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Tesi di Laurea di Agnese Fasano

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE

FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA

Corso di Laurea in Infermieristica

Sede di Udine
L’AFASIA DOPO L’EVENTO STROKE: IL VISSUTO DEL
PAZIENTE

Relatore:
Dott.ssa Graziella Valoppi

Laureanda:
Agnese Fasano

Correlatore:
Dott.ssa Teresa Bulfone
Logopedista Isolda Di Narda

ANNO ACCADEMICO 2008-2009

…“Ecco, è così che ha bisogno di pensare,


pacatamente,
senza essere spiato,
senza che l’uno o l’altro si
affretti
a strapparlo dal suo monologo interiore.

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Non si tratta di un esame di


coscienza,
né gli interessa fare un bilancio.
E’ un po’, in certi momenti,
come sfogliare a casaccio
un album di fotografie,
senza preoccupazioni
di seguire l’ordine cronologico”…

da “Le campane di Bicêtre”


di George
Simenon

INTRODUZIONE
CAPITOLO 1 – AFASIA E LINGUAGGIO
1.1 DEFINIZIONE
1.2 CAUSE
1.3 LE SINDROMI AFASICHE
1.3.1 Afasia di Broca
1.3.2 Afasia di Wernicke
1.3.3 Afasia globale
1.3.4 Afasia di conduzione
1.3.5 Afasie transcorticali
1.3.6 Afasia anomica
1.4 IL LINGUAGGIO E LE SUE CARATTERISTICHE
1.5 IL SISTEMA SEMANTICO – LESSICALE
1.5.1 Il sistema semantico
1.5.2 Il sistema lessicale
1.5.3 I buffer
1.5.4 I meccanismi di conversione
1.6 I DANNI FUNZIONALI
1.6.1 Al sistema semantico
1.6.2 Ai lessici
1.6.3 Ai buffer
1.6.4 Ai meccanismi di conversione
1.7 PRINCIPALI ALTERAZIONI NELLA PRODUZIONE DEL LINGUAGGIO
1.7.1 Altri ambiti compromessi
1.8 CENNI SULLA TEORIA DELLA CONVERSAZIONE

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CAPITOLO 2 – REVISIONE DELLA LETTERATURA


2.1 EPIDEMIOLOGIA DELL’AFASIA AL PRIMO STROKE
2.2 L’AFASIA NELLA FASE ACUTA E LA SUA EVOLUZIONE
2.3 LA QUALITA’ DELLA VITA NEL PAZIENTE AFASICO
2.4 EFFETTI DELL’AFASIA SUI CAREGIVER
2.5 LA DEPRESSIONE POST STROKE
2.6 COMUNICARE CON IL PAZIENTE AFASICO
GLI EFFETTI DEL TRATTAMENTO DEL LINGUAGGIO NEL PAZIENTE
2.7
AFASICO
CAPITOLO 3 – LO STUDIO
3.1 LO STUDIO
3.2 OBIETTIVI DELLO STUDIO
CAPITOLO 4 – MATERIALI E METODI
4.1 CAMPIONE
4.2 STRUMENTI
4.3 PROCEDURA DI RACCOLTA DEI DATI
4.4 RISERVATEZZA
4.5 ANALISI DEI DATI
CAPITOLO 5 – RISULTATI
5.1 DESCRIZIONE DEI PARTECIPANTI
5.2 L’ESPERIENZA DELLA MALATTIA: UN RICORDO CHE NON MUORE
5.3 CAPIRE E NON ESSERE CAPITI: LA RABBIA E LA PAURA
LA STANCHEZZA E LA FATICA PER ESPRIMERSI E IL VALORE
5.4
DELLA CALMA E DELLA PAZIENZA
L’INVISIBILITA’ DELL’AFASIA FINO AL MOMENTO IN CUI CI SI
5.5
RELAZIONA CON QUALCUNO
5.6 CERCARE E TROVARE IL SENSO DI UNA NUOVA VITA
5.7 LA PAROLA IMPRIGIONATA
CAPITOLO 6 – DISCUSSIONE
6.1 LIMITI DELLO STUDIO
6.2 DISCUSSIONE
CAPITOLO 7 – CONCLUSIONE

INTRODUZIONE
La persona che, come conseguenza di uno stroke, soffre di afasia, si ritrova
improvvisamente a vivere una condizione drammatica e, per molti aspetti,

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sconosciuta. Dopo la fase acuta, la persona afasica intraprende un lungo


processo di adattamento per riorganizzare la propria vita. La difficoltà di
esprimersi, di dar voce ai propri pensieri, in sintesi di capire ed essere capiti
provoca nella persona afasica l’insorgere di sentimenti di rabbia,
scoraggiamento, depressione, desiderio di morire soprattutto nel primo anno
dopo lo stroke (Murray, 2004; Franzén-Dahlin et al, 2006). Questa nuova
condizione ha conseguenze molto rilevanti sulla qualità della vita, sia della
persona stessa che dei suoi familiari, in misura anche maggiore della disabilità
fisica che spesso consegue a uno stroke. Il lavoro, le abitudini, le amicizie, la
famiglia, il proprio ruolo sociale, sono notevolmente compromessi. La persona,
quindi, si trova ad affrontare quotidianamente le limitazioni imposte
dall’afasia: una disabilità per certi versi “invisibile”, almeno finché non ci si
relaziona con qualcuno, ma che per la persona rappresenta una presenza
costante e ineludibile. L’adattamento a questa nuova situazione richiede
tempo, impegno, fatica; il contributo dei professionisti dell’équipe che a
diverso titolo si occupano del paziente afasico, aldilà dello specifico ambito di
competenza, dovrebbe svolgersi in un ambiente terapeutico che faciliti questo
processo, attraverso atteggiamenti appropriati e rispettosi dell’esperienza
vissuta dal paziente. La letteratura documenta come l’approccio al problema
dell’afasia da parte del personale di assistenza presenti qualche criticità,
dovuta in parte a carenza di formazione specifica - si tratta di un problema
che richiede competenze specialistiche per il suo trattamento - ma anche a
una sottostima dell’impatto positivo o meno del proprio modo di comunicare,
di stare con il paziente, di creare l’ambiente di cura (Murphy, 2006; Gordon
et al, 2009). Il paziente afasico richiede un approccio personalizzato, che
tenga in considerazione tutte le dimensioni dell’assistenza infermieristica.
Esplorare il vissuto delle persone afasiche e cercare di comprendere la loro
esperienza, dall’ospedalizzazione alla fase di recupero, è sembrato un aspetto
interessante da approfondire, in una prospettiva di caring dove la persona, e
non la sua malattia, siano davvero al centro dell’attenzione.

CAPITOLO 1
AFASIA E LINGUAGGIO

1.1 DEFINIZIONE
L’afasia è un disturbo acquisito del linguaggio, conseguente a lesione di
strutture cerebrali primariamente implicate nell’elaborazione di aspetti
diversi delle capacità linguistiche.

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1.2 CAUSE
Le cause più frequenti di afasia sono i disturbi cerebrovascolari, i traumi
cranici e i tumori.
I disturbi cerebrovascolari possono essere dovuti a occlusione da parte di un
trombo o di un embolo con conseguente ischemia cerebrale, oppure alla
rottura di un vaso cerebrale con conseguente emorragia.
Le lesioni cerebrovascolari in emisfero sinistro sono la causa più frequente di
afasia; la lesione è generalmente circoscritta e il danno linguistico si associa
frequentemente ad un disturbo del gesto intenzionale (aprassia) e del calcolo,
ma generalmente risparmia le altre funzioni cognitive.
Il trauma cranico è un evento molto comune, facilmente diagnosticabile, ma
che può provocare una quantità di effetti secondari e ritardati che complicano
il quadro sintomatologico.
Disturbi cerebrovascolari e traumi provocano danni cerebrali immediati.
Diverso è il caso di tumori che possono rimanere silenti a lungo prima di
causare dei deficit.

1.3 LE SINDROMI AFASICHE


Tradizionalmente le forme afasiche si dividono in due gruppi, a seconda della
qualità della produzione orale che può essere fluente o non fluente, termini
che non vanno presi nel loro significato letterale, ma che rappresentano un
insieme di caratteristiche, nessuna delle quali da sola permette di classificare
correttamente un soggetto afasico come fluente o non fluente. Eloquio fluente
ed eloquio non fluente corrispondono ai due estremi di un continuum
piuttosto che a due categorie nettamente distinte.
Nel concetto di afasia fluente si fanno rientrare, generalmente, caratteristiche
quali una prosodia conservata, una articolazione non difficoltosa e una relativa
abbondanza dell’eloquio. Fanno parte delle afasie fluenti: l’afasia di Wernicke,
l’afasia di conduzione, l’afasia transcorticale sensoriale e l’afasia anomica.
Nel concetto di afasia non fluente, al contrario, rientrano la prosodia alterata
(sono alterati il ritmo e il pattern d’intonazione della frase), le difficoltà
articolatorie e la riduzione dell’eloquio. Negli afasici non fluenti l’articolazione
è spesso caratterizzata da sforzo, goffaggine dei movimenti e variabilità,
soprattutto nella produzione spontanea e nella denominazione, mentre serie
automatiche come contare da 1 a 10 e, a volte, la ripetizione di parole,
possono non presentare difficoltà.
Fanno parte delle afasie non fluenti: l’afasia di Broca, l’afasia transcorticale
motoria e l’afasia globale.

1.3.1 Afasia di Broca


La lesione più frequentemente associata all’afasia di Broca si trova nella

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regione frontale prerolandica soprasilviana sinistra comprendente l’area di


Broca e si estende nella sostanza bianca periventricolare sottostante, nel
territorio dell’arteria cerebrale media; spesso la lesione si estende fino la lobo
parietale.
L’afasia di Broca è caratterizzata da eloquio non fluente, con disturbi
articolatori, cattiva ripetizione e comprensione uditiva buona o
moderatamente compromessa ai test clinici. E’ invece spesso alterata la
comprensione di frasi sintatticamente complesse. A volte l’ordine delle parole
nella frase può essere alterato. Le anomie sono sempre presenti. La lettura ad
alta voce è generalmente difficoltosa. La copia è solitamente ben eseguita e il
dettato presenta le stesse difficoltà della scrittura spontanea. Emiparesi,
emianestesia e aprassia orale sono spesso presenti nell’afasia di Broca.

1.3.2 Afasia di Wernicke


La correlazione tra un quadro di afasia caratterizzato da eloquio fluente,
parafasico e spesso relativamente abbondante (fino ad essere logorroico in
alcuni casi), deficit di comprensione uditiva e di ripetizione ed una lesione che
interessa l’area di Wernicke nel lobo temporale sinistro, con variabile
estensione a strutture corticali e sottocorticali circostanti, è stata confermata
dalla totalità degli studi con tomografia computerizzata (Naeser & Hayward,
1978; Mazzocchi & Vignolo, 1979; Kertesz et al, 1979).
Gli afasici di Wernicke raramente presentano disturbi di moto o di senso,
mentre i deficit di campo visivo (emianopsia o quadrantopsia) sono frequenti.

1.3.3 Afasia globale


Nella maggior parte dei soggetti la lesione distrugge gran parte delle aree
fronto-temporo-parietali del linguaggio.
E’ una forma grave di afasia caratterizzata da eloquio non fluente e
comprensione uditiva deficitaria. La produzione orale è gravemente ridotta e
può consistere esclusivamente in stereotipie, dette anche espressioni
ricorrenti. Queste possono essere composte da sillabe senza senso, un
neologismo, una o più parole o una frase, ripetute senza variazioni in tutte le
occasioni in cui il soggetto cerca di dire qualcosa. La comprensione uditiva è
deficitaria. La scrittura spontanea è generalmente abolita ma alcuni pazienti
sono ancora in grado di tracciare la propria firma. La lettura ad alta voce, la
ripeticzione, la scrittura sotto dettato e la copia sono nulli.
I soggetti con afasia globale presentano di solito anche emiparesi,
emianestesia ed emianopsia.

1.3.4 Afasia di conduzione


La sede della lesione cerebrale è in generale a carico della regione
soprasilviana, a livello dell’opercolo parietale (giro sopramarginale), con
frequente estensione alla sostanza bianca del fascicolo arcuato, che connette

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le aree associative temporale e frontali (Benson et al, 1973).


