affinché potessi avanzare una proposta di matrimonio. Dalle ricerche
emerse che sì, certo, conduceva una vita di stenti, ma la sua famiglia non
era di cattiva estrazione. Lei aveva modi educati ed era una ragazza
intelligente. Non sussisteva la minima ragione di vergognarsi nel farne una
viscontessa.
Tra i miei parenti qualcuno rumoreggiò ma, qualsiasi cosa venisse detta
o fatta, il sottoscritto andava su tutte le furie affermando che sarebbe
morto se non avesse potuto farla sua. E così, nonostante i bastian contrari,
si celebrarono le nozze. Finalmente, per la prima volta dalla nascita,
conobbi la vera natura femminile. E poi non si trattava di una qualsiasi,
bensì – proprio come recita il suo nome – di una donna dotata della
bellezza dei lapislazzuli6.
Ah, i ricordi! Tuttora fanno vacillare il mio petto incanutito. Per due
anni venni coccolato da calde nuvole color pesca dall’inebriante profumo.
Era come gongolare soffice nell’aere, tale la felicità provata in quei giorni
che a parole riesce difficile da esprimere.
Impossibilitato a prendere parte alla cerimonia nuziale perché in visita a
un anziano zio di Osaka, tre giorni dopo il matrimonio Kawamura venne a
trovarci dimostrando per l’evento una contentezza superiore a chiunque
altro.
«Amico, tu sì che puoi dirti felice! L’espressione “acqua cheta” ti calza
proprio a pennello! Fino a oggi hai fatto della misoginia un vessillo e
snobbato l’alta società di Tokyo e Osaka, ma alla fine hai preso in moglie
la donna più bella di tutto il Giappone! Chi se lo aspettava? Allora, pensi
ancora che le donne valgano quanto una costola maschile?».
Tutto eccitato, stringeva le mie mani.
«In realtà, ho cambiato opinione» risposi in preda all’imbarazzo.
«Come solevi affermare, le belle donne sono un meraviglioso frutto del
creato che nessuna delle arti riesce a eguagliare».
Pronunciate tali parole, però, d’improvviso mi sentii in colpa nei
confronti di Kawamura. Benché di sesso maschile, non era forse stato il
mio unico compagno di vita fino a quel momento? In effetti dalla
comparsa di Ruriko, il rapporto tra noi, quella limpida amicizia si era in
qualche modo diradata. Temevo di aver fatto qualcosa di sbagliato, forse
lo avevo messo in imbarazzo corteggiandola di fronte a lui. “Ah,
poverino! Lui ancora non sa quale piacere si provi a stare con una bella
donna! Bisogna assolutamente trovargli una graziosa compagna” pensai.
Mi sentivo un po’ depresso ma quando sollevai lo sguardo, come una
grande rosa sbocciata all’improvviso, giunse Ruriko. A quella vista, la
depressione che mi avvolgeva si dissipò in un istante. Finché di fronte a
me avessi avuto quel grazioso volto, avrei potuto fare a meno degli amici e
del denaro. La mia stessa vita avrebbe perso valore, ecco cosa significava
essere ebbri d’amore! Ero all’apice della felicità raggiungibile in questo
mondo e, con espressione inebetita, fissavo il volto di Ruriko. Più il mio
sguardo vi si soffermava, più io la amavo. Poteva davvero esistere una
creatura tanto graziosa? Quando c’era lei, il mondo intorno a noi appariva
più bello, allegro.
Su, prego, ridete pure di me. Nel periodo subito dopo le nozze, la mia
gioia più grande consisteva nell’immergere Ruriko nell’acqua calda e farle
il bagno. Al pari di un inserviente dei bagni pubblici, strofinavo con cura
la splendida pelle di mia moglie7. Leggermente arrossata per il calore
dell’acqua, velata da timide screziature simili alla buccia di una pesca
bianca e una leggera peluria impercettibile all’occhio. Ah, quella pelle!
Non aspettavo altro che ammirarla dopo un bagno caldo, era uno dei miei
piaceri più intensi. Anche il suo lavacro rappresentava per me qualcosa di
meraviglioso.
Incurante delle voci che circolavano tra la servitù mi comportavo alla
stregua di un maniaco sessuale, incapace di attendere che lei uscisse dal
bagno. Assecondando quel mio atteggiamento, anche Ruriko, quando era
sola con me, gettava via la maschera della moglie per bene. Fu così che
trovammo il nostro modo di stare insieme. In sostanza, come al circo gli
ammaestratori di orsi riescono a far compiere agli animali ciò che vogliono
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ammaestratori di orsi riescono a far compiere agli animali ciò che vogliono
attraverso un semplice sguardo, anche lei aveva imparato a manovrarmi a
proprio piacimento con una sola occhiata.
Nei momenti di intimità, ero in sostanza il suo schiavo fedele e renderla
felice costituiva ormai la mia unica preoccupazione.
«Oh!» esclamava quando arrivava una buona notizia. Poi aveva il vizio
di spalancare gli occhi come se sentisse il solletico, le labbra assumevano
una forma assolutamente adorabile e rideva dolcemente. Pur di ammirare
quel volto avrei sopportato ogni sacrificio, anche il più estremo. Forte del
suo amore per me avrei fatto qualunque cosa.
Fu così che la nostra casa in parte si vivacizzò. Per renderla felice, ogni
tanto venivano organizzati dei piccoli banchetti ai quali invitavamo alcuni
conoscenti. In quelle occasioni, mia moglie adorava sentirsi la bella regina
della serata. E io amavo ammirarla.
A quei ritrovi spesso partecipava anche Kawamura. Lui non veniva
considerato neanche un ospite, eravamo tanto intimi che poteva muoversi
libero per la casa. Addirittura, si comportava come se fosse lui il padrone.
Con Ruriko erano grandi amici e insieme trascorrevamo giornate allegre a
ridere sereni.
Come ci si aspetta da chi nella vita ha sempre dovuto lottare,
Kawamura eccelleva anche nell’arte del corteggiamento. Mi accorsi che,
dopo appena un incontro, tutti provavano nei suoi confronti
un’immediata simpatia. E Ruriko non faceva eccezione. Kawamura era
bravo a renderla felice, decisamente più di me. Quando ci trovavamo a
chiacchierare in tre, vi erano momenti in cui la conversazione tra loro
sembrava brillare in maniera particolare.
Tuttavia, traevo felicità anche da questo. La preoccupazione che
prendendo moglie il cuore del mio migliore amico si sarebbe allontanato
da me era solamente un timore immaginario e nel momento in cui ne ebbi
conferma provai sollievo.
Pensateci un attimo, era ipotizzabile felicità maggiore?
Possedevo un alto titolo nobiliare, una ricca magione, avevo per moglie
la donna più bella del Giappone – almeno tale appariva ai miei occhi – e
lei mi amava alla follia, il mio più caro amico mi era vicino e, inoltre, ero
ancora tanto giovane. Cosa se non quella corrispondeva alla suprema
felicità? Pensavo di trovarmi in Paradiso… venni addirittura colto dal
terribile pensiero che avessi troppe fortune e, al contrario, le stessi
sprecando.
Non ricordo quando accadde, forse a poco più di un anno dal
matrimonio. Io e Kawamura ce ne stavamo da soli come sempre a
pontificare in materia di donne e, siccome affermavo idee diametralmente
opposte rispetto al passato, sebbene con qualche indugio, egli si rivolse a
me con un’espressione grave e traendo un sospiro.
«Sei proprio un credulone, eh?».
Rimasi di sasso sentendo quelle parole.
«Perché dici così?».
«Perché non conosci neppure il significato della parola diffidenza».
Mi sembrò ancora più criptico.
«Diffidenza, ma di che parli? Quando si è contornati da persone che
non danno adito a strani sospetti, perché non fidarsi?».
«Be’, vedi, al mondo ci sono uomini che non si fidano delle proprie
mogli e, per gelosia, commettono atti dissennati».
«Cosa? Ma no, come potrei essere geloso di Ruriko che è innocua come
una bambina? Non avrebbe alcun senso!».
Sentita la mia apologia di Ruriko, senza altro aggiungere Kawamura
esplose in una sonora risata.
«Perdonami, hai ragione tu! Ruriko è come una margheritina di campo,
una ragazza innocente».
Poi, prese a canticchiare una poesia di Wordsworth, The Small
Celandine8. Era bravo a declamare le poesie inglesi.
Rimasi lì ad ascoltarlo. E quelle misteriose parole da lui pronunciate le
accantonai in un angolo della mente, senza immaginare che, prima o poi,
sarebbe arrivato l’infausto momento in cui avrebbero nuovamente fatto
capolino. Ma non essendo io una divinità, come avrei mai potuto
prevederlo?
Ebbene, da quel giorno trascorsero ben due anni, un lasso di tempo in
cui non si verificò alcun evento sospetto.
Ruriko si faceva ogni giorno più bella e i nostri cuori erano sempre più
vicini. Quello era davvero il Paradiso.
Capitolo 3

Un sinistro presagio

Miei cari, proprio come è capitato a me in quei due anni, quando ogni
cosa sembra proseguire per il verso giusto è il momento di prestare
maggiore attenzione. Il demone del destino lancia un’esca appetitosa per
mettere alla prova il cuore degli uomini e, appena vi trova uno spiraglio,
spalanca la sua bocca nera per divorare la preda. Ogni grande fortuna
nasconde l’ombra di un demone.
E io, di fortuna ne avevo avuta fin troppa. Dopo tutto, ero stato
educato come si conviene al rampollo di una famiglia altolocata e il
mondo reale costituiva per me una totale incognita.
Verso la fine del secondo anno di matrimonio mi ammalai di tifo e,
sopraggiunte delle complicazioni, per tutto il mese di marzo fui costretto
alla vita di ospedale. Tuttavia, non fu questa la causa scatenante del mio
declino. La malattia si protrasse per diverso tempo, ma col passare dei
giorni migliorai e guarii completamente. Inoltre, dovevo in parte
riconoscenza al morbo, poiché il mio fisico da sempre cagionevole
finalmente scoppiava di salute. I capelli caduti per il tifo erano ritornati
addirittura più neri di prima. Non solo, sembravo ringiovanito.
Durante la malattia, Ruriko non mancò di porgermi ogni giorno visita
in ospedale. Anche Kawamura non fu da meno, veniva molto spesso a
trovarmi. Ah, quanto gli ero riconoscente! Forti del loro amore per me,
non si curavano dei rischi comportati dal morbo che mi affliggeva ed
entrambi si impegnavano in tutti i modi per lenire le mie sofferenze. In
quella occasione diedero prova di essere persone degne della massima
riconoscenza… ripensandoci ora, ero proprio un credulone!
Orbene, è giunto il momento di narrarvi un episodio alquanto
imbarazzante, un fatto risalente a circa due mesi dopo il mio ritorno a casa
dall’ospedale. Da una decina di giorni Ruriko era di cattivo umore e così,
non appena intravidi in lei uno spiraglio di miglioramento, una sera mi
affacciai nella sua stanza. Era ormai tanto che non lo facevo ma,
nonostante ciò, contro ogni previsione lei si irrigidì e mi respinse.
«Ma che hai? Sono forse io che ti ripugno?».
Provai per scherzo a fare la voce grossa. Ma lei, con aria sconsolata,
rispose: «C’è una cosa che finora ti ho tenuto nascosta… Adesso però non
posso più mantenere il segreto e sono costretta ad abbandonare questa
casa».
Le sue parole mi lasciarono a dir poco basito.
Ero sul punto di piangere, le chiesi più volte il motivo di quella
esternazione e, dopo mille insistenze, infine me lo rivelò.
Preso atto della cosa, però, rimasi più che altro sbalordito di come le
donne, anche per delle inezie, riescano a sollevare un gran trambusto! E
in quel caso, davvero di una inezia si trattava! Da qualche giorno, infatti,
pare le fossero spuntati degli ostinati foruncoli che non accennavano a
guarire.
«Dai, fammi vedere. Sarà una cosa da nulla!».
In quel momento, lei mi ispirò una forte carica di tenerezza. Se le
bastava una quisquilia del genere per cadere preda dell’imbarazzo, allora
significava che aveva una paura mortale di perdere il mio amore. A tale
pensiero, mi commossi profondamente.
Dopo tanti tormenti, si era finalmente confidata e mi aveva mostrato le
escrescenze. A quella vista rimasi basito: aveva il petto disseminato di
grossi foruncoli rossi.
«Cosa sono? Se vuoi che li lecchi, non c’è problema» le feci ridendo,
ma non appena tentai di scrutarli meglio lei si ricoprì in tutta fretta e il suo
volto si rabbuiò.
“Ma che stolto!”. Era ovvio. Ruriko aveva sempre fatto della propria
pelle perfetta un vanto e, se quella bellezza che la distingueva dalle altre
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donne veniva esposta a un rischio, lei si abbandonava all’imbarazzo e alla
tristezza.
Provai compassione e le consigliai di farsi vedere da un medico. L’idea
però non le andava proprio giù e, puntando i piedi, si intestardì a curarsi
da sola con medicamenti acquistati in farmacia. Era conscia del rischio
che correva ma, per lei, la questione non si limitava all’imbarazzo di
mostrare ad altri la sua pelle butterata. Se infatti si fosse trattato di un
esantema maligno, temeva che sarebbero circolati spiacevoli pettegolezzi
sul nostro casato.
Nonostante i rimedi usati i foruncoli si dimostrarono resistenti e, invece
di guarire, si estesero su tutto il corpo. Ormai non vi era modo di
nasconderli, poiché avevano aggredito anche il suo splendido viso.
Dal canto suo, Ruriko non si lasciava neppure intravedere. Come avesse
una profonda ferita, applicava sul volto più strati di garza fissandola con
un cerotto e, non contenta di ciò, si infilava nel futon con la trapunta tirata
fin sopra la testa. Quando mi affacciavo in camera sua mostrava solo la
punta del naso, l’unica parte non compromessa dai foruncoli. Che pena
vederla in tali condizioni!
Non sapendo bene che posizione prendere rispetto a quella moglie
capricciosa, convocai Kawamura per chiedergli consiglio. Anche lui in un
primo momento si prese beffe di quel delicato cuore di ragazza, ma poi…
«Ma no, è logico invece. Per una bella donna l’aspetto è di
fondamentale importanza, ma noi uomini stentiamo a comprenderlo».
Mentre parlava, quel volto di una bellezza rara si tingeva del colore
della compassione. Poi fece una proposta.
«Che ne dici, invece, di farle trascorrere un periodo presso una stazione
termale? In un luogo lontano da qui, forse si farà anche visitare da un
medico!».
Pensando che fosse una buona idea, la accolsi senza esitazione. A circa
due ore di treno e risciò dalla nostra ridente S, nei pressi della mesta
stazione termale Y sorgeva una residenza di mia proprietà. La sistemai a
dovere e ne feci l’abitazione temporanea di Ruriko.
Mi offrii di trasferirmi lì anche io per assisterla nella malattia, ma la
convivenza la avrebbe obbligata a mostrarmi il viso ogni giorno e così lei
si oppose con tutte le proprie forze. Rassegnato, decisi allora di affidarla a
un’anziana di fiducia che lei stessa aveva fatto venire dalla casa paterna
dopo il matrimonio.
Da non crederci! Quei foruncoli impiegarono ben sei mesi a guarire.
Ruriko, una persona così amante della compagnia, per tutto quel tempo
rifiutò ogni visita ed ebbe come unico interlocutore una vecchia. Diede
davvero prova di grande tenacia.
Dal canto mio, in quei lunghi mesi, incapace di sopportare il dolore di
vivere separato da mia moglie, talvolta mi recavo a farle visita. Tuttavia, lei
si chiudeva in una stanza serrando i fusuma9 e mi parlava solo attraverso
tale schermatura. L’imbarazzo che le creavano le pustole sul viso era forte
e le impediva di mostrarsi senza veli.
L’unico elemento positivo fu che lei, sotto falso nome, avesse finalmente
accettato di farsi visitare da un medico del posto. Mi precipitai quindi a
incontrare il dottor Sumida, così si chiamava, per sapere cosa ne pensasse
e lui mi rispose che, seppure non si trattava di una malattia grave, erano
comunque foruncoli piuttosto persistenti la cui cura poteva richiedere
tempi lunghi.
Secondo lui, ben più delle medicine, la terapia di maggiore efficacia
consisteva nei bagni di acqua termale. Signori, mi raccomando, tenete
bene a mente questo nome, il dottor Sumida.
La separazione forzata da Ruriko mi gettò nello sconforto e allora, con
la speranza di alleggerire il mio fardello, iniziai a frequentare
assiduamente l’ambulatorio del dottor Sumida, l’unico ammesso a
incontrarla ogni giorno. Così, per via indiretta, mi tenevo aggiornato sul
suo stato di salute: era sufficiente sapere che man mano le sue condizioni
miglioravano per trarre un profondo sospiro di sollievo, tale era la mia
fragilità in quei giorni.
Anche i foruncoli più resistenti, però, prima o poi guariscono… e così
fu. Tuttavia, dato che lei si vergognava delle lievi tracce residue
dell’esantema, non volle far ritorno a casa finché non fossero
perfettamente sparite. Quindi, fino al suo rientro, trascorsero sei lunghi
mesi, al termine dei quali per fortuna guarì. Tornò da me bella
esattamente come prima! Non sto neppure a descrivervi l’emozione nel
ritrovarmi con lei dopo quel tempo, come se avessi riconquistato un
tesoro dato per perso. Infine il tesoro era tornato da me ancora più bello,
desiderabile e sfavillante di quanto già fosse.
Miei cari, finora vi ho tediato parlando di tifo e foruncoli, ma credete
davvero sia tutto qui? Dal momento del mio ricovero fino alla completa
guarigione di Ruriko, a pensarci bene, intercorse un anno intero. Non
avete neppure idea di quali funesti eventi siano accaduti tra le ombre in
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quel lasso di tempo e cosa abbiano significato per me. Forse, attraverso le
mie parole, i più acuti fra voi già lo avranno subodorato!
Magari nessuno sarà disposto a credermi, ma io non avevo il benché
minimo sospetto… ero perso d’amore per Ruriko. Quando si trattava di
lei, non capivo più nulla e accettavo ogni cosa senza dubitare.
Tuttavia, i pesanti patimenti provati per le lunghe malattie erano stati
solo il lugubre preludio dell’imminente tragedia, l’inizio del mio
miserabile destino. Una volta guariti gli strani foruncoli, non vi fu neppure
il tempo di trarre un respiro che sopraggiunse qualcosa di portata ben
maggiore. Sofferenze indicibili sconosciute al mondo erano lì ad
attendermi in agguato.
Capitolo 4

L’Inferno sulla terra

Signori, non vi è stato modo di farvene menzione finora, ma devo


confessarvi che io sono solo un demone spettrale, un cadavere non più
appartenente a questo mondo. Ne sono certo perché, per un lasso di
tempo, il mio corpo è rimasto privo di vita e in molti lo hanno constatato.
E poi perché, sì, benché tornato in vita non mi sono più affacciato al
mondo come Ōmuta Toshikiyo…
Adesso, seppure non sia così vecchio, sulla testa non mi è rimasto
neppure un capello nero. Sono tutti bianchi come spilli d’argento: ecco la
prova che una volta ho lasciato il mondo dei vivi e poi vi sono tornato
risalendo dal fondo dell’Inferno. In poche parole, sono divenuto un
demone dai capelli bianchi.
Quindi, come è avvenuta la mia morte? Forse per un morbo letale? Ma
no, niente di tutto ciò. Di un male è possibile farsene una ragione, ma nel
mio caso è qualcosa di impossibile da accettare, poiché ho perso la vita a
causa di uno stupido errore.
Ma ora lasciate che prosegua il mio racconto…
Per un certo periodo, dopo il rientro di Ruriko a casa, venni preso da
una incontenibile felicità per la quale non riuscivo mai a stare fermo. Un
giorno allora, dietro proposta di Kawamura, ci recammo tutti e tre a fare
una breve escursione in un luogo non lontano chiamato la Valle
dell’Inferno.
È un posto famoso e molto frequentato dai turisti, vi passa il corso
superiore del fiume G, che scorre a sud di S, una valle densa di interesse
per chi arriva dalla città, pregna del fascino dei monti.
L’azzurro ruscello che attraversa la gola di pietra guizza tra rocce dalle
forme più svariate, producendo mulinelli spumeggianti. I due monti che si
fronteggiano, durante la primavera offrono la bellezza dei fiori di ciliegio,
in autunno quella delle foglie rosse degli alberi e, in queste stagioni,
scalatori con la borraccia appesa alla cintola formano cordate lungo i
sentieri, uno attaccato all’altro come formiche.
La nostra meta appariva piuttosto mesta visto che ci trovavamo in
primavera inoltrata, la stagione dei ciliegi era conclusa e non vi era
l’ombra di scalatori, ma per prendere una bella boccata d’aria di
montagna andava più che bene.
Stretto tra i due monti, il cielo appariva come un’ampia fascia, niente
nubi, solo un azzurro sconfinato. Sui sentieri di montagna, la luce del sole
si spandeva e l’aroma delle foglie giovani si propagava nell’aria. Il canto
degli uccellini risuonava allegro per la vallata.
Nel punto panoramico più bello si staglia una spaventosa roccia
chiamata Sasso Infernale. Salendovi sopra, dal punto più alto, si può
godere di un panorama mozzafiato sul corso del ruscello; tuttavia, come
suggerito dal nome, è estremamente ripido e solo pochi ne tentano la
scalata.
Io e Kawamura, però, prima che mi sposassi, una volta venimmo a
scalarlo. L’impresa, in realtà, fu meno ardua di quanto potesse sembrare
da basso e una volta giunti sulla cima, rivolti ai monti oltre la vallata,
urlammo a gran voce: «Urrà!».
Il nostro terzetto arrivò quindi alla base del caro Sasso Infernale.
«Te la sentiresti di scalarlo come l’altra volta?». Con tono provocatorio,
Kawamura cercò di fare leva sul mio folle amore per Ruriko.
«Lascia perdere con queste stupidaggini!».
La presenza di Ruriko mi rendeva vigliacco.
«Haha, una volta sposati, ecco come ci si riduce!».
Mentre rideva, Kawamura iniziò a scalare il Sasso Infernale da solo.
«Che meraviglia! Mia Signora, volete provare a salire anche Voi?».
ll d l k
g g , p
Dalla cima del masso invitò Ruriko con voce gaia.
«Ma cosa dite?! Io certo non…» replicò lei con tono di invidia mentre
osservava la sagoma di quell’uomo impavido che si stagliava nel cielo.
Per me, tutto ciò non era affatto divertente. Ruriko ammirava il
coraggio di Kawamura, mentre io – incapace di emularlo – mi sentivo
disprezzato. «L’amore rende gli uomini stolti», lo si sente dire spesso in
giro. Ebbene, al cospetto della mia amata Ruriko, pensando solo a non
subire uno smacco, presi a scalare senza esitazione il Sasso Infernale.
Mi diedi il cambio con Kawamura, che intanto aveva iniziato la discesa,
e raggiunsi la cima della roccia. Poi, in piedi nel punto più alto,
sfoggiando orgoglio gettai una voce a Ruriko. Ah, che stolto! Mai avrei
immaginato che l’avrei vista per l’ultima volta.
«Da lì il panorama è sicuramente bellissimo, ma se sali ancora un po’
riesci a vedere anche il ruscello sottostante ed è tutta un’altra cosa!».
Kawamura si rivolse a me a gran voce con aria di sfida. Innocenti
parole, che però celavano un terribile intento. Ma un sempliciotto come
me non poteva certo afferrarlo. “Maledetto, vuole far salire me fin sulla
piccola roccia in cima che lui neppure ha avuto il fegato di raggiungere.
Mascalzone!” pensai, ma provocato a tal punto non potevo certo tirarmi
indietro. Per non perdere l’orgoglio, ostentando sicurezza posi il piede
sulla roccia più alta.
Un attimo dopo, fu come se il cielo e la terra si fossero capovolti. Il
terreno sotto i miei piedi era venuto meno: quella fragile roccia si era
sbriciolata facendomi precipitare per diversi metri con l’impeto di una
palla di cannone!
Per alcuni istanti, fu come se stessi fluttuando.
Sicuramente gridai. Ma le mie orecchie non erano più in grado di
percepire i suoni, neppure quello della mia stessa voce.
Subito dopo aver spiccato il volo, come una sfera, il mio corpo rotolò
giù per la scarpata tra mille tormenti.
Signori, vi prego di credermi, anche perché lo ho vissuto in prima
persona. Basta così poco per morire… per provare dolore e paura. Fu
questione di un istante. Mentre rotolavo giù dall’alta scarpata, ero già nel
mondo dei sogni. La mia mente era assente. Occhi, orecchie e pelle erano
divenuti insensibili. Nella mia testa continuavo a vivere un incubo, ben
diverso dalla caduta dal dirupo.
Tuttavia, seppur fioca, dentro di me era chiara la sensazione di
precipitare in un vuoto senza fine, uno spazio che non conosceva limiti.
Per esempio pensate a quando, mentre ascoltate la voce di qualcuno che
parla, vi assopite e iniziate a sognare. Fu esattamente così. La coscienza di
precipitare e il sogno vissuto nella mente, come film in sovrimpressione, si
accavallavano tra loro.
Be’, il sogno riguardava i principali eventi della mia vita che, uno dopo
l’altro, come un flashback, si manifestavano a me. I visi di mio padre e mia
madre, la sagoma di mio nonno, i ricordi d’infanzia, le marachelle al
tempo delle scuole elementari, la vita da studente a Tokyo, i volti degli
amici intimi, primo fra tutti Kawamura, e i momenti di vita coniugale,
l’immagine ingrandita del viso di Ruriko coperto di bolle, fotogrammi al
microscopio della sua pelle simile a un lapislazzulo e rivestita da una
impercettibile peluria, ecco, una sequenza di sogni senza fine…
Tutto ciò avveniva nei brevi attimi in cui precipitavo. In un lasso di
tempo così breve, come era possibile sognare tante cose? Anche ora,
rievocandolo, mi sembra un fatto straordinario.
Mentre ero immerso nei sogni, a un certo punto – tonf! – il mio corpo
incontrò qualcosa, probabilmente il suolo. Le orecchie percepirono flebile
quel rumore, e subito dopo la mia coscienza si perse in un vuoto
sconfinato. Era tutto svanito, sia io sia la sostanza prima10. Lì solo il nulla,
il vuoto. Un sonno senza sogni.
Ero morto.
Dello scorrere del tempo, non avevo naturalmente percezione alcuna.
Per un morto, spazio e tempo non hanno senso. Tuttavia, in quel nulla
senza fine ebbi l’impressione che stesse per iniziare qualcosa. Era iniziata
la mia rinascita. Da principio, non avvertivo il corpo ma solo il cuore, e
benché privo di involucro mi sentivo pesante. Cosa era quel senso di
soffocamento?! Dipendeva da me o da una causa esterna? Pur
sforzandomi, non avevo forza per pensare.
Dopo poco, la percezione si fece man mano più chiara. La sensazione di
asfissia aumentava ma finalmente distinsi chiara una parte del corpo, la
gola. Il mio spirito e la pesantezza erano concentrati lì ed era come se
qualcosa vi premesse sopra per impedirmi di respirare.
«Lasciami! Scansa la mano dalla mia bocca!», così urlava il mio cuore.
Intanto, ebbi l’impressione che strane e minuscole particelle iniziarono a
raggrupparsi da ogni dove e, una volta trovato un equilibrio, la mia
coscienza si risvegliò.
Tuttavia, ancora non riuscivo a distinguere nulla. Quella cosa che
giaceva distesa in un’oscurità priva di colori e in cui regnava un silenzio
l ll l f
g p g
pari solo alla morte, era il mio corpo. Non capivo se fosse posizionato in
verticale o orizzontale, quale fosse l’alto e il basso. Poco a poco, però,
avvertii qualcosa di duro che mi premeva contro la schiena.
“Ah, ecco, sono disteso supino!”. Provai a sbattere le palpebre ma…
niente. Se non distinguevo nulla significava che ero immerso nella totale
oscurità.
Finalmente, rammentai ciò che mi era capitato. La gita al Sasso
Infernale insieme a Ruriko e Kawamura, io che tento la scalata della roccia
per risanare la ferita nell’orgoglio, il terreno che frana sotto i miei piedi
non appena raggiungo la cima.
“Allora, adesso probabilmente mi trovo alla base del dirupo, steso su
un masso. È già sera, tutto è buio… eppure, dovrei riuscire almeno a
scorgere la luce delle stelle…”.
Preso dal dubbio, provai intanto a giungere le mani. Erano calde! Poi,
mi tastai il petto. Il cuore batteva all’impazzata!
“Ma allora perché fatico a respirare? Forse qualcuno sta tentando di
soffocarmi? Ah, ho bisogno di aria, aria! Senza respirare, morirò. Aiuto!”.
Dimenandomi spinsi con forza le braccia in avanti, e la veemenza fu tale
che urlai di dolore.
Le mie mani avevano incontrato una superficie dura, di legno. Tastando
intorno a me, infatti, compresi che a destra, a sinistra, in alto e in basso
ero circondato da strette assi di legno. In un attimo, realizzai ogni cosa.
Tuttavia, si trattava di una verità tanto agghiacciante che al solo pensiero
mi si raggelò il sangue.
Signori, mi avevano seppellito! Sepolto, nonostante fossi ancora vivo!
Le assi intorno a me erano la mia bara. Avete mai letto quel romanzo di
Poe intitolato La sepoltura prematura? Io sì, e conoscevo quindi bene
l’orrore che si vive in una tale situazione11.
Nel romanzo, si dipanano diversi eventi terribili, ma la scena più
impressionante è quando viene riaperta una bara sepolta da molti anni nel
terreno e si scopre che la posizione del corpo è diversa rispetto al
momento delle esequie. Il cadavere ha infatti le gambe flesse, le braccia
piegate e le unghie delle mani conficcate nelle assi della bara come se si
fosse dibattuto invano. Cosa sono quelli se non i segni di un defunto che
ha ripreso vita dentro il sarcofago e sofferto infinite pene nel tentativo di
uscirne? Ah, ma quella non è che una delle tante sofferenze incredibili di
questo mondo.
In realtà, in un altro libro, mi è capitato di leggere di eventi ancor
peggiori.
Il caso di una donna incinta che, dopo essere stata sepolta, torna in vita
dentro la bara e dà alla luce un bambino. Non vi si accappona la pelle al
solo pensarci? Nell’oscurità più totale, la donna annaspa per la mancanza
di ossigeno ma – pur conscia che ormai non avrebbe più visto il mondo
esterno – guidata da un triste istinto materno, offre il suo seno al neonato.
Ah, che storia straziante!
Una volta compreso che mi trovavo prigioniero all’interno di una bara,
all’improvviso, mi tornarono alla mente tali letture e il mio corpo si ricoprì
di sudore.
Tuttavia, signori, per quanto fossi orribilmente tumulato, quella
condizione non era ancora nulla paragonata alla tristezza, allo sgomento,
alla sofferenza e al terrore che in seguito avrei patito. Cose inaudite nella
storia dell’uomo! Allora, è finalmente giunto il momento di raccontarvi il
resto dell’inferno da me vissuto.
Capitolo 5

Il mondo oscuro

Miei cari, la natura umana è terrificante. Una volta appreso che ero
rinchiuso in una bara, reboante, sgorgò in me una forza mostruosa che
confluì nei miei arti. In punto di morte, è noto, si può attingere a un
vigore che si manifesta solo in quel momento. Se non avessi infranto la
bara, la mia seconda vita non sarebbe durata neppure un’ora o trenta
minuti. Anzi, forse neppure dieci minuti! L’ossigeno era ormai molto
poco: sarei morto di asfissia come un pesce fuor d’acqua, annaspando con
la bocca.
Il sarcofago era robusto e io mi dimenavo come una bestia feroce.
Tuttavia, i miei sforzi non furono sufficienti per spezzare le assi di legno.
Non c’era quasi più aria. Oltre ai problemi respiratori, era come se le
orbite stessero per schizzarmi fuori dagli occhi e il sangue dovesse uscire a
fiumi dal naso e dalla bocca. Tale era la sofferenza da me provata!
Ero del tutto fuori di me. O quelle assi o il mio corpo, uno dei due
sarebbe andato in mille pezzi. Ma piuttosto che perire tra i patimenti per
mancanza d’aria, pensai che sarebbe stato meglio nell’altro modo e così
presi a dibattermi come un ossesso.
Ma poi, un miracolo! Colsi distintamente il rumore secco del legno che
si rompe. Da uno spiffero sottile come una lama penetrò un flebile soffio
d’aria che sfiorò fredda il mio viso. Com’era buona!
Signori miei, avete presente quanto sia magnifico il suo sapore? Provate
a fare un’esperienza come la mia e lo comprenderete bene.
Naso e bocca spalancati, respirai avido fino a che i polmoni furono sazi.
Incamerando l’aria, il cuore e la mente si riaccesero. Ero finalmente
tornato in vita.
Posi le mani nel punto in cui le assi si erano incrinate e, imprimendo
forza, le spaccai del tutto. Fu facile, forzai il coperchio della bara fino a
farlo aprire.
Senza esitare, mi proiettai fuori dal feretro ma avvertii uno strano
rumore, come di terriccio smosso, dopodiché mi piovvero sulla testa degli
oggetti duri. Pensai fossero dei sassolini o della sabbia che avevo scosso
uscendo dalla bara e lì per lì non sospettai nulla. In seguito, però,
compresi il profondo legame tra quelle cose che cadendo avevano
prodotto un suono tanto fragoroso e la mia vita. Se non fosse stato per
loro, infatti, forse non mi sarei macchiato di crimini tanto gravi e tutto si
sarebbe risolto in maniera pacifica.
Una volta fuori dalla bara, fui assalito da alcuni dubbi. Prima cosa, era
strano che fossi riuscito a evadere: se mi avessero sepolto, infrangendo la
bara il terreno sarebbe franato investendomi. Era assurdo, significava
allora che la bara non era stata sepolta in un cimitero bensì abbandonata
chissà dove. Però, in fin dei conti, che importava? Intanto ero salvo e
libero di tornare a casa.
Ma cos’era quella oscurità tanto densa che l’aria stessa sembrava tinta di
nero?
Un attimo, un attimo… pensando che il tatto mi avrebbe aiutato a
comprendere l’ambiente circostante, alla cieca e con le braccia protese in
avanti, iniziai a procedere a tentoni.
Incontrai un muro piuttosto malmesso, che ricordava una parete di
pietra. Costeggiandolo, andai a sbattere contro una gelida lastra di
metallo. Tastandola, immaginai che fosse una porta, una porta enorme e
pesante.
Era davvero strano. Dove mi trovavo?
Ma certo, che sciocco! La tomba della mia famiglia non era scavata
nella terra bensì nella pietra secondo i dettami occidentali, tanto è vero
che i locali la chiamano “Tomba dei Signori”. I miei antenati avevano
perforato il ventre di un piccolo rilievo montuoso e, posta pietra su pietra,
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p p p p p
consolidato il tutto con lo stucco: in sostanza, avevano ricavato una cripta
in cui conservare i feretri dei familiari.
Compresa la situazione, venni sorpreso dal terrore e rabbrividii. Se le
cose stavano in quel modo, allora non avevo speranza. Non avrei più
rivisto la luce del sole.
Un conto era sfondare una bara di legno, ma per uscire da quella cripta
ricavata dentro la terra e rinforzata in cemento non sarebbe bastata la
forza di un uomo, ma neppure di due! Mai e poi mai avrei perforato una
di quelle pareti. L’unico accesso era bloccato da una robusta porta in ferro
tenuta saldamente chiusa da un altrettanto pesante lucchetto.
Però, un attimo. C’era la possibilità che si fossero scordati di mettere il
lucchetto.
Mi scagliai con tutto il corpo contro la porta ma il risultato fu solo un
reboante bong che riecheggiò nella spelonca, senza che la porta facesse
alcun clack! Ahimè, il lucchetto era piazzato… ormai non avevo speranze.
A meno che nella famiglia non fosse morto qualcuno, per cinque, dieci
o anche venti anni quella porta non si sarebbe aperta.
Ah! Divinità celesti, perché vi comportavate in quel modo? Perché mi
avevate riportato in vita, solo per il gusto di uccidermi una seconda volta?
Volevate che assaggiassi di nuovo il terribile sapore della morte?
E poi non sarebbe stata una morte rapida come cadere in una scarpata,
bensì sarei morto di fame! Piano piano, minuto dopo minuto, la vita
sarebbe fluita via da me. Che fine atroce!
In vita, mi ero forse macchiato di atti deplorevoli? Avevo voluto bene al
mio amico. Avevo amato mia moglie. Mai avevo arrecato danno a persona
alcuna, neppure alla più meschina. E… e… allora perché dovevo subire
tale supplizio infernale?
Non potevo accettarlo. La mia prima morte non era stata spiacevole o
dolorosa e non aveva arrecato danno a nessuno. Riguardo ciò, nessuna
rimostranza. Tuttavia trovarmi non una, bensì due volte ad affrontare la
morte, la più grande delle sofferenze umane, questo non potevo
accettarlo. Ero allo stremo delle forze ma sarei uscito dalla cripta a ogni
costo.
Preso dalla follia, provai a urlare a gran voce. Continuai a lungo. Ma
poi, come un bambino, sbottai a piangere tra mille lamenti. Lacrime salate
mi scorrevano sul viso e poi si insinuavano dentro la bocca.
Le grida e i lamenti rimbalzavano fragorosi sulle pareti di roccia e
venivano restituiti al mio orecchio amplificati di due o tre volte,
divenendo così un agghiacciante frastuono. La tomba si trovava al centro
di un piccolo rilievo situato in una triste area periferica. I viottoli della
zona, al di fuori dei funerali della mia famiglia, non venivano praticati da
anima viva. Per quanto gridassi, nessuno sarebbe intervenuto a salvarmi. E
qualora avessero percepito le mie grida, si sarebbero impauriti e dati alla
fuga!
Realizzato che ogni mio sforzo sarebbe stato vano, presi a correre come
un forsennato nell’oscurità in cui non si distinguevano i colori,
inciampando tra le bare e sbattendo sulle pareti di pietra. Pur conscio che
non vi fosse spiraglio alcuno nelle pareti, lo continuavo a cercare
disperatamente.
Nella corsa, persi l’orientamento. Dov’era l’uscita? E la bara che poco
prima avevo infranto? Per quanto mi affannassi a cercare, non riuscivo a
trovarla a tastoni nel buio. Ero stato abbandonato, completamente solo in
un luogo oscuro simile all’aldilà.
Perso nel buio senza fine che avvolgeva ogni cosa, il mio corpo si
abbandonò alla disperazione.
Mai come in quel momento sperimentai fino in fondo il terrore delle
tenebre, in cui suoni e colori non sono contemplati.
Affannandomi a cercare di uscire da quella prigione non vi avevo
riflettuto, ma quando realizzai che era impossibile evadere, la paura del
buio mi pervase. Sebbene fosse un cimitero, a riposare lì erano gli
scheletri dei miei avi e non li temevo. Tuttavia, il fatto di non vedere nulla
e non percepire suoni mi provocò uno sconfinato terrore che mi
avviluppava ogni momento di più.
Ah, quanto mi mancava la luce, mi sarei accontentato anche solo di una
lucciola. Non distinguevo nulla, era insopportabile. Se il mio destino era
morire, ebbene, almeno volevo farlo alla luce del sole! Morendo avvolto
dalle tenebre, non avrei trovato la via verso il Paradiso e avrei continuato a
vagare fino a sprofondare negli inferi. Ah, orribile fato!
Ero irrequieto, ma per quanto mi dimenassi l’oscurità non si diradava.
Non c’era modo di uscire da quel regno di morte.
Capitolo 6

