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Manzoni: le tragedie

La tragedia di Manzoni si colloca in una posizione di rottura rispetto alla tradizione del genere.
La novità si colloca in due direzioni: la scelta della tragedia storica e il rifiuto delle unità aristoteliche.
Le novità della sua poetica vengono espresse nella Lettera a Chauvet (scritta nel 1820 per rispondere al critico
francese Joachim Chauvet che gli aveva rimproverato l’inosservanza delle regole aristoteliche della tragedia) e
nella prefazione al conte di Carmagnola.
In tale prefazione Manzoni dava una valutazione complessiva dell'arte a cui resterà sempre fedele, e le faceva
seguire poi alcune considerazioni relative alla tragedia.
Manzoni è risolutamente contrario a coloro che enfatizzano l’importanza dell’arte, che considerano cioè l’arte
come un assoluto o come una religione a cui tutto sacrificare. Al primo posto per Manzoni occorre porre le attività
pratiche e tutto ciò che può giovare alla felicità degli uomini. Questa critica alla centralità romantica dell’estetica
comporta un’altra critica: quella alla teoria romantica dell’autonomia dell’arte. Questa è sempre respinta da
Manzoni, per il quale la poesia è inseparabile dalla sua utilità morale e pratica.
Nella prefazione al Conte di Carmagnola, Manzoni fa seguire alle considerazioni generale sull’arte, le sue riflessioni
specifiche sulla tragedia. Esse possono essere riassunte in tre punti:
• Rifiuto delle unità aristoteliche di tempo (unica giornata), luogo (luogo unico), azione (unica azione). Esse non
trovano giustificazione neppure nell’esigenza di verosimiglianza, che deriva solo dal rispetto della verità storica dei
fatti e della psicologica dei personaggi.
• Unità fra interesse estetico e fine morale
• L’importanza del coro, come «cantuccio» riservato all’autore, nel quale può esprimere le proprie considerazioni
personali sulla vicenda rappresentata.
Nella lettera a Chauvet riprende e sviluppa in modo nuovo alcuni argomenti già svolti nella prefazione al Conte di
Carmagnola. Sostiene anzitutto che l’unità d’azione è indipendente dalle altre due unità: il poeta tragico cerca di
cogliere tra gli avvenimenti i rapporti di causa ed effetto che danno coerenza e un’unità d’azione, ma, quando si
ispira alla storia, non può limitarsi a un solo luogo e a ventiquattr’ore di tempo, dovendo rispettare le dinamiche
reali dell’episodio descritto.
In secondo luogo, Manzoni passa a considerare il rapporto tra storia e invenzione sia nel dramma che nel romanzo
storico. Lo scrittore non deve inventare ma attenersi ai fatti che sono accaduti, e poi ricostruire quegli aspetti della
storia che restano fuori dal lavoro storiografico, e cioè i sentimenti, le sofferenze e le passioni che a questi fatti si
accompagnano. Insomma, la letteratura integra e completa la storia. Questo è il suo scopo, questo è il suo
autonomo spazio operativo. Ma il romanziere storico deve essere soprattutto rispettoso della storia e della realtà:
deve essere uno scrittore realista. Solo così potrà evitare il rischio del falso o del «romanzesco», vale a dire del
gusto dell’invenzione in sé e per sé o dell’intreccio fine a sé stesso. (creazione di situazioni, personaggi, caratteri e
ambienti artificiali e innaturali, lontani dalla realtà storica che essi intendevano rappresentare). L’unico «modello di
verità poetica» rimane per Manzoni il romanzo storico.
Manzoni tuttavia doveva affrontare anche un altro problema, quello del linguaggio. La tragedia italiana (come in
Alfieri e Foscolo) impiegava un linguaggio letterario e aulico, lontanissimo da quello d’uso. Ciò contrastava con la
poetica realistica del vero storico. In questo campo dunque Manzoni doveva inventare un nuovo linguaggio.