Questa sindrome è caratterizzata da eloquio fluente con parafrasie fonetiche,
buona comprensione uditiva e ripetizione compromessa.
Gli afasici di conduzione presentano frequentemente disturbi di moto e, meno
frequentemente, di campo visivo mentre l’aprassia è più rara.

1.3.5 Afasie transcorticali


Le afasie transcorticali sono caratterizzate dalla presenza di ripetizione
preservata. Sono distinguibili tre forme cliniche:
afasia transcorticale motoria: la sede lesionale più comune è la sostanza
bianca sita anterolateralmente al corno frontale di sinistra (Damasio, 1981;
Freedmann et al, 1984). In questa forma clinica l’eloquio spontaneo è ridotto,
non fluente, spesso agrammaico, la denominazione di regola preservata e la
comprensione normale.
Afasia transcorticale sensoriale: le sedi lesionali sono generalmente posteriori,
nella zona di confine tra le aree irrorate dall’arteria cerebrale media e
l’arteria cerebrale posteriore e colpiscono le regioni parieto-temporali,
risparmiando l’area di Wernicke. Questo tipo di afasia è caratterizzata da
eloquio fluente, ricco di parafasie e grave compromissione della comprensione
uditiva.
Afasia transcorticale mista: detta anche sindrome da isolamento delle aree del
linguaggio. E’ dovuta a lesioni corticali estese che risparmiano solo le aree
immediatamente persilviane (Geschwind et al, 1968; Assal et al, 1983). E’
caratterizzata da eloquio non fluente, ecolalia e deficit di comprensione.

1.3.6 Afasia anomica


L’afasia anominca viene da molti considerata una sindrome afasica non
localizzabile, essendo frequentemente associata a patologia cerebrale diffusa,
quale quella che si riscontra nelle lesioni traumatiche, nell’ipertensione
endocranica e nella malattia di Alzheimer (Benson, 1979). Difficoltà nel
trovare la parola che esprima correttamente il proprio pensiero o denoti con
precisione un oggetto, si possono riscontrare in tutte le forme cliniche di
afasia, anche se prevalgono quando la lesione è a localizzazione parieto-
temporale (Benson, 1979) o temporale (Newcombe et al, 1971; Coughlan et
al, 1978). Si parla di afasia anomica in senso stretto quando il sintomo
principale è la frequente mancanza della parola (amnesia nominum) nel
contesto di un eloquio normalmente fluente, buona ripetizione e
comprensione.

1.4 IL LINGUAGGIO E LE SUE CARATTERISTICHE


Il linguaggio è un sistema di comunicazione peculiare del genere umano,
estremamente potente a causa di alcune sue proprietà:
è un codice arbitrario: l’arbitrarietà si riferisce al rapporto tra i segni (per

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es. la parola tigre) e il loro significato (l’animale tigre); non c’è nulla nella
parola tigre che abbia un rapporto con il suo significato. Solo per le parole
onomatopeiche (es. borbottare) è possibile trovare un legame tra suono e
significato.
è discreto: la differenza tra due unità non è graduale ma assoluta. La
differenza tra i fonemi /p/ e /b/ da un punto di vista articolatorio consiste solo
nella sonorità; entrambi i fonemi sono occlusivi e bilabiali, ma /p/ è sordo e /b/
è sonoro.
è aperto: i fonemi che compongono la parola “male” per esempio, possono
essere scomposti e ricomposti a formare la parola “lame” e la parola “male”
può essere inserita in messaggi diversi (“mi fa male un piede”, “ho fatto male
l’esame”) consentendo alla lingua una grande economicità perché con poche
unità si può comporre un numero molto ampio di messaggi.
è ricorsivo: la ricorsività è una proprietà delle grammatiche che consente a
un insieme finito di regole di generare un insieme infinito di strutture. Una
regola è ricorsiva quando la stessa regola può essere riapplicata alla frase che
ha prodotto. Es.: “Il cane che è di Mario”; la regola è ricorsiva è può
nuovamente essere applicata; è possibile dire: “Il cane che è di Mario che è
mio cugino”.

1.5 SISTEMA SEMANTICO E LESSICALE


Con l’espressione sistema semantico-lessicale ci si riferisce a tutte le
conoscenze che un soggetto ha relativamente alle parole. Le conoscenze
lessicali hanno una loro organizzazione interna ed è proprio questa
organizzazione che è rappresentata dal sistema semantico-lessicale.

1.5.1 Il sistema semantico


Il sistema semantico è rappresentato da tutte le conoscenze relative ad un
concetto (es. lupo è un animale, quadrupede, felino, che ulula, carnivoro,
ecc.). Le conoscenze semantiche sono segregate in modo tale che un danno al
sistema semantico può apparire come un danno selettivo per la categoria di
concetti animati o inanimati, ma non vi è consenso in merito alla questione se
l’organizzazione del sistema semantico sia effettivamente categoriale o se le
conoscenze non siano piuttosto segregate per tipo di informazione.

1.5.2 Il sistema lessicale


Il sistema lessicale è rappresentato da tutte le conoscenze relative alla forma
della parola che rappresenta il concetto (es. lupo è una parola di quattro
lettere, un nome maschile singolare, ecc.). La componente lessicale è a sua
volta composta da sotto-componenti separate per modalità (input e output) e
codice (fonologico e ortografico) e le quattro componenti lessicali sono
connesse con la componente semantica. Non è infatti possibile né capire né
produrre una parola se non si accede al suo significato. Inoltre, le quattro

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componenti lessicali hanno la stessa organizzazione interna.

1.5.3 I buffer
I buffer sono memorie di lavoro e servono a mantenere in memoria l’input fino
a quando questo non viene processato dal modulo successivo che, per quanto
riguarda i due buffer di input, sono i rispettivi lessici fonologico e ortografico;
per quanto riguarda i due buffer di output l’operazione successiva consiste
nella produzione, orale o scritta, della parola.

1.5.4 I meccanismi di conversione


I meccanismi di conversione permettono di operare anche su parole nuove che
leggiamo o ascoltiamo per la prima volta e che, per definizione, non sono
rappresentate nel lessico. E’ quindi necessario presupporre l’esistenza di
meccanismi che operino su stringhe di fonemi o grafemi che ancora non fanno
parte del lessico. L’esistenza di questi meccanismi di conversione, oltre ad
apparire logica per il solo fatto che soggetti letterati sono in grado di leggere
e scrivere parole a loro ignote, è confermata dalla descrizione di soggetti
afasici con danni specifici della lettura o della scrittura di non parole, mentre
sono tuttora in grado di leggere e scrivere parole note. Soggetti con un danno
selettivo nella lettura di non parole sono stati descritti da Dérouesné &
Beauvois (1979), Beauvois & Dérouesné (1979,1985), e Cuetos et al, (1996) e
soggetti con un danno selettivo nella scrittura di non parole sono stati decritti
da Assal et al, 1981, Shallice (1981) Bub & Kertesz (1982), Baxter &
Warrington (1983) e Kremin (1987).

1.6 I DANNI FUNZIONALI


Finora è stata esaminata, nelle sue linee essenziali, la struttura di un modello
a due vie del sistema semantico-lessicale e l’organizzazione interna delle sue
componenti. Nel momento in cui si presenta un danno si verificano delle
conseguenze a ciascuno di questi componenti o processi.

1.6.1 Al sistema semantico


Un danno al sistema semantico provoca errori in tutti i compiti che
necessitano di accedere al concetto. La componente semantica è direttamente
connessa con le quattro componenti lessicali; ci saranno quindi degli errori in
tutti i compiti di comprensione e di produzione. Lettura ad alta voce e dettato
possono essere correttamente eseguiti tramite i meccanismi di conversione,
che non sono tuttavia sufficienti per leggere e scrivere correttamente parole
irregolari che richiedono necessariamente di essere processate attraverso il
lessico. Anche per la ripetizione il modello prevede l’esistenza di una via non
lessicale che consente di ripetere parole che vengono udite per la prima volta.

1.6.2 Ai lessici

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Un danno al lessico fonologico di input può tradursi in una riduzione delle


parole note. Tale riduzione è generalmente più importante per le parole di
bassa frequenza e può essere limitata ad una classe grammaticale.
Sostanzialmente le stesse osservazioni si possono fare a proposito di un danno
al lessico ortografico di input.
Molto diversa è la situazione per i lessici di output. Un danno a questo livello
è presente nella quasi totalità dei soggetti afasici come indicato dalla
onnipresenza di anomie che suggeriscono un danno al lessico di output. Il
danno può essere specifico per parole appartenenti ad una classe
grammaticale e possono essere meno compromesse le parole di uso molto
frequente.

1.6.3 Ai buffer
Una conseguenza diretta di un danno a qualunque di queste memorie di
lavoro è l’effetto lunghezza; tanto più lungo è lo stimolo da processare, tanto
maggiori sono le possibilità di errore. Un danno molto grave al buffer
fonologico di input può dare origine alla cosiddetta sordità verbale,
caratterizzata da un disturbo selettivo nella comprensione del linguaggio
parlato.
Analogamente, un danno al buffer ortografico di input rende difficile
l’identificazione dei singoli grafemi con una conseguente difficoltà di lettura.
Un danno a un buffer di output causa errori nella produzione fonologica od
ortografica dello stimolo, errori che sono tanto più frequenti quanto più lungo
è lo stimolo da processare.

1.6.4 Ai meccanismi di conversione


Un danno ad uno qualunque dei meccanismi di conversione non dovrebbe
avere alcun effetto sulla elaborazione delle parole note, ma rende difficoltosa
l’elaborazione di parole nuove. Un soggetto con un danno ai meccanismi di
conversione grafema-fonema, per esempio, ha difficoltà nella lettura di parole
nuove, mentre un danno ai meccanismi di conversione fonema-grafema rende
difficoltosa la scrittura di parole nuove.

1.7 PRINCIPALI ALTERAZIONI NELLA PRODUZIONE DEL LINGUAGGIO


Nel paziente afasico si possono verificare tre tipi di alterazioni:
Alterazione della fluenza verbale (afasia non fluente – afasia fluente)
Alterazioni della struttura della frase
a) disturbi di contiguità:
agrammatismo: (omissioni e sostituzioni di articoli, preposizioni, congiunzioni
e pronomi personali; sostituzioni di verbi; perdita delle costrizioni sintattiche;
alterazione della melodia del linguaggio; mancata comprensione dei termini
grammaticali e delle inflessioni derivanti; frasi incomplete e mescolanza di
forme grammaticali diverse);

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paragrammatismo: forma sintattica relativamente preservata ma ricca di


elementi grammaticali e strutture sintattiche inappropriate;
b) disturbi di selezione:
anomia: difficoltà a trovare la parola voluta. La parola mancante può non
essere sostituita o può essere usata una circonlocuzione al posto della parola
cercata.
Vi possono essere produzioni verbali abnormi quali:
stereotipie: qualsiasi elemento verbale (frammento sillabico, parola senza
senso o parola significativa) emesso iterativamente di fronte a stimoli diversi;
parafasie semantiche: il paziente produce un’altra parola che generalmente
possiede alcune caratteristiche semantiche della parola bersaglio come cane,
gatto, parafasia verbale);
parafasie non correlate: parole che non sono semanticamente o
fonologicamente correlate;
neologismi: una nuova unità non esistente nella lingua che non ha nessuna
somiglianza fonologica con la parola bersaglio (ostrumo per tavolo).
3) Alterazioni della struttura della parola
a) parafasie fonetiche:
- sostituzioni (terra – ferra);
- semplificazioni (ippopotami – ippotami);
- addizioni (papa – papra);
- spostamenti (sudicio – sucido);
b) parafasie fonetiche:
- distorsione acustica dei suoni;
- modificazione dell’intonazione;
- eloquio laborioso con omissioni, sostituzioni ed addizioni;
- emissione esplosiva o scandita.