Un immenso tesoro

“Luce, luce, luce!”. Non facevo altro che pensare a quella parola quando
all’improvviso, come un segno del cielo, ebbi un’illuminazione.
Mi tornarono alla mente alcuni ricordi di gioventù, di quando avevo
diciassette anni. Ero venuto alla tomba di famiglia per scortare il feretro di
mio padre. In quell’occasione, se non andavo errato, il monaco lesse dei
sutra dentro la cripta. Ma come gli fu possibile in assenza di luce? Ma
certo, certo! Davanti al feretro era stato posto un peculiare candelabro di
foggia straniera: non era un oggetto del tempio bensì proveniva da casa
mia. Tuttavia, se non lo avevo mai notato nel ripostiglio di casa significava
che forse lo conservavano all’interno della cripta. Sì, era per forza così.
Prima di tutto dovevo capirne l’ubicazione e poi, con un pizzico di
fortuna, forse avrei trovato anche dei mozziconi di candela rimasti
dall’ultima volta che era stato usato.
Quella vaga speranza fece vibrare il mio corpo, non era più tempo di
correre qua e là alla rinfusa! A tastoni sul muro, con grande attenzione,
provai a fare il giro completo dell’ambiente.
In preda all’eccitazione, come se avessi pescato il biglietto vincente
della lotteria, procedevo lento, un passo alla volta. Poi, dopo aver fatto
circa mezzo giro, la mia mano cozzò contro un’asta di freddo metallo.
Provate a immaginare la contentezza. Lo avevo trovato, il candelabro
c’era davvero. Per di più, aveva ben tre mozziconi di candela conficcati
nelle braccia.
Trasognato, feci istintivamente per infilarmi una mano in tasca, ci
tenevo sempre dei fiammiferi… però, maledizione! O potenti divinità,
perché ero tanto sfortunato?
Nello stato confusionale in cui versavo, non avevo fatto caso a un
dettaglio e mi ero rallegrato troppo presto. Che stupido! Non era usanza
porre un defunto nella bara con 12 indosso abiti occidentali, infatti al
momento indossavo un kyokatabira e le sue maniche non ospitavano
certo i miei fiammiferi. Non trovate che sia un destino atroce ritrovarsi al
buio perché, pure avendo le candele, si è sprovvisti di fiammiferi?
Furente, afferrai il candeliere e lo scagliai con forza a terra. Ma l’attimo
dopo, oltre a quello del candeliere, percepii un flebile rumore sordo. Che
sarà stato? Forse un oggetto poggiato sul candeliere? E cos’altro può
trovarsi su un candeliere se non… dei fiammiferi! Ero certo che fosse così,
si lascia sempre la scatola dei fiammiferi sul candeliere dopo averli usati.
Perlustrai carponi il pavimento di pietra: non era facile cercare al buio
un oggetto tanto piccolo ma, d’altronde, l’altra prospettiva era terrificante.
Alla fine la trovai. Anzi, diciamo che localizzai la scatola a tentoni. Erano
finalmente nelle mie mani, i fiammiferi!
Con le dita tremanti, ne sfregai uno e la polvere pirica sprigionò una
fiammella violenta che infastidì i miei occhi. Dopo aver rialzato e
sistemato il candeliere, accesi le tre candele e l’interno della spelonca si
rischiarò come fosse l’alba. Per me, ormai abituato all’oscurità, quella luce
era addirittura abbagliante.
Avvalendomi del candelabro ispezionai l’ambiente. Uno accanto
all’altro lungo il muro erano allineati una decina di feretri, quelli dei miei
antenati.
Tuttavia, ciò di cui vi voglio parlare non sono le bare, niente di così
triste.
Spesso si sente dire che la felicità chiami altra felicità. E infatti, dopo
avere trovato il candeliere, mi capitò una seconda botta di fortuna che fu
cento, mille volte, ma cosa dico, un milione di volte più gradita della
prima.
l d ll d l h l b d
prima.
La luce delle candele rischiarò la bara da cui ero poco prima evaso. La
osservai. Di fianco ne notai un’altra, grande e sprovvista di coperchio.
“Ma vuoi vedere che qualcun altro, come me, è stato tumulato vivo qui?”
pensai e, insospettito, diedi un’occhiata. L’interno della bara era zeppo di
cose, ma non si trattava di cadaveri, bensì di qualcosa che brillava
intensamente. Parte del contenuto si era riversato anche sul pavimento e
sembrava una rilucente sabbia dorata.
«Ah!» esclamai e mi precipitai a controllare. Sollevai un po’ di quella
sabbia dorata. Poi estrassi dal sarcofago alcuni oggetti rilucenti… monete,
erano monete! Giapponesi, cinesi, da paesi sconosciuti, ve ne erano di
grandi e piccole. Monete d’oro e d’argento, anelli, bracciali, raffinati
oggetti di vario tipo! Aprendo poi un sacchetto di pelle di cervo, trovai
un’infinità di pietre preziose. Era un tesoro che doveva valere diverse
migliaia di yen. O forse molto di più.
Avevo le vertigini, provocate dalla contentezza ma anche dalla paura.
Perché mai una tale fortuna era sepolta lì? Turbato dalla lugubre cripta,
avevo forse le traveggole? Forse stavo sognando, oppure ero impazzito!
Dapprima provai a darmi un buffetto sulla guancia e poi mi colpii
ripetutamente la testa. No, non ero fuori di me. Assurdo. La bara da cui
ero scappato, quelle dei miei antenati, la parete di pietra: ogni cosa
appariva distinta ai miei occhi. Ebbene, non era possibile che solo quel
sarcofago carico di tesori fosse un’illusione. No, non stavo prendendo un
abbaglio.
Poco prima, quando avevo sfondato la bara, avevo avvertito il rumore
di un oggetto pesante rovinare a terra. Poi una pioggia di oggetti duri mi
era ricaduta sul capo. Ecco, saranno arrivati da lì, lo scrigno del tesoro
doveva essere posizionato lassù. Sulla parte alta della parete vi era una
sorta di scaffale e uno dei sostegni che lo reggevano era riverso a terra.
Ora capivo. Era crollato a causa mia, per l’impeto con cui avevo
sfondato il sarcofago. Lo scaffale si era sbilanciato, la cassa poggiata lì
sopra era caduta e il coperchio si era aperto nell’impatto col suolo.
Nessun sogno poteva essere tanto coerente, era fuori discussione.
Quindi, era tutto realmente accaduto. Eppure, perché mai una tale
fortuna era nascosta in una cripta sepolcrale? Non aveva senso. Mentre
scrutavano qua e là la superficie del forziere, i miei occhi furono attratti da
un dettaglio.
Su un lato vi era disegnato un piccolo teschio rosso di circa tre
centimetri, come una sorta di marchio.
Il teschio rosso, il teschio rosso… Ne avevo già sentito parlare. Chissà
di che si trattava… Ah, ecco! Il marchio dei pirati! Alcune decine di anni
prima, facendosi beffe delle autorità, nel Mar della Cina imperversava il re
dei pirati, il cinese Shuryōkei. Ricordavo benissimo di averne sentito
parlare e letto sui giornali.
Incredibile! La tomba della mia famiglia era il forziere dei tesori del
famoso pirata Shuryōkei. A volte accadono eventi impensabili. Anche se
forse, riflettendo, non sono poi tanto assurdi…
Dato che lo avrebbero potuto arrestare in qualsiasi momento,
Shuryōkei doveva aver avvertito la necessità di un antro segreto. Una volta
trascorsa la pena, sarebbe rientrato in possesso dei suoi tesori e vissuto
nella ricchezza fino alla morte. Del resto, rispetto al suo paese, la Cina, le
coste del Giappone si prospettavano più sicure. Una cripta è frequentata
al massimo una volta ogni dieci o vent’anni e, trattandosi di un lugubre
cimitero, a nessuno sarebbe venuto in mente di perlustrarlo. Usare come
rifugio una cripta sepolcrale: una trovata degna di un pirata!
Ebbene, non ero vittima di un’allucinazione. Certo, mi avevano sepolto
vivo, ma in compenso ero entrato in possesso di una inestimabile fortuna.
Mi accovacciai accanto alla bara e presi a giocare come un bambino con
le monete d’oro. Erano state stipate in una sacchetta che si era squarciata
e in parte il contenuto era fuoriuscito. Meticoloso, una dopo l’altra le
riposi nella sacchetta. Poi, come un bambino, le tirai nuovamente fuori
contando «una, due…» e le impilai sul pavimento. In tutto, ne contai
cinquantotto. Oltre a quelle, sul fondo della bara, rinvenni ammucchiate
come cartastraccia innumerevoli banconote provenienti da Cina,
Giappone e altri paesi. Incredibile!
Per la gioia, le volli contare: solo di valuta giapponese, ammontavano a
ben trentamila yen. Sommando poi il valore di quelle cinesi, delle monete
d’oro e d’argento e delle pietre preziose, quella fortuna superava il milione
di yen!
Capitolo 7

Il demone affamato13

Però, per quanto il legittimo proprietario fosse un pirata, quel tesoro era
roba altrui. Io, il visconte Ōmuta, non potevo certo impadronirmi della
refurtiva di un brigante. L’unica cosa da fare era avvertire la polizia. Avrei
certo attirato su di me le ire di Shuryokei, ma una tale fortuna non poteva
assolutamente giacere lì. Bene, avevo preso la mia decisione.
Compiaciuto, con l’intenzione di presentarmi alle autorità, feci per
alzarmi e andarmene. Ma poi, all’improvviso tornai in me.
Che stupido! Ma che avevo in testa? Altro che andare alla polizia, non
potevo muovere neppure un passo fuori dalla cripta. Se non fossi stato
tanto lontano dal centro abitato, avrei gridato: “Vi darò tutti i soldi che
volete, ma vi prego aiutatemi!”. Di sicuro sarebbero accorsi da ogni dove!
Altrimenti, se almeno ci fosse stato un carceriere, gli avrei detto:
“Possiedo più di un milione di yen! Sarà tuo, ma tirami fuori da qui!”, e
in quattro e quattr’otto mi avrebbe liberato. E invece realizzai che i beni
in mio possesso in quel luogo valevano quanto volgari sassi. Più che un
milione di yen, avrei preferito un tozzo di pane o un bicchiere d’acqua!
Che posto miserabile: ero torturato dai morsi della fame e avevo la gola
tanto secca che mi faceva male. Durò ben poco la gioia per la scoperta di
un tesoro come quelli dei sogni e delle fiabe, poiché fu subito rimpiazzata
dalla disperazione per aver compreso che in quel momento era privo di
ogni valore.
Quanto era crudele il destino con me! Prima mi aveva fatto disperare,
poi rallegrare a dismisura e infine mi aveva gettato in un inferno ancora
peggiore. Di volta in volta, la mia sofferenza, la paura e la disperazione
raddoppiavano, anzi, triplicavano…
Appoggiato alla bara da un milione di yen, disperato, rimasi immobile
per lungo tempo. Vedendomi, la gente mi avrebbe scambiato per una
statua raffigurante la Disperazione. Abbandonato allo sconforto, non
avevo più forza per pensare e muovermi.
Preso alla sprovvista, iniziai a frignare come una femminuccia. Dai miei
occhi vuoti e inespressivi sgorgavano copiose lacrime, era un fiume
inarrestabile.
Ruriko! Ruriko! Chissà cosa stava facendo in quel momento. Forse le
lacrime stavano solcando anche le sue dolci gote, rattristata per la
dipartita dell’amato consorte. Mi sembrava quasi di scorgerlo, quel dolce
volto in lacrime.
«Ruriko, Ruriko! Non piangere, ti prego. Per quanto ti affligga, io non
farò ritorno. Da ora in avanti, in mezzo ai vivi, ti attendono giorni fausti.
Non hai alcun motivo di piangere. Su, asciugati le lacrime e sorridi.
Mostrami il tuo bel volto sorridente».
Ah, Ruriko aveva sorriso! Quel suo bel sorriso. Cento, ma che dico,
mille volte avrei posato le mie labbra su quella fronte, sulle sue gote, sulle
labbra, sul seno.
Ma in quel momento non mi era possibile e mai più lo sarebbe stato!
Copiose le lacrime da me versate e, per quanto piangessi, sembravano non
avere mai fine.
«È solo una parete di roccia! Solo una porta di ferro! Fuori da qui un
tiepido vento sta spirando tra le case. Fuori da qui, il sole splende e la
luna riluce» mi disperavo. Toccata con mano la mia impotenza di fronte a
quell’unico insormontabile sbarramento, mi depressi pensando alla
fragilità dell’essere umano.
A un certo punto, mi tornò in mente un romanzo da poco letto, Il conte
di Montecristo di Dumas. Il protagonista, Dantès, trascorse lunghi anni
segregato in una cella sotterranea.
Provai a paragonare me e Dantès, chiedendomi chi dei due fosse più
infelice. Nel suo caso vi era un terribile carceriere a sorvegliare la cella ma,
in fin dei conti, non era meglio averne uno? Probabilmente, mi avrebbe
ascoltato e liberato. Io invece non avevo nessuno cui porgere le mie
suppliche.
In mancanza di un carceriere, nessuno mi avrebbe portato i tre pasti
quotidiani. Se non altro, tra le sue preoccupazioni Dantès non aveva
quella di morire di fame e, in forza di ciò, riuscì con pazienza a perforare
il muro di intonaco ed evadere. Dal canto mio, qualora anche in dieci o
venti giorni fossi riuscito a perforare la parete, durante quel tempo
nessuno mi avrebbe nutrito.
Ah, che sventura! Mi ritrovavo addirittura a invidiare Dantès,
protagonista di una storia tanto agghiacciante. Ma non poteva finire in
quel modo.
Allora, decisi di mettere a frutto l’esperienza di Dantès: posizionai le
candele a terra e, usando il candeliere di ferro come arma, provai a colpire
la parete di roccia. Madido di sudore, piangendo e gemendo, brandivo il
candeliere. Un colpo e poi una pausa, di nuovo un colpo e poi una pausa:
continuai la mia lotta con il muro per almeno un’ora.
Ah, me misero! Non avevo considerato che nel frattempo le candele si
sarebbero consumate. Ero riuscito a perforare di cinque o sei centimetri
l’intonaco, ma tutto intorno a me era di nuovo calato un buio fitto.
Non potevo proseguire la mia opera nelle tenebre. Dantès, se non altro,
aveva la luce della finestra a illuminargli la prigione. Ma io, privo di luce e
cibo, ero impossibilitato a portare avanti il lavoro. Per di più, non si
trattava di una parete sottile, bensì di uno spesso muro di più di trenta
centimetri.
Crollai al suolo, incapace ormai anche di piangere. Avevo esaurito i
liquidi del corpo in quell’ora di duro lavoro. A quel punto, la sorgente
stessa da cui sgorgano le lacrime si era esaurita.
Per alcune ore rimasi immobile, come morto. In quel frangente, sognai.
In sogno vidi una montagna di appetitosi manjū14 caldi e fumanti. C’era
anche Ruriko, mi veniva incontro sorridente. Mi apparve poi un ricco
stagno traboccante di acqua: la fame di cibo e quella di affetto mi
tormentavano scambievolmente. Dopo poco, i languori allo stomaco si
tramutarono in vero e proprio dolore. Erano fitte lancinanti, come se mi
strappassero le viscere dalla pancia.
Con voce roca urlai a squarciagola contorcendomi per il dolore:
«Voglio morire, voglio morire!». Non riuscivo più a sopportare
quell’indicibile agonia, ben peggiore della morte.
A quel punto non restava altro che suicidarsi.
In realtà, cercai di elaborare una strategia: in mancanza di un’arma
bianca, mi sarei sfondato il petto con il candelabro. Ma vedete, per quanto
uno ci provi, ritenete possibile togliersi la vita con un candelabro? Di
sicuro fa male, ma è ben diverso da una pistola o un coltello. Che storia
penosa, non trovate?
Abbandonai l’idea del suicidio ma in compenso ebbi una pensata ben
più agghiacciante.
Ah, sarei tentato di tacervelo anche perché me ne vergognerò fino alla
morte. Ma, in fin dei conti, non avrebbe alcun senso mentire durante una
confessione. Quindi, non vi farò mistero neppure di ciò.
Sapete, con il candelabro in mano iniziai a strisciare lentamente
nell’oscurità.
Dopo poco cozzai contro una delle bare dei miei antenati, quella
posizionata più avanti. Era proprio lì che volevo arrivare. Brandii
fulmineo il candeliere e colpii dall’alto il coperchio della bara. Un colpo,
due colpi… con un suono secco, il coperchio di legno della bara andò in
pezzi. Miei cari, avevo del tutto perso il senno. Ero regredito a uno stato
primordiale, quello di una bestia. Distrutte le bare, cosa avrei fatto dei
cadaveri?
Capitolo 8

La bestia carnivora

Accantonato ogni pensiero suicida, mi balenò un’idea che al solo pensiero


mi fa ancora drizzare i peli del corpo. Come già ieri vi ho detto, nel
tumulo erano radunate le bare dei miei avi, allineate lì in bella mostra. La
tradizione prevedeva che fossero disposte a partire dal fondo, dunque la
prima della fila era del defunto tumulato più di recente. All’età di
diciassette anni presi parte al funerale di mio padre e quella fu l’ultima
occasione in cui mi accostai al sepolcro. Tuttavia, poiché vi venivano
sepolti anche i membri dei rami cadetti della famiglia, era possibile che la
prima bara contenesse il corpo di una persona morta da poco. Provai a
sforzarmi di ricordare chi della famiglia fosse scomparso di recente…
Ah, ecco! Era morta Chiyo, una giovane appartenente a un ramo
cadetto della famiglia. Sebbene il legame con noi fosse molto labile e non
avessimo ampia frequentazione, per via di quell’antica tradizione
condividevamo la medesima tomba. Ricordavo benissimo quando la salma
della poveretta era stata posta nella cripta.
A quel punto, non stavo più nella pelle. Voi non avete idea di quanto
atroce sia la fame e quindi non potete figurarvi la felicità da me provata in
quel momento. “Ma davvero non starà per…? Non vorrà mica…?”,
probabilmente tutti voi avrete un’espressione di disgusto disegnata sul
viso.
Ahimè, me ne vergogno, eppure lì per lì mi scappò un osceno ghigno.
Come un predatore che individua la preda, fuori di me, gonfiando e
sgonfiando le narici, mi passai la lingua sulle labbra.
Impugnato il candelabro di ferro, strisciai lesto fino alla bara di Chiyo e
la scoperchiai. Ma perché mi comportavo così? Non ero più cosciente
delle mie azioni.
Preso dai morsi della fame, fantasticavo su quanto dovessero essere
aspre le carni della fanciulla, ma la bestia carnivora che albergava in me
aveva sempre più appetito. Ormai ero divenuto uno spaventoso
predatore.
Scoperchiata la bara, vi infilai un braccio e provai a tastare l’interno. La
prima cosa che le mie dita incontrarono fu la gelida chioma della fanciulla.
La mia gola ansimava e l’incommensurabile contentezza mi spinse ad
afferrarli e strattonare, tanto che per l’eccessivo impeto del gesto mi
ribaltai all’indietro. Poi, notai che all’estremità dei capelli non vi era
attaccato nulla: probabilmente i tessuti erano decomposti e la cute era
venuta via. Infilai nuovamente la mano e, tastando il fondo, le mie dita
incontrarono un oggetto duro e spesso. Cercai di indagare meglio e
compresi che si trattava del cranio, ormai completamente scarnificato.
Ecco, c’erano anche le fosse dei bulbi oculari! Non aveva labbra, e i denti
erano scoperti e allineati.
Del petto e del ventre rimanevano solo ossa, di roba molle neppure
l’ombra. La carne e gli organi erano stati divorati dai vermi, ma anche
quelli infine erano morti.
Non potete neppure immaginare la mia disperazione. Già avevo
l’acquolina in bocca al pensiero delle appetitose carni della fanciulla e mi
ero completamente astratto dalla realtà, finendo per consumare l’ultima
briciola di energia mentale rimastami. Ero sconsolato e privo di forze per
muovermi. Rimasi lì accasciato, con la mano infilata nella bara. Eppure, a
pensarci ora, per me fu un bene che andò così!
Infatti, se avessi trovato della carne in putrefazione l’avrei sicuramente
afferrata e sgranocchiato senza pietà quel brandello pullulante di vermi. In
merito non ho dubbio alcuno. Esiste al mondo un crimine più deplorevole
di una persona che si ciba delle carni di un suo simile? A causa di ciò, non
avrei più avuto il coraggio di mostrare il mio volto al mondo esterno.
d f f l
Tuttavia, erano cose a cui pensai quando fu tutto finito; in quel
momento invece la mia mente era dilaniata dalla fame. Tutto ciò che di
buono albergava in me si era estinto e quindi, altro che felicità, raggiunsi il
picco della disperazione e mi abbandonai alle lacrime. Ma a furia di
piangere anche le lacrime si esaurirono e non mi rimaneva più un filo di
voce. Con il volto sfigurato dal dolore, avevo stampata addosso
un’espressione di sofferenza.
Dopo un po’, mentre mi disperavo, riaffiorò il desiderio di vivere e non
arrendermi: era l’umano istinto di sopravvivenza. Appoggiandomi al
candelabro mi alzai nuovamente in piedi. In realtà, di forza non me ne era
rimasta, ma la volontà di non cedere animava il mio corpo.
Non ero più neanche un uomo, e neppure una bestia. Ero un mostro
partorito da un ventre umano. La personificazione della fame, rivoltante e
persistente.
Chissà da dove spuntò quell’energia. Con movimenti decisi, una dopo
l’altra scoperchiai tutte e dieci le bare e ne frugai l’interno nutrendo la
speranza che, per errore, il feretro di un cadavere recente fosse finito in
mezzo agli altri.
Ma, neanche a dirsi, era solo una vana speranza. Le bare contenevano
unicamente scheletri, cumuli di ossa vecchie e rinsecchite.
Alla fine giunsi all’ultima bara, quella posizionata più in fondo. Chissà,
magari era proprio il feretro dell’ideatore della cripta in stile occidentale.
Era inutile aprirla, perché di sicuro era piena di ossa come le altre; per un
po’, infatti, meditai di lasciarla sigillata. La mia ossessione superava però
la logica e, come un automa, violai il coperchio del feretro. Riflettendoci
adesso, forse lo spirito dell’antenato, come a porgere le scuse per quanto
stavo subendo a causa sua, vedendomi in quelle condizioni mi incitò
conducendomi alla sua bara.
Se invece mi fossi fermato prima e non avessi aperto l’ultimo feretro,
molto probabilmente adesso non sarei qui a parlarne. L’ultima bara,
infatti, fu la mia salvezza.
La scoperchiai senza neppure rimuovere il sigillo, a differenza delle
altre si aprì senza indugio non appena assestai un colpetto con il
candelabro, come se il coperchio non fosse neppure fissato con i chiodi.
Pur convinto che non vi avrei trovato altro che vecchie ossa, infilai una
mano e frugai alla rinfusa.
Eppure, per quanto tastassi qua e là, sembrava vuota. Non solo non vi
era alcuno scheletro, ma mancava addirittura il fondo della bara.
Rovistando, il braccio non incontrava barriera alcuna.
Restai col fiato sospeso e, trasognato, ritrassi l’arto. Per un po’, rimasi
immobile. Alla bara mancava il fondo! Ma non solo, non vi erano neppure
il pavimento di intonaco e la terra. In effetti, al mio volto ricurvo sulla
bara giungeva dal basso una brezza gelata.
Ma io, che in quel frangente non avevo la forza di pensare, non afferrai
subito il senso di ciò. La bara non aveva fondo e dal basso saliva una
brezza gelida: questa era una certezza e ne rimasi sconvolto. Oppure ero
impazzito e vittima di un’assurda allucinazione? Caddi preda del panico.
Poi iniziai a riflettere. Mi chiedevo come avesse fatto il pirata Shuryōkei
a trasportare fin lì i tesori. La porta d’ingresso si apriva solo con una
particolare chiave e nei muri non vi era spiraglio alcuno.
Da qualche parte doveva per forza esserci un passaggio segreto noto
solo ai pirati. Ah, maledizione, perché non ci avevo pensato? La prima
cosa da fare nelle mie condizioni era cercare un accesso nascosto.
Di sicuro, quella scoperta non fu casuale. Era stato il mio antenato a
guidarmi… da solo non vi sarei mai arrivato. Scavare un passaggio segreto
sotto una bara era un’idea geniale. Visto dall’alto, non aveva nulla di
diverso dagli altri feretri: chi, se non uno nella mia situazione, poteva
essere tanto perverso da aprire le bare degli antenati? In ragione di ciò, il
segreto dell’accesso era sopravvissuto nel tempo. Proprio un’idea da re dei
pirati, che trovata aveva avuto!
Il semplice fatto che io oggi sia qui a raccontarvi la mia storia lo devo
solo a Shuryōkei e al passaggio da lui realizzato. Provate a immaginare la
mia euforia in quel momento.
Io, un uomo al culmine della disperazione, che aveva maledetto le
divinità e addirittura meditato il suicidio. Alla profonda sofferenza seguì
un’altrettanto copiosa gioia.
Ero libero ormai, avrei potuto finalmente riabbracciare mia moglie e
parlare di nuovo con Kawamura, il mio migliore amico. La vita cui ero
stato strappato mi attendeva! La grande felicità provata lì per lì mi fece
dubitare che ciò stesse davvero accadendo. Stavo forse sognando? In tal
caso, prima o poi mi sarei risvegliato. Se dopo un tale gaudio fosse giunta
di nuovo la disperazione, a quel punto, credo che mi sarei davvero
suicidato.
Con il corpo tremante per la felicità, poggiai le mani sul bordo della
bara e, infilate le gambe nella fossa, iniziai a indagare con i piedi. Eccoli,
l d l d d d l
eccoli! La punta del piede aveva incontrato dei gradini scavati nel terreno.
Ero salvo.
Capitolo 9

Il demone dai capelli bianchi

Discesa la scaletta e percorso uno stretto e buio tunnel strisciando, mi


ritrovai su un fianco del rilievo montuoso. L’imbocco del passaggio era
coperto di rovi e cespugli, in modo tale che dall’esterno non fosse visibile.
Come prima cosa, sulle mie guance avvertii il soffio della brezza marina.
Accogliendola avido dentro di me, spezzai i rovi e sgattaiolai fuori: nel
cielo brillava una luna bianchissima e, osservando dall’alto la distesa
marina, vidi delle magnifiche onde argentee danzare. Era sera e quindi,
per fortuna, forse nessuno mi avrebbe visto girare con indosso la veste da
morto.
Mi chiesi che ora potesse essere. Osservai la città e vidi le sue luci
risplendere bellissime. Mi sembrava perfino di udire le allegre voci delle
persone che giravano per le strade del centro. Non doveva ancora essere
notte fonda…
Alla base del monte scorreva un fiumiciattolo sottile come un filo e
nelle sue acque si rifletteva vivo il bagliore della luna. Ah, l’acqua!
Finalmente non si trattava più di un’allucinazione, ma di vera acqua.
Discesi la montagna scapicollandomi sulle pendici. Che meraviglia era
quell’acqua, gelida come poche ma buona come non mai!
La attinsi con entrambe le mani e la luna vi danzava in mezzo. Bevvi
l’acqua dolce come rugiada, la trangugiai insieme all’argentea luna.
Ricaricavo e subito bevevo, ricaricavo e bevevo… continuai fino a che lo
stomaco non si gonfiò e ghiacciò. Bevvi fino a scoppiare e, ripulitomi la
bocca con le mani, mi alzai di scatto. Poi, dalla riva del fiume, contemplai
le lontane luci della città.
Ah, era pura gioia! Finalmente ero ritornato me stesso, il visconte
Ōmuta. Il marito della splendida Ruriko. Il migliore amico del talentuoso
Kawamura. Inoltre, in quanto esponente della famiglia più altolocata della
città, ero l’uomo più rispettato dalla popolazione.
Prima accennavo che la mia vita, in particolare i due anni di
matrimonio, fino al momento di precipitare dal Sasso Infernale era stata
un’esperienza paradisiaca; era comunque nulla paragonata alla
contentezza di quel momento. Se la prima era il Paradiso, allora la
seconda ne corrispondeva a uno di livello superiore. Rivolto alla luna nel
cielo, esternai con un grido la gioia racchiusa in me. La felicità andava
urlata al mondo. “O divinità, perdonatemi! Rinchiuso nella tomba io ho
insultato il vostro nome, perdonate il mio crimine. Voi, invece, mi avete
protetto fin qui! Vi sono grato in ogni modo!” pensai.
Per prima cosa, volevo rivedere al più presto il viso di Ruriko. Alla vista
di me “risorto”, chissà che faccia avrebbe fatto? Di sicuro, le si sarebbe
dipinto in volto un sorriso oltre ogni immaginazione e sarebbe corsa a
stringersi al mio petto. Poi, avvinghiata a me con entrambe le braccia,
sarebbe scoppiata a piangere per la felicità. Al solo pensiero, mi batteva
forte il cuore.
Però, un attimo! Non potevo certo tornare a casa conciato in quel
modo. Sarebbe stato meglio prima fermarmi in un negozio dell’usato in
città e cambiarmi il kimono. E poi, avevo fame. Una volta tornato a casa,
sarebbe stato davvero disdicevole mangiare a quattro palmenti di fronte a
lei. Quindi, una volta risolto il problema dell’abito, mi sarei fermato in
una locanda e in gran segreto avrei prima di tutto soddisfatto l’appetito.
Chissà perché mi preoccupavo tanto per mia moglie. Se davvero avessi
trovato disdicevole presentarmi da lei con la veste da morto, mi sarei fatto
portare un kimono dalla servitù. Anche voi la penserete così, immagino, e
in effetti il ragionamento non fa una grinza. Però, io ero talmente
innamorato da provare vergogna. Per me era inaccettabile farmi trovare
smunto per il lungo digiuno e con l’abito funebre sporco di terra. Volevo
f b lb ld d l l
p g g p
prima farmi un bel bagno caldo e radermi; insomma, rincontrarla come il
visconte Ōmuta di sempre.
Armato di tali intenti, rientrai nel sepolcro e prelevai dal tesoro dei
pirati alcune banconote giapponesi. Me le infilai tra le pieghe della veste e
mi incamminai verso la città. Per fortuna, all’imbocco del centro abitato,
mi imbattei subito in un vecchio negozio di abiti usati.
Senza tergiversare, imboccai l’entrata del negozio e il mio fare
impetuoso destò l’anziano negoziante che sonnecchiava avvolto dalla
semioscurità. Spalancò di botto gli occhi e, squadrandomi per l’insolito
aspetto che avevo, manifestò dello stupore. La veste da morto di cotone
bianco, in fin dei conti, poteva anche passare per uno juban15.
Inventandomi una scusa davvero assurda, ovvero che ero caduto da una
barca e non mi sentivo a mio agio col kimono bagnato, gli chiesi di
vendermi degli indumenti usati.
Evidentemente, nei negozi di abiti usati della costa a volte capitavano
anche clienti del genere, poiché il mio interlocutore non si scompose
affatto e mi diede un awase16 usato.
«È un bel problema! Intanto, vista la situazione, potreste trovare riparo
da queste parti per un po’».
Alla vista del kimono che mi porse, mostrai disappunto.
«Anche se sono un po’ malconcio, questa veste mi sembra davvero
troppo dimessa».
Il negoziante storse il viso e mi puntò gli occhi addosso.
«Haha! Non è per nulla dimessa! Per una persona avanti con l’età come
voi, direi che è perfetta!».
Sentendo tali parole, rimasi di sasso. Quel vecchio awase a righe era
adatto a un uomo di cinquanta o sessant’anni. Dirmi che mi stava bene era
un affronto bello e buono.
Inizialmente pensai di tuonargli contro degli improperi, ma se il
vecchietto si esprimeva in tal modo poteva darsi che dentro la tomba, a
causa delle immani sofferenze patite, il mio aspetto fosse cambiato e
divenuto quello di un anziano. Assalito dal dubbio, gli chiesi se vi fosse
uno specchio e mi rispose che in un angolo del doma17 ve ne era uno
vecchio a grandezza d’uomo.
Senza riflettere, mi diressi verso lo specchio e, non appena vi scorsi il
mio riflesso, rimasi impietrito per lo stupore.
Quello lì non ero io, ma una orripilante creatura! Per un attimo pensai
che nella stanza vi fosse un mostro e avessi scorto il suo riflesso nello
specchio, ma quando d’istinto mi voltai per guardarmi intorno non vidi
nessuno.
Provai a sollevare il braccio destro e a tastarmi il volto. Successe allora
una cosa inspiegabile: anche il mostro dello specchio, allo stesso modo,
stava sollevando il suo. Mi ero trasformato in quella creatura.
Al posto degli occhi avevo due fosse scure, il volto era agghiacciante, un
orripilante fascio di nervi smunto e ossuto. Per giunta, mi sconvolse che
della chioma corvina di cui tanto mi vantavo non rimanesse più nulla e al
suo posto svettasse una capigliatura bianca, come tanti fili d’argento messi
insieme. Ma, in fin dei conti, non poteva andare altrimenti. Ero un
demone dai capelli bianchi giunto strisciando dal fondo dell’Inferno.
Vedendomi, forse, un bambino sarebbe scoppiato a piangere. Se avessi
camminato per le strade della città, la gente sarebbe fuggita. Un terribile
demone dai capelli bianchi, quello era il mio aspetto…
Mi tornò alla mente la storia di un uomo che, tanto tempo prima, aveva
affrontato le Cascate del Niagara dentro una piccola botte di ferro. Si
trattava di vincere una scommessa in cui erano in gioco molti soldi. Era
riuscito a discendere le cascate e a intascare il bottino, ma quando il
personale della barca di soccorso lo aveva ripescato, nessuno aveva potuto
trattenere un grido di stupore alla vista di lui che usciva spossato dalla
botte. Quando vi era entrato era un giovane dai morbidi capelli rossi, ma
nell’attimo in cui era precipitato nelle cascate la sua chioma si era tinta di
bianco.
Quell’articolo assurse per me a monito di come la più grande delle
paure, in un batter d’occhio, possa far venire i capelli bianchi a una
persona.
Eh già, mi era successa la medesima cosa. La paura da me provata nella
cripta fu pari a quella dell’uomo delle Cascate del Niagara. Un’esperienza
orribile, senza precedenti nella storia. Che le nostre sembianze avessero
subito una pesante mutazione non era per nulla assurdo e i capelli ne
rappresentavano il segno più evidente.
Il mio aspetto era davvero orribile! Pensando a come ero prima, mi
veniva da piangere per lo sconforto.
f l l d ll h
La felicità provata con l’evasione dalla cripta, in pochi attimi, era
mutata in uno sconforto senza fine. Con quel volto e quel corpo non
avevo il coraggio di riabbracciare Ruriko. Alla mia vista, avrebbe provato
disgusto. Oppure, per la paura, non si sarebbe neppure avvicinata. E,
qualora non fosse rimasta atterrita, sarebbe comunque stato impossibile
per me, un orribile vecchio, vivere accanto a lei come suo marito. Mai
avrei voluto che abbracciasse un tale destino. Dal momento che indugiavo
davanti allo specchio immerso nei pensieri, il negoziante spazientito
sbottò.
«Allora, signore, vi piace lo awase?».
Tornato in me all’improvviso, gli risposi con fare confuso.
«Certo, per me è perfetto. Lo prendo».
Un vecchio dai capelli bianchi aveva giudicato triste quel kimono a
righe: a ripensarci, provai un senso di vergogna tale da scoppiare in
lacrime.
Il negoziante mi consegnò lo awase e lo indossai sopra la veste da
morto. Mi diede anche un obi18 e, una volta allacciatolo, mi specchiai
nuovamente. Sembravo proprio uno uscito di galera che si era cambiato
d’abito nella stanza in cui vengono recapitati i doni da parte dei congiunti.
Ah, sotto quelle orribili spoglie, neppure gli amici più stretti mi avrebbero
riconosciuto. Neppure Kawamura o Ruriko sarebbero mai riusciti a capire
che quel vecchio ero io.
All’improvviso mi venne una curiosità e rivolsi una domanda
all’anziano negoziante.
«Scusate, per caso conoscete il visconte Ōmuta?».
Il negoziante diede prova di conoscermi perché rispose: «Ovvio, si
tratta del figlio del vecchio signore locale. Si dice fosse una brava persona
ma, ahimè, gli è toccato un triste destino».
«Che cosa intendete per triste destino, che gli è capitato?» chiesi
fingendo di non sapere nulla.
«È caduto dal Sasso Infernale ed è morto. Provenite forse da un paese
straniero… o non avete letto i quotidiani? La notizia ha fatto clamore!».
«Davvero? E quindi, quando è morto?».
«Cinque giorni fa. Ecco, ho qui i giornali di quel giorno. Leggendoli, vi
farete un’idea precisa».
Mentre parlava, mi passò un quotidiano locale. Rimasi stupito dal fatto
che ben metà della sezione di cronaca nera fosse dedicata al mio caso.
Incredibile, stavo leggendo un articolo sulla mia morte! Per di più,
nonostante svettasse una mia foto in bella vista, il negoziante non si rese
minimamente conto che si trattava della persona di fronte a lui. Ma
probabilmente, in futuro, mi sarei trovato in altre situazioni assurde come
questa.
Ero precipitato nello sconforto. Anzi, quella situazione tanto triste
aveva dell’assurdo.
«Eppure il visconte, nonostante sia morto, alla fine dei conti forse è più
felice così. Quando si vive a lungo, sapete come va di solito con le mogli…
non vi è mai nulla di buono. Forse avrebbe finito per avere la mia stessa
visione pessimistica del mondo».
Con un atteggiamento inusuale per un commerciante, l’uomo sembrò
rievocare ricordi passati e si chiuse nei propri pensieri.
Quelle parole mi colpirono, e non riuscii a ignorarle.
«Che intendete con “come va di solito con le mogli”, caro signore?»
ribattei con noncuranza.
«Forse non ne dovrei parlare ma, vedete, per quanto il giovine Ōmuta
fosse una brava persona, di contro la sua signora… ecco…» finì il discorso
mangiandosi le parole.
Quella non era una qualsiasi dama, diamine, stava parlando di Ruriko,
mia moglie! Sentire di lei “di contro la sua signora…” era un affronto
incommensurabile. Furioso come ero, pensai che gli fosse andato di volta
il cervello, ma volevo sentire il resto del discorso.
«Ebbene, cosa avrebbe fatto la signora?».
Alla domanda, come non aspettasse altro, il negoziante sciolse la lingua.
«Anche se non facesse nulla, già quel suo bel viso di per sé costituisce
un problema. Agli occhi di un uomo appare come un angelo, e degli
angeli non ci si può fidare!».
Il discorso prese una piega contorta e, con lo sguardo iniettato di
sangue, chiesi al negoziante: «Ma che significa ciò? Voi, cosa sapete?».
Maledetto vecchio, quali nefandezze avrebbe vomitato sulla mia amata
Ruriko?
Capitolo 10

Un sorriso che incute terrore

«Quel sorriso è come una droga. Anche mia moglie aveva un sorriso
simile!».
Il negoziante diceva cose sempre più strane.
«A vostra moglie cosa è capitato?».
Sotto la soffusa luce emessa dal lume, il suo viso percorso da mille
ombre si contrasse e rispose con tono cupo: «A mia moglie? L’ho uccisa
con queste mani!».
Fui percorso da un brivido, alla vista dell’espressione del mio
interlocutore non riuscivo a proferire parola.
«Haha!» rise rilassato. «Ma no, non dovete preoccuparvi! È vero, sono
un assassino, ma ho già scontato il mio debito con la Legge. Ho commesso
un reato in passato, ma non sono un uomo malvagio. Mi sono solo
vendicato della donna che mi ha fatto ingurgitare acqua bollente».
«Una vendetta?» feci sovrappensiero scrutando il volto di quel vecchio
avvizzito.
«Haha! Su, prendetela a ridere anche voi. Ero giovane allora, si tratta di
fatti accaduti almeno vent’anni fa. Fosse oggi, non mi comporterei più in
quel modo. All’epoca, anche nel mio petto ormai incanutito fluiva sangue
giovane e vigoroso. Sono fatti di cui provo vergogna e ben noti a tutti. Io
stesso non faccio nulla per nasconderli. Li confesserò anche a voi, quindi
vi prego di ascoltarmi».
Alla fine, sebbene fossi entrato nel negozio per tutt’altro motivo, mi
ritrovai ad ascoltare il terribile racconto dell’anziano negoziante. In
seguito, seppi che l’uomo raccontava quei fatti a chiunque gli capitasse a
tiro ed era considerato un tipo bizzarro dalla gente del circondario.
Per sommi capi, l’anziano raccontò che vent’anni prima, quando era
ancora trentenne, si era reso conto che la sua bella moglie aveva un
amante e che in sua assenza gli adulteri si incontravano furtivamente.
Allora un giorno aveva finto di partire per un viaggio ma era rincasato
proprio mentre i due stavano copulando e, con un coltello che portava
con sé, aveva sferrato un colpo mortale all’uomo.
«Mia moglie, che aveva assistito alla scena, lanciò un grido sovrumano e
si scagliò contro di me. Dapprima pensai che volesse ingaggiare una
colluttazione, ma in realtà non fu così. Quella carogna provò a fare la
civetta pregandomi di risparmiarle la vita. Quel suo volto da cagna!
Anche ora mi sembra di vedere l’espressione che aveva! Le pupille fuori
dalle orbite per la paura, il viso pallido e sfigurato. Ma lei si sforzava
comunque di sorridermi. Sorrideva con malizia, per cercare di sedurmi. E
più si sforzava di sorridere, più il volto le veniva solcato da lacrime amare.
Le sue mani fredde lambirono il mio collo. “In realtà sei tu quello che
amo! Dimentica tutto, dimentica! Perdonami!” strillava con voce acuta.
Ma perché avrei dovuto cedere al suo gioco? La respinsi e poi la minacciai
con il coltello intriso del caldo sangue del suo amante! Glielo puntai
davanti al viso dicendole: “Ecco, questo rimane del tuo compagno di
sesso, ora te lo infilo diritto nel petto affinché non si separi mai da te”, e la
pugnalai al cuore!». Il negoziante sbottò in una risata secca e sommessa.
«Dopo ciò mi costituii e, scontata la pena, finalmente due anni fa sono
uscito di galera. Anche a nasconderlo, il segno del crimine prima o poi
diviene di pubblico dominio. E nel momento in cui gli altri se ne
accorgono, chi ti salutava inizia a rivolgere il viso dall’altro lato quando ti
incrocia. Anche i parenti smettono di venirti a trovare. Di amici non ne
ho, così come una moglie o figli. Sono uno per cui la vita non ha più un
senso. Ci sono anche volte in cui penso che sarebbe meglio farla finita ma,
incapace di togliermi la vita, continuo a trascorrere i miei giorni da
infelice. Caro signore, le donne sono dei diavoli! Anche il visconte, se
l f d ll l bb b bl
avesse continuato a vivere al fianco di quella lì, avrebbe probabilmente
fatto la mia stessa fine, ecco ciò che ahimè penso in cuor mio…».
Ascoltato il terribile racconto, provai una sensazione di disgusto che mi
impedì di proferire verbo. Forse mi ero rivolto alla persona sbagliata, ma
paragonando una squallida adultera alla mia innocente Ruriko quel
vecchiaccio aveva oltrepassato ogni limite dell’affronto.
«Ma vedete, anche se vostra moglie era una tale donnaccia, ciò non vi
dà il diritto di calunniare la signora Ōmuta. Stando a quel che sento in
giro, è donna di incommensurabile virtù!».
Alle mie parole il negoziante scosse il capo.
«La verità e le dicerie solitamente sono molto diverse tra loro. L’altro
giorno, mentre camminavo per le vie della città, mi sono imbattuto nel
corteo funebre del visconte e, per un qualche motivo, la carrozza che
trasportava la signora Ōmuta mi ha urtato all’altezza dei fianchi, tanto
forte da farmi cadere per terra. Certo, da parte mia me ne stavo a
gironzolare intorno al corteo, ma non so se la si possa definire una colpa.
Del resto, non credete che alla vista di un anziano accasciato al suolo
avrebbe dovuto almeno porgermi una parola di scuse? Il cocchiere mi ha
rivolto uno sguardo di commiserazione e credo abbia anche provato a
fermare la carrozza, ma la signora, col suo bel sorriso, glielo ha impedito
facendogli proseguire la corsa. Inoltre, mentre sedeva comoda nella
carrozza, sorridendo dolcemente mi osservava dolorante a terra, come
fosse uno spettacolo divertente. Ah, quel sorriso! Mi ha lasciato senza
fiato. Era identico a quello di mia moglie. Per un attimo, ho pensato
addirittura di trovarmi di fronte al suo fantasma».
Mentre parlava, il suo corpo tremava visibilmente per la paura.
Non ne potevo più di ascoltare le storie farfugliate da quel triste
vecchio pazzo e mi gettai fuori dal negozio. Tuttavia, c’era un pensiero che
non mi abbandonava.
Fino a quel momento, tutti avevano sempre tessuto le lodi di Ruriko e
pensavo che in lei non vi fosse un singolo aspetto negativo. Onestamente,
ero sbalordito dal constatare che tra il volgo vi fosse chi ne infangava il
nome.
Ma di che parlava? Una cosa del genere non stava in piedi! Quello era
solo un pazzo, un povero pazzo! Una come Ruriko non avrebbe mai
compiuto un gesto deplorevole quale offrire il proprio cuore a un altro
uomo. Eppure, anche ridendoci sopra, mi rimase un tarlo nella testa.
Che tristezza! La storia del vecchio non aveva davvero senso. In ogni
caso, volevo tornarmene subito a casa. E una volta lì, alla vista del sorriso
di Ruriko, tutti i pensieri sarebbero svaniti in un attimo. Ecco, era meglio
sbrigarsi a rincasare.
Ormai mi ero scordato della fame e di ogni altra cosa e di gran carriera
mi affrettavo verso la residenza degli Ōmuta. I miei piedi intorpiditi erano
impazienti, se avessi avuto le ali avrei spiccato il volo. Purtroppo, da
quelle parti di risciò non se ne vedevano e io camminavo trascinando il
mio corpo stanco che poteva cedere da un momento all’altro, sospinto
solo dalla voglia di rivedere lei.
Capitolo 11

