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VEGLIA

Questa poesia di Giuseppe Ungaretti fa parte della sezione intitolata Il porto sepolto all'interno della
raccolta L'Allegria nell'edizione del 1931. La data in cui il poeta l'ha composta ci indica
immediatamente che anch'essa fa parte delle “poesie di guerra” che Ungaretti scrisse mentre si
trovava soldato al fronte in occasione della prima guerra mondiale. In questi brevi versi scopriamo
tutta l'intensità di quel sentimento di allegria che l'uomo prova nel momento in cui sfugge la morte e
che dà il titolo all'intera opera. Sdraiato accanto a un commilitone morto il poeta avverte più forte
che mai la presenza della morte nella vita umana, ma reagisce scrivendo “lettere piene d'amore” e
celebrando il proprio attaccamento alla vita.
Il termine usato per il titolo, veglia, appunto allude non solo alla “quasi” veglia natalizia, ma è
anche la veglia di una sentinella sul campo di battaglia, oltre che la veglia funebre accanto a un
compagno morto, ma come, poi, vedremo può essere intesa come attesa di un nuovo giorno, di una
rigenerazione.
CONTENUTO
l tema della lirica è racchiuso nel titolo: la veglia è sia il senso interminabile del tempo trascorso
accanto al cadavere dilaniato del compagno, sia l'atteggiamento di fraterna partecipazione a quello
strazio, dunque la "veglia funebre". Il primo significato è illustrato dalla prima strofa della poesia,
assai più lunga. Dominano in essa immagini di crudo realismo, sottolineato da versi-parola
(massacrato-digrignata-penetrata): essi costringono brutalmente il lettore a urtarsi con il
disfacimento e la morte. L'uso dei participi (ben cinque) e il ricorso frequente al gruppo
consonantico -tt- creano un ritmo aspro, secco duro. Il successivo spazio di silenzio (lo stacco tra le
due strofe) serve al poeta per scendere fino al fondo del proprio animo. Segue la seconda, breve
strofa: proprio la guerra consente di cogliere il senso più profondo e il valore dell'esistere umano; il
poeta proclama quindi: Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita.
Nella prima parte viene crudamente descritto ciò che il poeta sta vedendo: uno “spettacolo” di
morte, il poeta si trova accasciato vicino ad un suo compagno ucciso, la cui rigidezza fisica, data
dalla morte, è rimarcata dalle rime: prevalgono suoni duri (T) e un lessico violentemente carico, con
una forte presenza di participi passati che indicano un’azione subita nel tempo.
Il volto del soldato è rivolto alla luna, ciò rimanda ad un’atmosfera leopardiana, grazie alla luna
piena che rischiara la trincea. La luna, bella e insensata, è forse l’ultima immagine che il soldato
morto ha contemplato durante la sua agonia. Una domanda è rimasta forse serrata dietro quei denti:
perché? Sembra di risentire l’interrogativo che Giacomo Leopardi aveva affidato al pastore errante
per l’Asia: «Che fai tu luna in ciel?», che prelude l’interrogativo sulla morte e sulla sofferenza. Ma
la domanda non è solo del soldato morto, perché è in comunione col poeta che lo veglia: la
mostruosità della morte, così vicina, opposta alla bellezza della vita, pongono una domanda senza
scampo. Ed è un baratro. Eppure il silenzio diventa lo spazio comune in cui le due esperienze, la
morte del soldato e la vita riamata dal poeta, trovano il passaggio l’una nell’altra.
Nella poesia l’atmosfera è creata dalla presenza della luna stesso, in un richiamo romantico, che è
probabilmente l’ultima cosa contemplata dal soldato, compagno di Ungaretti, che ormai ha perso la
vita brutalmente. La sofferenza è data dai denti digrignati e dalle mani rosse e gonfie, gli occhi
rivolti alla luna quasi a domandare: perché? Perché la morte, perché la sofferenza?
Intanto Ungaretti è lì, accanto al corpo, che veglia il compagno e vede da vicino la morte: violenta,
mostruosa, brutale, permanente. Proprio in quel momento emergono sentimenti positivi nel poeta, in
contrasto con la morte che vede lì, palese; la bellezza della vita spinge Ungaretti a cantarne le gioie
scrivendole.
Il silenzio è la sola cosa che accomuna i due opposti, vita e morte. Le parole hanno un ritmo
spezzato, quasi a voler concretizzare lo strazio provato dal soldato, la contrazione della sua bocca,
le mani rovinate e deformi. La morte del soldato viene ascoltata e accolta dal poeta, che con le sue
parole prova a dare voce a ciò che voce non ha, la fine di tutto.