1.7.1 Altri ambiti compromessi


Alessia o dislessia: disturbi nella lettura di parole, non parole, frasi,
testo/comprensione della lettura. La persona afasica non riesce più a leggere
né ad alta voce, né a mente;
Agrafia o disgrafia: disturbi di scrittura di parole, non parole, frasi in
produzione spontanea, sotto dettato, nella copia. Gli afasici che non parlano o
che sbagliano a parlare, spesso incontrano difficoltà nella scrittura;
Acalculia: difficoltà nel fare conti o nel leggere e scrivere numeri;
Aprassie – gestualità: l’afasico ha difficoltà ad organizzare volontariamente dei
movimenti anche con l’arto non paralizzato, mentre sono conservati movimenti
automatici;
Disturbi di memoria e di attenzione: (emianopsia, neglect, eminattenzione).
Aspetti non verbali della comunicazione riguardano la “prosodia” ossia il
ritmo, la melodia e l’intonazione della frase.

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1.8 CENNI SULLA TEORIA DELLA CONVERSAZIONE


L’analisi della conversazione è un aspetto della linguistica pragmatica di cui si
sono occupati alcuni filosofi del linguaggio come Griece (1975) e Searle
(1979). La linguistica pragmatica studia l’uso del linguaggio nel suo contesto
e quasi tutti i concetti della pragmatica sono strettamente legati alla
conversazione che è il tipo fondamentale di uso del linguaggio. Per un
parlante normale il portare avanti una conversazione non presenta alcun
problema, ma una analisi di quello che avviene durante lo scambio
comunicativo dimostra come in realtà conversare non sia un fatto banale. Di
solito non si parla per ascoltarsi, ma per ottenere uno scopo preciso. I
partecipanti ad una conversazione si avvicendano nel ruolo di parlante e
ascoltatore e con il procedere di una conversazione riuscita acquisiscono
conoscenze comuni. Grice (1975) ritiene che la conversazione è guidata da un
insieme di massime convenzionali. Secondo Grice, le massime servono come
punti d’orientamento per interpretare quanto ci viene detto e scegliere cosa
dire o come comportarsi. Le massime convenzionali proposte da Grice sono:
- qualità: fornire un contributo vero;
- quantità: fornire un contributo che soddisfi la richiesta di informazione, né
più né meno informativo di quanto richiesto;
- relazione: fornire un contributo pertinente;
- modo: fornire un contributo chiaro.

CAPITOLO 2

REVISIONE DELLA LETTERATURA

2.1 EPIDEMIOLOGIA DELL’AFASIA AL PRIMO STROKE


Engelter et al (2006) hanno condotto uno studio della durata di 1 anno sulla
popolazione residente nel Cantone della città di Basilea, in Svizzera, per
valutare l’incidenza e i fattori determinanti dell’afasia attribuibili al primo
evento stroke. Da questo studio è emerso che tra i 188.015 abitanti, 269
avevano avuto uno stroke per la prima volta e di questi, 80 erano afasici. Il
tasso di incidenza dell’afasia attribuibile al primo evento stroke era di 43 per
100.000 abitanti. Il rischio di afasia attribuibile al primo stroke è aumentato
del 4% per ogni anno di età dei pazienti. Il sesso non ha avuto alcun effetto
sull’incidenza, sulla gravità o sulla fluenza dell’afasia. La cardio embolia è
stata più frequente nei pazienti afasici rispetto a quelli non afasici.
Dallo studio condotto da Sène Diouf et al (2008) su 170 pazienti con ictus
ricoverati presso il dipartimento di Neurologia di Dakar dall’agosto 2003 al

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maggio 2005, di cui 55 afasici, tutti destrimani, età media 56,8 (dai 28 agli 86
anni), il 76, 36% non poteva né leggere né scrivere, solo 2 degli esaminati
avevano titoli di studio superiori, è emerso che la natura dell’ictus è stata
ischemica nel 73,7% dei casi ed emorragica nel 26,3% dei casi. L’afasia con
menomazione del linguaggio espressivo è stata osservata nel 96,4% contro il
3,6% dei casi di afasia con menomazione nella comprensione del linguaggio.
Dopo un anno si è osservata una regressione dei disturbi solo in 9 casi e la
regressione parziale in 25 casi. L’evoluzione dell’afasia era correlata al deficit
motorio.

2.2 L’AFASIA NELLA FASE ACUTA E LA SUA EVOLUZIONE


Lo studio di Brust et al (1976) descrive l’afasia in pazienti nella fase acuta
post ictus registrati dal “Harem Regional Stroke Program”. Sono stati presi in
considerazione, per 12 settimane, 850 pazienti di cui 177 (21%) erano afasici;
di questi, 9 avevano un’afasia di Broca, 24 di Wernicke, 14 anomica, 10 da
conduzione, 7 erano del tipo “isolamento” e 107 mista. Si è ottenuto un
inatteso risultato: una significativa prevalenza di rappresentanza maschile tra
i pazienti affetti da afasia non fluente. Durante le seguenti 4 delle complessive
12 settimane, il 12% degli afasici fluenti è morto e il 12% è rimasto
moderatamente o gravemente menomato. Tra i sopravvissuti l’afasia è
migliorata nel 74% dei casi e nel 44% è stata risolta completamente. Durante
lo stesso periodo, il 32% degli afasici non fluenti è morto e il 34% si è
moderatamente o del tutto ridotto. Tra i sopravvissuti l’afasia è migliorata nel
52% dei casi e solo nel 13% è stata risolta completamente. In entrambi i
gruppi di afasici fluenti e non fluenti, sono stati associati con prognosi
infausta casi di emiparesi e/o riduzione del campo visivo.
Le afasie vascolari sono spesso gravi alla fase acuta, una constatazione
spiegata in parte dalla presenza di un precedente ictus; l’effetto dell’età
interessa principalmente per la sua influenza sulla localizzazione dell’infarto e
il principale determinante delle caratteristiche dell’afasia dipende dal punto
in cui si verifica la lesione come dimostra lo studio condotto da Godefroy et al
(2002). Lo studio ha interessato 308 pazienti dopo un evento stroke. L’afasia è
stata osservata in 207 pazienti; le afasie globali e non classificate
rappresentavano il 50% delle sindromi afasiche alla fase acuta, mentre le
afasie classiche (di Wernicke, di Broca, transcorticale e subcorticale) sono
state meno frequenti (40%). Le età differivano solo per le sindromi afasiche di
pazienti con ictus ischemico. I pazienti con afasia di conduzione erano più
giovani mentre quelli con afasia subcorticale erano più anziani. Il sesso non
incide in modo significativo sulle sindromi afasiche. La presenza di un
precedente ictus è più frequente nelle afasie non classificate.
Pedersen et al (2004) hanno condotto uno studio (The Copenaghen aphasia
study) per determinare il tipo, la gravità e l’evoluzione dell’afasia su pazienti
con ictus nella fase acuta ed individuare eventuali fattori predittivi per la

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valutazione del linguaggio ad 1 anno dopo l’evento. Lo studio ha incluso 270


pazienti, 203 dei quali avevano avuto l’ictus per la prima volta, ricoverati
presso 3 ospedali a Copenaghen, valutati con il Western Aphasia Battery e
rivalutati dopo 1 anno dall’evento. Durante la fase acuta si sono verificati i
seguenti tipi di afasia: globale 32%, di Broca 12%, transcorticale motoria 4%,
di Wernicke 16%, transcorticale sensoriale 7%, di conduzione 5% e anomica
25%. Questo studio, inoltre, mette in evidenza il fatto che il tipo di afasia è
sempre regredito ad una forma meno grave durante il primo anno: l’afasia non
fluente potrebbe evolvere in afasia fluente (ad es. da globale a quella di
Wernicke e da quella di Broca ad anomica) così come un’afasia fluente non
evolve mai in un’afasia non fluente. Gli outcomes per la funzione del
linguaggio vengono predetti dalla gravità iniziale dell’afasia e dalla gravità
iniziale dello stroke (valutate dalla Scandinavian Stroke Scale), ma non
dall’età, sesso o tipo di afasia. Lo studio di Inatomi et al (2008) condotto su
855 pazienti con stroke acuto (di cui 130 afasici) entro 48 ore dall’evento e
dopo 10 giorni, evidenzia come il miglioramento si è osservato in 56 afasici su
121 ancora vivi al decimo giorno. Inoltre è emerso che una storia di
ipercolesterolemia è stata un significativo fattore indipendente associato al
miglioramento precoce dell’afasia durante la fase acuta.
Un recente studio di Dewarrat et al (2009) aveva lo scopo di evidenziare le
menomazioni causate da ictus che colpisce l’emisfero destro versus sinistro.
Sono stati inclusi nello studio 16 pazienti destrimani, mancini e ambidestri
con lesione all’emisfero destro e un gruppo di controllo di 25 pazienti afasici
con lesione all’emisfero sinistro. Per ogni paziente sono state analizzate
quattro modalità di linguaggio (fluidità spontanea, denominazione, ripetizione
e comprensione) al momento del ricovero (fase iperacuta) e tra il 3° e 14°
giorno. Lo studio ha messo in luce che la comprensione e la ripetizione sono
state meno alterate dopo un ictus all’emisfero destro solo nella fase iperacuta,
mentre la fluidità spontanea del linguaggio e la denominazione non hanno
subito particolari variazioni. Danni a carico della comprensione e problemi di
ripetizione sono più spesso associati a lesioni dell’emisfero anteriore destro.
Secondo una revisione della letteratura effettuata da Vanhook (2009) ci sono
3 aree di recupero dopo lo stroke: fisica, psicologica e sociale. Esistono 6
categorie che includono le 3 aree: cognizione, funzione, percezione della
salute, concetto di sé, relazioni e cambio di ruolo.

2.3 LA QUALITA’ DELLA VITA NEL PAZIENTE AFASICO


Lo studio condotto da Carod-Artal & Egidio (2009) ha sottolineato che la
compromissione della funzionalità dell’arto superiore provocata dallo stroke
colpisce l’85% dei pazienti e a 3 mesi persiste per il 55-75%. In molti pazienti
con stroke la disabilità resta stabile tra 6-9 mesi e 5 anni dopo lo stroke. Le
disabilità verificatesi sono state osservate tra i pazienti più anziani a 6 mesi
dopo lo stroke nello studio Framingham: 50% ha riportato emiparesi, il 30% è

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incapace di camminare senza assistenza, il 26% è dipendente nelle ADL, il


19% presenta afasia, il 35% presenta sintomi depressivi e il 26% è stato
ricoverato in una struttura assistenziale.
Il cervello media ed integra tutte le attività cognitive ed emotive nonché le
esperienze comportamentali. Lo stroke è senza dubbio una disabilità
“privilegiata” per quanto riguarda gli studi del comportamento umano a causa
della sua elevata incidenza. Le teorie più recenti integrano modelli cognitivi e
neuropsicologici con le caratteristiche anatomiche raggruppando le attività
emisferiali in 3 funzioni: strumentale, fondamentale ed esecutiva. Ogni
funzione deriva da attività di diverse aree cerebrali e di sistemi che svolgono
il proprio ruolo nel processo cognitivo, emozionale e senso-motorio. Nel loro
studio, Carota et al (2002) hanno adottato un modello anatomico-funzionale al
fine di sistematizzare la recente letteratura sui cambiamenti emotivi,
comportamentali e dell’umore dei pazienti dopo lo stroke. Da questo studio è
emerso che la disfunzione delle funzioni esecutive induce a cambiamenti
comportamentali ed affettivi (come depressione, ansia ed apatia); al contrario,
le lesioni del sistema relativo a funzioni strumentali induce a sintomi quali
afasia ed agnosia.
Le persone con seri problemi legati al linguaggio come i pazienti afasici,
soffrono non solo di problemi legati alla comunicazione, ma principalmente
per il deterioramento del loro stato sociale che cambia la qualità della loro
vita. (Kulik et al 2003).
Diaz-Tapia et al (2008) hanno condotto uno studio sulla qualità della vita e
sullo stato neurologico dei pazienti dopo 3 anni dal loro primo stroke. Sono
stati scelti pazienti con danno cerebrovascolare e classificati in categorie da
I63 a I69. Sono state utilizzate la Modified Rankin Scale (MRS) e la “SF-36
Health Questionnaire”. Dallo studio si è visto che su un totale di 59 pazienti
circa la metà (29 pz.) presentavano alcune disabilità (MRS=2). 30 pazienti
erano indipendenti o presentavano minime conseguenze (MRS=1) alla fine del
follow-up. La qualità della vita misurata con la SF-36 Questionnaire diminuisce
progressivamente all’aumentare del punteggio della MRS, specialmente nel
gruppo con MRS=3. Sebbene il gruppo più giovane (26-36 anni) abbia
ottenuto un punteggio migliore (84 punti) con la SF-36, non sono state trovate
differenze significative con i restanti gruppi. Il gruppo dai 75 anni in su ha
ottenuto il punteggio medio più basso (63 punti).
La revisione sistematica della letteratura effettuata da Dalemans et al (2008)
aveva lo scopo di identificare e descrivere il grado di partecipazione sociale
delle persone con afasia. Sono stati reperiti 12 strumenti, 2 dei quali non sono
stati presi in considerazione perché ritenuti inadatti. I 10 strumenti rimanenti
vennero testati da 6 logopedisti e 2 di questi vennero ritenuti idonei per l’uso
in persone con afasia per quanto riguarda la fattibilità, la coerenza, la validità
e l’affidabilità. Questi 2 strumenti sono: “The Community Integration
Questionnaire (CIQ)” e “The Nottingham Extended Activites of Daily Living

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(NEADL)”. I risultati ottenuti dimostrano che la CIQ può essere adatta per le
persone con afasia quando si misura la partecipazione, ma i dati sulle
proprietà psicometriche nelle persone con afasia sono assenti.

