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Fosca è considerata la prova migliore di Tarchetti, uno dei principali esponenti della Scapigliatura
milanese, che lavorò a questo romanzo fino alla morte per tifo, avvenuta il 25 marzo 1869. Non
riuscì però a completarlo: stese i due capitoli conclusivi, ma la parte mancante, la notte d’amore di
Giorgio e Fosca, venne scritta dall’amico Salvatore Farina per permettere la pubblicazione
dell’opera, che uscì a puntate sul «Pungolo», quello stesso anno.

La vicenda, nella finzione narrativa, trae origine da un manoscritto (espediente manzoniano) in cui
Giorgio, un giovane ufficiale, racconta in prima persona le passioni amorose, risalenti a cinque anni
prima, che hanno profondamente segnato la sua vita. Egli, ritiratosi dalla vita militare a causa di una
malattia al cuore, si reca a Milano dove incontra Clara, una donna giovane e bella, sposata, con la
quale vive una intensa relazione d’amore.

Dopo appena due mesi di inebriante felicità, Giorgio, risanato nel corpo e nello spirito, viene
richiamato in attività e destinato a una monotona cittadina di provincia circondata da una landa
desolata. Qui avviene l’incontro con Fosca, la cugina del suo colonnello, donna di orribile
magrezza, consunta da una non meglio identificata malattia psicofisica. Da questo momento, mentre
l’immagine di Clara diviene via via più remota, Fosca entra sempre più prepotentemente nella vita e
nella mente di Giorgio, fino a contagiarlo con il suo morbo.

Il tema dell’amore è presente nel romanzo secondo due modelli contrapposti: da una parte quello
romantico, con l’adulterio che assume il valore di conflitto con le regole sociali, dall’altra, il
modello, tipico della Scapigliatura, dell’amore visto nei suoi risvolti morbosi, patologici, associato
alla malattia e alla morte.

È così, infatti, che Tarchetti-Giorgio descrive il rapporto con Fosca: «Più che l’analisi di un affetto,
che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. Quell’amore
io non l’ho sentito, l’ho subito».

Ed è di questo amore che il protagonista vuole scrivere, dell’altro non parlerà «che pel contrasto
spaventoso che ha formato col primo»: le parti che fanno capo a Clara, infatti, sono soltanto
brevemente evocate, come ricordi sereni ma statici, chiusi, di un tempo felice.

Il contrasto fra le due donne, che attiene non solo al loro aspetto fisico, ma altresì alla realtà che le
circonda, è messo in evidenza già nel modo in cui ci vengono presentate.

Clara, giovane, serena, d’una bellezza florida e sana, sembra permeare di sé tutti gli elementi che
interagiscono con lei. Il rapporto Giorgio-Clara è raffigurato sulla pagina come una sorta di
cammeo, dove tutto è perfetto e in sé compiuto: il tempo è quello della primavera, gli spazi sono
quelli aperti di prati in fiore attraversati da limpidi ruscelli, oppure quelli chiusi di una capanna
disabitata, “il loro tabernacolo”, custode della loro intimità. Clara rappresenta la luce e la vita, è
colei che con la sua forza e insieme la sua dolcezza risana e rigenera: emblematica è a questo
proposito l’assimilazione tra la bellezza di lei e quella che doveva aver avuto la madre di Giorgio
quand’egli nacque.

L’entrata in scena di Fosca, invece, è preceduta da un alone di inquietante mistero che induce nel
lettore una crescente suspense: ci viene presentata attraverso le parole del cugino, del medico, ma
intanto è lì, in absentia, il suo posto a tavola, sempre accanto a quello di Giorgio, contrassegnato da
un fiore. Prima ancora di “vederla”, poi, assistiamo improvvisamente alla parossistica
manifestazione della sua terribile malattia: urla acute, strazianti e prolungate echeggiano nella sala e
richiamano alla mente di Giorgio, per la prima volta, l’idea della morte.
Infine Fosca appare, straordinariamente orribile e insieme intensamente attraente: la descrizione del
volto, con gli zigomi e le ossa delle tempie spaventosamente sporgenti, rimanda all’immagine di un
teschio; il pallore del volto contrasta con i capelli d’ebano, folti e lucentissimi, e con gli occhi
grandi, nerissimi e vividi; la sua persona, alta e scheletrica, prodotto del dolore fisico e delle
malattie, ha però una grazia e un’eleganza sorprendenti.