Adottò l’endecasillabo sciolto, ma cercò di piegarlo a uno stile realistico e prosastico, mentre sul piano linguistico
fece ricorso a termini d’uso comune.
Il conte di Carmagnola: La tragedia fu iniziata nel 1816, terminata nel 1819 e pubblicata nel 1820.
Lo spunto derivava dalla Storia delle repubbliche italiane dell’economista, storico e critico letterario Sismondi, in cui si
rivalutava la personalità di Francesco di Bartolomeo Bussone, un capitano di ventura vissuto all’inizio
del Quattrocento che divenne celebre con il nome di conte di Carmagnola. Questi, passato al servizio dei veneziani dopo
aver combattuto per il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, vinse i milanesi nella battaglia di Maclodio (1427), presso
Brescia; ma avendo lasciato in libertà i prigionieri di guerra e a causa degli esiti incerti delle successive manovre militari,
venne sospettato di tradimento dalla Repubblica di Venezia, accusato e condannato a morte.
Manzoni fa iniziare la vicenda nel 1426, quando il conte di Carmagnola scampa a Venezia a un attentato
organizzato da Filippo Maria Visconti e il Senato della Repubblica gli affida il comando del proprio esercito. La
vicenda dura sei anni (mentre l’unità di tempo previsto dal canone aristotelico avrebbe imposto una durata di sole
ventiquattro ore), dal 1426 al 1432, quando Carmagnola viene condannato a morte.
La vicenda della tragedia manzoniana presuppone la convinzione dell’innocenza del conte: infatti, liberando i
prigionieri, si era comportato secondo il codice militare dell’epoca ed era dunque senza colpa. Manzoni vede in lui
una vittima innocente della ragion di Stato.
Il protagonista è un uomo di potere che intenderebbe rispettare il codice militare e quello morale e vorrebbe
essere giusto in un mondo politico dominato dall’immoralità, dall’ipocrisia, dalla fredda ragion di Stato. Il conflitto
drammatico che interessa Manzoni oppone il giusto alla società ingiusta, la quale lo isola e finisce per indurlo al
ruolo di vittima: è insomma il conflitto tra «ideale» e «reale».
Adelchi: Il 21 novembre 1820 Alessandro Manzoni inizia la stesura dell’Adelchi, tragedia in cinque atti e in versi,
con due cori rispettivamente nell’Atto III e nell’Atto IV. Terminato l’anno successivo e pubblicato nell’ottobre 1822,
l’Adelchi venne rappresentato e con scarso successo soltanto nel 1843.
L’azione drammatica è ambientata negli anni 772-774, quando in Italia la dominazione dei Franchi succede a quella
dei Longobardi, che a loro volta avevano vinto e sottomesso i Latini, cioè gli italici (come si vede, la situazione ha
molte analogie con l’Italia alla fine del Settecento e all’inizio dell’Ottocento, oppressa dagli Austriaci e fiduciosa
nell’aiuto di Napoleone e dei Francesi).
L’elaborazione della tragedia è accompagnata dal Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia,
saggio sulle ricerche storiche eseguite per la preparazione dell’opera e pubblicato in appendice all’Adelchi.
TRAMA: le vicende rappresentate nell’Adelchi si svolgono nel contesto della guerra del 772-774 tra i Franchi e i
Longobardi. Carlo Magno, re dei franchi, ha ripudiato Ermengarda, figlia di Desiderio, re dei Longobardi, e sorella di
Adelchi. Quando la regina ripudiata torna dal padre, alla corte di Pavia, Desiderio giura di vendicarsi. Fallito un accordo
con il Papa, cui i Longobardi avevano sottratto alcuni territori, si giunge alla guerra con i Franchi. L’esercito di Carlo,
varcate le Alpi attraverso un valico indifeso indicatogli dal diacono Martino, sorprende gli avversari e li sconfigge,
nonostante la strenua difesa di Adelchi. Nel convento di Brescia, dove si era ritirata, Ermengarda viene a conoscenza
delle nuove nozze di Carlo Magno e, in preda al delirio, muore. L’avanzata dei franchi è inarrestabile. A Verona, Adelchi,
con i pochi uomini rimastigli fedeli, tenta una disperata resistenza e viene ferito a morte. Adelchi, morente, è portato
nella tenda di Carlo, dove si trova, come prigioniero, anche Desiderio.