2.4 EFFETTI DELL’AFASIA SUI CAREGIVER


Clark (2003) attraverso uno studio che includeva 93 caregiver ha dimostrato
l’attendibilità e la validità della “Family Caregiver Conflict Scale” (FCCS).
Questa scala, composta da 15 items, sembra essere valida e può fornire
informazioni circa i conflitti familiari legati all’assistenza dei pazienti con
stroke e gli interventi centrati sulle famiglie.
Lo studio di Clark et al (2004) ha dimostrato quanto la funzionalità motoria, la
memoria, il cambiamento di comportamento e i conflitti familiari dei pazienti
con stroke influiscano sulla salute mentale e fisica dei caregiver. I dati sono
stati ottenuti da 132 famiglie caregiver di pazienti al primo stroke. Il 66% dei
caregiver ha riportato conflitti familiari; i caregiver di pazienti con bassa
funzionalità riportano uno stato mentale peggiore e hanno riportato un più
basso livello di salute quando hanno preso in carico pazienti con una
combinazione di alto livello di memoria/cambio di comportamento e bassa
funzionalità motoria. Una buona educazione e assenza di problemi di salute
sono stati associati ad una migliore salute fisica dei caregiver.
Lo studio condotto da Hilari et al (2007) ha esaminato l’intesa tra le persone
con afasia e i loro caregiver e se questa intesa è influenzata da variabili
demografiche, livelli di depressione dei caregiver e dal tipo di caregiver. 50
coppie hanno partecipato allo studio. Le persone con afasia sono state
intervistate sulla base della “Stroke and Aphasia QoL Scale (SAQOL-39)” e i
caregiver sulla SAQOL-39 , sul “General Health Questionnaire” e sul
“Caregiver Strain Index”. I caregiver hanno valutato i pazienti con afasia con
un punteggio più alto rispetto al punteggio ottenuto dai pazienti stessi. Le
variabili demografiche, l’umore e il tipo di caregiver non hanno inciso sul
livello di intesa.
In seguito ad uno studio condotto da Lynch et al (2008) attraverso un focus
group di 9 pazienti sopravvissuti allo stroke e 6 caregivers, è emerso che la
qualità della vita dopo lo stroke dovrebbe includere una valutazione delle
funzioni e del sostegno sociali.
Lo studio di Franzèn-Dahlin et al (2008) i cui partecipanti erano i caregiver di
71 pazienti depressi e di 77 afasici post-stroke, ha messo in evidenza che la
percezione del bisogno di assistenza è stato l’unico comune predittore di
qualità di vita in entrambi i gruppi.
Greenwood et al (2009) hanno effettuato una revisione sistematica di 17 studi
qualitativi tra il 1996 e il 2006 che trattano delle esperienze di cura per i
pazienti sopravvissuti allo stroke e sottolineano il fatto che prendersi cura di
questi pazienti è impegnativo, ma spesso l’attenzione è incentrata sulle
difficoltà che si incontrano e non sul successo ottenuto dall’utilizzo di

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strategie di gestione e sulle soddisfazioni riportate dai caregiver.


Un ulteriore studio di Greenwood et al (2009) condotto attraverso l’attuazione
di 81 interviste a 31 caregiver di pazienti con stroke nelle due unità di
riabilitazione del sud-ovest di Londra, ha evidenziato come la presa in carico
di pazienti con stroke da parte dei caregiver riveli una notevole incertezza e
come questa incertezza sia un elemento centrale nella vita dei caregiver
stessi. Per questo dovrebbe essere riconosciuta dai medici e dal personale di
assistenza. Inoltre, l’autore sottolinea l’importanza di favorire l’identificazione
degli aspetti positivi dell’assistenza come aiuto per gestire le sfide e
l’incertezza create dallo stroke.
Ferro et al (2009) sottolineano come i disturbi emotivi e comportamentali
siano frequenti complicanze che si possono verificare in seguito ad uno stroke.
Per i caregiver di questi pazienti, questi disturbi sono una delle principali
cause di difficoltà.

2.5 LA DEPRESSIONE POST STROKE


I disturbi dell’umore come la depressione, l’ansia, il disturbo post traumatico
da stress si verificano nel 1° anno dopo lo stroke, ciascuno di essi in circa il
20-30% dei pazienti. Il rischio sembra essere maggiore, almeno per la
depressione, nei primi mesi post-stroke. Alcuni pazienti guariscono
spontaneamente, ma i sintomi persistono fino ad 1/3. (Murray, 2004).
Lo studio di Franzén-Dahlin et al (2006) condotto su 71 diadi di pazienti con
diagnosi di depressione post-stroke (valutata con la “Montgomery-Asberg
Depression Rating Scale”, in accordo con la diagnosi del DSM-IV) e i loro
caregiver, mette in luce il fatto che la maggior depressione post-stroke è più
comune nei pazienti con deficit funzionali limitati. Inoltre, questo studio,
sottolinea l’importanza di individuare le diverse esigenze dei caregiver al fine
di fornire un adeguato supporto nel loro ruolo.
Lo studio di Laska et al (2007) condotto su 89 pazienti con tutti i tipi di afasia,
valutati a tempo 0 e dopo 6 mesi dallo stroke, ha confermato che la diagnosi di
depressione e valutazione della sua gravità (secondo i criteri del DSM-IV, la
“Montgomery-Asberg Depression Rating Scale” e la “Clinical Global
Impressions Rating Scale for Severity”), può essere fatta in modo affidabile
nella fase acuta in almeno 2/3 dei pazienti afasici e la fattibilità aumenta nel
tempo.
Townend et al (2007) hanno esaminato i metodi che sono stati usati per
diagnosticare la depressione e l’adattamento di questi metodi alle persone
afasiche. Sono stati considerati 60 studi che hanno incluso 8242 persone.
Quasi la metà degli studi (29/60) presentava diagnosi di depressione
effettuata per lo più usando un colloquio clinico. I metodi includevano: l’uso
di informatori (parenti o personale sanitario), l’osservazione clinica e la
modifica delle domande e delle scale analogiche visive. La prova della validità
o l’affidabilità di questi adattamenti raramente è stata riferita tuttavia, l’uso

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degli informatori o l’osservazione clinica ha fatto raggiungere l’inclusione


della maggior parte delle persone con afasia nella diagnosi di depressione.
Berg et al (2009), in uno studio condotto su 100 pazienti, hanno messo a
confronto più scale per evidenziare le loro possibili differenze in termini di
prestazioni per valutare la depressione dopo lo stroke. Dallo studio è emerso
che la “Beck Depression Inventory”, la “Hamilton Rating Scale per la
depressione” e la valutazione clinica globale delle impressioni da parte dei
professionisti, in aggiunta al manuale diagnostico e statistico dei disturbi
mentali (DSM IV), sono utili per valutare la depressione, ma nessuno di questi
strumenti differisce nettamente dagli altri. Inoltre, l’utilizzo della “Visual
Analogue Scale Mood” ai pazienti con afasia e altri con indebolimento
cognitivo non può essere raccomandato.

2.6 COMUNICARE CON IL PAZIENTE AFASICO


Demeurisse (1999) spiega che il ruolo degli operatori sanitari ed il
comportamento dei parenti sono aspetti da prendere in considerazione per
comunicare con un paziente afasico. Come regola generale, un dialogo in un
ambiente tranquillo renderà più facile la comunicazione. L’atteggiamento
dell’operatore sarà modulato in base al comportamento del paziente, al suo
passato e al suo quadro clinico. Allo stadio iniziale della malattia saranno
utilizzati i mezzi di comunicazione verbale, successivamente verranno
utilizzati tutti i metodi (verbale e non verbale). La revisione della letteratura
effettuata da Tacke (1999) sottolinea il fatto che gli infermieri che lavorano
negli ospedali generali raramente puntano la loro attenzione sulle esigenze
individuali dei pazienti, con la conseguenza che vi è poca o nessuna
interazione tra i pazienti con afasia e chi presta loro assistenza. Questo
contribuisce all’instaurarsi di isolamento e depressione. Molti studi hanno
dimostrato che la comunicazione è possibile anche quando vi sono gravi
disturbi del linguaggio. In tutti i tentativi di favorire la comunicazione, la cura
e l’attenzione mostrata dagli infermieri nei confronti dei pazienti afasici è di
importanza decisiva. Per far luce sul fenomeno della comunicazione con
persone afasiche, Sundin et al (2000) hanno raccolto l’esperienza di 10
infermiere che hanno prestato la loro assistenza in un reparto di riabilitazione
e che hanno ottenuto particolare successo nella comunicazione con i pazienti
afasici. Dalle interviste sono emersi 2 temi principali:
- la facilitazione all’apertura
- la comunicazione senza parole
Le infermiere percepivano le sensazioni dei pazienti e sperimentavano
sentimenti simili, quindi la comunicazione era guidata da sentimenti condivisi
tra le assistenti ed i pazienti. Per questo la “comunicazione attraverso la
sensazione” ha luogo attraverso una serie di fattori necessari:
- attuare una vicinanza creativa in combinazione con una distanza protettiva;
- adoperarsi per la soddisfazione in opposizione alla stanchezza e alla

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disperazione;
- incontrare il paziente a metà strada per ottenere la comprensione;
- dimostrare attenzione e accessibilità al paziente;
- dimostrare fiducia e confidenza sia per gli assistenti che per i pazienti.
Capire ed essere capiti è un aspetto importante della qualità dell’assistenza;
per questo Sundin & Jansson (2003) hanno video registrato 5 infermieri con
alta competenza relazionale con pazienti aventi difficoltà di comunicazione e 3
pazienti afasici durante le attività di assistenza mattutine. Dallo studio è
emerso che gli infermieri trasmettevano continuamente la loro presenza ai
pazienti e fornivano la loro disponibilità in un rapporto intersoggettivo stretto
e aperto; inoltre, un’atmosfera rilassata e supportiva facilitava la reciprocità
tra infermiere e paziente. La comunicazione non era tecnica o strategica, ma
gli infermieri prendevano parte alle esperienze dei pazienti attraverso un
dialogo silenzioso che comportava la condivisione dei sentimenti dei pazienti e
quindi la ricezione dei messaggi da parte dei pazienti stessi. Fursland (2005)
afferma che comunicare con le persone afasiche può essere denso di difficoltà,
sia per il paziente che per gli infermieri; pertanto, suggerisce la
frequentazione di un corso sulla comunicazione che può contribuire a rendere
gli “ambienti” più familiari. Murphy (2006) ha esplorato le priorità delle
persone con disabilità comunicative e quelle dello staff. Dallo studio effettuato
attraverso 8 focus group, è emerso che le principali priorità per lo staff erano
il bisogno di maggior formazione e competenza in merito alla comunicazione in
termini di servizi alla persona. Le principali priorità per le persone con
difficoltà di comunicazione erano la continuità dell’équipe, la fiducia, le
migliori strategie di comunicazione dello staff e la riduzione della dipendenza
nei confronti dei caregivers.
Liechty (2006) testimoniando la propria esperienza di afasico per più di 25
anni, invita i professionisti sanitari a relazionarsi con le persone afasiche con
pazienza, ascolto attivo e motivazione per il successo. La revisione sistematica
della letteratura condotta da Finke et al (2008) per quanto riguarda i
seguenti temi:
- l’importanza della comunicazione;
- le barriere per una comunicazione efficace;
- i supporti necessari per una comunicazione efficace;
le raccomandazioni per migliorare l’efficacia della comunicazione tra
infermieri e pazienti con complesse esigenze di relazione, ha messo in luce che
sia infermieri che pazienti hanno evidenziato preoccupazione e frustrazione
quando la comunicazione non è adeguata; inoltre, l’utilizzo di strategie di
comunicazione aumentativa ed alternativa aiutano gli infermieri ed i pazienti a
migliorare la comunicazione stessa. Gordon et al (2009) hanno condotto uno
studio osservazionale che ha coinvolto 15 infermieri e 5 pazienti afasici. I dati
sono stati raccolti in 35,5 ore di videoregistrazione. Dallo studio è emerso che
il personale infermieristico ha controllato la conversazione solo relativamente