Doppio omicidio

Sebbene avessi camminato da un capo all’altro della città, trattandosi di


un centro abitato di piccole dimensioni, anche malmesso com’ero non
impiegai molto ad arrivare.
Giunto a destinazione, il cancello principale d’ingresso era serrato e i
raggi lunari che illuminavano a giorno si riflettevano bianchi sui pali del
cancello. All’interno tutto taceva e l’impressione generale era di una triste
residenza a lutto per la scomparsa del padrone. Ruriko senza dubbio si
trovava in qualche angolo della casa, col volto solcato dalle lacrime,
impegnata a parlare a voce sommessa con la mia tavoletta mortuaria19.
Ah, poverina, ma non appena avesse saputo che ero tornato in vita, chissà
come sarebbe stata felice. Probabilmente sarebbe corsa ad abbracciarmi
forte tra mille lacrime.
Ero mutato al punto di sembrare un altro: quale spavento avrebbe
preso vedendo il mio nuovo aspetto! Probabilmente si sarebbe messa
anche a gridare. Tuttavia, sebbene il volto e il corpo non fossero più gli
stessi, nulla era mutato nel mio cuore ardente d’amore. Sicuramente
sarebbe rimasta di sasso nel vedere il mio viso, ma non avrebbe
dimostrato né paura né disgusto. Lei non era una qualsiasi sciacquetta
anaffettiva.
Comunque, presentandomi così al portone d’ingresso avrei preso tutti
alla sprovvista e mi sarei sentito in imbarazzo di fronte alla servitù.
Entrando invece dal retro e passando per la casupola del giardiniere, mi
sarei intrufolato nel salotto privato di Ruriko e avrei attirato la sua
attenzione picchiando sugli shōji20. Chissà quale sarebbe stata la sua
sorpresa. Ma, ancor di più, la felicità!
Seguendo la recinzione giunsi alla porta sul retro. Man mano che mi
spostavo verso la parte posteriore della casa la vegetazione si faceva più
fitta, la luce della luna si affievoliva e l’oscurità rendeva difficile
distinguere la strada. Spinsi il cancello e quello si aprì come sempre senza
difficoltà. Se Kawamura veniva a trovarmi in genere facevamo le ore
piccole e, quando andava via, lo facevo uscire da quella porta. Forse era lì
anche quel giorno per offrire conforto a Ruriko.
Una volta oltrepassata l’entrata, sui lati si estendevano due file di
frondose siepi dove anche durante le ore diurne regnava la penombra. Nei
giorni più caldi, con un buon libro di filosofia sotto il braccio, ero solito
passeggiare tra le siepi e fantasticare circa i grandi teorici del passato.
Immerso tra sogno e realtà, continuavo a procedere a zonzo. Giunsi poi
nel punto in cui il sentiero sfociava nell’ampio giardino e dall’altro lato
della vegetazione percepii una voce. Cari signori, a chi pensate
appartenesse? Non appena giunse al mio orecchio, rimasi impietrito come
se mi avessero picchiato sulla testa.
Era Ruriko, la sua voce. In quei cinque giorni di prigionia nella cripta
non l’avevo dimenticata neppure per un attimo, la voce della mia adorata
moglie.
Cercando di tenere a freno il mio cuore che palpitava a mille, provai a
sbirciare tra la vegetazione.
Eccola, era lei! Non vi era dubbio, si trattava proprio di Ruriko, la mia
Ruriko. Indossava un kimono bianco e, con un sorriso felice dipinto sul
volto e rischiarata dai raggi della luna, incedeva nella mia direzione. Mi
venne l’istinto di pronunciare il suo nome, “Ruriko!”, e di spuntare fuori
all’improvviso dalla vegetazione. Ma attenzione, attenzione. Stavo per
farmi scoprire.
In quel momento, qualcosa mi fermò. Non una persona, bensì il mio
stesso cuore. Dentro di me covavo uno strano dubbio e quello bloccò il
l
q
mio agire sul nascere.
In altre parole, nonostante lo stato di disperazione in cui sarebbe
dovuta versare per la perdita del marito, Ruriko camminava come se
niente fosse in giardino con un innocente sorriso stampato sul volto. Era
davvero strano, una scena che non mi sarei immaginato di vedere neppure
in sogno.
Ma, un attimo. Capitava anche che per il dolore una persona perdesse
temporaneamente il senno. E forse la mia fragile Ruriko, per la tristezza
legata alla mia scomparsa, aveva smarrito il lume della ragione.
In quel momento, ero perso tra le congetture.
Se davvero era impazzita, la questione si faceva più semplice. Sarei
dovuto sbucare fuori dalla vegetazione per abbracciarla con passione, in
tal modo sarebbe tornata in sé per la gioia provata.
Stavo per mettere in pratica il piano e mostrarmi a lei, quando il mio
sguardo si posò sulla figura al fianco di Ruriko, una persona che le stava
praticamente attaccato mentre camminava. Era il mio fratellino, ma cosa
dico fratellino, lui era ancora più intimo, il mio migliore amico Kawamura.
Con una mano stringeva quella di Ruriko, mentre con l’altra le cingeva i
fianchi. Era una di quelle pose che nemmeno una coppia sposata avrebbe
esposto alla vista altrui e i due camminavano così dando un’impressione di
grande intimità.
Per quanto fossi stupido, be’, vedendo insieme Kawamura e Ruriko era
da escludere che fossero impazziti entrambi. In realtà, erano amanti. Per
giunta, si rallegravano della mia insolita morte stringendo tra loro un
torbido sodalizio.
Signori, provate a immaginare il mio stato emotivo in quel momento.
Anche ora, non mi è possibile dimenticare la tristezza provata in quel
momento.
Se avessi saputo tutto ciò non mi sarei affaticato tanto per evadere dalla
cripta. Sarebbe stato meglio morire sottoterra tra gli stenti, di gran lunga!
Il terrore e il dolore provati nella tomba non erano nulla di fronte alla
sofferenza per aver colto mia moglie in tali atteggiamenti.
Sarebbe bastata anche la metà della rabbia provata per mandarmi fuori
di senno, sbucare fuori dalla vegetazione urlandogli contro “traditori!” e
ammazzarli entrambi seduta stante.
Tuttavia, il mio risentimento era in qualche modo diverso dal normale.
Il rancore più profondo non si esprime con le parole, ci si scorda di ogni
cosa, anche di muoversi: il mio corpo, infatti, non aveva più coscienza di
trovarsi lì ed era duro come la pietra. Ormai non avevo nulla di umano,
ero divenuto un agglomerato di odio. Quei due maledetti, ma cosa erano
venuti a fare lì? Non respiravano, non si muovevano e regnava un silenzio
di tomba.
Gli adulteri non potevano certo immaginare che lì accanto, acquattato
all’ombra della vegetazione, vi fosse il terribile visconte Ōmuta Toshikiyo.
A un certo punto si accomodarono sulla panchina che avevo fatto
realizzare per me e Ruriko e, stretti l’uno all’altra, si scambiavano parole
d’amore con voce flebile come una coppia sposata. Ma cosa dico, davano
l’impressione di essere ben più intimi di due coniugi, erano amanti!
Dal punto in cui mi trovavo alla panchina vi era appena un metro di
distanza. I due erano avvolti dalla luce della luna. I miei occhi, e mai avrei
voluto vedere scena simile, distinguevano chiaramente ogni singolo
muscolo dei loro volti e le voci sommesse mi rimbombavano nelle
orecchie come il boato di cento fulmini.
Si tenevano mano nella mano come due bambini e contemplavano l’uno
il volto dell’altra gongolanti. Di certo, erano belli mentre si fissavano senza
distogliere lo sguardo neppure per un attimo.
Il viso di Ruriko era proprio di fronte a me. Ah, quel volto
dall’espressione gioiosa, quel sorriso languido! Bastava un’occhiata per
capire che né una lacrima era stata versata per la mia morte, né alcuna
tristezza aveva solcato il suo viso.
Quando il vecchio del negozio di vestiti mi parlò del “sorriso del
diavolo” si riferiva proprio a quella espressione, in merito non avevo
dubbi. Tuttavia, lei era un diavolo davvero bello e immacolato. In quel
sorriso innocente come un bimbo appena nato, come poteva mai
albergare un animo tanto malvagio? Non riuscivo davvero a crederci! Per
quanto la detestassi, ero incapace di rimanere indifferente
all’incommensurabile bellezza di colei che fino a poco prima era mia
moglie.
Si tenevano ancora mano nella mano e i loro volti sprizzanti felicità,
prima distanti, si erano fatti molto vicini.
Non riuscivo a scorgere il viso di Kawamura, ma lo sentivo ansimare
per la passione. Ruriko, invece, aveva il volto leggermente rivolto verso
l’alto, gli occhi socchiusi e le labbra protese in avanti, quelle labbra simili
a petali di fiori che sprigionavano una forte carica di sensualità. Non
riuscivo più a resistere! Tuttavia, per quanto non volessi assistere alla
scena, ignorando gli ordini, i miei occhi continuavano a puntare Ruriko.
f l l bb d l l
Infine, le labbra degli amanti si unirono e per lungo tempo non si
staccarono.
Li vidi con questi occhi e li sentii con queste orecchie.
Le bianche dita di lei si spostavano leggere lungo la schiena di
Kawamura, dai fianchi verso il centro. Come sensuali zampe di ragno, si
aggrappavano energiche al tessuto dell’abito di lui e, di respiro in respiro,
avanzavano. Poi, a un certo punto, le mani si incontrarono e le dita si
intrecciarono strette tra loro. Mentre lo baciava, Ruriko abbracciava
Kawamura e lui ricambiava allo stesso modo. I due, avvinghiati come
bestie, visti dall’esterno sembravano fusi in un unico corpo.
Digrignai forte i denti e strinsi i pugni fino a conficcarmi le unghie nei
palmi. Dello sgradevole sudore freddo mi colava dalla fronte e dalle
ascelle. Per di più, stando lì accovacciato, il mio corpo tremava
irrefrenabile per la rabbia.
Se quella squallida scena fosse andata avanti, preso dalla follia mi sarei
gettato in mezzo a loro. Oppure, fuori di senno, avrei perso i sensi.
«Senti, Yocchan!».
Le labbra di Ruriko si schiusero come la corolla di un fiore e
pronunciarono il nome di Kawamura. Fino a cinque giorni prima lo
chiamava “signor Kawamura”, ma in men che non si dica era divenuto
“Yocchan”21.
«Yocchan, dobbiamo essere grati al Sasso Infernale, se non si fosse
sgretolato ora noi due non potremmo starcene così».
Ah, maledetta! Si stava addirittura rallegrando che io avessi perso la
vita in quel modo assurdo.
«Be’, più che alla roccia, è a me che dovresti fare i complimenti, Ruriko.
Non penserai mica che sia franata per un caso fortuito, vero?
Naturalmente, a pensarci è agghiacciante, ma ti volevo per me e in forza di
ciò mi sono addirittura macchiato di un doppio misfatto. Eh sì, ho ucciso
ben due persone! Dopo tutto quello che ho fatto per te, non vorrai mica
ripudiarmi, vero? Perché in tal caso, preparati a un terzo omicidio».
Kawamura, certo che ad ascoltarli non vi fosse altri che la luna,
confessò i suoi atroci crimini e poi cinse col braccio le spalle di Ruriko.
Sentite le sue parole, mi salì il cuore in gola. Quindi non ero precipitato
dalla roccia per un caso, ma perché lui aveva ordito una trappola ai miei
danni. Ero stato assassinato. Mi avevano ucciso…. sì, ma ero tornato in
vita.
Il colpevole era Kawamura. Lui, il più stretto tra gli amici, la persona
che amavo di più dopo mia moglie. Se aveva quell’aspetto da damerino,
chi pensava di dover ringraziare se non il sottoscritto? Ero stato io a
mantenerlo fino a quel momento! E lui, come ringraziamento, mi aveva
rubato la moglie e per giunta ucciso.
Tradito dalla moglie, tradito un amico e da questi stesso ucciso! Per di
più, lui mi aveva addirittura sepolto vivo, una cosa da far rizzare i peli del
corpo! Al mondo non si era mai sentito nulla di simile, mai una tortura
era stata tanto dolorosa! Come non odiarli? Come non esplodere dalla
rabbia? Maggiore era la sofferenza patita, maggiore era la rabbia provata!
E più la rabbia accresceva, più il mio cuore gridava vendetta.
Miei cari signori, vi ricordate che il mio casato si fonda sul rancore e
che siamo ostinati fino al midollo? Nel nostro sangue, scorre una carica
vendicativa doppia rispetto a qualsiasi altra persona. E per quanto mi
riguarda, ormai ero divenuto un demone vendicatore. Il motivo per cui
non mi scagliai seduta stante sugli adulteri risiedeva proprio nel mio cuore
vendicativo. Del resto, non covavo un rancore leggero, di quelli che
mandano su tutte le furie. Rimanere tranquilli, strutturare un piano con
calma e restituire all’altro un dolore pari a quello ricevuto, ecco cosa
significava per me la vendetta!
Ma a parte ciò, trasalii per la clamorosa confessione di Kawamura e
rimasi pietrificato. Concentrai le mie energie nell’ascolto, in attesa che lui
continuasse a parlare. Fui attento a cogliere ogni singolo dettaglio, nulla
doveva sfuggirmi.
Aveva parlato di un doppio omicidio: uno di sicuro ero io, ma l’altro
invece? Di chi mai si trattava? Era un dettaglio che mi premeva conoscere.
La seconda vittima, avevo il forte presentimento che si trattasse di un mio
congiunto.
Ma chi poteva essere? Per quanto ne sapessi, nella mia famiglia non vi
erano stati omicidi o morti di recente.
Eppure non avevo dubbi, doveva essere così. Qualcosa che andava
addirittura oltre la verità angustiava il mio cuore. Una cruenta
allucinazione si parò davanti ai miei occhi, una persona a cui ero molto
legato che veniva brutalmente uccisa.
Capitolo 12

Le magnifiche bestie

Miei cari signori, provate un attimo a immaginare la scena. Un’adultera e


il suo amante amoreggiano e il marito, dai due tradito e assassinato, sta lì a
guardarli in silenzio. Una tale situazione, ma quando e dove si era mai
vista?
Davanti ai miei occhi, si dipanò un fatto sconvolgente, tale da rivoltare
cielo e terra e che mi lasciò stravolto. Fui investito da un senso di tristezza
e solitudine rispetto al quale neppure il grande trichiliocosmo22 poteva
offrire consolazione. Persa la forza di pensare, riuscivo solo a starmene lì
immobile.
Le parole che si scambiavano i due amanti scorrevano senza sosta.
Sebbene mi sforzassi di non ascoltarle, mi si conficcavano nei timpani
come aghi avvelenati.
«La morte del visconte mi rende felice, certo, ma Yocchan… è meglio
che per un po’ ti allontani da qui. La servitù potrebbe mettere in giro
spiacevoli chiacchiere e darmi dei problemi… e io, haha, dovrei essere a
lutto per la morte di mio marito».
«Be’, certo, da questo punto di vista incontravamo meno problemi a
vederci quando il visconte era in vita. Non nutriva sospetti su di noi e, a
cominciare dai due guardiani della villa che tenevano lontani gli ospiti
indesiderati, faceva addirittura in modo che la gente non dubitasse di
noi».
«Eppure, quando era in vita lo disprezzavo così tanto!».
«Ma certo, mille volte meglio averlo morto! Per questo mi sono dato da
fare al Sasso Infernale. Non hai neppure idea di quanto lo detestassi
pensando a tutti i baci che ti rubava».
Signori miei, avete capito bene. Ma in che mondo siamo? Un marito
che ruba baci alla propria moglie? Come se avesse bisogno di
strapparglieli contro voglia.
Maledetto Kawamura, mi vedeva quindi come un volgare ladro. Io, che
lo amavo come un fratello. In quel momento, sul volto aveva stampata
un’espressione di tripudio. Una volta eliminato l’elemento di disturbo, si
sentiva finalmente sollevato. Maledetto mezzo uomo, se avesse girato un
po’ il suo bel visetto e guardato bene avrebbe scorto un demone dai
capelli bianchi che, alle sue spalle, ansimava di rabbia e dolore. Non mi
importava a quale prezzo, ma gli avrei riversato contro tutto il mio odio e
quando avesse visto i miei occhi infiammati dal desiderio di vendetta, il
pusillanime sarebbe divenuto preda del terrore e rovinato al suolo privo di
sensi.
I due rimasero seduti sulla panchina per lungo tempo, mentre io
alimentavo il fuoco del mio desiderio di vendetta colandovi sopra dell’olio
per infondergli maggior vigore. In quel mentre, la conversazione
oltrepassò ogni limite della decenza. Paralizzato dalla rabbia, ero lì ad
ascoltarli, a osservarli… dal gesto più insignificante a ogni singola parola
pronunciata, ancora oggi ricordo i minimi dettagli. Ma se vi sciorinassi
ogni cosa, miei cari, vi annoierei. Quindi, meglio non aggiungere altro e
proseguire con il racconto.
Trascorsa un’oretta a conversare tranquilli, gli adulteri rientrarono con
calma in casa, sempre mano nella mano. Dopo poco, si illuminò la finestra
della camera da letto in stile occidentale mia e di Ruriko. La luce squarciò
il buio e sulle tende gialle apparvero delle ombre, quelle dei due amanti.
A quel punto, non ne potevo veramente più. Ero terrorizzato e, più la
paura cresceva, meno le mie gambe accennavano ad allontanarsi da lì.
Anzi, un passo alla volta, avanzavano in direzione della finestra.
Come in uno spettacolo di ombre cinesi, le loro sagome si avvicinavano
e separavano in continuazione aumentando così la confusione della mia
mente
d d d f ll f
mente.
Digrignando i denti e serrando forte i pugni, mi accostai alla finestra e
spiai l’interno della stanza da uno spiraglio tra le tende.
Non trovo neppure le parole per descrivervi quanto da me visto, lo
lascio alla vostra immaginazione. Due magnifiche creature, come in un
quadro, erano avvinghiate tra loro.
Nonostante nell’animo fossero delle sordide bestie, i corpi e i volti
erano di una bellezza rilucente. E poi, a vederli apparivano tanto amabili!
Dopo tutto ciò che avevo subito, ero ancora convinto che Ruriko fosse la
donna più bella del Giappone. E anche Kawamura non era certo da
meno. Il cielo aveva donato a due criminali degni l’uno dell’altra dei corpi
magnifici.
Di contro, io che stavo lì a spiarli ero una creatura immonda, orripilante
e che ispirava sconforto. Tanto i cattivi erano belli, tanto un benefattore
come me era rivoltante.
Dopo un po’, iniziai a tremare per il dolore. Il tripudio delle due bestie
mi aveva fatto uscire di senno. Privo di voce, iniziai a piangere
singhiozzando. Poi presi a pugni l’oscurità, pestai furiosamente i piedi per
terra e imprecai contro le divinità.
Capitolo 13

Il pirata Shuryōkei

Il giorno seguente, mi imbarcai sul battello per Nagasaki e lasciai la città


di S.
Trascorsi un’intera notte a piangere, imprecare e riflettere. Infine, decisi
di vendicarmi. Dei malvagi macchiatisi di orribili crimini erano per di più
belli e felici? E io, nonostante fossi una persona per bene, avevo un
aspetto orripilante e toccavo il fondo dell’infelicità! Come poteva mai
accadere una cosa tanto ingiusta? Ormai, neppure le divinità ascoltavano
le mie preghiere! Dovevo io stesso scatenare su quei due la celeste
punizione, e lo avrei fatto. La mia non sarebbe stata una vendetta da poco.
Certo, per punirli potevo rivolgermi alla Legge: avrei dovuto sporgere
denuncia al tribunale, ottenere una condanna per Kawamura e Ruriko e
rientrare in possesso dei miei beni.
Tuttavia lo Stato, anche nei confronti di crimini pesanti, poteva al
massimo condannarli all’impiccagione e farli morire per soffocamento.
Oltre ciò non era in grado di spingersi. Non avrebbe inflitto loro pene
orripilanti come quelle da me patite, ossia rimanere chiuso per cinque
giorni in una cripta e sperimentare una paura tale da far venire i capelli
bianchi.
La pena inflitta dallo Stato non avrebbe mai rispecchiato quanto covavo
nel mio animo, né consentito che restituissi al mittente il dolore sofferto
così come era uso tra i miei familiari. Se qualcuno mi avesse cavato gli
occhi, io avrei cavato i suoi. Se qualcuno mi avesse strappato un dente, io
mi sarei preso uno dei suoi. Non vi era modo alcuno di estinguere la mia
sete mediante la Legge.
I due adulteri mi avevano derubato della casa, dei beni, del mio aspetto
e della stessa vita! Inoltre, come mai prima nella storia, mi avevano fatto
sperimentare l’Inferno sulla terra! Tutto ciò, mai sarebbe stato risarcito
dalla Legge.
Ci avrei pensato io stesso. Ormai, neppure le divinità mi ascoltavano.
La Legge non bastava. E per vendicarmi come volevo io, avrei dovuto
realizzare un piano e portarlo a compimento.
Ormai non ero più un essere umano, la persona chiamata Ōmuta
Toshikiyo era morta e sepolta! Di lui rimaneva solo lo spirito vendicatore.
Ero letteralmente un demone vendicatore, la mutazione poteva dirsi
completa. A un demone vendicatore, del resto, si addicono le sembianze
da vecchio con i capelli bianchi, non trovate?
Prima dell’alba, mi intrufolai nuovamente nella tomba e attinsi a piene
mani dal tesoro del pirata Shuryōkei. Avvoltolai i beni in un furoshiki23 e,
col maltolto, mi imbarcai sul battello per Nagasaki. Non fui in grado di
fare una stima esatta ma probabilmente il tesoro ammontava almeno a
200.000 yen.
Sebbene fossero beni altrui, in fin dei conti il proprietario era un pirata.
Per di più, il bottino giaceva nella tomba della mia famiglia. In parte ero
dispiaciuto, ma di sicuro nessuno mi avrebbe mai chiesto di restituire
quanto sottratto. E poi non dovevo certo impiegarli per soddisfare la mia
avidità, bensì per compiere una vendetta sostituendomi alle divinità. Lo
stesso Shuryōkei, che rubava ai ricchi per dare ai poveri, non me ne
avrebbe voluto.
Giunto a Nagasaki, mi recai nel migliore negozio di abbigliamento della
città e acquistai un completo preconfezionato ma di altissima qualità.
Sempre lì vicino, in un emporio, comprai una camicia, un cappello, delle
scarpe e anche una borsa: scelsi naturalmente solo abiti che si addicevano
a un elegante gentiluomo
l b b l d
a un elegante gentiluomo.
Terminati i preparativi, lo stesso giorno mi imbarcai con un biglietto di
prima classe su una grande nave da crociera a vapore diretta a Shanghai.
Una volta a destinazione, mi sistemai in una costosa stanza nel più
rinomato albergo della città ed elargii profumate mance al personale di
servizio. Eh sì, presi una stanza da favola fingendomi un ricco giapponese
di ritorno dall’America del Sud che, prima di rientrare in patria, aveva
fatto tappa lì.
Naturalmente non mi presentai con le mie vere generalità, ma con il
nome di Satomi Shigeyuki: si trattava di una persona reale, un parente del
ramo materno di buona estrazione, che tuttavia era molto povero e non
era stato accolto nella famiglia. Quando io ero ancora un bambino lui era
sparito all’improvviso per recarsi da solo in Sud America: da quel
momento nessuno ebbe più sue notizie e fu dato per disperso. Secondo il
mio piano, però, lui non era affatto morto ma aveva accumulato enormi
fortune e aveva deciso dopo molto tempo di rientrare in Giappone.
Satomi Shigeyuki non aveva fratelli e la sua famiglia si era estinta: le
tavolette rituali con i loro nomi, addirittura, figuravano nell’altare
buddista di casa mia. Non ci sarebbe quindi stato nessuno a sospettare un
inganno vedendolo tornare vivo e vegeto.
Sistematomi nella camera d’albergo, per prima cosa convocai il migliore
sarto della città e gli ordinai diversi completi di lusso. Poi portai una borsa
zeppa di soldi in banca e aprii un conto a nome di Satomi Shigeyuki.
Da quel momento in poi, ebbene, avrei dovuto lavorare per modificare
il mio aspetto, sia nelle sembianze sia nella voce: il primo compito
consisteva nel cancellare ogni traccia di Ōmuta Toshikiyo.
In fin dei conti, io non ero più quella persona. Grazie a quanto
accaduto al negozio di indumenti usati, quando il negoziante aveva
raccontato fatti inerenti alla mia persona senza capire che aveva di fronte
il diretto interessato, avevo compreso di essere ormai divenuto un vecchio
con i capelli bianchi. Per giunta, ero morto. Avevano addirittura celebrato
il mio funerale! Nessuno mi avrebbe mai riconosciuto.
Tuttavia, ciò valeva per la gente comune. Altro discorso era ingannare
mia moglie Ruriko e il mio grande amico Kawamura. Per quello, avrei
avuto bisogno di prepararmi a puntino. Se loro avessero avuto anche solo
un lieve sospetto, il mio piano sarebbe andato in malora.
Per celare le gote e il mento decisi di farmi crescere la barba. Anche
quella del resto, in misura minore dei capelli, si era tinta di bianco. Celato
dalla barba, qualora la mia salute fosse migliorata e il mio viso tornato
florido, non si sarebbero comunque accorti di nulla.
Tuttavia, la preoccupazione maggiore era per i miei occhi: sono dotati
di una peculiare carica espressiva e inoltre sono molto più grandi della
media e chi li vede non li dimentica con facilità. A Ruriko e Kawamura
sarebbe bastato osservarli per comprendere ogni cosa. Serviva un’idea.
Allora decisi di indossare degli occhiali scuri: avrei detto che il cocente
sole dell’America del Sud mi aveva danneggiato gli occhi e che ero
costretto a schermarli dalla luce.
In un negozio di ottica, ordinai quindi dei grandi occhiali scuri dalla
montatura d’oro. Una volta pronti, li inforcai e provai a guardarmi allo
specchio: con quelli non avrei avuto problemi. Stando alla capigliatura,
passavo per un anziano di circa settant’anni ma, siccome la mia pelle non
ne dimostrava altrettanti, decisi di spacciarmi per un uomo di mezza età,
sulla cinquantina. I grandi occhiali scuri mi coprivano quasi l’intero volto
ed erano l’ideale per infondere un senso di mistero alla mia nuova
personalità.
Con l’aspetto ero quindi a posto, mancavano solo la voce e la parlata,
così come i gesti abituali. Rispetto alla norma dei miei connazionali,
tendevo a manifestare in maniera aperta sentimenti quali gioia e tristezza e
a infervorarmi anche per cose di poco conto. Prima di tutto, dovevo
lavorare su quello. Sapete, miei cari, chi rivela i propri sentimenti
attraverso il volto non è in grado di portare a termine una vendetta.
Quindi, impostai un tono di voce più basso e roco, modificai il mio
modo di parlare impegnandomi a mantenere per quanto possibile un
atteggiamento distaccato ed esercitandomi a non eccedere con le
esternazioni.
Andavo ad assistere a spettacoli teatrali e leggevo romanzi, ma un po’
mi annoiavo… allora mi sforzavo di creare un’espressione tediata col viso
e a discorrere con le persone in maniera concisa, evitando aggettivi e
interiezioni, adottando una parlata un po’ sbrigativa.
E così, incredibilmente, nell’arco di ventidue giorni mutai, divenni un
uomo diverso, cupo, freddo e tutto d’un pezzo. Ma naturalmente ciò non
fu solo questione di esercizio, sperimentare la sepoltura da vivo e il
desiderio di vendetta mi avevano cambiato in una persona dalla natura
oscura. Alla fine, addirittura gli allegri ragazzi del personale dell’albergo si
dicevano tra loro «che cliente difficile!».
Ecco, finalmente la trasformazione in Satomi Shigeyuki era completa e
si avvicinava il momento di fare ritorno a S e compiere la mia vendetta.
l h h ff
Nel mese trascorso a Shanghai avevo messo a punto un piano sopraffino
ed era tempo di metterlo in atto.
Prima di lasciare quella città avevo però un ulteriore compito, ossia fare
i preparativi per il ritorno in Giappone dopo venti lunghi anni di Satomi
Shigeyuki, un membro del casato degli Ōmuta. Mi venne un’idea per
sfruttare la situazione. Contattai un uomo che un tempo serviva presso la
residenza dei visconti e che al momento lavorava per un importante
quotidiano del Kyushu. Gli inviai un lussuoso regalo con allegata una
lettera.
Dopo trepidante attesa, il mio piano cominciava a muovere i suoi
ingranaggi e poco dopo sul giornale venne pubblicato ben in evidenza un
articolo che recitava più o meno così.

Di recente, ci è giunta la lieta notizia del rientro in patria di un nostro


concittadino che ha accumulato successi! La persona in questione
risponde al nome di Satomi Shigeyuki ed è parente dei visconti Ōmuta
della città di S. Venti anni or sono, si è recato da solo in America del
Sud e ha fatto perdere le proprie tracce. Per tale ragione è stato
creduto morto in terra straniera, ma invece ha accumulato una enorme
fortuna tra mille difficoltà e ha trascorso una vita felice. Ora sta per
tornare nel nostro paese portando con sé beni immensi. Ha fatto tappa
a Shanghai e soggiorna presso l’Hotel Y, ma a breve rientrerà a S per
rimanervi tutta la vita. Siete invitati a esprimergli un caloroso
bentornato e accoglierlo a braccia aperte nella nostra comunità.

Il giornalista lo inviò al mio albergo insieme a una calorosa lettera di


saluto.
L’articolo raggiunse l’obiettivo sperato, oltre la mia immaginazione.
Giunsero lettere di felicitazione dalle persone più in vista del circondario
di S e opuscoli da parte di ryokan24 ed esercizi commerciali. Così come mi
ero esercitato, con atteggiamento distaccato leggevo le missive senza
scompormi, con noncuranza, e dopo averle scorse rapido con gli occhi le
buttavo direttamente nel cestino.
La mia unica insoddisfazione era che da parte di Ruriko non fosse
arrivato nulla ma, in fin dei conti, non le avevo inviato una lettera privata.
Era anche probabile che, vedendo l’articolo sul giornale, piccata, lo avesse
intenzionalmente ignorato. Oppure, troppo impegnata a incontrarsi con
Kawamura, non aveva forse trovato il tempo di leggere il quotidiano.
Ma in fin dei conti, non me ne importava nulla. Con o senza una lettera
di saluti da parte di Ruriko, il mio piano sarebbe andato avanti.
Bene, i preparativi erano compiuti. Tuttavia, accadde un fatto
inaspettato subito prima del giorno stabilito per la partenza. Era
pomeriggio, il ragazzo che mi portò il tè era visibilmente agitato.
«Signore, è accaduta una cosa incredibile!».
Con tono pacato, senza dimostrare sorpresa, domandai: «Cosa è questo
clamore? Che accade?».
«Nel parco qui di fronte è stato arrestato un pirata! Ecco a cosa è
dovuto il clamore».
«Haha! E cosa ci trovi di strano? A me non importa nulla».
«Ma, vede, si tratta di un famoso pirata! Di sicuro, anche lei lo conosce.
Ecco, è stato arrestato il famoso Shuryōkei!».
A quel nome sussultai. Al momento, io e il pirata non eravamo affatto
estranei. Anzi, se mi ero salvato lo dovevo a lui. E poi, il piano di vendetta
da me architettato si basava completamente sui beni che gli avevo
sottratto.
Sebbene tra noi non vi fosse un reale rapporto, volevo per una volta
vederlo ed esprimergli riconoscenza. Quindi, mi recai di gran carriera al
parco.
Il luogo pullulava di persone. Tra la folla, un uomo grande e grosso
spiccava ed era tenuto legato dalla polizia cinese: il gruppetto avanzava
nella mia direzione. Lui aveva l’aspetto di un demone, come ci si poteva
aspettare da un capo dei pirati. Shuryōkei aveva una folta barba alla
Kan’u, sopracciglia fitte e occhi rilucenti e la bocca serrata a formare una
linea dritta. Non sembrava provare alcuna vergogna, aveva un fare
sprezzante e lanciava occhiate di stizza alla folla gremita intorno a lui.
Indossava un abito in stile cinese con uno stemma all’altezza del petto.
Intorno a lui una decina di poliziotti, dall’aria decisamente più dimessa
rispetto al pirata, mantenevano l’ordine brandendo delle sciabole.
d h l ll f ll l d
Lanciando occhiate arcigne qua e là alla folla con la sua espressione da
demone invincibile, Shuryokei incedeva lento ma, quando all’improvviso
posò lo sguardo su di me, le sue gambe si bloccarono di colpo e,
strabuzzando gli occhi in modo anomalo come se avesse letto la verità
oltre il travestimento, fissò il mio volto con sguardo acuto.
Di certo non poteva conoscermi, ma allora perché mi fissava in quel
modo strano? Preso da una leggera inquietudine pensai lì per lì di
defilarmi ma il pirata, con gli occhi sempre puntati su di me, parlò
all’improvviso con la sua voce tonante e in un perfetto giapponese.
«Ehi tu, ti sei travestito proprio per bene! Anche io stentavo a
riconoscerti!».
Sentendo quella voce fuori dal comune rivolgersi a me fui preso da uno
shock, come se mi avessero dato un forte colpo in testa. Inconsciamente,
arrossii in volto e il mio corpo rimase paralizzato. Quel “ehi tu” era
sicuramente diretto a me. Come lame affilate, il suo sguardo era penetrato
attraverso i miei occhiali scuri.
Ah, quell’uomo metteva davvero paura. Il pirata con un solo sguardo
aveva scoperto il mio più grande segreto, ciò che nessuno avrebbe dovuto
conoscere.
Capitolo 14