Sul finale lo slancio positivo di Ungaretti che, proprio perché davanti ai suoi occhi vede
chiaramente la morte e lo strazio che ne deriva, ama la vita più che mai.
METRICA E STILE Dal punto di vista stilistico, notiamo la tipica tensione verso l'essenzialità
da parte di Ungaretti e la brevità del testo, tutto incentrato sull'uso del participio passato. Versi
liberi, intessuti di richiami fonici e da ricorrenti rime o assonanze non regolate. Evidente anche
l’insistenza su alcuni suoni forti e duri, come quello della dentale - t - o della - r - (“intera nottata”,
v.1; “buttato”, v. 2; “massacrato”, v. 4; “penetrata”, v. 10; “attaccato”, v. 16). Non c’è punteggiatura,
una caratteristica che Ungaretti mutua dalla poesia futurista e da poeti stranieri, su tutti Apollinaire.
Anche se gli ultimi tre versi sono staccati, è improprio pensare che la poesia sia composta da due
strofe. C'è la tendenza a ricercare parole singole (“massacrato”, “digrignata”, “penetrata”, “tanto”) o
a cercare sintagmi (unione di due parole). Ci sono rime che riguardano participi passati, importanti
in questa lirica (“nottata”, “digrignata”, “penetrata”, “buttato”, “massacrato”, “stato” e “attaccato”)
e delle assonanze (“bocca-volta” e “lettere piene" tanto attaccato”).
Figure retoriche:
Sineddoche: “bocca / digrignata / volta al plenilunio”
Metafora: “la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio”
Allitterazioni e richiami sonori: particolare è l’insistenza sui suoni duri, specialmente sulla lettera t
(e tt), che ritorna anche grazie all’ampio utilizzo di participi passati usati con valore aggettivale, es.
“nottata”, “buttato”, “lettere”, “attaccato”...
Parallelismi: la struttura del componimento, così frammentaria, presenta una certa ricorrenza
nell’aggettivazione: “compagno massacrato”, “bocca digrignata”, “congestione penetrata”.
Per la sua natura così frammentaria, il testo è ricco di enjambement.
Inoltre il poeta insiste sui suoi –ato /–ata con una forte presenza del participio passato, così da
rendere con immediatezza la condizione in cui il poeta si trova a scrivere le lettere piene d’amore,
che chiudono la prima strofa. Molto importante è la pausa perché permette all’emozione di trovare
forma, creando un finale di grande potenza.

Commento
Il ritmo spezzato delle parole, l’insistenza sui suoni duri diventano l’elemento portante delle
immagini: ricordiamoci di quello che aveva scritto Lussu: «Prima tanto forte e pieno di vita, ora era
sfinito. Steso sul lettino da campo, le labbra bianche, immobile, sembrava un cadavere. Solo una
contrazione della bocca, simile ad un sorriso amaro, mostrava ch'egli viveva e soffriva.»
La contrazione della bocca, eccola. Possiamo quindi immaginare che quel tentativo di parlare
attraverso i denti digrignati sia naufragato nel silenzio e che Ungaretti sia stato testimone di ciò, o lo
abbia facilmente intuito. La domanda del soldato, in ogni caso, resta aperta, fermata nell’immagine
che il poeta ci ha donato.
C’è poi una comunanza che è bello far risaltare. La descrizione del soldato occupa la prima parte
della poesia e il poeta la chiude con la sua confessione: «Non sono mai stato / tanto /attaccato alla
vita». Possiamo però notare la comunanza dello spazio dei vv. 1-4. La notte è di entrambi, e i primi
due participi appartengono uno al poeta («buttato») e uno al compagno («massacrato»). Quindi
l’esperienza della morte chiede di essere ascoltata e accolta: è il poeta che deve dare voce a quel che
non ha voce, anche se si tratta di restare in silenzio, che per un poeta è paradossale. Oltre la
riflessione, c’è il tentativo di sopravanzare la morte con l’amore segno di una superiore armonia.