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alle attività assistenziali. Ciò può essere dovuto al fatto di non avere la fiducia
necessaria per tenere conversazioni con persone con problemi di
comunicazione. Gli infermieri necessitano di ricevere una formazione, di
rafforzare i programmi di riabilitazione della comunicazione e di impegnarsi
più a fondo con i pazienti nella loro assistenza, ma anche di avere una più
ampia cultura della partnership istituzionale che si sviluppa nei reparti. Bolte
Taylor (2009), neuroscienziata e ricercatrice universitaria, nel racconto della
sua esperienza che l’ha vista vittima di un ictus dal quale è guarita
completamente dopo 8 anni, ha fornito, nel duplice ruolo di medico e paziente,
degli spunti, dei consigli e dei suggerimenti terapeutici utili a coloro che
hanno subito un ictus e a coloro che li curano e li circondano. Alcuni consigli
sono:
Non sono stupida, sono ferita. Rispettatemi.
Avvicinatevi e parlatemi lentamente scandendo le parole con chiarezza.
Quando mi spiegate qualcosa, fosse anche per la ventesima volta, usate la
stessa pazienza della prima.
Rivolgetevi a me con amore e pacatezza, senza fretta.
Fate attenzione a ciò che mi comunicate con il linguaggio corporeo e le
espressioni del volto.
Guardatemi dritto negli occhi. Sono qui, venite a cercarmi. Incoraggiatemi.
Non alzate la voce, per favore: non sono sorda, solo ferita.
Insegnatemi le cose facendomele ripetere e rifare a pappagallo.
Fatemi domande che richiedono risposte precise e lasciatemi il tempo di
trovarle.
Parlate direttamente a me, non agli altri di me.
Non terminate le frasi per me né suggeritemi le parole che non ricordo. Ho
bisogno di far lavorare il cervello.
Festeggiate tutti i miei piccoli successi. Mi incoraggiano.

2.7 GLI EFFETTI DEL TRATTAMENTO DEL LINGUAGGIO NEL


PAZIENTE AFASICO

Lo studio di Lendrem e Lincoln del 1985 (che include 52 pazienti che sono
stati afasici per più di 4 settimane, che non hanno ricevuto alcun tipo di
terapia e che sono stati valutati ogni 6 settimane) descrive il miglioramento
delle abilità di linguaggio ed esclude dal miglioramento stesso l’effetto di
variabili quali età, sesso e tipo di afasia. Il livello di abilità del linguaggio a 6
mesi dopo lo stroke sembra che dipenda quasi esclusivamente dalla severità
dell’afasia.
Basso et al (1982) hanno messo in evidenza il fatto che le donne migliorano
significativamente molto più degli uomini nell’espressione orale, ma non nella
produzione scritta.
Demeurisse et al (1980) non hanno trovato differenze nel recupero tra i

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pazienti con afasia di Broca e di Wernicke, ma entrambe questi pazienti


migliorano molto di più rispetto ai pazienti con afasia globale.
Dalla revisione di Greener et al (2000) che hanno esaminato 60 studi per
verificare se la terapia logopedica nelle persone afasiche sia efficace o meno, è
emerso che non ci sono prove adeguate che ne confermino l’efficacia.
Bakheit et al (2007) hanno condotto uno studio per esaminare se la quantità
della terapia logopedica influenzi la ripresa dall’afasia. Allo studio hanno
preso parte 51 pazienti che sono stati sottoposti a 5 ore alla settimana di
logopedia (gruppo intensivo), 51 pazienti che sono stati sottoposti a 2 ore alla
settimana di logopedia (gruppo standard) e 19 pazienti che sono stati
sottoposti a 2 ore alla settimana di logopedia e sono stati trattati dal “National
Health Service” (NHS) staff. Dalla valutazione che è stata fatta a 4, 8, 12 e 24
settimane usando la “Western Aphasia Battery” è emerso che la terapia
logopedica intensiva non ha portato a significativi miglioramenti rispetto alla
terapia standard. Un minimo miglioramento dell’afasia si è avuto per quei
pazienti trattati nel gruppo NHS.
Breitenstein et al (2009) hanno voluto dimostrare l’efficacia della logopedia
intensiva (5-10 ore/settimana). Essi sostengono che non tutti i pazienti afasici
possono essere ugualmente adatti a questo tipo di terapia in quanto attira
notevolmente le risorse attentive e cognitive degli stessi. Dal loro studio è
emerso che:
- i pazienti nella fase acuta beneficiano molto dal trattamento logopedico
quando il consolidamento della memoria a lungo termine è relativamente
preservato;
- per la fase cronica le evidenze suggeriscono che l’intelligenza premorbosa,
nonché le funzioni attentive hanno effetti positivi sul successo della logopedia
intensiva.

CAPITOLO 3
LO STUDIO

3.1 LO STUDIO
E’ stato utilizzato un progetto di studio di tipo qualitativo perché ritenuto più
adatto per esplorare l’esperienza dei pazienti che hanno avuto, come
conseguenza di un evento stroke, l’afasia.

3.2 OBIETTIVI DELLO STUDIO


Gli obiettivi dello studio erano:
- Esplorare il vissuto esperienziale dei pazienti afasici durante e dopo

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l’ospedalizzazione;
- Individuare i comportamenti che hanno facilitato la relazione;
- Comprendere gli effetti dell’afasia nella vita di relazione delle persone.

CAPITOLO 4
MATERIALI E METODI

4.1 CAMPIONE
Per identificare il campione propositivo ci si è avvalsi della collaborazione del
Servizio di Logopedia dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Santa Maria
della Misericordia e dell’Associazione Italiana Afasici della Regione FVG, nella
persona della Presidente.
Per la selezione dei partecipanti si è scelto di rivolgersi all’Associazione
ipotizzando una maggior facilità di reclutamento di pazienti che, avendo
superato la fase critica successiva allo stroke, fossero maggiormente disposti a
dare il loro contributo per la ricerca.
I criteri di inclusione erano i seguenti:

- Pazienti con afasia fluente e non fluente;


- Lingua parlata: italiano o friulano;
- Assenza di precedenti problematiche legate al linguaggio;
- Assenza di alterazione dell’udito;
- Assenza di alterazione dello stato di coscienza.
Le persone individuate hanno accettato di essere intervistate ed hanno
espresso il proprio consenso (All. n. 1).

4.2 STRUMENTI
Si è ritenuto opportuno scegliere la tecnica dell’intervista in quanto appariva
lo strumento più appropriato a far emergere il vissuto delle persone afasiche.
L’intervista semi-strutturata viene svolta tra il singolo partecipante ed il
conduttore.
E’ stata proposta una “traccia” dell’intervista (All. n. 2) per facilitare il
compito del conduttore, nella consapevolezza, però, che la libertà espressiva
dei partecipanti doveva essere salvaguardata e stimolata proprio per
permettere di cogliere e comprendere gli aspetti più profondi del vissuto delle
persone.

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4.3 PROCEDURA DI RACCOLTA DEI DATI


Le interviste si sono svolte nello studio della logopedista che opera presso
l’Associazione Italiana Afasici della Regione Friuli Venezia Giulia con sede c/o
il Centro di Audiologia e Fonetica – U.O. ORL Azienda Ospedaliera “Santa
Maria della Misericordia” P.le Santa Maria della Misericordia, 15 – 33100
Udine.
E’ stato creato un setting accogliente per permettere ai partecipanti di
sentirsi a loro agio e di esprimere liberamente le loro esperienze. Le interviste
sono state realizzate dalla laureanda nelle mattinate dei giorni 21, 26 e 28
agosto 2009, 16 e 17 settembre 2009 e vi hanno preso parte 12 persone.
Per lo svolgimento dell’intervista si è proceduto seguendo le seguenti fasi:

Accoglienza e presentazione
E’ stato presentato ad ogni partecipante il progetto di ricerca. Ad ognuno di
loro è stato richiesto il consenso informato.

La conduzione dell’intervista
Si è iniziato con una domanda di apertura generale dando ai pazienti la
possibilità di ampliare la loro risposta; si è poi proseguito con l’affrontare
aspetti più specifici del loro vissuto porgendo delle domande che facessero
emergere le loro emozioni e le loro sensazioni. In conclusione è stata posta
una domanda più specifica, che richiedeva una spiegazione di cosa fosse
l’afasia, ma sempre secondo il proprio punto di vista.

Conclusione
Alla fine di ciascuna intervista si è lasciato lo spazio per eventuali integrazioni
dei partecipanti e si è proceduto con i ringraziamenti. E’ stato importante e
necessario rispettare i tempi di risposta delle persone, per cui il tempo
dedicato a ciascuna intervista non è stato omogeneo: media 34 min. (min. 15 –
max 53), DS 12.

4.4 RISERVATEZZA
Prima di procedere alla realizzazione di ciascuna intervista si è chiesto ai
partecipanti di firmare il consenso informato (All. n. 1) contenente tutte le
informazioni relative al trattamento dei dati. Durante le interviste ci si è
avvalsi di un registratore per poter, successivamente, trascrivere fedelmente
quanto emerso da ogni singola intervista. E’ stato garantito l’anonimato a tutti
coloro che hanno aderito all’iniziativa e i nomi delle persone, in corso di
trascrizione, sono stati sostituiti con dei numeri.

4.5 ANALISI DEI DATI


La descrizione dell’esperienza vissuta dai partecipanti ha raggiunto la

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saturazione con la dodicesima intervista: a questo punto si è ritenuto


opportuno sospendere la fase di raccolta dei dati e iniziare l’analisi degli
stessi. Tutte le interviste sono state di volta in volta fedelmente trascritte. La
trascrizione ha prodotto 61 pagine di testo a interlinea doppia. Le interviste
sono state poi lette più volte al fine di consentire l’immersione nei dati da
parte dei ricercatori; per l’analisi dei dati le interviste sono state inserite in
una tabella per permettere alla laureanda ed alla relatrice di individuare,
prima separatamente e poi congiuntamente, le unità di significato. Il consenso
sulle frasi/parole ridondanti, emblematiche, opposte ha portato
all’individuazione dei temi. Questi sono stati successivamente sostanziati dalle
citazioni dei partecipanti allo studio.

CAPITOLO 5

RISULTATI

5.1 DESCRIZIONE DEI PARTECIPANTI


Hanno partecipato allo studio 12 persone 11 delle quali hanno avuto un ictus
a livello antero laterale sinistro e 1 antero laterale destro (la persona è
mancina). 10 avevano un’afasia fluente e 2 non fluente. La distanza
dall’evento stroke andava da 2 mesi a 12 anni. L’età media dei partecipanti era
di 58 anni (min. 39 - max 76), DS 11,03. 6 erano di sesso maschile e 6 di sesso
femminile. 8 hanno riportato, oltre all’afasia, un’emiplegia alla parte destra
del corpo. 3 di loro hanno dovuto cambiare radicalmente la loro attività
lavorativa; 2 erano pensionati già prima del trauma; 2 svolgevano un’attività
prima dello stroke, ma dopo poco hanno raggiunto l’età pensionabile e 5
hanno continuato a svolgere la loro professione anche se con qualche
limitazione.
Dal processo di categorizzazione sopra descritto, sono stati individuati i
seguenti temi:
- l’esperienza della malattia: un ricordo che non muore;
- capire e non essere capiti: la rabbia e la paura;
- la stanchezza e la fatica per esprimersi e il valore della calma e della
pazienza;
- l’invisibilità dell’afasia fino al momento in cui ci si relaziona con qualcuno;
- cercare e trovare il senso di una nuova vita;
- la parola imprigionata.