Fosca incarna la malattia, che contagia l’altro e ne assorbe le forze vitali, dietro alla quale si cela la
morte, evocata attraverso immagini di sapore espressionistico, violentemente contrapposte: l’orrore
che quel corpo già incadaverito suscita nel protagonista mentre lo avvinghia come se volesse
trascinarlo con sé nella tomba, e il fascino che, nelle scene notturne, promana da quel volto come
trasfigurato.

Ciò che rende Fosca attuale per il lettore moderno è, in ultima analisi, l’inquietudine che
l’attraversa, il dubbio, le dicotomie fra le opposte realtà della vita e dell’io, espresse non solo nello
sdoppiamento Clara-Fosca, ma anche nella duplicità che caratterizza Fosca in se stessa:
l’oscillazione continua fra logica e desiderio, razionale e irrazionale, luce e ombra.

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Nucleo centrale del romanzo è questo folle desiderio, causa di sofferenza fisica e dolore morale, che
condurrà entrambi alla distruzione, lui al collasso nervoso, lei alla tomba.
L’uomo, sconfitto, soccomberà alla passione, precipitando così nella disperazione, e la donna
l’avvierà a spegnersi, tuttavia felice per aver appagato la sua ossessione amorosa.
Le pagine sono scritte in una forma grammaticale che dapprima sorprende, perchè l’autore
costruisce le frasi ponendo il soggetto di prima persona singolare (se stesso) e il verbo alla terza. Ci
si sente disorientati da questa caratteristica di stile e la lettura delle prime righe mette un po’ a
disagio.
Poi ci si lascia prendere dalla bellezza delle parole. Sono quasi dei versi, delle poesie. Sono brevi ed
efficaci, a volte brutali ed inesorabili nella descrizione dei sentimenti. In ogni caso sempre profonde
e condivisibili.

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La trama del romanzo è costituita dalla storia del folle sentimento di Fosca, una donna brutta
e ammalata, per Giorgio, un giovane ufficiale che ama, riamato, un’altra donna, Clara,
sposata, dalla quale è costretto a separarsi a causa del proprio trasferimento.
Giorgio, come Ugo, è un militare, Clara, come la signora milanese, è l’amante con cui l’uomo
vive l’idillio, Fosca, come Carolina/Angiolina, è una donna epilettica ed isterica, simbolo non
nascosto di malattia e morte, corrispettivo femminile dello scrittore (malato di tisi), come lei
tormentato dal disperato bisogno d’amare e d’essere amato.
Giorgio non riesce a sottrarsi alla fascinazione ossessiva esercitata da Fosca e soccombe (Più
che l’analisi d’un affetto, più che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la
diagnosi d’una malattia - Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito), soprattutto dopo che
Clara lo ha lasciato per tornare dal marito, ma la relazione imposta al giovane viene scoperta
dal cugino di lei, che lo sfida in un duello.
Infine Fosca muore e Giorgio si ammala dello stesso male oscuro della donna.
Clara e Fosca sono le due donne del romanzo, ma è la seconda a dominare la scena; creature
in antitesi, com’è evidenziato già dai nomi, espressione del tema del dualismo ben presente
nella letteratura scapigliata (basti pensare alla poesia di Arrigo Boito, "Dualismo", che
rappresenta appunto la scissione nell’animo umano, l’anelito all’ angelico e la spinta verso il
satanico, il paradiso e l’inferno, la purezza e il torbido), hanno la stessa età, venticinque anni,
ma sono del tutto diverse, sono il rosa e il nero, il sogno e la realtà, la vita e la morte.
Clara, bella e fiorente, simboleggia Eros, la luminosa stagione della primavera presaga di
promesse, la rinascita dei sogni, delle illusioni, della speranza, la serenità, la salute; Fosca,
brutta e malata, rappresenta Thanatos, il tempo cupo della malattia, la fine degli incanti, il
tormento.
Clara è: una donna giovane e bella… sì serena, sì giovane, sì fiorita… Quando non agucchiava
presso una piccola finestra che guardava sul cortile, leggeva romanzi sul suo balcone, seduta in
mezzo ai suoi vasi di fuxie e di gerani; suonava anche un pianoforte e cantava (… aveva indole
forte, giusta e severa; vi era nulla di fatuo, nulla di fiacco, nulla di puerile nel suo carattere; e
pure nessuna donna fu mai più affettuosa, più dolce, più arrendevole, più accarezzevole, più
eminentemente donna. Aveva venticinque anni; era alta, pura, robusta, serena. Scopersi più
tardi il segreto di quel fascino… essa rassomigliava a mia madre.
Ben diversa è Fosca, che Giorgio comincia a conoscere dall’assenza (il suo posto a tavola è
lasciato vuoto perché la donna patisce di convulsioni nervose), da segnali inquietanti (le
grida… orribilmente acute, orribilmente strazianti e prolungate), dalla descrizione della
patologia di cui è affetta (è una specie di fenomeno, una collezione ambulante di tutti i mali
possibili…).
Ma da quale patologia sia affetta la donna è lo stesso medico a rivelarlo a Giorgio: il
fondamento dei suoi mali è l’isterismo, un male di moda nella donna, un’infermità viziosa… ha i
nervi scoperti.
Sì, Fosca è isterica. L’isteria era il sintomo specifico della sofferenza femminile nell’Ottocento
(bisognerà attendere la fine del secolo perché si cominci a parlare anche d’isteria maschile),
era un male che disorientava i medici fin dai tempi d’Ippocrate, perché la sua manifestazione
non lasciava tracce organiche. Le cause, secondo i medici dell’antichità, erano da ricercare in
un utero che agiva in maniera autonoma all’interno dell’organismo femminile, nelle forze
oscure del desiderio che travolgevano e annientavano la volontà della donna, e, fino al XIX
secolo, nonostante i nuovi interrogativi emersi, i medici restarono della convinzione che la
manifestazione di questo male fosse legato all’utero e al desiderio sessuale.