L’amore è il mistero che ci rende vivi anche quando siamo costretti ad attraversare il dubbio della
morte e del nulla. Emerge quindi il tema della solidarietà tra gli uomini, tipico della poetica
ungarettiana, che si innesta la seconda parte: oppone di fronte alla morte del compagno uno slancio
vitale, una rinascita. Si sente ancor più vicino a lui perché gli ha “mostrato” che il senso della vita
risiede nell’”allegria del naufragio”: attraverso l’amore si ancora a una dimensione di purezza che
non esclude la morte ma la comprende come parte dell’armonia. E è per quel che di buono c’è
nell’uomo che occorre lottare. Essere per la morte Heidegger. La ginestra= Leopardi progressista
«Lo scatto positivo finale», secondo il manuale di Luperini-Cataldi, La scrittura e l'interpretazione,
«risponde appunto a questa esigenza di ricomposizione e di armonia, affidata alla forza
dell’”allegria” vitale». Ungaretti compie quasi un percorso dantesco: scende negli inferi e
nell’orrore, nel dubbio che la morte istilla impietosamente, per poi attraverso l’amore risalire e
ancorarsi in una dimensione di purezza che non esclude la morte ma la comprende come parte
dell’armonia. E l’amore, l’amore per l’uomo – quando l’uomo dovrebbe essere odiato – per quel
che di buono c’è nell’uomo che occorre lottare. E quella risposta è, e non potrebbe essere altro, che
l’amore. Solo attraverso l’amore si può sentire l’attaccamento alla vita, alla speranza, alla bellezza:
ed è la conclusione di questa straordinaria poesia.
Avviene dunque, cioè, quella cosa che i greci chiamavano eros e thanatos: quanto più ti senti vicino
alla morte tanto più ti senti legato alla vita e all'amore!
E per quanto possa essere ingiusta la vita vale certamente la pena di viverla pienamente, come si
dice spesso "la vita è una e va vissuta al 100%", ma non è necessario aspettare di vedere la morta in
faccia per incominciare a non sprecarla. Seppure in maniera più astratta è comunque questo il
significato che il poeta fante Giuseppe Ungaretti ci ha voluto trasmettere.

I FIUMI
La poesia "I fiumi" è stata scritta dal poeta Giuseppe Ungaretti, porta l'indicazione "Cotici il 16
agosto 1916" e fa parte della raccolta L'allegria(1931), prima raccolta del poeta che rappresenta la
prima fase della sua poetica.
Titolo: I fiumi, nella loro brevità, che è tipica anche della poesia di Ungaretti, sono una vera e
propria autobiografia, scandita attraverso le immagini dei fiumi. L’immagine del fiume è
un’immagine topica della tradizione letteraria, in particolare romantica, ancora una volta simbolista,
che Ungaretti sicuramente conosceva, ma è anche un’immagine naturale di continuità: i fiumi
ricostruiscono il tessuto (la “docile fibra dell’universo”, come la definisce Ungaretti) del poeta nella
continuità con la natura e con la storia. Non si tratta solo della storia familiare, di un individuo, ma
anche della storia di una comunità.

Contenuto
La struttura della lirica si articola in tre tempi:
I TEMPO.
vv. 1-26: il poeta si trova nel Carso, in una dolina, durante la Prima guerra mondiale; riflette con se
stesso e dice di essersi steso dentro ad una cavità piena d’acqua, vicino all’Isonzo, per trarne
beneficio fisicamente (e spiritualmente). Lì ha iniziato a contemplare il paesaggio, poi ha raccolto i
suoi vestiti sudici di guerra e si è messo a prendere il sole.
II TEMPO.
vv. 27-41: Rinfrescato dall'acqua del fiume, inchinato al sole, si riconosce una piccola parte, una
docile fibra dell'universo, è un momento magico perché sente ridestarsi in cuore il contatto con la
natura che la brutalità della guerra aveva interrotto; è felice perché ora vive in armonia con le cose
che lo circondano mentre le memorie del passato rifluiscono nella mente ritornata serena.
III TEMPO.
vv. 42-69: È un flashback della sua esistenza suscitato dal fiume Isonzo; come una una carrellata, la
sua vita gli scorre davanti scandita dal ritorno di altri tre fiumi: il Serchio, il Lucchesia, dove ebbe
origine il ceppo della sua famiglia; il Nilo, sulle cui sponde, ai margini del deserto, nacque, crebbe e
si sentì ardere dal desiderio di nuove esperienze; la Senna, con le sue acque torbide come le passioni
giovanili e il rimescolio di idee e di infocate polemiche con gli amici della nuova avanguardia
europea. Lì, a Parigi, si era conosciuto, cioè aveva capito qual'era la sua vita e la sua vocazione
poetica.
Questa la sua nostalgia, questi i ricordi del passato resi più acuti nella notte che lo fascia con le sue
tenebre e lo protegge dalle insidie della guerra come la corolla protegge la parte interna del fiore.