Un’eredità particolare

Né i poliziotti né la folla intendevano il giapponese e, non capendo a chi il


pirata si stesse rivolgendo, esclamarono insospettiti: «Con chi ce l’avrà?
Che starà dicendo?».
Uno dei poliziotti, probabilmente il comandante, colpì Shuryokei alla
spalla e poi farfugliò veloce qualcosa in cinese. Forse lo aveva ripreso per
il suo comportamento fuori luogo.
Fu allora che il pirata distolse lo sguardo da me e, rivolto al cielo, disse
svagato: «Ehi, ti sei camuffato proprio bene. Se anche io ne fossi stato
capace, probabilmente non mi avrebbero arrestato. Ma ormai non ha più
senso pensarci. Tu, adesso, non devi più preoccuparti di nulla. Gli altri
della ciurma sono tutti scappati all’estero, tu sei l’unico che sono riuscito a
incontrare. Quando mi avranno condannato a morte, mi raccomando,
rivolgi qualche preghiera per il mio spirito!».
Pronunciò con voce sommessa quelle parole in giapponese facendo
credere che stesse parlando tra sé e sé.
Mi incupii sempre più. Forse il pirata sapeva che mi ero impadronito
del tesoro e quello era il suo modo di esprimere stizza.
Ma un attimo! Ripensandoci, forse mi stava scambiando per uno della
ciurma, altrimenti non mi avrebbe chiesto di pregare per lui. Il fatto che si
esprimesse in giapponese, poi, era sicuramente perché molti dei suoi pirati
lo capivano e avrà pensato che lo parlassi anche io. Così facendo, aveva
evitato che la polizia e la folla comprendessero le sue parole.
Pertanto, nel mio camuffamento vi era sicuramente un elemento che mi
riconduceva ai pirati. Passai subito in rassegna il travestimento e, infatti,
qualcosa colpì la mia attenzione.
La perla! Una perla grande e rara che avevo fatto incastonare nella
spilla da cravatta.
L’avevo presa nella cripta e portata con me: era una perla grande a
forma di melanzana e una volta a Shanghai l’avevo fatta trasformare in una
spilla. Si trattava di un prodotto introvabile nei negozi locali e, sia per
lucentezza sia per forma, era un prezioso che una volta visto non si
dimenticava facilmente. Shuryōkei ne comprese subito la provenienza e,
dal momento che la sfoggiavo in bella vista, avrà pensato che fossi uno dei
suoi. Fui però compiaciuto del suo elogio al mio travestimento: significava
che era assolutamente perfetto.
Tuttavia, non essendo io uno della ciurma, non poteva conoscere la mia
identità.
Mentre riflettevo, finalmente anche i poliziotti si resero conto di quanto
accadeva e, confabulando tra loro, scrutarono insospettiti la folla uno a
uno. Mi rivolsi a una persona chiedendo delucidazioni e questa mi spiegò
cosa stavano dicendo i poliziotti.
«Sicuramente tra la folla ci deve essere qualcuno che porta il marchio
del teschio rosso. Troviamolo, scoviamolo!».
I poliziotti naturalmente erano a conoscenza che fosse uno dei segni
distintivi dei pirati.
Tuttavia, Shuryōkei non mi aveva riconosciuto per il teschio ma per la
perla della spilla da cravatta. I poliziotti non mi avrebbero mai trovato.
A un tratto, mi resi conto che avrei corso un pericolo se fossi stato
coinvolto nella situazione e feci per abbandonare il luogo, ma la voce del
pirata tuonò tanto forte da farmi trasalire: «Ehi tu, furbacchione! Vieni
qui! Non sono ancora così rimbambito da farmi abbindolare da te!».
Non ho dubbi che in quel momento il mio volto sbiancò. Rimasi
bloccato, incapace di compiere movimenti.
l l l l d l
Rivolto al cielo e, l’espressione marcatamente indispettita, il pirata
continuò a inveire: «Io sono un ladro, ma non un vigliacco come te che
approfitta dell’assenza del padrone per sottrargli gli averi! Io metto alle
strette i miei avversari alla luce del sole e, mentre loro mi puntano contro
il fucile, io li derubo. È una lotta all’ultimo sangue! Non si tratta di un
mero furto! Metto tutto me stesso nel sottrar loro gli averi. Ah, maledetto
ladro avido! Vieni qui! Ho alcune cose da dirti!».
Come ci si poteva aspettare da un pirata tanto famoso, parlava con voce
tonante e aveva forte presenza scenica. Io, invece, di qualità simili proprio
non ne avevo. Tremando, cominciai a pensare che per me fosse finita.
Dato che non trovava risposta alle sue parole, il pirata in preda all’ira
gridò nuovamente a gran voce.
«Ehi tu, che ti nascondi lì! Non hai ragione di aver paura! Ho per te un
messaggio dalla mia donna, che a te piace tanto! Allora, esci allo scoperto!
Yamada, non startene lì a tremare, vieni qui!».
Stavo pensando che mi avesse scambiato per un suo sottoposto di nome
Yamada, quando all’improvviso notai un uomo giapponese in abiti cinesi
che si trovava a circa due o tre persone di distanza da me. Aveva uno
strano sorriso stampato sul volto e mano a mano si avvicinò a Shuryōkei.
Sicuro ormai che fosse lui il giapponese chiamato Yamada che il pirata
chiamava a gran voce, trassi un sospiro di sollievo. Tra i sottoposti di
Shuryōkei vi erano persone di varie nazionalità e sapevo vi figurassero
anche dei giapponesi; quel Yamada era sicuramente uno di loro.
Yamada si parò di fronte al pirata e gli rivolse parole cariche di astio:
«Ladruncolo, alla fine ti hanno preso, eh! Da te non voglio ascoltare nulla,
sono venuto qui solo perché iniziavi a darmi fastidio col tuo vociare.
Comunque, se devi dire qualcosa, fallo in fretta. Non intendo
nascondermi o scappare».
Shuryōkei scrutò il suo avversario, ora molto vicino a lui, ma quando
ascoltò le sue parole – paonazzo in viso – gli sputò sulla faccia.
«Maledetto!».
Yamada, preso dall’ira, stava per aggredirlo. Ma i poliziotti, pur non
capendo una parola, lo trattennero intuendone le intenzioni.
«Bastardo, che fai? Mi vuoi picchiare? Se vuoi batterti non mi tiro certo
indietro! Sono qui con le mani legate, ma anche in queste condizioni non
ho problemi a fare fuori a calci uno o anche due codardi della tua risma».
Detto ciò il pirata squadrò Yamada, che ormai se la stava facendo sotto
dalla paura. Poi continuò.
«Mezzo uomo! Nonostante tu fossi un mio sottoposto, hai corteggiato
la mia donna e addirittura provato a metterle le mani addosso. E siccome
lei non acconsentiva, hai pensato che fosse meglio mettermi fuori dai
giochi. Mi hai tradito rivelando alla polizia il mio rifugio segreto e fatto
arrestare. Pensi davvero che non abbia capito il tuo gioco? Finalmente,
sarai soddisfatto. Hai ricevuto un premio dal governo e inoltre potrai
corteggiare la mia donna alla luce del sole… eppure, credi davvero che
una come lei si concederà a un mezzo uomo? La mia Louise viene da una
terra straniera e possiede un animo diverso dalle nostre donne, uno come
te non lo degna neppure di uno sguardo. Allora, ti pieghi o non ti pieghi?
Perché non vai da Louise, di sicuro ti starà aspettando tutta imbellettata!
Avrà il corpo macchiato di rosso e un pugnale piantato nel bel petto:
diceva di volerti mostrare come muore una donna virtuosa. Ecco il
messaggio che mi ha lasciato per te».
«Maledetto! Quindi hai ucciso Louise?». Yamada, fuori di sé, emise un
gemito di dolore.
«Ma cosa dici? Non l’ho certo uccisa io. Al momento della nostra
separazione, mi ha detto che sarebbe morta piuttosto che cadere sotto le
tue grinfie e poi si è uccisa davanti ai miei occhi. Le donne dei pirati, la
fedeltà la portano scolpita dentro. Perché non vai a controllare tu
stesso?».
A quelle parole Yamada impallidì e, ormai incapace di rimanere sul
posto, se la diede a gambe.
Osservando la situazione, rimasi a dir poco senza parole. Le azioni di
Yamada costituivano un’onta per il Giappone stesso ed erano spregevoli,
ma con il suo atteggiamento Shuryōkei aveva dato prova di essere un vero
pirata. Del resto anche la sua donna, Louise, aveva respinto un uomo
spregevole e dimostrato fedeltà all’amato suicidandosi, un emblema della
profondità di sentimenti. Yamada, un bel giovanotto dai lineamenti poco
marcati e più giovane di Shuryōkei, chissà come si sarebbe comportato se
invece della piratessa Louise avesse avuto a che fare con Ruriko. Sarebbe
finita allo stesso modo? Forse no… e, preso da tali elucubrazioni, il mio
animo rimase ammutolito. In quel momento, nella mia mente affiorarono
gli odiosi volti dei due adulteri.
f l l f h l l
In ogni caso, finalmente avevo avuto la conferma che la persona verso la
quale Shuryōkei rivolgeva improperi fosse Yamada ma la frase che aveva
lanciato prima: «Ti sei camuffato proprio bene!», invece, ero sicuro fosse
rivolta a me. Se avesse parlato ancora, mi sarei trovato in un guaio. Avrei
fatto bene ad andarmene seduta stante ma, quando rivolsi per un attimo
lo sguardo a Shuryokei, mi resi conto che i suoi occhi erano piantati sul
mio volto come due chiodi. Inoltre, a giudicare dalla frequenza con cui li
strabuzzava, dava l’idea di voler parlare nuovamente.
A quel punto dovevo compiere una mossa coraggiosa e avvicinarmi a
lui, non mi rimaneva altro da fare. In tal modo, avrei destato meno
sospetti nella polizia: estrassi quindi dal taschino quattro o cinque
banconote e le passai a un poliziotto. Poi, con il poco cinese che avevo
appreso, gli chiesi di farmi scambiare quattro chiacchiere con il pirata.
Il poliziotto mi squadrò per bene ma poi, con l’aria di pensare che al
mondo esistano gentiluomini dai gusti davvero eccentrici, con riluttanza
acconsentì alla mia richiesta. La polizia cinese, al tempo dei fatti, ti
lasciava fare quasi tutto se la pagavi sottobanco.
«Se hai qualche volontà da affidarmi, fai pure».
Provai a parlargli con un tono di voce camuffato che potesse in qualche
modo passare sia per uno della sua ciurma sia per un estraneo.
«Eh, non saprei. Non saprei proprio. Se ti togliessi quegli occhiali scuri
ti riconoscerei di sicuro. Però non farlo, forse non puoi levarteli qui.
Piuttosto, c’è una cosa che vorrei chiederti. Tu sei a conoscenza del mio
segreto, vero?».
Il pirata mi parlò con tono di voce sommesso e con circospezione.
Ma di quale segreto parlava? Non essendo un pirata, non potevo certo
conoscerlo. Di sicuro, mi pose quella domanda per controllare la mia
identità, per capire se fossi uno della ciurma o meno. Stavo correndo un
grosso rischio!
All’improvviso mi venne un’idea e, preso il coraggio a due mani,
risposi: «Certo che lo conosco, parli della tomba degli Ōmuta, giusto?».
A quel punto lui fece con aria soddisfatta: «Ottimo, ottimo! Taci ora!
Se lo conosci, significa che stai dalla mia parte. Mi rattristavo al pensiero
di lasciare quella fortuna ad ammuffire lì, ma visto che tu ne conosci
l’ubicazione allora valla a prendere e usala a tuo piacimento!».
In sostanza, con quella frase, mi stava affidando i suoi beni. Ormai non
dovevo più avere alcuna remora. Potevo disporre a piacimento di quella
immensa fortuna per portare a termine il mio piano di vendetta. Per la
gioia, rischiai di far saltare la mia copertura da uomo freddo e pacato, ma
contenni in tempo le emozioni.
«Il tuo travestimento è davvero ottimo e neppure io riesco a capire chi
sei. Rivelami la tua identità!». Con voce sommessa, il pirata mi rivolse la
fatidica domanda.
«Anche se non te lo dico, dovresti sapere che oltre a me nessun altro
conosce il tuo segreto» replicai spavaldo.
«Hai proprio ragione. Sospettavo fossi tu!».
Per fortuna, il pirata sembrò aver placato la propria curiosità e annuì
compiaciuto. Per evitare che la conversazione si protraesse i poliziotti
intervennero a separarci trascinandolo via. Trassi un profondo sospiro di
sollievo e accompagnai con lo sguardo la figura di Shuryokei che si
allontanava.
Il giorno seguente lasciai Shanghai e partii alla volta di S. In quel mese e
mezzo trascorso a Shanghai avevo messo a punto un piano di vendetta
sopraffino con il quale avrei inflitto alla coppia di traditori le pene
dell’Inferno, sofferenze finora mai viste e sentite al mondo.
Che terribile piano che avevo escogitato! Sarei davvero riuscito a non
farmi scoprire dagli adulteri e a portare a termine i miei intenti?
Miei cari signori, al cospetto di Ruriko e del suo sorriso, da me amati
oltre ogni limite, di sicuro sarei stato investito dai ricordi di quando ero
un suo schiavo impotente. Avrei centrato l’obiettivo contro un avversario
del genere?
Da ora in poi la mia confessione entrerà nel vivo ma per oggi basta così,
il seguito lo fornirò domani.
Però, prima di lasciarvi, voglio aggiungere una cosa. Ieri, a conclusione
del mio discorso, ho tenuto in sospeso la parte riguardante il doppio
omicidio commesso da Kawamura. Il primo riguardava me, non vi è
neppure bisogno di rimarcarlo. Ma l’altro invece? Di chi si trattava? Ma
allora quante sono in tutto le vittime? Ve lo starete sicuramente
chiedendo.
Oggi non vi è tempo di parlarne, ma posso dirvi che l’altra vittima era
una persona davvero inaspettata e che, una volta rientrato a S, ebbi modo
di accertarmene. E, vi assicuro, ciò aggiunse un sorprendente elemento al
mio piano di vendetta. Si rivelò un nuovo strumento di tortura contro la
coppia di adulteri.
Ma perché Kawamura avrà avuto bisogno di compiere un secondo
omicidio? Forse, se avete ascoltato con attenzione il racconto fatto finora,
l d b l
omicidio? Forse, se avete ascoltato con atten ione il racconto fatto finora,
lo avrete già compreso. A ogni modo, a breve ve ne parlerò io stesso.
Capitolo 15

I cinque diamanti

Approdato a S, prima di tutto mi sistemai in una camera del migliore


albergo della città. Per di più, pagando una tariffa elevata, ricevetti un
appartamento all’occidentale costituito da tre camere comunicanti
solitamente occupato da persone molto facoltose. In fin dei conti, portavo
con me enormi fortune dal Sud America, ero il ricco finanziere Satomi
Shigeyuki!
Una volta pensato all’alloggio, avevo ancora tre cose da fare.
Innanzitutto dovevo stringere un rapporto confidenziale con gli adulteri,
ossia compiere il primo passo del mio piano di vendetta. Siccome dovevo
restituirgli quanto da me patito, avevo bisogno di creare intimità e
diventare il loro migliore confidente.
La seconda era legare con il dottor Sumida. Signori, vi ricordate di lui?
Vi ho accennato al fatto che il corpo di mia moglie Ruriko si coprì di bolle
e che per guarire si stabilì per un periodo presso le terme Y. Il medico che
si prese cura di lei era il dottor Sumida. Perché avevo bisogno di farci
amicizia? Vedete, vi era una specifica ragione e presto o tardi la
comprenderete.
La terza era assumere un servitore di estrema fiducia e affidargli alcune
mosse necessarie al piano. Una volta giunto in hotel me ne occupai subito
chiedendo consiglio ai gestori dell’albergo, che mi presentarono una
persona ben referenziata. Si trattava di un uomo sulla trentina di nome
Shimura che in passato aveva lavorato come detective: si rivelò una
persona affidabile e schietta e con un’ottima attitudine per
l’investigazione. Proprio l’assistente che cercavo!
Naturalmente, non gli rivelai nulla circa la mia identità e la vendetta.
Dimostravo un carattere difficile e spesso gli assegnavo compiti astrusi,
ma nonostante ciò lui doveva eseguire senza fare domande: era il nostro
accordo. In cambio, gli versavo una paga doppia rispetto alla norma.
Dopo circa una settimana, inviai Shimura a Osaka per una particolare
commissione. Doveva portarmi un oggetto al tempo pressoché introvabile
in Giappone, una lanterna magica. Signori, sapete di cosa parlo? Si tratta
di una lanterna capace di proiettare, ad esempio, l’immagine di un ragno
della grandezza di un tatami e con colori reali, facendolo apparire vivo e
in movimento. Inoltre, gli chiesi di comprare un feto umano messo sotto
spirito in un grande vaso di vetro: era un oggetto piuttosto comune nei
laboratori di anatomia degli ospedali. “Ma per quale diamine di motivo gli
hai fatto comprare roba simile?” vi starete chiedendo voi. Be’, provate a
pensarci e a indovinare la risposta… Haha!
Comunque, il discorso è andato troppo avanti e ora ho bisogno di fare
un passo indietro, al giorno seguente il mio arrivo all’hotel. Nella lounge,
per un puro caso fortuito, incrociai lui, quel traditore di Kawamura. Ma
non solo! Ebbi anche un altro incontro, ben più inaspettato. Ma una cosa
alla volta…
Nella lounge di solito si radunava il club dei gentiluomini di S. I
membri si incontravano lì la sera, giocavano a biliardo e a carte,
praticavano il go e chiacchieravano del più e del meno avvolti dal fumo
delle sigarette.
Quella sera mi unii anche io e, su un lato dell’ampia sala, vidi un uomo
intento a leggere una rivista. Lo scrutai per bene, era proprio Kawamura.
Il primo incontro con il rivale! Serrai il mio cuore e mi aggiustai gli
occhiali scuri.
Rispetto all’ultima volta, il bastardo indossava abiti sontuosi. In soli due
mesi, aveva assunto l’aria di un uomo sicuro di sé e spensierato. Era la
prova di quanto lo rendesse felice la vicinanza di Ruriko e usufruire dei
b d bb h l l l l l l
p q
miei beni. Non avevo dubbi che quel vestito glielo avesse regalato lei. Al
solo pensarci, ancora adesso mi sale una rabbia da fare torcere le budella!
Presi posto sul sofà accanto a lui e richiamai l’attenzione di un
cameriere che si affaccendava nella sala.
«Mi scusi, conosce il visconte Ōmuta Toshikiyo? Dovrebbe essere un
membro del club».
Parlai a voce alta in modo che Kawamura mi sentisse.
«Be’, ecco, vede, il visconte è scomparso circa due mesi fa. È stata una
tragedia».
Il ragazzo mi raccontò in breve le circostanze della mia morte.
«Ah, comprendo. Sono costernato. Ero intimo con il visconte quando
lui era piccolo e non aspettavo altro che riabbracciarlo».
Pronunciai quelle tristi parole affinché Kawamura le cogliesse e, come
previsto, lui posò la rivista e si rivolse a me.
«Se volete saperne di più sul visconte, posso raccontarvi io qualcosa.
Vedete, ero uno dei suoi amici più intimi».
Maledetto, si presentò guardandomi diritto in faccia. Naturalmente,
non poteva aver scoperto il mio camuffamento. Che bastardo! Avrà
pensato che dall’intrattenersi con un signore dall’aria per bene potesse
uscirne qualcosa di buono per lui.
«Ma davvero? Sono stato circa vent’anni assente dal Giappone e giusto
ieri ho finalmente fatto ritorno in patria. Mi chiamo Satomi Shigeyuki,
sono un parente del visconte ed ero molto intimo anche di suo padre».
Parlai con il tono di voce pacato che mi ero esercitato a produrre, come
si addiceva a un anziano.
«Ah, quindi siete voi Satomi Shigeyuki, è un nome che ho sentito
diverse volte! Attendevo con trepidazione il vostro arrivo. Ne ho parlato
anche con la signora Ruriko ed è entusiasta. Sapete, capita spesso che vi
nomini».
Sicuramente Kawamura aveva letto l’articolo di giornale e perciò si
rivolgeva con fare confidenziale a quell’elegante signore dai capelli
bianchi.
«E chi sarebbe la signora Ruriko?» dissi con un leggero movimento del
collo, come a dire “non so di cosa stia parlando”. Il principale obiettivo
del mio ritorno in città era estirpare alla radice la vita di Ruriko, mia
moglie. Tuttavia, in quel momento non ero Ōmuta Toshikiyo bensì Satomi
Shigeyuki, e lui non poteva conoscerla.
«È davvero un peccato che ancora non la conosciate! Vedete, Ruriko è
la moglie del defunto visconte e si può dire sia la regina della scena sociale
locale! È giovane e molto bella».
«Davvero? Non sapevo che il visconte avesse una moglie tanto
affascinante. Sarei felice di incontrarla una volta, anche per parlarle del
suo defunto marito».
«Perfetto. Perché allora non le porgete visita? Se volete, posso
intercedere io. Chissà come ne sarà felice!».
«Lo spero anche io. Tuttavia, sono stanco per il lungo viaggio e non
ancora pronto per incontrare la povera vedova. Vogliamo rimandare di
due o tre giorni? Se possibile, mio caro Kawamura, prima avrei un altro
favore da chiedervi. Vi dispiace?».
«Ma no, figuratevi…».
«Vedete, non si tratta di una cosa complicata. Ho portato con me
dall’estero alcune pietre preziose da donare al visconte, ma visto che lui
non è più fra noi a questo punto vorrei che le avesse sua moglie. In fin dei
conti, se il poveretto fosse ancora in vita, ne farebbe di sicuro a sua volta
dono a lei, magari facendole incastonare in un gioiello. Vorrei quindi
chiedervi di consegnare voi stesso le pietre alla signora, lo fareste?».
«Ma certo, una cosa simile non mi costa nulla. Anzi, mi rende felice.
Potrò vedere la gioia sul volto di Ruriko, e lei adora le pietre preziose! Per
me, già questo basterà come ricompensa. Chi mai rifiuterebbe un incarico
simile?».
Bastardo! Appena aveva sentito parlare di pietre preziose aveva
strabuzzato gli occhi andando in brodo di giuggiole. Era un regalo per
Ruriko ma lui, che ne era l’amante, lo interpretava come un bene proprio.
Ecco perché era tutto gongolante.
Mentre discorrevo con il fedifrago, notai una persona seduta dall’altro
capo della sala che parlava con un uomo. Lo sbirciai con la coda
dell’occhio. Che fortuna! Senza il minimo sforzo, nello stesso luogo avevo
incontrato entrambe le persone che cercavo.
«Kawamura, voi conoscete quei gentiluomini che parlano all’altro capo
della sala? Di chi si tratta? A me sembra in qualche modo di riconoscere i
loro profili, ma non sono sicuro…».
Prestai attenzione al colorito del volto di Kawamura nel porgergli la
domanda. Lui fece una smorfia di disappunto e rispose con riluttanza.
«Quello è il dottor Sumida. Di recente, ha spostato il suo ambulatorio qui
dalle terme Y».
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«Ah, è un medico! Però il nome Sumida non mi dice nulla. Mi sarò
sbagliato…».
Finsi di non conoscerlo, ma in realtà ero ansioso di avvicinarmi al
dottor Sumida e Kawamura a quel punto mi era di impaccio. Volevo che
andasse a consegnare subito i preziosi a Ruriko e quindi lo feci salire nella
mia stanza e gli consegnai un cofanetto contenente le pietre che avevo
predisposto.
«Vi dispiace se do un’occhiata?» mi chiese con gli occhi rilucenti.
«Ma certo! Non vi preoccupate, fate pure. Si tratta solo di un
pensierino però…».
Non finii neanche di parlare che lui aveva già aperto il coperchio del
cofanetto. E non appena ne vide il contenuto, lanciò un urlo di sorpresa.
«Di questi diamanti grossi, ce ne sono addirittura cinque! Ma sono
davvero un regalo per Ruriko?».
«Ma certamente. Rivolgetele però le mie scuse per il dono fin troppo
modesto».
Finsi noncuranza, ma lui aveva buon diritto di rimanere sorpreso dal
maestoso regalo. Li avevo fatti stimare in un negozio di Shanghai e i
cinque diamanti da soli valevano ben 30.000 yen. Me li avrebbero pagati
sull’unghia. Anche se rientravo in Giappone dopo ben vent’anni,
trattandosi della moglie altrui, un regalo di tale valore era eccessivo, ma
per mostrare all’adultera quanto fossi ricco era la mossa giusta.
Se quello era solo un mero “pensierino”, allora la mia fortuna doveva
davvero essere immensa! Quel bastardo di Kawamura si stava di sicuro
chiedendo a quanto potesse ammontare. E il mio obiettivo era proprio
lasciarlo a bocca aperta.
Lui allora, lesto, lasciò l’hotel con il cofanetto ben stretto tra le braccia
e l’espressione felice in volto.
Bene, bene! Il piano era partito, avevo stabilito un contatto con
Kawamura e Ruriko.
Capitolo 16

Lo strano medico di famiglia

Adesso è il momento di parlarvi del dottor Sumida.


Mi affrettai a fare ritorno nella lounge e, attraverso un espediente,
attaccai bottone con lui. Prendemmo insieme un bicchierino al bar
dell’hotel e poi, su suo suggerimento, ci dirigemmo in macchina nel più
famoso ristorante di cucina giapponese della città. Il dottore aveva una
guida piuttosto sportiva.
Trattare uno sconosciuto come un amico di vecchia data e berci insieme
il sake era qualcosa che il visconte non avrebbe mai fatto. Ma in quel
momento al suo posto c’era una creatura risalita dall’Inferno, il
galantuomo di un tempo era ormai scomparso.
Una volta compreso che il mio interlocutore era brillo, portai la
discussione su Ruriko. A furia di parlarne, lui iniziò a darmi corda e rivelò
vari dettagli inerenti al periodo trascorso da lei presso le terme Y.
«A volte capitano anche le cose più impensabili. Inizialmente non mi ha
rivelato la sua identità, ma tempo dopo ha detto di essere la moglie del
visconte Ōmuta. La signora aveva su tutto il corpo delle strane bolle e per
questo si era ritirata nella sua casa presso le terme Y. Quindi, ne sono
diventato il medico curante. Eh sì, è andata proprio così. Però, signor
Satomi, la cosa strana è che nonostante io fossi il medico, la signora non
mi ha mostrato neppure una volta le pustole! Non lo trova assurdo?».
Allora non solo a me, ma neppure al dottor Sumida era permesso
osservare il corpo di Ruriko.
«Poi, e anche questa è una cosa che ho compreso in seguito, il visconte
era preoccupato per le condizioni in cui versava la moglie e addirittura si è
presentato a colloquio da me. Ma la mia risposta è stata sempre la
medesima, ossia “sta molto meglio! Vedrete che a breve si rimetterà”».
Ormai l’alcol lo faceva parlare anche più del dovuto e mi raccontava
ogni cosa senza remore.
«Ma quindi non avete mai ricevuto alcun compenso per la prestazione
medica?».
«Io non ho mai rinunciato alla mia parcella di medico. Da parte mia,
non vi erano ostacoli a visitare la signora, ma lei rifiutava di farsi vedere.
Stando così le cose, non era certo colpa mia… e, dopo tutto, si trattava di
una richiesta del signor Kawamura».
A quel nome fui percorso da un brivido. Quindi, le cose stavano come
avevo subodorato. Dietro la malattia di Ruriko si nascondeva la mente di
Kawamura. Quanto ero stato stolto!
«Ma intende il signor Kawamura Yoshio? Il più grande amico del
visconte?» chiesi fingendo indifferenza.
«Sì, proprio quel Kawamura. È stato lui a richiedermi assistenza
parlandomi di una donna in difficoltà con il corpo ricoperto di bolle. Non
sopportando più di non potersi mostrare al marito, si era ritirata in quel
luogo per curarsi con l’acqua termale. Tuttavia, era necessario che fosse
seguita da un medico altrimenti il marito avrebbe creato problemi. Per
questo, mi ha chiesto di fare finta di prestare assistenza medica e, qualora
il marito si fosse presentato per avere notizie, di dirgli che la moglie era in
via di miglioramento. Probabilmente, doveva trattarsi di una donna viziata
se rifiutava addirittura di mostrarsi a un medico sconosciuto. Le donne,
più sono belle e più sono problematiche! Non trova? Haha!».
Anche il dottor Sumida, in fin dei conti, era uno stolto al pari del
visconte. Nonostante fosse un medico, si era bevuto la storia inventata da
Ruriko.
E le bolle? Haha! Chissà di quali grandi e terribili bolle si trattava!
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Ci avevo riflettuto sopra diverse volte mentre mi trovavo a Shanghai e
alla fine ero giunto a una conclusione. Signori, vi ricordate che la degenza
di Ruriko presso le terme Y era durata ben sei mesi? E che fino al marzo
di quell’anno io ero stato ricoverato in ospedale per il tifo? Eh già, il mio
ricovero si era protratto per ben tre mesi. In tutto, ricalcolando,
trascorsero circa dodici mesi, dodici lunghi mesi durante i quali la nostra
vita matrimoniale venne sconvolta.
Contai e ricontai più volte e alla fine mi accorsi di un atroce dettaglio.
Ossia che, durante la nostra separazione, una notte Ruriko e Kawamura
dovevano necessariamente aver commesso l’ulteriore omicidio di cui li
avevo sentiti parlare. Al pensiero fui percorso da un brivido. A
consigliarmi di mandare Ruriko alle terme Y, non era stato proprio
Kawamura? E poi, stando alle parole del dottor Sumida, la persona che
chiese al medico di non visitare Ruriko non fu sempre Kawamura? Tutto
ciò non costituiva una mera coincidenza, bensì faceva parte di un piano
architettato da quel traditore.
Tra le parole del medico vi fu un’altra cosa a farmi irritare. Per quel
motivo, il giorno seguente, decisi di recarmi presso la casa alle terme Y. In
realtà, non speravo di trovarci chissà cosa, ma al pensiero che le mura di
quella triste casa tra i monti celassero un terribile misfatto non potevo
restare con le mani in mano.
Capitolo 17

Il mistero sepolto nella terra

Siccome faceva molto caldo, uscii presto la mattina e presi il primo treno
diretto alle terme Y. Da quel momento in poi avrebbe avuto inizio un
nuovo e assurdo risvolto del racconto. Forse le divinità che mi avevano
tramutato in un vecchio orripilante nei cinque giorni passati nella cripta
iniziavano a provare compassione per me e in quella occasione,
inaspettatamente, contribuirono affinché il mio piano di vendetta
procedesse a passi da gigante. Le divinità si schierarono con me
alimentando il mio rancore: seguendo un disegno divino, avevo il compito
di punire i colpevoli.
Il colpo di fortuna fu incontrare una persona inaspettata sul treno per le
terme Y. Era la signora Toyo, l’anziana che assisteva Ruriko durante il suo
soggiorno: era da sola e sedeva nel mio stesso scompartimento. Ero
abbastanza sicuro del fatto che non mi avrebbe riconosciuto e non dovevo
lasciarmi sfuggire l’occasione. Toyo proveniva dalla stessa città di Ruriko e
l’aveva accompagnata in qualità di cameriera personale di massima
fiducia. Dal mio ritorno a S non ebbi modo di incontrare mia moglie ma,
alla vista di Toyo, fu come se il profumo e l’immagine di Ruriko si
manifestassero sfiorandomi la pelle, facendomi provare un forte senso di
tristezza che mi lasciò ammutolito.
Tuttavia, a dispetto di ciò, mi chiesi cosa facesse Toyo sul treno. A ogni
fermata controllavo i suoi movimenti pensando che prima o poi sarebbe
scesa, ma contro ogni previsione rimase a bordo fino al capolinea, ossia le
terme Y.
Con il cuore palpitante, seguii le sue successive mosse standole alle
calcagna, anche se immaginavo bene dove si stesse dirigendo, ossia alla
residenza di montagna degli Ōmuta. E infatti fu proprio così.
Si fece lasciare da una macchina poco prima della casa e risalì a piedi lo
stretto viottolo. A sinistra vi era la valle attraversata dal fiume, mentre a
destra si estendeva una verde foresta. Alla fine del sentiero di montagna
sorgeva la casa, ormai in stato di abbandono e circondata da un oscuro
bosco che ispirava tristezza. L’edificio era lì, cupo e cadente.
Non vi era alcuna particolare recinzione, lei spinse il portone di legno e
quello si aprì come sempre. Così, giostrandosi tra sterpi e rovi, Toyo
attraversò il giardino della casa.
Io la guardavo da lontano e, presa un’altra strada, girai intorno
all’edificio. Poi, nascosto dietro un grande albero del bosco che si
ricongiungeva al giardino, spiai le sue mosse.
Quel bosco, anche di giorno, era piuttosto ombroso e, oltre al frinire
delle cicale che ogni tanto si udiva, vi regnava un silenzio di tomba. Una
donna anziana camminava zitta zitta nel giardino di una casa abbandonata
in mezzo alla macchia. Assalito da un forte senso di paura, nascosto
all’ombra del grande albero, tremavo come una foglia.
Tra gli sterpi del giardino sorgeva un acero: quando Toyo vi giunse, si
accovacciò alle sue radici e, mani giunte, iniziò a pregare.
Provai a sbirciare meglio, eppure non aveva l’aria di un luogo di culto.
Pensai addirittura che la vecchia si fosse messa a pregare lo spirito
dell’acero, oppure che avesse qualche rotella fuori posto.
Ma no, no. Non poteva essere. Sulle sue gote scorrevano delle lacrime.
Forse le era capitato qualche triste evento. Tuttavia, ogni elemento della
situazione faceva pensare che Toyo stesse pregando su una tomba. Sì, non
avevo dubbi, alla base dell’acero vi era nascosto un agghiacciante mistero.
Che occasione incredibile! Dovevo a tutti i costi ottenere una
confessione da Toyo, non ero sicuro che mi sarebbe ricapitata una simile
fortuna. Incurante del rischio, decisi di giocarmi il tutto per tutto e optai
per una mossa piuttosto azzardata. Prima di tutto, sfruttando la penombra
d lb d f b d l d d ll
p p , p
del bosco, dovevo arrivare fino ai rovi più robusti del giardino della casa.
Sì, sarei riuscito nel mio intento.
Quel giorno indossavo un completo bianco di lino, scarpe bianche e un
cappello stile panama. Calcai bene il copricapo, mi coprii il volto dal naso
in giù con un fazzoletto e tolsi i pesanti occhiali scuri. Ora tutto il mio
corpo era bianco. Solo gli occhi erano scoperti e rilucevano sotto la tesa
del cappello.
Così conciato, mi avvicinai in punta di piedi alle spalle di Toyo. E poi,
con la mia vera voce, quella del visconte, tuonai: «Tu sei Toyo, non è
vero?».
Non poteva aver dimenticato la mia voce. E ne ebbi prova quando alle
mie parole lei, inizialmente inginocchiata nella direzione opposta, si voltò
di scatto verso di me. Tuttavia, in quel momento il suo volto non mi
sembrò attraversato dal terrore. Di contro, io avevo il cuore in gola.
Quando Toyo si voltò, ad attenderla trovò lo sguardo del visconte che la
squadrava con astio. Il cappello e il fazzoletto nascondevano la mia
chioma bianca e la barba, celando così i dettagli del camuffamento in
Satomi Shigeyuki. In compenso, lasciavano intravedere gli occhi che
rivelavano limpidi lo stato del mio animo. Non ebbi dubbio che lei,
osservandoli, avesse subito riconosciuto in me il visconte.
Alla loro vista, la vecchia lanciò un grido e provò a scappare. In quel
bosco oscuro separato dal centro abitato, aveva all’improvviso incontrato
un defunto vestito di bianco. Avrà di sicuro pensato a un fantasma.
«Toyo, fermati! Non sono una presenza infausta! Sono io!».
Provai nuovamente a parlarle, ma era raggomitolata su se stessa per la
paura e non risultava semplice avvicinarla.
«Chi siete? Scoprite il vostro volto!».
La sua voce era tremula.
«Anche così, tu già hai capito chi sono, vero? Guarda i miei occhi!
Ascolta la mia voce!».
Iniziai mano a mano ad avvicinarmi a lei.
«No, non lo so! Non so chi siate! Come potrei mai saperlo?».
Sembrava preda di un incubo e della disperazione.
«Tu dici così, ma non puoi ignorare il fatto che io ora sia qui, in piedi
vicino a te. Io sono il tuo padrone, il visconte Ōmuta! Ora, rivelami ciò
che sai. Perché sei qui? Che sei venuta a fare?».
Lei impallidì come un cadavere, era rigida come un sasso e non
respirava.
«Non me lo vuoi dire, vero? Molto bene, allora stai ferma lì e
osservami. Hai capito? Guarda bene quello che faccio».
Mi recai di corsa nel capanno degli attrezzi della casa e ne uscii
portando con me una pala. Poi, senza prestare orecchio agli strilli della
vecchia, iniziai a scavare alla base dell’acero. La terra era morbida e veniva
via facilmente, e in poco tempo scavai una buca abbastanza profonda fino
a quando, sul fondo, non si intravidero delle assi di legno chiaro.
«Vi prego, smettetela! Non fatelo, vi prego…». Toyo lanciava grida
miste a pianto e provò a fermare il mio braccio afferrandolo.
«Allora, ti sei forse decisa a parlare?».
«Va bene, ho capito, vi dirò tutto quanto…».
Toyo, iniziò a piangere pesanti lacrime.
«Allora, dimmi, che cosa è contenuto nella scatola di legno chiaro?».
«Be’, vedete… io non c’entro nulla. Io sono solo rimasta lì a
guardare…».
«Chiacchiere inutili, che vuoi che me ne importi? Ti ho chiesto che cosa
è contenuto nella scatola».
«Be’, ecco…».
«Allora, non puoi dirmelo forse? Facciamo così. Te lo dirò io! Quella
piccola scatola interrata contiene il corpo di un bambino appena nato.
Inoltre, l’infante è stato ucciso dai genitori. Loro lo hanno sepolto qui. La
madre è Ruriko, mentre il padre è Kawamura! Tutto corretto fin qui,
giusto? Per liberarsi del figlio illecito, Ruriko si è finta malata e ritirata in
questa casa per evitare sguardi inopportuni. Il bambino è stato concepito
nei tre mesi in cui io ero ricoverato in ospedale. Per quanto siano menti
criminali, neppure loro si sono spinti al punto di fingere che il bambino
fosse mio. La faccenda delle pustole era tutta un’invenzione. Un mero
trucco per ingannare un marito premuroso e dedito come me. Ehi tu,
Toyo, trovi che nel mio racconto vi siano degli errori? In tal caso, parla
pure. Oppure tiriamo fuori la scatola dalla terra e controlliamo cosa
contiene».
A quel punto Toyo, messa alle strette, si accasciò sulle ginocchia e prese
a piangere. Mentre piangeva, tra un singhiozzo e l’altro, disse: «Ah, che
orrore! Che io stia forse vivendo un incubo? Oppure sono già finita
direttamente all’Inferno? O mio signore, vi pensavo morto e invece siete
ancora vivo. Per di più, siete anche a conoscenza di un segreto sepolto
nella terra che mai nessuno avrebbe dovuto conoscere. Ah, è giunta la
celeste punizione! E cosa è mai questa se non la punizione divina? Allora,
è giusto che io parli!
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Anche solo affidarla a qualcuno dopo averla messa al mondo sarebbe
già bastato come crimine, ma loro hanno addirittura ucciso e seppellito in
quel luogo angusto la piccola Yaya. Voi, signore, neppure l’avete mai
conosciuta…
Io ho provato a dirlo sia alla signora Ruriko sia al signor Kawamura di
affidare Yaya a qualcuno della mia città, ci ho davvero provato in tutti i
modi! Ma quei due avevano paura di essere prima o poi scoperti. Mi
hanno risposto che la cosa migliore era sopprimerla e non hanno dato
ascolto alle mie parole. E, alla fine, si sono macchiati di un terribile
crimine.
Non me ne posso certo dimenticare, è stato in questo stesso giorno tre
mesi fa. Oggi sarebbero tre mesi esatti dalla sua nascita. Nessuno prega
per la piccola Yaya che se ne sta sola soletta in questo luogo di mestizia!
Però, per me lei è importante e sono venuta qui in segreto a pregare per
lei.
O mio signore, anzi no, voi non siete il mio signore, ma solo qualcuno
che gli somiglia moltissimo. Perdonate questa povera vecchia. Già un
mese fa sono stata allontanata dalla signora Ruriko. Siccome non so stare
zitta, a quei due io non piaccio. Mi hanno detto di tornarmene dalle mie
parti e dato i soldi per il viaggio. Io però provo pena per la piccola Yaya e,
a furia di allungare la mia permanenza di giorno in giorno, alla fine mi
sono trattenuta. Ma siccome non posso permettermi di vivere in una
pensione, oggi sono venuta a salutarla per l’ultima volta».
Finito di parlare, Toyo si accasciò a terra in lacrime.
Ah, ecco! Le cose stavano quindi così. Anche visti da Toyo, la donna di
fiducia di Ruriko, loro due erano delle menti malvagie. Ma perché il cielo
consentiva certe cose? Tuttavia, a breve la divinità che albergava nel mio
cuore avrebbe impartito loro la peggiore delle punizioni.
Poi cercai in qualche modo di consolare Toyo, che in fondo era pentita
per l’accaduto. Estrassi il portafogli e le donai dei soldi sufficienti per
ritornare nella sua città e pagarsi le prime spese. Infine, le raccomandai di
lasciare S il prima possibile.
A quanto pare, Toyo non credeva che io fossi il visconte. Be’, in fin dei
conti lui è morto e, se pure fosse stato ancora in vita, non avrebbe avuto
bisogno di celare il proprio volto. La donna probabilmente, forse anche
per l’oscurità del bosco, avrà pensato all’incontro con una creatura
soprannaturale, forse lo spirito vendicatore del visconte. In fin dei conti,
non era una cosa tanto assurda. Dal canto mio, ai fini del piano era anche
meglio che fosse andata in quel modo.
Bene, finalmente ero venuto a conoscenza del segreto celato dagli
adulteri. La bambina sepolta nella terra, che arma incredibile sarebbe
diventata nelle mie mani. Usandola a mio piacimento, avrei inflitto a quei
due la giusta punizione.
Fu tre o quattro giorni dopo quell’episodio che inviai Shimura a Osaka
a procurarsi la lanterna magica e il feto nel vaso.
Capitolo 18

I due topi

Finalmente il piano era in atto, una vendetta degna del mio casato. Ah,
che bella, magnifica sensazione! Il momento in cui le mie preoccupazioni
sarebbero svanite si stava avvicinando. Ripensai al proverbio “quando un
amore è grande, lo sarà cento volte maggiore l’odio che ne consegue”: nel
mio caso calzava a pennello. Rispetto al sommo amore provato verso
Ruriko e Kawamura e alla fiducia che avevo riposto in loro, l’odio
conseguente al tradimento era almeno cento volte maggiore. Anzi, mille…
diecimila volte!
Ero come un gatto che aveva stretto due topi in un vicolo senza via di
scampo. Un gatto anziano e dal pelo argenteo. Haha! Miei cari signori,
avete presente il crudele gioco con cui il felino uccide i topi? Ebbene, in
quel momento io mi sentivo proprio come un gatto!
Che fine avrei loro riservato? Il mio piano prevedeva ogni cosa, fin nei
dettagli. Tuttavia, più il gioco durava più si faceva interessante. Il mio
rancore, infatti, non era cosa da poco.
Quindi decisi di procedere per gradi, un passo alla volta, senza
perdermi nulla del divertimento. Intanto le prime tre mosse da fare erano
ben chiare: innanzitutto, approfondire i rapporti con Kawamura e fare sì
che lui si fidasse di me; poi, dovevo alimentare la sua passione per Ruriko,
ossia portarlo a un livello di innamoramento anche superiore a quello da
me un tempo raggiunto; infine, era necessario carpire il cuore di Ruriko,
farla mia e, alla prima occasione utile, comunicarlo a Kawamura. Volevo
confinarlo in un abisso di disperazione.
Naturalmente ciò non costituiva l’obiettivo finale del mio piano bensì
un preludio. Tuttavia, in questo modo avevo intenzione di infliggere a
Kawamura il medesimo dolore da me provato, o addirittura uno
superiore.
Dalla terribile scoperta alle terme Y trascorse una settimana in cui non
si registrarono accadimenti degni di nota. In quel frangente Kawamura mi
porse più volte visita e la confidenza tra noi si approfondì, proprio come
previsto dal piano. Tuttavia, a ogni nostro incontro lui aveva un messaggio
di Ruriko da trasmettermi o, quando la sua lingua era più sciolta, tesseva
le lodi di quest’ultima e della sua infinita bellezza.
«La signora è stata molto contenta del vostro regalo! Verrà presto a
ringraziarvi di persona, intanto vi manda i suoi più cari saluti. Inoltre, vi
invita a porgerle visita in qualsiasi momento. Ecco, alla fine il messaggio è
sempre lo stesso. Che ne pensate? Perché una volta non venite alla
residenza dei visconti?».
Replicai con un cenno del volto alle parole di Kawamura e gli risposi
con tono sbrigativo: «Ma certo, sarò felice di porgerle visita prima o poi.
Avevo un solido legame con Toshikiyo ma sa, con sua moglie non ho mai
avuto contatti. E poi, vedete, io ho una certa età e sono un uomo
riservato. In parte, ho vergogna di mostrarmi alla signora. Se davvero lei è
così bella, poi, il problema è ancora più serio. Tuttavia, le buone maniere
mi impongono di porgerle almeno una volta visita e quindi presto o tardi
lo farò!».
Al che, lui replicò infervorato: «Ciò mi duole molto, ma una volta che
poserete i vostri occhi su Ruriko, anziano o no, vi pentirete di non averla
incontrata prima. Inoltre, se indugiate troppo nell’andare a trovarla, prima
o poi sarà lei a farvi una sorpresa».
«Ah, ma è davvero così bella?».
Cercavo di strappargli più informazioni possibile. Dal canto suo,
Kawamura sembrava ben felice delle domande e rispondeva con dovizia.
«Il povero Toshikiyo si vantava spesso del fatto che Ruriko fosse la più
bella donna del Giappone. E sinceramente, lo penso anche io. Da quando
sono al mondo non ne ho mai vista una di eguale bellezza. Inutile
l l b l d l l d d l l l f l
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elogiarne ancora la beltà del viso, il modo di parlare, la voce, le forme e la
bravura nell’intrattenere gli ospiti, di difetti non ne ha neppure uno. Così
come recita il suo nome, possiede la bellezza di un lapislazzulo».
Maledetto, era proprio cotto di Ruriko! Anche il fatto che mi adulasse
si addiceva a una canaglia come lui, uno che al primo innamoramento
cancellava ogni cosa dalla mente. Ma in realtà, era proprio ciò che
desideravo.
«Allora bisogna stare attenti! Non trovate sia opportuno stare in
guardia al cospetto di una vedova tanto abile e dedita a intrattenere
rapporti sociali? Credo sia necessario…».
«Ma no! Non vi preoccupate. In ogni caso, per quel che posso, ci sono
sempre io accanto a lei, il migliore amico del suo defunto marito. Ne
controllo ogni singolo movimento. E poi, una brava moglie come lei, non
cade in facili tentazioni».
«Be’, con un protettore tanto fidato come voi a fianco, in effetti è
inutile preoccuparsi. Del resto, voi siete per lei ben più di un protettore, si
potrebbe quasi dire un marito! Haha, ma no, perdonatemi, cosa dico
mai…».
Nonostante fosse solo un banale scherzo, Kawamura colse l’occasione
per infervorarsi ancora di più. Che bastardo!
«Haha! Ma cosa dite… però, e non lo dico in un senso ambiguo, sono
davvero innamorato di Ruriko! O, meglio, provo verso di lei un profondo
rispetto. Per proteggerla, così come nei tempi antichi i cavalieri, darei la
vita».
Nei giorni successivi, vista l’intimità raggiunta, le visite di Kawamura si
fecero più frequenti e anche la sua lingua si sciolse. Preso coraggio, si
lanciò man mano in discorsi molto privati.
«In realtà, sto pensando di chiedere la mano di una donna».
«Fate bene! E credo anche di capire a chi vi riferiate! Sono
assolutamente dalla vostra parte. Intendo appoggiare il vostro rapporto e,
per quanto possibile, vorrei contribuire alle spese per i festeggiamenti».
Alle mie parole, Kawamura perse il suo aspetto compito e ansimò di
gioia.
«Non so come ringraziarvi! Con voi come alleato, avrò la forza di cento
uomini dalla mia».
Mi afferrò la mano e la strinse compulsivamente, non stava più nella
pelle dalla felicità. Facendosi scudo di me, un ricco possidente
imparentato con gli Ōmuta, aveva occasione di tramutare i suoi desideri in
realtà.
Capitolo 19