Oggi ne conosciamo la valenza sociologica, sappiamo che l’isterismo è mezzo di


comunicazione e primitiva protesta del singolo isolato e represso che non riesce a ribellarsi
attraverso canali socialmente accettati. E sappiamo anche che l’isterica non è un’insoddisfatta
sessuale, ma una persona carente di gratificazioni erotiche, come l’ ammirazione ed il
corteggiamento.
Fosca è pure anoressica:… è della voracità di una mosca.
Fosca è anche avida lettrice, ed è intelligente: divora i libri, è un tarlo da libri, legge come noi
fumiamo, … un’intelligenza robusta, fina, perspicace.
Ma, soprattutto, Fosca è brutta. Così si esprime Giorgio quando, finalmente, la conosce:
Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna!… Né tanto era brutta
per difetti di natura, per disarmonie di fattezze… quanto per una magrezza eccessiva… per la
rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine.
Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle
tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto
vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi,
quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione… La sua persona era alta
e giusta… i suoi modi erano naturalmente dolci… Tutta la sua orribilità era nel suo viso.
Con quel volto orrendamente brutto che ricorda il teschio, Fosca è la rappresentazione della
morte (ossessione dello scrittore, che la sentiva aleggiargli incontro, che apre e chiude il
capitolo XVII con la visione dei teschi in cui Giorgio sembra rivedere riprodotta e moltiplicata
l’immagine spaventosa di Fosca); non si può non pensare alla poesia di Tarchetti, Memento:

Quando bacio il tuo labbro profumato,

cara fanciulla, non posso obliare

che un bianco teschio v’è sotto celato.

Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,

obliar non poss’io, cara fanciulla,

che vi è sotto uno scheletro nascosto.

E nell’orrenda visione assorto,

dovunque o tocchi, o baci, o la man posi…

sento sporger le fredde ossa di morto.