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5.2 L’ESPERIENZA DELLA MALATTIA: UN RICORDO CHE NON MUORE


Il ricordo dei momenti legati all’esperienza della malattia è ancora vivo nella
maggior parte dei pazienti afasici. Nonostante siano passati anche diversi
anni, raccontare, spiegare, narrare “com’era prima”, sembra sia un’esigenza
ancora molto presente. Dai racconti riemergono soprattutto ricordi di
momenti drammatici dell’esordio dello stroke, ben prima dell’arrivo in
ospedale: dov’erano, cosa facevano, con chi erano, in una sorta di “ritorno al
passato” denso di emozioni, dettagli, particolari. Al tempo stesso emerge quasi
il timore di rievocare ricordi troppo dolorosi, che sarebbe preferibile lasciare
confinati in un tempo lontano, ma che la situazione attuale, in cui l’afasia è
ancora presente, impedisce di annullare completamente.

“Capita molto spesso di pensare a quando mi è accaduto. Io dicevo: “Perché


io? Perché io con quanto bene ho fatto? Perché?” E’ stato molto pesante, mi è
caduto il mondo addosso, la mia vita è cambiata da un momento all’altro! Sono
6 anni e non posso dire perché mi è accaduto questo. Per i primi 2 anni
pensavo che quello che mi è successo poteva ammazzarmi, nel senso che era
meglio che fossi morta…” (1).

“Quando mi è successo a casa io cercavo di avvisare però non mi veniva


niente. Non potevo chiamare mio marito, ero nel letto. Mi rendevo conto che
c’era qualcosa che non andava. Mi sono messa seduta e non riuscivo e ho
capito che il braccio non funzionava e neanche la gamba. Dopo è venuto mio
marito a svegliarmi e io ero sveglia e ha visto che avevo la bocca storta e
allora ha chiamato subito l’ambulanza e mi hanno portata in ospedale. Io non
mi rendevo conto al primo momento. Dopo 2 giorni mi sono resa conto di non
riuscire a parlare. Piangevo. Io dopo 1 mese ho detto 1 volta, 1 volta “mamma”
e dopo non sono più riuscita. Dopo ho detto “Lucia” che è il nome di mia figlia.
Mi è venuta da sola la parola. La ripetevo continuamente per metterla in
memoria” (2).

Non per tutti i partecipanti la consapevolezza di non riuscire a parlare è stata


immediata. Molti di loro l’hanno realizzata dopo qualche giorno o addirittura
dopo molto tempo; alcuni pensavano che fosse solo un momento passeggero,
altri che fosse una condizione che si poteva risolvere con qualche farmaco, ma
tutti hanno vissuto una vera e propria “frattura” fra il prima e il dopo che fa
precipitare in uno scenario tragico e drammatico, ma al tempo stesso come
“ovattato”, in cui si capisce che è successo qualcosa di grave, ma l’atmosfera
sembra sfumata, confusa, quasi sognante.

“Mi sembra un sogno. Non ci penso neanche. Bisogna sempre andare avanti,
mai tornare indietro perché se si torna indietro è finita!” (3).

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“Eh…io non mi sono reso conto subito anche perché gli infermieri e i familiari
non hanno dato molto peso alla cosa, ma hanno detto tutti che è un momento e
passerà, ma io ho capito, col tempo, che non è un momento e che non passerà”
(4).

“Certo; è stata una brutta esperienza per come ho vissuto il trauma. Mi


sentivo crollare il mondo addosso, tutto in discesa. Neanche non dormivo, non
chiudevo gli occhi per paura di non trovare il fondo allo scivolo. Questa è
stata la più brutta esperienza che ho avuto. E’ durata circa 1 mese. Mi sentivo
cadere come persona, non poter parlare, difficoltà a farsi capire, dovevo
gesticolare con la sinistra. E’ stata una cosa tremenda” (5).

“Io non sapevo che non riuscivo a parlare. E quando venivano a trovarmi
dicevo solo: “Ciao, ciao…” Ma non avevo molte cose da dire, io dicevo “ciao” e
basta! Forse ero un po’ confusa, non mi impegnavo molto. Poi, molto tempo
dopo, mi sono resa conto che non riuscivo a parlare. Io non so parlare!!!” (6).

5.3 CAPIRE E NON ESSERE CAPITI: LA RABBIA E LA PAURA


Il disagio e le difficoltà causate dall’impossibilità di non riuscire ad esprimersi
correttamente e di rispettare i tempi di una comunicazione “normale” da’ vita
a sentimenti contrastanti. Non poter dire a parole ciò che si pensa e pensare
che gli altri credano che non si capisca appare una vera e propria condanna e
provoca rabbia; ma si prova rabbia anche verso chi dovrebbe essere di aiuto e
sembra non capire (gli infermieri, per esempio) e verso chi dovrebbe stare
vicino “indipendentemente da” quello che è successo, ma sbaglia approccio o
fugge (parenti e amici). La capacità di comprendere il mondo esterno ma di
non poter interagire con esso e ancor più l’umiliazione di essere etichettato
come incapace di capire appare la sofferenza più devastante, più frustrante e
poco comunicabile che viene messa in luce dai partecipanti.

“Mi viene rabbia, sempre rabbia, c’è ancora rabbia, tanta rabbia… Tante volte
andavo al bar e dovevo dire: “Caffè”… Caffè o cappuccino? Per me era uguale.
“Brioche”… eh, brioche è bello, ma cos’è la brioche?... Non fai nulla, non
potevo neanche scrivere, neanche leggere, di conseguenza sei fuori, non fai
nulla! A me piaceva tanto la sera girare, fare… Adesso non faccio nulla. Vado a
dormire prestissimo, alle 9.30 – 10:00. Vado a pescare, da solo… i pesci non ti
dicono nulla!” (7).

“Io capivo tutto, ma avevo l’impressione che gli altri pensassero che io non
capivo. Venivano i medici a fare il giro alla mattina e mi dicevano: “Capisce
quello che diciamo?” E io dicevo con la testa SI’ e con la voce mi veniva solo
NO… (8).

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Dall’altra c’è la paura; la paura di non farcela, di restare fuori dal gioco, di
cambiare, forse, non tanto abitudini di vita, ma di diventare un’altra persona.
Ma soprattutto c’è la paura che la malattia si ripresenti.

“Dopo 3-4 mesi avevo paura ad andare fuori, mi dicevo: “Sei un reietto, un
handicappato”… Io sono andato al bar e nessuno mi ha detto niente, tutto
tranquillo. Quel momento mi ha dato fiducia a proseguire, avevo paura che mi
prendessero per matto, visto che non riuscivo a parlare bene” (9).

“Se ci penso sento molta paura, di tristezza meno, più paura. Preferisco non
pensare perché mi mette ansia” (10).

5.4 LA STANCHEZZA E LA FATICA PER ESPRIMERSI E IL VALORE


DELLA CALMA E DELLA PAZIENZA
Per chi soffre di afasia, quella che precedentemente era una funzione
scontata, richiede un’intenzionalità, concentrazione, impegno continui: e
questo implica un grande sforzo. Ed è proprio il senso della fatica che emerge
in tutta la sua pesantezza, una fatica che pare fisica, oltre che psichica. Ciò
appare evidente sia nei contenuti delle espressioni verbali degli intervistati,
sia nelle modalità con cui sono riusciti ad esternarli. Alla fatica per
raggiungere il risultato si associa spesso la stanchezza, quasi che l’energia
investita sia veramente spropositata e ci sia la necessità di riposo e un ritmo
più lento, di “ricaricarsi” per affrontare la vita, le relazioni, la quotidianità.

“Mi ricordo bene, non riuscivo a parlare. Era un dramma per me, perché
adesso non riesco a parlare come prima, adesso faccio più fatica” (11).

“Era difficile perché innanzi tutto non potevo neanche fare una telefonata. E
cosa devo fare? Non fai più nulla, non riuscivo a fare proprio nulla e dopo, una
cosa fondamentale, tanta stanchezza, una stanchezza da morire. Io di solito
dormivo 5 ore, adesso devo dormire minimo 8 ore, anche 9. E’ una grande
fatica! (12)”.

Questa sorta di nuova “lentezza” spesso pare scontrarsi con le esigenze del
mondo dei “sani” che incalzano di domande, hanno tempi stretti, hanno
interazioni veloci (e spesso inutili) e in questo contesto la persona afasica si
sente come estraniata, in una dimensione di incomunicabilità.
I concetti di calma, tranquillità emergono potenti come strategie che molti
pazienti si auto prescrivono per non precipitare e per mantenere
quell’apparente distacco dal mondo che consente loro, probabilmente, di
trovare un equilibrio fra i propri pensieri e la relazione con gli altri; la stessa
cosa pare chiedano a chi sta loro intorno: pazienza, silenzio, attesa,

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essenzialità, intimità per poter dare voce piena ai pensieri.

“Quando parlavo bene mi ascoltavano, adesso non mi ascoltano più. Manca la


pazienza di aspettare che mi vengano le parole.” (13).

“Uno dei concetti che ho è che la premura è diversa dalla sveltezza. La


premura è vuota, la sveltezza, una volta ce l’avevo, adesso non ce l’ho. Però si
valutano le cose anche nei rapporti con le persone. Nella società si corre.
Continuamente” (14).

“Ero sempre calmo, non mi agitavo. Io sono abituato ad essere calmo. Poi pian
piano ho ricominciato a scrivere abbastanza correttamente…Mia figlia, mia
moglie, anche loro mi hanno detto: “Fai con calma che se non puoi adesso,
vedrai che riuscirai più avanti!” E me lo dicono ancora.” (15).

“Ho una bella avventura all’ospedale con un’infermiera che mi ha detto subito:
“Stai calma, fai le cose con calma e se non puoi parlare mi dici con la testa”.
Con lei riuscivo a farmi capire meglio anche se in memoria avevo solo “NO”
(16).

5.5 L’INVISIBILITA’ DELL’AFASIA FINO AL MOMENTO IN CUI CI SI


RELAZIONA CON QUALCUNO
Dopo uno stroke possono permanere disabilità motorie anche importanti:
l’emiplegia residua, per esempio, può limitare fortemente l’autonomia della
persona e incide in modo evidente sull’immagine che appare all’esterno. Ma le
persone intervistate, molte delle quali con deficit motori residui, hanno
indicato l’afasia come problema principale. L’afasia è invisibile finché non ci si
relaziona con qualcuno: è qui che tutto diventa difficile, pesante, faticoso.

“Adesso sono arrivato ad un punto che almeno mi faccio capire ma non è tanto
bello, pesa di più del fatto fisico questo fatto espressivo” (17).
“La mano non ti preoccupa tanto. La mano, vabbè è successo. L’afasia,
comunicare, è una parte immensa del corpo” (18).

Il disagio che questa condizione porta, può facilmente esporre al rischio di


isolamento e frustrazione. Ognuno trova le proprie strategie per comunicare
senza essere sopraffatto dalla vergogna, dalla rabbia, dalla paura: c’è chi
prima di iniziare una comunicazione spiega qual è la sua malattia, c’è chi ha
bisogno dell’aiuto e del sostegno di una persona cara per esprimersi e c’è chi
preferisce stare tendenzialmente solo, rifugiandosi in un mondo che non
prevede l’interazione con altre persone, se non necessaria.

“Quando uno ti dice una cosa e non sa che tu non sai parlare... Lui viene e ti

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dice: “Signora ti prego mi date quella cosa?” Io cosa dico? Che in quel
momento non mi viene? Io dico: “Mmmm, mmm…” Questo è molto pesante. E’
pesante!...
Sei per strada, tu stai con tuo marito, una signora ti vede e lei non sa niente
di niente di te. Lei dice che tu sei normale e ti dice una cosa. E io:
Mmmm…mmmm… E’ pesante!” (19).