Gli occhi giganteschi

Ora vi racconterò quanto accadde nella settimana che seguì la mia visita
alle terme Y. Dal momento che nonostante i numerosi inviti io non mi
presentavo da lei, spazientita, Ruriko venne a trovarmi una sera al mio
hotel con al soldo Kawamura.
Vedendo il suo volto da cagna infame, fui percorso da brividi d’ira. Ma
per colpire nel segno un’adultera tale, il segreto era mantenere i nervi saldi
e farla spazientire (del resto, di chi era la colpa se il giovane rampollo di
un casato di daimyō si era ridotto a vedere le cose in quel modo?). Come
immaginavo, lei perse la pazienza e, incapace di attendere ulteriormente,
si infilò da sola nella mia rete.
Li attendevo nella sala degli ospiti splendidamente addobbata. Mandò
avanti Kawamura, che indossava un abito su misura appena confezionato.
Solo dopo anche lei, la mia adorata moglie, fece il suo ingresso silenziosa.
Una volta che Kawamura la introdusse, lei mi porse una profonda
riverenza.
Il kimono che indossava lo conoscevo bene e ne apprezzavo il decoro.
Era carica di brillanti sul capo e sulle dita, sulle gote aveva un trucco
leggero e sulle labbra del rossetto rosso. Che donna demoniaca! Aveva
assassinato il marito e ucciso la sua bambina appena nata: era di inaudita
malvagità. E quell’aspetto innocente? E quel visino? Altro che bella, lei
era sordida.
Per un attimo rabbrividii. Sarebbe davvero riuscito il mio odio ad avere
la meglio su quella fanciulla dal volto tanto amabile? Anche il cuore più
duro avrebbe vacillato di fronte a lei, una donna velenosa, e si sarebbe
sciolto come una caramella. “Non puoi farti vincere da un tale kitsune25.
Fatti forza! Non sei forse tu il prescelto dalla divinità della Vendetta?”,
ecco cosa mi ripetevo nella mente.
Armato di coraggio, ricambiai il saluto con il tono di voce che mi ero
allenato a produrre.
Ruriko, del resto, non ebbe il minimo sospetto che io fossi il suo
defunto marito. La barba e i capelli bianchi celavano i miei lineamenti ma,
soprattutto, avevo quei pesanti occhiali scuri a schermarmi gli occhi.
Neppure Ruriko aveva modo di discernere la verità.
Con calma, prendemmo posto sul sofà e sulle poltrone e, sorseggiando
del buon tè, portammo avanti lunghi e variegati discorsi.
Ruriko mi raccontò che i membri della famiglia Ōmuta si erano
presentati alla residenza e avevano organizzato una riunione per spartirsi
l’eredità. A seguito di ciò, a lei venivano unicamente riconosciuti il diritto
di vivere nella dépendance e un piccolo sussidio e siccome io ero
imparentato con i visconti, mi chiese di intervenire per darle man forte.
Come poteva rivelare a uno sconosciuto cose tanto private? Non sapeva
proprio cosa fosse il ritegno. Ma evidentemente, il mio prezioso regalo
aveva sortito l’effetto sperato.
Tuttavia, non mi convinceva che una donna avida quale Ruriko, per
quanto innamorata di un altro, avesse combinato un pasticcio e dato un
calcio alle fortune degli Ōmuta. Perché prima di farmi fuori non si era
preoccupata di mettere al mondo un erede? Di sicuro, una come lei aveva
calcolato anche quello.
In realtà, una bambina era nata, la figlia avuta in segreto con
Kawamura! Quei demoni l’avevano concepita durante il mio ricovero in
ospedale, ma poi neppure loro se l’erano sentita di fingere che fosse mia.
Allora ricorrendo all’assurdo escamotage delle pustole Ruriko aveva
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Allora, ricorrendo all assurdo escamotage delle pustole, Ruriko aveva
evitato il mio vigile sguardo e messo al mondo la bambina nella casa alle
terme Y. Subito dopo, avevano soppresso l’infante. Nonostante vi fossero
altre possibilità, gli adulteri avevano optato per ucciderla: privi di qualsiasi
affetto verso la propria creatura, si erano preoccupati solo di coprire i loro
crimini.
Benché venuta al mondo per un tragico errore, la bambina avrebbe
avuto la possibilità di diventare l’erede di una famiglia di visconti: ma
oltre all’eredità, era stata addirittura privata della vita. La punizione per i
misfatti di quei due, attraverso la mia terribile vendetta, sarebbe calata di
lì a poco.
Quindi, perché si era spinta a uccidermi ignorando le questioni relative
alla successione? Per chiarirmi quel dubbio atroce avrei dovuto attendere
ancora. Sebbene possedesse una mente diabolica, Ruriko era felice della
morte del visconte anche se le aveva apportato un grave danno facendole
perdere i diritti sull’eredità. Era molto scontenta di non poter mettere le
mani su quella fortuna e su tutto il resto.
Tuttavia, dal mio canto, ciò rappresentava un bene poiché i due adulteri
vivevano in uno stato di angoscia: e poi, il fatto che Ruriko non avesse più
diritti sul patrimonio degli Ōmuta costituì un’ulteriore chiave per il
successo del piano. Questo per l’ovvia ragione che, se lei avesse ereditato i
beni, il mio tentativo di sedurla con il denaro avrebbe avuto meno
mordente e non sarebbe forse caduta nella rete.
A parte ciò, dopo un po’ che chiacchieravamo si fecero quasi le otto di
sera: l’orario prestabilito si avvicinava. Con chi lo avessi stabilito, ebbene,
ora ve lo spiegherò.
Mi alzai facendo finta di andare in bagno e mi recai nella stanza
adiacente. Naturalmente, avevo riservato anche quella. Poi, chiusi la porta
e spiai dal buco della serratura e, pensando “ci siamo quasi, ci siamo
quasi”, attesi gli sviluppi della situazione.
Dopo un po’, forse incapace di starle lontano anche per un breve lasso
di tempo, Kawamura prese posto sul sofà accanto a Ruriko e le strinse la
mano.
«Dai, lasciami. Potrebbe tornare il signor Satomi da un momento
all’altro» gli disse Ruriko a voce bassa ma con aria non del tutto
infastidita.
«E che te ne importa? Tanto ormai lui ha già capito tutto! Dice anche
che siamo una bella coppia!» ribatté lui stringendole la mano e con
un’espressione sfrontata che non si addiceva al suo viso delicato. Stava
cominciando a ingelosirsi.
«Ma di che parli?».
Ruriko fece la finta tonta, al che Kawamura rivolse il volto verso la
porta da cui li spiavo.
«Lui è un gentiluomo e tu sei una donna avida… eh già, tu che in
passato ti innamorasti del visconte, adesso potresti benissimo innamorarti
del signor Satomi, che per giunta è molto più ricco di lui… anche se è un
vecchio, costituisce per me un rischio! Una donna vanitosa come te, ora
starà di sicuro tribolando».
Ma che parole terribili! E quello era tra i migliori gentiluomini della
società di S? Non mi sembrava un modo di esprimersi coerente con tale
immagine.
«Ma cosa dici! E poi lui è un misogino, non è vero? Smettila di dubitare
ingiustamente di me».
Abbozzò il gesto di un buffetto e poi sfoggiò uno dei suoi ammalianti
sorrisi.
All’improvviso, però, l’interno della stanza si fece buio.
«Che succede?» fece Ruriko con un grido smorzato.
«Sembra sia andata via la luce…» rispose Kawamura.
Hehe, ma quale black-out! Era opera del mio fedele segretario speciale
Shimura: introdottosi furtivamente nella cabina elettrica dell’hotel, aveva
spento l’interruttore come concordato. Avevamo provocato un black-out
solo all’Hotel S, ecco cosa intendevo poco fa con “orario prestabilito”.
Di gran fretta, mi avvicinai al piccolo dispositivo che avevo predisposto
in un angolo della sala. Dopo poco, dalla stanza accanto, percepii il grido
di una donna. Era Ruriko!
E come mai gridava?
Be’, una ragione la aveva, nella stanza avvolta dal buio era apparsa
all’improvviso una creatura soprannaturale! Nell’oscurità, leggere, si
delinearono man mano due entità dai contorni confusi che, subito dopo,
mutarono in qualcosa di ben più spaventoso. In quel momento nella
stanza degli ospiti galleggiavano due occhi giganti, ciascuno della
grandezza di circa mezzo tatami, che puntavano gli adulteri incutendo
loro terrore.
Ruriko e Kawamura avranno di sicuro pensato a un’allucinazione.
Eppure, era strano che non svanisse. Inoltre, per loro non era la prima
volta che vedevano quegli occhi. Più li osservavano, più avevano
l’impressione che somigliassero a quelli di una persona un tempo vissuta.
ff b l h d ld f
l impressione che somigliassero a quelli di una persona un tempo vissuta.
In effetti, sembravano proprio gli occhi del defunto visconte! Erano cento
volte più grandi del normale e fluttuavano nell’oscurità di fronte agli
adulteri squadrandoli con stizza.
Anche una serpe come Ruriko, realizzata la situazione, per la paura non
riuscì a trattenere un grido e si strinse a Kawamura. Questi, dal canto suo,
era sul punto di mettersi a urlare da un secondo all’altro e, con lo sguardo
puntato sugli occhi giganti, colava sudore freddo dalle ascelle e dalla
fronte.
Io, quantomeno, mi immaginai una scena del genere poiché non vi
potei assistere in prima persona. Certo i miei occhi, mille volte più grandi
del normale, erano lì di fronte a loro ma si trattava di una proiezione. Io
fisicamente mi trovavo nella stanza attigua dove avevo predisposto la
lanterna magica: mi ero sfilato gli occhiali e avevo infilato il viso
nell’apparecchio in cui era piazzata una lampadina da mille watt collegata
al filo elettrico esterno. Avevo esposto gli occhi alla luce cercando di
resistere senza mai sbattere le palpebre e così avevo creato l’effetto dei
giganteschi occhi fantasma, che in realtà erano una proiezione sul muro a
opera della lanterna magica.
Conoscendo il trucco non ci si sorprende ma, all’epoca, quasi nessuno
aveva sentito parlare di questo oggetto. I due adulteri pensarono fosse
opera di un defunto o un’allucinazione causata da un disturbo mentale e,
non sapendo cosa fare, divennero prede della paura. Il piano riuscì quindi
oltre ogni aspettativa!
Al grido di Ruriko di colpo la luce tornò, quasi a far pensare che le due
cose fossero collegate tra loro. In realtà, Shimura riattivò l’interruttore
della cabina elettrica dopo un tempo prestabilito.
Tornata la luce, aprii la porta con noncuranza e rientrai nella sala.
«Allora, è successo qualcosa?».
Nonostante fosse tutto calcolato, l’incredibile risultato ottenuto mi
spinse a porre loro quella domanda.
Sia Ruriko sia Kawamura, con l’espressione di chi aveva appena visto
un fantasma, si guardavano intorno con occhi assenti e impauriti. Avevano
i volti imperlati di sudore, le labbra secche e, a giudicarli dal colorito, loro
stessi sembravano fantasmi.
«No… no. Non è successo nulla. All’improvviso è mancata la corrente e
ci siamo solo un po’ spaventati» fece Kawamura imbarazzato e poi si
passò la lingua sulle labbra.
Haha! Gioia e tripudio! Con delle semplici mosse, avevo ottenuto un
tale successo! E allora, quando avrei giocato le altre mie carte, cosa
sarebbe accaduto? Avevo ottime aspettative! Bene, era di nuovo tempo di
mettersi all’opera.
Capitolo 20

Uno strano amore

Dopo quei fatti, trascorsero alcuni giorni.


In quel tempo dedicai tutto me stesso a tenere buono Kawamura per
far sì che mi vedesse come il suo migliore amico e, al contempo, ad
avvicinarmi ulteriormente a Ruriko e conquistarne il cuore.
Ormai lui mi considerava come un padre e mi rivelava ogni cosa
ricercando sempre il mio parere. Pian piano, iniziò a consultarmi anche
per le cose più imbarazzanti.
Andavamo spesso a mangiare fuori insieme. Al ristorante, solitamente
venivano a tenerci compagnia le geisha più famose del luogo: suonavano e
cantavano per noi e facevamo baldoria insieme. Kawamura, che sovente
alzava il gomito, una volta ubriaco assumeva un atteggiamento indecoroso
che non si addiceva affatto al suo bel visino.
Io non facevo altro che incitarlo a bere ancora quando ormai era già
ubriaco: alla fine lo riaccompagnavo a casa di Ruriko e alle donne, si sa,
non piacciono gli ubriaconi…
Ogni volta che lei lo vedeva tornare in quelle condizioni indecenti, il
suo cuore si allontanava sempre più da lui.
E poi, dove pensate che si dirigesse? Neppure a dirlo, veniva nella mia
direzione. Maledetta Ruriko, un tempo mi odiava e ora mi amava! Le
donne, il loro cuore era per me davvero un mistero! Ma cosa le poteva
piacere di quel vecchio incanutito con la barba e i capelli bianchi?
Neppure a dirlo, i soldi! Evidentemente, le ricchezze che rappresentavo le
resero appetibile anche la mia chioma bianca.
«Dite sempre di essere anziano e che volete trascorrere la vostra
vecchiaia in solitudine eppure, per quanto lo diciate, a me non sembra
proprio che le cose stiano così. Avete una bella pelle liscia, siete in ottima
forma fisica, sembrate quasi un trentenne! E poi, i vostri capelli così
bianchi sono molto più attraenti di una banale chioma bruna!».
Stava cercando di circuirmi con le parole.
Anche io del resto mi mostravo sempre più affabile con lei e, come
farebbe un amorevole padre con la propria figlia, ogni tanto le tastavo il
corpo o le stringevo le mani. In quelle occasioni Ruriko ricambiava il
gesto stringendo le mie mani e rivolgendomi sorrisi languidi.
In quei momenti, come se mi avessero passato del ghiaccio sulla
schiena, mi si drizzavano i peli del corpo. Se non fossi stato accorto, avrei
rischiato di dimenticarmi del piano di vendetta e ritrovarmi devastato nel
corpo e nell’animo.
In quel periodo lei si era già trasferita nella dépendance assegnatale ma
alle volte, di nascosto da Kawamura, mi veniva a trovare in albergo. Una
sera in cui regnava una splendida luna, uscimmo sul balcone della stanza
d’albergo e, soli soletti, rimanemmo lì a conversare. Neppure adesso
riesco a scordare la strana sensazione provata in quei momenti. Illuminato
dai raggi della luna, ero seduto su una sedia di paglia intrecciata: da
dietro, Ruriko si appoggiò allo schienale e contemplò il mio viso
sfoggiando un sorriso che mi destabilizzò.
La luce della luna la faceva sembrare una splendida fata venuta dal
mondo dei sogni. Io continuavo a guardarla, incapace di distogliere lo
sguardo. Era come vivere un sogno da sveglio.
“Allora, ancora non sei contento? Anche se finto, in qualche modo sei
riuscito a ottenere il suo amore, no? Hai addirittura una fortuna
sterminata, non ti basterà l’intera vita per usarla tutta. Nonostante tu
abbia queste due cose, non riesci a metterti l’animo in pace e rinunciare
alla vendetta? Il rancore… è una questione di rancore! Ma anche un
rancore tale da far venire i capelli bianchi in una sola notte, in fin dei conti
non mette in scena altro che uno spettacolo da baraccone per divertire le
d l d ll l l l d ll
p p
genti di città…”. Sarà stato per la magia della luna o per la malia di quella
bella donna, ma colto da un momento di debolezza fui assalito dai
pensieri.
Tuttavia, lo spirito vendicativo della mia famiglia che era in me alla fine
prese il sopravvento e scacciò ogni desiderio di fantasticare.
“Occhio per occhio, dente per dente”: per me quella era l’unica ragione
di essere.
Io, ormai, ero una creatura risalita dall’Inferno, un demone vendicatore
dai capelli bianchi.
Capitolo 21

Il feto nel vaso di vetro

Era giunto il momento di aprire il sipario sulla prima parte del piano, e
così un giorno scrissi il seguente biglietto per invitare tre persone al mio
hotel.

Miei cari, ho di recente acquistato una casa di campagna e per il


giorno quindici di questo mese terrò un piccolo banchetto inaugurale.
Scrivo quindi per invitarvi e chiedervi di radunarvi in quella data alle
ore tredici presso l’Hotel S. Metterò io a disposizione un’automobile
per lo spostamento.

Le persone da me invitate erano Kawamura, Ruriko e il dottor Sumida,


lo stesso che, dietro lauta ricompensa, aveva assecondato mia moglie nella
farsa da lei creata e che un tempo gestiva un ambulatorio presso le terme
Y.
Il giorno stabilito, una volta che arrivarono tutti, salimmo su una delle
tre macchine in circolazione a S e ci dirigemmo verso la meta.
Quando la vettura lasciò la città Kawamura fece una strana espressione
col viso. «Nessuno di noi sa nulla circa l’ubicazione della casa di
campagna da voi acquistata! Che strano, signor Satomi, è come se ci steste
nascondendo qualcosa!».
«Vedete, ho deciso di farvi una sorpresa! Haha!» risi.
«Sono sicura che la casa si trova in una posizione particolare! Chissà
dove sarà! Voi, signor Satomi, da chi l’avete acquistata?» chiese Ruriko
mostrando grande interesse.
«Chi lo sa? Io di certo proprio non lo so! Si è occupato delle pratiche il
mio segretario, Shimura».
Nonostante io non dovessi eccedere nel ridere, una smorfia simile a un
sorriso mi si stampò sul volto.
La macchina proseguiva sobbalzando a causa del manto stradale
dissestato. Più andavamo avanti più la strada si faceva impervia, ma a un
certo punto la nostra direzione divenne chiara.
Allora, Kawamura chiese con voce stridula: «Ma questa non è la strada
che porta alle terme Y?».
Il dottor Sumida assentì ripetendo la domanda dell’altro.
«Avete indovinato, è proprio così! La casa si trova poco lontano dalle
terme Y». Alle mie parole, Kawamura e Ruriko si scambiarono
un’occhiata densa di inquietudine. Da quel momento in poi rimasero in
silenzio e anche il colorito dei loro volti non sembrava dei migliori.
«Ecco miei cari, la mia nuova casa si trova qui, siamo arrivati».
La macchina si fermò davanti alla villa degli Ōmuta, la casa in cui
Ruriko aveva per lungo tempo soggiornato. Inoltre, era il luogo in cui
recentemente avevo scoperto, sepolto nel giardino, il corpo della loro
figlia illegittima. Impiegando una cospicua somma, ero entrato in possesso
dell’immobile. Siccome si trattava di un bene non indispensabile per gli
Ōmuta, me lo avevano ceduto senza ritrosie. Ruriko ormai viveva nella
dépendance e probabilmente non era venuta a conoscenza della vendita
della casa.
Gli adulteri avevano un aspetto orribile tanto che stavo quasi male per
loro! Appena scesi dalla macchina sbiancarono e si sussurrarono qualcosa.
“Si tratta solo di una coincidenza! Non c’è verso che Satomi sia a
conoscenza di quanto accaduto Stai tranquilla! Se ti comporti in maniera
l l
conoscenza di quanto accaduto. Stai tranquilla! Se ti comporti in maniera
strana, attirerai sospetti. Mantieni la calma!”.
Probabilmente lui le avrà detto qualcosa del genere per rassicurarla.
«Allora, miei cari, non venite?».
Entrai per primo e aprii il cancello. Fuori, ad attenderci di fronte alla
casa, vi erano Shimura e le altre donne di servizio che avevo assunto.
Ormai, Kawamura e Ruriko non potevano più tirarsi indietro! Erano
intimoriti ma, non sapendo che avevo scoperto l’infanticidio, si
accomodarono nel salone ostentando noncuranza. La stanza era stata
completamente rinnovata, dagli interni ai tatami, e sistemata in modo da
avere un aspetto diverso dal precedente. Shimura aveva eseguito a
puntino tutti i miei ordini.
«Signor Satomi, ma che magnifica coincidenza! Voi forse ne siete
all’oscuro, ma questa in passato è stata una residenza degli Ōmuta. Anche
la signora Ruriko, che oggi è qui con noi, la conosce bene perché vi ha
soggiornato a lungo».
Senza prestare alcuna attenzione e pensando solo a ciarlare, il dottor
Sumida si fece scappare dei dettagli scottanti.
«Eh già, è proprio così! Eppure non sapevo che la casa fosse stata
messa in vendita… ma comunque è una bella coincidenza! La stanza in
cui ho trascorso la mia malattia è proprio dall’altro lato della casa». Da
donna demone quale era, Ruriko riuscì a mantenere un atteggiamento
pacato e normale.
«Ma davvero? Non ne avevo idea… Shimura, ha commesso un grave
errore! Non me ne ha minimamente fatto parola, mi scuso con voi».
Mi mostrai sinceramente rammaricato e così lei fece un passo indietro.
«Non vi preoccupate, anche se passata in mani altrui, sono comunque
le vostre e ciò mi rende felice. E poi immagino che mi permetterete di
vederla ogni volta che ne avrò voglia, non è vero?».
Ruriko affondò un colpo.
«Bene, se lo gradite, pensavo di farvi fare un giro della casa. Ho
cambiato la carta da parati di alcune stanze, mentre altre sono rimaste
esattamente com’erano in precedenza. In generale, il cambiamento
dovrebbe essere abbastanza evidente. Venite, c’è anche la stanza in cui la
signora Ruriko ha trascorso la sua malattia, per lei sarà sicuramente un
posto ricco di ricordi…».
Guidavo il gruppo con disinvoltura, mostrando loro le varie stanze: le
avevo cambiate molto rispetto a quando Ruriko aveva trascorso lì la sua
degenza. E il motivo era semplice, lo avevo fatto per esaltare il senso di
inquietudine di una stanza in particolare: di tutte le luminose stanze,
infatti, solo una non era stata minimamente toccata e ciò la faceva spiccare
tra le altre. Neanche a dirlo, si trattava della camera occupata da Ruriko
durante la malattia, quella del peccato in cui aveva dato alla luce una figlia
illegittima.
Nel giro di visita della casa, lasciai quella stanza per ultima. Come
spesso fanno i bambini, preferii serbare il boccone più appetitoso per la
fine. Ma dopo un po’ giunse il momento di aprire anche quella porta.
Mentre la mia mano si avvicinava alla maniglia, mi voltai verso gli ospiti.
«Vi piacciono le storie di fantasmi? In tal caso, vi dico che in questa
stanza accadono cose misteriose al pari di quei racconti26».
Ruriko e Kawamura rabbrividirono sentendomi parlare di storie di
fantasmi ma, non volendo mostrarsi deboli, risposero che non vedevano
l’ora di vedere la stanza.
«Ma prego!».
Aprii la porta: i tatami imbruniti, la porta consunta, gli shoji con una
patina di polvere sopra, il triste muro sabbiato marrone, un vecchio
kakejiku27… niente da dire, una vecchia stanza della grandezza di sei
tatami. Al di là degli shoji c’era il giardino, ma siccome quel giorno il cielo
era nuvolo e la stanza particolarmente ampia, l’interno rimaneva in
penombra.
«Vi chiederete come mai solo questa stanza sia rimasta come un tempo.
Vedete, il motivo è che la sua atmosfera di mestizia mi ha in qualche modo
affascinato. Non
28
pare anche a voi? Sembra di osservare la scena di un
sewa kyogen , ha un sapore assolutamente unico».
I miei tre ospiti la conoscevano molto bene. Il medico probabilmente
pensava che avevo gusti maniacali e mi giudicava una persona strana, gli
altri due, invece, cioè gli adulteri, sembravano attanagliati dal terrore. In
particolare, le labbra di Ruriko si fecero pallide e le costava evidente fatica
rimanere in piedi.

d l b d l
Kawamura, dal canto suo, sbiancò mentre scrutava in modo particolare
un oggetto del toko no ma29. Aveva le sue ragioni per farlo, poiché si
trattava di una scatola in legno di paulonia nuova di zecca che contrastava
con l’aria vetusta della stanza.
Anche il dottor Sumida si accorse del dettaglio e chiese: «Di che si
tratta? Non mi pare sia una scatola per gli oggetti per la cerimonia del tè e
neppure per le bambole. Ha l’aria di essere un oggetto con un preciso
significato».
«Un “preciso significato”? Eh sì, è un oggetto che nasconde un terribile
significato» risposi con fare vago.
«Il tutto assomiglia sempre di più a una storia di fantasmi! Vi prego,
mostrateci la scatola!».
Nonostante le sue parole ostentassero spavalderia, la schiena del
medico era percorsa dai brividi.
«Va bene, ma dovete attendere ancora un po’. Vi è un racconto legato
all’oggetto. E, vedete, si tratta proprio di una storia di fantasmi. Sono
eventi tanto terribili che riesce difficile crederli reali. Ecco, osservate quel
tatami. Vedete la macchia scura? Cos’è secondo voi?» proseguii nel
racconto con un fare da declamatore.
«È vero, si intravede appena, ma sembra il segno lasciato da qualche
liquido colato lì sopra. Se fosse una macchia di sangue, allora ci
troveremmo proprio all’interno di una storia di fantasmi!». Il dottor
Sumida ormai si rispondeva da solo. Gli altri due invece combattevano
strenuamente con l’ansia e non avevano la forza di pronunciare neppure
una parola.
«Eppure, pare proprio una macchia di sangue!» feci io secco.
«Sangue, ecco, è davvero sangue…». Il dottor Sumida, nonostante fosse
un medico, rimase sbigottito come avrebbe fatto un banale commerciante.
«Finiti i lavori di restauro della casa, ho chiesto a Shimura di
provvedere a sistemare il giardino. Lui ha molti talenti e se la cava bene
anche con il giardinaggio. Ha smosso la terra per piantare un nuovo acero
e, scavando alla base del vecchio albero, ha fatto una sorprendente
scoperta. Eccolo lì, sto parlando dell’acero laggiù!».
Aprii gli shoji e mostrai loro il giardino. Nel centro, svettava un acero.
Era l’albero alla cui base io stesso avevo scavato e avuto la peculiare
conversazione con Toyo, l’anziana servitrice.
«E, secondo voi, cosa ci ha trovato? Signori, vi prego di non
spaventarvi. Dentro una scatola sepolta sotto l’acero era conservato il
cadavere di una neonata. Qualcuno evidentemente si è introdotto in
questa proprietà quando non c’era nessuno e deve aver lasciato lì la
bambina morta. Forse si trattava di una figlia illegittima che non si poteva
lasciare in vita. Magari i suoi genitori l’hanno uccisa subito dopo averla
messo al mondo. Quindi, se le cose stanno così, la macchia scura sul
tatami, be’, qualche sospetto sulla sua natura mi sovviene… e a voi?».
Nessuno rispose. Nella penombra della stanza, i volti dei tre
impallidirono e sembrarono diventare loro stessi dei fantasmi. Ruriko e
Kawamura avevano raggiunto l’apice del terrore, ma ascoltato il racconto
anche il medico aveva sicuramente ricollegato ogni cosa.
Naturalmente, nessuno poteva immaginare che io avessi accennato a
quella storia con un preciso scopo. Avranno pensato che avevo forse
scoperto tutto per una coincidenza. E, per me, era la cosa migliore! Se
avessero saputo la verità gli adulteri sarebbero sicuramente morti sul
colpo per lo sgomento.
«E del corpo della bambina che ne è stato? Vi siete rivolto alle
autorità?».
Alla fine il silenzio fu rotto dalla domanda carica di ansia del dottor
Sumida.
«No, se lo avessi fatto, sarebbe stata solo una sciocca ripicca verso la
madre della bambina, un gesto inutile. Forse la donna, compreso il
proprio atto, in futuro starà bene attenta a non mettere al mondo altri figli
illegittimi».
Ma Ruriko, lei non aveva alcun motivo di stare tranquilla! In realtà, non
mi ero rivolto alle autorità solo perché la vendetta che potevo prendermi
attraverso la Legge era nulla a confronto con il piano architettato dal mio
cuore colmo di tristezza e dolore.
«Ma la bambina? Che fine ha fatto?».
Per la prima volta Kawamura spiccicò parola, non riusciva più a
contenersi. La sua voce era spezzata dai brividi che lo percorrevano.
«Eh, sapete, capitano tante cose assurde! Sa, la bambina è rimasta
esattamente com’era alla sua nascita, non si è decomposta neanche un po’.
È morta, ma le sue condizioni sono le medesime del momento in cui è
nata, come se dormisse dentro la scatola. È l’ossessione a fare ciò…
l’ossessione di una piccola creatura che vuole vivere a ogni costo…
l d d d d l h
l’ossessione di un marito ingannato da una coppia di adulteri. Che
orrore!».
«Ma della bambina poi che ne è stato?».
Kawamura replicò la medesima domanda, rivolgendo le sue parole al
cielo.
«Ecco, osservatela, è qui…».
Mi avvicinai lesto al toko no ma, scoperchiai la scatola e ne estrassi un
grande vaso di vetro che posai di fronte ai miei ospiti.
In quell’istante si udì un grottesco gemito e Ruriko, divenuta bianca
come un foglio di carta e con gli occhi sbarrati, svenne tra le braccia di
Kawamura. Anche una infida come lei, di fronte a un orrore del genere
aveva perso le forze ed era caduta priva di sensi.
Dal vaso di vetro, con gli arti raggomitolati, il volto solcato da rughe e
la pelle dalla colorazione grigiastra, un’infante ci fissava con i suoi occhi
bianchi.
Capitolo 22

Il Buddha dorato

Miei cari, da quando ho iniziato il mio racconto a ben vedere è ormai


trascorsa una settimana, tempo durante il quale non ho mai smesso di
parlare. In ragione di ciò, nonostante all’Inferno non esistano mesi e
giorni, non ho dubbi che – a eccezione di me che sono il narratore – la
persona che sta trascrivendo le mie parole e voi tutti che ascoltate sarete
piuttosto annoiati.
Ma non vi preoccupate, a breve il mio terribile piano di vendetta
entrerà nel vivo. Quindi, vi chiedo di pazientare ancora un poco.
Come vi raccontavo ieri, invitai gli adulteri nella mia casa alle terme Y e
feci prendere loro un colossale spavento. Alla vista del vaso contenente la
bambina, quella cagna di Ruriko fu investita dall’orrore delle azioni da lei
stessa compiute e alla fine perse i sensi. Tuttavia, quello era solo uno dei
numeri introduttivi del piano di vendetta: il mio rancore non si sarebbe
colmato vedendo la sgualdrina perdere i sensi.
Miei cari, cercate di ricordare quale terribile situazione ho vissuto per
colpa di Kawamura e Ruriko. Sono stato tradito dalla donna che amavo
sopra ogni cosa e a portarmela via è stato il mio migliore amico! Non
paghi di ciò, mi hanno assassinato. Poi, benché tornato miracolosamente
in vita, sono stato prigioniero in una cripta e per tutto il tempo avevo il
cuore colmo di desiderio di tornare dai miei cari: certo, non potevo sapere
che erano stati loro a tumularmi vivo lì! Avete idea delle sofferenze da me
vissute nei cinque giorni di prigionia nella cripta oscura? Osservate bene
la mia chioma. Ho solo trent’anni e la mia testa è ridotta così, tutta
bianca! In quei cinque giorni sepolto nella terra, ho patito le sofferenze di
trent’anni. Poi, una volta fuori, ho scoperto di essere divenuto un vecchio
sessantenne sia nel corpo sia nell’animo. Nella storia del mondo, mai una
persona si è trovata a patire quanto da me sofferto!
Vendicarsi significa restituire al nemico il dolore che ha provocato,
nulla di meno. Fare perdere i sensi alla sgualdrina non equivaleva neppure
alla centesima parte del rancore che serbavo nel cuore. Da quel momento
in poi avrei fatto loro sperimentare un dolore addirittura cento volte
maggiore! Era il momento di mettersi al lavoro.
Ad assistere Ruriko mentre era priva di sensi pensò lì per lì il dottor
Sumida e, grazie alle sue cure, il problema si risolse. Da quel momento, un
forte senso di ansia si impadronì dei cuori degli adulteri e non li
abbandonava mai un istante.
Per quanto uno dei miei obiettivi fosse spaventarli, se avessero accusato
eccessivamente il colpo si sarebbero mossi con maggiore prudenza e, ai
fini del piano, ciò andava evitato. A quel punto, al contrario, dovevo fare
qualcosa per lenire le ferite che la paura aveva inferto loro. In pratica,
seguii il medesimo principio adottato dai giudici nell’antichità quando
impartivano le torture, ovvero prima facevano contorcere dal dolore i
criminali fino allo sfinimento e poi, messi da parte gli strumenti di
supplizio, gli offrivano dell’acqua e del kayu30 per rimettersi. Era solo un
sistema per far sì che il successivo tormento inflitto aumentasse
d’incisività. Sfoggiando un volto bonario li attiravano e poi si
trasformavano in demoni, che persone incredibili!
Quindi, il giorno seguente feci visita a Ruriko e mi scusai con lei.
«Sono davvero desolato per quanto accaduto ieri, mi sono lasciato
prendere la mano da quel teatrino causandovi problemi. Avrei forse
dovuto limitarmi a narrare i fatti senza mostrarvi il vaso con la bambina
morta. Non so davvero come scusarmi».
Ruriko sbiancò nuovamente e roteò gli occhi con fare ansioso ma, udite
le mie parole, si scusò a sua volta.
h l d l b d
«Ma no, è anche colpa mia. Sono spiacente del trambusto da me creato.
Farsi venire un giramento solo per aver visto un’infante morta, chissà che
avrete pensato di me voi uomini! Io sono una donna fragile…».
A quanto pare, non covava alcun sospetto su di me.
Il fatto che io avessi acquisito la casa alle terme Y e conservato in un
vaso il cadavere della bambina, sicuramente le sarà sembrata una singolare
coincidenza ma, sapendomi Satomi Shigeyuki, un facoltoso appena
rientrato in Giappone dall’America del Sud, non poteva venirle in mente
che fossi a conoscenza del segreto e avessi appositamente organizzato quel
teatrino per loro. Non solo, lo spavento che si era presa e le scuse per
l’accaduto erano prove che il suo cuore iniziava a basculare. Perciò era
impossibile che nutrisse sospetti su di me.
«Ma, alla fine, che ne farete della bambina? La conserverete nel vaso?»
chiese Ruriko ansiosa. Se la storia fosse giunta alle orecchie sbagliate, per i
due adulteri le cose si sarebbero messe molto male.
«No, ho fatto tesoro dei miei errori! L’ho restituita alla terra e sto
pensando di farvi erigere sopra una tomba».
Quando sentì che lo avevo nuovamente interrato sembrò per un attimo
tranquillizzarsi, ma al pensiero che sopra vi avrei fatto erigere una tomba
il suo volto dimostrò nuovi segni di preoccupazione.
«Una tomba?».
«Sì, una tomba. Ma non una come le altre, non vi sarà alcuna lapide in
pietra. La farò costruire di mattoni, diverrà una piccola stanza di
sicurezza».
«Una stanza di sicurezza? In quel punto così scomodo?».
«Possiedo una statuetta in oro raffigurante Buddha, di quelle che si
trovano a volte nascoste nelle custodie per i sütra buddisti. L’ho acquistata
in Cina ma, siccome lasciarla chiusa in un baule è un peccato, ero proprio
alla ricerca di un posto tranquillo cui affidarla. E, visti i recenti
accadimenti, ho pensato che fosse giusto così: in questo modo, il Buddha
pregherà per la bambina morta. Al posto di una comune tomba, farò
erigere un piccolo padiglione in mattoni che diverrà la dimora del
Buddha».
«Si tratta di una statuetta in oro del Buddha?».
Maledetta, appena sentiva parlare di oro le rilucevano gli occhi. Che
donnaccia!
«Sì, ne sono entrato in possesso per puro caso e mi piace l’idea di
aggiungere tesori al Giappone. Il suo peso è di circa 600 monme31 e
rispetto ad altri Buddha in oro qualitativamente non è granché, ma si
tratta di un manufatto molto antico e il suo valore è incalcolabile. Eh sì, è
il mio tesoro più prezioso. Per questo vi ho parlato di una stanza di
sicurezza: al contempo, però, sarà la tomba in cui verrà onorato lo spirito
della bambina morta e anche la dimora di un Buddha, ecco perché
potremmo definirlo anche un padiglione».
Miei cari, tengo però a dirvi che la storia del Buddha è una panzana! Si
trattava solo di una statuetta di Amida comprata in un negozio di periferia
durante una passeggiata. La avrei fatta placcare in oro e collocata
all’interno del padiglione.
“Ma che bisogno avevi di inventare quella storia?” vi starete chiedendo.
In realtà, si tratta di un dettaglio non da poco: il mio reale scopo era
costruire un piccolo locale in mattoni sopra la tomba dell’infante per
allestire un’incredibile trappola. Vi lascerà tutti a bocca aperta.
Naturalmente, ogni cosa orbita attorno al piano di vendetta e a breve
capirete di cosa parlo!
«È un Buddha così prezioso? Quando tutto sarà pronto, vi prego di
mostrarmelo».
Stupida sgualdrina, il suo volto tradiva attrazione nei miei confronti.
«Ma certo, non mancherò! Non vedo l’ora di mostrarvelo. Farò
realizzare il padiglione secondo i miei gusti e sarà una costruzione molto
singolare. Rimarrete sbalordita. Già riesco a immaginare la sorpresa sul
vostro volto. Non vedo l’ora che arrivi il momento!».
E infatti aspettavo solo quello! Lei sarebbe davvero rimasta senza
parole. Avrei creato una costruzione unica e agghiacciante. Ruriko stava
per essere travolta dal terrore e neppure immaginava quanto colossale
sarebbe stato.
Capitolo 23