Fosca è orribile nel volto, perché imago animi vultus, il volto è l’immagine, lo specchio, la
porta dell’anima, e se l’anima è travagliata e oppressa (un matrimonio sbagliato con un
cacciatore di dote, giocatore e ricattatore, poi un aborto, infine la perdita dell'agiatezza: sono
queste le cause che hanno determinato il suo male) le afflizioni non possono non riverberare
sul volto, è per questo che tutta la bruttezza è nel viso, però è colta, intelligente, estremamente
sensibile, ha grazia ed eleganza, è commovente nella sua fragilità, e quando s’innamora di
Giorgio di queste qualità si serve per, vampirescamente, affascinarlo e attrarlo a sé in una
spirale per entrambi distruttiva.
Nucleo centrale del romanzo è proprio il folle desiderio di Fosca (che non si rassegna
all’orrida bruttezza che le nega l’amore, che si ribella all’idea che la donna possa essere
amata solo a condizione di essere bella) e il giogo entro cui l’uomo è costretto, ed è di questa
passione, morbosa, che Giorgio scrive, parlando, brevemente, anche di quella, idilliaca,
vissuta con Clara solo pel contrasto spaventoso che ha formato col primo, di questa voluttà
crudele, causa di sofferenza fisica e dolore morale, che condurrà entrambi alla distruzione: lei
alla tomba, lui al collasso nervoso.
Voglio costringervi a ricordarvi di me, quando vi avrò oppresso con tutto il peso della mia
tenerezza, quando vi avrò seguito sempre e dappertutto come la vostra ombra, quando sarò morta
per voi, allora non potrete più dimenticarmi.Fosca non è, dunque, solo un’eroina letteraria della
seconda metà dell’Ottocento simbolo di malattia e morte (fantasmi sempre ben presenti
nell’opera e nella vita dell’autore), ma anche una figura femminile moderna, volitiva, tenace,
decisa ad affermare con ostinazione il diritto all’amore, vietatole dalla condizione
d’inferiorità in cui è relegata dall’orrida bruttezza e dalle disastrose condizioni della sua
salute, decisa ad affermare l’anima affascinante chiusa nell’involucro ripugnante, contro il
mondo degli uomini che apprezza soltanto la lusinga della bellezza del corpo.
Tu non sai cosa voglia dire per una donna non essere bella. Per noi la bellezza è tutto. Non
vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che alla condizione di essere avvenenti,
l’esistenza di una donna brutta diventa la più terribile, la più angosciosa di tutte le torture.
Non avendo, dunque, l’arma della bellezza, per realizzare compiutamente il folle desiderio si
servirà di un altro elemento: l’ossessiva violenza persecutoria del sentimento amoroso.
Fosca sarà sempre ben lucida sui reali sentimenti di Giorgio, conscia che l’uomo, incalzato dai
suoi suggerimenti, recita l’amore, ma, pur con la consapevolezza che l’inganno è tutto ciò che
potrà
ottenere, e nient’altro, porterà avanti il gioco delle illusioni, esulando anche dai limiti imposti
dalle convenzioni del tempo (si pensi agli incontri notturni), riuscendo infine a soddisfare
l’irrefrenabile desiderio, e sarà la notte d’amore tra i due l’esasperazione dell’illusione.
Fosca gli ordinerà:
-Sii mio!-
Giorgio soccomberà e ammetterà:
-Non ebbi la forza di resistere-
Giorgio dapprima cercherà di resistere alla passione di Fosca, ma poi si troverà incatenato in
un folle legame che lo farà soccombere, coinvolgendolo fino al tragico finale: il duello, dal
quale uscirà miracolosamente incolume, e, come contagiato dalla "anormalità" di Fosca, il
delirio, che lo farà precipiterà nella disperazione; Fosca si spegnerà, tre giorni dopo la notte
d’amore, tuttavia "felice, illusa, soddisfatta" per aver appagato la sua ossessione amorosa.
Questo il finale nella finzione letteraria, nella realtà Tarchetti fu trasferito da Parma a
Milano, dove consumò gli ultimi tre anni della sua vita, tra la frenetica attività letteraria, le
precarie condizioni di salute e le difficoltà economiche, morendo, già ammalato di tisi, per un
attacco di tifo, in casa dell'amico Salvatore Farina che lo aveva ospitato, senza aver scritto il
capitolo finale del romanzo al quale tanto teneva.
Il 26 marzo del 1869, il giorno successivo alla sua morte, sulla rivista letteraria "Il Pungolo"
cosi si leggeva:

… E’ morto dopo aver lungamente, coraggiosamente e dignitosamente lottato contro le brutali


realtà della vita, nemiche accanite all’arte e alle sue manifestazioni; è morto quando la speranza
di miglior avvenire, frutto di lavoro assiduo e di costanza indomabile, più caramente gli
sorrideva; è morto quando gli sorridevano intorno attestati non dubbi della commozione
profonda destata dai casi di questa povera Fosca, nella quale egli quasi morente versò tanta
parte della vita che gli fuggiva -gioie, dolori, aspirazioni indefinite, proteste sdegnose,
indignazioni sante- e quasi ad ogni linea, il presentimento della morte vicina.

Carolina/Angiolina ritornò nella nativa Sardegna, non lo rivide mai più, ma non lo dimenticò
fino alla fine dei suoi giorni.
Ancora oggi suscita consensi il romanzo "Fosca" perché ciò che maggiormente colpisce, oltre
alla forte componente autobiografica (le storie vissute con la signora di Milano e la donna di
Parma, la malattia di quest’ultima, la sua reale malattia, la tisi), all’indagine sugli effetti della
passione estrema sui due protagonisti, al tema degli opposti , bello/brutto, bene/male, nel
confronto tra le due donne Clara/Fosca, sono gli elementi di sorprendente modernità, come la
normalità/anormalità (Giorgio, inizialmente "normale", nel finale della vicenda è
irrimediabilmente contagiato dalla "anormalità" di Fosca) e, soprattutto, il diritto all’amore
rivendicato dalla protagonista e la sua ardente volontà di affermarlo.

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