È una poesia che riflette la voce dell'anima, un esame limitato ed elaborato fino a ottenere una
grande semplicità.
vv. 42-69: il poeta compie un percorso mentale, una sorta di un flashback della sua esistenza
attraverso i quattro fiumi che hanno segnato le quattro tappe più importanti della sua esistenza:
il Serchio, fiume della Lucchesia, che ricorda ad Ungaretti la sua famiglia originaria di quelle parti;
il Nilo, che gli ricorda l’Egitto, dove è nato (Alessandria) e dove ha trascorso la sua infanzia;
la Senna, che gli ricorda l’ambiente francese, nel quale ha completato la sua formazione culturale e
letteraria, , il contatto con il mondo della Letteratura (Espressionismo, avanguardie, simbolismo) e
della Filosofia (Bergson); infine l’Isonzo, il fiume legato al momento attuale, quello della guerra nel
Carso, la morte, la distruzione. Tutti questi fiumi citati confluiscono simbolicamente nel fiume in
cui sta vivendo le sue ore più difficili, cioè l’Isonzo. Significa che tutte le esperienze del poeta
sfociano in una amara considerazione sulla vita e sul dolore.
In questo rifluire nostalgico delle memorie del passato egli ritrova la serenità e la pace che la notte
ora protegge e avvolge nel silenzio delle sue tenebre.

METRICA E STILE:
Il componimento, articolato dal punto di vista contenutistico in quattro parti, non presenta uno
schema metrico definito. Si compone di 15 strofe, ciascuna di diversa lunghezza, di versi liberi
sciolti.
Per quanto riguarda le figure retoriche del componimento, citiamo:
Enjambements: sono numerosissimi, a causa della sintassi particolarmente frammentata dell’intera
poesia, tanto che alcuni versi sono composti esclusivamente da una parola o due parole.
Anafore: “questi”, “questo”, “questa” (anafora con polittoto ai vv. 45, 47, 52, 57, 61, 63).
Metafore: “questa dolina / che ha il languore / di un circo” (vv. 2-4), “in un’urna d’acqua” (v. 10),
“una docile fibra / dell’universo” (vv. 30-31), “ma quelle occulte / mani / che mi intridono” (vv- 36-
38, è anche una personificazione).
Personificazioni: “questa dolina / che ha il languore” (vv. 2-3), “il Nilo / che mi ha visto” (vv. 52-
53), “quelle occulte mani” (v. 36).
Sineddoche: “le mie quattr’ossa” (v. 17)
Similitudini: “come una reliquia” (v. 11), “come un sasso” (v. 19), “come un acrobata” (v. 19),
“come un beduino” (v. 24).
Analogia: “che ha il languore / di un circo” (vv. 3-4)
Ungaretti sceglie, nella prima fase della sua produzione poetica, versi molto brevi, i cosiddetti
versicoli, che si presentano frantumati e destrutturano il discorso e la sintassi tradizionale. Pochi gli
aggettivi e i connettivi logici, assente la punteggiatura; scarse le rime, sostituite dalle assonanze,
dalle allitterazioni, dal fonosimbolismo. La tecnica più usata è il procedimento analogico, che
consiste nell’accostare immagini e parole che apparentemente non hanno alcun nesso logico, ma
che, in realtà, nascondono segrete corrispondenze e forti connessioni intuitive. La poesia di
Ungaretti, in sostanza, punta sull’efficacia espressiva della parola e per questo viene definita
«poesia pura».

Commento
La poesia ripercorre la biografia storico – familiare di Ungaretti con: i quattro fiumi (Serchio, Nilo,
Senna, Isonzo) rappresentano le tappe fondamentali della vita del poeta. Attraverso questi fiumi egli
riesce a riconoscere se stesso e la propria identità storica, civile, morale e culturale. La riflessione di
Ungaretti, condotta attraverso i fiumi, è una presentazione del proprio «io» la sua «carta di
identità».
Aspetto centrale della lirica è sicuramente il viaggio come percorso spirituale che richiama la vita
del poeta. Il tema del viaggio, spesso metaforico, è un motivo ricorrente nella letteratura simbolista
e decadente. Possiamo partire da Baudelaire, il maestro dei poeti simbolisti francesi. Egli ha visto il
viaggio come evasione nel mondo dei sensi e in quello incontaminato e puro dell’immaginazione.