“Se parlo con le persone e sentono che io parlo lentamente, che non esprimo
bene le parole, le metto a loro agio, spiego che cosa ho avuto, che non è una
malattia contagiosa, che c’è nel cervello una piccola parte che non può
mettere bene le parole. Allora si va avanti. (20).

5.6 CERCARE E TROVARE IL SENSO DI UNA NUOVA VITA


Quando è stato chiesto ai partecipanti di descrivere come fosse cambiata la
loro vita con l’afasia dopo lo stroke, sono emerse esperienze cariche di
emozioni che hanno segnato, per tutti, il passaggio attraverso due fasi. La
prima fase riguarda l’inevitabile sconvolgimento dell’esistenza non solo per i
partecipanti stessi, ma anche per i loro cari. Questa fase è segnata dalla
sofferenza e dalla tristezza sia per il fatto di non riuscire più a svolgere le
consuete attività, dovendo dipendere dagli altri, sia dalla delusione e dal
dolore per l’allontanamento di persone che fino a poco prima erano
considerate vicine, ma anche dalla gioia di scoprire l’intensità di nuove
relazioni.

“E’ cambiato radicalmente anche il modo in cui ho visto le altre persone. Non
pensavo… Sono cambiati i miei amici e anche con la mia famiglia ho avuto
problemi nel senso che non hanno capito subito che cosa mi stava
succedendo” (21).

“E’ cambiato tutto perché adesso devo chiedere, tutti sono pronti, però per
me è un po’ dura” (22).

“Quelle di prima non erano vere amiche, erano finte amiche e queste qui sono
amiche!” (23).

La seconda fase fa riferimento alla ripresa con la scoperta di nuove attività ed


interessi mai presi in considerazione prima, l’impegno e la costanza per
recuperare le funzioni perse e l’intreccio di nuove amicizie, in modo
particolare con persone con le stesse problematiche. La vita riprende e pian
piano sembra farsi strada la consapevolezza che l’afasia è un’esperienza che
cambia la persona nell’intimo e che sarà una compagna di viaggio da cui
difficilmente ci si potrà separare completamente.

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“L’afasia è una cosa che ti prende e ti accompagna sempre, per tutta la vita
una volta che c’è. Non è una roba che si cancella, è una roba che dura nella
vita e purtroppo dobbiamo vivere anche con l’afasia” (24).

“Sicuramente gli afasici non riusciranno mai a riprendere bene, a fare un


buon linguaggio. E’ impossibile! Sì, ti dicono: “Riuscirai a fare il 100%” Mai!
Se sei bravo fai il 50 – 60 – 70%” (25).

“Adesso riuscire a meditare anche se sono fra la gente mi da’ un pregio che
una volta non avevo. Si perdono certe cose però se ne acquistano delle altre”
(26).

Vivere un’esperienza umana così dolorosa ed intensa sembra aver favorito un


processo introspettivo e spirituale profondo, quasi che la difficoltà ad
esprimere i propri pensieri acuisca la capacità di osservare, di cogliere
l’essenza vera delle cose, di dare priorità a ciò che si ritiene veramente
importante, autentico, vitale. Il silenzio, il bello, l’amicizia, l’amore, la
semplicità appaiono valori centrali e organizzatori della nuova vita di molte
persone intervistate.

“Diciamo, per fortuna o per sfortuna, non ho sentito il “non comunicare”. La


difficoltà per comunicare, questo sì. Ma, ad esempio, mi trovavo in stroke, io
sentivo la mia radio, ascoltavo musica. Io ero tranquillo. La preghiera, ma più
che altro il pensiero, mi tenevano compagnia. Faccio un esempio: noi abbiamo
un appartamentino in montagna e nel paese sono rimaste 40 persone. Siamo a
700 m… Il pregio del mio appartamentino è che lì si dorme e c’è silenzio, ma
un silenzio con la musica, nel senso che si sente la civetta, si sentono gli
uccelli; è venuta anche la volpe. In genere la sera, dopo le 9:00, c’è il silenzio”
(27).

“Io adesso so valutare le cose più semplici e sono le migliori. Per esempio
adesso, la società secondo me dice buongiorno per ricordare, deve avere, deve
dare. Invece, se io dico: “Buongiorno” lo dico perché ho piacere di dire
buongiorno. Oppure si mangia il caviale però non abbiamo la preparazione di
mangiare il pane, bere l’acqua…” (28).

“Io penso che se si perdono certe abilità si acquistano altre cose. Per esempio
quando sono andato a Belluno a vedere una mostra di Tiziano, ho scoperto che
anche i ciechi vedevano questi quadri, forse meglio di me con il Braille. Io ho
visto il cieco che guardava e ho pensato: “Con la sua immaginazione lo vede
forse meglio di me”. Per me l’afasia non è solo questo perché cambia anche il
sistema di vivere, è cambiato il mio ruolo che avevo nella società. Io non lo
auguro a nessuno. Il male ti fa valutare le cose” (29).

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5.7 LA PAROLA IMPRIGIONATA


Molte delle persone intervistate erano consapevoli del significato clinico del
termine, ma è stata richiesta non una spiegazione tecnica, quanto una
descrizione dell’afasia dal punto di vista soggettivo. Si riportano, senza
ulteriori commenti, alcune definizioni significative.

“E’ un cammino difficile, duro; è qualcosa che cambia da qualcosa di più


difficile a più facile. E’ un percorso graduale. E’ la difficoltà di esprimere il
pensiero” (30).

“Direi che è stata una cosa per me che non avrei neanche mai pensato che mi
venisse, è una cosa brutta non riuscire a comunicare. Per me è stata una cosa
brutta perché facevo fatica, anche adesso, qualche volta, faccio fatica, vorrei
dire le cose, magari non mi vengono e lascio a metà” (31).

“Per me è una condanna ma cerco di fare, in questo momento, di darmi da fare


e non lo so se questo mio impegno continuerà; adesso è così anche perché
questo mio lavoro mi sarà utile, ma dire che cos’è l’afasia io non lo so perché
non mi era mai capitato prima neppure di sentire parlare di uno che avesse
tali problemi, ma io che ci sono dentro dico da un lato che sono stato fortunato
e sfortunato, dipende dai punti di vista anche perché ho dei momenti in cui
sono depresso e quindi la bilancia pende dal punto di vista della sfortuna. Io
non so, forse fra qualche anno riuscirò a dire cos’è l’afasia, ma al momento
ancora no” (32).

“L’afasia è la parola imprigionata. Non saprei come definire, sembra


impossibile che non si riesca a parlare” (33).

CAPITOLO 6

DISCUSSIONE

6.1 LIMITI DELLO STUDIO


I vissuti emersi dalle interviste non possono essere generalizzati alle persone
afasiche in quanto tutti gli intervistati sono persone coinvolte e molto attive
nell’Associazione: si presuppone, pertanto, che siano molto motivate ad
esternare le proprie esperienze personali e che abbiano intrapreso un
percorso importante di adattamento. Può essere, infatti, che molte altre

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persone afasiche che non praticano una vita associativa intensa, abbiano
avuto un vissuto esperienziale diverso rispetto ai partecipanti intervistati.
Un altro limite può essere rappresentato dall’intervento “facilitatore” che
talvolta il ricercatore ha messo in atto durante le interviste: l’aiuto nel
terminare una frase che veniva espressa con molta difficoltà, anche se
contenuto al minimo e riservato alle situazioni in cui il paziente appariva
molto imbarazzato o teso, potrebbe aver influenzato alcune risposte.

6.2 DISCUSSIONE
Come testimoniato da Murray (2004), Townend et al (2007) e Berg et al
(2009), il rischio che i pazienti afasici hanno di incorrere in una deflessione
del tono dell’umore è maggiore nei primi mesi post-stroke: ciò emerge dalle
risposte della maggior parte degli intervistati. L’afasia rappresenta
inevitabilmente un cambiamento sconvolgente della vita di tutti coloro che
hanno subito questa drammatica condizione e non solo. Tale cambiamento
sembra avvenire gradualmente, con modalità diverse da persona a persona;
comune a tutti gli intervistati è una fase iniziale in cui la visione della propria
esistenza appare come “sospesa” tra l’incertezza e la realtà, dove emergono
sentimenti come angoscia, paura, tristezza e sofferenza. Per molti questa fase
è relativamente breve, per altri molto lunga, ma per tutti poi comincia a farsi
strada la consapevolezza che qualcosa in sé è cambiato, che non sarà più
possibile tornare come prima.
Frustrazione, rabbia, desiderio di morire sono solo alcune delle emozioni
provate da coloro che hanno vissuto in prima persona il dramma dell’afasia. Il
dover dipendere dagli altri, il non riuscire più a fare le attività precedenti o
farle in tempi molto lunghi rispetto a prima, perdere il lavoro per
l’impossibilità di potersi muovere e gestire come un tempo, non avere più la
propria autonomia, ma soprattutto non riuscire a comunicare con gli altri, non
poter esprimere il proprio pensiero anche in termini di dolore o sensazione
fisica, sono aspetti molto critici che possono avere risvolti negativi. La vita
cambia. Ciò che pesa di più, però, non è tanto la disabilità fisica ma, come
sottolineano i partecipanti alle interviste, quella relazionale e sociale,
analogamente a quanto documentato nello studio di Franzén-Dahlin et al
(2006). Emerge ancora tanta rabbia per il fatto di non essere più in grado di
sostenere i tempi e i ritmi di una comunicazione “normale” e questo incide
notevolmente sull’immagine di sè che appare agli altri, soprattutto nel
momento del confronto, della relazione. Ed è proprio questa “nuova”
immagine che sembra avvolgere le persone afasiche, che rischia di provocare
un allontanamento da parte di chi non sembra in grado di accettare la nuova
condizione.
In questa situazione, molti partecipanti hanno riferito di essersi ritrovati da
soli ad affrontare le difficoltà e per molti, l’impossibilità di farsi capire ha
determinato prima una rinuncia nel continuare ad esprimersi e poi

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un’ulteriore chiusura. Le persone afasiche rischiano di perdere il proprio


ruolo sociale e familiare e subiscono una sorta di “furto” della propria identità
diventando, talvolta (o comunque percependo di esserlo), un peso. Da questo
deriva una sensazione di paura: paura di non essere accettati, di essere ormai
fuori da un mondo che sembra non appartenere più loro, di dover cambiare in
profondità per adattarsi alla nuova condizione, ma soprattutto la paura che la
malattia si ripresenti ancora una volta e che provochi danni ancora più
pesanti. La persona afasica, improvvisamente, si sente straniera in un mondo
che fino a poco prima le era familiare.
Proprio da questa consapevolezza, frutto di un processo difficile e doloroso di
rielaborazione, di messa in discussione del senso della propria esistenza, si
fanno strada la forza e il coraggio necessari per “ricostruirsi” una nuova vita.
Ma tutto questo richiede uno sforzo enorme, che traspare nelle testimonianze
di tutti gli intervistati: la fatica è grande, ciò che prima appariva scontato non
lo è più, tutto diventa necessariamente più “rallentato”, con un ritmo che
appare dilatato nel tempo e che richiede concentrazione, intenzionalità. La
persona afasica sembra ricercare e trovare dentro di sé, prima che negli altri,
un suo nuovo modo di stare al mondo e di affermare la propria identità: forza,
volontà ed energia emergono con vigore dai racconti di questi percorsi così
difficili, intimi, unici; questo pare un viaggio che si compie da soli, anche se la
parola “solitudine” non è mai citata esplicitamente: sembra quasi che le
persone afasiche in mezzo a tanta confusione, concitazione, affaccendamento
vadano a ricercare il silenzio, una dimensione di spazio e tempo in cui sia
possibile imparare (o re – imparare) ad ascoltare e ascoltarsi, prima di
esprimersi. La difficoltà oggettiva a farsi comprendere appare, ad un certo
momento del percorso, quasi accettata dalla persona afasica: le strategie
individuali, la terapia riabilitativa, il supporto dei familiari contribuiscono, in
buona parte delle situazioni, ad un adattamento abbastanza soddisfacente. Ciò
che induce ancora sofferenza è il deterioramento dello stato sociale, del
proprio ruolo nel mondo ed è questo che incide sulla qualità della vita, come
sottolineato da Kulik et al (2003). A questo proposito molte testimonianze
evidenziano l’esigenza forte di riacquistare saldamente la propria posizione
all’interno del contesto familiare, sociale, lavorativo, con una risolutezza e
determinazione sorprendenti: riprendere il proprio ruolo di madre, di
“padrona di casa”, di lavoratore, di amico, pare diventare il vero obiettivo da
raggiungere, pur con la consapevolezza delle limitazioni imposte dalla
situazione.
C’è bisogno di calma, tanta calma e tanta forza per affrontare il mondo, i
pregiudizi, la commiserazione, le difficoltà della quotidianità. Col tempo i
pazienti hanno trovato una propria modalità di gestire la rabbia, di
selezionare cosa e quanto dire perché questa è una fatica immensa e le
energie vanno dosate e incanalate sulle cose davvero rilevanti. Questa sorta di
scelta “obbligata” per i pazienti, non sembra del tutto compresa da chi sta