L’apice della felicità

Mentre discorrevamo, all’improvviso si spalancò la porta e sopraggiunse


quel lurido di Kawamura. Comportamenti del genere rendevano evidente
che stesse porgendo visita alla sua amante. Anche lui se ne rese conto e si
scusò farfugliando parole a caso.
«Perdonatemi, non c’era nessuno all’ingresso…».
Non aveva pensato che vi fosse un elemento di disturbo come me e,
probabilmente, era entrato di buona lena come al solito, pregustando
l’incontro con la sua cagna.
«Siete il benvenuto signor Kawamura! Proprio ora il signor Satomi mi
stava raccontando di una magnifica statuetta del Buddha» fece Ruriko con
l’espressione conciliante.
Allora io dissi: «Be’, vedete, le cose stanno così…» e ripetei quanto
detto prima a Ruriko. «Quando il padiglione sarà pronto, spero davvero
mi darete la gioia di venirlo a vedere!». Conclusi così il discorso.
«Ne sarò davvero lieta! Sarà per me un vero onore! Quando pensate
che sarà pronto?».
Maledetta meretrice, era lì tutta allegra ignara di quali terribili guai
avrebbe passato una volta completato il padiglione!
«Tra un mese circa, ci vuole del tempo per curare i dettagli
dell’interno».
Eh sì, l’arredamento interno sarebbe stato infernale!
«Perfetto! Debbo recarmi a Osaka per qualche tempo e quando farò
ritorno, allora, il padiglione sarà pronto. Non vedo l’ora!» disse
Kawamura.
«Ah sì? Andate a Osaka? C’è stato qualche imprevisto?».
Alla notizia, Ruriko apparve sbalordita ben più di me e gli pose quella
domanda. Evidentemente anche lei, la sua amante, ne era all’oscuro.
«Sì, mi è appena arrivato un telegramma da mio zio. Da tempo è malato
e non gli resta più molto da vivere. Mi chiede di recarmi al suo capezzale
per occuparmi di lui. Non ha moglie e figli e neppure parenti che vivano
vicino, sono l’unico che possa fare qualcosa e ora ha bisogno di me».
Kawamura sembrava insolitamente felice. Se davvero la morte dello zio
fosse stata prossima, non sarebbe dovuto apparire triste?
Per un po’ continuammo a conversare, ma Kawamura era agitato e si
comportava come se io costituissi un elemento di disturbo. Ipotizzai
l’esistenza di un segreto tra gli adulteri e allora mi accomiatai. In realtà,
finsi solo di andarmene e, fatto il giro della casa, mi recai nel giardino e
dalla finestra li spiai.
Il giardino della dépendance era di dimensioni modeste ma ricco di
alberi: era perfetto per nascondersi e origliare.
Risuonava la voce di Kawamura, dal tono di chi vuole mettere alle
strette l’interlocutore: «Allora giurami che quando tornerò da Osaka
diventerai ufficialmente mia moglie!».
Ruriko, inaspettatamente, rimase in silenzio.
«Lo zio è molto anziano e sta per tirare le cuoia da un momento
all’altro. Io sono il suo unico successore. Non gli sono mai andato a genio,
ma visto che non ha nessun altro a cui lasciare l’eredità alla fine ha ceduto
e mi ha convocato al suo capezzale. La sua fortuna sarà di almeno 100.000
yen. Tu sai bene quanto ho atteso questo giorno! Allora, hai capito? Ora
puoi rinunciare al sussidio degli Ōmuta e diventare mia moglie! Potrai
andare ovunque tu voglia! Quindi giuramelo, giura di sposarmi!».
Li spiavo dalla finestra e vedevo la figura di Kawamura che, esaltato,
sovrastava Ruriko.
Lei, a ben guardare, appariva calmissima e non sbatteva neppure le
ciglia. Che lurida cagna, chissà come avrebbe replicato? Mentre attendevo
h d l f l
g g , p
che si pronunciasse, deglutivo. Infine, parlò.
«Se facessi una cosa del genere, non avrei più il coraggio di guardare in
faccia nessuno. E poi, io… non ho la benché minima intenzione di
diventare tua moglie! Tu sei solo il mio amante! Un bel giocattolino
sessuale e niente più! Perché mai dovrei sposarti?».
La sua risposta fu come una secchiata d’acqua sul fuoco della passione
di Kawamura.
«Un giocattolino sessuale? Ma che dici? Io sono un vero uomo e ti
desidero tutta per me. Ti voglio amare alla luce del sole. E per farlo,
l’unico modo è celebrare delle nozze ufficiali. Non ne posso più di
nascondermi dagli sguardi altrui, voglio vivere il nostro rapporto
liberamente. Quindi, giuramelo, giura di sposarmi! Non ti rende felice
l’idea di condividere la vita con me?».
«No, non si tratta di quello! Tuttavia, anche senza formalizzare la cosa,
non potremmo continuare ad amarci come facciamo ora? E poi anche tu
non sei tipo da matrimonio! L’amore è più interessante se vissuto di
nascosto con incontri fugaci, evitando gli sguardi inopportuni…».
Che faccia tosta aveva la donnaccia! E per di più, sorrideva sorniona. Il
volto e il corpo cambiarono espressione e la sua mano bianca iniziò ad
accarezzare il ginocchio di Kawamura da sopra i pantaloni. Infine le due
mani, una bruna e l’altra bianca, si unirono.
«Dai, non vi è motivo di avere tanta fretta! Intanto, occupati dello zio e
pensa a tornare presto da me. Io, da parte mia, attenderò trepidante. E
poi, solo allora… sì, penseremo a tutto una volta che farai ritorno. Io non
ce la faccio a stare troppo lontana da te, Yocchan!».
Ah, che squallida scenetta! Era quello l’atteggiamento consono alla
vedova di un visconte? Lurida donnaccia, era nata per fare la puttana!
Dopo averli spiati, compresi più a fondo quanto Kawamura fosse
innamorato di lei. Al solo tocco delle sue delicate dita, si era rammollito
come una medusa.
«Va bene, rimaniamo come hai detto tu. Del matrimonio riparleremo al
mio ritorno. Quel giorno, vedrai che saprò convincerti. E tu non mi
respingerai, vero?».
Maledetto, dove era finita la veemenza di prima? A Ruriko erano
bastate appena due moine per ammansirlo.
«Ma certo, certo! Ne riparleremo al tuo ritorno. Piuttosto, per un po’ ci
toccherà stare separati… e io… io…».
Ruriko abbassò leggermente le palpebre e le sue labbra rosse si
schiusero: il suo volto assunse un’espressione tanto sensuale da togliere il
respiro. Poi, lo sollevò poco a poco e, steso il collo snello, puntò le labbra
di Kawamura.
Il lurido allora non stette più in sé e, avvinghiata la donna tra le braccia,
tra spasmi inauditi la trascinò fuori dal mio campo visivo.
Era la seconda volta che assistevo a quella scena. Tempo prima, la sera
dell’evasione dalla cripta, l’avevo già vista dalla finestra della camera in
stile occidentale della residenza principale. Ma la vetta dell’insana
passione degli adulteri si parava di nuovo di fronte a me.
Di certo, non nutrivo amore alcuno per quella lurida puttana, lei era la
nemica giurata verso la quale covavo odio infinito. Eppure, il suo bel viso!
Quel sorriso riusciva a torcermi le budella!
Avevo la pelle d’oca su tutto il corpo e la sensazione che dai pori della
pelle stesse sgorgando sudore acre simile a sangue.
Lurida puttana! Maledetta cagna! Per quanto io, un tempo il visconte
Ōmuta, fossi divenuto un demone vendicatore, alla vista del suo sorriso mi
ribollì il sangue in corpo. Ero perso di lei, di un essere disumano! E in
forza di ciò, tanto più quel sorriso mi appariva amabile, tanto più l’odio
che nutrivo verso di lei accresceva! Il mio risentimento sarebbe arso come
la fiamma che brucia nel trichiliocosmo.
“Maledetti, guardatemi, sono il demone dai capelli bianchi che è risalito
dal fondo dell’Inferno e vi insegnerò io cosa è l’odio. Haha, chissà che
facce farete in quel momento, voi, luride carogne! L’orribile fine che vi
attende non è lontana” gridavo dentro di me.
Incapace di rimanere lì a osservarli, strinsi i pugni madidi di sudore e
presi a pugni il vuoto. Poi, corsi via dalla residenza degli Ōmuta in preda
all’ossessione. Non avevo più idea di dove mi stessi dirigendo, camminavo
senza meta. Trascorso vario tempo, tornai in me e mi diressi all’hotel.
Mi rintanai nella mia stanza per rasserenare lo spirito. Dopo un po’
venne il ragazzo del servizio in camera a informarmi della visita di un
ospite. Si trattava di Kawamura, forse era venuto a salutarmi prima di
partire per Osaka, maledetto!
Dissi al ragazzo di condurlo in camera mia e, quando entrò, il maledetto
aveva ancora sulle labbra, decisamente troppo rosse per un uomo, i segni
dei baci scambiati con Ruriko. Come pensavo, mi sciorinò mille parole di
commiato.
«Immagino quanto siate preoccupato per vostro zio! Mi raccomando,
stategli vicino».
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stategli vicino .
Dal canto suo, lui non sembrava particolarmente preoccupato per le
condizioni dello zio e, sornione, fece: «Be’, vedete, mio zio è anziano e
non credo abbia ancora molto da vivere. Ciò mi rattrista molto tuttavia, a
essere sinceri, è un ricco possidente e oltre a me non ha parenti. In
sostanza, mi sto recando a Osaka per intascare l’eredità. Io, un povero
morto di fame, diventerò un vero signore! Allo zio io non sono mai
piaciuto e finora non ha ascoltato le mie richieste, ma da ora in poi dovrò
essergli riconoscente».
Niente da dire, due creature disumane che si erano incontrate. Ruriko
sarà pure stata un demonio, ma Kawamura non era certo da meno. Come
faceva a parlare in quel modo dello zio, un suo parente? Fui tentato di
sferrargli un gancio in faccia… ma un attimo! Al pensiero che a breve la
canaglia avrebbe patito le pene dell’Inferno per mano mia, riuscii in
qualche modo a placarmi.
«E poi, in realtà le belle notizie non sono finite: ho anche un’altra cosa
da dirvi».
Ormai non stava più nella pelle e aveva la gioia dipinta in volto.
«Signor Satomi, vi siete probabilmente reso già conto del rapporto
speciale che lega me e una certa signora di vostra conoscenza. Io vi
considero come un fratello maggiore, e per questo motivo ho deciso di
confidarmi con voi. Ecco, quella signora ha finalmente acconsentito a
sposarmi. Inizialmente si è fatta diversi scrupoli ma alla fine, vinta dalla
mia passione, ha abbandonato ogni dubbio e ha accettato».
Ma di che consenso stava parlando? Io ero già al corrente di tutto.
Sapevo che ogni decisione era stata rimandata al suo ritorno da Osaka.
Maledetto, solo per il fatto che lei avesse acconsentito a riparlarne in
seguito lui già si sentiva il risultato in tasca. Ma Ruriko non lo avrebbe mai
sposato e vi era un motivo.
Tuttavia, lì per lì finsi: «Che lieta notizia! Immagino che la donzella in
questione sia la signora Ruriko. O sbaglio? Kawamura, vi sta per piovere
dal cielo una montagna di denaro e a breve convolerete a nozze, siete
davvero un uomo fortunato!».
Lui ormai era all’apice della felicità.
«Eh sì! Neppure in sogno potevo aspettarmi un tale colpo di fortuna.
Quando il defunto visconte incontrò Ruriko il suo cuore era colmo di
gioia e, adesso, riesco a rendermi conto di cosa abbia provato. La gioia di
poter avere per sé la donna più bella del Giappone, ecco di cosa si tratta!
Finora, per me che sono solo un pittore spiantato, lei era irraggiungibile.
Ma adesso, grazie ai soldi di mio zio, grazie a quel denaro tutto cambierà».
Anche le persone peggiori, nelle faccende di cuore possono ridursi
come Kawamura. Gioiva come un bambino! Eppure, all’idea che quel bel
giovincello avesse addirittura commesso due omicidi, provavo un enorme
senso di inquietudine. Ma prima di pensare all’amore, non avrebbe
dovuto vivere nell’angoscia per i terribili crimini commessi? No, lui
l’omicidio non lo considerava neppure un crimine! Quell’essere era un
mostro senza uguali, un demone assassino fin dalla nascita. In quel bel
corpo scorreva un liquido venefico diverso dal comune sangue umano.
Lui non era umano ma solo una magnifica bestia. Una bestia che
l’omicidio non lo considerava neppure un crimine!
Aveva detto di aver compreso la gioia provata da me quando sposai
Ruriko: ebbene, forse era vero. Anche le bestie, in fin dei conti,
comprendono la passione.
Miei cari, in quel momento l’adultero era fuori di sé dalla gioia. Era
felice oltre ogni limite. Le cose andavano esattamente come volevo io.
Prima di scontare le pene più terribili, doveva sperimentare la gioia
estrema e, solo dopo, io lo avrei fatto precipitare sul fondo di un abisso di
disperazione. Solo così avrei raggiunto a pieno il risultato. In tal modo,
l’abisso gli sarebbe sembrato ancora più profondo e terrificante.
Capitolo 24

Un amore misterioso

«Tuttavia, c’è qualcosa che mi preoccupa…» disse Kawamura con il volto


angosciato.
«Ma come? Voi, un agglomerato di felicità, avete delle
preoccupazioni?». Gli posi la domanda di proposito, fingendo sgomento.
In realtà, capivo bene a cosa si riferisse.
«Neanche a dirlo, si tratta di Ruriko. Come sapete, lei ama relazionarsi
con le persone e non sono pochi gli uomini che le ronzano intorno.
Inoltre, è una donna volubile e non ho idea di cosa potrebbe capitare se la
lasciassi troppo tempo sola. Sa, è così bella…».
Il maledetto sospirava come uno smidollato.
«Perché vedete le cose in modo così negativo? State certo che andrà
tutto bene! Per quanto ne capisca, mi pare che Ruriko vi ami dal
profondo del cuore. E non credo di sbagliarmi…».
«Di ciò sono convinto anche io! Eppure, mi rimane questo tarlo nella
testa. Per tal ragione, signor Satomi, avrei una richiesta da farvi e vi prego
di venirmi incontro».
«Trattandosi di voi, il più fidato degli amici, non posso certo tirarmi
indietro». Nel replicare, sottolineai con forza le parole “il più fidato degli
amici”.
«Mentre sarò fuori, vorrei che vi occupaste di Ruriko e la proteggeste
dalle mani moleste, ossia dagli uomini che le ronzano attorno. Voi avete
un legame di sangue con gli Ōmuta, siete un uomo di età avanzata e
godete della massima fiducia. Vi prego, accogliete la mia richiesta!».
Maledetto Kawamura, era proprio una buona pensata! In tal modo,
non solo faceva sì che la sua bella fosse protetta da attacchi di altri uomini
della società, ma mi privava della libertà di dedicarle attenzioni
particolari. Probabilmente, lui avrà pensato di dover difendere la bellezza
di Ruriko anche da un vecchio come me. In fin dei conti, lei era una
donna avida e con la passione per il denaro.
«Comprendo e accetto! Voi per me non siete solo un fidato amico, ma
anche l’unico amico del nostro compianto Toshikiyo. Aiutare voi significa
aiutare Toshikiyo stesso. Il fatto che voi, il suo migliore amico, e Ruriko, la
sua amata moglie, abbiate deciso di fidanzarvi non può essere un caso.
Sono sicuro che anche il nostro Toshikiyo, nelle viscere della terra in cui è
sepolto, sta sicuramente gioendo! Mio caro Kawamura, ho intenzione di
ripagarvi per l’amicizia da voi dimostrata al mio congiunto».
A quelle insolite parole fece una smorfia anche se di sicuro non arrivò a
scoprire la mia identità e, riconoscente per l’aiuto che gli stavo porgendo,
mi affidò Ruriko.
Allora, visibilmente più sereno, partì per Osaka e per circa un mese,
tranne qualche sporadica lettera, di lui non si ebbe notizia. Tuttavia, la
mia macchinosa vendetta procedeva nei confronti di Ruriko, in quel
momento rimasta sola.
Andavo a trovarla ogni giorno e anche lei ricambiava venendo al mio
hotel. Visti da fuori, sembravamo una coppia padre e figlia, ma piano
piano il nostro rapporto si fece più intimo. Un giorno, seduti uno di
fianco all’altra sul sofà della mia stanza, chiacchierando accennai a
Kawamura.
«Ho ricevuto un messaggio da Kawamura, pare che suo zio non abbia
più molto da vivere. A breve, anche lui diverrà molto ricco».
Ruriko corrugò le sopracciglia e disse: «Che cattivo gusto, una cosa
simile…».
Ma sentitela, che pia donna!
«Ma come? Non è l’uomo che state per sposare? Lui era felicissimo
della cosa!».
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«Ma cosa dite?».
Si dimostrò sbigottita e, con tono seccato, sbottò secca: «Ma quale
promesso sposo? È lui ad avervi detto una cosa simile? Non posso
crederci. Io lo…».
«Quindi, voi non avete acconsentito a sposarlo?».
Accentuai di proposito l’espressione sorpresa.
«Lui è la persona di cui il mio defunto marito si è preso cura come fosse
un fratello. Anche io lo considero tale e gli rimango vicina, ma forse
questo atteggiamento lo ha portato a travisare. A un matrimonio con lui io
non ho mai pensato».
«Ah no? In tal caso, essendo voi stessa a dirmelo, mi sento molto
sollevato».
Pronunciando queste parole, provai a lanciarle uno sguardo da
seduttore.
«Cosa intendete con “mi sento molto sollevato”?».
Leggendo il mio cuore, Ruriko provò a buttare lì la domanda facendo la
finta tonta.
«Be’, mi mettete alle strette con una domanda così diretta… nel
momento in cui ho sentito che vi sareste risposata, sinceramente, ci sono
rimasto male».
Quanto era difficile corteggiare una donna avendo le sembianze di un
vecchio con barba e capelli bianchi! Senza mostrare il pudore tipico di un
uomo attempato, la recita non avrebbe retto. Allora, emisi appositamente
qualche colpetto di tosse e mi sfregai la barba con fare imbarazzato.
A pensarci bene, mi trovavo in una situazione alquanto peculiare. Stavo
corteggiando la mia donna come fossi il suo amante segreto.
All’improvviso mi sembrò di vivere un incubo. Alle mie parole l’adultera,
anche lei una furba non da poco, si fece rossa in volto come una bambina
e, ostentando imbarazzo, replicò con voce nasale: «Ma no, non scherzate!
Di voi si mormora addirittura che siate misogino!».
«Io, misogino? Be’, sì, forse lo sono! Dopo tutto, sono giunto a questa
età senza mai prendere moglie. Però vedete, Ruriko, ciò è dovuto al fatto
che ho aspettative troppo alte nei confronti delle donne. In sostanza, non
ho mai incontrato una donna che corrispondesse ai miei desideri. Però,
ora che sono tornato in Giappone e che ho fatto la vostra conoscenza, la
mia visione delle cose è mutata. Ho iniziato a provare invidia per il
defunto Toshikiyo. E, nell’osservare i bei giovanotti che vi ronzano
attorno, vi prego di non ridere, ardo di gelosia. Il mio rimpianto è di non
avere i vostri stessi anni».
La mia messinscena si faceva sempre più carica di passione. Dentro di
me, ero ormai entrato nel ruolo del corteggiatore di quella amabile donna.
Il fatto che un tempo fosse mia moglie e che ora di fronte a me si fingesse
innocente e pudica accresceva il mio folle sentimento.
Ruriko divenne rosso fuoco (le vere puttane possiedono l’arte di
arrossire a piacimento!), teneva lo sguardo basso e a ogni mia parola
sembrava che il suo corpo fosse percorso da brividi. Poi, con
un’espressione carica di sentimento, sollevò il viso verso di me.
Piangeva. Sulle sue palpebre si erano formate lacrime simili a cristalli e
aveva le labbra tremanti per l’emozione. Le parole le morivano in gola e
non riusciva a proferire verbo. Come recitava bene! Neppure io, un
tempo suo marito, immaginavo che fosse un’attrice tanto capace.
«Io ho il cuore colmo di felicità! Pensavo che ciò fosse impossibile,
eppure dentro di me covavo la speranza. Ho sempre sognato di essere
stretta dalle vostre forti braccia!».
Mentre sciorinava frasi di repertorio, a un certo punto le sue calde mani
afferrarono le mie. E poi, così come faceva con Kawamura, rivolse verso
di me il viso rilucente di lacrime e, schiudendo le rosse labbra, si avvicinò
alla mia bocca.
Io rimasi sgomento. Addirittura, baciare la donna a cui avevo giurato
vendetta! Era davvero troppo. Dapprima infatti esitai, ma poi cambiai
idea pensando che in fin dei conti un bacio non significasse nulla e che
non mi importava se Ruriko si fosse illusa che l’amavo. Così, assaporai
nuovamente le labbra di mia moglie, la donna che in quel momento
odiavo più di ogni cosa.
Sentendo le labbra incandescenti di lei che si agitavano, mi chiesi se
davvero detestassi quella donna demoniaca o, al contrario, la amassi da
impazzire.
A quel contatto mi tornarono alla mente i bei giorni trascorsi insieme: i
ricordi si affacciavano nel mio cuore. Come una cartolina illustrata, rividi
la scena di me e Ruriko che giocavamo alla nostra maniera nella sala da
bagno. Ricordo di avervene già parlato…
Ma poi accadde qualcosa, il mio cuore trasognante ricevette una forte
scossa. Nel momento del pericolo, il mio desiderio di vendetta si era
risvegliato annullando così la malia della donna.
Serrai il cuore e, al contempo, rasserenai l’espressione del volto. Staccai
leggero le labbra dalle sue e le dissi: «Posso chiedere la tua mano?».
Lei rimase in silenzio. E poi, senza proferire parola, annuì felice. Le
nostre mani erano intrecciate tra loro e, in quel momento, avvertii la
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carica emotiva di Ruriko che fluiva verso la punta delle dita. La sua stretta
era forte, quasi da farmi male.
Capitolo 25

I tredici uomini

Trascorso non molto tempo, infine, giunse un messaggio da Osaka da


parte di Kawamura in cui annunciava la morte dello zio e l’ottenimento
dell’eredità.
Gli scrissi una lettera di risposta alla quale, dopo avergli rivolto
complimenti vari di cui si sarà di certo felicitato, aggiunsi le seguenti
righe.

La sera del vostro rientro, fratello mio, intendo organizzare per voi un
banchetto e molte personalità di spicco di S, tra cui il signor T e il
signor K, già hanno espresso in merito parere favorevole.
Pertanto, verrò a prendervi con una macchina direttamente in stazione
per condurvi al luogo del ricevimento.

L’obiettivo era farlo arrivare al ricevimento prima che potesse


incontrare Ruriko. Neanche a dirlo, lui era all’oscuro del mio
fidanzamento con lei ed eravamo entrambi d’accordo nel non informarlo.
Per quanto si trattasse di una donna demoniaca, provava rimorsi per avere
accantonato Kawamura, tanto innamorato di lei, ed essersi legata a me.
Pertanto, mi aveva fatto promettere di non dirgli nulla fino al momento
opportuno.
Kawamura rispose

Il fatto che voi abbiate radunato in mio onore gli uomini più in vista di
S è per me un estremo onore e, come mi chiedete, vi attenderò alla
stazione ferroviaria.

Era evidente che scoppiava di felicità.


Ebbene, finalmente giunse il giorno del suo ritorno. Alle sei di
pomeriggio, radunati gli ospiti nella sala banchetti dell’hotel, li pregai di
attendere e mi recai in macchina a prenderlo.
Lui indossava un lussuoso abito in stile occidentale e aveva
un’espressione da uomo navigato. Appena mi vide, si precipitò da me e
disse: «Signor Satomi, vi sono davvero grato! Finalmente, con il vostro
appoggio, anche io entrerò nella cerchia dei gentiluomini. E poi non so
come ringraziarvi per quanto avete fatto per Ruriko! Mi rincresce dirvelo,
ma se non fosse stato per il ricevimento, mi sarei precipitato da lei alla
dépendance degli Ōmuta. Ditemi, piuttosto, voi che siete attento a ogni
dettaglio come mai questa sera non l’avete invitata?».
«Sapete come si dice, il boccone più succulento va tenuto per ultimo!
Ruriko è in ottima forma, sempre più bella, state tranquillo. Questa sera
sarà un ritrovo per gentiluomini e ho ritenuto più opportuno che lei non
apparisse al vostro fianco fino a quando non annuncerete il vostro
matrimonio. Ecco perché non l’ho invitata. Sarebbe venuta volentieri a
salutarvi alla stazione, ma l’ho pregata di lasciar perdere. Vedrete, farò in
modo che il ricevimento non vada troppo per le lunghe».
Usai tutta la mia abilità retorica per tranquillizzarlo. Poi lo feci salire in
macchina e ci dirigemmo al ricevimento.
ll l b h d ll h l l
Nella sala banchetti dell’hotel, intorno a una tavola su cui spiccava una
tovaglia bianco cangiante, avevano preso posto le varie personalità della
città da me invitate.
Kawamura rivolse un saluto col capo a ognuno e, tutto contento, si
accomodò al posto d’onore.
Infine, una dopo l’altra, vennero portate le vivande e i commensali,
armati di rilucenti coltelli e forchette, iniziarono a servirsi. Tuttavia,
benché fosse un banchetto celebrativo, l’atmosfera era piuttosto rigida e
gli ospiti non scambiavano molte parole.
«Mio caro Satomi, avrei preferito non parlarne ma non posso astenermi
dal chiedervelo. Vi siete reso conto di quanti siamo intorno al tavolo? Non
avrete appositamente riunito qui un numero di persone di così cattivo
auspicio?».
Il signor T, presidente dell’associazione dei commercianti di S, mi pose
agitato la domanda.
«Che intendete dire?» chiesi mostrando indifferenza.
«Be’, vedete, siamo in tredici! Lo dovreste sapere bene che il tredici è
un numero infausto». Il signor T, che aveva anche un negozio di kimono,
sembrava seccato.
«Non me ne ero accorto! È vero, siamo tredici! In realtà, dovevamo
essere in quindici ma due persone non sono potute venire» risposi
fingendo imbarazzo.
Appena quell’osservazione raggiunse il resto della tavolata fu subito
silenzio. In brevissimo tempo, tutti si resero conto della cosa. Sebbene
nessuno dicesse nulla, volavano qua e là strane occhiate e sulla tavolata
calò un velo di angoscia.
Comunque, il pasto proseguì fino al termine senza ulteriori intoppi e,
visto che ormai stavano servendo la frutta, mi sentii in dovere di spezzare
la tensione. Allora mi alzai allegro e pronunciai parole di festeggiamento.
Tessei le lodi di Kawamura e inneggiai alla sua fortuna. Scegliendo le
parole migliori, dissi che per me era somma gioia accogliere nell’alta
società un giovane gentiluomo tanto ricco di qualità. Poi aggiunsi: «Da
quanto ne so, il nostro Kawamura ha scelto una fidanzata e manca
davvero poco affinché ci annunci le nozze. La felicità è un bene da vivere
in compagnia. Lui è stato baciato dalla fortuna e so che al momento ha
toccato l’apice della felicità. Per di più, la sua fidanzata è una donna dalle
alte qualità morali e dotata di bellezza senza paragoni!».
Non appena conclusi il mio discorso gli ospiti applaudirono all’unisono
e il signor T intonò un brindisi in onore di Kawamura.
Il banchetto in un attimo si animò. Il maledetto rideva e scherzava con
tutti e non faceva che sorridere.
Eccola la felicità raggiunta da quel fedifrago! Il picco più alto della sua
fortuna.
Bene, una volta condotto fin lì, ora si trattava di tirarlo giù. La caduta
che lo aspettava era una linea diretta verso l’abisso più profondo.
Mi alzai nuovamente.
«Miei cari signori, vi ho riuniti qui oggi per fare un annuncio. Eh sì, è
questo il motivo. Si tratta di una cosa che mi riguarda in prima persona.
Non ho una fortuna paragonabile a Kawamura, ma anche io ho per voi
una lieta notizia».
Alle mie parole si fece di nuovo silenzio e, scambiandosi ammiccamenti,
gli ospiti mi osservavano.
Dalla tavolata si levò una voce all’unisono: «Diteci! Vogliamo sapere!».
«Trattandosi di un annuncio tanto improvviso, immagino ne rimarrete
sbalorditi! Anzi, probabilmente direte tutti quanti “ma come, questo
vecchio qui…?”. Vi chiedo davvero scusa. Io finora non ho preso moglie,
ma vi annuncio che a breve mi sposerò! Sono stato baciato dalla fortuna,
come un albero secco sul quale spuntano nuovi fiori».
Per l’inaspettato annuncio, la tavolata si ammutolì per un attimo ma
subito dopo scoppiò in un fragoroso applauso.
«Complimenti! Felicitazioni!».
Facevano tutti.
«Chi sarà la fortunata a diventare vostra moglie? Vi prego, non fateci
attendere oltre, rivelateci di chi si tratta!».
Andava tutto secondo il piano, feci due o tre colpi di tosse e poi, con gli
occhi fissi sul volto di Kawamura che era seduto di fronte a me, mi
apprestai a rivelare quel nome.
Capitolo 26

Lo sposo dai capelli bianchi

Un vecchio dai capelli bianchi stava per prendere moglie! Avevano tutti
gli occhi di fuori dalla sorpresa. Poi, un applauso assordante.
«Allora, diteci di chi si tratta. Chi è la fortunata? Vi prego, non fateci
attendere ancora!».
Tutti esultavano e blateravano le stesse cose. Ma del resto, era così che
doveva andare. Io che passavo per misogino, di punto in bianco avevo
fatto un annuncio che nessuno si aspettava.
Prima di rivelare il nome della mia fidanzata, osservai bene il volto di
Kawamura. Lui, sconcertato, strabuzzava gli occhi e per lo stupore
appariva pallido in volto.
«La mia fidanzata non è una vergine! Ma è ben più pura di qualsiasi
vergine e possiede alti valori morali. E poi, più di ogni altra vergine, è
bella. Ma, detto ciò, forse già vi sarete fatti un’idea di chi sia. Nella nostra
S, oltre alla mia promessa, di donne tali non ve ne è neppure una».
Parlai con passione. Di quei gentiluomini dell’alta società, neppure uno
proferì parola. Sgomenti, continuavano a fissare il mio viso.
«Sì signori, è proprio come pensate. Si tratta della giovane vedova del
visconte Ōmuta Toshikiyo. Dal mio ritorno in città, ho intrattenuto
rapporti con la signora Ruriko e, in tal modo, i suoi sentimenti puri hanno
cambiato questo mio cuore in origine misogino. Ottenuto il consenso
degli Ōmuta, il ventuno di questo mese abbiamo deciso di celebrare le
nozze. Da parte mia, ho già iniziato a occuparmi dei preparativi».
Non avevo neppure finito di parlare che scrosciò una pioggia di
applausi e addirittura un coretto che faceva «evviva il vecchio Satomi!».
Tutti volevano stringermi la mano e le loro braccia si accalcavano verso di
me.
Eppure, io li ignorai e continuai a fissare il volto di Kawamura. Non
potevo fare a meno di osservarne l’espressione.
Il suo viso sbiancò per lo sgomento e il terrore, ma poi si fece subito
rosso come il fuoco per la rabbia. Infine, la sofferenza lo portò man mano
a divenire violaceo.
I suoi occhi brillavano di una strana luce e puntavano il mio volto. Io,
invece, al contrario della sua espressione eloquente, avevo un leggero
sorriso stampato sul viso e lo squadravo.
A un certo punto, le persone che fino a poco prima chiosavano allegre,
forse resesi conto della situazione, fecero calare nuovamente il silenzio in
sala e si concentrarono su me e Kawamura che ci scrutavamo con stizza.
«Signor Satomi, ciò che avete appena detto immagino sia solo uno
scherzo, giusto?».
«Quale scherzo?» risi divertito. «Haha! Ma cosa dite? Vi pare che
faccia scherzi del genere?».
«Ma allora…». Triste, Kawamura iniziò visibilmente a tremare.
«Allora cosa?» ripetei con indifferenza le sue parole continuando a
sorridere.
Kawamura non rispose e, serrando le labbra, si alzò di scatto dalla
sedia. Per qualche istante si guardò intorno trasognato, ma poi afferrò il
bicchiere da vino di fronte a sé e, all’improvviso, come un pazzo, me lo
lanciò contro.
Con un movimento del collo evitai l’oggetto, che si infranse contro il
muro alle mie spalle con un crash!
«Voi, maledetto!».
Emise un grido bestiale e, fissandomi con gli occhi iniettati di sangue,
montò sul tavolo e si scagliò contro di me.
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«Ma cosa fate? Siete impazzito?».
I due gentiluomini accanto a lui lo afferrarono per le gambe e lo
tirarono giù dal tavolo. Tutti si alzarono in piedi e iniziarono a squadrare il
riottoso.
Circondato da sguardi ostili, Kawamura si sentì in imbarazzo e non
diede più in escandescenze. Ma il suo cuore continuava ad ardere di
rabbia e con il volto violaceo mi fissava impietrito.
«Ah miei cari, sono dolente che vi siate presi uno spavento!» dissi
ridendo e senza scompormi troppo.
«Evidentemente il nostro Kawamura ha preso un abbaglio. Non
potrebbe essere altrimenti! Non aveva motivo di aggredirmi, visto che
sono il protagonista della serata. Che succede, Kawamura? Ripagate
l’affetto con gesti ostili? Oppure, avete rimostranze da farmi? In tal caso,
sarò felice di ascoltarvi. Ma, comunque, non occorre trascendere…».
Kawamura rimase fermo in piedi, di sasso, e non replicò in alcun modo.
Durante quel silenzio anomalo continuammo a lanciarci a vicenda sguardi
di stizza. Dopo un po’, si voltò di scatto e, facendo rumore con la sedia, si
diresse verso la porta con atteggiamento minaccioso. Intendeva lasciare il
banchetto senza neppure salutare.
«Kawamura! Se avete bisogno di me mi potrete trovare nella mia casa
alle terme Y. Stasera mi fermerò lì» gli dissi mentre se ne andava.
Lui di sicuro aveva sentito le mie parole ma, senza neppure voltarsi, in
gran silenzio, sparì oltre la soglia.
Andato via Kawamura, tra gli ospiti della serata calò il silenzio. Venuto
meno uno dei festeggiati, ormai il banchetto non aveva più senso di essere.
Con indifferenza, provai ad aggiustare le cose distribuendo saluti in
giro e poi mi accomiatai. Gli altri allora, vista la situazione, senza dire
nulla, si salutarono in modo sbrigativo e tornarono alle loro case.
Capitolo 27

La trappola

Verso le dieci di sera, sbrigati i preparativi necessari, attendevo la venuta


di quel bastardo di Kawamura nella mia residenza presso le terme Y.
Prima o poi si sarebbe fatto vedere.
Dopo quei fatti, Kawamura si sarà di sicuro diretto all’abitazione di
Ruriko per chiedere spiegazioni dell’inaspettato tradimento.
Tuttavia, lei non si trovava in casa. Su mio consiglio, per evitare il
contatto con Kawamura, quella mattina aveva lasciato la città ed era
partita per un viaggio di due o tre giorni.
Stupito dalla sua assenza, Kawamura avrà quindi compreso che quanto
da me detto circa il nostro fidanzamento corrispondeva al vero. Non
poteva essere altrimenti, lui le aveva anche inviato un messaggio in cui
comunicava il suo ritorno a S. Se nonostante quello era partita per un
viaggio verso un’ignota destinazione, significava allora che i suoi
sentimenti erano davvero mutati. Quella fu la seconda batosta per
Kawamura. Il dolore provato da un uomo cui hanno strappato via
l’amore, ossia la medesima sofferenza patita da Toshikiyo, ecco cosa stava
sperimentando! Io conoscevo bene la profondità dei sentimenti provati da
Kawamura per Ruriko, un amore tale che lo aveva portato a scagliarsi
contro di me addirittura davanti agli illustri invitati al banchetto. Dopo
avere sperimentato il mio tradimento e quello di Ruriko, non poteva
rimanere con le mani in mano. Il suo cuore non si sarebbe placato fino a
quando non avesse ridotto a brandelli la coppia di amanti (che, dal suo
punto di vista, eravamo io e Ruriko!). Tuttavia, non sapeva dove
rintracciare lei e quindi sarebbe di sicuro piombato da me, l’amante della
sua donna. Avrebbe avuto con sé una pistola? O forse un coltello? In ogni
caso, non me l’avrebbe mai fatta passare liscia.
Prevista ogni cosa, ero lì ad attenderlo. Avevo scavato per lui una fossa
profonda, come quelle trappole usate per infliggere il colpo mortale ai
cinghiali feriti. Sul fondo della fossa, piantate nel terreno, si stagliavano
innumerevoli spade affilate.
Miei cari signori, finalmente era arrivato il momento di scagliare tutto il
mio odio contro Kawamura senza alcuna remora. Il mio cuore danzava
allegro. Il demone vendicatore dai capelli bianchi, assetato di sangue,
aveva già l’acquolina in bocca!
“Ma quindi, ha abboccato o no alla trappola?” vi starete chiedendo
voi… ebbene sì, vi cadde dentro a piè pari. La povera preda, malferma
sulle proprie gambe per la sofferenza provata, finì inevitabilmente nella
trappola.
«Il signor Kawamura è qui».
Dopo averlo accolto all’ingresso, Shimura ne annunciò l’arrivo.
«Bene, vi precedo al padiglione in giardino. Come ti ho chiesto,
conduci lì Kawamura. Hai capito? Mi raccomando» dissi a Shimura
mentre mi avviavo di gran carriera verso il padiglione.
Cari signori, ve ne ricordate, vero? Di quando vi ho parlato della stanza
di sicurezza in mattoni per conservare una statuetta in oro del Buddha?
Eh già, il padiglione… giunto sul posto, mi nascosi dentro un’angusta sala
comandi realizzata su un lato del padiglione. “Ma cosa ci fa una sala
comandi in un padiglione?”, vi chiederete anche questo… abbiate
pazienza e ascoltate il resto del racconto. A breve comprenderete ogni
cosa.
Bene, da adesso in avanti conviene che vi descriva le cose parlandone
dal punto di vista di Kawamura, che si sta dirigendo al padiglione scortato
da Shimura. Quindi, per un po’ celerò la mia figura e non sarò più io il
protagonista, bensì quel bastardo.
Cosa era venuto a fare nella mia casa alle terme Y? Come immaginavo,
aveva nascosto nella tasca un pugnale da antiquariato e, qualora io non mi
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fossi pentito delle mie azioni, lui mi avrebbe ucciso. Era fuori di sé per il
dolore legato alla perdita di Ruriko.
Anche lui, un tempo un bel giovane, a causa dell’odio aveva mutato
aspetto ed era divenuto un essere di un altro mondo. Mentre stringeva il
pugnale tremava. A un certo punto, Shimura si rivolse a lui con tono
cortese.
«Prego, da questa parte».
Kawamura lo seguì senza fiatare. Attraversarono due o tre stanze, fino a
giungere alla veranda interna. Shimura si tolse le scarpe e si infilò i geta da
giardino. Poi, indicando il giardino avvolto dall’oscurità, gli disse: «Ecco,
è lì».
Nel buio si ergeva una struttura in mattoni rossi di due piani che da
lontano assumeva toni bianco pallido.
«Che intendete?» replicò Kawamura con una strana smorfia.
«Il padrone vi attende all’interno del padiglione, è stato realizzato di
recente. Credo che vi voglia mostrare qualcosa».
“Ah, ma certo! Aveva parlato di una statuetta in oro del Buddha, ecco
perché ha fatto costruire il padiglione” avrà pensato Kawamura. Il luogo
per lui non era importante, voleva solo mettermi le mani addosso e
scaricare su di me il suo rancore. In più, non aveva motivo di sospettare
nulla e seguì Shimura mentre si addentrava nel giardino.
Aperta la porta ed entrati nella struttura, si capiva che era composta da
un tempietto in mattoni di circa tre metri quadrati e da un buio corridoio
ampio quasi due metri che gli girava intorno. In pratica, all’interno di una
grande scatola ve ne era una cilindrica più piccola.
La sala comandi in cui ero nascosto era collocata dietro al tempietto, in
un punto del corridoio. Si trattava di uno spazio molto angusto e
Kawamura non poteva notarlo.
Sul fronte del tempietto, in mezzo al muro di mattoni, era collocata una
porta in ferro color grigio topo. Shimura la aprì e invitò Kawamura a
entrare.
«Il padrone vi attende lì dentro».
«Ma cosa dite? Lì dentro non c’è nessuno! Dov’è il signor Satomi?
Ditemelo!».
Per la sorpresa Kawamura si mise a gridare, ma proprio in quel
momento la porta di ingresso del padiglione si chiuse alle sue spalle.
Subito dopo, si sentì il rumore della chiave che girava nella serratura.
Quindi, lui si ritrovò prigioniero in una struttura stretta e con i muri di
mattoni.
Era preda della confusione. Credeva di essere lui a provare rancore e
non capiva come mai si ritrovasse in una tale situazione a causa mia,
ovvero Satomi Shigeyuki.
«Allora, che aspettate? Fate subito venire qui il signor Satomi!».
Ai suoi occhi sorpresi il tempietto non aveva nulla a che fare con un
normale padiglione.
Le pareti interne erano tutte in cemento e non vi era un altare, ma al
centro spiccava una piccola scatola nera. Le pareti, il soffitto e il
pavimento erano piatte superfici grigie, non vi erano statue e neppure
motivi ornamentali o elementi colorati. Sembrava piuttosto uno
sgabuzzino completamente vuoto.
Dal basso soffitto pendeva una lampadina da cinque candele e,
nonostante non soffiasse vento, oscillava senza sosta. A ogni oscillazione
l’ombra di Kawamura, che si stagliava dal soffitto al pavimento,
sussultava.
Ma non solo. Forse per dei cali di corrente elettrica, la lampadina ogni
tanto si spegneva e poi subito dopo si riaccendeva come se vi fossero i
fantasmi. Qualcosa non andava…
Lui si stranì e, nel tentativo di uscire da quel luogo, provò a fare
pressione sulla porta ma quella non si muoveva di un millimetro. Il
rumore di poco prima era proprio quello della chiave che girava nella
serratura.
«Ehi, aprite subito la porta! Che cosa intendete fare? Tenermi rinchiuso
qui?».
Era adirato e prese a pugni la porta, ma quella rispose producendo solo
un fragoroso clan, clan! Era di uno spesso strato di ferro. Siccome si
trattava della stanza di sicurezza per custodire un’icona in oro del
Buddha, era naturale che avesse una simile porta di ferro. Ma, non vi era
alcun motivo per rinchiudere lì dentro Kawamura insieme al Buddha!
Preso dallo sconforto, rimase fermo in piedi e intanto, come vi fossero i
fantasmi, la lampadina si spense di nuovo all’improvviso. Dentro la scatola
di cemento regnava un’oscurità totale in cui non si distingueva nulla.
Ancora spenta, la lampadina non accennava a riaccendersi. Kawamura
non aveva neanche più la forza per gridare e, attanagliato dalla paura,
rimase in silenzio.
A un certo punto, dall’oscurità spuntò una sagoma non ben definita.
Forse era un’allucinazione provocata dal buio. Ma no, non era
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Forse era un allucina ione provocata dal buio. Ma no, non era
un’allucinazione! Quella cosa, mano a mano, stava assumendo una forma
terrificante. Erano loro! Sì, erano proprio loro!
Due bulbi oculari della grandezza di circa mezzo tatami ciascuno
apparvero all’improvviso nell’oscurità e presero a fissarlo. Si trattava di
occhi che lui non poteva avere dimenticato, erano quelli di Ōmuta
Toshikiyo, carichi di odio.
Capitolo 28