Alla fine, emerge il tema della «provida sventura» e dell’intervento salvifico della grazia. Ermengarda e Adelchi, figli di
oppressori, espiano la colpa del loro popolo morendo come vinti e così riscattandosi in una prospettiva ultraterrena.
Adelchi vive in sé una doppia contraddizione tragica: quella, tutta interiore, che oppone il suo desiderio di gloria e
di magnanimità alle possibilità reali della situazione in cui si trova ad agire; e quella sociale, dovuta al suo ruolo
pubblico, di essere figlio di un re oppressore, associato con lui nel trono e nel potere, e di coltivare invece sogni di
giustizia e di fratellanza. (ritorna il conflitto fra interessi dello stato e principi della morale).
La tragedia Adelchi, così come Il conte di Carmagnola, ha per oggetto il «vero» storico (rispettivamente la caduta
del regno longobardo ad opera dei Franchi e la figura del capitano di ventura Francesco Bussone); l’invenzione è
limitata alla caratterizzazione dei personaggi e a dettagli marginali: per esempio, nel dramma Adelchi muore per le
ferite riportate in battaglia, mentre in realtà si rifugiò a Costantinopoli.
Attraverso la figura di Carlo Magno (nello stesso tempo autore dell’oltraggio verso Ermengarda e difensore dei
diritti della Chiesa), Manzoni suggerisce un’interpretazione provvidenziale della Storia: Carlo Magno,
indipendentemente dalle sue intrinseche qualità, è in sostanza uno strumento di cui la Provvidenza si serve per
punire l’orgoglio e la sfrenata ambizione di Desiderio (che non manca comunque di una sua dignità regale
specialmente nella sconfitta).
Ermengarda e Adelchi sono i due protagonisti. Entrambi, in un mondo corrotto e ambiguo, dominato dall’egoismo,
dal calcolo, dalla violenza, vivono in una condizione di solitudine e di alienazione. Sono personaggi romantici,
malinconici, divisi fra sogno e realtà, fra sentimento e dovere: Adelchi fra le aspirazioni alla gloria, alla
magnanimità, alla giustizia e le necessità impostegli dal padre e dagli obblighi di re; Ermengarda fra la forza
«empia» della passione che ancora la lega al marito e l’attesa di una morte cristiana. Ed è proprio il dolore (per i
segreti disegni della Provvidenza) che l’ha separata dalla sua stirpe e l’ha accomunata agli infelici, ai sofferenti, agli
umili, assicurandole la salvezza: te collocò la provida / sventura in fra gli oppressi… Nel destino di Ermengarda si
traduce uno dei motivi fondamentali della condizione manzoniana dell’uomo: il valore del dolore come strumento
di purificazione e di redenzione.
Oltre il coro della morte di Ermengarda, nell’Adelchi si trova un altro coro, alla fine dell’atto terzo, di carattere
politico: Dagli atri muscosi, dai fori cadenti. Manzoni immagina che gli italiani assistano meravigliati, timorosi e
increduli, alla fuga dei propri oppressori, sperando che si avvicini con la vittoria dei Franchi la fine della loro servitù
sotto un altro dominatore. In tal modo Manzoni, mentre si riferiva a vicende così lontane, esprimeva un monito
solenne ai suoi contemporanei: è vano sperare nell’aiuto straniero: la libertà si può e si deve conquistare solo con
le proprie forze.

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