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loro accanto: le esigenze, gli impegni, le convenzioni sociali, impongono un


ritmo così lontano dalla dimensione che descrivono i pazienti e anche gli
infermieri, che li hanno assistiti nella fase immediatamente successiva
all’evento acuto e durante la riabilitazione, non sempre si dimostrano in grado
di comprendere questo loro bisogno. A questo proposito, i vissuti dei
partecipanti allo studio, sono stati diversi e talvolta contrastanti: alcuni hanno
dichiarato di aver avuto un’esperienza positiva legata ad un’assistenza
professionale, con infermieri capaci di mettersi in relazione con loro, di far
sentire la loro presenza e di comunicare messaggi di supporto e
comprensione. Altri, invece, hanno affermato che la comunicazione con gli
infermieri era finalizzata solo alle pratiche assistenziali e alla somministrazione
dei farmaci, così come evidenziato da Gordon (2009). L’assistenza
infermieristica, inoltre, sembra focalizzare l’attenzione soprattutto sulle
problematiche fisiche e sulla prevenzione delle complicanze del paziente,
mentre gli aspetti della comunicazione non sembrano altrettanto considerati;
in compenso si agisce in fretta, si fanno tante domande, si offrono
rassicurazioni, qualche volta banali, si priva il paziente del tempo di
rispondere. I nostri pazienti, invece, ci chiedono calma, tranquillità, pazienza:
proprio quelle caratteristiche della “comunicazione attraverso la sensazione”
descritta da Sundin et al (2000) che è fatta di “vicinanza creativa in
combinazione con una distanza protettiva”.
Ed è proprio questa sorta di incomprensione che può portare gli operatori
sanitari ad interpretare in modo sbagliato la situazione del paziente afasico.
Se una persona afasica non parla o si dimostra restia a farlo, non è detto che
ciò sia necessariamente causato dalla depressione, dalla demotivazione o da
ostilità o, come già detto da un deficit cognitivo: potrebbe, molto più
semplicemente, essere espressione di quella sorta di estraniazione
autodifensiva che i nostri pazienti ci hanno descritto e va compresa, accolta
per quello che è, e dovrebbe stimolare negli infermieri rispetto ed attenzione,
vicinanza silenziosa e alleanza terapeutica, più che azioni e parole.
Significativa da questo punto di vista, la riflessione sull’affidabilità, per i
pazienti afasici, di strumenti diagnostici e di accertamento di comune impiego
nella popolazione generale, come riferito negli studi di Laska et al (2007) e di
Berg et al (2009): il paziente afasico richiede l’attivazione di capacità
comunicative diverse e creative, non di essere sottoposto a stereotipi o
conclusioni affrettate.
D’altra parte, va tenuto presente il rischio di attribuire all’afasia difficoltà
relazionali, familiari, emotive, magari già presenti prima dell’evento
patologico, quasi a ricercare nella condizione di malattia una sorta di
“spiegazione” a tutte le difficoltà esistenziali; anche questa interpretazione, se
comprensibile nel senso dell’indennizzo che il paziente potrebbe
inconsciamente richiedere per sé dalla malattia, potrebbe rappresentare un
ulteriore, possibile, mis-understanding per gli operatori e i familiari: gli

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aspetti di personalità, il contesto familiare e sociale, la situazione patologica,


vanno intrecciati fra loro in una lettura complessa, per identificare strategie
di supporto e riabilitative, efficaci e personalizzate.
Dalle narrazioni dei pazienti emerge un’attenzione tutta nuova verso attività,
interessi, aspetti della vita che spesso si nominano come buone intenzioni di
cura di sé, ma che i ritmi sociali ostacolano nella loro realizzazione: rispettare
i propri tempi, dedicarsi agli altri. Per alcuni pare espandersi una nuova,
sorprendente e per certi versi, inaspettata dimensione, che potremmo definire
spirituale: forse è questo il punto di arrivo di un percorso e che dà un senso a
tutta questa sofferenza. E’ interessante vedere come la condizione di “malato”
(o piuttosto di ex-malato che ha trovato un adattamento all’afasia e che
considera, ormai, una “compagna di viaggio” che lo unisce, piuttosto che
separare ad altre persone) modifichi, in qualche modo, l’approccio nei
confronti della vita e delle altre persone. I modelli funzionali di Marjory
Gordon, a cui molti infermieri si ispirano per accertare i bisogni e pianificare
l’assistenza dei propri assistiti, comprendono questa dimensione che
difficilmente, però, viene esplorata ed approfondita. La comprensione anche di
questi aspetti, oltre a quelli che più “tradizionalmente” siamo abituati a
gestire, potrebbe fornire strumenti di accertamento, ma soprattutto di
intervento davvero mirato ed efficace. Comunque, sono davvero molti gli
stimoli e le suggestioni che nascono dalle testimonianze dei nostri pazienti e
che possono essere utili nella pratica clinica: capire ed essere capiti, è un
aspetto importante della qualità dell’assistenza (Sundin & Jansson, 2003).
Questo concetto appare nitido e forte anche nelle testimonianze delle persone
intervistate. Quanto disagio, quanta sofferenza e quanta rabbia nell’essere
consapevole di capire gli altri, ma nello stesso tempo di non essere capiti
perché non ritenuti in grado di sostenere una comunicazione “alla pari” ed
essere, pertanto, etichettati come incapaci di comprendere e per questo,
sottovalutati o esclusi anche da coloro che, si presume, abbiano una certa
conoscenza e competenza in materia.
Il recupero per un paziente afasico prevede un percorso lungo e tutt’altro che
facile, ma il messaggio che gli intervistati ci trasmettono, è che una buona
assistenza infermieristica, infatti, dovrebbe garantire il comfort del paziente
non solo in termini “fisici”, ma anche relazionali. Ascoltare la voce dei pazienti
per quanto questa possa essere imprigionata dalla malattia, far sentire loro
che si è vicini anche nelle piccole cose, non far pesare la loro condizione, ma
rassicurarli anche solo con semplici gesti, far sentire che le loro paure, le loro
preoccupazioni sono per noi importanti, rappresentano il modo per assicurare
un’assistenza infermieristica che vede il paziente nella sua complessità ed
unicità.
I pazienti intervistati, così come Liechty (2006) e Bolte Taylor (2009), con un
linguaggio semplice e privo di metafore, ma proprio con l’essenzialità che
abbiamo imparato ad apprezzare, ci indicano poche regole per comunicare

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efficacemente con i pazienti afasici: essere spontanei, rispettare i tempi, non


giudicare, rapportarsi come ci si rapporterebbe con qualsiasi persona adulta
(evitando, quindi, banalizzazioni, vezzeggiativi, diminutivi inappropriati). E
ancora, empatia, ascolto attivo, setting adeguato, alleanza terapeutica
(Demeurisse, 1999: Sundin et al, 2007) che sono concetti espressi nelle
parole, quasi “fuori moda” e disarmanti nella loro semplicità, che hanno messo
in luce i nostri intervistati: calma, pazienza, tranquillità, silenzio, stare
vicino…
La comunicazione con un paziente afasico può essere densa di difficoltà, sia
per il paziente che per gli infermieri (Fursland, 2005) e questa affermazione è
stata confermata anche dall’esperienza della laureanda. Nonostante le
conoscenze acquisite sull’afasia avessero permesso di far presumere la
presenza di alcune difficoltà in fase preliminare, la situazione si è rivelata, nel
corso delle interviste, anche più critica da gestire. Durante la conduzione
delle interviste, infatti, il linguaggio usato da alcuni pazienti, è apparso
piuttosto “povero” e, a volte, ripetitivo dal punto di vista lessicale, ma molto
ricco di significati. La narrazione e l’ascolto di alcune esperienze vissute,
inoltre, sono stati segnati spesso da una situazione che ha visto da una parte
la fatica e talvolta la stanchezza dei partecipanti stessi nel cercare di centrare
e di esprimere i concetti al meglio e dall’altra un senso di “angoscia” avvertito
dalla sottoscritta nell’”attesa” della parola “imprigionata”, insieme
all’incertezza data dal dubbio se e quando intervenire per aiutare a “liberare
le parole”.
Come emerge dallo studio di Gordon et al (2009), è probabile che gli
infermieri non abbiano la preparazione specifica per trattare le difficoltà di
linguaggio: ciò, d’altra parte, richiede una competenza particolareggiata. Ma
gli infermieri possono notevolmente contribuire alla creazione di
quell’ambiente terapeutico che influenza così positivamente la relazione e la
possibilità di miglioramento del paziente: questa rappresenta una vera e
propria responsabilità dell’infermiere e dell’équipe.

CAPITOLO 7
CONCLUSIONE
L’afasia è una disabilità che incide notevolmente sulla qualità della vita di
tutte le persone colpite e non solo. Dopo l’evento stroke il paziente afasico si
trova improvvisamente a vivere una condizione drammatica che comporta non
soltanto una disabilità fisica, ma anche e soprattutto comunicativa e
relazionale. Senso di impotenza, frustrazione, rabbia, depressione, paura, sono
solo alcuni dei sentimenti provati da queste persone nella consapevolezza di

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aver perso, anche se parzialmente, alcune funzionalità e non solo in termini


fisici: la loro stessa identità e il proprio ruolo nella società risentono
pesantemente della difficoltà a relazionarsi con gli altri.
La ripresa è tutt’altro che facile: dolore e tanta sofferenza caratterizzano,
inevitabilmente, questi momenti. Ogni paziente afasico, infatti, deve
necessariamente attraversare un percorso individuale, per riuscire ad
accettare la persona “nuova” che è diventata e ritrovare un senso alla sua
esistenza. Le caratteristiche personali, la presenza delle persone significative,
il contesto in cui vive, sono aspetti fondamentali perché la persona afasica
ritrovi quella carica, quella forza e quell’energia necessarie per ripartire e
superare, in primo luogo, i pregiudizi, le critiche e la commiserazione delle
persone estranee (ma non solo) a questa condizione.
Dalla letteratura e dalle testimonianze dei partecipanti alla ricerca, emergono
descrizioni di un’assistenza talvolta inadeguata o parziale, focalizzata
prevalentemente su alcuni aspetti, quasi come se le diverse prestazioni fossero
rigidamente confinate nell’ambito delle singole competenze di ciascun
operatore.
L’afasia rappresenta una situazione di forte impatto emotivo non solo per il
paziente, ma anche per i suoi familiari e in questo scenario il personale
infermieristico ricopre un ruolo molto importante. L’infermiere è la figura
professionale che segue il paziente durante tutto il suo percorso, dalla fase
acuta a quella riabilitativa. E forse proprio per questa presenza costante
accanto al paziente, si trova in una situazione privilegiata, anche se non facile,
per creare quella che Sundin et al (2000) descrivono come “vicinanza creativa
in combinazione con una distanza protettiva” e “comunicazione attraverso la
sensazione”, che poi rappresenta la viva esigenza espressa dai pazienti
intervistati: ci chiedono calma, tranquillità, pazienza, rispetto dei tempi e dei
silenzi, di non essere giudicati, ma aiutati a sentirsi meno “prigionieri” della
loro compagna di viaggio, l’afasia.
Conoscere il vissuto delle persone afasiche, entrare nel vivo della loro
esperienza, può essere un contributo importante per supportare gli infermieri
nella comprensione dei bisogni dei pazienti e favorire l’espressione di una
dimensione di caring, in cui la persona e il suo contesto, e non solo la malattia
o disabilità, siano veramente al centro dell’interesse dell’infermiere e
dell’équipe professionale.

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