La vera identità del Buddha

Prestando attenzione, si poteva udire un suono insolito proveniente da un


punto imprecisato. A produrlo era Kawamura che, circondato da pesanti
muri in cemento e messo alle strette dall’apparizione di due giganteschi
occhi, al pari di una bestia impaurita, camminava come un ossesso.
Io avevo nuovamente esposto i miei occhi alla potente lampada della
lanterna magica e premuto l’interruttore sul muro. Poi, riaccesi la luce
posta sopra la testa di Kawamura e, al contempo, scomparve anche la
proiezione.
Allora, inforcati i miei occhiali scuri, feci il giro del corridoio e andai sul
fronte del tempietto: lì, da una finestrella che avevo fatto predisporre nella
porta, spiai quanto avveniva all’interno.
Haha! La mia preda, quel topo che rispondeva al nome di Kawamura
Yoshio dava in escandescenze come un roditore in trappola che si dimena
per liberarsi. Sebbene i due occhi fossero ormai svaniti lui era lì
trasognato e, con in mano il pugnale che si era portato, lo brandiva alla
cieca fendendo il buio.
«Ehi, Kawamura. Ma cosa fai?» provai a chiedergli attraverso la
finestrella. Inizialmente non mi udì e quindi ripetei la domanda altre due
o tre volte. Lui, attanagliato dalla paura, si bloccò e poi si rivolse nella mia
direzione.
«Sono io, Satomi!».
Gli mostrai il viso attraverso la finestrella.
«Ah, maledetto…».
Quando realizzò, divenne paonazzo in volto e si scagliò verso di me. Fu
rapido e aggressivo come un fulmine.
Scostai il volto giusto in tempo. Brandendo il pugnale, Kawamura infilò
in un lampo il braccio nella finestrella fino alla spalla. Fu come una lancia
che attraversava la porta.
Quando però si accorse che aveva fallito il colpo e provò a ritirare
l’arto, io glielo afferrai e strinsi con forza costringendolo a gettare il
pugnale.
«Haha! Kawamura, che hai? Mi sembri arrabbiato! Sei forse venuto qui
per uccidermi?».
Mentre pronunciavo quelle parole gli liberai il braccio dalla presa. Lui
allora, d’impulso, si appoggiò malfermo al muro alle sue spalle.
Barcollava, ma nonostante ciò non aveva perso la voglia di parlare.
«Esatto! Sono qui per ucciderti. Tu mi hai tradito. Allora, apri questa
porta! Bastardo, ladro!».
Di solito era uso parlare in maniera elegante, quasi effeminata, e se
ricorreva a un tale turpiloquio significava che aveva i nervi a pezzi.
«Dai, Kawamura, calmati! Sarai pure venuto a uccidermi, ma io in
realtà ho rispettato la promessa un tempo fatta a te! Hai già dimenticato?
Ma come? La promessa di mostrarti quel prezioso Buddha in oro che
possiedo! Dai, vai a vederlo! È proprio lì davanti a te, dentro quella
scatola nera! Su, prova ad aprirla. Non sai neppure quanto sia raro il
Buddha conservato al suo interno».
Kawamura rispose: «Sei tanto educato da mostrarmelo, ma a me del tuo
Buddha non frega nulla! Adesso noi abbiamo un problema ben maggiore!
Ma intanto apri la porta! Allora, che fai? Non la apri?».
«Se la apro, tu mi aggredirai. È meglio che prima ti calmi stando un po’
lì dentro. E poi, non puoi fregartene del mio Buddha. Lo devi
assolutamente vedere. Anzi, hai l’obbligo di farlo! Devi espiare i tuoi
crimini».
Alle mie insolite parole Kawamura fece una smorfia. La sua rabbia pian
piano sbollì e recuperò le forze per articolare meglio i discorsi. In silenzio,
si avvicinò alla scatola nera e pose la mano sulle due ante del coperchio.
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Prima di aprirla esitò un poco, come prevedesse che da lì sarebbe
spuntato qualcosa di agghiacciante. E allora, incapace di compiere il
gesto, rimase in piedi assorto nei pensieri.
«Allora, aprila! Ormai non ha senso esitare. Il contenuto della scatola ti
attende ormai da molto tempo!».
Incitato dalle mie parole, infine aprì il coperchio. Ah! Gridò e intanto il
suo volto sbiancò dal terrore e le sue labbra presero a tremare. Alla vista
del contenuto della scatola, d’istinto indietreggiò per lo spavento.
«Osservalo bene, l’impietoso corpo del frutto del peccato! Chi sarà mai
quel padre che ha ucciso con le proprie mani la figlia? Kawamura, è
giunto il momento che quel demonio di padre venga punito. Preparati!
Questo è l’odio della bambina da te uccisa. L’odio dell’uomo cui hai
rubato la moglie!».
Dentro la scatola, in fase di decomposizione avanzata e ridotto per metà
a uno scheletro, vi era il cadavere della bambina. Aveva le braccia
rattrappite, le gambe piegate verso il petto, la bocca spalancata. Sul volto,
portava ancora i segni del suo triste pianto. Quella bambina frutto del
peccato era ormai quasi un cumulo di ossa.
Miei cari signori, come ben sapete, in realtà erano i resti del feto nel
vaso di vetro acquistato a Osaka da Shimura e non si sapeva chi fossero i
genitori. Kawamura naturalmente non era al corrente di ciò e avrà pensato
che fosse la figlia illegittima avuta con Ruriko.
In realtà, il suo sgomento non era dovuto allo scheletro bensì al
pensiero che io avessi scoperto i crimini di cui si era macchiato. Bloccato
dalla paura, mi fissava attraverso la finestrella nella porta. Poi,
d’improvviso, iniziò a gridare come impazzito.
«No, no! Le cose non stanno come pensi! Non hai prove che sia mia
figlia! Io non ne so nulla di questa storia, nulla!».
«E invece la conosci proprio bene. Tu, di nascosto agli Ōmuta, in
questa residenza hai portato Ruriko a partorire la vostra figlia illegittima.
È quella bambina lì! E poi tu, con le tue mani, l’hai uccisa! Hai ucciso
quella bambina appena nata! E dopo aver compiuto il misfatto, l’hai
seppellita nel giardino. Te ne sei forse dimenticato?».
Preso dalla foga della vendetta, con le parole miravo ai punti deboli del
nemico.
«No, io non so nulla di tutto ciò!».
Kawamura sbiancò e il volto si fece scheletrico. Sulle guance gli si
stampò un sorriso isterico e continuava a ripetere la stessa frase. I suoi
gesti persero gradualmente vigore e piano piano gli sparì anche la voce. A
un certo punto, si ritrovò a muovere le labbra senza emettere suono. Poi,
gli svanì dal volto anche quel sorriso sforzato e si chiuse nei propri
pensieri.
Dopo un po’, la sua espressione mutò in modo orribile. Sulle guance
esangui riaffiorò il colore e i suoi occhi fino a poco prima smorti
tornarono a brillare.
«Ma tu chi sei? Perché stai lì a spiarmi?».
Il suo tono di voce aveva qualcosa di spaventoso.
«E chi dovrei essere? Io sono io! L’uomo che tu sei venuto a uccidere,
Satomi Shigeyuki».
Alla mia risposta, Kawamura fu colto da un sospetto.
«Ah, è così? Sì, sei tu maledetto! Non puoi essere altri che tu! Ma
perché mi stai facendo questo? Perché mi odi tanto?».
«Ti odio perché mi hai sottratto la moglie!».
«Me lo hai già detto ma non è possibile, tu non hai moglie…».
«Non solo mi hai sottratto la moglie, ma mi hai ucciso! Ecco perché ti
odio!».
«Ma che dici?».
«Mi hai ucciso e sepolto in una cripta dalla quale non potevo uscire.
Anche per questo ti odio! Ma poi io sono rinato in seno all’oscurità
dell’Inferno».
«Aspetta un attimo, di che diamine parli? Non ha senso! Deve essere
tutto un sogno. Sto vivendo un incubo! Adesso basta, basta!».
Si strappava i capelli con entrambe le mani nel tentativo di svegliarsi da
quell’incubo. Ma, non trattandosi di un sogno, serviva a ben poco.
«Aspetta, ti prego! Tu sei lì, vero? Mostrami il tuo viso! Ah, ti prego,
mostrami il tuo volto! Sto per impazzire!».
«Se davvero lo vuoi vedere, vieni vicino alla finestrella!».
Seguendo la mia voce Kawamura si avvicinò barcollante. Accostò gli
occhi alla fenditura e scrutò il mio volto. Le nostre facce erano una di
fronte all’altra separate da appena pochi centimetri. Lui mi guardò per
diverso tempo ma alla fine urlò rassegnato.
«No, non ti riconosco! Ma tu perché mi stai facendo tutto questo? Non
riesco proprio a comprendere…».
«Aspetta, Kawamura! La mia voce di certo non puoi averla
dimenticata».
Di colpo, non usai più il tono di voce che mi ero allenato a produrre
per impersonare Satomi Shigeyuki e ripresi a parlare con quello giovanile
p p g y p p q g
di Ōmuta Toshikiyo.
Solo pochi centimetri ci separavano l’uno dall’altro e notai benissimo
che gli venne la pelle d’oca su tutto il corpo. Per un attimo i suoi occhi si
spensero e si spalancarono come un invasato.
«Allora Kawamura, mettiamo pure che tu abbia dimenticato la mia
voce… ma i miei occhi, quelli non puoi averli dimenticati. Gli occhi di chi
un tempo fu il tuo migliore amico!».
Scandendo ogni singola parola, mi levai i miei grandi occhiali scuri.
Sotto quelle lenti, in effetti brillavano gli inconfondibili occhi di Ōmuta
Toshikiyo.
Quando Kawamura li vide, i suoi occhi sembrarono per un attimo
dover schizzare fuori dalle orbite. E i capelli arruffati, uno a uno, gli si
drizzarono sulla testa.
Lanciò un urlo lacerante e indescrivibile. Dopodiché il suo viso sparì
dietro la finestrella. Ormai incapace anche solo di tenersi in piedi, si era
accasciato a terra.
Capitolo 29

La stanza dell’esecuzione

Per un po’ regnò il silenzio.


Il forte spavento lo fece crollare al suolo come se avesse perso i sensi tra
quelle pareti di cemento. Osservandolo bene, il volto era avvizzito e il suo
corpo si era fatto piccolo come quello di un bambino. Ispirava davvero
compassione a vederlo.
Tuttavia, il mio profondo odio non si sarebbe estinto per così poco, la
mia vendetta non era ancora terminata.
Mi assicurai che non avesse perso i sensi e poi, dalla finestrella, gli
parlai. Gli raccontai ogni cosa, tutto il dolore, il rancore, la tristezza e le
sofferenze vissute dal momento in cui ero tornato in vita nella cripta. Non
tralasciai nulla.
Lui di sicuro mi ascoltava anche se non mostrava alcuna reazione. Forse
non aveva neanche le energie per reagire al mio agghiacciante racconto.
Non rispondeva più agli stimoli.
«Sono diventato un altro e ho addirittura deciso di risposare Ruriko, la
donna su cui intendo vendicarmi. Tra dieci giorni sarò il suo sposo. E tu
Kawamura, che ne pensi delle nostre nozze? Prendila così, non sono altro
che uno strumento per farti sperimentare la disperazione più profonda.
Vista così, alla fine tu risulti un gran credulone. Io la sposerò solo per
vendetta, quella puttana! Voglio che sperimenti lo stesso Inferno da me
vissuto, la sposerò per poi ucciderla! Che nozze agghiaccianti saranno, te
le immagini, no?».
Finito il mio lungo discorso continuai a fissare Kawamura. Era fermo
nella stessa posizione e respirava affannato. Poi, con voce flebile, sussurrò:
«Vigliacco, sei un vigliacco!».
«Bene, di Ruriko mi occuperò in seguito, adesso pensiamo a te. Intanto
dovrai sperimentare il terrore e la sofferenza da me vissuti quando sono
rimasto intrappolato per cinque giorni nella cripta. Su, alzati in piedi! Poi,
se hai qualcosa da dire dilla pure».
Come in risposta a un ordine, Kawamura scattò in piedi. Poi scosse la
sua testa arruffata e scoppiò in una fragorosa risata, forse dovuta alla
disperazione.
«Che cosa conti di fare? Puntarmi contro una pistola da lì? Oppure
intendi sigillare tutto e farmi morire di asfissia? Anzi, mi lascerai qui a
morire di fame? Sono spiacente ma non sono per nulla sorpreso! Ero da
tempo pronto a tutto. Piuttosto che andare al patibolo ed essere
impiccato, è meglio morire per mano tua! Almeno così, nell’aldilà, potrò
ricongiungermi a Ruriko».
«Lascia perdere i discorsi inutili! Oppure la paura ti ha mandato il
sangue al cervello? La mia vendetta non sarà leggera. Avrai il coraggio di
morire senza fare resistenza? Ce la farai davvero?».
«Nessun problema!».
Quella non era la voce di un essere umano, ma di una bestia caduta in
trappola. I suoi occhi iniettati di sangue, poi, erano come quelli del bove
che osserva l’accetta del macellaio.
La spacconaggine che ostentava alimentava il mio odio e allora picchiai
rapido sulla porta: era un segnale per la sala comandi, dove attendeva il
fidato Shimura.
Vrrr, all’improvviso si sentì il rumore di un motore che si avviava. Poi
crr crr, il suono di ingranaggi che si muovevano. All’interno del
padiglione di cemento stava accadendo qualcosa di terribile.
Anche Kawamura aveva percepito quei rumori e, disorientato per la
paura, continuava a guardarsi intorno.
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«Haha! Sei terrorizzato, vero? Eppure, mio caro Kawamura, quando io
ho riaperto gli occhi dentro una bara buia, lo ero ancora più di te!».
Miei cari signori, vi prego di non condannare i miei gesti efferati. In
quel momento, per me esisteva solo la vendetta. La vendetta era la mia
unica ragione di vita.
«Quel rumore, cosa è stato? Dimmelo! Che cosa ne sarà di me? Che
cosa sta per succedere qui?».
«Haha! Allora hai paura!».
«No, non temo nulla. Ma voglio sapere. Voglio conoscere il mio
destino!».
«Allora te lo dirò! Ma te ne pentirai!».
Non una parola, Kawamura rabbrividì.
«Sopra. Guarda in alto. Che aspetti? Non ne hai il coraggio?».
Come un bambino intimidito, sollevò lo sguardo e osservò il soffitto di
cemento. Eppure, non vi era nulla di insolito…
«No, non è così che devi guardare. Osserva meglio».
Kawamura seguì le mie indicazioni e lo scrutò di nuovo, a lungo.
Eppure, i suoi occhi iniettati di sangue non percepivano nulla. Era solo
una superficie color grigio topo. Dal soffitto pendeva un cavo della
corrente elettrica e alla sua estremità era collegata una lampadina. Nulla di
più!
«Ma dove guardi? Pensi forse che ci sia un buco sul soffitto? Non devi
cercare una cosa così piccola… anzi, forse è troppo grande e non te ne
rendi neppure conto. Guarda bene tutto il soffitto! Pensi sia fatto di assi
di legno? Ma no, quello è un robusto soffitto di cemento spesso quasi due
metri, è un unico blocco. In pratica, la stanza è un enorme cilindro di
cemento. Hai capito? La lampadina che prima stava sopra la tua testa,
adesso non è forse all’altezza dei tuoi occhi? Ma perché è scesa? Lo sai?
Naturalmente perché mano a mano il soffitto sta raggiungendo il
pavimento.
Finalmente Kawamura aveva realizzato ogni cosa. Un grosso blocco di
cemento pesante varie tonnellate stava scendendo verso di lui per
schiacciarlo. Tra il soffitto e il pavimento non sarebbe rimasto uno
spiffero, neppure lo spazio sufficiente per un insetto.
Miei cari signori, nemmeno un diavolo sarebbe stato capace di
escogitare una trappola tale. In realtà, era un trucco suggeritomi dalla
stessa divinità della Vendetta! Nella storia dell’uomo, mai nessuno aveva
impiegato come arma del delitto una stanza.
Probabilmente, lì per lì Kawamura perse il senno. Con gli occhi puntati
al soffitto, come un topolino prese a correre da un punto all’altro
dell’angusta camera cilindrica.
Sebbene conscio che fosse inutile, brandiva i pugni e colpiva le pareti.
E così, gli si aprirono delle ferite sulle mani da cui sgorgò del sangue.
«Aiutami, ti prego, risparmiami! Ti prego…».
Il suo grido agghiacciante risuonava tra le pareti producendo una strana
eco.
«Haha!» ridevo come un diavolo compiaciuto.
Nelle storie occidentali vi sono numerosi esempi di vendette rapide in
cui il carnefice osserva la sofferenza della preda caduta in trappola. Ma io,
non sono un tale debole! La sofferenza vissuta da Kawamura non era
ancora nulla rispetto a quella da me sperimentata. “Occhio per occhio,
dente per dente”, ecco il principio alla base della mia nuova esistenza.
«Kawamura, ascoltami! Ora sai come la penso! E capisci anche come
mai ho fatto realizzare questo congegno. Tu verrai schiacciato dal cemento
e ti trasformerai in un cracker di riso. Nella tua trachea finiranno le ossa
della bambina che hai ucciso e diventerete un unico cracker. Non vi
separerete più! Questo meraviglioso cracker di padre e figlia lo faremo
vedere alla donna che ha partorito la bambina! Chissà che faccia farà?
Non vedo davvero l’ora! Haha!».
Forse ero impazzito ancora più di lui e dicevo ogni cosa mi passasse per
la testa.
Le sue pene furono lunghe: il soffitto avrebbe impiegato circa un’ora a
raggiungere il pavimento. In quel frangente, provò con le braccia a
sostenere il soffitto che scendeva inesorabile. Mano a mano, però, avrebbe
dovuto curvare la schiena, poi sedersi, poi accovacciarsi e infine stendersi.
Il blocco di cemento sarebbe sceso imprimendo pressione sui suoi occhi e
bloccandogli i movimenti. Sarebbe stato costretto quindi a rannicchiarsi
sempre più su se stesso… Non poteva fare nulla e, tra le lacrime,
attendeva solo di morire. Chi altri aveva mai patito simili sofferenze?
Kawamura, come un cane randagio trascinato nella gabbia in cui sarà
soppresso, versò copiose lacrime preso dall’isteria.
«Perché non mi uccidi in fretta? Ammazzami ora! Rendimi il mio
pugnale! Oppure sparami con una pistola, o impiccami! Ma ti prego,
uccidimi!». Provò con le preghiere e le ingiurie: parlava e si bloccava,
parlava e si bloccava…
Il soffitto di cemento era ormai sceso per metà quando comparve
Shimura, l’addetto alla strumentazione. A quella vista sbiancò in volto e
prese a sudare.
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«Signore, non posso più svolgere questo lavoro! Vi prego di
congedarmi!».
Ansimante, mi presentò così le sue dimissioni.
«Hai forse paura?» gli chiesi freddo.
«Sì, ho paura. Ho quasi più voglia di lui di morire!».
«Non ne ho dubbi. Non c’è bisogno che tu soffra ulteriormente, hai
fatto bene il tuo lavoro. Da oggi sei libero, questo è un ringraziamento per
i tuoi servigi».
Passai a Shimura un pacchetto che avevo precedentemente preparato e
portato con me nel padiglione. Dentro c’erano 100.000 yen.
Accadde circa dieci minuti dopo che Shimura se ne andò. L’interruttore
era inserito e, anche senza lui a manovrarlo, il congegno continuava a
funzionare.
Ero di fronte alla finestrella a osservare una cosa insolita.
Dalla fessura, spuntava un braccio.
L’ostinazione a vivere degli esseri umani è davvero sorprendente.
Kawamura stava provando in qualche modo a evadere da quella fessura
di appena pochi centimetri. Come chi sta per annegare si aggrappa a
qualsiasi filo di speranza, sfidando l’impossibile, lui tentava di sgusciare
fuori dalla finestrella!
Inizialmente aveva provato anche a infilarci la testa ma, piano piano, il
suo volto venne risucchiato verso il basso: il soffitto, giunto ormai
all’altezza della fessura, gli faceva pressione sul capo.
La testa non ci passava, ma c’era ancora un po’ di spazio. Era stato a
quel punto che Kawamura aveva provato a infilare il braccio destro. Forse
intendeva far scappare almeno quello! Che tremenda ossessione!
Il braccio venne lentamente stretto in una morsa.
Le dita vibrarono nel vuoto. Quasi fosse una creatura a parte, l’arto si
contorse per il dolore fino a che non sopraggiunse la morte.
Come se qualcuno le avesse strette, le dita compirono due o tre
convulsioni e poi si schiusero per sempre. Al contempo, il braccio proteso
diritto nel vuoto si abbassò, al pari del capotreno che dà il segnale di
partenza alla locomotiva.
Capitolo 30

La strana promessa

Ricorrendo al congegno celato nel cilindro di cemento, avevo ridotto


Kawamura come un cracker di riso insieme all’infante. Il primo dei due
obiettivi della vendetta era stato raggiunto con successo. Tuttavia,
mancava ancora Ruriko. Quella affascinante puttana, le avrei fatto passare
i peggiori momenti della sua vita! Era lei, in fin dei conti, la protagonista
del piano. Come demone dai capelli bianchi rinato in una tomba, quello
era il mio ultimo desiderio.
Per capirci, esattamente come i bambini tengono il boccone più
succulento alla fine, preferii iniziare da Kawamura e serbare la cara
Ruriko per la fine: tenni il piacere maggiore per ultimo.
Finalmente era giunto il momento di affondare le bacchette nel
boccone più goloso, di cambiare i connotati a quella bellissima donna
demone, cuore compreso! Ero a mille per la trepidazione, una sensazione
unica e indescrivibile. Per la gioia, mi trovai addirittura a canticchiare tra
me e me alcune famose canzoni…
Miei cari, trovate sgradevoli le parole di questo demone vendicatore?
Mi disprezzate, forse? Su, non lo nascondete! Il vostro volto dovrebbe
aver assunto una strana espressione. I vostri occhi non mi stanno forse
scrutando come fossi una bestia abominevole? Avete proprio ragione. In
quel momento io non ero altro che una bestia, un ammasso di odio mosso
dal desiderio di vendetta. Eppure, cercate di comprendere i sentimenti
che animavano quella bestia: non ero più un essere umano, la rabbia, la
gioia e la tristezza da me provate non erano cose di questo mondo.
A breve, giunse il giorno delle nozze con Ruriko.
Secondo la norma, trattandosi del matrimonio tra un anziano e una
vedova, non si sarebbe dovuta tenere una cerimonia pomposa bensì
semplice. Tuttavia, essendo una messinscena funzionale alla vendetta,
decisi di non curarmi del giudizio altrui e organizzai un matrimonio
fastoso seguito da un sontuoso ricevimento.
Il ricco signore dai capelli bianchi della città S, Satomi Shigeyuki, e la
bellissima vedova degli Ōmuta, la signora Ruriko, stavano per sposarsi e
tra i locali non si parlava di altro. Sul giornale apparvero le nostre
fotografie in evidenza e articoli sulle nostre nozze da sogno che
suscitarono curiosità nelle persone. In merito ai comportamenti poco
rigorosi assunti da lei, giunsero delle lettere di protesta da parte degli
Ōmuta e per un po’ ci furono pesanti battibecchi. Ma alla fine, per quanto
insormontabile fosse l’impedimento, la forza dei miei averi aveva la meglio
su ogni cosa e nessuno poteva dirmi di no.
La vigilia delle nozze feci visita a Ruriko presso la sua abitazione, il
nostro ultimo incontro da fidanzati. Ce ne stavamo seduti nella stanza in
stile giapponese, appartata dal resto della casa.
Lei era gioiosa come una bambinetta e, nonostante rivelasse una leggera
ansia, la sua bellezza prevaleva su tutto.
Ah, quella donna tanto amabile. A breve avrebbe lanciato un grido di
morte al cospetto dei miei occhi. Al pensiero che quel bel viso sorridente
si sarebbe tramutato in una smorfia di dolore mi sorsero quasi delle
remore. Ma anche solo figurandomi tali momenti, il mio cuore scoppiava
di gioia! Nell’animo ero ormai divenuto una bestia che chiedeva di fare a
pezzi la vittima e godere del suo sangue. Avevamo tanti discorsi da fare,
sulla sala da cerimonie e sulla nostra vita insieme a partire dal giorno
successivo, ma Ruriko invece…
«Oggi è l’ultima volta che ce ne stiamo così a conversare. Da
domani…».
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Probabilmente voleva intendere che dal giorno successivo sarebbe
diventata la signora Satomi e avrebbe avuto a disposizione una fortuna
immensa.
«A proposito di ciò, vedi, avrei un dubbio che vorrei togliermi!».
«Un dubbio? Ah, ho capito. Vuoi sapere cosa è successo a Kawamura,
lui era tanto innamorato di te…».
«Be’, sì, anche quello. Sai, è strano, da quando sono rientrata dal mio
viaggio non lo ho incontrato neppure una volta. Chissà cosa gli sarà
successo».
«Mentre eri via, ho organizzato per lui un banchetto, ricordi? Da quel
giorno non l’ho più visto neppure io. Avendo ereditato la fortuna dello
zio, forse sarà da qualche parte a spassarsela!».
«Eh, chi lo sa… a dire il vero, oggi ho provato a passare da casa sua e…
sai, è strano… non c’era nessuno, neppure la servitù. Sembrava una casa
abbandonata e la porta era serrata. Ho provato anche a chiedere ai vicini e
mi hanno risposto che forse aveva traslocato. Non riesco proprio a capire
cosa gli sia successo».
«Sarà rimasto scottato dal tuo comportamento freddo e avrà scelto di
suicidarsi… be’, certo, è preoccupante… ma no, tranquillizzati, io so
benissimo dove si trova adesso. Dopo le nostre nozze te lo farò
incontrare!».
«Ah, quindi sai dove si trova. È molto lontano?».
«Eh sì, è molto lontano! Anche volendo, ora non c’è modo per te di
incontrarlo… ma in realtà tu nutrivi un altro dubbio, non è vero? Dai, sii
sincera con me… cos’è che ti preoccupa?».
Pensai che non fosse bene portare ancora avanti il discorso su
Kawamura e provai a cambiare argomento. Lei non si tirò indietro e mi
rivelò la natura del suo dubbio.
«In realtà, c’è una cosa che vorrei mi mostrassi!».
«Di che si tratta? Ah, ho capito, il Buddha dorato di cui ti ho parlato!».
«Ehm, no…».
«Allora, sono i diamanti che posseggo».
«No».
Ruriko era in evidente imbarazzo e lasciava parlare me per primo.
«Be’, oltre a ciò, non mi viene in mente altro! Dai, dimmi pure di che si
tratta! Non devi preoccuparti di nulla…».
«Ecco…».
«Dai, allora?».
«Vorrei vedere il tuo viso!» fece lei decisa.
«Il… il mio viso? Ma cosa dici? Il mio viso lo hai qui di fronte a te».
«Sì, però…».
«Però cosa?».
«Hai sempre indosso quei pesanti occhiali scuri…».
«Ah, ho capito, vuoi vedere i miei occhi!».
«Be’, sì. Vorrei che per una volta ti togliessi gli occhiali e mi mostrassi i
tuoi occhi. Non lo trovi strano? Una moglie che non ha mai visto gli occhi
del marito…».
Ruriko presentò la sua richiesta senza remore. Era in un evidente stato
di ansia.
«Haha, i miei occhiali, eh… non li tolgo praticamente mai, a meno che
non vi siano particolari condizioni. Come matrimoni o funerali, insomma
occasioni speciali che capitano solo una volta nella vita. A causa del forte
sole dei tropici, i miei occhi si sono ammalati e allora il medico mi ha
obbligato a evitare l’esposizione alla luce solare» le risposi assottigliando
gli occhi dietro le lenti.
«Credo che adesso sarebbe opportuno toglierli. In fin dei conti, oggi è
la vigilia delle nostre nozze».
«Hai ragione, ma ti chiedo di attendere ancora! Non c’è fretta! Una
volta sposati me li toglierò per te! Attendi ancora fino a domani sera…
domani sera… domani potrai vedere tutto ciò che vuoi, ti mostrerò ogni
cosa. I miei occhi, la mia immensa fortuna e anche la persona che tanto
vuoi incontrare, Kawamura. Ti mostrerò dove si trova! Quindi, abbi
ancora un po’ di pazienza… domani sera per noi sarà un grande
momento, una serata magnifica!».
Sentendo quelle parole, Ruriko non insistette oltre. E, con
un’espressione in cui confluivano al contempo gioia e angoscia, mi sorrise
ingenua. Quel sorriso era tanto amabile… ma la promessa fatta a lei,
naturalmente, celava un agghiacciante significato.
Capitolo 31

Il collasso

Ebbene, giunse il giorno delle nozze.


Con la scusa dei molti anni trascorsi all’estero e di aver perso
dimestichezza con la spiritualità del Giappone, ottenni che il matrimonio
si svolgesse nell’unica chiesa cristiana di S. Decisi di celebrare le nozze in
stile occidentale: in effetti, quello era il luogo più adatto per l’inusuale
unione tra un anziano e una vedova.
La chiesa era stretta e lunga, con il soffitto alto, e vi regnava la
penombra. Pullulava dell’alta società di S addobbata a gran festa. Siccome
gli Ōmuta si erano dichiarati contrari alle nozze, quasi nessuno della
famiglia era presente. Al loro posto, erano invece accorsi numerosi a
festeggiarmi gli imprenditori locali, attirati dalla mia capacità economica.
Ruriko, vestita completamente di bianco come si suole in Occidente,
era più bella di una dea.
Si era fatta accompagnare all’altare dalle sue compagne del circolo delle
mogli dei commercianti e aveva anche due adorabili paggetti a tenerle lo
strascico dell’abito. Arrivò in silenzio all’altare, proprio quando la luce del
sole pomeridiano attraversava le vetrate della chiesa. La tiara di seta
leggera che portava sul capo era irradiata di rosso e verde, dando così
l’idea che lei fosse avvolta da un arcobaleno di cinque colori.
Io, lo sposo, indossavo un completo bianco e, con i miei occhiali scuri e
i capelli e la barba bianchi, nell’insieme avevo un aspetto insolito. Uno
squallido vecchio e una giovane bella come un giglio bianco creavano un
forte contrasto che sicuramente produceva negli astanti una forte
impressione.
Nella chiesa regnava un’atmosfera di angoscia, come se un infausto
presagio fluttuasse nell’aria. Ma forse ciò era dovuto all’eccessiva bellezza
della sposa! Oppure alla barba e ai capelli bianchi dello sposo! O chissà,
magari l’alto soffitto a cupola sotto il quale ci trovavamo ispirava
malinconia. O, ancora, era dovuto alle vetrate colorate delle finestre. No,
in realtà vi era qualcosa di ancora più strano!
Lì aleggiava il fantasma del defunto Ōmuta Toshikiyo! Lo sposo
indossava una marsina del tutto uguale a quella tanto amata da lui e, dai
guanti fino al bastone da passeggio, aveva indosso i medesimi accessori e
indumenti. Inoltre, anche il modo di fare e di camminare e la maniera di
muovere le spalle erano identici a quelli di Toshikiyo: non mi curavo più
di nascondere nulla!
In sostanza, davo sfoggio delle caratteristiche che per lungo tempo
avevo faticosamente tenuto celate e, barba e capelli bianchi e occhiali
scuri a parte, mi ero presentato in chiesa come il vero me stesso.
Tuttavia, gli intervenuti alla cerimonia non potevano in alcun modo
pensare che quel vecchio con i capelli bianchi fosse in realtà la
reincarnazione di Toshikiyo: erano solo sbalorditi per la strana mutazione
nel mio atteggiamento. Intorno a me, tutti avevano il volto impallidito e
pensavano a un infausto presagio.
Scortato dal signore e dalla signora T che mi facevano da testimoni di
nozze, raggiunsi l’altare in silenzio camminando come avrebbe fatto
Toshikiyo e mi avvicinai alla sposa.
Ruriko sollevò di scatto il viso e mi guardò, e subito dopo sgranò gli
occhi per lo stupore. Il suo volto perse colorito, come se avesse di fronte il
fantasma del defunto marito. Però, non dubitando della mia identità, avrà
pensato che fosse dovuto alla semioscurità. Poi si mise di fronte a me e
insieme ci girammo verso l’anziano sacerdote. A quel punto, il suo volto
riprese colore.
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La cerimonia fu semplice ma si svolse nel più totale silenzio. Il
sacerdote, un inglese dalla testa rotonda e calva, lesse un passo della
Bibbia con tono solenne.
Seguendo il corso della cerimonia, infilai al dito di Ruriko l’anello che
avevo preparato e pronunciai il giuramento.
All’improvviso successe qualcosa di inaspettato: percepii un gemito
straziante. Era Ruriko, si lamentava come se la stessero strangolando. Poi
il suo corpo divenne rigido come un bastone e cadde a terra svenuta.
Mi fiondai su di lei e, se non vi fossi stato io ad accoglierla prontamente
tra le braccia, sarebbe rovinata al suolo davanti all’altare.
Che cosa le aveva provocato una tale reazione? Be’, dopo averle infilato
l’anello al dito, avevo pronunciato il giuramento con la mia vera voce. Fu
quello, senz’altro!
Un tempo, le era stato messo l’anello al dito anche dal defunto
Toshikiyo. Poi, divenuta vedova, lei lo aveva chiuso nel portagioie. Io,
però, ne avevo fatto realizzare uno identico, sia nella forma sia nella pietra
incastonata. In pratica, aveva ricevuto da me, il suo secondo marito, un
anello uguale al primo.
Vedendo in me il fantasma di Toshikiyo, era caduta preda del terrore. E
quel fantasma le aveva messo al dito il medesimo anello. Si sarà presa
davvero un bello spavento!
Oltre a ciò, c’era anche la questione della voce: avevo smesso di usare il
tono di Satomi Shigeyuki e le parlai con la mia vera voce, quella di
Toshikiyo.
Lo spirito vendicatore del marito che fino a quel momento aveva tenuto
da parte e che rappresentava per lei ben poca cosa, tutto a un tratto era
divenuto un imponente fantasma pronto a risucchiarle il cuore. I crimini
passati, sotto forma di un terribile umibōzu32, l’avevano assalita. Neppure
lei, una infida donna dal cuore mostruoso, era riuscita a resistere a una
simile aggressione e aveva finito col perdere i sensi in quel luogo sacro.
Aveva avuto davvero una terribile allucinazione.
Lo sposo con barba e capelli bianchi, ritto in piedi di fronte all’altare,
sorreggeva la sua dolce metà priva di sensi e bella come un cigno. Il sole
che filtrava dalle vetrate delle alte finestre della chiesa lanciava inquietanti
fasci di luce su quel bianco uccello esanime. Dietro di me, il sacerdote era
sconvolto. Alle sue spalle, a sfondo dell’altare in penombra, un gran
numero di candele ardeva di un fuoco rosso sangue.
La gente naturalmente iniziò ad agitarsi… ma non serve dilungarsi in
merito. Di lì Ruriko, ancora priva di sensi, venne trasportata dal personale
della chiesa nella mia nuova casa. Ah, mi ero scordato di dirvelo, ma una
volta che il matrimonio era stato fissato, uno straniero che stava per
abbandonare la città mi aveva ceduto la sua villa. Vi avevo apportato varie
modifiche e, pochi giorni prima delle nozze, mi ci ero trasferito
abbandonando la camera d’albergo.
Ruriko riaprì gli occhi sul letto di casa mia, non ci fu neppure bisogno
dell’intervento del medico accorso per visitarla.
«Ruriko, fatti forza! La cerimonia di nozze è andata bene. Tu hai avuto
un po’ di vertigini, ma si tratta di una cosa da nulla. Come ti senti ora?
Pensi di riuscire a partecipare al ricevimento di stasera?».
Le parlai nuovamente con la voce di Satomi Shigeyuki avvicinandomi al
suo guanciale.
«Mi dispiace di avere causato problemi. Che mi sarà capitato?».
«Forse eri troppo tesa per la cerimonia. Ma non ti preoccupare, non è
successo nulla di grave!».
«Ho capito, sono felice che sia davvero tu! Sai, prima, per un attimo mi
sei sembrato un altro. Anche la tua voce… e poi, ah, questo anello!».
All’improvviso le tornò la memoria e con timore rivolse lo sguardo
all’anello. Ma non era più quello di prima. In quel momento sul suo dito
vi era un anello diverso e riluceva scintillante. Lo avevo scambiato io
mentre lei era priva di sensi.
«Ma allora ho avuto davvero un’allucinazione!».
Pronunciò quelle parole con tono più rilassato.
«Che hai? Non ti piace l’anello?» le chiesi con indifferenza.
Lei sorrise di cuore e replicò con tono mellifluo: «No, tutto a posto!
Ora va meglio. Questo anello è davvero splendido!».
Capitolo 32

Verso la tana

Alla fine, il preludio del piano di vendetta si era concluso con successo.
Ruriko ancora non sospettava nulla e inoltre aveva già sperimentato una
paura tale da svenire. Era la seconda volta che perdeva i sensi. Nonostante
avesse vissuto tale condizione ben due volte, non era riuscita ancora a
capire chi fossi io in realtà: ciò voleva dire che anche una donna demone
come lei di tanto in tanto cadeva in fallo. In ogni caso, il fatto che un
uomo sepolto in una cripta fosse tornato in vita con le sembianze di un
anziano dai capelli bianchi, be’, una tale agghiacciante realtà superava di
gran lunga la capacità immaginativa umana. Quindi, non si poteva dire
che fosse del tutto colpa sua.
Neanche a dirlo, anche il ricevimento di quella sera fu l’evento più
sfarzoso mai tenutosi a S e andò avanti senza intoppi. Io e Ruriko eravamo
esausti e, dalla sala per ricevimenti dell’hotel, facemmo ritorno alla mia
nuova casa.
L’aroma di alcolici aromatici, fragorose parole di felicitazioni, nastri
colorati messi a mo’ di tela di ragno, il frastuono penetrante della musica e
tutto quanto il resto non ci abbandonava ancora. Era come se fossimo
avvolti da una nuvola viola e volassimo in un cielo primaverile. Anzi, era
più che altro Ruriko ad avere un aspetto tale.
Una volta a casa, ci buttammo sul sofà vestiti così come eravamo e
prendemmo un tè. Poi, l’orologio a cucù segnò la mezzanotte.
«Non hai sonno?».
«È strano, non ho per niente sonno…» rispose Ruriko sorridendo con il
volto arrossato e rilucente.
«Bene, allora usciamo! Stasera ho delle cose da mostrarti».
«Dove andiamo? Cosa vuoi farmi vedere?».
«Ma come, te ne sei già dimenticata? Ti avevo promesso che una volta
sposati ti avrei mostrato ogni cosa. Le mie fortune, le mie pietre
preziose…».
«Ah, è vero! Sì, le voglio vedere! Dove sono? Dove le conservi?».
Eh sì, lei si era sposata con me, un vecchio decrepito, solo per avidità!
Era ovvio che volesse vedere il suo bottino.
«Ho il mio nascondiglio segreto. È un posto un po’ triste, hai coraggio
sufficiente per venire con me?».
«Certo, insieme a te andrei ovunque».
«Benissimo! Allora muoviamoci subito. In realtà, preferisco non
andarci di giorno per il rischio di essere notato da qualcuno. Per questo,
mi reco lì solo nottetempo».
Detto ciò, come due amanti in fuga, mano per la mano, uscimmo di
nascosto dalla porta posteriore.
«Si trova lontano?» fece Ruriko mentre ci affrettavamo a lasciarci alle
spalle la città, le cui luci erano ormai spente.
«No, non molto. Solo cinque o seicento metri. Ci possiamo arrivare a
piedi».
«Quindi è fuori dalla città! Dove siamo diretti?».
La mia casa era alle porte di S e, allontanandosi un po’ a piedi, ci si
ritrovava in una pianura desolata. Sul suo versante opposto, si ergeva un
piccolo rilievo montuoso illuminato dalla luce delle stelle.
«Stai zitta e seguimi. Non hai nulla da temere».
«Ma cosa hai in mano?».
«Delle candele e una chiave».
«Come delle candele? E perché le porti con te? Ne avremo bisogno?».
«Eh già, nel mio nascondiglio non c’è la corrente elettrica».
Mentre parlavo stringevo forte la mano di Ruriko e camminavo a passo
sostenuto. Il sentiero lungo la pianura era illuminato dalle stelle e in breve
arrivammo alla meta.
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«Io ho paura! Torniamo domani! Per favore!».
Ruriko era terrorizzata ed esitava ad avanzare mentre io, senza dire una
parola, la trascinavo lungo il sentiero di montagna. Per fortuna non gridò
e alla fine mi seguì spontaneamente.
«Ecco, siamo arrivati al mio nascondiglio».
Davanti a noi sorgeva una pesante porta di ferro nera. Era l’ingresso per
l’interno della montagna.
«Ma, caro, questa è una tomba! È la cripta degli Ōmuta!».
Finalmente se ne era accorta! E mentre parlava con tono alterato
cercava di liberarsi dalla stretta del mio braccio.
«Esatto, non è forse un magnifico forziere? Un ladro non penserebbe
mai che la mia fortuna sia nascosta qui. Non devi avere paura, l’interno è
molto confortevole. Io ci vengo spesso e la considero casa mia».
E, in effetti, quella era proprio casa mia. Era la sala parto in cui ero
venuto al mondo come demone dai capelli bianchi.
Mentre stringevo forte il suo braccio, Ruriko si era fatta piccola piccola
e tremava. Sentii chiaramente che le sue dita erano diventate fredde.
Eppure, non gridò mai, non aveva neppure la forza di scappare. Forse
aveva paura che se ci avesse provato, io sarei mutato in un terribile
demone e l’avrei presa a morsi. Nel buio, cercai la toppa della serratura e
aprii la porta arrugginita. Kiiiii, da quel buco nero spirò un vento gelido
che ci investì raggelandoci, sembrava il lamento di un morto. Era il vento
dell’aldilà.
Mentre ci addentravamo nella spelonca, Ruriko a un certo punto cercò
di svicolarsi ma io, privo di remora alcuna, trascinai quella debole donna
verso l’interno della cripta. Poi, richiusi la porta in ferro dietro di noi.
Ci ritrovammo al buio totale, per alcuni secondi non vedemmo nulla e
rimanemmo in piedi, zitti. In quel silenzio di morte, l’unica cosa che si
udiva era il poderoso ansimare di Ruriko.
«Ruriko, hai paura?» le sussurrai.
Ma lei sorprendentemente mi rispose con tono sicuro: «Eh, un po’ sì.
Ma tu mi stai tenendo la mano e io mi sento tranquilla. E poi tra poco
potrò vedere i tuoi tesori!».
«Sì, tra poco te li mostrerò, chissà come rimarrai sorpresa?».
«Non vedo l’ora! In questo luogo desolato e agghiacciante, mi sembra
quasi impossibile che si nasconda un tesoro!».
«Aspetta, ora accendo le candele!».
Strofinai un fiammifero e accesi le candele che avevo portato con me.
Poi, le sistemai sul candelabro antico in stile occidentale.
Capitolo 33

Le tre bare

«Allora, che ne dici? Il mio forziere è decisamente singolare, non trovi?