La metafora del viaggio serve a Baudelaire per esprimere il suo disagio verso la società
contemporanea in cui non si riconosce. Per questo aspira ad un altro mondo, e in lui ricorre il tema
dell’esilio come, ad esempio, l’esilio dell’albatro, che significa poi l’esilio del poeta sulla terra. La
ricerca di un “altrove”, diventa l’aspirazione del poeta ad una nuova patria, e, nello stesso tempo,
una evasione. Alcune sue composizioni ci parlano, infatti, di un viaggio immaginario che muove dai
sensi.
Nel Decadentismo viene ripreso molto il mito di Ulisse, reinterpretato per gli elementi di apertura
ed ambiguità che racchiude. Il viaggio di Odisseo diviene una ricerca esistenziale che rende vivo ed
attuale questo mito. La ricerca avviene essenzialmente in una dimensione interiore e dell’inconscio.
Il poeta Rimbaud in “Battello ebbro” ci propone un'evanescente metafora del viaggio che si
configura come una frattura, un allontanamento da tutto quello che è noto e come una perdita di
sensibilità, cioè, in sostanza, un abbandono alla oscillazione delle acque, all'ondeggiamento, alla
fluttuazione, quasi un richiamo ad una forma di purificazione che riscopre l’infanzia.
Pascoli invece nell' “Ultimo viaggio” vede Ulisse come un esule sconfitto, che ricerca una verità
superiore, ma invano e muore nell'isola di Calipso dopo una inutile interrogazione sul senso della
vita.
Anche il pittore Gauguin, caposcuola indiscusso del Simbolismo pittorico, ha trattato il tema del
viaggio. Gauguin rifiuta il soffocante clima sociale che lo circonda. Per questo fugge da Parigi e
dall'Europa, attratto dal bisogno di nuovi soggetti da ritrarre, ma anche dalla ricerca di un universo
puro e felice in cui rinnovarsi. Frutto di questa esperienza è una sorta di romanzo-diario dei suoi
'giorni oceanici': "Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?".
Infine abbiamo Joyce che nel suo “Ulisse” ripropone ancora il motivo dell'eroe viaggiatore,
ambientando però la vicenda nella moderna Dublino. Il viaggio diventa la vana ricerca del senso
della vita da parte dell'uomo moderno, che non riesce a trovare il significato della banalità del
quotidiano, e si abbandona ad un flusso confuso i pensieri.
Il viaggio in sostanza rappresenta una compresenza tra la fedeltà alle radici della terra natale e dei
valori della società in cui si vive, e la volontà della ricerca, della conoscenza piena dell'altro. È un
rischio di perdere qualcosa, ma può essere anche l’occasione di conquistare qualcos'altro e di
realizzare la speranza del ritorno o l’esperienza estatica dell’ abbandono all'ignoto.

Il poeta resiste nel paesaggio come un albero mutilato. Il paesaggio della poesia è quello delle
doline carsiche: è un paesaggio scavato e privo di vegetazione, completamente abraso dalla
particolare conformazione geologica del Carso, ma anche dalle ferite, dai colpi inferti dalla guerra,
dai bombardamenti, dall’uso dei gas, da tutte le altre orribili tecnologie moderne che, per la prima
volta, il popolo italiano e tutti i popoli europei venivano a conoscere nel loro volto più
terribile. Questo paesaggio lunare trova un solo rappresentante, un solo sopravvissuto: l’albero
mutilato. Rispetto alle altre poesie, quelle più brevi della raccolta dedicate perlopiù ai compagni, ai
commilitoni morti, qui Ungaretti non celebra i sommersi, bensì il salvato, cioè fondamentalmente se
stesso, raccontando la sua biografia.
Anche in Veglia, Ungaretti contrappone il suo destino di salvato con il destino del commilitone
rimasto ucciso. Il poeta, unico superstite, si sente come una reliquia conservata in un’urna (l’urna
d’acqua è l’atto simbolico della morte, se si legge la poesia come una discesa agli inferi) e, dopo
essersi alzato cammina in bilico, come farebbe un acrobata (riprende la metafora del circo), sul
fondo melmoso e pieno di sassi. S’immerge nelle acque del fiume e dopo si avvicina ai suoi vestiti
“sudici di guerra” e come un beduino (similitudine che richiama un nomade arabo che vive nei
deserti dell’Africa, terra in cui il poeta è nato) si prostra per ricevere il sole. Quel destino di salvato
di Ungaretti si celebra e si autocelebra nei fiumi attraverso questa musica ormai quasi del tutto
ricomposta.

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