Svelta, prova a guardarci dentro!».
La fiamma ambrata delle candele sussultò, rivelando la presenza di tre
grandi feretri allineati sull’oscuro pavimento della cripta.
Più in fondo, si trovavano almeno un’altra decina di bare, ma una fitta
oscurità le avvolgeva rendendole ben poco visibili. Tuttavia, tre in
particolare erano lì in bella mostra, come se qualcuno le avesse
preventivamente disposte ai piedi del candelabro.
Scoperchiai la prima e invitai Ruriko a osservarne l’interno. Con fare
incerto per la paura, provò quindi a guardare.
Quel sarcofago non era altro se non il forziere dei tesori del pirata
Shuryokei. Io avevo portato via solo le banconote e le monete, ma
all’interno erano rimasti tutti i gioielli. Inoltre, avevo predisposto un bel
mucchietto di perle sopra un panno di stoffa – tante quante le pietre del
letto di un fiume – e nella penombra data dalla fioca luce delle candele
l’interno della bara appariva di una estrema bellezza, come se una miriade
di stelle si fosse raggruppata in quel punto.
«Oh!» esclamò Ruriko trattenendo il fiato, mentre il suo corpo
appariva pietrificato.
«Non devi solo guardare, puoi anche toccare! Sono tutti veri, mica
pezzi di vetro di nessun conto. Ognuna di queste pietre vale più della vita
di una persona…».
Ruriko allora, in parte rinsavita, accettò il mio invito e protese le braccia
fino ad affondarle nel mucchio dei preziosi. Si riempì le mani di gemme e
le fece ricadere a mo’ di pioggia, poi le rituffò dentro il forziere e di
nuovo… Puntualmente, intorno alle sue dita bianche e affusolate, si
formavano degli arcobaleni di cinque colori.
«Queste pietre preziose sono davvero tutte tue?».
Quel demonio, con sguardo assente ed espressione imbambolata, aveva
l’aria di una bambina mentre poneva quella domanda.
«Certo! Tutte mie. Ma da oggi saranno anche tue, moglie mia. Ne puoi
fare tutto ciò che vuoi».
«Che bello! Come sono contenta!».
Eccolo, il terribile fascino dei gioielli! Anche una donna malvagia come
Ruriko, al pari di una ragazzina di dieci anni, si mostrava tutta contenta,
forse all’apice della felicità. La paurosa oscurità della notte, così come la
grandiosità della cripta di famiglia, nulla erano al confronto col fascino
sprigionato dalle pietre lucenti.
Le sue gote si erano tinte di rosso per l’eccitazione e gli occhi le
risplendevano per la cupidigia. E poi, il suo sorriso! Finora, un sorriso
tanto carico di amore a me non lo aveva mai riservato.
«Sembra di essere in un sogno! È come nelle favole! Sì, ora sono
proprio come una regina delle fiabe!».
Mentre farfugliava parole senza senso, continuava a giocare con le
pietre, ma dopo poco – come ridestatasi dal sogno – venne attratta dalle
altre due bare.
«Anche quelle sono piene di gioielli?».
«Ma certo, altri preziosi vi sono racchiusi. Dai, prendi il candelabro e
vieni qui. Sollevo il coperchio, così puoi osservarne l’interno».
Ruriko, ubbidiente, orientò la luce verso il secondo sarcofago.
«Su, prova a dare un’occhiata» la invitai con voce suadente aprendo il
pesante coperchio.
Ruriko accostò il candelabro e guardò dentro la bara. Ma subito fece un
balzo all’indietro, come se qualcosa l’avesse respinta. Il candelabro,
sfuggitole di mano, rotolò sul pavimento.
l d l h h
«C’è qualcosa di strano lì! Che cos’è?» chiese con voce spezzata, come
se dovesse scoppiare a piangere da un istante all’altro.
«Prova a guardare di nuovo. Per te, dovrebbe trattarsi di un tesoro ben
più prezioso dei gioielli» rincalzai illuminando la bara con il candelabro
raccolto da terra.
Mantenendo una certa distanza, Ruriko si accovacciò e provò di nuovo
a scrutare lo strano oggetto.
«Un cadavere! Che orrore! Presto, richiudi il coperchio! Non sarà che
quello…».
«No, non si tratta dei resti del tuo precedente marito! Guarda il volto,
si capisce che non è passato molto dalla morte. Quello di Toshikiyo non
sarebbe certo ancora così fresco».
Ruriko si fece seria in volto senza smettere di osservare il corpo privo di
vita. E pian piano, la sua espressione andò mutando… a un tratto, le
labbra tremanti si schiusero e ne fuoriuscì un grido lacerante che scosse
l’intera cripta. Mani sugli occhi, corse a rifugiarsi in un angolo della
stanza, come inseguita da un fantasma.
«Brava Ruriko! Sono proprio loro, il tuo amante e la tua figlia
illegittima! Ci sei arrivata ora?».
La mia voce era tornata quella di Toshikiyo e risuonava imperiosa.
Dentro il feretro, il cadavere di Kawamura giaceva stringendo tra le
braccia il corpicino della neonata, già in avanzato stato di putrefazione.
Ero stato io a portarli lì, dalla casa alle terme Y.
Al suono di quella voce, Ruriko si girò verso di me con movimenti
meccanici. Ormai non aveva più paura. In un istante, riemerse il suo lato
demoniaco e si rivoltò contro di me.
«Tu chi sei davvero? Cosa pensi di ottenere mostrandomi tutto ciò?».
«Chi sono io? Haha, non riconosci questa voce? Chissà chi sono? Dai,
prova a scoprirlo tu! Guarda dentro la terza bara, e allora saprai la verità!
Oh, ma il coperchio è rotto! Sarà vuota dentro? Chi ci sarà all’interno?
Potrebbe essere che il suo ospite, in realtà, sia tornato in vita e se la stia
spassando fuori… Forse, dimenandosi, potrebbe aver rotto il coperchio
ed essere scappato da questa cripta.
Ruriko fissava il mio volto con occhi sgomenti, senza accennare
neppure un movimento. Di certo, adesso anche lei stava iniziando a
distinguere i vari dettagli della vicenda.
«Te ne ricordi, vero, delle tre promesse che ti ho fatto l’altro giorno? La
prima, mostrarti le mie fortune. La seconda, farti incontrare Kawamura. E
la terza, be’, togliermi questi occhiali scuri…».
Tolsi gli occhiali con un gesto rapido e li gettai via, mostrandole gli
occhi di Toshikiyo carichi di odio per lei, una donna malefica.
Ah, mai avevo visto un’espressione di terrore tanto raccapricciante
come quella che si dipinse sul volto di Ruriko. Anche a me, il suo
assalitore, si raggelò il sangue nelle vene per l’intenso pathos.
Poi, incapace di proferire verbo, lei rimase lì impietrita, come un giglio
bianco avvizzito, fino a quando non crollò a terra.
Fu la terza volta che Ruriko perse i sensi.
Capitolo 34

L’agghiacciante ninna nanna

Priva di sensi e con ancora indosso l’abito nuziale, adagiai Ruriko sopra la
bara contenente i gioielli e, mentre le sfioravo leggero il petto, attesi fino a
che non riprese coscienza. Del resto, se l’avessi lasciata morire in quel
modo, non avrei portato a compimento il mio obiettivo.
Armatomi di pazienza attesi e, dopo un po’, i suoi occhi si schiusero.
Guardava fisso verso di me ma, ormai, non aveva visibilmente più forza né
per gridare né per tentare una fuga.
Allora, con calma, passai circa un’ora a elencarle tutti i suoi misfatti, la
accusai di essere anaffettiva, parlai di come ero tornato in vita, delle
sofferenze vissute nei cinque giorni di reclusione nella tomba, di come mi
fossi trasformato in un demone vendicatore e della mia strategia per
avvicinare lei e il suo lurido amante. Sì, le raccontai tutto nei dettagli. In
particolare, calcai la mano sulla parte riguardante l’omicidio di
Kawamura, su quanto lui avesse sofferto, facendo così sussultare Ruriko.
Durante la seconda metà del racconto, disperata, non smise mai di
piangere. E sulle dolci gote impallidite per lo sgomento scorrevano
copiose lacrime.
Finito di raccontarle tutto, continuò a piangere per un po’ ma, dopo
poco, scrollò via le lacrime con la punta delle dita, si accomodò sopra un
feretro e, con il volto ancora gonfio di pianto, si rivolse a me.
«È un racconto davvero orribile! Io non so davvero come scusarmi.
Tuttavia, sei caduto in errore. Non dico certo che la mia relazione con
Kawamura fosse un’invenzione ma di sicuro non sono stata io a ucciderti,
non riuscirei mai a fare una cosa del genere. L’architetto della tua morte è
solo lui! Io non ero al corrente di nulla».
«Tu, però, non ti sei certo rattristata per la mia misteriosa dipartita. Le
parole di felicitazione che vi siete scambiati le ho sentite bene!».
«Ma io mi sono solo lasciata tentare da lui! Mi ha ingannata. Ogni
giorno, non facevo che pensare a te, marito mio. A pensarci bene, il mio
cuore ti è sempre rimasto legato. A prova di ciò, quando ti sei presentato
sotto mentite spoglie, non ho forse accettato la tua proposta di
matrimonio? Ho lasciato Kawamura per abbandonarmi al tuo abbraccio o
sbaglio? Perché altrimenti una giovane donna come me sceglierebbe di
amare un uomo anziano con i capelli bianchi? È un terribile destino a
legarci. Una parte del mio cuore ti aveva riconosciuto fin dal primo
momento. Solo perché si trattava di te, ho deciso di legarmi a un uomo
così avanti con l’età.
Tu non puoi neanche comprendere la mia reale felicità. Ho ritrovato il
marito creduto morto e per di più – senza neppure saperlo – lo ho
addirittura risposato. A noi una volta sola non è bastata, ci siamo sposati
addirittura una seconda! Chi è più felice di noi?
Caro, prova a ripensare come ero un tempo. Anche oggi, dentro di me
batte lo stesso cuore puro di allora. La mia pelle è bella. E poi, a te piace
tanto farmi il bagno. Ah, quante volte me lo hai fatto fare! Ami giocare
con il mio corpo come se fosse un giocattolo di tua esclusiva proprietà.
Marito mio, fai di me la tua schiava! Farò tutto ciò che mi ordinerai.
Ma ti prego, abbi pietà! Ti scongiuro, torna ad amarmi come un tempo.
Ascoltami, per favore. Per favore…».
Gonfio di pianto, il suo volto appariva ancora più bello che mai e,
sfoggiando un sorriso infingardo denso di malia, tentava di sedurmi con le
parole. Ma non solo, non esitò neppure a usare il suo splendido corpo
nella speranza di riconquistare il mio cuore.
Lì, ci trovavamo in una cripta desolata e lontani da tutto. C’eravamo
solo noi due, uno di fronte all’altra. Volendo, avrebbe potuto tentare di
tutto.
h f d d ll k
Che comportamento sfacciato! Adesso, a un passo dalla morte, Ruriko
aveva smesso di curarsi del pudore e della reputazione. Si strappò
l’immacolato abito nuziale di dosso e, lì di fronte a me, diede pieno
sfoggio della sua candida pelle.
Un candido fiore di pesco era sbocciato in mezzo all’oscurità. E poi,
pian piano aveva preso a muoversi sinuoso emettendo il proprio fascino
sensuale.
Iniziai a sudare freddo e a battere i denti in risposta a quella bellezza
mozzafiato.
«È tutto inutile! Per quanto tu possa impegnarti, ormai nel mio cuore
non vi è più alcun sentimento umano. Non sono più umano, ma solo un
demone risalito dal fondo dell’Inferno, nessuna distrazione mondana è
ormai di mio interesse. Tutto ciò che bramo è la vendetta! E per quanto tu
possa implorarmi, niente puoi fare per sovvertire questo stato di cose. Ho
un piano da concludere e nessuno mi può fermare».
Pronunciai quelle parole rimanendo immobile, senza muovere neppure
un muscolo del volto.
«Ebbene, cosa vuoi da me?».
«Che tu patisca le stesse mie pene. Occhio per occhio, dente per dente!
Questa è la mia sentenza!».
«Quindi…».
«Esatto, ti tumulerò viva qui. Quella bara è colma dei tuoi tanto amati
gioielli, una immensa fortuna vi è racchiusa. Tu e quel tesoro non
assaporerete mai più la brezza del mondo esterno. Il dolore da me vissuto,
per mano mia, adesso diverrà tuo! Vedi, nell’altra bara, giace il tuo
amante. E con lui, la vostra neonata. Ma di loro, a te sicuramente importa
ben poco. Adesso, come una vera famiglia, potrete riposare tutti e tre
nella stessa tomba».
«Ah, maledetto! Tu sei il vero assassino! Un mostro senza pietà!».
Inaspettatamente, dalla bocca di Ruriko fuoriuscirono parole empie.
«Via, levati di lì! Voglio uscire! E lo farò, anche a costo di ucciderti!
Vigliacco, mostro!».
Mentre vomitava insulti, Ruriko prese la rincorsa e si gettò a capofitto
su di me. Le sue unghie affilate penetrarono nella mia carne. Come riuscì
una ragazza tanto fragile a trovare quella forza? Anche oggi continuo a
chiedermelo. Si aggrappò a me con tutta l’energia che aveva, fino a farmi
rovinare per terra. Poi, con uno scatto, mi scavalcò nel tentativo di
guadagnare l’uscita.
Afferrai con forza le sue caviglie.
Aggrovigliati sul pavimento, iniziò la nostra oscena lotta. Un uomo
anziano in frac e una bellissima ragazza seminuda che si accapigliavano.
Ruriko emetteva suoni simili a una bestia, mi mordeva, graffiava con le
unghie, aveva la carica impazzita di un animale che fronteggia la morte.
Due masse di colori diversi, una nera e una bianca, si rotolavano sul
pavimento della grotta come esseri soprannaturali.
Tuttavia, per quanto lo scontro fosse acceso, lei non aveva alcuna
possibilità di tenermi testa. Spossata, era ormai divenuta una massa di
carne bianca inerme.
Provai a guardarla meglio, col dubbio che fosse morta, eppure era viva.
Anche il suo respiro, per quanto debole, era ancora presente.
«Bene, è giunto il momento di separarci. Rimarrai chiusa qui per
l’eternità. Così proverai le stesse sofferenze da me patite, avrai tutto il
tempo per gustarne il sapore!».
Le lanciai quelle parole mentre mi affrettavo verso l’uscita della cripta.
Chiusi la pesante porta di ferro e girai la chiave nella serratura. Il
passaggio che utilizzai io tempo addietro per fuggire, quello nascosto nel
fondo della bara, lo avevo bloccato con un masso. Ruriko non aveva più
alcun modo per uscire.
La mia vendetta era finalmente compiuta. Tutto ciò che dovevo fare da
lì in poi era fuggire in qualche lontana località. I soldi per la mia vecchiaia
li avevo già messi da parte.
Alzai lo sguardo al cielo, era cosparso da una miriade di stelle. Un
venticello scuro sfiorò leggero le mie gote calde per poi dileguarsi
nell’aria.
A un certo punto, come apparsa dal nulla, giunse al mio orecchio una
dolce ninna nanna. Fui percorso da un brivido, ma rimasi lì ad ascoltare.
Quel canto proveniva da dentro la caverna.
“Che strano! Ruriko, tumulata viva, non dovrebbe starsene a
canticchiare” pensai e, incuriosito, estrassi nuovamente la chiave, feci
scattare il lucchetto e aprii la porta quel tanto che bastava per sbirciare
all’interno. La scena che mi si parò di fronte era raccapricciante.
Seminuda, Ruriko stringeva fra le braccia il cadavere in putrefazione
della figlia e, con un sorriso tremulo, la cullava, le faceva fare il vola vola e
muovere passi qua e là.
Si riempiva la mano destra di gioielli e li faceva ricadere a pioggia sui
capelli arruffati e sul petto della neonata. Era come una bambina che
giocava con la sabbia.
l d h l h b ll d
«Piccola mia, guarda che meraviglia! Che belli! La mamma adesso è
una regina. Tutte queste gemme sono sue! Guarda che belle!».
Continuava a delirare mentre, incessante, cantava la sua ninna nanna.
Era una voce tanto bella da lasciare a bocca aperta e intonava un canto
così soave…
Rimasi lì ammaliato per un lungo, lungo tempo, rapito da quella
grottesca immagine.
Il mio agghiacciante racconto si conclude qui.
Del resto, le vicende riguardanti l’arresto e la mia prigionia le conoscete
anche meglio di me…
Ho subito il male e con il male ho risposto. La vendetta ha per me
rappresentato un piacere. Del male patito per mano di Ruriko e
Kawamura, adesso ho pareggiato il conto, in tutto e per tutto. Però
rimaneva il male commesso da me: anche quel conto andava saldato.
Comunque, ci hanno già pensato i poliziotti: mi hanno arrestato proprio
mentre stavo per fuggire lontano e da quel momento ho trascorso diversi
anni in prigione.
Oggi come oggi, ecco ciò che penso delle azioni da me commesse.
Ho goduto eccessivamente della vendetta. Sono io, il malvagio. Sia
Ruriko sia Kawamura non meritavano un destino tanto orribile. A dire la
verità, provo pena per loro. E anche io, agendo così, ho solo sprecato
tante forze inutilmente.
Lunghi anni di prigionia mi hanno trasformato in un uomo mite, miei
cari signori.
Postfazione
Il demone dai capelli bianchi
(1932) di Edogawa Ranpo: una vendetta iniziata in
Inghilterra e terminata in Giappone

I trentaquattro capitoli che compongono Il demone dai capelli bianchi


(Hakuhatsuki, 1932) di Edogawa Ranpo (1894-1965) costituiscono un
viaggio nella psicologia maschile, in particolare nel cuore di un uomo
ferito nei sentimenti più profondi, ossia l’amicizia e l’amore. In realtà, non
si tratta di un lavoro originale bensì di un adattamento (hon’an) di
un’opera omonima del 1893 di uno degli autori più amati da Ranpo, lo
scrittore e traduttore Kuroiwa Ruikō (1862-1920). Perché Ranpo, dopo
tanti anni, decide di riscrivere un’opera di Ruikō?
Nel rispondere a tale dubbio, sicuramente grande rilevanza va assegnata
all’interesse e al particolare debito culturale sentito da Ranpo nei suoi
confronti. Come si legge nel breve saggio La carta stampata e io (Katsuji
to boku to, 1937), «mia madre era un’appassionata lettrice delle detective
stories di Kuroiwa Ruikō. Sotto la fioca luce di un lume, mia nonna
leggeva storie di intrighi nelle famiglie di daimyō, mentre mia madre si
dedicava tranquilla alle opere di Ruikō» (Ranpo, 1960, p. 256)1.
L’interesse per uno dei più attivi traduttori dell’era Meiji (1868-1912)
nasce fin da subito, trasmesso dalle donne di famiglia, a partire dalla
madre. Secondo Ōuchi Shigeo, uno dei pochi critici a esprimersi in merito
a Il demone dai capelli bianchi2, Ranpo ha voluto portare uno dei romanzi
di Ruikō da lui più amati in gioventù da testo in linguaggio letterario
(bungotai) – e quindi di difficile accesso ai più – a poter essere letto in
lingua colloquiale (kōgotai) (Ōuchi, 1973, p. 404). Del resto,
riconoscendolo come il primo maestro di detective story in Giappone,
anche nelle successive produzioni Ranpo mantiene un occhio fisso sui
lavori di Ruikō e, oltre a Il demone dai capelli bianchi, riscrive molti altri
suoi lavori3.
Va però detto che anche il lavoro di Ruikō, in realtà, è l’adattamento di
un romanzo uscito pochi anni prima in Europa: nel 1886, infatti, in
Inghilterra vede le stampe Vendetta! (Vendetta! – The Story of One
Forgotten) di Marie Corelli (1855-1924) che suscita ben presto ampio
clamore tra i lettori per la forza espressa dalle lugubri atmosfere in cui si
dipana l’intreccio. La vicenda è in parte accostabile a lavori coevi prodotti
in Europa sulla scia del gotico settecentesco e dimostra soprattutto affinità
con Il conte di Montecristo (Le Comte de Monte-Cristo, 1846) di
Alexandre Dumas (1802-1870). Ambientato a Napoli nella metà
Alexandre Dumas (1802 1870). Ambientato a Napoli nella metà
dell’Ottocento, Vendetta! narra le peripezie del conte Fabio Romani, un
nobile locale che prende in moglie una donna animata da forti ambizioni,
tanto affascinante quanto crudele, Nina: sebbene creduto
prematuramente morto a causa dell’ondata di colera che affligge la città,
dopo poco Fabio riapre gli occhi all’interno della bara ed evade dalla
cripta di famiglia. Rincasato, gli si prospetta uno scenario agghiacciante,
quello della liaison tra Nina e il suo migliore amico, Guido: posta a
confronto con la rabbia e il rancore dovuti al tradimento subìto, la nuova
vita del protagonista avrà un unico scopo, la vendetta.
Superando i confini inglesi, questo romanzo radicato in una tradizione
letteraria che spazia dal teatro elisabettiano al gotico, giunge in Giappone
negli anni in cui vengono presentati i primi racconti polizieschi occidentali
da intellettuali quali Aeba Kōson (1855-1922) e lo stesso Ruikō. Il demone
dai capelli bianchi di quest’ultimo, in particolare, è realizzato a poca
distanza dalla versione di Il gatto nero (The Black Cat, 1843) di Edgar
Allan Poe (1809-1849) a cura di Kōson, che nel 1887 segna l’ingresso del
filone mystery in Giappone. Seguendo un proprio gusto personale per i
drammi connotati da misteri inspiegabili e violente 4passioni che lo
conduce anche all’adattamento de Il conte di Montecristo , Ruikō si lascia
trasportare dalle vicende narrate da Corelli e realizza un lavoro non solo
apprezzato dai lettori dell’epoca, ma che in seguito produrrà echi sia nel
mondo della letteratura sia in quello di cinema e televisione5.
Rispetto al testo di Ruikō, molto vicino all’originale corelliano, Ranpo
apporta modifiche su due diversi piani, contenutistico e scenografico,
come le pesanti modifiche all’onomastica dei personaggi e alle coordinate
spazio-temporali. Mentre Ruikō mantiene antroponimi e toponimi
originali, Ranpo riscrive la tavolozza dei nomi imprimendo una marcata
connotazione giapponese: così, il conte Fabio Romani diviene Ōmuta
Toshikiyo, e il conte Cesare Oliva, alter-ego del protagonista a seguito
della resurrezione, Satomi Shigeyuki, e così via.
L’ambientazione del dramma, poi, subisce un netto spostamento
geografico: Fabio nasce e muore a Napoli – luogo scelto da Corelli per
spiccato esotismo, che le consente di creare cammei culturali, quali
stornelli, proverbi, scorci paesaggistici stereotipati –, si reca a Palermo per
prendere le sembianze di Cesare e organizzare il piano, torna nel
capoluogo campano per compiere la propria vendetta e infine prende il
largo per il Sud America passando per Civitavecchia. Di contro, in Ranpo
è il Giappone degli anni Trenta del Novecento a fare da teatro: al posto di
Napoli abbiamo una località balneare del Kyushu, la città “S”, uno dei
tanti luoghi creati dall’autore di cui non fornisce chiari riferimenti ma solo
un’iniziale in alfabeto latino. Mentre il luogo in cui avviene la
trasformazione in Shigeyuki è Shanghai, la stessa in cui si rifugiano per
cambiare identità i protagonisti di due lavori successivi, Il melograno
(Zakuro, 1934) e La torre dei fantasmi (Yureito, 1937).
E ancora, mentre nel romanzo di Corelli il protagonista si dichiara
legalmente morto e la resurrezione viene associata a uno stato di morte
apparente, evitando riferimenti a fenomeni soprannaturali, in Ruikō e
Ranpo subentra l’immagine del demone (oni), spostando così il discorso al
contesto di creature infernali e quindi alla dimensione fantastica. Tuttavia,
la “fuga dal regno dei morti” narrata da Ranpo punta a un diverso livello
di tensione, descrivendo un processo catartico inverso che genera una
creatura infernale assetata di vendetta. La scelta della creatura
soprannaturale, poi, non appare casuale: nella tradizione giapponese, il
demone è un abitatore dell’Inferno capace di varcare la soglia con il
mondo dei vivi e nei principali bestiari (yokai zukan) pre-moderni è spesso
raffigurato come un gigante dalla pelle rossa o blu e con la chioma
bianca6.
Va poi sottolineato come Ranpo anticipi l’epilogo attraverso la
confessione dei crimini del protagonista, come era in uso nei racconti
giudiziari (saiban shosetsu) del periodo Tokugawa (1600-1867)7. Mentre
ll k f dd ll d
Corelli e Ruiko non vi fanno accenno e si addentrano nella descrizione
della “primavera” di Fabio in senso diacronico, dall’infanzia al
matrimonio, la versione del 1932 fornisce fin da subito informazioni circa
i reati commessi e la carcerazione. In effetti, è solo nelle ultime pagine che
Vendetta! svela la sorte toccata a Fabio una volta concluso il piano.
Per il Fabio corelliano il senso di liberazione si traduce nella fuga da
Napoli verso una località non ben definita del Sud America: nonostante
traspaia fin da subito la forte solitudine che lo avvolge, il suo è un inno
alla vita, o alla sopravvivenza, e si condensa nella frase pronunciata tra
euforia e stupore: «Sono vivo, anche se dichiarato morto!» (Corelli, p. 7).
La conferma arriva nelle battute finali, in cui la mattina radiosa e le onde
lucenti abbinate all’immagine del Sud America – ai tempi di Corelli una
delle nuove frontiere in cui sperare di trovare fortuna – sottolineano lo
stato d’animo del protagonista, facendo intendere che le condizioni attuali
lo condurranno verso un lieto futuro. Di contro, Ranpo sceglie per il
protagonista la cattività, lo fa vivere all’interno di una dimensione
controversa che Corelli avrebbe stentato a comprendere poiché dominata
da meccanismi molto diversi da quelli a lei noti. Il mondo de Il demone
dai capelli bianchi del 1932 si fonda infatti sulla dottrina del kanzen
choaku, ossia “incoraggiare il bene e punire il male”, la stessa alla base dei
racconti giudiziari e che ancora condiziona in buona parte i lettori del
Meiji. Se tuttavia in questo filone tale dottrina trova espressione attraverso
le abilità di chi porta avanti le indagini e la giusta cattura del criminale –
in genere messo in secondo piano rispetto al rappresentante della Legge –
nel caso di Ranpo il protagonista è al contempo vittima, detective e,
soprattutto, carnefice: è infatti grande la contraddizione quando afferma
«Chi lo leggerà, infatti, potrà trarne un valido esempio di premiazione del
bene e punizione del male». In tal senso, l’opera risulta piuttosto
accostabile alla formula di un romanzo noir in cui la pena carceraria e la
confessione divengono un mezzo attraverso cui il protagonista tenta di
superare il conflitto interiore generato dai cruenti atti commessi.
Da Corelli a Ranpo, nelle tre versioni, il momento di maggiore pathos è
la scoperta dell’adulterio da parte del protagonista, e anche qui Ranpo
non manca di intervenire. La narrazione si svolge in una zona esterna
all’abitazione, nel giardino, e il protagonista spia la coppia di amanti da un
cespuglio. Tuttavia, mentre per Fabio la fatale rivelazione avviene
assistendo alle effusioni di Nina e Guido Ferrari, nell’adattamento di
Ranpo il primo segnale di allarme è dato da una percezione uditiva, il
vezzeggiativo “Yocchan” che Ruriko impiega nei confronti di Kawamura.
A questo punto Toshikiyo vorrebbe fuggire, non assistere allo
spettacolo degli amanti, ma il suo corpo non glielo permette e rimane
fermo a scrutare i gesti dei due: l’impulso voyeuristico di spiare è una
caratteristica della personalità di Ranpo e si manifesta in un numero
sterminato di opere, trovando massima espressione in La poltrona umana
(Ningen isu, 1925).
Le componenti base della scrittura dell’autore, le ossessioni, gli
atteggiamenti voyeuristici e un certo tocco erotico trovano terreno fertile
nell’opera di Corelli e Ruikō, soprattutto attraverso dettagli quali la
progettazione di un piano, l’osservazione da punti nascosti o l’utilizzo di
camuffamenti. Elemento che incontra il gusto dello scrittore, poi, sono le
lenti utilizzate da Fabio per diventare Cesare, gli spessi occhiali con
effetto oscurante: come Ranpo stesso dichiara nel saggio La passione per
le lenti (Renzu shikosho, 1937) accennando ad alcuni eventi di gioventù,
«mi hanno sempre affascinato i telescopi, le macchine fotografiche e i
proiettori […] avvertivo il terrore e il fascino delle lenti» (Ranpo, 1957, p.
53). In Il demone dai capelli bianchi si lascia attrarre da un elemento
preesistente ma sul quale non si soffermano né Corelli né Ruikō, gli
occhiali scuri indossati dal protagonista per schermare lo sguardo, quegli
occhi cerulei che lo renderebbero riconoscibile, il dettaglio del suo
aspetto rimasto immutato dopo la resurrezione. Attraverso reiterate
ripetizioni dell’espressione «questi grandi occhiali neri» Ranpo fa delle
lenti la maschera di Shigeyuki e, al contempo, insegue una propria fantasia
feticista.
Il desiderio irrefrenabile di spiare da particolari angolazioni fornisce
anche lo spunto a Ranpo per portare al testo un’ulteriore piccola ma
significativa modifica. Mentre Cesare abbandona Nina in preda alla follia
d l l l d ll l d
g p
dentro il tumulo senza ritornare sui propri passi, colpito dalla melodia
Shigeyuki apre nuovamente la porta per godere della scena con gli occhi.
Qui Ranpo dà pieno sfogo al proprio gusto eroguro, ossia l’estetica
dell’“erotico e grottesco”, attraverso l’immagine del feto in
decomposizione stretto tra le braccia della donna seminuda. Dipinta come
la più bella del Giappone, l’avvenenza di Ruriko contrasta con la
mostruosità di Shigeyuki, il cui volto incanutito e i tratti sgraziati lo
accomunano ai molti altri personaggi deformi di Ranpo. Secondo
modalità simili a un romanzo coevo, Il mostro cieco (Mōjū, 1931)8, nelle
battute finali Ruriko viene segregata con l’inganno e la follia prende il
sopravvento su di lei, amplificando le sue maggiori debolezze: mentre
Corelli e Ruikō ne mettono in evidenza l’avidità, Ranpo raddoppia il
pathos della scena affiancando al delirio per i gioielli il riferimento alla
maternità perduta. Ruriko è in linea con le dokufu, le “donne
demoniache” dei racconti giudiziari, pronta a sfruttare il proprio fascino
per manovrare gli uomini a piacimento senza tuttavia mai concedersi,
tanto che Kawamura si comporta come una marionetta nelle sue mani
finendo col rimetterci la vita.
Il demone dai capelli bianchi rientra nel limitato novero di opere
dell’autore in cui la componente fantastica prevale su dinamiche regolate
da procedimenti logici e scientifici. Sebbene le deformità dei protagonisti
di La poltrona umana, Il mostro cieco e L’inferno allo specchio (Kagami
jigoku, 1926) «portino in scena le utopie di Ranpo» (Higashi, 2006, p.
112), è attraverso elementi quali la misteriosa testa di Sogno diurno
(Hakuchumu, 1925) conservata nella teca di un’erboristeria e la
resurrezione di Il demone dai capelli bianchi che la ricerca estetica di
Ranpo si spinge oltre i confini del reale e sfocia nel fantastico.
In sostanza, appare riduttivo inquadrare l’opera di Ranpo come un
mero tributo a Ruikō: il numero e la varietà delle modifiche riscontrate la
fanno piuttosto apparire come un viaggio in una dimensione che rasenta il
fantastico, l’approfondimento di uno studio sulle dinamiche del cuore
umano, in particolare sulle idee di vendetta e rancore, iniziato in lavori
precedenti quali Il demone dell’isola solitaria (Koto no oni, 1930) e Il
demone vendicatore (Fukushuki, 1930), e al contempo un esempio di
“riscrittura della riscrittura”, ovvero l’estremità di un filo che unisce realtà
culturali distanti tramite la letteratura.
Diego Cucinelli
Note

Il demone dai capelli bianchi


1. L’espressione usata è kanzen choaku, letteralmente “incoraggiare il
bene e punire il male”, concetto fondamentale in tutta la letteratura e
l’arte del periodo Tokugawa (1600-1867).
2. Termine inizialmente impiegato per riferirsi ai grandi proprietari
terrieri; dal periodo Kamakura (1185-1333), passa a indicare i capi di un
casato militare.
3. L’era Meiji (1868-1912) segna per il Giappone la riapertura dei porti
alle potenze occidentali e l’inizio di un rapido processo di
modernizzazione che ha comportato numerosi mutamenti sul piano
culturale, economico e socio-politico.
4. Il tatami (91cmx182cm) è la tradizionale unità di misura utilizzata in
Giappone per la superficie degli immobili. Venti tatami corrispondono
all’incirca a trentatré metri quadrati.
5. Kan’u (in cinese Guan Yu, 162-219) è stato un generale e guerriero le
cui leggendarie imprese sono descritte nel capolavoro letterario Romanzo
dei Tre Regni (Sanguo yanyi, XIV secolo) di Luo Guanzhong (prima metà
XIV-seconda metà XIV secolo). Nel romanzo, si descrive il suo incontro
con il generale Liu Bei (161-223) e agli occhi di quest’ultimo appare come
«noto che era di enorme costituzione, una lunga barba, una faccia rossa
come una mela, e labbra rosse e piene. Aveva gli occhi di una fenice e
sopracciglia folte come bachi da seta. Il suo aspetto era solenne e incuteva
soggezione». Per ulteriori dettagli si rimanda a www.treregni.it.
6. Il nome della protagonista femminile, Ruriko, letteralmente significa
‘fanciulla (ko) dei lapislazzuli (ruri)’.
7. Il sansuke, o “inserviente”, è una figura presente nei bagni pubblici
(sento) fino dalla metà del periodo Edo (1600-1867) e svolge vari compiti
quali lavare la schiena ai clienti o fare per loro piccole commissioni.
8. The Small Celandine (it. Le margheritine, giapp. Hinagiku no shi) è
una poesia di William Wordsworth (1770-1850) del 1807.
9. All’interno di un’abitazione tradizionale, i fusuma sono dei pannelli
scorrevoli rettangolari utilizzati per suddividere l’ambiente interno o come
porte.
10. L’espressione usata da Ranpo è daiichi sonzai (lett. ‘prima
esistenza’), termine impiegato in molti trattati in lingua giapponese per
indicare l’idea aristotelica di “sostanza prima”.
11. La sepoltura prematura (The Premature Burial) è un racconto
dell’orrore di Edgar Allan Poe (1809-1849) pubblicato per la prima volta
nel 1844. Tratta vari casi di sepoltura da vivo ricollegati a morti apparenti
o prolungati stati comatosi.
12. Il kyokatabira è un tradizionale kimono bianco che viene fatto
indossare ai defunti prima del funerale
indossare ai defunti prima del funerale.
13. Il lemma utilizzato è gaki, il ‘demone affamato’ o ‘demone della
fame’. Nel buddismo, dopo la morte un essere umano può mutare in gaki
a seguito di azioni malvagie reiterate in vita. Un gaki è un demone dalla
forma particolare, caratterizzata da un busto molto esile e da un ventre
spropositato. Il supplizio consiste nell’impossibilità di colmare l’appetito
smodato e l’arsura dovuta sete.
14. I manju sono dei tipici dolci giapponesi che possono essere
preparati in vari modi, ma fondamentalmente consistono in un impasto di
farina di riso e un ripieno di anko, la marmellata di fagioli rossi.
15. Lo juban è una veste che si indossa sotto il kimono.
16. Lo awase è un kimono internamente foderato.
17. In una casa tradizionale giapponese, il doma è l’ingresso con
pavimento in terra battuta dove si lasciano le scarpe.
18. Lo obi è la cintura che chiude il kimono.
19. Nel testo compare come ihai, la tavoletta mortuaria con il nome
postumo buddista di un defunto.
20. Gli shoji sono le tradizionali porte scorrevoli rivestite di carta.
21. Nella lingua giapponese, chan è un suffisso che segue il nome di una
persona ritenuta piuttosto intima e vicina. È molto frequente nel
linguaggio femminile.
22. Secondo la cosmologia buddista, il “grande trichiliocosmo” o
“grande universo” (giapp. sanzen daisen sekai, cin. San qian shijie, lett.
‘tremila mondi’) indica un sistema cosmico che consiste in un miliardo di
mondi, ognuno corredato dal proprio Paradiso, Inferno e sistema di
creature viventi. Cfr. Gallo (2016), p. 76 e Cornu (2008), p. 906.
23. Il furoshiki è un tradizionale fazzolettone decorato che viene usato
in vari modi, anche come fagotto per trasportare oggetti.
24. I ryokan sono delle tradizionali locande giapponesi in cui
solitamente è possibile pernottare.
25. Il kitsune è la volpe del folklore e delle leggende giapponesi. Ha il
potere di trasformarsi in una bella donna e sopraffare il cuore degli
uomini, in particolare di coloro che ricoprono una elevata carica politica o
sono in possesso di fortune economiche. Si veda Cucinelli (2019b), pp.
144-146.
26. La parola impiegata è kaidan, un lemma molto in voga dalla fine del
periodo Tokugawa per riferirsi alle storie di fantasmi.
27. Il kakejiku è un rotolo di carta o seta destinato a essere appeso e
riportante una calligrafia o un dipinto.
28. I kyogen (lett. ‘parole folli’) sono delle rappresentazioni teatrali, in
origine intermezzi comici all’interno di una giornata di no e poi in periodo
Tokugawa divennero rappresentazioni a sé stanti. I sewa mono (lett. ‘cose
di ogni giorno’), invece, sono drammi che trattano la vita quotidiana,
ispirandosi delle volte a eventi di attualità. Quindi, i sewa kyogen sono
kyogen che trattano fatti inerenti al vissuto quotidiano.
29. Il toko no ma, il cosiddetto “angolo del bello”, è una nicchia in cui
vengono posti alcuni oggetti di particolare valore estetico e artistico quali
spade, vasi, calligrafie, composizioni di ikebana, ecc.
30. Il kayu è un riso che viene servito brodoso e condito con ingredienti
semplici ma nutrienti. Solitamente, viene somministrato ai malati per fare
riprendere loro le forze
riprendere loro le forze.
31. Il monme è un’antica unità di peso che corrisponde a circa 3,75
grammi.
32. Lo umibozu (lett. ‘bonzo del mare’) è uno yokai, ossia una creatura
soprannaturale del folklore nipponico legata al mare (umi). Esistono
diverse fonti a riguardo, ma le principali lo descrivono come un enorme
essere che sbuca dal mare per aggredire le imbarcazioni e di lui sono
visibili solo la mastodontica testa tutta nera e due enormi occhi bianchi.
Cfr. Mizuki e Murakami (2005), pp. 50-52.

Postfazione
1. Per altri dettagli in lingua inglese si rimanda a Jacobowitz (2008), pp.
157-171.
2. Trattandosi di un’opera considerata “minore”, i principali studi
specifici in merito appartengono a tempi piuttosto recenti. Oltre al saggio
di uchi, si segnalano le osservazioni contenute in Fujii (2004), in
particolare le pp. 80-110, e lo studio comparato tra la riscrittura di Ruikō
e quella di Ranpo contenuto in Hori (2008). Per un saggio in lingua
italiana si rimanda a Cucinelli (2019a).
3. Uno tra questi è La torre dei fantasmi (Yureito, 1900), l’adattamento
di Ruikō di A Woman in Grey (1898) di Alice Muriel Williamson (1869-
1933), di cui Ranpo realizza una riscrittura omonima nel 1937.
4. Viene pubblicato tra il 1901 e il 1902 con il titolo Il re della spelonca
(Gankutsuo).
5. Nel 1912, la casa cinematografica Nikkatsu produce un film muto dal
titolo Il demone dai capelli bianchi (Hakuhatsuki). A più di cinquant’anni
di distanza, nel 1978, invece, la serie tv Domenica di terrore (Nichiyo
kyofu) ne propone una versione dalle caratteristiche uniche, in cui il
protagonista non si ridesta da uno stato di morte apparente bensì riappare
sotto forma di spirito vendicatore.
6. Per approfondimenti a riguardo si rimanda a Cucinelli (2019b).
7. I “racconti giudiziari” rappresentano un filone letterario che tratta di
crimini e tribunali, ma la soluzione del caso e i ruoli dei protagonisti sono
esplicitati già nell’incipit. Per un approfondimento si rimanda a Orsi
(1976) e Saitō (2012).
8. Per una traduzione in lingua italiana dell’opera si veda Ranpo (1994).
Bibliografia

M. Corelli; M. Meloni (trad.), Vendetta!, Roma, Gargoyle, 2011.


P. Cornu (a cura di), Dizionario del Buddhismo, Milano, Bruno
Mondadori, 2003.
D. Cucinelli, Da Marie Corelli a Edogawa Ranpo: una vendetta a
cavallo di due mondi, in Rivista di letterature moderne e comparate, 72 (2),
pp. 125-139, 2019a.
D. Cucinelli, Percorsi nella letteratura fantastica giapponese. Demoni e
animali fantastici, Roma, Gangemi editore, 2019b.
R. Edogawa, Renzu shikosho, Tokyo, Tokyo Sogensha, 1957, pp. 53-55.
Id, Katsuji to boku to, Tokyo, Seiabo, 1960, pp. 256-270.
Id, Hakuhatsuki, Tokyo, Kadokawa, 1973.
Id; G. Canova (trad.), La belva nell’ombra, Venezia, Marsilio, 1992.
Id; S. Caraffini (trad.), Il mostro cieco, Milano, Marcos y Marcos, 1994.
Id; F. Vitucci (trad.), La poltrona umana e altri racconti, Roma,
Atmosphere libri, 2018.
Id; A. Zanonato (trad.), La strana storia dell’Isola Panorama, Venezia,
Marsilio, 2019.
H. Fujii, Edogawa Ranpo to taishu niju seiki, Tokyo, Shibundō, 2004.
S. Gallo, Una lettura “bachtiniana” dell’opera critica di Gao Xingjian,
in LCM Journal, 3, pp. 65-78, 2016.
M. Higashi (a cura di), Nihon genso sakka sakuhin jiten. Tokyo, Kokushi
kankōkai, 2006.
K. Hori, Futatsu no Hakuhatsuki: the Other Vendetta Stories, in The
Bulletin of the School of Letters of Tokai University, 90, pp. 128-140, 2008.
S. Jacobowitz, The Edogawa Rampo Reader, Fukuoka, Kurodahan
Press, 2008.
R. Kuroiwa, Hakuhatsuki, Tokyo, Fusōdō, 1893.
S. Mizuki e K. Murakami, Nihon yōkai daijiten, Tokyo, Kadokawa,
2005.
M.T. Orsi, Gli antecedenti del racconto poliziesco in Giappone e
l’innesto del mystery, in Il Giappone, 16, pp. 65-83, 1976.
S. Ōuchi, Kaisetsu, in R. Edogawa, Hakuhatsuki, op. cit., pp. 403-407.
S. Saitō, Detective Fiction and the Rise of the Japanese Novel, 1880-
1930, Cambridge, Harvard University Asia Center, 2012.
M. Silver, The Detective Novel’s Novelty: Native and Foreign Narrative
Forms in Kuroiwa Ruikō’s Kettō no hate, in Japan Forum, 16 (2), pp. 191-
205, 2004.
Indice

1. Una strana premessa


2. Il Paradiso
3. Un sinistro presagio
4. L’Inferno sulla terra
5. Il mondo oscuro
6. Un immenso tesoro
7. Il demone affamato
8. La bestia carnivora
9. Il demone dai capelli bianchi
10. Un sorriso che incute terrore
11. Doppio omicidio
12. Le magnifiche bestie
13. Il pirata Shuryōkei
14. Un’eredità particolare
15. I cinque diamanti
16. Lo strano medico di famiglia
17. Il mistero sepolto nella terra
18. I due topi
19. Gli occhi giganteschi
20. Uno strano amore
21. Il feto nel vaso di vetro
22. Il Buddha dorato
23. L’apice della felicità
24. Un amore misterioso
25. I tredici uomini
26. Lo sposo dai capelli bianchi
27. La trappola
28. La vera identità del Buddha
29. La stanza dell’esecuzione
30. La strana promessa
31. Il collasso
32. Verso la tana
33. Le tre bare
34. L’agghiacciante ninna nanna

Postfazione
di Diego Cucinelli

Note

Bibliografia

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